Emanuele Severino. Oltre il nichilismo 9788837225087


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Emanuele Severino. Oltre il nichilismo
 9788837225087

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FILOSOFIA

NICOLETTA CUSANO

Emanuele Severino Oltre il nichilismo

La filosofia di Emanuele Severino è destinata a interpellare filosofi, teologi e scienziati non perché schiera atei o credenti, ma perché ha per oggetto ciò che sta a fondamento della stessa cultura occidentale. Ripercorrendone le opere fondamentali — da Za struttura originaria a Oltrepassare—Nicoletta Cusano compieunasintesi e insieme un'indagine teoretica su quell’oggetto obliato dalla tradizione e sul linguaggio che ne parla: l'oggetto è «la necessità dell’essere nel suo opporsi al non essere», il linguaggio «testimonia» questa verità. L'oblio è il nichilismo, la «grande follia

dell'Occidente»,

consistente

nel

credere

che le cose oscillino tra essere e nulla; da questa fede dipendono molte altre credenze infondate. Severino dimostra la non evidenza del divenire

sulla base del destino dell'essere, del suo stare

necessariamente in opposizione al non essere: è impossibile stabilire il momento in cw una cosa smetta di essere o incominci ad essere, pena il cadere nella contraddizione di far coincidere l’uno con l'altro. Il nichilismo è la precomprensione che abbiamo del mondo, perciò lo stesso Severino nell'assumere il linguaggio che testimonia la verità prende le distanze dal pensiero occidentale e al contempo indugia in quel linguaggio che intende oltrepassare. La sua posizione teoretica non è inficiata, ma su questo residuo nichilistico — visibile nelle prime opere — si innesta un'altra riflessione: è possibile emendare del tutto l’errore? Per Severino noi siamo errore, e proprio in quanto errore siamo testimoni dell’eterno che è in noi.

Nicoletta Cusano docente di ruolo di filosofia presso i licei, svolge attualmente attività di ricerca presso

l'università di Wuppertal e collabora con la cattedra

di Ontologia fondamentale dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

NICOLETTA CUSANO

Emanuele Severino Oltre il nichilismo

MORCELLIANA

© 2011 Editrice Morcelliana Via Gabriele Rosa 71 - 25121 Brescia

Prima edizione: maggio 2011

www.morcelliana.com

ISBN 978-88-372-2508-7 Tipografia La Grafica s.n.c. - Vago di Lavagno (Vr)

PREFAZIONE

Per vivere è necessario credere (nel senso più ampio). Vivere è

credere — credere di esistere e di agire, innanzitutto. E credere è stare

al di fuori della verità non smentibile. Credere è errare. Ma se l’uomo fosse soltanto un vivere, cioè un credere, sarebbe soltanto un credere anche l'affermazione che vivere è credere — affermazione condivisa peraltro da gran parte della cultura non solo filosofica del nostro tempo. E invece questa affermazione non è un credere, ma è una verità non smentibile. Ciò significa che l’uomo

non è soltanto vita, cioè

fede, ma è, originariamente, l'apparire della verità non smentibile. All’interno della verità appare la vita, cioè la fede. La verità a cui si è rivolta l’intera storia dell'Occidente non è riuscita ad essere la verità non smentibile — la verità che d’altra parte s'illumina nel fondo più nascosto di ogni uomo. A volte il linguaggio la indica; la chiama “destino della verità”. Ma che questo linguaggio sia l’agire di qualcuno, che qualcuno ne sia l’autore, questo è daccapo uno dei contenuti in

cui la vita potrebbe giungere a credere (come crede che l’uomo esista

ed agisca nel mondo e che del mondo).

sia l’“autore” dei linguaggi che parlano

Tutto questo è ben presente a Nicoletta Cusano, che in Oltre il nichilismo presenta lucidamente l’intero percorso compiuto dai cosiddetti “miei”’ scritti, ossia dal linguaggio in cui essi consistono. Il nichilismo — inteso nel senso da essi indicato — è la forma più potente della vita, cioè della fede, cioè dell’errare. Lascia le sue tracce anche

in quegli scritti, che sono andati via via liberandosene. La Cusano ha affrontato un compito estremamente complesso. Lo ha portato a termine con grande intelligenza speculativa. La complessità del compito è determinata anche dalla tematica del linguaggio, qui sopra indicata. Anche l’esistenza del linguaggio che conduce “oltre il nichilismo” è infatti una fede; sì che stare “oltre il nichilismo” — lo stare che è il de-

stino della verità — è insieme mostrare in che senso la non verità della

fede possa condurre al destino della verità, che peraltro, in quanto tale,

non è il punto di arrivo, ma è il punto di partenza di ogni percorso.

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Prefazione La complessità del compito affrontato dalla Cusano, si sta dicendo,

è accresciuta anche dal modo in cui è andato dispiegandosi il percorso che conduce

“oltre il nichilismo”.

In un certo senso, i “miei”

scritti

(in quanto segue non metterò più tra virgolette l’aggettivo possessivo) hanno sempre guardato nella stessa direzione; ma il loro percorso non è stato un salto oltre il nichilismo. Il percorso è incominciato molto presto (nei primi anni ’50), ma l’oltrepassamento del nichilismo è stato progressivo. E il libro della Cusano lo analizza con acutezza analitica ed energia ermeneutica, procedendo dall’esplorazione dei temi di fondo de La struttura originaria (1958) fino all’esplorazione di quelli di Oltrepassare (2007): i temi della messa in questione della storia

dell'Occidente; della struttura originaria — che è, appunto, struttura ori-

ginaria del destino della verità —; del linguaggio (soprattutto in relazio-

ne alla problematica a cui si è prima accennato); e, ancora, i temi della

struttura dell’apparire, la quale appartiene all'essenza della struttura

originaria; del senso autentico della salvezza; delle tracce del destino

nella dimensione di ciò che sopra abbiamo chiamato “vita” — ossia il tema delle tracce della verità nella non verità di ciò che nei miei scntti viene solitamente chiamato “la terra isolata” dalla verità del destino. Per restare agli studi più recenti sul mio discorso filosofico, l’intento della Cusano è speculare ed opposto agli ultimi studi di Leonardo

Messinese (L’'apparire del mondo. Dialogo con Emanuele Severino, Milano, 2008; /! paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele

Severino,

Pisa, 2010). A Messinese

interessa infatti valo-

rizzare La struttura originaria — e in generale la prima fase del mio discorso filosofico — perché secondo questo mio critico essa sarebbe compatibile con un pensiero filosofico che non implica la negazione della fede cristiana; alla Cusano interessa invece sottolineare quanto

del nichilismo permane in quella forma di oltrepassamento del nichilismo, nella quale La struttura originaria consiste, per valorizzare gli scritti che fino a Oltrepassare si liberano da quella permanenza: ma le interessa anche sottolineare la differenza essenziale tra il modo in cui il nichilismo permane ne La struttura originaria (e in Studi di filosofia

della prassi, 1962 e nello stesso Ritornare a Parmenide, 1964) e tutte

le forme di nichilismo che invece non compiono il primo passo compiuto da La struttura originaria — che è il passo decisivo, perché spinge inevitabilmente verso tutti gli altn. L'esposizione della Cusano è di alto profilo, quindi impegnativa; ma è anche la prima indagine analitica sull'intero percorso dei miei

Prefazione

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scritti; un impegno rilevante per l'autrice, ma, insieme, un consistente aiuto per il lettore. Anche perché ciò che sto chiamando “esposizione”

si impegna poi a sciogliere il discorso e a discutere e a risolvere alcune obiezioni da esso inevitabilmente suscitate. E come l’esposizione è

attenta a distinguere il nichilismo residuale (ma sempre più ristretto) dei miei scritti che precedono Destino della necessità (1980), dal nichilismo totalmente chiuso in se stesso (e tuttavia dominante la storia dell'Occidente e ormai del Pianeta), così è attenta (è il tema dell’ulti-

mo capitolo) a rimarcare un'altra essenziale differenza: quella tra certe cadenze del linguaggio che testimonia il destino e certe forme del

linguaggio della non verità che sembrano risuonare simili o addirittura identiche a quelle cadenze.

Relativamente a questa seconda differenza, sono completamente

d’accordo con i chiarimenti che la Cusano sviluppa nel primo paragrafo

dell’ultimo capitolo, dove, intendendo “integrare Severino con Severino”, niprende e sviluppa il tema della «traccia», ossia della necessità che — essendo ogni essente in relazione a ogni altro essente, e in una relazione che è eterna e necessaria —, ogni essente sia, per tale relazione,

in qualche modo presente in ogni altro, dove questa presenza è appunto

la «traccia» che tale essente lascia da sempre, eternamente, in ogni altro.

E pertanto necessario che anche (e, in qualche modo, innanzitutto) il de-

stino lasci ovunque la propria traccia — giacché ogni essente è, in quan-

to è secondo il destino, cioè secondo la presenza, in esso, del destino.

Dunque è necessario che il destino lasci la propria traccia anche nella terra isolata da esso. Ma, nella terra isolata, questa traccia è indecifrabi-

le, indiretta. Ossia è impossibile che attraverso essa il destino giunga a manifestarsi, perché è impossibile che all’interno della non verità della terra isolata giunga a manifestarsi la verità del destino. Ebbene, se, come si diceva qui sopra, certe forme del linguaggio della non verità della terra isolata sembrano risuonare simili o addirittura identiche a certe cadenze del linguaggio che testimonia il destino (nell’ultimo capitolo la Cusano ne prende in considerazione un gruppo significativo), ciò non può significare che a volte la verità del destino riesca ad affacciarsi e a manifestarsi come tale, direttamente, nella non

verità della terra isolata. Questo manifestarsi è impossibile: non è un problema che la verità appaia nella non verità. Rimane un problema (come si accenna in un passo di Oltrepassare considerato dalla Cusano nel summenzionato paragrafo) solo il rilevamento di ciò che determina l'apparenza di quella somiglianza o identità.

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Prefazione

Le ultime pagine del libro della Cusano sono di particolare interesse e costituiscono il nucleo dello sviluppo che l'autrice intende dare alla propria ricerca. Riguardano il rapporto tra il modo in cui Heidegger intende il problema del «Niente» (soprattutto in alcune pagine de

Il nichilismo europeo,

1940, intitolate Nichilismo,

nihil e Niente), e il

modo in cui questo problema è affrontato nel capitolo IV de La struttura originaria. L'intento di Heidegger è di mostrare che il Niente non è un ente, ma non è “nemmeno mai ciò che è soltanto nullo”: il “soltanto nullo” relativamente al quale il pensiero metafisico dà per scontati sia il suo esser contrapposto all'ente, sia l’assenza dì ogni altra forma di contrapposizione alla totalità dell'ente. In apparenza Heidegger vuol portarsi in una dimensione più profonda di quella in cui si dà per scontata la contrapposizione tra “ciò che è soltanto nullo” — il nihil —, e

l’ente; ma dicendo che il «Niente» (che poi è per lui l’«Essere» stesso) non è “nemmeno mai ciò che è soltanto nullo” attribuisce una funzione decisiva al “soltanto nullo”: la funzione di determinare, insieme all’ente, la dimensione del «Niente». In tal modo, tutte le connotazioni del “soltanto nullo” da cui Heidegger in quelle pagine intende prendere le distanze, e tutte le aporie che il “soltanto nullo” solleva, ma che Heidegger qualifica come con-

seguenze dell’incapacità di sollevarsi al senso autentico del «Niente»,

ritornano in circolazione, e vi ritornano nel loro non esser state chiarite

e risolte. Innanzitutto l’aporia, già pensata da Platone (ma Heidegger non lo rileva), per la quale ogni considerazione intorno al nulla fa del nulla un “qualcosa”, ossia un ente — l’aporia che tuttavia Heidegger include tra le riflessioni “apparentemente acute”. È probabile, stando all'andamento del testo, che per Heidegger sia solo “apparentemente acuta” anche l’osservazione, da lui richiamata

e sulla quale si sofferma l’analisi della Cusano, che «se il Niente è niente, se il Niente non c’è, allora non può nemmeno darsi che l’ente

sprofondi mai nel Niente e che tutto si dissolva nel Niente, allora non ci può essere nemmeno il processo del diventare-niente». Ma anche questa osservazione, che Heidegger sembra trattare con sufficienza € lasciare infine da parte, ritorna in circolazione nello stesso discorso di Heidegger, quando egli afferma, come si è rilevato, che il Niente, inteso come il “soltanto nullo” è essenziale per poter affermare che il

Niente, autenticamente inteso (ossia il Niente che è l’«Essere» stesso)

non è il nihil “soltanto nullo”, come d’altronde Heidegger ha sempre affermato nei suoi scritti.

Prefazione

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Desidero infine segnalare l’importanza delle chiarificazioni della

Cusano in relazione alla necessità che, se le tracce della verità del de-

stino nella non verità della terra isolata sono indirette e quindi indecifrabili, vi sia tuttavia qualcosa di identico nel significare degli essenti della terra isolata e nel significare della verità — che, appunto, è negazione della non verità della terra isolata.

Una chiarificazione, questa, che si trova nel contesto di molte altre,

dove l’intransigenza dell’autrice rispetto alla possibilità di equivocare il senso del destino fa di questo libro un aiuto consistente al linguaggio che tenta di indicare non un argomento tra gli altri, non un tema culturale sia pure di grande interesse, ma il tema che sovrasta tutti gli altri.

Emanuele Severino

Nicoletta Cusano

Emanuele Severino Oltre il nichilismo

AVVERTENZA

Oltre il nichilismo: a essere «oltre il nichilismo» non è non può

essere un individuo, un «io empirico», una volontà; a essere «oltre il nichilismo» è lo stare eterno e innegabile dell'essere, ciò che la filo-

sofia di Severino chiama de-stino. Questo è il contenuto centrale della

filosofia di Severino e perciò di questo scritto. Questo suo stare “sotto il titolo” non è una semplice interruzione grafica ma una cesura logica: è il segno del limite invalicabile tra la persona e l’oltrepassamento del nichilismo. L'indicazione che non è e non può essere un individuo a portarsi oltre il nichilismo.

INTRODUZIONE

Questo libro nasce come introduzione alla filosofia di Emanuele Se-

verino, ma dà luogo a qualcosa di più. L'obiettivo iniziale, infatti, era

quello di realizzare una sintesi del pensiero di Severino che procedesse dalle tematiche più semplici e preliminari a quelle più complesse, utilizzando come testi di riferimento gli scritti severiniani di maggior rilievo teoretico. Lo sviluppo del lavoro, però, pur conservando tale obiettivo, ha fatto emergere la necessità di soffermarsi più analiticamente su alcuni aspetti centrali, per portare alla luce implicazioni teoretiche indispensabili per comprendere fino in fondo il pensiero di Severino, Ciò ha dato luogo a un approfondimento che, pur essendo parte

essenziale di questo libro, ha condotto oltre l’intento iniziale.

Il pensiero di Severino si afferma come il «linguaggio che testimonia il destino della verità». La parola de-stino non deve essere intesa nel suo significato usuale di corso inevitabile di eventi, bensì in quello etimologico di stare innegabile dell’essere: il de-, in questo caso, non ha valen-

za negativa ma affermativa e potenziante (Severino richiama il caso del verbo latino de-amo), e -stino deriva (come epi-stéme) dal verbo greco

fotaodar (iotnu) che significa appunto stare. Il de-stino severiniano è lo stare dell’essere che sta e non cede (ne-cedo), da cui l’espressione

destino della necessità, che non casualmente

è anche

il titolo di uno

degli scritti più importanti di Severino. Lo stare necessario del destino è lo stare innegabile ed eterno dell’essere, ossia l'impossibilità che l’essere non sia, Il fondamento di tale impossibilità risiede nell’immediata autonegatività della sua negazione, la quale, implicando Ia verità di ciò che esplicitamente tenta di negare, nega se stessa nell’atto in cui tenta di affermarsi. La negazione dell'essere non riesce a costituirsi come negazione, ovvero l’essere è eterno. Il destino, scrive Severino, «che è destino della totalità dell’essente, cioè della totalità dei significati — è l’apparire della compagine che sta e non si lascia smentire da alcun sapere

umano o divino e che include originariamente il proprio apparire. È il destino già da sempre manifesto della verità — ossia della verità in quanto appare non

nelle forme che il mortale e l'Occidente le hanno attribuito, ma nella forma

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Introduzione

che le si addice secondo il senso autentico della necessità, e alla quale forma è quindi già da sempre e per sempre destinata»'.

Severino rileva che se si comprende davvero l’innegabilità dell’eternità dell’essere non si può più tornare indietro: se il pensiero della verità dell'essere «giunge a fiorire, è destinato, lui solo, ad avere diritto alla fioritura. Spinge infatti lungo una via dalla quale non è più possibile tornare indietro»?. A ostacolare l’arrivo a quella via vi è però la convinzione che la temporalità dell’essere sia un'evidenza originaria. Severino mostra che la presunta verità originaria del tempo è in realtà un atto di fede, su cui si radica essenzialmente la civiltà occidentale;

per questo egli invita a guardare le cose con il rigore dello sguardo filosofico autentico e a domandarsi se l'apparire contenga davvero il divenire dell’essere: accade davvero il passaggio dall’essere al non essere e viceversa? Se sì, lo si indichi: in che punto, in che momento si assiste al

diventare niente di qualcosa che è? In che punto si assiste al cominciare a essere da parte di ciò che non è e allo smettere di essere di ciò che è? La risposta è sconcertante: in nessun punto, in nessun momento. Questo passare dall'essere al nulla e viceversa non appare, giacché si tratta del frutto di una interpretazione non riconosciuta come tale. Dannosa dunque non solo perché interpretazione (e, seguendo Severino, si sa che «l’interpretazione è la volontà che il problema non sussista»*), ma soprattutto perché non saputa come tale: si interpreta e si è convinti di non interpretare, di stare cioè nell'immediato.

All’affermazione dell’innegabilità dell’eternità dell’essere Severino affianca il rilevamento delle conseguenze che derivano dalla sua negazione. Chi crede che il divenire dell’essere sia una verità originaria e innegabile implica (al di là delle proprie intenzioni) qualcosa che non è disposto ad accettare: che il diventare niente di un certo essente equivalga all’esser niente del niente. Credendo che le cose divengano, si crede infatti che l'ente prima e dopo l’esistenza sia niente; ma in questo modo si implica che l’ente che è diventato niente non sia distinguibile da ciò che mai è stato e mai potrà essere, e che perciò non ci sia differenza tra l’essere diventato niente di ciò che è stato e il non essere del puro nulla. Ebbene Severino rileva come questa indifferenza, che tratta ciò che è stato come se non fosse mai stato (ed è perciò inaccettabile ' E. Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 2001, p. 22. 2 E. Severino, Essenza del nichilismo, Poscritto, Adelphi, Milano 1982, p. 63. } E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 87.

Introduzione

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anche per chi crede nel divenire), sia proprio la prima conseguenza della fede nel divenire. Alla luce del significato di innegabilità come immediata (o originaria) autonegatività del proprio negativo si comprende perché Severino affermi che l’innegabilità del destino non è il prodotto intellettuale di qualcuno, ma ciò che originariamente è e sta. E si comprende anche perché il pensiero di Severino non dia affatto luogo, come qualcuno potrebbe erroneamente credere, a un sistema filosofico che ritenga di essersi impossessato della verità, come se questa fosse qualcosa di cui

ci si può appropriare. Tutt'altro. In maniera simile (ma solo simile) a

quelia in cui Eraclito ammoniva di non ascoltare le sue parole perché sue, ma di ascoltarle in quanto in esse parlava il /ògos, la filosofia severiniana afferma che il destino della verità è ciò che “già da sempre si apre” e di cui l’uomo, nella sua essenza, è l'eterno apparire. Per comprendere questa posizione filosofica in tutto il suo spessore teoretico e nella sua complessa articolazione, se ne sono individuate le tematiche di maggior rilievo e le si è esposte secondo un ordine

concettualmente progressivo, seguendo la concatenazione logica che

le unisce essenzialmente e che rende unitaria e rigorosamente strut-

turata la filosofia di Severino. Si è fatto costante riferimento alle sue opere più rilevanti sotto il profilo teoretico, da La struttura originaria

(1958) a Oltrepassare (2007), evidenziandone i singoli contributi e la

continuità speculativa. Infine, nel capitolo conclusivo, si è dato compi-

mento all’intera riflessione, conducendo una breve analisi comparativa

tra alcune espressioni del linguaggio che testimonia il destino e alcuni grandi momenti della filosofia occidentale che possono sembrare simili a esse, per mostrare la formalità di ogni identità e, con essa, la distanza irriducibile che li separa e che costituisce la cifra distintiva del pensiero severiniano. Il titolo Oltre il nichilismo esprime proprio questa distanza irriducibile: in quanto linguaggio che testimonia il destino (ossia lo stare innegabile) della verità dell’essere, il pensiero di Severino si è allontanato in maniera essenziale e irriducibile dalla tradizione filosofica occidentale. Quest'ultima, invece, concependo l’essere come ciò che può anche non essere, è stata ed è essenzialmente nichilista. Portarsi

oltre il nichilismo significa pensare l’innegabilità dell'eternità dell’essere, così come pensare l’innegabilità dell'eternità dell’essere significa

portarsi oltre il nichilismo.

Ma se è vero quanto sosteneva Heidegger che «wer grofì denkt, muft groft irren» («chi pensa grandemente, deve sbagliare grandemente»),

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Introduzione

allora l’oltrepassamento severiniano di una tradizione plurimillenaria (che è certamente un “pensare in grande”) non poteva accadere senza un grande errore. E infatti l'errore accade. Accade nei primi scritti ed è un grande errore per il pensiero che si fonda sulla necessità di superare il nichilismo, in quanto consiste nel permanervi. Tuttavia quel permanere, che viene progressivamente emendato, è legato all’inizialità di un cammino straordinariamente nuovo e non inficia la posizione teoretica

di fondo. Infatti (ed è lo stesso Severino a rilevarlo), «quando si inizia a

parlare una lingua diversa, si rimane ancora a lungo sotto la soggezione della lingua materna»*; ma in questo caso si tratta di un permanere che si fonda su un inaudito senso dell’opposizione essere-non essere, che lo porta essenzialmente oltre ciò in cui ancora sembra indugiare. Ci sono oltrepassamenti che accadono all’interno di una permanenza essenziale e ci sono oltrepassamenti che passano oltre in quanto negano le radici di ciò che oltrepassano. In tal caso ogni conservazione è puramente provvisoria, estrinseca e apparente. Si intende appunto mostrare che quest’ultimo è il senso in cui il pensiero di Severino si porta oltre la storia dell’Occidente costruita sul nichilismo). In quanto testimonianza dello stare del destino della verità, il linguaggio che testimonia il destino si porta oltre il pensiero dell’Occidente, che nega lo stare del destino ed è perciò nichilista. Nel pensiero di Severino il termine nichilismo indica quel modo di pensare e di vivere che identifica inconsapevolmente l’essere e il non essere nella convinzione di contrapporli; il nichilismo è l'habitat della civiltà occidentale,

il modo di pensare che avvolge e guida i suoi pensieri, le sue parole e le sue opere. Tale nichilismo, che ha le sue radici nella filosofia greca aurorale, non è esplicito e intenzionale ma completamente inconscio: l'Occidente crede di pensare e di vivere l’ente come qualcosa che è, mentre lo pensa e lo vive come niente: «questa volontà non si rende

conto di ciò che in verità essa vuole [...] essa non vuole semplicemente

che le cose divengano un niente ed escano dal niente: essa vuole la follia estrema [...] che una cosa, proprio perché non è un niente, sia un niente. ‘E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 14. 5 Questa posizione di fondo rende questo scritto essenzialmente diverso da quelli sul pensiero di Severino recentemente pubblicati (tra i quali L. Messinese, L'apparire del mondo, Mimesis, Milano 2008 e U. Soncini, // senso del fondamento in Hegel e Severino, Marietti, Genova-Milano 2008). Infatti, mentre pare che quegli scritti, in definitiva, lascino aperta la possibilità di conciliare l'Occidente con il linguaggio che testimonia il destino, questo mostra come e perché ciò sia impossibile. E lo mostra richiamandosi anche a quelle opere severiniane fondamentali (La Gloria e Oltrepassare), che - non casualmente — quei saggi non considerano.

Introduzione

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Questo è il nichilismo che la «coscienza dell'Occidente respinge nel proprio inconscio e non lascia affiorare nella propria lingua»®. L'essenza dell'Occidente consiste dunque nel non nuscire «a pensare l’esser sé dell’essente»” senza accorgersi di non riuscirvi; il suo

nichilismo è inconscio, dove inconscio non indica «ciò che non appare, ma ciò che ancora non è stato portato nel linguaggio; sì che il linguag-

gio, che ne parla, ancora non appare. E la «consapevolezza è l’apparire di questo linguaggio»*. Inconscio significa dunque che non appare il linguaggio che parla del destino della verità, non che non appaia il destino; se si intendesse diversamente quell’inconscio, si dovrebbe

concludere che il destino è assente dall’apparire. Il che è impossibile. E

infatti, alle radici di quel nichilismo inconscio, c’è per Severino un altro inconscio, ancora più profondo e radicale. Si tratta di un “inconscio

dell'inconscio”, di un “sottosuolo del sottosuolo”, di qualcosa ‘che av-

volge l’avvolgente” e che consiste nella struttura originaria dell’essere, ossia nel suo essere originariamente contrapposta al proprio negati-

vo. La struttura originaria dell’essere è che esso è e non può non essere;

questo è il fondamento di ogni essente, anche di quell’essente che è il

nichilismo; questo è «il luogo della necessità, già da sempre aperto a/ di fuori della struttura dell’Occidente»?. In tale luogo ogni contenuto (contraddittorio) del pensiero nichilista esiste per quello che è: il contenuto impossibile di un pensiero errante. Nello sguardo del destino della verità tale contenuto «appare come fede e volontà, cioè come alienazione del destino della verità»!°, dove verità significa «l'apparire

dell’autonegazione della negazione dell’esser sé dell’essente, e pertanto è l'apparire dell’“impossibilità di tale negazione”»!!, La verità è «l’apparire dell’autonegazione della negazione dell’esser sé dell’essente», ossia, come

si diceva inizialmente, la verità è

l'apparire dell’immediata impossibilità del proprio negativo, del suo essere autonegazione immediata o originaria. Immediatezza o originarietà dell’autonegatività del negativo dell’esser sé dell’essente significa che quel negativo non è tolto in virtù di una negazione sopraggiungente; tale toglimento non sopraggiunge, ma è già da sempre, in $ E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 15 ® E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, p. 168. S E. Severino, Gli abitatori del tempo, Armando, Roma

* Ibi, p.7.

1978, p. 161.

'° E. Severino, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2007, p. 41.

!! Ibi, p. 66.

20

Introduzione

quanto ciò che deve esser tolto non esiste come non tolto. Severino,

richiamandosi a Parmenide che dichiarava che «non distaccherai l’essere dalla sua connessione con l’essere» (frammento 4), intraprende un

«cammino

ancora

intentato»,

che

porta

fuori

dal

nichilismo

in

quanto inizia a pensare il significato autentico dell’essere: «si può cogliere il fondamento nichilistico della nostra civiltà, solo in quanto ci si conduca e mantenga nella testimonianza della verità dell’essere»'?. Solo in questo luogo, rileva Severino, «può apparire la necessità che l'essenza dell’Occidente sia il nichilismo»! E così, nel pensiero di Severino, pars costruens e destruens sono i due diversi modi di testi-

moniare la struttura veritativa dell’essere: in quanto sì afferma l’innegabilità dell’eternità dell'essere,

sì nega

il divenire dell’essere,

e

viceversa. Alle radici del nichilismo sta infatti la temporalizzazione dell'essere esplicitamente formulata e affermata dalla metafisica platonico-aristotelica (per cui l’essere è quando è e non è quando non è). Il fondamento di tale temporalizzazione è il misconoscimento della strutturazione logica del presentarsi di ciò che è presente, su cui si fonda la fenomenologia occidentale. Severino mostra che l'apparire

delle cose è immediatamente — cioè senza mediazione, senza passare attraverso altro — un'identità logica, così come l’identità logica delle cose è immediatamente un essere presente: l’identità logica, infatti, è se stessa solo in quanto è presente come tale, come l’identità logica che è. Severino rileva il ruolo giocato dal destino nel misconoscimento nichilistico della strutturazione logica dell’apparire: il destino non si mostra nella sua interezza ma solo parzialmente; l’apparire finito del destino, in cui consiste l’essenza dell’uomo, è la coscienza finita

che l’infinito ha di sé. Questo mostrarsi parziale dà luogo alla contraddizione dell’originario, che Severino definisce contraddizione C e che consiste nel porre come tutto ciò che tutto non è. La totalità dell'essere non si mostra completamente; l’apparire finito dell’essere («il cerchio finito dell’apparire del destino») non è il suo apparire infinito, giacché «l’apparire infinito è l'apparire infinito del destino, e pertanto non è il cerchio finito del destino; e tuttavia esso è assolutamente questo cer-

chio finito»'*, Tra la contraddizione C e la contraddizione nichilistica c’è però una differenza essenziale: la prima non nega la verità dell’es!° E. Severino, La struttura originaria. Introduzione, cit., p. 13.

! /bi, p. 14.

" E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 175.

.

Introduzione

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sere ma la tace, offrendo solo una parte del tutto, mentre la seconda la

nega in quanto isola l’essente dal proprio esser sé. L'articolazione di questo scritto segue l'articolazione concettuale del pensiero di Severino:

diviso in sei capitoli, prende

avvio dalla lettu-

ra severiniana della civiltà occidentale, la quale, incapace di pensare

l’esser-sé dell’essente, è radicata in un nichilismo essenziale che porterà

il sapere ad assumere forme via via sempre più differenti e apparentemente distanti dall’antico pensiero metafisico, pur conservandone nel profondo l’«anima greca». In queste sue indicazioni il primo capitolo introduce alle tematiche che verranno sviluppate nei capitoli successivi

(a esclusione dell’ultimo): la struttura originaria dell’essere; il «dire»

dell’essere e il rapporto tra linguaggio e verità; la struttura dell’apparire;

il rapporto tra verità ed errore e dunque il problema della «salvezza», questione che, a partire da La struttura e Studi di filosofia della prassi

e passando per Essenza del nichilismo, arriva alle domande finali del

Destino della necessità e alle risposte de La Gloria e di Oltrepassare. In merito a questi ultimi tre testi (Destino della necessità, La Gloria e Oltrepassare) va detto che essi formano un vero e proprio trittico concettuale: pur essendo scritti autonomi e separati, temporalmente anche di molto (si pensi che La Gloria è edita vent'anni dopo Destino della necessità), sono concettualmente

collegati tra loro in maniera essen-

ziale, tanto che una lettura dell’uno che prescindesse dalla conoscenza degli alti due resterebbe parziale e lacunosa. Data la loro particolare unità, nonché la loro estrema complessità concettuale, essi meriterebbero un lavoro di analisi e approfondimento a sé stante, che in questa sede non è stato possibile. Destino della necessità termina con alcune domande che trovano una prima risposta ne La Gloria e quindi il loro completamento in Oltrepassare. Tale aspetto è stato sviluppato nei capitoli Iv e v, quando si riteneva che il lettore possedesse tutti gli strumenti concettuali necessari. In modo particolare, nel v capitolo (Alienazione e salvezza) si è cercato di indicare come il destino della verità di cui parla Severino non costituisca una sorta di religione in cui avere fede, tale

cioè da dispensare divieti e comandamenti su cui costruire una condotta di vita capace di liberare l'individuo dall’errore. Severino mostra come questo ritenere possibile che l’individuo, singolarmente, porti la verità fuori dall’errore sia ingenuo e contraddittorio al contempo: sia perché

la verità non può essere cercata (chi la cerca è infatti fuori da essa), sia

perché non può essere il prodotto teorico di un singolo, e non solamente perché l’individuo è «storicamente condizionato» e, come tale, non può

22

Introduzione

«pretendere di portarsi dinanzi alla verità»!5, ma perché l’individuo è,

come tale, negazione della verità del destino.

Nel vi e ultimo capitolo (La filosofia occidentale e le tracce svianti

della gioia) si è realizzato quel percorso concettuale ulteriore di cui si parlava inizialmente, consistente nel rilevare la vicinanza formale e la distanza sostanziale tra alcuni aspetti — centrali e fondanti — del pensiero di Severino e delle grandi filosofie della tradizione occidentale. In molti casi le indicazioni si trovano negli scritti di Severino, in relazione agli altri ci si è limitati a indicare un percorso che sarà oggetto di approfondimento in scritti futuri. Da tale confronto non emerge però solo un’abissale differenza. Emerge anche che la vicenda del nichilismo, pur negando il destino della verità, gli appartiene essenzialmente. E gli appartiene in diversi sensi, che Severino analizza a partire dai primi scritti fino al più recente O/trepassare. Un primo senso in cui la non

verità appartiene essenzialmente alla verità è che la non verità non può esistere, e tale non poter esistere è la sua posizione veritativa. La verità è cioè la posizione veritativa dell’errore, o anche il predicato necessa-

rio di ogni essente: «l'apparire di ogni essente implica l'apparire del

destino della verità», Il contenuto del nichilismo è non verità, e il suo

essere non verità è la sua esistenza veritativa. Ma c’è anche un senso ulteriore della necessità del rapporto tra ventà e non verità: «la necessità che il destino appaia anche quando la terra si isola da esso — la necessità che il destino stia qui davanti anche quando si è abissalmente lontani da esso — è data dalla necessità che al “fondo” dell’interpretazione, nella quale si dispiega la volontà interpretante da cui la terra è isolata, appaia il destino della verità, dal quale, tuttavia l’interpretazione si isola»!”. In questo senso (ma solo in questo!) l'alienazione della

verità è un momento della verità, e dunque il nichilismo è un momento della verità. Il che rende comprensibile l'affermazione severiniana che «non si dà un “non è” che non possa essere tradotto in un “è non”»!?, Infine si aggiunga che, se l’errore non apparisse «nello sguardo del destino», non potrebbe nemmeno apparire all’interno dell’errare: «solo in quanto nel destino della verità appare ciò che in verità è l'errore, può apparire ciò che appare all’interno del punto di vista dell'errore»? 1 E. Severino, Gli abitatori del tempo, cit., p. 177.

!6 E. Severino, Olirepassare, cit., p. 302. !? Ibidem.

!8 E. Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 163.

! E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 480.

Introduzione

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Anche nell’alienazione più abissale batte dunque, seppure inascol-

tato, il cuore della verità. Questo è l’altro aspetto emerso dal confronto finale tra Severino e l'Occidente; in tale confronto, mirante a eviden-

ziare da una parte la distanza tra Severino e l'Occidente (primo inconscio) e dall'altra la presenza della verità nell'errore (secondo inconscio), il libro trova la sua logica conclusione. La presenza della verità

nell'errore è una tematica fondamentale sia nel pensiero di Severino che in questo scritto. Viene sviluppata analiticamente proprio nell’ultimo capitolo, dove, partendo dalle posizioni de La Gloria e di Oltre-

passare, si mostra che l’affiorare del destino nel linguaggio nichilistico non è affatto qualcosa di problematico ma di necessario, così come è necessario che sia un affiorare di tracce indirette e svianti. Quest'ulti-

ma necessità si fonda sulla natura dell'isolamento, il quale, isolando l’essente dalla sua verità, lo fa apparire come altro da sé: «in questa situazione il qualcosa è in qualche modo presente nel qualcos'altro, ma vi è presente come rovesciato, cioè come altro»?!, In altre parole, la verità è presente nel linguaggio isolato come altro da sé, rovesciata

nel proprio altro, alterata, sfuocata, irriconoscibile e perciò necessariamente fraintesa. La presenza della verità nell’isolamento è «inevitabilmente una traccia enigmatica, ambigua, sviante, perché se fosse

una traccia diretta [...] i due non sarebbero isolati»??. Se si trattasse

di una traccia diretta, l’apparire di un essente «riuscirebbe a condurre all'apparire dell'altro essente». Sempre nel medesimo capitolo si evidenziano anche le conseguenze notevoli che scaturiscono da questa posizione. Infatti, se si ritiene che nell’isolamento possano essere presenti tracce dirette della verità, si lascia aperta la possibilità che ogni volta che il linguaggio mortale si esprime con parole simili al linguaggio

che testimonia il destino, esso abbia l’occasione di pensare la verità, e

che, se ciò non accade, abbia “perso un'occasione”. Se invece si sa che

il linguaggio “mortale” è visione necessariamente distorcente, allora

si sa anche che non si tratta mai di occasioni perse. In altre parole, è impossibile che il linguaggio isolato dalla verità comprenda il destino della verità, anche quando le sue parole suonano simili al linguaggio che testimonia il destino. 2° Tale confronto, con cui si conclude il libro, in questa /ntroduzione poteva solo essere indi-

cato sinteticamente.

% E, Severino, La Gloria, cit., p. 70.

* Ibidem.

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Introduzione

Man mano che il pensiero di Severino si addentra nella complessità

dei concetti, analizzando le singole questioni nel loro essenziale intrec-

cio logico, la sua scrittura si specifica, ricchendosi lessicalmente. Si richiama portanza di tale specifico lessico. A una sembrare che gli scritti di Severino si modo tale che pare più facile leggere

articolandosi sempre più e arl’attenzione del lettore sull’imprima considerazione potrebbe siano andati semplificando, in Oltrepassare che La struttura

originaria. In effetti, se anche può essere vero che la chiarezza espositiva aumenti con l'evolversi degli scritti, ciò non deve trarre in inganno,

perché l'apparente semplicità sintattico-espositiva degli scritti più recenti non solo contiene la stessa complessità teoretica di quelli prece-

denti, ma la contiene arricchita di nuove determinazioni concettuali e

posizioni logiche. In questo senso è impossibile, per un neofita, leggere e comprendere gli ultimi scritti, quali La Gloria o Oltrepassare, senza

aver fatto i conti con il bagaglio concettuale-lessicale precedente e le

progressive integrazioni logico-terminologiche. Per esemplificare: senza la conoscenza del significato dell’espressione campo persintattico, che viene presentata per la prima volta ne La struttura originaria e che da quel momento accompagna ogni scritto speculativo, è impossibile comprendere il più recente tra gli scritti teoreticamente rilevanti e cioè Oltrepassare; ma, d’altra parte, capire in che senso in Oltrepassare si parli di dimensione persintattica dell’essere esige che si conoscano gli emendamenti apportati a questo concetto negli scritti successivi a La struttura originaria. Il che vale per tutte le altre principali questioni. Gli scritti di Severino sono cioè un discorso — anzi una testimonianza — che mette a fuoco se stesso, un pensiero ri-flettente che procede nel dipanare una matassa che si va districando, portando alla luce determinazioni nuove che integrano il senso di quelle precedenti. Questo scritto intende, per l'appunto, esporre questo percorso logico-concettuale e contribuire alla sua comprensione. Data l’articolata strutturazione del pensiero di Severino, che man

mano che svela i tratti del destino della verità ne mostra anche la complessità (in questo senso i testi di Severino chiariscono in quanto complicano), una simile trattazione non poteva certo avere pretesa di esaustività; a ciò si aggiunga che la produzione editoriale di Severino è molto nutrita e quindi non contenibile analiticamente in un solo scritto, e che alcuni scritti raggiungono un livello di approfondimento che qui non si poteva offrire. Per questo, non potendo sempre seguire la profondità e specificità di molte analisi, si è cercato di esporne gli

Introduzione

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elementi fondanti e irrinunciabili, sottintendendo costantemente l’invito a riandare alla fonte. Se non si è sempre potuta rendere la complessità specifica delle questioni trattate, si è però cercato di mettere in luce come il pensiero di Severino sia un tutto perfettamente strutturato, in cui ogni parte ha il senso che le compete con rigorosa coerenza. L’ineccepibilità dell’argomentazione, che si snoda attraverso gli scritti superando obiezioni che pone da sé, costringe ad ascoltare e prendere seriamente quanto Severi-

no stesso dice del suo filosofare, e cioè che non si tratta di un pensiero che possiede la verità, ma di un linguaggio che inizia a portare alla luce i tratti di quella struttura originaria dell’essere che «non è un “prodotto teorico” dell’uomo (come singolo, o come gruppo sociale); e non è nemmeno “Dio” o il prodotto di un dio. Ma è il luogo, già da sempre aperto, della Necessità e del senso originario della Necessità». L’affermazione che la verità sia qualcosa che non appartiene a nessuno, in quanto fondamento originario dell’essere, nonché l’uso — tanto più in ambito contemporaneo!

— di termini come

necessità, fondamento,

originarietà, essere e verità desta molte perplessità e critiche. Severino risponde a tali critiche indicando l’abissale distanza tra il proprio pensiero, che da La struttura originaria in poi «Incomincia a parlare un linguaggio che parla una lingua diversa, quella della testimonianza della Necessità»?4, e il pensiero e il linguaggio occidentale. L’opera filosofica severiniana è per questo anche (inevitabilmente) una gran-

dissima revisione linguistica, in virtù della quale alcune espressioni tipiche dell’anima nichilistica occidentale (quali proposizioni analiti-

che, sintetiche a posteriori e a priori, permanenza, costante, variante

ecc.) assumono significati precedentemente impensati (e impensabili) € possono quindi essere utilizzate senza ricadere nel nichilismo. A tale proposito va però anche precisato, come già si accennava, che parte della sua speculazione non è completamente esente da un certo nichilismo residuo; per segnalazione dello stesso Severino, quella permanenza è ravvisabile negli scritti che vanno fino a Essenza del nichilismo ed è definitivamente superata con Destino della necessità. Il nichilismo di Studi di filosofia della prassi, ad esempio, è superato già nelle note finali e nell’introduzione che accompagna l'edizione del 1984 degli stessi Studi (editi per la prima volta nel 1962); così come l’/ntrodu3 E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 13-14. * Ibi, Introduzione, cit., p. 14.

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Introduzione

zione a La struttura originaria del 1981 supera il nichilismo presente nell’edizione originaria del 1958. Tale nichilismo è circoscritto ad alcuni aspetti fondamentali: la permanenza di una concezione ancora fenomenologica della fenomenologia, la concezione della persintassi e del compito originario (soprattutto ne La struttura originaria e in Studi di filosofia della prassi); quindi il concetto di passare e scomparire 0,

per meglio dire, «la diversità di struttura del passato del presente»! (Essenza del nichilismo: Poscritto e Sentiero del Giorno).

Spesso il pensiero di Severino è considerato iperrazionalistico, ritenendo che l'estrema coerenza a dei principi logici lo abbia condotto a negare l’evidenza innegabile del divenire. La risposta (implicita e non) di Severino consiste nel mostrare l’innegabilità dell’eternità dell’essere e la negabilità del divenire, la cui verità non è altro che la potenza persuasiva di una fede millenaria, diventata prassi, opere, civiltà: la civiltà dell'Occidente. Non si tratta infatti semplicemente di un modo di pensare errato, superabile con un semplice atto di comprensione, ma di una civiltà che avvolge ogni cosa; «né il mio modo di vedere si sottrae all’alienazione, perché anzi nel mio profondo sentire cresce un’invincibile ripugnanza per il sentiero del Giorno, che promette l'abbandono di questa civiltà della tecnica, di cui mi sento figlio»?£. Severino mostra che l'agire, quale fede nella libertà di decidere, è da ultimo la volontà

che un certo essente non sia ciò che è, dal momento che voler agire (e dunque voler volere) significa volere che un certo ente cessi di essere ciò che è e inizi a essere ciò che non è. L'unica decisione non contraddittoria è il «decidersi» del destino, che non è una diversa forma di decisione nichilistica, bensì lo stare dell’esser sé di ciò che è. Percorrere la strada della verità dell’essere, il famoso sentiero del

Giorno indicato da Parmenide (che è poi un tratto del sentiero della Gioia, ossia del toglimento originario di ogni contraddizione), esige l’oltrepassamento del nichilismo nelle sue forme strutturali fondamentali, quali il tempo e l’io individuale, che non è altro che volontà che le cose siano divenire altro: «l’io dell’individuo non può vedere e capire il destino della verità. Tale io appartiene alla follia della terra isolata»??, L'To del destino non è l’io dell'individuo. Questo è un tema particolarmente rilevante, che viene introdotto nel I capitolo e tratta-

to analiticamente nel iv: l’io dell’individuo non può comprendere il * E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 198.

% E. Severino, Essenza del nichilismo. Il sentiero del Giorno, cit., p. 171.

? E. Severino, La Gloria, cit., p. 295.

Introduzione

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destino, e «quando crede di vedere e capire il destino lo equivoca in modo essenziale»??. La comprensione superficiale del pensiero di Severino può dar luogo a due posizioni diverse: o al suo rifiuto in quanto delirio iperrazionalistico, oppure alla sua esaltazione in quanto salvezza dall’annullamen-

to dell’essere. Tuttavia chi cerca «salvezza» dalla filosofia di Severino non ha capito che essa porta fuori dalla ricerca del senso che consoli.

La filosofia di Severino mostra che, all’interno della fede nel divenire,

nessun senso supremo può salvare dalla nientità dell’essere, e anche per questo Severino evidenzia l'acutezza e coerenza di Leopardi come pensatore. Fuori dalla fede nel divenire, invece, perde senso la stessa domanda di salvezza e consolazione, giacché ha bisogno di essere

consolato solo chi si sente minacciato, come indica Beatrice a Virgilio nell’Inferno dantesco: «Temer si dee di sole quelle cose c'hanno potenza di fare altrui male; de l’altre no, ché non son paurose»??. E il divenire dell'essere è appunto una di quelle cose non paurose, che non hanno potenza di fare altrui male. Mostrando che l’uomo non ha bisogno di salvezza, il pensiero di Severino non solo esce dalla logica del “dare salvezza”, ma indica che è proprio il cercare salvezza la forma radicale dell’errore e della violenza e che si è in un eterno possesso di ciò di cui si va alla ricerca,

come si legge nelle belle pagine di Oltre il linguaggio:

«Se la violenza è la volontà che vuole l'impossibile, e se la volontà è essenzialmente un volere che qualcosa divenga altro da sé, allora — poiché il diventare altro da sé è qualcosa di impossibile (giacché l’impossibile è innanzitutto l'essere altro da sé) — la volontà è, in quanto tale, il volere l'impossibile, e cioè la volontà è, in quanto tale, violenza. La devastazione dell’uomo e della terra è la forma visibile della violenza; la carità, l’amore, la tolleranza sono forme nascoste della violenza. Anche ogni volontà salvifica è dunque una forma nascosta di violenza - come ogni volontà “creatrice”. Nessun creatore e nessun salvatore ci può salvare. Ma non perché la salvezza debba essere cercata altrove, ma perché il concetto stesso di salvezza — così come esso si presenta lungo la storia dell'Occidente — è nella sua essenza violenza, cioè volontà di

trasformare il mondo, e quindi volontà che vuole l'impossibile».

% Ibidem. ” Dante, Inferno, 11, 88-90. % E, Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 26.

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Introduzione Il mortale cerca ciò che possiede da sempre:

«il mortale è il fenomeno in cui ciò che egli è in se stesso, nella sua essenza più profonda, rimane occultato e appare qualcosa di essenzialmente diverso da tale essente. Volendo la propria immortalità attraverso il divenir altro, il mortale (“anima”, “io”, “individuo”, “persona”, “soggetto”, “coscienza”, “Io trascendentale”, ecc.) non solo vuole l'impossibile, ma perde di vista la gran-

dezza dell’autentico oltrepassamento della morte — perde di vista la Gloria che

egli è in se stesso, nella sua essenza profonda»”!.

Mostrando che il destino della verità è l'inconscio dell’inconscio del mortale, Severino non solo costringe a ripensare in modo radicale il cammino

sin qui compiuto dall’Occidente, ma indica anche che al

fondo ultimo di quel cammino c’è la Gioia, che, seppur «addormentata nel pensiero occidentale», è l’originario toglimento di ogni contrad-

dizione e di ogni dolore, «l'essenza inconscia dell’uomo»* in cui «il

mortale è già da sempre e per sempre passato»*“.

* E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 173. * E. Severino, Essenza del nichilismo, Poscritto, cit., p. 63. * E, Severino, La Gloria, cit., p. 29. * E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 591.

CAPITOLO PRIMO

IL SENTIERO DELLA NOTTE E IL SENTIERO DEL GIORNO

«La civiltà occidentale [...] è la Repubblica fondata da Platone. Egli è il seminatore dell'Occidente. [...] il senso dell’esser-cosa, stabilito dal pensiero greco, è lo spazio all’interno del quale un poco alla volta si sono portate tutte le azioni e le opere dei popoli». (E. Severino, La strada. La follia e la gioia, cit., p. 57) «Se ci si arrende alla verità dell’essere — se si compie il primo passo, fatale — si deve andare fino in fondo [...]

giacché, una volta che si tiene ferma l'impossibilità che l'essere non sia, non si può ritornare indietro».

(E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 82, nota 15)

1. La nascita della filosofia e l'Occidente Questo capitolo introduce al pensiero di Severino prendendo avvio dalle questioni basilari e dando loro una prima generale esposizione. In questo modo viene tracciato il percorso concettuale che i capitoli successivi (a esclusione dell'ultimo) avranno il compito di approfondire. La trattazione delle tematiche non è analitica; il loro approfondimento spetterà ai capitoli successivi. Il punto di partenza è la cntica che Severino fa all'intera civiltà occidentale, per poi passare (dal paragrafo 7) alla pars costruens, che è il fondamento di quella critica. A

tale riguardo va rilevato che, proprio perché il fondamento della pars destruens è sviluppato nella pars costruens, la divisione fra le due parti non deve essere rigidamente intesa.

Severino definisce “nichilista” la civiltà occidentale, dove «nichili-

smo significa pensare, assumere e vivere come niente ciò che non è un

niente. Qualsiasi altra definizione del nichilismo (e la cultura europea ne è indubbiamente ricchissima) deve inevitabilmente fare i conti con

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Cap. I - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

questo significato centrale ed elementare del termine»'. Per capire che cos’è e quando inizia questa civiltà si riporta una sintesi prospettica che Severino stesso fa nel capitolo dal titolo Morte della filosofia contenuto ne La strada. La follia e la gioia: «Sin dall'inizio, la filosofia ha

voluto scoprire la verità del mondo. Certamente, il mondo era già noto prima della filosofia, ma essa gli conferisce un senso inaudito. Per la

prima volta, infatti, essa esprime la contrapposizione estrema, quella tra l’essere e il niente, e concepisce il mondo come il luogo in cui le cose escono dal niente, approdano alla sponda dell’essere e ritornano nell’abisso del niente. Anche qui: le parole “essere” e “niente” esistono già nella lingua greca, prima della filosofia. E anche nelle lingue più antiche dell'Oriente. Ma il loro senso è avvolto da ombre, ambi-

guità. Nel quarto inno del Rig- Veda — un testo dei più antichi popoli arii dell’India, che risale a oltre il 1000 a.C. — leggiamo:

«Allora non c’era il non essere, non c'era l’essere. Allora non c’era la morte,

né l'immortalità. Senza produr vento respirava per propria forza quell’Uno;

oltre di lui non c’era nient'altro. L’“essere”, qui, ha un significato incerto, ridotto, ondeggiante: non indica ogni cosa che si differenzia dal niente. Tanto è vero che “allora”, quando “non c’era l’essere”, c'era però l’“Uno” (il “prin-

cipio vitale”) che “respirava per propria forza”; e questa forza dell’Uno non è un niente. L'essere” che ancora manca, quando solo l’“Uno” è, significa quindi soltanto il vivere, il crescere, il risiedere, come viene rilevato nell'ana-

lisi scientifica dell’antica lingua degli arii»?.

La civiltà occidentale inizia dunque con la filosofia? Stando a que-

ste prime considerazioni,

sembrerebbe

che la civiltà occidentale, pur

avendo le proprie radici anteriormente, nasca quando, per la prima volta nella storia dell’uomo, viene pensato il significato “essere” come contrapposto al significato “niente” e la filosofia conferisce al mondo «un senso inaudito [...] come il luogo in cui le cose escono dal niente,

approdano alla sponda dell’essere e ritornano nell’abisso del niente». In tutti i suoi scritti Severino mostra che con la filosofia greca inizia il cammino fondamentale dell'Occidente: «la filosofia evoca la nullità delle cose e dell’uomo» e così anche la filosofia occidentale più ottimistica «è la responsabile dell’angoscia più profonda, che ormai sta avvolgendo l’intero Pianeta»?. La filosofia ha originato «una cultura che ' E. Severino, La strada, la follia e la gioia, suR, Milano 2008, p. 75.

? Ibi, pp. 66-67.

3 E. Severino, /l muro di pietra, Rizzoli, Milano 2006, cit., p. 14.

La nascita della filosofia e l'Occidente

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rende infelici» e che attualmente esporta, per così dire, la sua angoscia a tutto il pianeta.

Con la nascita della filosofia inizia dunque un nuovo corso: anche se la filosofia non sembra occuparsi di problemi diversi da quelli a cui si rivolgevano già ìl mito e la religione, tuttavia tale vicinanza racchiude una lontananza essenziale: «la filosofia, venendo alla luce, si pone al

di sopra del mito — e almeno in questo senso lo nega»*. La filosofia

nascente conserva certamente molti aspetti del mito, ma si distacca da quest’ultimo per due motivi fondamentali, tra loro essenzialmente

collegati: il sapere del mito non si pone (non ne ha i mezzi) come cer-

to e indubitabile, mentre quello filosofico sì, caratterizzandosi proprio

per la scoperta di un senso assoluto e sconosciuto di innegabilità; il

mito non conosce la contrapposizione assoluta tra essere e non essere,

che viene affermata per la prima volta dalla filosofia con la nascita dell’ontologia. La filosofia greca pensa il significato “essere” come ciò che si contrappone essenzialmente e assolutamente al significato “non

essere”, e così concepisce per la prima volta nella storia dell’uomo la voragine del nulla assoluto: «crediamo proprio che questo nostro parlare dell'essere e del niente non ci riservi alcuna sorpresa? Che sia del tutto naturale e non incominci invece a un certo momento della storia umana?»5, Severino non solo rileva che la scoperta di questi due significati e della natura assoluta e irriducibile della loro contrapposizione

non ha precedenti nella storia dell’uomo, ma che con questa scoperta «la filosofia greca ha pensato per la prima volta l’infinita distanza che

contrappone l'ente al niente e l’infinita agilità che consente all’ente di percorrerla tutta, divenendo niente, e consente al niente di percorrerla

tutta, diventando ente»5. Da quel momento in poi la «cosa» diviene «ente» e inizia la civiltà occidentale: «il senso greco dell’ente incomincia il tragitto che lo conduce ad avvolgere, dominare e unificare progressivamente tutte le grandi forme della civiltà europea». Severino approfondisce il rapporto tra dolore e sapere nel pensiero greco in un libro dal titolo // Giogo, dove mette a nudo l’“anima greca”

dell'Occidente. Il presupposto di fondo è che il dolore sia «ciò che vi è di più evidente per i mortali»*. Il mito cerca di porre fine al dolore 4 E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 37. ‘E, Severino, Gli abitatori del tempo, cit., p. 16.

6Ibi, p. 17.

? Ibidem. ® E. Severino, I! giogo, Adelphi, Milano 1989, p. 41.

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Cap. I - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

che l’esistenza porta con sé. Così, per dare senso all’esistenza e lenire il dolore, tenta di anticipare l’accadere e costituirsi come previsione: «basta l’inesplicabile sopraggiungere delle tenebre [...) perché l’angoscia si levi. Ritorneranno il sole e la terra dei viventi? [...] Inizialmente [...] la morte si presenta così: come dolore e angoscia»’. Ma l’uomo

rifiuta originariamente questa forma di dolore e vi cerca rimedio. Così «agisce perché il dolore finisca, la luce del sole ritorni [...]. Il rifiuto

originario della morte precede ciò che sta al fondamento della sua vo-

lontà di salvarsi dalla morte con la fede in una vita futura, diversa da

questa», La volontà di vivere si accorge della propria impotenza e «si trasforma nella fede che esista un’altra o altre vite dove i corpi distrutti [...] risorgono»!!, Siamo di fronte a due sensi diversi di rifiuto della

morte, che Severino ritiene essere presenti in ogni religione: la volontà che questa vita non finisca e la volontà che dopo questa vita ne inizi un’altra. E così «per avere potenza sulla morte l’uomo del mito si allea con quella che egli crede la potenza suprema, la potenza del divino»!?.

Ma il mito si rivela una previsione che non dà certezza, una previsione essenzialmente dubitabile. Di fronte a questa dubitabilità si fa avanti l’esigenza di un sapere nuovo e completamente diverso, assolutamente indubitabile perché impossibile da negare: «una potenza può vincere le altre solo se resiste al dubbio intorno alla sua capacità di prevalere. A ogni dubbio»". La ricerca di un sapere assolutamente innegabile fonda la nascita della filosofia, che dà a questo sapere il nome di epistéme. Il termine epistéme, che indica sia il contenuto innegabile sia il sapere che lo contiene,

significa, alla lettera, sapere capace

di

stare (steme- dal verbo iotao0at) sopra (epì) tutto: è lo stare sopra

tutto che, in quanto im-porsi (pongo sopra), «ha in se stesso la forza di farsi valere, di spingere via da sé ciò che gli fa resistenza, di restar fermo quindi in sé medesimo. Solo il filosofare autentico è un imporsi di questo genere»'‘. L'epistéme è il sapere capace di stare sopra tutto ciò che intende negarlo. Il sapere del mito è incerto e «di fronte all’incertezza del mito è inevitabile che la previsione mitica sia spinta al tramonto dalla previsione ° E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 31. !° Ibidem.

! Jbi, p. 32.

!2 Ibi, pp. 35-36. !3 /bi, p. 36. E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 29.

La nascita della filosofia e l'Occidente

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epistemica"* (che sta alla radice della previsione scientifica)». Ma la

filosofia, che nasce per trovare la certezza che al mito mancava, finisce col partorire un dolore e un’angoscia che prima non c'erano: iniziando a concepire, per la prima volta nella storia dell’uomo, le categorie ontologiche essere e niente, inizia a pensare il mondo quale teatro dell’oscillazione tra l’essere e il non essere. Il che rende ancor più evidente la dubitabilità del mito: se ogni evento proviene dal niente, non c’è modo di prevederlo. Per prevederlo, è necessario dimostrare che non proviene dal niente. Il che è impossibile per il mito. Perciò, una volta scoperto il significato “niente”, la spiegazione del divenire non può più essere affidata al sapere mitologico: è necessario un sapere che sia in grado di salvare le cose dall’annullamento, facendole derivare da un Essere eterno. Se si vuole conoscere e capire il senso fondamentale della civiltà occidentale si deve partire da qui, dalla novità assoluta rappresentata dalla nascita della filosofia. La contrapposizione tra essere e non essere viene pensata e tematizzata, per la prima volta, da Parmenide. Con Parmenide nasce la cosiddetta ontologia, ossia la scoperta delle

due categorie estreme e irriducibilmente contrapposte: l'essere e il non

essere. Queste due categorie, e il modo in cui la filosofia greca le intende, saranno fondamentali per il corso di tutta la storia dell'Occidente.

Infatti, se si pensa che il niente sia la dimensione assolutamente priva di essere, allora, interpretando la morte come l'andare nel niente, si

pensa che morendo l’essere andrà definitivamente perso. La morte, prima dell’ontologia greca, non conteneva lo spettro dell’annientamento € quindi non poteva avere lo stesso carattere angosciante che inizia ad

avere con la nascita dell’ontologia. Solo in virtù dell’ontologia greca nasce la morte come la conosce l’uomo occidentale e cioè come divenlare niente: con la filosofia la morte

«incomincia ad apparire come l'annullamento di quell’ente che è l’uomo, ossia come il portarsi nell’infinita lontananza del nulla, da cui non solo l’uomo ma ogni cosa distrutta non possono fare ritorno. Appunto per questo il pensiero filosofico abbandona il corpo al nulla e afferma l’“immortalità dell'anima”. [...)] Continua però a rimanere angosciante che al nulla resti abbandonato il corpo [...] Per questo il Cristianesimo promette la resurrezione della carne. Ma

la promette tornando al mito»!7.

!5 Per il significato di questa espressione cfr. infra (in questo e nel prossimo paragrafo).

' E. Severino, 7/ muro di pietra, cit., p. 22. " E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 38.

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Cap. I - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

Si comprende bene perché l’ontologia sia molto più di una semplice teoria filosofica: essa è il fondamento ultimo che guida e sorregge il cammino della civiltà occidentale. Nei testi dedicati alla storia della filosofia Severino afferma che «la filosofia nasce grande». Tale affermazione ha almeno due significati: 1) che non si tratta dei primi passi incerti di un nuovo modo di pensare, ma dell’affermazione di quelle che saranno le basi fondamentali della filosofia e con essa del futuro dell'Occidente; 2) che la filosofia

non nasce modesta ma consapevole della grandezza che sta evocan-

do, in quanto afferma se stessa come il sapere più grande e più forte:

il sapere che avvolge e comprende tutto e non può essere negato da nessun altro sapere. Fin dalla sua prima comparsa la filosofia si pone come sapere del Tutto: «con la nascita della filosofia il pensiero, per la prima volta, attraversa senza lasciarsi distrarre l’infinita ricchezza delle cose: rivolgersi al Tutto vuol dire percorrere l’estremo confine, al di là del quale non esiste niente, e riuscire a scorgere il raccogliersi

insieme delle cose più differenti e più antitetiche: il loro raccogliersi in una suprema unità»!

In quanto sapere del tutto, il sapere filosofico prende il nome di me-

tafisica, che non indica un sapere trascendente nel senso corrente del

termine, ossia che si pone al di là di ciò che trascende: la trascendenza metafisica non è l’oltrepassamento della realtà sensibile, se con ciò si

intende il portarsi fuori da ciò che si oltrepassa, ma è l’oltrepassamento che abbraccia e conserva ciò che oltrepassa, essendone il vero ed eterno significato. L'oltrepassamento metafisico abbraccia la totalità dell’esistente, nell’identità di trascendenza e immanenza. Per questo la filosofia nasce grande: essa scopre l’implicazione reciproca di innegabilità e totalità e, affermandosi come

sapere del Tutto, può cercare

spiegazione al divenire sensibile inteso come apparente oscillazione tra l'essere e il non essere. Ponendosi come sapere, innegabile ed eter-

no, del Tutto, la metafisica si pone anche come rimedio definitivo al

dolore. Un sapere si può porre come rimedio al dolore perché toglie l’insensatezza che è all’origine del dolore. Severino, commentando Eschilo, mostra che il pensiero greco inaugura un percorso in cui si è sempre più consapevoli che l’aspetto terribile del dolore, quello che conduce alla follia, è dato dall’insensatezza: il dolore è insopportabile perché non se ne comprende l'origine, il senso, il fondamento e ‘® E. Severino, La filosofia antica, Rizzoli, Milano 1984, p. 20.

La nascita della filosofia e l'Occidente

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quindi può gettare «nella tempesta della follia»!’. Conoscere il senso delle cose consente

di accettare e superare il dolore:

«sophronein

è

la salvezza della mente [...] che si produce quando il pensiero caccia via il dolore»?°, La verità allontana la follia: la conoscenza della verità elimina l'angoscia legata all’imprevedibilità del futuro e il dolore per l’insensatezza dell’esistenza. Severino ravvisa in ciò l’essenza della tragedia greca: la tragedia è essenzialmente filosofica proprio in quanto non è solo enfatizzazione del dolore, tragica in questo senso, ma anche

e soprattutto consapevolezza che solo nella verità si può trovare autentico rimedio al dolore. Per questo Severino rileva come Aristotele,

indicando Euripide come il vero poeta tragico (perché quasi tutte le

sue tragedie «finiscono nella sfortuna»), non avesse compreso l’essenza filosofica della tragedia. Aristotele cioè non aveva riconosciuto il carattere epistemico della catarsi tragica, ritenendo che quest’ultima si muovesse su di un piano puramente emozionale: per lui lo scopo della tragedia è sì quello di offrire un rimedio al dolore nella e con la catarsi, ma si tratta di un rimedio puramente emozionale e per nulla conoscitivo. Ebbene, Severino mostra che in Eschilo c’è una profonda

consapevolezza dell’irreversibilità della morte, del non poter più tornare di chi è morto, anche se «questa impossibilità è un tratto esplicito del pensiero ontologico solo se il cader fuori dall’essere (iotacda1) è pensato come un cadere nell’assoluta negatività del niente»?!. E tra i primi pensatori solo i frammenti di Parmenide «uniscono la generazione e la distruzione alla assoluta negatività del niente»??. Il non essere è davvero tale solo se inteso come l’assolutamente negativo; se non è inteso così, esso è una forma di essere, una forma di esistenza e la morte

è il passaggio da una regione all’altra dell’esistenza.

La conoscenza filosofica non è dunque conoscenza mitica, incerta,

ma è conoscenza epistemica, capace di prevedere ciò che sarà, dal mo-

mento che lo stare dell’epistéme, essendo l'apertura del senso del tutto,

contiene ogni possibile accadimento. Se, in generale, il dolore è lenito

dal sapere, quel particolare sapere che è l’epistéme, in quanto riesce ad anticipare con certezza l’accadere, è una forma di previsione che rende

definibile e comprensibile il dolore molto più efficacemente del sapere !° E. Severino, Interpretazione e traduzione dell'Orestea di Eschilo, Rizzoli, Milano 1985,

cap. I, p.9.

® E. Severino, Il giogo, cit., p. 41.

21 Jbi, p. 84. ® Ibidem.

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Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

del mito e di ogni altro sapere. «Chi scaccia dal pensiero il dolore è il pensiero stesso in quanto epistème [...] l’efficacia e la potenza del vero sapere (ud90c) consiste nella capacità di pddog di cacciare rd0og, il dolore»? Il vero sapere «ha potenza» nei confronti del dolore. Zeus spinge i mortali a essere saggi e quindi a liberare il pensiero dal dolore: «È la stessa verità del pensiero che caccia con verità il dolore e la vanità e la

follia che lo accompagnano; ma proprio perché il vero pensiero è quello che si rivolge a Zeus, alla somma potenza, il pensiero vero vede nella somma poten-

za anche la potenza di rendere il pensiero vero potente sul dolore, capace cioè di cacciare con verità il dolore. E così il circolo si chiude»**.

Ciò non vale soltanto perché, rispetto al mito, la filosofia è più certa, ma vale anche e soprattutto perché il dolore e l'angoscia cui la filosofia inizia a rivolgersi non sono più quelli con cui aveva a che fare il mito. Il dolore a cui si rivolge la filosofia non è il dolore di prima, perché solo con la filosofia l’esistere è l’uscire dal niente e il tornare nel niente. Questo niente, l’assolutamente contrapposto all'essere, è imprevedibile e irreversibile: dall’annullamento non si torna indietro. Ci sono

forme diverse di dolore: il dolore che accade (0 che è accaduto) e il

dolore che potrebbe accadere (e quindi la sua prefigurazione). Il dolore presente è definibile: lo si può distinguere nitidamente e chiamare per nome. L'aspettativa di un dolore futuro possibile, e cioè di un dolore che potrebbe accadere in qualsiasi momento, è terribile proprio perché possibile. La filosofia sa bene che la possibilità è la più pesante delle categorie; l’aveva affermato Cartesio, ad esempio, e Kierkegaard l’aveva messo al centro della sua riflessione. La possibilità schiude un silenzio assordante che non trova parole: il silenzio dell’angoscia. L’a-

spettativa inesprimibile del dolore possibile, del dolore senza volto, è

infatti ciò che chiamiamo angoscia. L’angoscia è il sentimento doloroso del dolore possibile e inesprimibile. Sempre Kierkegaard, come anche Freud e Heidegger e gran parte della riflessione contemporanea, rileva che il carattere paralizzante e infinitamente doloroso dell’angoscia risiede proprio nel suo rapporto con il nulla, che è anche ciò che la rende indefinibile. Freud distingue l'angoscia dalla paura, definendo la seconda come l’arretramento di fronte a qualcosa che si conosce e la prima come l’arretramento davanti a qualcosa di non definibile. Per il 3 Ibi, p. 38. U Ibi, p. 39.

La nascita della filosofia e l'Occidente

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nichilismo l’angoscia è il sentimento doloroso del dolore inesprimibile, il cui fondamento risiede nel rapporto essenziale con il nulla. Vedremo come invece per il linguaggio che testimonia il destino l'angoscia

non sia altro che «una volontà di potenza che si sente minacciata, e quindi non si addice al destino». La nascita della filosofia ha dunque essenzialmente a che fare con il dolore e, ancor più, con quel particolare dolore che è l'angoscia per l'annullamento; e ne ha essenzialmente a che fare perché è essa a pen-

sare per la prima volta il significato «niente». In quanto l’angoscia è il

sentimento dell’indefinibile, la scoperta del significato «niente» rende estrema quell’indefinibilità e dunque la stessa angoscia. La scoperta delle categorie ontologiche applicata all’apparire delle cose determina la nascita del mondo come luogo in cui le cose nascono e muoiono, e dunque come luogo dominato dall’angoscia per l'annullamento. Per questo Severino legge l'affermazione aristotelica «la filosofia nasce dalla meraviglia (Bavpa)» intendendo il termine Badua non solo come meraviglia ma anche come terrore di fronte all'angosciante. E ora diremo: all’estremamente angosciante. L’angoscia estrema, evocata dal-

la filosofia, grava sull'esistenza togliendole ogni significato, rendendo vana e assurda ogni azione. La filosofia, con cui «tanto più angosciante quanto più nuovo è il volto che assume la morte»?5, cerca così rimedio

al dolore che ha generato. Ma se il dolore deriva dall’insensatezza, e se

questa è stata acuita come mai in passato dalla scoperta del significato “niente”, allora

«il sommo riparo dal culmine dell’angoscia è la “verità”, “la salute della mente”. E la previsione stabile e ferma che anticipa il senso di ogni cosa e lo trattiene anche quando le cose si annientano. Se il movimento dell’uscire e del ritornare nel niente è governato da una Legge immutabile, lo smarrimento per la morte e l’imprevedibilità del futuro diventano sopportabili. Se l’uomo, affondando nel niente, riesce a tenere in alto, sopra la sua testa, salvo dagli abissi, il Senso — il Cuore, l'Origine, la Sostanza — di tutte le cose che sono

ghermite e travolte dal niente, allora in questa salvezza, cioè nel divino che si

salva dal niente, il mortale sente la propria vera salvezza. E anche se egli rima-

ne pur sempre qualcosa che è stato un niente e che ritorna ad essere niente, egli

può dire che tutte le cose del mondo — e quindi anche lui stesso — provengono e ritornano nel Fondo e nel Cuore «sempre salvo» che governa tutte le cose»??, * E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 38.

* E. Severino, Orestea, cit., cap. 1, p. 13.

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Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

In quanto sapere che conosce la verità di ogni cosa, il luogo da cui ogni cosa viene e verso cui va, la filosofia aurorale non è una semplice

teoria, nel senso corrente del termine, ma si pone come soluzione defi-

nitiva a ogni dolore. Ma mentre inizialmente il sapere filosofico riesce

a lenire il dolore e l’angoscia per il futuro in quanto pre-vede, ossia

conosce in anticipo ciò che sarà, questo lenimento mostra progressivamente la propria impotenza: nel corso dei secoli la filosofia ne prende progressivamente coscienza, fino a ritenere quel rimedio «peggiore del male»”?. Si tratta di un processo inevitabile, avviato dalla stessa filosofia antica: «quando la filosofia pone l’uomo dinanzi al nulla, l’annullamento della felicità e della vita diventa irrevocabile ed estrema l’angoscia. L'uomo tenta in ogni modo di distogliere da essa lo sguardo, ma

essa c’è, e riemerge nonostante ogni rimedio e ogni illusione». Anche se in cielo ci fosse un Dio, dice Severino, poniamo il Dio cristiano, sarebbe «angosciante sentirsi creature effimere in mezzo al nulla, polvere

che ritorna alla polvere e che solo alla libera grazia del Dio devono

il proprio non essere nulla», Tale processo inevitabile dipende dalla stessa nascita della filosofia, che infatti Severino riconduce a due istanze tanto essenziali e costitutive quanto antitetiche. Da una parte c’è la convinzione che l’esistenza sia un venire dal niente e tornare nel niente e che questo processo appaia immediatamente ed evidentemente, che sia cioè una verità originaria e innegabile, attestata dall'esperienza e non già da un modo di interpretare l'apparire delle cose; dall'altra c'è la convinzione che questo accadere non possa essere la verità dell’esistenza, perché altrimenti quest’ultima sarebbe sprofondata nell’assurdo e nella contraddizione logica. Ma poiché la contraddizione è impossibile, è niente, mentre l’esistenza è innegabilmente qualcosa, la filosofia ritiene che debba esistere un senso che spieghi e giustifichi l’accadere immediatamente presente. Ovvero: poiché la contraddizione non può esistere, il senso ultimo dell’esistenza non può essere la contraddizione dell’unione essere-non essere in cui consiste il divenire. La filosofia si pone così l’obiettivo di comprendere questo senso ultimo, eterno e innegabile, che avvolge e sostiene tutte le cose. Va messa in luce la peculiarità e unicità della lettura severiniana,

che afferma qualcosa che non era mai stato sostenuto: il divenire, come

nientificazione dell’ente ed entificazione del niente, non appare, non ® Cfr. prossimo paragrafo. 2 E. Severino, // muro di pietra, cit., p. 13.

La nascita della filosofia e l'Occidente

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accade, non c’è, non ha luogo. Esso è solamente il frutto di una inter-

pretazione che non si accorge di essere tale. In altre parole Severino sostiene che la filosofia aurorale si è messa alla ricerca del senso autentico dell’accadere solo nella misura in cui è partita dalla convinzione che il divenire, inteso come oscillazione tra essere e non essere, accada

realmente, sia la “evidenza originaria”. La riflessione di Severino è volta a mostrare che quel divenire non esiste e non può esistere, che non

è affatto evidente ma appartiene a una inconsapevole interpretazione; per cui l’intera civiltà occidentale è radicata su un abbaglio di proporzioni gigantesche, consistente nell’aver misconosciuto un interpretare, intendendolo come testimonianza dell’apparire:

«L’Occidente non sospetta neppure che la volontà che le cose siano questa

disponibilità all’essere e al niente è la volontà che le cose siano niente, e che dunque in questa volontà si nasconda il senso fondamentale della morte»??.

Con la filosofia antica nasce dunque la civiltà dell'Occidente, da quel momento in poi costantemente rivolta a cercare rimedio al dolore dell’annullamento. La filosofia antica getta le basi del Cristianesimo, della scienza moderna, del pensiero contemporaneo. Severino non nega

le differenze, anche rilevantissime, tra queste forme di sapere; ha bene presente, infatti, che la previsione scientifica — che intende sostituirsi

a quella filosofica — a differenza della filosofia, che cercava di togliere

l’angoscia attraverso un sapere che aveva il compito di trovare il senso

e la logica all’accadere altrimenti

assurdo e incomprensibile,

non si

accontenta di un semplice sapere ma vuole intervenire praticamente, modificando e dominando il corso degli eventi. Ma è chiaro, indica Severino, che si può pensare di plasmare qualcosa solo se si crede che questo qualcosa sia plasmabile; e le cose sono plasmabili solo in quanto possono diventare altro. Solo in quanto passano dall’essere al non essere e viceversa. La scienza prolifera cioè sul terreno della filosofia. In conclusione. Ii tratto essenziale della metafisica antica rimane il fondamento di tutta la civiltà occidentale. E questo tratto è la fede nel divenire come entificazione del niente e nientificazione dell'ente. Il che spiega l’evoluzione, nei secoli, del sapere metafisico: la metafisica an-

tica si fondava su due convinzioni che si escludevano reciprocamente:

l'evidenza del divenire da una parte, e l’esistenza di un senso eterno e * E. Severino, La strada, la follia e la gioia, cit., p.114.

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Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

innegabile da cui quello stesso divenire era prodotto dall’altra. Ma quel

divenire, per come concepito fin dall’inizio, ossia come oscillazione tra essere e non essere, era incompatibile con un Senso eterno del Tutto.

Tale impossibile convivenza, non percepita come tale per secoli, ha infine condotto la filosofia all’inevitabile eliminazione di una delle due conviventi, quella ritenuta meno evidente e originaria: la ventà eterna. Quest'ultima, infatti, rende impossibile quel divenire, originario e inne-

gabile, per la salvezza del quale essa era stata concepita: «la verità tradisce il niente da cui le cose divengono: voleva essere la verità del divenire del mondo e invece rende impossibile e tradisce il divenire. Voleva essere il grembo che custodisce le uova del divenire e invece il grembo schiaccia le uova»?°, Accade cioè che, pur di non rinunciare al “mondo”, la metafisica si dispone a cambiare completamente fisionomia, fino ad affermarsi come antimetafisica per restare fedele a se stessa: «Oggi si rifiuta la metafisica, perché conduce all'affermazione di un ente im-

mutabile, che rende impossibile la visibile creazione umana; ma si continua a

pensare metafisicamente, perché si tien fermo il “mondo”, come orizzonte as-

soluto dell’essere, in cui l’uscire dal nulla e l’annullamento dell’essere (sempre più controllati dall'uomo) sembrano stare davanti agli occhi di tutti»?!.

2. Oltre l'epistéme Nel breve scritto dal titolo // muro di pietra Severino, rivolgendosi a un pubblico non specialistico, riflette sull’essenziale tendenza del pensiero contemporaneo a liberarsi dal muro di pietra, espressione utilizzata da Dostoevskij per indicare la fede illusoria dell’uomo di giungere a una verità ultima e definitiva del mondo. Il corso della storia occidentale si è alimentato dell’idea della Verità definitiva fino a due secoli fa, quando il pensiero filosofico (che pure in origine l'aveva evocata) ne ha mostrato compiutamente l’impossibilità, facendo crollare il muro di pietra della Verità sotto gli impietosi «colpi di martello» della riflessione critica. Questo far crollare è per Severino il tratto essenziale e distintivo del pensiero contemporaneo. Ma Severino mostra anche che lo smantellamento della verità e la verità smantellata hanno le stesse radici e la medesima origine: la na30 Jbi, p. 69.

* E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 149.

Oltre l’epistéme

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scita della filosofia greca. Verità antica e distruzione contemporanea

della verità si fondano sulle stesse essenziali categorie che la filosofia

nascente concepisce per la prima volta. Il nostro secolo si è dimenticato della grandezza della filosofia perché la sua stessa grandezza ha preparato «il destino cui la filosofia è andata incontro. La filosofia ha “meritato” di finire con l'essere considerata esplorazione allo sbaraglio»*?. La grande filosofia, quella che da Platone a Hegel ha inteso costruire l’epistéme come rimedio e soluzione alla contraddizione e al dolore del divenire, per Severino «ha meritato di essere travolta dalla comprensione e dominazione scientifica del mondo»*.

In questo passaggio Severino intende rilevare che era necessario che il pensiero occidentale negasse l’epistéme. Ma può fare questo ri-

lievo solo in quanto anche il suo pensiero si è a sua volta affermato come epistéme. Un’epistéme che però è ben distante da quella occidentale. Il pensiero occidentale, per liberare il divenire dai lacci di un sapere definitivo, si è portato oltre l’epistéme, così come Severino, per affermare la posizione innegabile dell’essere, si è portato oltre l’epistéme occidentale. La stranezza di questa circostanza risiede nel fatto che sia per il pensiero che intende negare l’esistenza della verità innegabile (filosofia contemporanea), sia per quello che invece intende esserne la testimonianza (Severino), l’epistéme occidentale è qualcosa che deve essere superato. Cercheremo ora di chiarire questi due sensi

dell’oltrepassamento,

nella diversità che li caratterizza e li definisce

essenzialmente. Nel corso dei secoli il sapere prende progressivamente le distanze dalla metafisica antica, assumendo posizioni che via via tendono ad allontanarsi sempre più dalla sua forma originaria; tuttavia le nuove e sopraggiungenti forme di sapere continuano a seguire la direzione di fondo che la metafisica ha stabilito una volta per tutte: il divenire rimane l'evidenza originaria che il sapere ha il compito di controllare e dominare. In questo senso Severino può dire che il pensiero metafisico ha «forma metafisica» quando afferma l’esistenza dell’Immutabile, mentre ha forma «antimetafisica» quando libera il divenire da quegli Immutabili. In ogni caso, qualunque forma assuma, al fondo di quel pensiero rimane la convinzione che il mondo sia il luogo in cui accade * E, Severino, La strada, cit., pp. 7-8. ® Ibi, p. 8.

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Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

il continuo passaggio tra essere e niente. Tutte le costruzioni immutabili e tutto il sapere filosofico fino a Hegel appartengono alla prospettiva assoluta dell’epistéme: il loro obiettivo è quello di individuare l’Origine di tutto e quindi eliminare l’imprevedibilità del divenire. Severino mostra che in relazione a tale obiettivo la filosofia hegeliana realizza la forma massima e insuperabile di sapere: il divenire anche per Hegel è certamente l’essenza del Reale, ma il divenire cui fa riferimento Hegel è un

divenire il cui contenuto è essenzialmente anticipato. Ciò che diviene è

infatti 1’Idea nel suo eterno e perenne riaccadere; tutto ciò che accade è

il ripetersi del categoriale: non c’è irruzione del “nuovo”, niente viene dal niente e torna nel niente. Dunque l’angoscia è radicalmente eliminata. Ma questo ripetersi, eternamente, del categoriale rende impossibile il divenire, che è appunto irruzione del nuovo. La lettura severiniana

della filosofia occidentale riconduce interamente il senso del pensiero

contemporaneo alla necessità di riaffermare il vero divenire: il pensiero contemporaneo, alla fine di un percorso millenario, libera il divenire dalle maglie della Verità assoluta e definitiva (che lo rendeva impossibile) e lo afferma come unica verità immediatamente evidente e assoluta-

mente innegabile. La verità originana è il divenire, libero e contingente, degli enti mondani: la verità originaria delle cose e del mondo è l’exsistentia come uscire dal niente e tornare nel niente. Abbiamo visto che questa convinzione sta alla base non solo della filosofia, determinando-

ne la nascita, ma anche di tutta la civiltà occidentale. Ebbene, proprio per questo motivo per Severino, parafrasando Nietzsche, lo spirito della filosofia contemporanea è riconducibile alla considerazione che il rime-

dio è stato peggiore del male (anche se il senso del discorso di Severino si porta ben oltre l’orizzonte nietzschiano).

Chiariamo. Severino non misconosce che la filosofia contempora-

nea si presenti sotto forme anche molto diverse tra loro; mostra tuttavia

che, al di sotto di questa diversità, sussiste una matrice comune es-

senziale: il rifiuto di quell’epistéme che era stata il senso della ricerca filosofica dal suo nascere, ciò che l’aveva guidata per secoli. Un rifiuto necessario e inevitabile, rileva Severino, poiché il fondamento ultimo

del cammino epistemico consisteva nella persuasione che l’esistenza

fosse divenire, cioè venire dal niente e tornare nel niente, e quindi tale

cammino era sorto e trascorso all’interno di una originaria lacerazione

insanabile tra la verità (eterna e definitiva) e l’esistenza (diveniente e

imprevedibile). Il pensiero contemporaneo espleta il compito inevitabile di far tramontare quel conflitto divenuto ormai insostenibile. Questo

Oltre l’epistéme

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è l'aspetto decisivo del pensiero contemporaneo, che lo allontana dal cammino epistemico. Ma in quell’allontanamento c'è un tratto di identità essenziale: la convinzione che l’esperienza attesti innegabilmente il processo di entificazione del niente e di nientificazione dell'ente.

Si è detto che all’inizio della civiltà occidentale per la filosofia si tratta di superare il mito e raggiungere la vera conoscenza, quella che è capace di salvare le cose dal niente. Cosa può esserci di più potente di ciò che è capace di salvare le cose dal niente? E così quella potenza, che sembra insuperabile, diventa l’obiettivo di ogni sapere (epistemico) dalla nascita della filosofia fino a Hegel. Ma il pensiero, ultimo e rimosso, su cui si fonda quel cammino è che le cose vengono dal niente e a esso ritornano; ed essendo fondante, quel pensiero non può in alcun modo essere cancellato: esso è il corpo e l’anima dell'Occidente. E dunque inevitabile che esso affiori e si rafforzi progressivamente, rendendosi sempre più presente e cosciente. Il suo affiorare fa sì che quella che era stata fino a quel momento la potenza suprema inizi a cambiare fisionomia. Se le cose vengono dal niente, è impossibile che insieme vengano da un luogo eterno e innegabile, che dia loro senso e salvezza dall’annullamento. Ma proprio perché le cose vengono dal niente, il loro divenire è libero, cioè liberato da ogni vincolo determinante e anticipante. Le cose che vengono dal niente non hanno radici; il loro divenire è assolutamente libero e imprevedibile. Il sapere epistemico salvava le cose dall’annullamento affermando un Senso eterno e originario del Tutto. In ciò stava la grandiosa poten-

za dell’epistéme, ma anche il suo limite: infatti, quel Senso eterno e

originario era innanzitutto un vincolo per quel pensiero, un limite per la capacità dell’uomo di controllare e dominare gli eventi. La potenza dell’epistéme era cioè una potenza limitata e vincolata. Liberando il divenire dall’Eterno, le cose diventano assolutamente disponibili a qualsiasi plasmazione: l’iniziale potenza inizia a concepirsi come mol-

to più potente, come infinita e senza limiti, assolutamente libera di produrre qualunque cosa, dal momento che ogni cosa, prima di essere, è niente. Questo è il punto fondamentale: in quanto ogni cosa, prima di essere, è niente, essa è assolutamente disponibile a essere plasmata; se non si deve rispettare nessuna configurazione preesistente, la creatività diventa assolutamente libera. Questo, ad esempio, è quello che accade nel pensiero di Nietzsche e Gentile. Ecco come la volontà di potenza occidentale, per adeguarsi al suo fondamento originario, si liberi inevitabilmente dell’epistéme e divenga infinita, senza limiti.

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Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

La filosofia contemporanea è dunque essenzialmente caratterizzata dal rifiuto di qualsiasi conoscenza che intenda porsi come assoluta e definitiva; un rifiuto che, nonostante si esprima in modi e forme anche molto diversi tra loro, è da ricondurre alla comune convinzione che epi-

stéme e divenire siano inconciliabili, perché la prima rende impossibile

il secondo. E il secondo è quanto di più evidente e innegabile ci sia. Il pensiero contemporaneo compie dunque questa liberazione (che nei testi di Severino prende sovente il nome di «liberazione dagli immutabili») in estrema coerenza con le sue origini”. Si tratta di un argomento

centrale nella rilettura severiniana, perché rivela il senso fondamentale

dell’intera civiltà occidentale: il nichilismo. La civiltà occidentale è la civiltà del nichilismo, ossia di quel modo di pensare e di vivere che identifica essere e non essere, credendo possibile l'impossibile. Quella occidentale è la civiltà del nichilismo perché, in origine, non ha saputo ascoltare il /ògos parmenideo, che sosteneva l'impossibilità di predicare l'essere al non essere e viceversa. Sulla base di quanto detto, si comprende perché Severino si occupi del percorso dell’Occidente in ogni suo scritto, anche in quelli più teoreticamente volti a testimoniare la verità dell’essere nelle sue complesse implicazioni logiche. Per questo motivo la liberazione dall’epistéme

non è analizzata solo negli scritti esplicitamente dedicati alla storia della filosofia”, ma anche in molti altri, tra i quali un posto di rilievo

è certamente occupato da La tendenza fondamentale del nostro tempo (Adelphi, Milano 1988) e // Nulla e la poesia (Rizzoli, Milano 1990).

Quest'ultimo scritto, in particolare, mette in luce l’importanza filosofica (e non solo letteraria) di Giacomo Leopardi. Per Severino, Leopardi è stato il primo pensatore occidentale a comprendere e ad affermare l'impossibilità dell’epistéme (ossia della conoscenza del vero quale si era configurata nella tradizione occidentale) all’interno di un’esistenza in cui l'essere è essenzialmente intrecciato con il non essere: «Per l’intera tradizione filosofica dell'Occidente la conoscenza vera (l’epi-

stéme) dell’esistenza dell’ Essere immutabile ed eterno salva dall’angoscia che

scaturisce dalla visione della nullità delle cose. L'eterno salva dall’angoscia. Il rimedio contro l’angoscia è l'eterno. E questo resta fermo anche per Leopardi. Solo che incomincia a pensare, portandosi oltre la tradizione filosofi* Cfr. infra, paragrafo 4.

* Cfr. in modo particolare i voll. 3 e 4, E. Severino, La filosofia contemporanea (cit.) e La filosofia futura, Rizzoli, Milano 1989.

Oltre l’epistéme

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ca dell'Occidente, che l'eterno non è il contenuto della conoscenza vera ma dell'illusione che accompagna la forza con cui il genio vede la verità [...]. Ciò che salva dall’angoscia non è la verità, ma l’illusione [...] infatti la verità non

vede l'eterno, ma il nulla»:9.

Qui sorge una questione importante. Pur sapendo bene l’impossi-

bilità del pensiero contemporaneo di parlare di eternità e innegabilità, Severino, contemporaneo tra i contemporanei, si chiama fuori dal coro

e continua a parlare di verità, eternità, innegabilità. Non c’è forse contraddizione in tutto ciò? Non è proprio Severino a ravvisare nel carattere antiepistemico della filosofia contemporanea un elemento di indiscutibile coerenza nispetto alle proprie premesse? E quindi a mostrare che la filosofia contemporanea è assolutamente coerente nel liberare il divenire da qualsiasi forma di immutabilità costruita su esso? Com'è

possibile che proprio nel suo pensiero ritorni quella verità assoluta,

innegabile, necessaria di cui, a suo dire, la contemporaneità si era giu-

stamente disfatta? Nonostante le apparenze, tra le due posizioni, quella del Severino filosofo contemporaneo che indica la coerenza della filosofia contemporanea nel rifiutare l’epistéme, e quella del Severino filosofo contem-

poraneo che riafferma la verità assoluta (e quindi una nuova forma di

epistéme), non c’è contraddizione ma, anzi, perfetta e necessaria coerenza. Si deve fare attenzione al diverso significato del termine epistéme: in tale diversità si gioca la differenza essenziale tra la filosofia di Severino e quella dell’intero corso occidentale. Severino, infatti, può continuare a parlare di verità assoluta e di eternità dell’essere, perché rifiuta le radici stesse del percorso logico e filosofico occidentale. La sua non è una delle affermazioni della verità dell'essere interne alle premesse occidentali, consistenti nell’accettazione del senso dell'es-

sere e del non essere poggianti sulla fede nel divenire come evidenza originaria, ma la negazione e il rifiuto radicale di quelle premesse, partendo dalla considerazione che «la verità dell’episréme è entificazione del niente». Il termine stesso “verità” presenta nei suoi scritti un significato non riconducibile alla verità di cui ha sempre parlato la filosofia occidentale. Il senso dell’innegabilità dell'epistéme occidentale non è «un tratto del destino della verità» (alla quale Severino fa invece

riferimento), perché il «non poter essere negato» non riesce a essere ——__—______

* E. Severino, /l nulla e la poesia, Rizzoli, Milano 1990, p. 151. " E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 166.

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Cap. I - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

tale. Anzi. Finisce con l’essere espressione della negabilità dell’inne-

gabile e quindi «l'alterazione più profonda del destino della verità»?*. Rigettate dunque le premesse, chiamatosi fuori da esse, il suo pensiero può ritornare a parlare di verità dell’essere, poiché quella verità non ha nulla a che fare con la verità dell'Occidente, mescolata dalla nascita con la sua negazione. Il suo pensiero non ha dunque nulla in comune non solo con la filosofia contemporanea ma con l’intero corso del pensiero occidentale inaugurato dalla filosofia greca. La sua critica a quel pensiero è letteralmente radicale. Ma la differenza tra epistéme occidentale e destino della verità non

riguarda soltanto il loro contenuto, bensì lo stesso significato di innegabilità (tale differenza «non riguarda soltanto i contenuti la cui affermazione

si presenta come

incontrovertibile, ma

la struttura stessa

dell’incontrovertibilità in quanto tale»). Con ciò Severino intende dire che la struttura dell’innegabile è essenzialmente diversa in relazione al destino della verità e alla storia dell’epistéme, perché i due significa-

ti formali di innegabilità sono «in relazione a contesti essenzialmente diversi e quindi, anche in quanto distinti da tali contesti, non possono essere tra loro identici»’”. Il significato di “innegabilità” nel pensiero severiniano e nel pensiero dell'Occidente non è cioè lo stesso significato. Mostrare il senso di questa affermazione chiama in causa molte conoscenze di cui ancora il lettore non dispone. Per questo si rimanda l’approfondimento di tale differenza ai prossimi capitoli. 3. L’Occidente e il nichilismo: gli abitatori del tempo Abbiamo visto che l'essenza del nichilismo occidentale consiste nel riconoscere esplicitamente come non-niente ciò che implicitamente viene posto come niente. In questo senso il nichilismo è la «struttura inconscia» dell'Occidente, ossia un modo di pensare che nega l’essere dell’essente non solo senza rendersene conto, ma addirittura nella convinzione di affermarlo. Il nichilismo occidentale non identifica intenzionalmente e consapevolmente essere e non essere, ma, al contrario,

li identifica proprio nell'atto in cui ritiene di contrapporli. Ma come è possibile negare l'essere dell’essente credendo di affermarlo? Pensandolo come ciò che è «quando è», e che non è «quando non è». In altri ® E, Severino, Oltrepassare, cit., p. 36.

Ibi, p.91.

L’Occidente e il nichilismo: gli abitatori del tempo

termini, la temporalizzazione dell’essere è il modo

47

fondamentale in

cui accade l’inconsapevole negazione nichilistica dell'essere dell'ente. Se, in generale, nei suoi scritti Severino sostiene che «l'essenza

dell'Occidente è l'alienazione della verità, l’essenza del nichilismo, la forma suprema della “follia»‘, ne Gli abitatori del tempo focalizza

l’analisi sul tempo quale fondamento essenziale del nichilismo. Per questo motivo capire il significato che il tempo ha per il pensiero occidentale significa capire l’essenza del nichilismo. «L'evidenza suprema, per la nostra civiltà, è che vi sia un tempo, il passato, in cui le cose sono diventate niente, e un tempo, il futuro, in cui le cose saranno daccapo niente: l'essere è nel tempo da cui è divorato. L’alienazione essenziale dell'Occidente sta sotto i nostri occhi ma si presenta come l’evidenza

suprema e indiscutibile»*. Questo stare sotto i nostri occhi è, parados-

salmente, il motivo per cui non riusciamo a vedere l'alienazione come

alienazione: ne siamo così abituati, «è talmente fuori discussione, che non vale più nemmeno la pena di prestarle attenzione»”?. Il tempo, ossia che esista un passato e un futuro come momenti in cui le cose non sono più o non sono ancora, è per l'Occidente qualcosa di indiscutibile; e lo è non perché sia innegabile, anzi, ma per l’abitudine millenaria a un modo di pensare che ha trasformato un’interpretazione in un’evidenza fenomenologica. Eppure, rileva Severino, «se si dicesse che il passato e il futuro sono il tempo in cui il circolo è quadrato, noi saremmo ben pronti a ribattere che non può esserci alcun tempo in cui si realizzi questa assurda identificazione»*, Di fronte alla contraddizione della temporalità dell'essere questa «sensibilità per l’assurdo» svanisce completamente: «noi pensiamo e viviamo le cose come fossero niente». La nostra civiltà è fondata sul tempo e perciò è nichilista: «il nichilismo è l’î100g, la dimora dell'Occidente. La sua struttura», L'Occidente dice «quando l'essere è», e crede così di affermare l’es-

sere; invece, rileva Severino, in quel dire dalle sembianze affermative è contenuta la negazione radicale dell’essere: dicendo «quando l’essere è», l'essere è concepito come qualcosa che potrebbe (e potrà) essere niente. Temporalizzando l'essere, l'Occidente non si accorge di negarlo. « E. Severino, La strada, cit.,p.i. © E. Severino, Gli abitatori del tempo, cit., p. 20. © Ibidem.

*° Ibidem.

“ Ibi, p.21.

48

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

Anzi. Non vuole affatto che l'essere sia niente e ne teme sopra ogni cosa

l’annullamento, fonte dell’angoscia più terribile e matrice di ogni dolore, L'Occidente non percepisce alcuna incompatibilità tra essere e tempo, poiché è convinto che la temporalità dell'essere sia un contenuto fenomenologico immediato e non l'esito di una ermeneutica:

per

l'Occidente sono i fatti a dire che l'essere è temporale. La temporalità dell'essere sembra attestata in modo incontestabile dall’apparire e per questo è vissuta come verità originaria e innegabile. Severino, invece, mette in luce come l’esser sé dell’essente costringa a negare che la temporalità sia un “fatto”, cioè un’evidenza originaria, e debba essere affermata come una interpretazione che, senza accorgersene, vuole l'impossibile. La struttura nichilistica inconscia dell'Occidente consiste nella «volontà che le cose siano tempo (e quindi niente)»*5. L'essere per l'Occidente è dunque temporalità: da Aristotele in poi, l’essere è quando è, e non è quando non è. In Essenza del nichilismo e ne Gli abitatori del tempo

Severino

mette in luce questo aspetto fondamentale del nichilismo, mostrando che temporalizzare l'essere significa pensarlo come niente. Il fondamento della critica severiniana è che l'essenza dell’essere è l’esistenza e che, pertanto, essere e tempo si contrappongono irriducibilmente: che le cose siano tempo, e quindi niente, è ciò che non può essere. Ripren-

dendo Parmenide, Severino afferma che l’identificazione di essere e

niente, significato ultimo della temporalizzazione dell'essere, è l'assurdo che non può accadere, è volontà dell’impossibile: «l'essere non

esce dal nulla e non ritorna nel nulla, non nasce e non muore, non c’è

un tempo [...] in cui non sia. Se era nel nulla non era; se ritornasse nel nulla non sarebbe (Parmenide, cfr. 20, fr. 8)». Il nichilismo occidenta-

le, «abitatore del tempo», crede nella verità originaria di quell’impossibile. Convincendosi dell’impossibile essenza temporale dell’essere,

gli abitatori del tempo sono «abitatori della fede». Questa fede, non

riconosciuta come tale, è la struttura inconscia dell'Occidente. Anche per il nichilismo essere un ente non significa essere niente (cfr. prossimo paragrafo). Di conseguenza, quando l'Occidente afferma che un certo ente non è più, afferma che un certo non-niente è niente. Ma in questa identificazione contraddittoria esso non vede alcuna contraddizione. Come è possibile che l’esplicita identificazio4 Ibi, nota introduttiva, p. 7. * E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 28.

L'Occidente e il nichilismo: gli abitatori del tempo

49

ne di ente e niente non sia vissuta come una contraddizione? Ciò è possibile proprio perché c'è di mezzo il tempo. E dicendo «di mezzo» ci si riferisce per l'appunto alla mediazione operata dal tempo. Infatti,

l'Occidente non ravvisa alcuna contraddizione nell’affermare «quando

l'ente non è più, quando è diventato niente», proprio perché l’identifi-

cazione essere-non essere non è diretta ma mediata dal tempo: l'essere

non è immediatamente niente, ma lo diventa nel tempo e col tempo. In quanto inserita nel tempo, l’identità contraddittoria tra essere e niente non pare più contraddittoria: il diventare niente dell'essere nel tempo è giustificabile e comprensibile. E così Aristotele poteva formulare il principio di non contraddizione dicendo che l'essere è quando è, e non è quando non è. Severino, pur riconoscendo ad Aristotele il merito di avere mostrato che ogni tentativo di negare il principio di identità-non contraddizione è un’autonegazione che implica ciò che intende negare‘, ne critica la temporalizzazione, che finisce per dare luogo alla peggiore negazione di ciò che è «verità»: a causa della temporalizzazione del senso dell'essere, la formulazione aristotelica del principio di non contraddizione è «la forma peggiore di contraddizione: proprio perché la contraddizione viene nascosta nella formula stessa con la quale ci si propone di evitarla e di bandirla dall’essere. Questo principium firmissimum chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati; è un giudice che, colpevole dei delitti più gravi, punisce i reati di poco conto e che infine nessuno ha intenzione di commettere». Dimorare nel tempo significa dunque ritenere non contraddittorio ciò che è contraddittorio. L'idea del tempo come fondamento dell’essere trasforma in accettabile ciò che è inaccettabile. Per questo, di fronte al rilevamento della contraddizione consistente nell’identità tra essere e niente, l'Occidente controbatte con l'evidenza innegabile della temporalità dell’essere: è un fatto che l’essere sia nel tempo, e il tempo

è il medio che toglie la contraddizione tra essere e niente. L'essere è nel tempo, quindi è quando è e non è quando non è. Ravvisare in ciò un problema sembra solo «una falsa sottigliezza dell’intelletto»*: infatti, affermare che l’essere non è quando non è, non equivale ad affermare che l’essere non è quando è. L'Occidente, cioè, ritiene che la temporalità dell’essere non tolga spessore ontologico; dire che esiB

‘’ In merito a tale questione cfr. E. Severino, /! principio di non contraddizione, La Scuola, rescia 1986. # E. Severino, Essenza del nichilismo, cit.. pp. 22-23.

* E. Severino, Gli abitatori del tempo, cit., p. 29.

50

Cap. 1- Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

ste un tempo in cui l'essere non è, non equivale all’identificazione di

essere e non essere. L'Occidente è convinto che quando l’essere è, è pienamente essere; ed è pienamente essere anche se prima e dopo era e sarà niente. L’esser-sé delle cose è nel tempo, è cioè precario, instabile, continuamente minacciato dal proprio negativo; ma, ciononostante, nel

tempo in cui il suo negativo non ha la meglio su di esso, tale essersé è un vero e autentico esser-sé. Ebbene,

Severino mette in discus-

sione proprio la legittimità di questo autentico esser-sé, dal momento che autentico significa «quel che in verità compete a qualcosa, ossia l’appartenenza alla verità»”°: l'alienazione essenziale consiste appunto nella persuasione che esista un “quando”: «la civiltà occidentale cresce all’interno della persuasione che l’ente sia nel tempo e cioè che l’ente sia niente». Il nichilismo è per l’appunto la persuasione (inconscia) della nientità dell’essente e dunque l'alienazione essenziale. La parola tempus, come templum, deriva dal verbo greco tépvetv, che significa separare. Originanamente tempus e templum separano il sacro dal profano. Tuttavia, rileva Severino, «il tempus è una separazione abissalmente più radicale»5?: esso separa, infatti, il “ciò che” dal

suo “è”. L'essenza del tempo è questa separazione. Il kpòvoc greco (da xpivew, separare) è il fondamento implicito delle civiltà arcaicopreontologiche: «è perché l’uomo vive nel tempo, cioè nell’alienazione essenziale, che egli costruisce dei templa ed evoca il sacro». In quanto l’uomo vive nel Tempo, costruisce templi, cercando il senso eterno (salvifico) nel sacro. E quando il sacro mostra la sua impotenza di fronte all'annullamento, si affida a un rimedio più potente: la tecnica fondata sulla scienza moderna", «Il sacro e la tecnica sono i due modi fondamentali in cui chi vive nel tempo,

cioè nell’alienazione essenziale, cerca la propria salvezza, cerca cioè di sal-

vare quell’ente, che è il suo mondo e la sua vita, ancorandoli all'essere. Una salvezza impossibile, perché essa non è l’oltrepassamento dell’alienazione, ma il tentativo di sopravvivere all’interno dell’alienazione»*5.

Non si può salvare il mondo dall’annullamento se non si esce dal tempo, perché, come abbiamo visto, il tempo è la separazione dell’ente # E, Severino, Oltrepassare, cit., p. 393. 5 E. Severino, Gli abitatori del tempo, cit., p. 29. * Ibidem.

5 Ibi, p. 30.

* Cfr. infra, v,4. 5 E, Severino, Gli abitatori del tempo, cit., p. 30.

L’Occidente e il nichilismo: gli abitatori del tempo

SI

dal suo essere; pertanto, così alienato dal suo essere, l'ente non può essere salvato dall’incombenza del niente: in quanto separato dall'essere,

quell’ente che si cerca di salvare è niente. Nella parte conclusiva del I capitolo de Gli abitatori del tempo, intitolato Tempo e alienazione, Severino nileva che «se il tempo è l’alienazione essenziale in cui cresce l’esistenza, allora il dominio scientifico tecnologico dell'ente [...] non è un fatto, ma il destino richiesto dall'es-

senza del tempo». Infatti, solo quando l’ente è nel tempo (e dunque è niente), «può sorgere il progetto di guidare l'oscillazione tra l’essere e il niente». Ed è, questo, un progetto inevitabile: l’abitare il tempo è l'essenza di questo progetto. Volere che l’ente sia tempo è «la forma originaria di volontà di potenza»; la volontà che l’ente sia separato dal suo essere non può che diventare, conseguentemente, volontà che l’en-

te sia controllato e guidato nel suo passaggio dall'essere al niente. Si tenta di dominare il tempo in quanto si è abitatori del tempo. In questo senso Severino può giustamente mostrare che storicismo e antistoricismo si muovono all’interno del medesimo «storicismo essenziale»: la temporalità dell’essere. Dimorare nel tempo significa dunque dominare. E «il dominio richiede la distruzione di ogni forma di dominio che si riveli impotente». Abitare il tempo significa stare nella logica della potenza, e questa «esige che ogni potenza tramonti per opera della potenza più potente» (cfr. prossimo paragrafo). La distruzione dei valori per opera della tecnica «è il destino che non può essere evitato». Così «il trionfo della tecnica è il trionfo del

nichilismo» e dunque non «l’oblio delle nostre radici», ma la «realizzazione più rigorosa» dell'abitare nel tempo. Ogni critica della tecnica operata da chi dimora nel tempo è una critica al proprio fondamento. Come si vede il tempo è la categoria fondamentale. Il nichilismo non si avvede che la temporalizzazione dell’essere equivale alla identificazione tra essere e niente; e, per questo, pur credendo di pensare l'ente, in fondo lo concepisce come niente. L'Occidente è nichilista anche quando pensa il concetto di eternità: «“Aeternus” è sincope di “aeviternus”, e l'“aevum” è l’aidv, l’esser sempre, l'impossibilità di non essere. Ma questa impossibilità si deve riferire alla to-

_—__—_ % Ibidem.

9 Ibi, p.3l. 58 Ibi, p.32.

52

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

talità dell’essere, e non a un ente privilegiato — onde l’aidv greco è la stessa espressione del nichilismo metafisico»?9.

Apriamo una parentesi. Una domanda ricorrente, tra i critici di Severino, è la seguente: se il divenire è impossibile, perché prima di Severino non se ne è accorto nessuno? È lo stesso Severino a offrire gli elementi per rispondere: se questa volontà dell’impossibile è stata ed è un delirio collettivo, ciò ha delle ragioni che superano le capacità persuasive e diffusive del senso comune; se quel delirio è potuto accadere nei termini in cui è accaduto, ciò è dovuto, da ultimo, a un limite

strutturale della stessa verità, che in qualche modo ha portato fuori strada tutto l’Occidente®®. Una volta misconosciuta la verità, ha avuto

la meglio la temporalizzazione dell’essere operata la prima volta in modo compiuto e definitivo da Aristotele con la sua formulazione del

principio di non contraddizione. Per questo motivo credere al divenire come essenza della esistenza significa essere un abitatore del tempo ovvero un nichilista. La novità assoluta del pensiero di Severino, rispetto a tutto il pensiero filosofico occidentale a partire da Platone e Aristotele, risiede nell’aver messo in luce che l’opposizione tra essere

e non-essere è assoluta e cioè eterna. Non può essere temporalizzata, poiché temporalizzare l'essere dell’essere significa identificarlo con il non essere. Il tempo, rileva Severino, «è l’essenza stessa dell’alienazio-

ne [...] e l’essenza dell’alienazione è l'alienazione essenziale, infinita-

mente più radicale e profonda di ogni alienazione religiosa, economica, psicologica, esistenziale»®!. Il pensiero greco ha relazionato il tempo ai significati essere e nonessere. Da quel momento in poi l'essere è stato pensato come ciò che è nel tempo e dunque come ciò che è, nel suo fondo, identico al niente.

Questo pensiero sotterraneo sarà sempre meno sotterraneo, col passare

dei secoli, e darà forma all'intero corso della civiltà occidentale. 4. Contraddittorietà e coerenza del nichilismo

Si è visto che il nichilismo occidentale non vuole, esplicitamente e

intenzionalmente, affermare l’identità di essere e niente. Ritiene, anzi, 5 E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 197. ® Cfr. infra, v. ® E, Severino, Gli abitatori del tempo, cit., p. 26.

Contraddittorietà e coerenza del nichilismo

53

che essi si contrappongano essenzialmente. Proprio in quanto ritiene di pensare l'essere come ciò che si oppone al non essere, non scorge il

proprio intervento interpretativo nell’idea di un divenire come continua

oscillazione tra essere e non essere e si convince che il divenire non dipenda dal suo modo di pensare, ma che sia un “fatto”, ossia un contenuto originario, qualcosa di immediatamente attestato dall’esperienza.

Il nichilismo occidentale consiste pertanto nel non accorgersi che il divenire non è un’evidenza originaria ma un'interpretazione: si crede che sia un'evidenza originaria proprio perché non si riconosce l’interpretazione come tale. Se la si riconoscesse, si riconoscerebbe la non verità del divenire. Con tutto ciò che ne deriverebbe. Innanzitutto

la minaccia estrema dell’annullamento svanirebbe: se si sapesse che l'annullamento è il contenuto di un modo di pensare errante, esso non

rappresenterebbe più la fonte estrema d’angoscia e di dolore. Il dolore e l'angoscia (legati al divenire) dipendono pertanto dalla convinzione che non si ha a che fare con un semplice modo di pensare, ma con la realtà in carne e ossa. La fede nel divenire, mostra Severino, è un contraddirsi che ha per contenuto l’impossibile e non se ne accorge: si può credere che il divenire sia verità solo in quanto non ci si accorge che quel credere è un

volere l'impossibile. Tutti i problemi e le angosce dell’uomo occidentale hanno la loro matrice nel non riconoscere un’interpretazione come interpretazione. Ma dunque tutti i problemi e le angosce dell’uomo occidentale si fondano su qualcosa di impossibile: l’uomo occidentale è un re che si crede mendicante.

Il nichilismo occidentale è autocontraddizione. Ma questa autocontraddittorietà dà luogo a una struttura che tende progressivamente ad adeguarsi al proprio fondamento. Il nichilismo tende a farsi sempre più coerente con la propria origine. Severino analizza tale processo in

modo particolare in Destino della necessità®?. In origine, si è visto, il

nichilismo occidentale si configura come epistéme: partendo dalla con-

vinzione che le cose siano innegabilmente divenire, cioè oscillazione

tra essere e niente, il pensiero filosofico nascente cerca di trovare in quel divenire un senso eterno che salvi dall’annullamento e dalla contraddizione a esso legata, dia senso all’esistenza e così lenisca il dolore

e l'angoscia. Ma questo senso eterno è inconciliabile con il senso del

divenire su cui si fonda. L'esigenza di un senso eterno-salvifico nasce © Cfr. supra, n, 1 e infra, vu, 1.

54

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

dall’idea del divenire come dimensione originaria in cui l’essere viene

dal niente e torna nel niente; è su questa base che la filosofia si affer-

ma come ricerca della verità eterna e innegabile. Ma è evidente che in questo modo la metafisica, affermandosi inizialmente come epistéme, inaugura una convivenza mortifera con la propria antitesi: infatti, se

esiste il divenire, non ci può essere epistéme e viceversa. L'eterno rende impossibile l'innovazione continua del divenire: è la forma che cristallizza e uccide il movimento fluido e inarrestabile del divenire. È dunque la metafisica greca, con l’ontologia, a partorire il pensiero fondante tutti gli altri pensieri, ossia la convinzione che il divenire sia la realtà più evidente; anche se, subito dopo, cerca di conciliarlo con un

essere eterno che, originariamente concepito per salvare e significare il divenire stesso, ottiene l’effetto contrario, ossia quello di ucciderlo. Ma

poiché fin dall’inizio il divenire è ritenuto la verità originaria, è inevitabile che l’epistéme tramonti, ossia che «l’epistéme si liberi dall’epistéme». Quest'ultima affermazione può sembrare poco comprensibile, ma, se si segue Il ragionamento di Severino, è chiara e conseguente. Infatti, se con i termini “metafisica” ed “epistéme” si intende il pensiero filosofico aurorale che partorisce sia la verità originaria del divenire sia la verità innegabile dell'Essere eterno, allora, anche se il tramonto dell’epistéme si presenta come antimetafisica, esso deve essere inteso come la forma “non metafisica” della metafisica. Severino rileva l’importanza decisiva di questo tratto del pensiero non-metafisico; tratto che resta per lo più sottratto, come vedremo, al pensiero contemporaneo, che in ciò ha per l’appunto uno dei propri limiti. Emergono dunque due aspetti fondamentali del nichilismo: la sua contraddittorietà e la sua coerenza. La coerenza è con quella contraddizione di fondo consistente nell’affermazione del divenire come evidenza originaria; è la coerenza, cioè, con la propria radice più profonda, in nome della quale il pensiero metafisico cambia fisionomia, nega se stesso, assume la forma della riflessione antiepistemica contemporanea, del sapere ipotetico e probabilistico affermatosi con la scienza moderna. Ebbene, quel nuovo modo di rapportarsi alla conoscenza non è affatto nuovo; è solo la forma adeguata che il sapere assume per restare conforme al proprio fondamento. Nel cammino della metafisica emerge sempre più che il divenire, come processo storico in cui l’ente esce dal niente e vi ritorna, «non

può essere accidentale e irrilevante rispetto al senso del tutto, ma è lo

stesso processo in cui questo senso va creandosi e che non può essere

Contraddittorietà e coerenza del nichilismo

55

in alcun modo anticipato da una realtà metastorica»*, Tale processo

va pertanto tutelato. E così, a differenza dell’epistéme, la conoscenza scientifica non si pone come un'anticipazione vincolante, ma come un anticipare che cerca di adeguarsi in maniera coerente all'essenziale ve-

nire dal niente: si alimenta di risultati provvisori e parziali e lascia che l’ente sia aperto a ogni possibilità. L’ipotetismo della scienza moderna è dunque il «risultato inevitabile del contrasto che costituisce l’epistéme greca»*. D'altra parte era inevitabile che morisse quel sapere che rendeva impossibile ciò che voleva significare e salvare. Per controllare e guidare un ente che nasce dal niente, non si può avere un approccio epistemico. Avere un tale approccio significa infatti ritenere che l’ente non venga dal niente: per l’epistéme le cose non vengono dal niente, bensì da un essere eterno.

Ma non venendo dal niente, esse non sono realmente libere, ossia il

loro divenire non è veramente possibile: l’epistéme uccide la vera storicità dell’ente perché nega che esso venga dal niente (anche se in fondo lo pensa). Il tentativo epistemico di dominare il divenire è pagato con la morte del divenire stesso, ossia con la morte del fondamento su cui tale tentativo € sorto. La condizione del divenire è l'affermazione della derivazione dell'ente dal niente: solo se viene dal niente, l’ente può esse-

re libero e imprevedibile. Solo così la storia può accadere come storia. Per adeguarsi al proprio fondamento, e cioè garantire la storicità dell'esistenza, il nichilismo deve pertanto sostenere la derivazione delle cose dal niente e deve innanzitutto tutelare il niente dalla sua entificazione: «nella sua essenza, il pensiero del nostro tempo afferma l’inesi-

stenza di ogni “immutabile” ed “eterno” dell’epistéme per evitare che il niente sia un ente — per evitare l’“entificazione del niente”»£5. Il pensiero contemporaneo nega la verità epistemica proprio per non identificare il niente con l’ente. Infatti, affinché le cose vengano dal niente, il niente deve essere contrapposto all'ente: se il niente non fosse contrapposto all'ente, l'ente non si distinguerebbe dal niente e nulla esisterebbe. Il nichilismo, per essere se stesso, deve sostenere la derivazione dell’ente

dal niente; ma per sostenere la derivazione dell'essere dal niente, il ni-

chilismo deve implicare la contrapposizione di essere e niente. Pertanto, se il divenire esiste, e di ciò il nichilismo non ha dubbi, esso deve impli-

care che ente e niente siano identici ma anche contrapposti. —____

© E, Severino, Destino della necessità, cit., p. 48.

% Jbi, p. 49.

© E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 377.

56

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno Il nichilismo coerente, quello che ha assunto forma antiepistemica,

è dunque fondato su una doppia convinzione: che l’ente sia niente (in quanto viene dal niente), e che l’ente non sia niente (proprio perché,

per venire dal niente, deve essere altro dal niente). Per questo Severino può affermare che «anche nella coerenza, gli abitatori dell'Occidente

sono Sixpavot (“dalla doppia testa"; Parmenide, fr. 6, cfr. 5)». Su questa doppia implicazione però vanno fatte delle precisazioni. Essa non possiede il medesimo grado di consapevolezza: la nientità dell’ente è inconscia e deve restare tale, pena la morte del nichilismo. Se,

infatti, la nientità dell'ente (che guida l'Occidente) venisse a galla, il

nichilismo vedrebbe la contraddizione di fondo che lo guida e con ciò comprenderebbe la propria assurdità e impossibilità: sarebbe cioè condotto al tramonto. Invece, che l’ente sia contrapposto al niente è una posizione che può (e deve) essere cosciente. Interessante notare che quest’ultima posizione non è altro che il rovesciamento della prima: all’interno della prospettiva nichilistica, l'opposizione essere-niente è una identificazione essenziale. In questo senso, rileva Severino, nella contrapposizione nichilistica di essere e niente, affiora, capovolto, l’inconscio irraggiungibile (consistente nell’identità di essere e niente). La coerenza interna del nichilismo, ossia il suo non poter negare il fondamento su cui poggia per continuare a esistere, esige dunque la negazione di qualsiasi verità definitiva. Ma è legittimo da parte di chi intende affermare che non esiste nessuna verità definitiva, e dunque da parte di chi si è chiuso in una posizione scettica, affermare che almeno una verità assoluta e definitiva esiste, e cioè il divenire? Questa è un’obiezione che può essere rivolta alla liberazione ni-

chilistica degli «immutabili», ossia al «nichilismo coerente», solo in

quanto ci si fermi all’apparente scetticismo cui pare dar luogo: se il nichilismo fosse semplicemente uno scetticismo, tale obiezione sarebbe

certamente corretta, poiché mettere in dubbio tutto porta con sé anche la messa in discussione del divenire come realtà indiscutibile. Severino mette in luce l'infondatezza di tale obiezione. Il nichilismo coerente si chiude solo apparentemente in una posizione scettica: dietro quell’apparente scetticismo c’è in realtà la «positività del riconoscimento del “mondo” del divenire»*. Il rifiuto di ogni verità definitiva è l’espressione dell’affermazione che esiste un’unica verità definitiva: il diveni* E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 54. © Ibidem.

Contraddittorietà e coerenza del nichilismo

57

re. In altri termini: la negazione dell’epistéme passa necessariamente

per la riaffermazione di una verità assoluta, definitiva e innegabile: la

verità del divenire. L'unico modo per negare l’epistéme è quello di affermare epistemicamente il divenire Severino rileva che la civiltà della tecnica non è cosciente del reale motivo per cui si vuole liberare dell’epistéme. Essa non sa che la nega-

zione dell’epistéme ha il suo reale fondamento nell’impossibilità, cui quest’ultima dava luogo, della derivazione dell’ente dal niente. Questo

fondamento è un contenuto non consapevole, un contenuto “in sé”.

Tuttavia, è un contenuto che «tende a uscire dall’inconscio, verso la

luce della coscienza che tale civiltà ha di sé — tende a trasformarsi da un “in sé” in un “per s€”»°f. Per questo aspetto il nichilismo non è ancora trasparente a se stesso: la civiltà della tecnica scorge solo la distanza tra sé e l’ontologia

greca, ma non vede il legame essenziale che le unisce. Così, ignorando

il proprio legame con l’ontologia greca, percepisce la differenza da

essa come un semplice fatto: «sino a che la civiltà della tecnica non

esce dal suo antifilosofismo ingenuo e non diviene cosciente del legame essenziale che la unisce all’ontologia greca [...], non esprime altro che il semplice farro della differenza [...], un fatto che, come tale, rimane quindi aperto alla possibilità di un ritorno della tradizione». La scienza modema e il pensiero contemporaneo mettono in luce i limiti dell'epistéme e ne prendono le distanze senza rendersi conto di esserne lo sviluppo più coerente: «pensando il senso radicale dell'essere e del nulla la filosofia ha preparato il campo da gioco su cui verrà condotto

ogni gioco della volontà di potenza dell'Occidente e, ormai, dell’intero

Pianeta»”. L'antiepistéme è cioè figlia dell'epistéme: tutti gli antagoni-

smi apparsi lungo la storia dell'Occidente (contemplativismo metafisico e prassismo contemporaneo, cristianesimo e anticristianesimo, ecc.) «si presentano come radicalmente inconciliabili, ma il loro è l’antago-

nismo che sussiste tra il seme e il frutto»”!. La distruzione dell’epistéme è inevitabile dunque perché la volontà di potenza, che «vuole l'evidenza del divenire», per vivere deve ne-

gare tutto quello che, anticipandolo, minaccia il divenire libero. Il su-

peramento dell’epistéme non significa però eliminazione di qualsiasi ® Ibi, p. 55, ® Ibi, p. 56.

® E, Severino, Il muro di pietra, cit., p. 12.

” E. Severino, Gli abitatori del tempo, cit., p. 174.

58

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

forma di anticipazione. Anche il sapere scientifico-ipotetico dà luogo a una certa forma di anticipazione e di entificazione dell'ente. Ma con una differenza, rileva Severino:

che tale entificazione «è ridotta

al minimo»”?, Dunque l’“anticipazione-entificazione è ridotta al minimo”. Ma non completamente assente. Infatti, una certa soglia di anticipazioneentificazione è indispensabile affinché si dia oscillazione dell’ente: se la si riducesse a zero, l’ente e il niente sarebbero assolutamente iden-

tici. Come già si diceva, poiché è necessario che il nichilismo implichi anche l’opposizione essere-non essere (oltre alla loro identificazione),

è necessario che accada anche una certa entificazione, perché l’enti-

ficazione è il fondamento dell’opposizione: solo se l’ente è qualcosa,

può contrapporsi al niente e dare luogo al divenire; ma, per contrappor-

si al niente, deve uscire dal niente e cioè deve entificarsi. Solo se l'ente

viene dal niente c’è divenire, e venire dal niente significa per l'appunto

entificarsi. Se non si entificasse, l’ente resterebbe niente, e così non ci sarebbe contrapposizione; quindi la vita come divenire, come oscilla-

zione tra essere e non essere, non esisterebbe. In questo modo però cambia anche la fisionomia del niente”?, Nel paragrafo precedente si è visto che concependo l’essere come tempo si pensa che l’ente sia niente. Ora, per la stessa ragione, si evidenzia l’altra parte della questione: concependo il niente come ciò da cui l'ente deriva, quel niente non è concepito come un vero niente: «nell'apertura del senso del divenire, il niente (ciò che ancora è niente) appare infatti originariamente come ciò che, nel divenire, è destinato a diventare un

non-niente, cioè ente. Il niente appare cioè come originariamente raggiunto dalla legge ineludibile costituita dal senso stesso del divenire». Severino mostra che il niente raggiunto dalla legge del divenire non

può essere un niente assoluto. Il divenire, in altre parole, esiste solo se

il niente non è nihil absolutum: la legge del divenire è l’anticipazione fondamentale che sa che ciò che ancora è niente è destinato a diventare ente, Quella anticipazione è il fondamento e la legge del divenire. L’entificazione del niente non riguarda solo il niente che ancoraè

niente, ossia il niente in attesa di entificazione, ma anche il niente che è

stato ente: «l'ormai niente continua ad essere sottoposto alla legge ine-

" E, Severino, Destino della necessità, cit., p. 58. ? L'affermazione heideggeriana del Ni-ente esprime proprio questa consapevolezza (cfr. infra, vi, 12).

* E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 58.

Contraddittorietà e coerenza del nichilismo

59

ludibile che esso sia un essente stato ente»”*. Infatti, il suo essere stato un non-niente fa sì che esso sia sempre un non-niente, anche quando

cioè è diventato niente: il suo essere stato qualcosa, cioè, non lo potrà mai rendere un niente assoluto. Sarà sempre la nientificazione di un

certo ente e, in quanto tale, quel niente sarà sempre, in qualche modo,

un niente entificato.

Una soglia di entificazione del niente deve dunque permanere affin-

ché si possa avere il divenire. Il nichilismo coerente riduce al minimo la posizione contraddittoria del niente, ossia la sua entificazione, ma non la può superare. Tale entificazione deve permanere e non completamente consapevole: il nichilismo, rileva Severino, non si può rendere conto

«dell’impossibilità di liberare totalmente il niente dall’entificazione»”’. Se si rendesse conto di tale impossibilità, il niente figurerebbe come

ciò che deve «adeguarsi alla necessità, stabilita dal senso stesso del divenire, di diventare un ente (e un essere stato un ente)»”.

Nel «per sé» del qualcosa che non è l'impossibilità della cui il nichilismo non

nichilismo, ciò che esce dal niente deve essere in alcun modo predeterminato. In questo senso, non entificazione del niente è una impossibilità di potrà mai diventare cosciente. C'è pertanto, anche

al fondo del nichilismo coerente, un’incoerenza ineliminabile; anzi, la

sua coerenza consiste per l'appunto in questa inevitabile incoerenza:

l’entificazione residuale, inestirpabile, del niente. Per essere coerente

deve eliminare ogni anticipazione-entificazione; ma per esistere come affermazione coerente del divenire non può eliminare quella anticipazione-entificazione che consiste nella entificazione (seppure ridotta al minimo) del niente. Dovrebbe eliminare la destinazione del niente

all'ente; ma se la eliminasse, eliminerebbe lo stesso divenire.

A tale proposito Severino rileva che il niente deve uscire dal niente

per andare incontro a una entificazione che dà un senso unitario all’accadere: tutto ciò che accadrà, avrà «forma» di ente, sarà cioè un nonniente. Nemmeno il pensiero delle differenze (Weber) o lo scientismo

più puro e specializzante possono uscire da questa anticipazione, che

non solo entifica, ma unifica, in senso trascendentale, l’accadere come

accadere di non-niente. In questo senso Severino afferma che nel nichilismo coerente «l'eliminazione dell’identità trascendentale dell'ente in " Ibidem.

* Ibi, p. 59.

" Ibidem.

60

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

quanto ente è soltanto apparente»”*. L'identità dell’ente come tale è il tratto comune a ogni forma di nichilismo: «]l senso nichilistico del trascendentale ontologico [...] è l'orizzonte all'in-

terno del quale già da sempre si mantiene la specializzazione scientifica. Lo scientismo antiontologico e antitrascendentalista costituisce una fase immatura nel processo di costituzione della civiltà della tecnica come espressione

rigorosa e coerente del nichilismo».

Entificazione del niente e nientificazione dell’ente sono dunque i due momenti

essenziali del divenire. Nientificando

l’ente, si entifica

il niente; entificando il niente, si nientifica l’ente. L'ente è niente, il niente è ente. Questa è /a legge essenziale del divenire. L’entificazione del niente, intesa come legge a cui il niente si deve adeguare, è for-

malmente distinta dall’entificazione del niente che accade nell’accadere dell’ente: quest’ultima entificazione, rileva Severino, è «formalmente distinta dall’entificazione del niente costituita dalla posizione

della nientità dell’ente, che è l'inconscio della fede nell’esistenza del divenire», Il che vuole dire che il niente, ancor prima di essere en-

tificato nell’ente che accade, è pensato come non-niente, è originariamente entificato dalla legge del divenire che, come abbiamo visto, per rendere possibile il divenire, si costituisce come l’anticipazioneentificazione originaria. Allo stesso modo l’ente che diventa niente era niente ancora prima di diventarlo. Il nichilismo non si accorge della nientità originaria dell'ente e della entità originaria del niente e può così riferirsi a un esser ente e a un esser niente non contraddittori, purì, da cui può discendere l’oscillazione del divenire. Ciò che il nichilismo non può accettare, infatti, è che il diventare niente dell’ente sia il diventare niente del niente e, viceversa, che il diventare ente del niente

sia il diventare ente dell’ente. Non lo può accettare, perché perderebbe l'opposizione essere-non essere su cui si fonda il divenire. La distruzione di ogni innegabilità-necessità è anche la distruzione di ogni nesso necessario tra la parte e il tutto: negare, infatti, che esista una verità definitiva (diversa dal divenire stesso), significa negare che esista un senso del tutto che anticipa l’esistenza di ogni ente. La coscienza della storicità dell’ente porta necessariamente alla distruzione di ogni nesso ® Ibi, p. 60. "9 Ibi, p. 61. 3 /hi, p. 62.

Contraddittorietà e coerenza del nichilismo

61

necessario parte-tutto (e con esso alla negazione di tutte le argomentazioni volte a rilevare l'assurdità della negazione di tale nesso).

Ma anche qui, come visto in precedenza e per gli stessi motivi, la

concezione storicistica dell'ente è affermazione di se stessa come nes-

so necessario: la storicità come totalità. La liberazione da ogni immu-

tabile è cioè anche affermazione che la libertà e storicità del divenire

è la totalità. Per questo nel nichilismo il rapporto parte-tutto ha due significati:

uno positivo e uno negativo. Quello positivo è tale perché, se anche si

pone come un vincolo, è in realtà un vincolo che s-vincola: infatti, solo

affermando che tutto è storicità, e dando a quel “tutto”’ significato di

assolutezza, è possibile garantire il divenire assolutamente libero degli enti. E qui libero significa innanzitutto liberato da ogni forma immutabile. Possiede anche un significato negativo proprio perché ogni vincolo parte-tutto, diverso dal vincolo che afferma la stoncità dell'ente, è un vincolo che non libera ma vincola; e vincola a quelle forme di immutabile che, per l'appunto, rendono impossibile la verità originaria del divenire. Tutti i vincoli diversi dall’affermazione dell’innegabilità del divenire sono veri vincoli; l'affermazione che tutto è divenire e storia è l’unico vincolo possibile, perché è un vincolo che libera, che rende possibile e soprattutto garantisce il divenire come tale. Chiarendo in che senso garantisce, si risponde anche a una possibile obiezione. L'obiezione suona così: il vincolo che svincola è pur sempre un vincolo e cioè una forma di anticipazione dell’ente. Così anticipato, l’ente non perde quella libertà che il nichilismo intende affermare? L'obiezione è puramente astratta e formale: non comprende cioè i termini della questione per quello che concretamente sono. Infatti, per poter affermare che non può esistere nessuna anticipazione vincolante, si deve poter escludere e negare l’esistenza di vincoli anticipatori; ma

per poterlo fare, si deve inevitabilmente dare luogo a una anticipazione. Se così non fosse, se cioè il nesso parte-tutto non fosse anticipato

e con ciò garantito, il nichilismo coerente non potrebbe più affermare

che ogni ente è essenzialmente divenire: negando che esiste un legame tra il tutto, come divenire, e ogni ente, e che questo legame è per l’appunto la storicità che ogni ente è e non può non essere, il divenire

degli enti sarebbe una semplice possibilità e non verità originaria e in-

negabile. Per questo, affermare che il divenire è verità innegabile, ossia che la storicità è il senso del tutto, significa affermare che almeno un

62

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

nesso parte-tutto esiste. La negazione dell’esistenza dell’Immutabile può avere luogo solo in quanto, per poter negare, ripropone la prospettiva immutabile che intende negare: non esiste nessuna posizione immutabile tranne quella che sostiene che non esistono immutabili. Se la negazione dell’Immutabile non implicasse la proprio immutabilità nell’atto in cui nega la prospettiva dell’immutabilità, lascerebbe aperta la possibilità di un immutabile diverso dall’affermazione che non esiste nessun immutabile. La negazione dell’epistéme, per negare davvero, deve implicare di valere epistemicamente e cioè che almeno una forma di epistéme esista: la prospettiva che tutto è divenire. Negare ogni immutabile e ogni nesso necessario tra parte e tutto significa dunque affermare che il divenire è il tutto che lega necessariamente

a sé, significandolo,

ogni

ente. La necessità del vincolo

che s-vincola è però diversa dalla necessità dei vincoli che vincolano, proprio in quanto è l’unica necessità «che il nichilismo riconosce a se stesso»*! per garantire il proprio fondamento: la storicità dell’ente. In questo senso Severino può mostrare che l'affermazione della storicità del tutto è un’affermazione essenziale al nichilismo, e cioè non appartiene — come si è soliti ritenere — al solo pensiero “dialettico” ma anche al cosiddetto pensiero “analitico”. Tale affermazione è cioè il fondamento essenziale, la verità originaria che significa e relaziona

ogni esser-ente e ogni esser-niente all’interno del nichilismo, S. De-stino della verità e divenire altro. Determinismo, fatalismo

casualismo e

Ci limiteremo per ora a introdurre la differenza, che le pagine di questo libro cercheranno di mostrare concretamente, tra il pensiero di Severino e il determinismo,

il fatalismo, il casualismo e tutti quei

modi di pensare che sono fondati sulla persuasione che l’ente divenga

essenzialmente altro. In Tautòtes, scritto che — come si può evincere dal titolo stesso (tadTOC - avtoc) — è centrato sull’esser sé dell’essente, Severino mostra che l'Occidente pensa l’identità dell’ente come il risultato di un divenire in cui un certo significato (vonua) precede il proprio esser-sé. Il tema dell’identità verrà sviluppato e approfondito nei capp. II € IV. 8 /bi, p. 220.

63

De-stino della verità e divenire altro

Se, in generale, divenire altro significa «lasciare un vuoto e, insie-

me, riempime un altro»*?, con la nascita della filosofia greca tale svuo-

tamento e riempimento non solo è vissuto come assolutamente evidente, ma è tradotto in chiave ontologica: il divenire altro è esplicitamente

l’annientamento di un certo positivo (quello che lascia il vuoto) e l’entificazione di un certo negativo (il non essente che iniziando a essere va a riempire il vuoto lasciato). Severino mostra che il divenire altro è

un atto di fede e che «la fede nel divenir altro è l'alienazione estrema

della verità»®?.

Dunque per l'Occidente divenire significa divenire altro. Ma il divenire altro, rileva Severino, è impossibile, perché è impossibile che

qualcosa divenga altro da sé, che il positivo si annienti: «quando

si

vuole che qualcosa divenga altro — ad esempio che un ceppo di legna sia messo nel camino, un ricordo si faccia più preciso, un desiderio

si realizzi — si vuole l'impossibile: che qualcosa, divenuto altro, sia

altro da ciò che esso è, e poiché si crede che sia esso a divenir altro, si

vuole che, essendo ciò che esso è, sia altro da ciò tà, che come tale vuole l’impossibile (il mortale l'impossibile, un volere, tuttavia, essenzialmente destino), è seguita dall’apparire di qualcosa che

che esso è. La volonè appunto un volere unito all’apparire del non può dunque es-

sere ciò che è voluto, ma che è necessariamente altro da esso (è altro

dall’impossibile, perché è impossibile che l’impossibile sia 0 appaia), sebbene a volte si creda che esso sia appunto ciò che era stato voluto e sia pertanto l’ottenuto»8*. Questa argomentazione non vale solo per quello che un certo volere crede di avere realizzato, ma anche per quello che, essendo passato,

è richiamato alla memoria nel ricordo, credendo che, oltre al ricordo,

di una certa cosa non rimanga più niente. In Destino della necessità c'è un importante capitolo, intitolato Passato, perfectum*, in cui si mostra che il ricordo è tale solo se è ricordo di un non niente, poiché «di ciò che è divenuto niente non può esserci memoria». Da questa affermazione si devono trarre conclusioni importantissime. Innanzitutto questa: che la coscienza del divenire dell’essere non è possibile senza ricordo. Su cosa si baserebbe, infatti, la convinzione che qualcosa, pas-

sando, è diventato niente? In questo modo però il ricordo è sia posizio_———————_—T—

*° E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 223.”

® Ibi, p. Al. % Ibi, p. 118.

* Per l’approfondimento della tematica cfr. infra, 1v, 4.

64

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

ne dell’essere non-niente di ciò che è passato, sia del suo essere (dive-

nuto) niente, giacché questo è il senso fondamentale che l'Occidente

attribuisce al ricordo. Dunque «per salvare la memoria del passato, il nichilismo è costretto a distinguere, nel passato che appare nel ricordo, due aspetti»*: un ente passato che (nel ricordo) continua a essere un

esser qualcosa e un ente passato che è diventato niente. Nel ricordo il passato non è presente in tutto quello che esso era:

«Ciò che del passato è divenuto niente apparteneva a quel “di più” che non appare; [...] se il passare è inteso come annientamento, il passato [...] in quanto

niente, non può apparire»?

dunque il ricordo non ricorda il passato e «l’annientamento del passato è l’a priori con il quale il nichilismo interpreta

l’inoltrarsi della terra nel cerchio dell’apparire [...] che il passato sia ciò che è divenuto un niente rende impossibile lo stesso apparire del divenire»**: senza il passato non c’è divenire (di cosa sarebbe divenire il divenire?),

ma se il passato è divenuto niente, esso non può apparire e quindi non può apparire nemmeno il divenire. La fede nel divenire rende impossi-

bile la visione del divenire stesso, cioè «la visione della variazione del

contenuto che appare»®®, Lungo il cammino

filosofico (e non) dell'Occidente il determini-

smo, il casualismo e il fatalismo si presentano come modi di pensare irriducibilmente contrapposti tra loro. Si pensi al determinismo spinoziano, al fatalismo stoico e al casualismo atomistico. Severino mostra

invece che, nel loro fondo, non sono affatto contrapposti, perché pos-

siedono una matrice comune che è la loro essenza e il loro fondamento: la fede nel divenire altro. Tale fede, che significa fede nel diventare

niente da parte di ciò che è (la cosa che diviene altro smette di essere se stessa, cioè quell’esser sé diventa niente, e insieme quello che essa

ancora non è, dal niente inizia a diventare qualcosa), «può esprimersi in due varianti fondamentali: là dove il divenir altro segue un percorso inevitabile, oppure là dove il divenir altro non segue un percorso inevitabile. Spinoza (ad esempio) appartiene alla prima variante; Aristotele # E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 178.

! Ibi, p. 179. "" Ibi, p. 180-181. ® Ibi, p. 1B1.

65

De-stino della verità e divenire altro (ad esempio)

alla seconda

(non

è necessario che domani

ci sia una

battaglia navale®; gran parte degli eventi futuri sono contingenti; se verranno ad essere, sarebbero potuti non essere)». Si tratta cioè di «due varianti dello stesso modo fondamentale di intendere l’essere, come

ciò che esce dal nulla e ritorna nel nulla»”!.

Il destino severiniano è quanto mai distante dal fato e dal destino occidentale, perché questi ultimi, essendo il disegno necessario a cui il divenire degli eventi deve attenersi, negano l’esser sé dell’essente. Il fato non è cioè la necessità innegabile dell’esser sé dell’essente, ma

la necessità che ogni evento assecondi un percorso stabilito. E in quel percorso stabilito l’essente è ciò che non può non adeguarsi; ma adeguarsi significa che il suo essere è qualcosa che viene dal niente (cioè che prima di accadere è niente). Il che significa che è impossibile anche

quella volontà dell’io individuale’ che cerchi di essere coerente alla

convinzione fatalista per cui ducunt volentem fata, nolentem trahunt, perché «anche la volontà dell’io dell'individuo che vuole il destino (e un destino voluto è, appunto, fatum), in quanto volontà, è negazione del destino e quindi è «trascinata via» dalla necessità dell’accadimento

della terra, ossia questa necessità è l'impossibilità che i progetti della volontà abbiano a realizzarsi»**. E impossibile la «volontà di assecondare il fato»: non si può voler assecondare il destino perché il volere è — in quanto tale — la negazione del destino. Chi vuole, «chi decide e agisce (cioè si illude di essere padrone delle proprie azioni e

della loro potenza sulle cose) non è il destino della verità. “Chi” conosce il

destino è il destino stesso. (Ma proprio perché sta al di fuori della volontà di potenza, la necessità del destino è ciò rispetto a cui la potenza di un qualsiasi

Dio e di una qualsiasi Tecnica è assolutamente impotente)».

Severino mostra la follia del diventare altro, cui contrappone un senso inaudito del destino, cioè dell’esser se stesso dell’essente, del

suo essere identico a sé, altro dal proprio altro. Il destino severiniano è lo stare innegabile dell’essente; ciò che non può essere negato non perché «annienti il proprio negativo», come invece fa l’epistéme occi-

* Per un'analisi più approfondita del rapporto tra i pensiero di Severino e le grandi filosofie

dell'Occidente si rimanda all'ultimo capitolo. . n E. Severino, Oltre l'uomo e oltre Dio, Il Melangolo, Genova 2002, pp. 115-116.

È Per un approfondimento della questione riguardante l'Io come fede cfr. tv, 3. ° E. Severino, La Gloria, cit., p. 77.

“ Ibidem.

66

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

dentale, ma perché lo vede originariamente come impossibilità. Esso pone il niente come niente: in esso il niente vive — originariamente — come niente. L'innegabilità della verità di cui parla Severino consiste nello stare

dell’essere, nel suo avere già da sempre negato la sua negazione; la

verità ha da sempre e per sempre negato il proprio negativo non perché questo esista e poi venga tolto, ma perché è un negativo che non riesce a costituirsi come tale: esso è volontà dell’impossibile e, pertanto, quando accade, implica sempre, per esistere, la verità di ciò che intende negare. La verità dell'essere in questo senso è uno stare che niente e nessuno potrà mai negare; questo stare della verità, nei testi severiniani, prende il nome di de-stino”. La parola destino è utilizzata da Severino in senso etimologico: de-stino è ciò che sta, che non può essere negato; la verità dell'essere è per l'appunto lo stare del destino. Il termine destino è un termine chiave. Il suffisso de-, rileva Seve-

rino, ha due significati. Esso può indicare tanto un depotenziamento quanto un potenziamento. Mentre il depotenziamento è ciò a cui siamo più avvezzi (il prefisso de- è infatti principalmente presente in acce-

zione

negativa),

l’intensificazione

o potenziamento

accrescitivo è di

uso più raro. Si pensi, ad esempio, al verbo latino de-amare (amare più intensamente) che indica una intensificazione dell'amore e non la sua negazione. Ebbene, questo significato del suffisso de- è quello che per Severino dà senso alla parola de-stino: stino viene dal greco ict (come epi-stéme), che significa stare. De-stino non significa pertanto ciò che è de-stabilizzato, ma, al contrario, ciò che più di tutto sta, ciò

che sta fortemente. Quel de- ha valore potenziante e de-stino significa lo stare che non può non stare. Lo stare innegabile. Lo stare innegabile del destino è lo stare dell’essere, che è ciò che non può essere mai negato. Il cuore della filosofia di Severino è costituito dall'analisi del significato “essere”; solo passando per questo significato strurturale {cioè non semplice, come si vedrà) si può comprendere in cosa consiste la verità di cui Severino parla. Essa è l’assoluta incontrovertibilità proprio perché è immediatamente vera, dove immediatamente significa che il suo negativo non si riesce a costituire come tale: il suo negativo è una autonegazione immediata e perciò il suo toglimento è originario e non qualcosa che debba insorgere a un certo punto. Per questo il negativo della verità può essere solo un tentativo; solo come tentativo % Cfr. infra, tutto I.

De-stino della verità e divenire altro

67

accade ed esiste e, per questo, ciò che esso realmente compie (ossia al di là delle sue intenzioni) è il contrario di ciò che crede: poiché ciò

che sta non può essere negato, il tentativo di negare la verità di ciò che non può essere negato finisce con l’implicare la posizione che intende negare. Perché finisce con l’implicare quella posizione? Perché se la negazione della verità vuole stare, cioè se vuole valere come negazio-

ne, non può che implicare di valere come negazione del proprio negativo, affermando implicitamente ciò che esplicitamente intende nega-

re. L’argomentazione severiniana qui ricorda molto quella aristotelica contro l'avversario del principio di non contraddizione (iv libro della Metafisica); in realtà la vicinanza è puramente formale, come avremo

occasione di chiarire nell’ultimo capitolo. Come si diceva, il de-stino non ha niente a che vedere con il fato: il destino è la posizione dell’innegabilità dell’essente, del suo esser sé, e non il fato quale pro-getto (nel senso di cammino inevitabile e perciò

anticipato) che sta dietro l'essente (diverso dunque dal suo esser sé)

indirizzandone il cammino. Ecco perché alla questione iniziale si deve rispondere: no, il senso in cui l’epistéme è destinata al tramonto non è quello processuale-deterministico che negherebbe l’esser-ente dell’ente, ma è quello di destinazione nel senso appena considerato: una destinazione che ha un significato essenzialmente più radicale di ogni destinazione pensata dal pensiero nichilistico. In quel pensiero l’ente è qualcosa di determinabile perché esso non è pensato come identico a se stesso: esso è, nel suo fondo, un essenziale essere e diventare altro. Severino analizza il divenir altro così come è pensato e implicato dall'Occidente. 1 riferimenti agli scritti severiniani sono vari e vanno

da Oltre il linguaggio e Tautòtes fino a Oltrepassare. ll divenire altro è presente in ogni teogonia e ogni cosmogonia — rileva Severino; e il mito, l’epistéme e la tecnica hanno in comune l’obiettivo di evitare il dolore.

Tuttavia epistéme e tecnica, a differenza del mito, hanno a che fare con

un senso più drammatico e angoscioso del divenire, perché lo interpretano alla luce delle categorie ontologiche. Questo senso è la fede nel divenire altro. La fede nel diventare altro è «l'alienazione estrema della verità» e la «forma più radicale della fede e della volontà»? «Volontà di vivere, volontà di potenza e volontà di diventare altro sono essenzial-

mente connessi». Sono fede nell’isolamento delle cose.

——__——__—_____

* E, Severino, Oltrepassare, cit., p.4l. " Ibi, p. 43.

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Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

«Che le cose divengano altro e che la volontà sia volontà di farle diventare altro non è alcunché di strano per l’uomo. Anzi, è ciò su cui egli non ha alcun dubbio: è l'evidenza suprema secondo la quale egli vive».

Si è visto come il divenire altro con la filosofia acquisti un nuovo significato, legato alla scoperta della contrapposizione assoluta tra essere e non essere. Con Platone e soprattutto con Aristotele il divenire altro è la capacità di un certo sostrato di sviluppare un certo essere potenziale, di cui è attualmente privo. Si tratta, cioè, di una privazione determinata, che non consiste in un assoluto mancare, ma in un mancare che è tale in

quanto possiede. Ciò che manca non è ancora pur essendo già presente in qualche modo. Tale privazione non è infatti presente in ogni sostrato; è un mancare, essendo presente, che non può mancare in ogni cosa. Poiché non è possibile che tutto venga da tutto, il non essere viene in qualche modo determinato e ricondotto all’essere. La minaccia della nientità assoluta pare così scongiurata: si dà senso all’esistenza e si elimina l’angoscia del nulla. Tuttavia, se anche il non essere di ciò che è potenzialmente contenuto nel sostrato non è un niente assoluto, quel non essere non è l’essere attuale: è solo un essere potenziale. Ed essere potenziale significa un essere che ancora non è. Il dire che un certo essere non è ancora non viene vista come affermazione contraddittoria proprio perché quel «non essere ancora» è legato a un certo non essere determinato e non al nulla assoluto. Questa determinatezza del niente è appunto uno dei modi, rileva Severino, in cui (a partire da Aristotele) l’epistéme spiega la non contraddittorietà del divenire e cerca di eliminare l’angoscia del niente: le cose non vengono dal niente, dal niftuil! absolutum, ma da un certo niente determinato. Un niente in cui è cioè già custodito, in qualche modo, l'essere.

Che dall’uovo possa nascere solo il pulcino, e non un fiore o una stella, dà l'impressione che il non essere ancora del pulcino non sia un niente assoluto, un non essere originariamente niente. Il pulcino è già, in qualche modo, pulcino. Dunque è già, quando ancora non è. L'essere potenziale non è un nihi! absolutum. Se, infatti, (questa l’argomentazione aristotelica e, in definitiva, occidentale), fosse un nulla assoluto,

da esso dovrebbe e potrebbe derivare qualsiasi cosa. Non essendo così, cioè non potendo derivare qualsiasi cosa dall’uovo, quel non essere ancora è un non essere determinato: in esso deve esserci già qualcosa, un % Ibi, p. 64.

Chiarimenti sull'interpretazione severiniana dell'Occidente

69

certo essere, per quanto diverso dall'essere attuale (e quella diversità è per l'appunto la potenzialità). Ebbene, anche l’atto e la potenza, come

l'andare e il venire dall’arché, sono «tratti del niparo che il mortale costruisce quando sperimenta l'angoscia di fronte al nulla». Le argo-

mentazioni esplicite di Aristotele e l'Occidente suo seguace implicano, come mostra Severino, il contrario di ciò che dicono: dicendo che il

pulcino, prima di essere pulcino in atto, è già pulcino, ossia pulcino in

potenza, esse dicono che il pulcino in atto è niente, ossia che il pulcino

in potenza è l’esser niente del pulcino in atto. La logica dell'atto e della

potenza, che esplicitamente intende salvare le cose dal niente, implici-

tamente le sprofonda nel niente assoluto!”,

Anche il linguaggio è «fede nel diventare altro». In Oltrepassare, che riprende le analisi svolte in Destino della necessità e ne La Gloria, Severino mostra che anche nelle lingue indoeuropee il significato della maggior parte delle radici e dei nomi costituiti da una consonante liqui-

da (r, 1) «è l’agire delle potenze capaci di modificare il mondo, ossia di far diventare altro le cose, di fletterle»'° (timbro della flessione), mentre il significato delle radici costruite intorno a consonanti occlusive è il resistere a quelle potenze, il restare presso di sé, inflessibilmente (timbro

dell’inflessione). Ma quell’inflessibile è ancora un fatto; solo con l’epi-

stéme potrà essere una necessità. La morte stessa si presenta come un inflessibile che non si può accettare e che deve essere vinto. Nel termine greco Bdvatoc, a evidenziarne l’inflessibilità, è assente la consonante liquida che è invece presente nei termini mors e brotos (0 mortos).

6. Chiarimenti sull’interpretazione severiniana dell'Occidente Questo paragrafo si collega direttamente a quello precedente in quanto ne approfondisce alcuni aspetti. In modo particolare si sofferma su questo interrogativo, precedentemente segnalato: nonostante ® Ibi, pp. 47-48.

. !® Interessante, a tale proposito, il breve saggio severiniano dal titolo Sull'embrione (Rizzoli, Milano 2005) in cui vengono raccolti alcuni interventi di Severino sulla natura dell'embrione all’intemo di un acceso dibattito bioetico incentrato sulla domanda: uccidere l'embrione è reato oppure no? Ovvero: l'embrione è già un individuo oppure non lo è ancora? Le posizioni di

Severino, che suscitarono una vivace polemica,

si fondano da ultimo sul discorso che stiamo

sviluppando: nel suo esplicito l'Occidente, fondandosi (per lo più inconsapevolmente!) sulla con-

cezione aristotelica dell'atto e della potenza, crede di salvare le cose dal nulla dicendo che esse,

potenzialmente, sono già; ma, così facendo, non si accorge di implicame la loro nullità originaria.

! E. Severino, Oltrepassare, cit., pp. 48-49.

70

Cap. I - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

affermi di avere superato il nichilismo, l’interpretazione severiniana dell'Occidente non ripropone forse una forma di determinismo (nichilistico) che porta a concepire l’accadere come un susseguirsi causalistico di eventi, in cui quelli che precedono determinano quelli che seguono? È evidente come questo modo di intendere la relazione tra gli enti sia profondamente nichilistico, giacché l’esser sé dell’ente, de-

rivando dall’ente che lo precede, verrebbe dal niente. In quanto il suo

essere è determinato dall’essere dell'ente che lo precede, il suo essere è qualcosa che incomincia a essere e cioè che viene dal niente.

In relazione all’inevitabilità del tramonto dell’epistéme, e quindi in

relazione alla stessa coerenza del nichilismo fin qui delineata, può sorgere un interrogativo che è bene chiarire immediatamente: se sì legge lo sviluppo occidentale come un processo di coerentizzazione del nichilismo, non si corre il rischio di riaffermare il determinismo nichilistico? Dicendo, infatti, che il corso dell’Occidente è stato determinato

da ciò che esso via via ha pensato e per come lo ha pensato, non si

nega l’essenza dell’essente ossia il suo essere eterno? In altri termini: se l’ente che accade è eterno, è legittimo concepirlo come interno a un processo che lo significa nel suo sviluppo? Tale interrogativo può anche essere formulato nel modo seguente: se l’apparire è il presentarsi e lo scomparire di enti eterni, è possibile affermare l'esistenza di una concatenazione necessaria tra gli eventi e asserire legittimamente (cioè senza ricadere nel nichilismo) che i tratti del

Tutto non ancora apparsi siano in qualche modo deducibili da quelli già apparsi? E cioè possibile dare una lettura deterministica del susseguirsi degli eventi che non ricada nel nichilismo, e leggere gli eventi (apparsi e non ancora apparsi) sulla base dei tratti del Tutto fino a ora apparsi? In relazione alla lettura severiniana dell'Occidente nichilistico potrebbe cioè sorgere un’obiezione di questo genere: se si sta all’interno del pensiero della verità del destino (ossia all’interno dell’affermazione dell’esser sé degli essenti come autonegazione immediata del proprio negativo!°), si deve dire che ogni cosa è originariamente quello che è; ma, dicendo (come fa Severino) che il percorso occidentale è un percor-

so inevitabile, non solo nel senso della necessità eterna di ogni essente e del suo apparire, ma anche nel senso dell’esito inevitabile di un certo

percorso, non si sta forse negando quella verità del destino che si dice di affermare? Seguendo questa argomentazione, sembrerebbe doversi 1°? Per l'approfondimento di tale aspetto si rimanda a tutto il prossimo capitolo.

Chiarimenti sull’interpretazione severiniana dell'Occidente

71

concludere che la verità del destino escluda che si possa parlare di legami necessari tra enti, diversi da quelli che consistono nella necessità che lega l’apparire di ogni essente all’apparire di ogni altro essente in quanto parte del Tutto. L'affermazione di un percorso inevitabile dell'Occidente sembrerebbe cioè inconciliabile con la verità originaria del destino. In tal caso cadrebbe l’intero discorso severiniano sul superamento inevitabile dell’epistéme a opera del pensiero contemporaneo, e tale superamento sarebbe allora semplicemente l’accadere di un evento che è necessario nella misura in cui è necessario tutto ciò che accade. Una simile posizione conduce all’impossibilità di individuare una totalità dell’essente (di un percorso, di una situazione, di un concetto

ecc.); nel caso specifico condurrebbe ad affermare che l'apparire della filosofia antiepistemica è legato all’apparire dell’epistéme dalla stessa necessità che lega tra loro ogni apparire: tra l'apparire dell’epistéme

e l'apparire della negazione dell’epistéme ci sarebbe lo stesso legame

che c’è tra l’appanre dell’epistéme è l'apparire della civiltà assiro-babilonese o l’apparire della mia contentezza di questo momento. Poiché questa posizione è insostenibile in quanto immediatamente contraddittoria (nega l’innegabile rapporto concreto parte-tutto), è chiaro che c’è un modo non nichilistico di affermare i legami e le relazioni tra gli enti; vi è, in altri termini, un modo non nichilistico di pensare «deterministicamente» i rapporti necessari tra gli eventi che accadono, e tale modo è appunto alla base della lettura severiniana dell'Occidente.

In realtà la risposta alla domanda che si considera è nel significato stesso di destino che, quale innegabile esser sé dell’essente, è per questo distante da ogni forma di determinismo nichilistico. Solo prescindendo dalla posizione dell’esser sé dell’essente si può pensare a un apparire

progressivo degli essenti fondato su passaggi causalistici o deterministici. Severino non afferma (e come potrebbe alla luce dell’innegabilità

dell’esser sé dell’essente!) che un certo evento determinerà l'avvento

di quello successivo nel senso nichilistico del termine, ossia in quanto fa sì che un certo evento (che dunque sarebbe potuto anche non accadere) accada. Il fondamento dell’essere determinato in questo senso è la contingenza dell'ente, il suo venire dal niente: proprio perché prima di

accadere è niente, l'evento è determinato (nel suo essere e accadere) da

ciò che lo precede. Se questo è il sénso dell'essere determinato, allora è Impossibile che l’ente, essendo originariamente se stesso e dunque in-

negabile ed eterno, sia determinato da un altro ente (umano o divino).

72

Cap. I - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

Severino non solo non afferma questo senso della relazione, ma, criticandolo alle radici, sostiene invece che, alla luce della necessità dell’esser sé dell’essente (alla luce della verità del destino), ogni accadimento è destinato ad apparire in un certo modo. Inevitabilmente, La forza di quella inevitabilità risiede nell’impossibilità della negazione della necessità del destino e non nella concatenazione logica di un

processo in cui l’essere di ogni anello della catena determina l'essere e l'apparire del successivo ed è determinato dal precedente. Come dunque deve essere intesa in senso non nichilistico la lettura ‘“deterministica” severiniana? Come si deve intendere, ad esempio, l’inevitabilità dell’apparire del pensiero contemporaneo nel suo avvento coerentizzante che libera dall’epistéme? Si consideri il percorso dell'Occidente nichilistico come un tutto di cui sì svelano progressivamente i tratti fondamentali. La questione ora è la seguente: è possibile pensare a questo progressivo disvelamento in modo tale da individuarne delle tappe necessane e inevitabili senza cadere nel determinismo nichilistico? Si deve rispondere affermativamente, proprio in quanto si deve tenere ferma questa posizione fondamentale: «l'exire dell’“esito” non è un diventar altro, ma è l’uscire dell'eterno dal non apparire»!, Innanzitutto, già parlando di un tutto nel tutto, stabiliamo una diversità delle relazioni: un conto è il legame che la negazione dell’epistéme contemporanea ha con l’epistéme, e un conto è il legame che l’epistéme ha con la civiltà assiro-babilonese. Certo si tratta in entrambi i casi di relazioni necessarie, ma tra loro diverse: l’affermazione e la negazione dell’epistéme sono, innanzitutto, due diverse convinzioni

(all’interno del pensiero dell’errore) riguardanti un

medesimo significato. Sono cioè l'apparire di due forme diverse del medesimo organismo. Ebbene, in relazione a tale organismo è assolutamente legittimo (cioè non nichilistico) porre ogni parte in relazio-

ne alle altre, comprenderne

la fisionomia globale, avere una visione

del tutto. Questa visione è la rilettura severiniana dell'Occidente, in

cui la necessità della progressione dell’apparire dei singoli tratti non deve essere intesa come la negazione dell’esser sé dell’essente, ma come il progressivo disvelamento di momenti di quel tutto particolare che è la civiltà occidentale. In questo caso la comprensione di quel tutto può ricordare il determinismo, nel senso che può sembrare che 1% E, Severino, Oltrepassare, cit., p. 200.

Chiarimenti sull'interpretazione severiniana dell'Occidente

73

un momento sia causa del momento successivo; in realtà quel rap-

porto “deterministico” non determina gli enti in quanto li fa derivare

dal niente, ma è il rapporto che sussiste tra le parti (eterne) e il loro apparire (eterno). In tal modo, Severino può legittimamente (senza cioè cadere nel nichilismo) affermare che la negazione contemporanea dell’epistéme era la necessaria, inevitabile e coerente conclusio-

ne dell’affermazione iniziale dell’epistéme, in quanto non dice che la

negazione dell’epistéme è causata dalla nascita della stessa, ma dice che eterna è quella affermazione ed eterno il suo apparire, così come eterna è la sua negazione ed eterno il suo apparire. Quegli enti eterni si trovano in una relazione necessaria, non solo nel senso che ogni

ente è legato necessariamente a tutti gli altri enti, ma nel senso che essi sono legati tra loro dal legame che unisce i tratti di un volto (la civiltà occidentale) che si manifesta e mette in luce, progressivamente, la propria fisionomia nella sua interezza. Ora si possiedono tutti gli elementi necessari per comprendere il senso autentico della lettura severiniana dell'Occidente. Con l’ontologia greca nasce il nichilismo occidentale, per cui l'essenza dell’ente è l'essere diveniente. All’interno della logica nichilistica, l'eternità non

è la caratteristica essenziale dell'ente in quanto tale, ma è un aspetto privilegiato che appartiene solo ad alcuni enti. Il «sacro», il «divino», l’«Idea», l’«anima», i «valori», lo «Stato» ecc. sono appunto enti che

devono la loro eternità alla particolarità della loro natura e non al loro

essere essenti: l'essente, come

tale, non è etemo ma diveniente, cioè

proveniente dal nulla e destinato al nulla. L'essenza diveniente dell’es-

sente è il tratto fondamentale e costitutivo dell'Occidente: ciò che lo rende un organismo unico, una totalità di parti essenzialmente legate tra loro. In quanto queste parti sono così legate tra loro, il loro apparire è necessariamente l’apparire processuale di un organismo logicamente strutturato, in cui cioè i suoi momenti sono parti coerenti del Tutto. Ogni abitatore del tempo è tale in quanto crede che il senso greco del divenire sia una verità indiscutibile, anche se non sa nulla della filo-

sofia greca e in generale della filosofia. Quando Severino parla dell’Occidente si riferisce per l'appunto a questa convinzione che si è andata

concretizzando nella cultura e nelle opere, nelle istituzioni, nella scien-

za, nella prassi. Il pensiero che testimonia il destino è

il pensiero che

afferma l'essenza nichilistica dell'Occidente: è il pensiero che comprende e afferma l'“anima greca” di quella civiltà e, in tal modo, scorge

74

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

il legame necessario tra le parti. La comprensione di quell’essenziale legame tra le parti non ha nulla a che vedere con la logica determini.

stica (e causalistica) in cui si esprime il nichilismo: dire che esiste un essenziale legame tra le parti, per cui ognuna è legata all’altra in quanto costituente un momento particolare e necessario del tutto che non può non apparire in una certa relazione con le altre parti (dunque anche nella modalità processuale del loro presentarsi), è cosa completamente diversa dal dire che il momento che precede determina il momento che segue in quanto ne determina l’essere. In tal caso, infatti, concepire un simile «essere determinato» equivale a concepire l'essere dell’ente come il frutto, o l’esito, di un percorso: l'essere dell’ente sarebbe cioè

qualcosa che è determinabile (creabile, plasmabile) nella misura in cui viene dal niente. Se, invece,

«il divenire è il servo che, nella civiltà moderna,

si è

liberato dal padrone cioè dall’epistéme»!*, allora è legittima la lettura severiniana che coglie nella progressiva manifestazione della civiltà occidentale l’apparire graduale di un fondamento che viene alla luce nell’unico modo in cui, all’interno della follia, gli è consentito.

Si può concludere con le parole già citate di O/rrepassare, che chiariscono in che senso si possa e debba affermare che la negazione dell’epistéme è l’esito di un percorso inevitabile in senso non nichilisti-

co: «l’exire dell’esito non è un diventar altro, ma è l’uscire dell’eterno

dal non apparire»'°5, Si tratta cioè di un significato non nichilistico di “determinismo” (e dunque di “esito”’), da intendersi come la necessità

dell’oltrepassare (cfr. infra, Iv e v) quale giungere di un eterno sopra un altro eterno. 7. Ritornare a Parmenide

Si è visto che i momenti essenziali della speculazione di Severino, che segnano la distanza tra il suo pensiero e quello occidentale, sono

l’affermazione dell’essere come immediata autonegatività del proprio

negativo e la critica alla concezione del divenire come divenire altro. Queste due affermazioni sono in realtà due individuazioni della me-

desima posizione logica: in quanto si afferma che l'essere è eterno, si afferma che il divenire come passaggio essere-niente è impossibile, 1% E, Severino, La filosofia futura, cit., p. 13 1 E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 200.

15

Ritornare a Parmenide

è fede, illusione; in quanto si afferma che il divenire, come continuo

oscillare tra essere e niente, è impossibile, si afferma l’eternità dell’es-

sere e l'immediata autonegatività del suo negativo. La critica all’Occidente è cioè un modo di affermare l'eternità dell’essere e viceversa.

Lacritica a tutta la storia dell'Occidente può generare molte perples-

sità, sopra tutte questo interrogativo: come è possibile che il pensiero

occidentale, dalla nascita della filosofia a oggi, abbia misconosciuto e frainteso il senso dell’apparire? Come

è possibile che abbia creduto

che il divenire sia una verità innegabile e non una interpretazione? Non basterebbe forse proprio questa tradizione di indiscussa convinzione

per dubitare della correttezza logica delle posizioni di Severino? Rite-

nere che il divenire sia indubitabile solo perché nessuno, fino a ora, ha

mai dubitato della sua verità non rappresenta certo un argomento filosoficamente valido contro la posizione di Severino; pertanto la risposta a questi interrogativi va trovata cercando di comprendere il senso profondo del discorso di Severino. Quel senso profondo è racchiuso in quella che abbiamo definito

pars costruens della sua riflessione, che è il fondamento di tutta la pars destruens. Si tratta cioè di iniziare a mettere a fuoco quella che è la struttura veritativa dell'essere su cui si fonda la critica al nichilismo occidentale. Ebbene, quella struttura veritativa è il fondamento ultimo

di tutto ciò che esiste e dunque anche del nichilismo. Severino mostra

infatti che il nichilismo occidentale, che come abbiamo visto è incon-

scio, poggia su un altro inconscio, (“’l’inconscio dell'inconscio”), che è un più profondo e fondativo livello che prende il nome di struttura originaria. Tale struttura, «sottosuolo del sottosuolo, ciò che avvolge

l'avvolgente»'%, è il de-stino nel senso indicato nel paragrafo prece-

dente, ossia lo stare innegabile dell’essere dell'ente, la cui coscienza

dà luogo a una «gioia» che ha da sempre superato ogni dolore, Nel linguaggio severiniano il termine “gioia” non indica uno stato psicologico, ma la coscienza dell’eternità dell’essente, ossia il toglimento

originario di ogni contraddizione: «questa parola non indica un sentimento psicologico: indica il gioire del Tutto per il suo essere il Tutto [...]. Il Tutto gioisce perché la sua compiutezza non è caduca, ma eterna. Questa eternità è il fondamento della Gioia»'!”, Seguendo le indicazioni di Essenza del nichilismo, la chiave (o una

delle chiavi) per comprendere il pensiero di Severino è fornita da uno Ù E. Severino, Gli abitatori del tempo, cit., p. 7. E. Severino, La strada, la follia e la gioia, cit., p. 87.

76

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

degli scritti in essa contenuti e intitolato Ritomare a Parmenide!®. In esso Severino sostiene che la filosofia greca si è trovata di fronte a un bivio che, come quello parmenideo, divideva tra un sentiero del Giorno (che, come è noto, in Parmenide è il sentiero della verità) e un sentiero

della Notte (che, sempre in Parmenide, è il sentiero dell’errore, della non verità). La filosofia ha intrapreso il sentiero della notte e della non verità; e, da allora, quel sentiero non è più stato abbandonato ma, anzi,

progressivamente percorso con le annesse conseguenze e implicazioni, L’Occidente, nel linguaggio severiniano, indica propriamente il per-

corso filosofico e quindi logico, psicologico e culturale di un’intera

civiltà che, partendo da quel bivio, ha progressivamente approfondito e radicato l’allontanamento dalla verità dell’essere. Il sentiero della notte, riprendendo il linguaggio parmenideo, è metafora del percorso

che nega la verità; il sentiero del giorno, al contrario, è metafora del

pensiero che testimonia la verità. Da qui l’invito di Severino a fare ritorno al pensiero di Parmenide, scegliendo il sentiero del giorno. Nel linguaggio severiniano però, ritornare a Parmenide non significa soltanto mostrare, sulla base del sentiero del giorno, come e perché quello dell'Occidente sia sentiero della notte e dunque dell'errore, ma rappresenta anche l’occasione per mettere in discussione l’interpretazione tradizionale del pensiero di Parmenide. Siamo davvero sicuri che il senso attribuito ai versi di Parmenide sia corretto? Nelle belle pagine di Ritornare a Parmenide Severino pone proprio questo interrogativo e lo affronta con il consueto rigore speculativo. Il risultato, che può apparire sorprendente, riveste una notevole importanza; infatti «è proprio nei pochi versi del poema di Parmenide che si nasconde la parola (più) essenziale e (più) dimenticata di tutto il nostro sapere»! Questa parola essenziale e dimenticata è l'affermazione che «l’essere è, mentre il nulla non è». L'argomentazione di Severino parte dall’affermazione che l’essere dell’essere non è una sua semplice proprietà ma il suo senso essenziale, poiché «essere» non significa altro che “opporsi al non essere”. Ciò comporta che l'essere dell'essere non possa essere temporalizzato, che è invece quanto accade, da quel momento in poi senza più essere messo in discussione, con la filosofia di Platone e Aristotele. Nella metafisica platonico-aristotelica l'essere è essere (cioè si contrappone al non 1 E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 19. ‘® E. Severino, Essenza del Nichilismo, Ritornare a Parmenide, cit., p. 20.

Ritomare a Parmenide

717

essere) «fin tanto che è». Severino individua nel De Interpretatione di Aristotele il «tramonto del senso dell’essere»!!°; «La lotta tra l'essere e il nulla non è come quella che si combatteva tra gli

antichi eserciti, che di giorno guerreggiavano, mentre a notte i capi nemici bevevano insieme sotto le tende — nemici dunque quando e se fossero stati in campo. Questo poteva avvenire perché, oltre che nemici, erano anche uomini.

L'essere, invece, è un tale nemico del nulla che nemmeno di notte disarma:

se lo facesse, non si strapperebbe di dosso la propria armatura, ma le proprie cami. Guardiamolo infatti questo essere, che è quando è. È il nemico diurno

del nulla: quando è (quando di giorno è in campo), si oppone al nulla; e questa opposizione viene detta da Aristotele [...] principium firmissimum, “principio di non contraddizione”, quel principio cioè che tutti, anche gli antimetafisici

più ostinati, finiscono sempre, più o meno esplicitamente, con l’accettare. Ma poi vien notte: quando l’essere non è (quando ha lasciato il campo), allora

non si oppone nemmeno più al nulla: perché esso stesso è diventato un nulla.

Tuttavia resta sempre dominato dal principium firmissimum, perché, quando

l'essere non è, non è. L'incontraddittorietà dell’essere sembra comunque salvaguardata: proprio nell’atto in cui la si sta negando nell'atto più radicale e

più insidioso»!!!.

In Essenza del nichilismo Severino inizia il discorso sulla temporalizzazione dell'essere che poi sarà centrale ne Gli abitatori del tempo (cfr. supra, par. 3). Perché l’essere dell’essente non può essere temporalizzato? Perché non è una semplice proprietà, ma il senso essenziale dell’essere; per cui temporalizzare l'essere significa perdere l’essere, chiudendosi nella più profonda contraddizione. Severino mostra inoltre — ed è una argomentazione particolarmente significativa — che i sostenitori della temporalità dell'essere implicano conseguenze che non sono poi disposti ad accettare. Una di queste implicazioni, la più eclatante, è l’identificazione totale di essere e nulla nella predicazione del

loro non essere. La fede nell’annullamento dell’essere porta infatti con sé, senza essere in grado di reggerla, l’implicazione che ciò che ora è,

in quanto si annullerà, sia già ora niente. In altri termini, anche per i

sostenitori dell’annullamento dell’essere un conto è affermare che l’essere è diventato niente e un conto è affermare che il niente è niente: pur

identificando essere e nulla, quel pensiero pretende che tale identificazione non sia totale e assoluta e conservi anche dei tratti di non identi—_—_ —__

10 Ibi, p, 21. "Ibidem.

78

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

ficazione. Insomma, per chi è innegabile la nientificazione dell’essere è contemporaneamente innegabile che l'affermazione «quando l’essere non è» non è affatto equivalente all'affermazione «quando il non essere non è»: chi crede che l’essere si annulli, non è disposto ad accettare che

il non essere dell'essere e il non essere del non essere siano lo stesso non essere. Chi crede all’annullamento dell’essere crede anche che il non-essere, frutto della nientificazione di un certo essere, sia diverso dal non-essere consistente nella inesistenza originaria del niente: «dopo Parmenide tutta la metafisica occidentale è una fisica: perché l’idea di essere su cui si edifica pensa sì l'essere come il positivo che si oppone al nuila, ma lo pensa, insieme, come qualcosa che esercita tale opposizione solo quando è, e quindi lo pensa come ciò cui è consentito (a lui, all'essere!) di non essere (e cioè di essere il nulla), secondo

quanto accade alle differenze che si manifestano come divenienti»'", C’è una certa responsabilità da parte di Parmenide riguardo alla concezione occidentale dell’essere dell’essente. L'analisi che Severino conduce sul testo parmenideo (analisi che, a suo stesso dire, non consiste in un lavoro filologico) rileva una certa problematicità interpretativa di quest’ultimo,

tale per cui, alla fine, la vera responsabilità imputabile

a Parmenide non consisterebbe nell’avere negato le differenze per tenere fermo un essere solo identico a se stesso, quanto nel non essersi espresso sulla posizione concreta delle differenze: come intenderle al di fuori dei nomi «essere, divenire, nascere e morire» che «i mortali dalla doppia testa» attribuiscono loro''?? AI capitolo Ritornare a Parmenide fa seguito una appendice dal titolo Poscritto, che, pur presentandosi separatamente dal precedente saggio, ne sviluppa e approfondisce le questioni principali, cogliendo l'occasione offerta da alcune obiezioni rivolte a Ritornare a Parmenide. In esso si legge che «il significato autentico della dòxa di Parmenide resta un problema»! anche se «Parmenide venne visto, da tutto il pensiero successivo, come colui che aveva

negato il divenire dell'esperienza [...] € quindi come colui che per primo aveva insegnato a definire il divenire in termini di essere e non essere»!!,

2 Ibi. p. 26.

"3 Cfr. infra, vi, 4. !4 E. Severino, Essenza del nichilismo, Poscritto, cit., p. 89. ‘5 Ibidem.

79

Ritornare a Parmenide

Focalizzando l’attenzione sul frammento 19, Severino mostra che in esso non si trova l'affermazione della nientità delle cose: «Se nella lettura di questo testo non si introducono le categorie della ragione alienata, si trova allora in esso affermato che la dòxa consiste nel ritenere che le cose che appaiono si generino e si corrompano, ossia escano e ritornino nel

nulla»!!9.

In tale frammento non si dice «che l'apparire delle cose è malato, ma che è malato il ritenere che le cose che appaiono escano e ritornino nel nulla»!!7. Perché dunque Parmenide è stato completamente travisato e frainteso? Perché non ha affermato esplicitamente come doveva essere inteso il mondo al di fuori dei convincimenti dei mortali dalla doppia testa; ovvero perché si è limitato a dire cosa il mondo non può essere, senza dire cosa è in verità? In altre parole: come devono essere pensate le differenze secondo verità? «Quel silenzio di Parmenide su ciò che si deve affermare (ossia il senso auten-

tico del divenire) accompagna anche i vv. 38-41 del frammento 8: [...]

“Dunque saranno tutti nomi quelle cose che i mortali hanno stabilito con la persuasione che fossero verità: nascere e perire, essere e non essere, cambiare luogo e mutazione del luminoso colore”. Anche qui si dice che non ha verità

(e dunque è dòxa) la convinzione che le cose nascano e muoiano, siano e non siano, si trasformino realmente. Anche qui, non si dice che le cose manifeste

non abbiano verità, ma [...] si rileva quella malattia del linguaggio in cui si proietta l’inautenticità dell’opinare: il nascere e il morire, l'essere e il non essere, il trasformarsi e il consumarsi delle cose non hanno alcuna verità (e que-

sto è certamente l’autentico referto dell’apparire), ma sono soltanto il modo in cui le parole e il linguaggio diventano schiavi della non verità dell’essere»!!8,

Cos'è dunque il nascere e morire mortali? Questa riflessione di Severino può esplicitante del pensiero parmenideo, che Parmenide non ha detto, ma che e

né Ibi,

—__—

p 90.

"? Ibidem.

!" Ibi, pp. 91-92.

fuori dall’errata convinzione dei essere considerata l'integrazione in quanto fa emergere qualcosa è necessario dire partendo dalia

80

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

concezione dell’essere come eternità e innegabilità. Approfondendo la

posizione implicata dalle affermazioni di Parmenide, Severino esplicita i significati veritativi di necessità e destino, infinitamente distanti

dal significato che questi termini hanno nel sentiero della notte. Della necessità e di ciò che essa significa nello «sguardo della verità dell’essere» Severino si occupa a fondo, a partire da La Struttura originaria, in tutti gli scritti, in modo particolare in Destino della necessità, dove

la parola de-stino (cfr. supra, paragrafo 5) non indica il fato ma l’impossibilità che tutto ciò che è non sia così come è. L’innegabilità del destino è tale perché il suo negativo è impossibile e pertanto il suo toglimento non è qualcosa che deve accadere, ma che è «già da sempre accaduto»: è originario e immediato (non mediato).

Solo alla luce del destino della necessità'!’, espressione che verrà approfondita nei prossimi capitoli, ha senso la critica di Severino all'Occidente come nichilismo e il nichilismo come “isolamento della Terra”. L'espressione “terra isolata” indica l’esistenza in quanto viene isolata dalla verità dell’essere dell’essente: è l’esistenza in quanto temporalità nel senso indicato nel paragrafo precedente. L’abitatore della Terra isolata è il mortale, cioè l’abitatore del tempo:

il che, nel

linguaggio della Necessità, non indica l'essere umano rout court, ma il suo essere convinzione che il divenire esista e che consista nell’oscillazione dell’essente tra essere e nulla. Mortale dunque non è l’essenza dell’uomo (che consiste infatti nell’eterno apparire dell'essere), ma quella interpretazione dell’esistenza come venire e tornare dal niente che isola la terra dalla necessità dell'essere. Il mortale è cioè mortale innanzitutto perché crede alla morte come annullamento. La domanda che sorge spontanea è: perché ci crede, se è proprio l’annullamento la fonte estrema di ogni angoscia da cui, dall’inizio della sua storia, ha cercato di prendere le distanze? Per cercare di capire perché l'uomo si crede mortale, dal momento

che la mortalità è proprio ciò da cui rifugge sopra tutto, è inevitabile tornare all’inconscio dell'inconscio di cui e si è parlato all’inizio di questo capitolo. Non sarebbe tutto semplice e perfetto se l’uomo si sapesse e affermasse eterno? In fondo non è quello che da sempre cerca? In realtà, nel suo inconscio più profondo, il mortale — dice Severino — è coscienza dell'eternità di ogni essente: la Gioia è l'inconscio profondo !!9 Tale espressione non casualmente dà il titolo a uno degli scritti teoreticamente fondumentali di Severino (Destino della necessità).

Ritornare a Parmenide

81

dell’uomo occidentale e, per questo, Severino le dedica capitoli im-

portanti in Destino della necessità che trovano completamento ne La

Gloria e in Oltrepassare!. Il motivo per cui il mortale è convinto di

essere tale ha una matrice complessa. Infatti, non basta dire che affon-

da le sue radici nella convinzione che il divenire appaia, cioè che non sia una interpretazione ma l’evidenza originaria. Ciò infatti spinge a chiedere: perché l’uomo si è convinto per interi millenni della verità di questo errore che gli ha procurato le maggiori angosce e dolori? Su

cosa poggiano questa follia e questo delirio collettivo? Com'è possibile che un'intera civiltà non sia riuscita a pensare la verità dell'essere? Per ora si risponda in questo modo: 1) tutto ciò che accade, dunque anche l'errore, è eterno e necessario (non poteva non accadere ed essere così come accade ed è): tutto, anche l’accadere dell’errore, è un tratto che

appartiene alla Necessità; 2) il fondamento ultimo di questo delirio collettivo deve essere ricondotto alla struttura stessa della verità. Questi

aspetti verranno analizzati e chiariti nei capitoli successivi. Per ora, pur facendo un torto alla complessità della questione, per agevolare la comprensione del lettore (che però non deve fermarsi a questa indicazione generale) si anticipano alcune riflessioni che verranno svolte più avanti. La verità è «responsabile» del nichilismo occidentale non solo in quanto esso, come tutto ciò che accade, è necessario ed eterno, ma in quanto è proprio la sua strutturazione a non fare apparire ciò che invece appare ed è necessario che appaia. Tale strutturazione della verità, che verrà esplicitata nel prossimo capitolo, può essere provvisoriamente indicata come la non coincidenza tra la dimensione dell’attualità o presenza dell'essere (apparire finito, detto anche cerchio dell’apparire o apparire trascendentale) e la totalità dell'essere e del suo apparire (apparire infinito). La totalità dell’essere

non può apparire completamente nell’apparire finito; ciò dà luogo a

una strutturazione processuale dell’apparire che trae in inganno l’uomo, che infatti, basandosi sulla finitezza dell’apparire trascendentale, separa l'apparire di ciò che appare dalla sua consistenza logica e quindi dal tutto in cui esso concretamente esiste; quindi, avendoli così isolati, pensa l’ente e il suo apparire come qualcosa che oscilla tra l’essere e il niente, qualcosa che, apparendo, inizia a essere, e morendo, smette di essere. E cioè la verità, come non presentarsi concreto di tutto ciò che

è presente ed essente, a portare fuori strada e facilitare la permanenza 12 Ch, infra, n, 5.

82

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

secolare nell'errore, poiché ciò che non è presentato, pur essendo presente ed essente, in quanto assente viene interpretato come non essente più. In questo senso generale, la fede nell’evidenza del divenire come verità originaria dipende dalla cattiva interpretazione fenomenologica

dell’apparire, la quale, a sua volta, ha una indiretta matrice nel modo in

cui è strutturata la stessa verità dell’essere.

8. L'annullamento dell'essere non appare: il sentiero del Giorno

In Poscritto Severino indica che nel pensiero occidentale «sin dal giorno della sua nascita giace addormentata la verità dell'essere»; per ridestarla «si dovrà penetrare il senso di questo semplice e grande pensiero: che l’essere è e non gli è consentito di non essere»!?. Ma questo risveglio è uno sconvolgimento assoluto «per il lungo inverno della ragione»; tale pensiero infatti, una volta destato e “fiorito” nella ragione, «spinge lungo una via dalla quale non è più possibile tornare indietro: se dell’essere non si può pensare che non sia [...] allora non si può pensare che divenga, perché, divenendo, non sarebbe [...] sì che tutto l'essere è immutabile. Non esce dal nulla e non ritorna nel nulla. È eterno», Se essere significa tutto ciò che non è niente e che, come

tale, è

opposizione al niente, se cioè l’essere non è altro che questo opporsi, come può smettere di opporsi? Va rilevato che tale opporsi non accade come semplice o indistinto opporsi, bensì come un opporsi determinato e specifico: non è l’essere in generale che si oppone al niente, bensì è l'essere in quanto determinato. Ciò significa che è questo ente che si oppone al suo non essere, ossia che questo ente, come tale, è tutto e completamente essente; anche quando non è più presente, esso è sempre e per sempre ciò che è, perché il suo essere, concreto, specifico, determinato, consiste nell’opporsi al non essere. L'essenza dell’essere è l'esclusione della sua inesistenza; quindi l’essere è ciò che esclude di non poter esistere. Questa esclusione accade in modo determinato e specifico, in quanto esclusione determinata e particolare del singolo essente. L'essenza è l’esistenza e viceversa: «la verità dell’essere è l’identificazione di queste due necessità»'. La distinzione tra esistenza ed essenza è un'affermazione nichilistica, perché implica tt E, Severino, Essenza del nichilismo, Poscritto, cit., p. 63. 18 Ibidem.

1 Jhi, p. 69.

L'annullamento dell’essere non appare: il sentiero del Giorno

83

che ci sia qualcosa dell'ente, l’esistenza appunto, che può anche non appartenere all'essenza: il fondamento di quella distinzione consiste infatti nell’implicare che l'essere, che per definizione è ciò cui è impossibile il non esistere, possa essere ciò cui compete la non esistenza. Viene così

a cadere la distinzione tra essenza ed esistenza e la verità dell’essere è propriamente la posizione dell'identità tra essenza ed esistenza. «Possiamo pensare che questo albero non sia (che si distrugga e sia finita la sua vita attuale), senza pensare che un positivo è nulla, senza cioè pensare che l'essere è non essere, e quindi senza tradire la verità dell'essere che consiste nell’accertamento del senso dell’essere [...] ossia la definizione dell'essenza

dell'essere quale esclusione della sua inesistenza»!?4?

Da Platone in poi l'Occidente ha sempre inteso l’esser-ente come

unificazione (cioè unità non originaria) di essere e determinazione.

Platone è colui il quale «si è lasciato sfuggire la grande occasione di pensare la verità dell’essere»': pur superando l’indeterminatezza dell'essere parmenideo attraverso l'introduzione di due significati diversi del non essere (assoluto e relativo), Platone è riuscito solo apparentemente ad affermare che non solo il puro essere è, ma che di ogni esser qualcosa si deve affermare che è un certo «non essere relativo». Infatti, il suo significato dell’esser-ente è una sintesi non originaria

{cioè i cui termini sono concepiti come antecedenti a essa) di essenza ed esistenza: solo le idee sono sempre ed eternamente ciò che sono; le cose del mondo sono qualcosa quando sono, mentre quando non sono più o non sono ancora, quell’unione di essenza ed esistenza è un

niente. Quella sintesi tra essenza ed esistenza, in cui consiste la cosa, è destinata al nulla. Eternizzata l'Idea, Platone ritiene sufficiente, perché

la cosa sensibile sia, che essa partecipi dell'eterno; e quindi che non sia contraddittorio pensare che la sintesi tra essere e determinazione

possa essere diveniente. Platone, come

tutto l'Occidente dopo di lui,

ritiene che dire che la cosa diveniente è una temporanea negazione del proprio esser-niente non

produca

alcuna contraddizione;

ritiene cioè

che si possa incontraddittoriamente dire che la cosa è quando è e che non è quando non è. Severino, come abbiamo già visto, fa notare che

questo modo di pensare da una parte ritiene che la cosa può diventare

mente, ma dall’altra non accetta che la cosa, quando è, sia niente. Inn_————

!" Ibidem.

12% Ibi, p.71.

84

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

somma, nel ritenere che sia possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca. In poche parole: se l’unione tra l'essere e la determinazione fosse una vera unione sarebbe originaria e indissolubile; poiché non è posta come tale, non è una vera unione. Per Platone «alla determina-

zione è proibito scrollarsi dì dosso il suo “è” non già in quanto essa sia una determinazione (ossia un qualsiasi “che”, che non sia un nulla), ma

in quanto è idea, ossia in quanto è quel certo tipo di determinazione che si distingue dalle determinazioni sensibili»'. Platone afferma che

ogni cosa è qualcosa, cioè un non-niente, mentre in realtà implica che il vero esser-ente, ossia il vero non essere niente, sia quello intelligibile:

«Nello stesso pensiero col quale Platone unisce la determinazione al suo “è”

(ponendola appunto come ciò che non è nulla), in questo stesso pensiero si

intende la determinazione come ciò che può sciogliersi dal salutare abbraccia-

mento al suo essere e quindi come ciò che può non essere»!??,

In tale modo «l’unificazione della determinazione e dell'essere [...] unisce ciò che per sé è disunito, e quindi l’unione diventa qualcosa di accidentale, un fatto che può essere sostituito dal fatto contrario»!*, Per questo Severino può parlare di «distrazione gnoseologico-socratica di Platone»'?*, che ha portato quest’ultimo a concepire l’idea come universale contrapposto all’individuale, in modo tale che «la casa dell’essere diventa un ricettacolo di sopravvissuti, una dimora di fantasmi»'”. Certo che queste affermazioni vanno intese nel senso che è loro proprio e cioè che era necessario che accadesse ciò, perché ciò che accade è ciò che è necessario che accada. Non nel senso che esista un fato, da cui gli

eventi sarebbero già stati predeterminati, ormai questo dovrebbe esser chiaro, ma perché ciò che è — e quindi che accade — non può non essere se stesso. Necessario dunque l'errore di Socrate, di Platone, così come

necessario è il percorso dell'Occidente. Si vedrà, nei prossimi capitoli, che, se il sentiero della notte è la stessa necessità del destino, allora si deve concludere che il destino vuole la sua negazione, ossia che la terra come accadimento dell'errore è qualcosa di voluto dal destino. E che il senso di questo volere è diverso dal senso nichilistico di volontà!".

to Jhi, p. 72. 12? Jbi, p. 73. 185 Ibidem.

1 Ibi, p. 30. 0 Ibidem.

1! Cfr. infra, v, 5.

L'annullamento dell’essere non appare: il sentiero del Giorno

85

Dal sentiero della Notte, intrapreso con Platone, l'Occidente non

devierà più; anzi, continuerà ad approfondire la concezione dell’esistenza come fatto, ossia come accadimento contingente, non necessario, tale cioè che sarebbe potuto accadere anche il suo contrario:

«Platone era divenuto il difensore del concreto, il riparo dal naufragio par-

menideo, e sotto questo riparo il pensiero occidentale si poneva una volta per

tutte, senza avvedersi che l’ovile non era stato chiuso prima che entrasse il lupo e senza avvedersi che era stata lasciata fuori, in sovrana solitudine, la

luce della verità dell'essere. Nell’ovile si era lasciato entrare quanto si sarebbe dovuto abbandonare fuori e cioè l’astratta separazione dell'essere e della determinazione; mentre si era abbandonato fuori quanto sarebbe dovuto entrare

per primo, il respiro del gregge, la verità di Parmenide»!*?.

Insomma Platone è il «guardiano infido» in cui l'Occidente, invece di prenderne le distanze, «ha riposto ogni fiducia, anche e soprat-

tutto quando lo ha condannato e ne ha fatto il capro espiatorio della

istanza antimetafisica»!*?. Severino con ciò intende dire che anche il fondamento del pensiero antimetafisico («le esigenze della storia, del concreto, dell’immanente esperienza, le insofferenze per il platonismo metafisico») risiede nel superamento della posizione parmenidea, ossia nella possibilità di pensare le differenze che, una volta per tutte, Platone ha offerto al pensiero occidentale. Quindi anche l’antimetafisica platonica si fonda sul senso platonico dell’esser-ente. «L'idea dell’essere, che dopo Parmenide viene a formarsi, vede l'essere come

[...] libero di essere o di non essere [...]. L’ontologia diviene così incapace di

vedere l'essere [...] e affida questo compito alla teologia razionale, che inizia

così le sue avventurose peregrinazioni. [...] L'ontologia [...] parte da un positivo che è negativo, e fattasi così ottusa al senso dell’essere si incammina per

trovare ciò che non ha saputo scoprire in sé. Ciò che poi trova, l'essere immutabile, è quindi fondato sulla più radicale assurdità - se l’assurdo è l’identificazione del positivo e del negativo. [...] In questo senso, dunque, dobbiamo dire che dopo Parmenide tutta la metafisica occidentale è una fisica: perché l’idea di essere [...] esercita opposizione solo quando è»!%*.

—_=——_—_—_—_

"? E. Severino, Essenza del nichilismo, cit. p. 74. 15 Ibidem.

!* Ibi, pp. 25-26.

86

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno L'Occidente ha dunque imboccato il sentiero della Notte perché, se-

guendo Platone, ha presupposto l'essenza e l’esistenza alla loro sintesi, non scorgendo l’originarietà di quest’ultima. Così concepite, essenza ed esistenza entrano in sintesi solo quando una cosa esiste; ma prima e dopo l’esistenza, tale sintesi non è, è niente. Su questo fondamento (della non originarietà della sintesi) il pensiero platonico, inaugurando

il cammino della civiltà occidentale, può ritenere incontraddittorio che

l'essenza sopravviva all'esistenza e cioè che anche quando la cosa non esiste più la sua essenza continui a esistere. Severino mostra che, così intesa, l’esistenza sarebbe esistenza di niente, mentre l’essenza sarebbe «qualcosa di cui non si saprebbe se sia o non sia un nulla», Il sentiero del Giorno è radicalmente opposto a quello della Notte proprio perché afferma l’essere dell’essente come essenza che esi-

ste, ossia come essenza che non è presupposta all'esistenza: l’essere

dell’essente è sintesi originaria di essenza ed esistenza. Severino può così indicare l’essenza del sentiero del Giorno proprio nell’atto in cui

mette in luce il fondamento della filosofia occidentale (da Platone in

poi). Infatti, proprio analizzando quel percorso (ed Essenza del nichilismo è uno dei testi in cui si compie questo procedimento logicoargomentativo), Severino può evidenziare l'essenza di ciò che gli si oppone essenzialmente e cioè il sentiero del Giorno. Il fondamento essenziale del sentiero della Notte consiste appunto nel non avvertire l’immediatezza del rapporto tra il positivo e la negazione del negativo: «per poter affermare che l’esistenza è inclusa nell’essenza, ossia che l’essenza conviene

per sé all’esistenza,

la ragione

alienata deve

ricorrere a un medio»!*. Il Dio di Tommaso, come l’Idea di Platone, è

la mediazione necessaria tra il positivo e il negativo del negativo. L’intero processo, in cui la metafisica costruisce il senso della parola Dio, funge da medio tra l’essere e il suo non essere nulla: solo dimostrando l’esistenza dell’immutabile si può affermare che c’è un certo ente cui

conviene

necessariamente

l’esistenza,

Insomma,

qualsiasi

dimostra-

zione dell’esistenza necessaria di un certo ente «è un voler andare alla ricerca, ossia è un voler dimostrare ciò che costituisce la stessa verità

originaria dell’essere»!”. Ma, come si diceva, c’è un intimo ed essen-

ziale legame tra la metafisica classica e il pensiero contemporaneo. Severino mostra che «la domanda heideggeriana perché l’ente e non

155 Jhi, p. 78. 156 Jbi, p. 77 13) Ibi, p. 80.

L'annullamento dell’essere non appare: il sentiero del Giorno

87

piuttosto il nulla? — proprio in quanto domanda — esprime nel modo più consequenziario quella separazione astratta tra le determinazioni

e l’givar, che tutto il pensiero occidentale ha ereditato da Parmenide

nella forma piatonica»'. In altri termini: la domanda heideggeriana,

proprio nell’atto in cui mette in discussione la metafisica tradizionale

fondata sull’ente, si interroga sulla verità originaria, ne ricerca cioè il fondamento, chiedendosi se questo non sia il nulla. Come si arriva a tale domanda se non perché anche per Heidegger vale quanto posto,

una volte per tutte, da Platone, ossia che in origine l’essere e le determinazioni sono separati e che, in quanto così separata, «la totalità dell’ente vacilla»'!°? Anche in questo caso, cioè, ci si può domandare perché l'ente è, in quanto non appare immediatamente che l'essere dell'ente è il suo non essere niente. Sapere che l’essere dell’ente è il suo concreto e determinato non essere niente significa portarsi fuori dalla millenaria tradizione occidentale; significa sapere che l’unico «Dio verace è la totalità del posi-

tivo, in quanto posta come ciò che non può sciogliersi dal suo è»!'‘°, Il sentiero del Giorno è dunque il sapere che l'essere è sempre, eternamente, esser essere. Ma come è possibile che ciò che è eternamente se

stesso divenga altro? Non è possibile. Eppure il divenire è innegabile; non è forse innegabile che l’essere appaia come diveniente? Ma cosa appare nel sentiero del Giorno? Appare forse il divenire che appare nel sentiero della Notte? Nella verità dell’essere, ossia lungo il sentiero del

Giorno, il divenire appare come processo in cui l'essere inizia a essere e diventa niente? La processualità dell’apparire dell'essere sembra contenere una contraddizione insuperabile solo se intesa come passaggio dall'essere al niente e viceversa.

Severino

mostra

che, se si è compreso

fino in

fondo il senso della innegabilità dell'essere (come autonegatività originaria del proprio negativo), non si può non rimanere aderenti a quel

significato anche davanti all'esperienza immediata della processualità: «se ci si arrende alla verità dell’essere — se si compie il passo fatale —

si deve andare fino in fondo [...] giacché, una volta che si tiene ferma l'impossibilità che l'essere non sia, non si può ritornare indietro»'', Il

sentiero del Giorno è un sentiero da cui non si torna indietro, perché '* Ibidem. !* Ibidem. ao

Ibi, p.

79.

4 Ibi, p. 82, nota 15.

88

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

il vero «impercorribile assurdo è che l’essere si annulli». Il sentiero del Giorno è la coscienza dell’impossibilità del sentiero della Notte, In questo senso vanno intese affermazioni come queste: «la verità sa quindi a priori che ogni possibile motivazione della sua negazione, e quindi ogni possibile modo individuato, secondo il quale la negazione è motivata, sono soltanto apparenze di motivazioni»'‘. Il sentiero del Giorno è dunque innanzitutto la coscienza che l’immutabilità dell’essere e il suo apparire processuale non sono termini tra loro contraddittori, Alla base di tale coscienza c’è il sapere che l’essere è sintesi originaria di essenza ed esistenza: in quanto tale, cosa appare quando qualcosa diviene? Come possono apparire la nientificazione e l’entificazione dell'essere, se l’essere è sintesi originaria di essenza ed esistenza? La

differenza tra il sentiero della Notte e il sentiero del Giorno è tutta qui;

appare l’esser-niente della cosa che non appare più, oppure appare che

quella cosa non appare più? Insomma cosa attesta davvero l'esperienza? «L’apparire non attesta altro che una successione di eventi»'*; di

ciò che non appare più non appare il suo essere diventato niente, ma il

silenzio dell’apparire sulle sue sorti. In definitiva non è vero che l’esperienza sì costituisca come negazione della verità logica del principio di non contraddizione: questa inconciliabilità non c’è. Come si può notare, il discorso di Severino mira a evidenziare la diversità essenziale del fondamento del sentiero della Notte e del sen-

tiero del Giorno. Da una parte infatti (sentiero del Giorno), tale fonda-

mento risiede nell’immediata impossibilità del suo negativo; dall'altra parte (sentiero della Notte) tale fondamento risiede nella inconsapevole interpretazione di un fatto, ossia in un contenuto la cui negazione non è immediatamente autonegativa e non può essere posta come tale. «La verità dell’essere esige che tutto l’essere sia immutabile, eterno. L'esperienza non attesta l'annullamento dell'essere, ossia il suo diventar niente, 0

essere stato niente: nemmeno quando un'esplosione nucleare distrugge una

città»!

Su quale base si può infatti affermare che l’esperienza attesti l'annullamento? 142 Ibi, p. 83. 15 Ibi, p. 86. tà Jbi, p. 161.

L'annullamento dell’essere non appare: il sentiero del Giorno

89

A distanziare, irmducibilmente, i due sentieri è la risposta a questa

semplice domanda: appare l'annullamento dell’essere? Si consideri,

dice Severino, un pezzo di carta che «sta bruciando rapidamente, e ora è ridotto a poca cenere. Diciamo allora che è andato distrutto e che il risultato di questa distruzione è il suo essere ormai un niente. Ma —

ecco il problema — questo esser niente appare, oppure di quell'oggetto non appare più niente (niente del modo

di essere che gli conveniva

prima di essere bruciato)? Appare che l’oggetto è niente, o l’ogget-

to non appare più? La prima risposta è di coloro che danno valore di verità all’astuzia che consente la vita nel mondo, e cioè di coloro che

trasformano la téchne in epistéme: appare che l’oggetto è ormai un niente, si dice, perché la fiamma che lo andava consumando e la cenere

che è rimasta appartengono al contenuto dell’apparire. Ma se a costoro sì domandasse

se il sole che scompare

dietro le nubi vada distrutto,

essi risponderebbero di no, perché il sole può ritornare; e quando mai

si è visto ritornare un corpo dalle sue ceneri? La cenere resta cenere, e

quindi l'oggetto che è diventato cenere è andato distrutto e non è più

niente. E se domani i corpi ritornassero dalle loro cenerì così come il sole torna fuori dalle nubi? Queste sono solo fantasie, risponderebbero,

perché finora il mondo è andato avanti nel modo che conosciamo»!*, Ad affermare l’entificazione del niente e la nientificazione dell'ente in cui consiste il divenire non è quindi il contenuto dell’apparire,

bensì tale contenuto in quanto «interpretato secondo le categorie di quella saggezza pratica che sinora ha favorito la vita dell'uomo nel

mondo»! E ancora: «se ci si attiene alle categorie dell’à\nBera [...]

allora il divenire che appare non potrà più essere inteso come annullamento dell’essere»!*’. Stando all’apparire (non interpretato dalle categorie della saggezza pratica) si deve affermare che «non attesta altro che una successione di eventi»!*. Ecco il contenuto dell’apparire: «A ogni evento ne succede un altro, nel senso che un secondo evento inco-

mincia ad apparire primo non appare P qu quando il pamo ppare più più!”

[...]. Ma i che ciò, che non appare più, non sia nemmeno più, questo l'apparire non lo rivela [...]). Ma questa è l’interpretazione non veritativa dell’apparire [...]. La comprensione -_———_———€—6

!S Ibi, p. 85.

6 Ibi, p. 86. "? Ibidem.

!® Ibidem.

"° In Destino della necessità sì mostra in realtà la permanenza nel nichilismo di questo modo

1 intendere la successione degli eventi. Si veda in proposito infra, rv, 4.

90

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

veritativa del divenire rivela invece il silenzio dell’apparire circa le sorti di ciò

che non appare»'50,

Il che importa non soltanto un diverso modo di pensare l'essere, ma la negazione delle categorie fondamentali su cui si basa la stessa prassi

dell’uomo occidentale. Una su tutte la categoria di causa e la relazione

di causa effetto su cui è fondata ogni nostra azione. Il diventare altro non risiede pertanto nell’apparire ma nel modo in cui lo si interpreta: «si crede di vedere il mondo e il mondo non è mai stato dinanzi, ma è stato sovrapposto dalla ragione alienata al contenuto verace dell’apparire»'. Qui l’argomentazione di Severino è fondamentale: se un certo ente non appare più, «il suo essere diventato niente

o il suo continuare ad esistere non possono essere determinazioni che

appaiono». Ma se non possono essere affermate sulla base dell’appa-

rire, su quale base possono essere affermate? «Potranno esserlo solo

sulla base del /ogo»'??, Si tratta di due modi di pensare e non, come si potrebbe essere portati a credere, di un modo di pensare (l'essereè

eterno) e di un’evidenza empirica (l’essere si annulla). Ma se si è di

fronte a due ragioni, una «alienata» e una «verace», allora «l'annullamento dell’essere non può porsi come un contenuto fenomenologico — ossia come qualcosa che appare — né come qualcosa di incontrovertibilmente dimostrato o mediato, né può appartenere all’immediatezza del logo. Appartiene invece alla non verità dell'essere, ossia a quel

modo di pensare e di vivere, che da Platone in avanti, trova naturale che

le cose siano un niente»'9. Posto che il contenuto dell’apparire non racchiude l'annullamento ma la comparsa e la scomparsa, Severino procede con una riflessione che tende a esplicitare la logica sottintesa alla convinzione che l’annullamento dell’essere sia l'evidente contenuto dell’apparire. Tale riflessione suona così: ritenere che le cose che appaiono e scompaiono siano e poi non siano più, significa implicare che la totalità dell’essere coincida con l'essere che si presenta. In quel caso «l’entrare e lu scire dall’apparire significano certamente diventare essere e diventare nulla»'54, !5 E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., pp. 86-87.

15! Ibi, p. 161.

152 Ibi, p. 162, nota 6. 153 Ibiden.

!5 Ibi, p. 88.

L'annullamento dell'essere non appare: il sentiero del Giorno

91

Dunque, ritenere che l’annullamento appaia davvero significa ri-

tenere che la totalità dell’apparire (inteso come presentarsi sensibile

della cosa) coincida con la totalità dell’essere: in questo senso Severi-

no può affermare che tutta la metafisica occidentale è stata una fisica.

Per questo, pensare veritativamente il contenuto dell’apparire significa porre il problema di cosa sia Tutto. Non solo. Pensare veritativamente il contenuto dell’apparire significa innanzitutto capire la struttura dell’apparire. Vediamo perché. Sempre in Poscritto Severino fa notare che, anche ammettendo che nel divenire non ci sia annullamento delle cose, si potrebbe ritenere di

dover riconoscere che permane ugualmente un certo annullamento e

precisamente l’annullamento dell’apparire: in quanto la cosa scompa-

re, il suo apparire non sarebbe più l’apparire che è e quindi anche nel

divenire interpretato veritativamente si assisterebbe pur sempre all’annullamento di quell’essere che è l'apparire della cosa. Severino mostra

che tale obiezione non ha consistenza, giacché l'apparire non smette di essere, ma anch’esso scompare come la cosa che appare: «Appare che l'apparire di questo corpo (il suo inserirsi nell’apparire) prima

appare e poi non appare più. Come non appare che questo corpo, bruciandosi, divenga nulla, così non appare nemmeno che l’apparire di questo corpo, sva-

nendo, divenga nulla. Per tutto ciò di cui appare il divenire, il divenire è il suo

comparire e scomparire» "99,

Lo stesso «disfacimento del corpo non ne è l’annientamento, ma è il modo in cui il corpo si porta stabilmente fuori dall’apparire dell'essere» 56, Si tratta pertanto di intendere l'apparire come la vicenda in cui l'immutabile appare e scompare. L’apparire dell'essere è sempre stato pensato come qualcosa di semplice, e questa semplicità ha condotto a intendere l’esistenza dell’ente come un uscire dal niente e tornare nel

niente: se infatti l'apparire viene inteso come un fatto che capita alla

cosa e non come un essente anch'esso, allora, in quanto l'apparire non

è un essente, quando la cosa appare appare semplicemente la cosa, € non c'è bisogno che appaia il suo apparire. Quindi quando la cosa non appare più, non si dice che la cosa eterna ha smesso di apparire in Quanto non appare il suo apparire, ma si conclude che la cosa non è più. e]

1 Ibi, p. 94.

'% Ibi, p. 197.

92

Cap. I - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

Per l'Occidente quando la cosa non c'è, essa non è proprio perché non

è il suo apparire a essere assente ma il suo essere. Ecco perché all’inter-

no della concezione fenomenologica occidentale la cosa non può che

essere concepita come ciò che esce dal niente e al niente ritorna. Per

uscire dalla logica nichilistica occidentale è necessario ripensare in-

contraddittoriamente l'apparire, mostrando che esso non può essere un «fatto», qualcosa di non strutturato logicamente,

ma, al contrario, un

essente eterno consistente in una relazione di significati, in una struttura logico-semantica.

9. L'apparire dell’apparire dell’apparire Nel precedente paragrafo si è incominciato a dire che qualcosa può apparire solo se appare il suo apparire. Ora cercheremo di chiarire il significato dell’espressione “apparire dell’apparire”, che, se non compresa, può sembrare una ripetizione inutile e gratuita, una ridondanza che finisce con il complicare ciò che è perfetto così com'è: il puro e semplice apparire. Che senso ha infatti tale espressione? Inoltre: se c'è un apparire dell’appanre, non ci dovrà poi essere un apparire dell’apparire dell’apparire e così via all’infinito? Prima di indagare la struttura dell’apparire, proprio seguendo Seve-

rino cerchiamo di intenderci sul termine apparire:

«L’'apparire non è l'apparenza; anche le apparenze, come le realtà appaiono. All’opposto dell'apparenza, che nasconde, l’apparire scopre, mette in luce. Per questo lato l'apparire è un trarsi indietro, o in disparte, come è tratto in disparte il sipario perché lo spettacolo possa essere veduto. Solo che nell’apparire non c’è traccia di ciò che si è tratto in disparte: è uno svegliarsi e anzi un essersi già da sempre svegliati a scena aperta. Una negatività, dunque»!”.

Proprio il carattere negativo (nel senso suddetto) dell’apparire è il

fondamento

dei problemi

che comunemente

si incontrano nel com-

prendere e soprattutto nell'accettare che l'apparire sia struttura. Ma vediamo perché. Sempre in Essenza del nichilismo Severino afferma che «l'essere che appare appartiene alla verità dell'essere, perché è innegabile. Ma 15? Ibi, p. 162.

L'apparire dell'apparire dell’apparire

93

è innegabile in quanto si sa che appare, ossia in quanto appare il suo

apparire» '9*.

Il ragionamento gabile e, in quanto appartiene? Perché appare è innegabile, rità dell'essere).

portante è il seguente: l'essere che appare è innetale, appartiene alla verità dell’essere. Perché le la verità dell'essere è l’innegabile. Se l'essere che esso appartiene essenzialmente all’innegabile (ve-

Tale conclusione poggia però sull’affermazione che «l'essere che appare è innegabile». Ebbene, in base a cosa si può affermare che l’essere che appare è innegabile? In quanto «si sa che appare, ossia in quanto appare il suo apparire». Dunque l'essere che appare è innegabile perché esso è saputo come essere che appare: appare cioè il suo

apparire, il suo apparire è presente, è noto, non è assente.

Questo è il fondamento dell’intero discorso: se l'apparire di ciò che appare non fosse presente, ciò che appare non apparirebbe. L'apparire di qualcosa, per poter essere tale, deve essere apparire del suo apparire. L'essere, che appare, appare in quanto si sa che esso appare. L’apparire dell’apparire è cioè la coscienza della presenza e quindi la coscienza del proprio essere presenza. L'apparire è essenzialmente autoreferenzialità. Normalmente si ritiene che una cosa appaia e basta, ovvero che apparire significhi semplicemente apparire. Apparire, invece, mostra Severino, significa già apparire dell’apparire e cioè significa che si sa che la cosa che appare appare: se non lo si sapesse non si potrebbe dire che appare, ossia la cosa non apparirebbe. Dunque l'apparire è sempre affermazione di sé, autoaffermazione, apparire dell’apparire. Apparire dell’apparire significa pertanto che, quando un certo ente appare, quel suo apparire è noto come apparire, si sa cioè che quell’ente che appare appare, che quel suo apparire appare, che è saputo come apparire, che è presente come tale. Se non fosse noto, non si direbbe che c'è un apparire e cioè nulla apparirebbe. La convinzione per cui affinché qualcosa appaia è sufficiente che essa appaia, implica che l'apparire immediato sia qualcosa di irriflesso,

un vedere senza vedere, un pensare senza pensare, un essere noto senza

essere noto; solo in quel caso si può affermare che l'apparire dell'apparire è una sporgenza della riflessione, un'aggiunta del pensiero, una

ulteriorità concettuale e non l'essere originario e immediato dell’appanre nella sua verità. i

n

——_

1 Ibi, p. 237.

94

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno Posta l'immediata autocontraddittorietà di tale presupposto, ogni

difficoltà dovrebbe scomparire: infatti, dicendo che un certo ente appare, si dice già che si sa che esso appare e cioè che, senza quel sapere, non ci sarebbe apparire. L’apparire è già, come tale e necessariamente, il sapersi (o l’apparire) dell’apparire come apparire. Quel sapere, cioè, è la posizione veritativa e fondamentale dell’apparire che si ritiene immediato e semplice. In questo senso Severino può dire che «l'apparire dell'essere è il dire originario; e l’originariamente detto non forma una zona intermedia [...] tra il dire e l'essere che appare: l’originariamente detto è l'essere che appare»!5°.

Insomma sapere che l’ente che appare appare, sapere l'apparire come apparire, non è una posizione ulteriore rispetto all’apparire: «L'apparire — si ritiene — può essere apparire delle cose, senza essere apparire

del loro apparire: l'apparire dell’apparire sarebbe una figura che si realizza

solo qualora si rifletta sull'apparire delle cose. Eppure l'apparire è un predicato che conviene necessariamente alle cose che appaiono»'*9,

Sapere che l'apparire è apparire è una posizione che sta oltre l’apparire solo se si intende che la cosa che appare, appare al di fuori del

pensiero, al di fuori dell'essere cosciente. Ma, come detto, l’idealismo

ha chiarito una volta per tutte che e come un tale apparire sia impossibile. In questo senso la cosa che appare è l’avere coscienza della cosa che appare e tale avere coscienza è l’essere cosciente di essere coscienza. Sembra complicato, in realtà è la complessità di quell’unico atto (l'apparire) che si pone come semplice: l’avere coscienza non è qualcosa di incosciente relativamente a sé; l'avere coscienza è tale, solo se si sa come avere coscienza. Altrimenti non sarebbe un avere coscienza, ma sarebbe un essere incosciente. Pertanto la coscienza della cosa che ap-

pare (l'apparire semplice) è già, cioè in quanto tale, coscienza di essere coscienza (apparire dell’apparire). La coscienza della cosa che appare è innanzitutto autocoscienza; se non fosse tale, non sarebbe nemmeno

coscienza della cosa. La coscienza di essere coscienza (autocoscienza) è dunque

la posizione

concreta

e veritativa dell’avere coscienza

semplice (il puro apparire): al di fuori dell’apparire dell’apparire non 1° Ibidem.

160 /pj, p,95.

L'apparire dell’apparire dell'apparire

95

ci può essere apparire, al di fuori dell’autocoscienza non ci può essere coscienza. Ne La struttura originaria (testo che verrà analiticamente

trattato nel prossimo capitolo) si dice che «nella struttura originaria

della necessità, l'apparire include originariamente sè stesso nel proprio contenuto». Quando qualcosa appare, appare, immediatamente e ne-

cessariamente, il suo apparire; ossia qualcosa appare in quanto appare il suo apparire, è presente il suo essere presente: «l’apparire dell’essere è insieme, necessariamente, apparire di sé medesimo, ossia il contenuto che appare include necessariamente il suo apparire»'9?. L'apparire è propriamente il «suo essere contenuto di sé medesi-

mo». Ma non solo, quando l'essere appare, appare il suo apparire, 0s-

sia non solo la coscienza è originariamente autocoscienza; affinché la coscienza sia davvero tale, cioè autocoscienza, è necessario che essa sia coscienza di essere tale. Dunque è necessario che l'apparire non

sia solo apparire dell’apparire ma anche apparire, cioè posizione, coscienza ecc. del proprio essere apparire dell’apparire: l'apparire sem-

plice è già, in quanto tale, apparire dell’apparire dell'apparire. Infatti,

dal momento che la cosa appare solo in quanto si sa che appare, ossia

in quanto si sa che l’apparire è apparire, è necessario che quel sapere sia a sua volta saputo: se la coscienza della cosa che appare è coscienza del proprio essere coscienza, questo proprio essere autocoscienza deve essere noto: l’avere coscienza esiste solo se si sa come tale, cioè se si pone come Io; ma l’Io, per essere tale, deve sapersi come Io. L’'Io cioè non esiste come mera cosalità, ma come coscienza di essere quella

autocoscienza che esso è: in caso contrario esso non sarebbe un esser «io», ovvero sarebbe «io» nello stesso modo in cui lo era quel bonzo

che, imbattutosi in uno specchio, esclamò: che bel ritratto di bonzo!

La coscienza (apparire), ritenuta semplice in quanto non strutturata logicamente, è invece una complessa struttura semantica, consistente nella coscienza di essere autocoscienza (nell’apparire dell'apparire

dell ‘apparire). Questi

tre momenti

(coscienza,

autocoscienza

e co-

scienza dell’autocoscienza) sono tre momenti del medesimo atto: l’apparire è questo unico atto, che dunque non possiede nulla di semplice ma è, anzi, una struttura logica. Il che significa che, quando qualcosa

appare, appare quest’unico atto che si struttura in questi tre momenti o

significati originari. —__—_

. ta E. Severino, La struttura originaria, cit., p.91. lè

E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 96.

96

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno I tre momenti

sono dunque i tre momenti dell’analisi dell’origina-

rio. Il che esclude la prospettiva di prolungabilità all’infinito dell’analisi: non c'è un momento quarto e quinto e sesto e così via, perché la coscienza

dell’autocoscienza

chiude

il cerchio,

per così dire, dal

momento che proprio di circolo qui si tratta. L’apparire dell’apparire dell’apparire non dà luogo a regressus a infinitum perché la cosa che appare include originariamente il proprio apparire e il suo apparire come apparire; l’apparire non è qualcosa che si aggiunge alla cosa che appare, ma le appartiene originariamente. Si tratta dunque propriamente di circolarità nel senso della autori flessività, del ritorno a sé, che però, a differenza dell’idealismo, non

deve essere inteso come processo in cui inizialmente i tre momenti stanno gli uni fuorì dagli altri, ma in cui i tre momenti, come detto, sono tre modi originari del medesimo e unico atto. C’è un unico e medesimo apparire, che è coscienza del proprio essere autocoscienza. I tre momenti sono, cioè, la messa a fuoco della cosa (in questo caso

l'apparire) nella sua verità originaria. Le difficoltà che si possono incontrare nel comprendere questa struttura dell’apparire e l'apparire come struttura affondano le loro radici nella semplicità fenomenologica sostenuta dalla filosofia occidentale (tolto appunto l’idealismo): l'apparire sembra qualcosa di semplice e l'affermazione per cui l’apparire è apparire solo in quantoè già apparire di sé medesimo, sembra una complicazione dovuta alla capziosità della riflessione filosofica, che sopraggiunge a complicare ciò che è naturalmente semplice. Il disagio del pensiero comune di fronte all'affermazione che l'apparire è apparire dell’apparire è dovuto a un'abitudine logica e psicologica che affonda le sue radici nella stessa filosofia. La filosofia occidentale è alla base di questo disagio del pensiero comune, in quanto da sempre sostiene e avvalora il carattere semplice dell’apparire. 10. / due inconsci dell'Occidente: il nichilismo e la Gioia

Questo paragrafo si collega a quello precedente in quanto prosegue nell’approfondimento del significato apparire e nell'analisi della metafisica occidentale, mostrando come l'alienazione di quest’ultima sia fondata su (e dunque dipendente da) altre due alienazioni. Per gli argo menti che tratta questo paragrafo si collega idealmente al v capitolo,

I due inconsci dell'Occidente: il nichilismo e la Gioia

97

che tematizza la questione del rapporto tra alienazione e salvezza, e ne costituisce la premessa concettuale. All’interno del presente capitolo,

però, questo paragrafo «chiude il cerchio», presentando entrambe le

“anime” dell’Occidente, i suoi due inconsci: quello, più superficiale, del nichilismo e quello, più profondo, del destino della verità. L'Oc-

cidente è leggibile per Severino seguendo due diversi sensi del piano inclinato: quello che dalla superficie (epistéme e anti-epistéme) con-

duce all'essenza della superficie stessa (fede nell’evidenza originaria del divenire, nichilismo), e quello che dall’essenza della superficie (divenire, nichilismo) conduce all’essenza non alienata dell'uomo: la non-follia, la Gioia. «Noi siamo la Gioia. Questa parola non indica un sentimento psicologico: indica il gioire del Tutto per il suo essere il Tutto: appagamento di ogni bisogno, libe-

razione di ogni dolore, il colmarsi di ogni lacuna. Ma noi siamo anche la fede di essere circondati e penetrati dal dolore, dalla morte, dal niente. E facciamo presto ad allontanare dalla serietà della nostra esistenza la fola secondo cui noi sa-

remmo il gioire del Tutto. Noi siamo la Gioia e, insieme, la fede di essere tutt’altro. Due anime abitano nel nostro petto; una nascosta, e l’altra manifesta»! In realtà anche quella manifesta, come abbiamo visto, è manifesta

solo parzialmente, in quanto non sa (e non può sapere) che la nientità dell’ente non è verità ma il frutto di un’interpretazione. In questo senso, «se il nichilismo è l'inconscio dell'Occidente, non si dovrà dire forse che il paese che sta oltre i confini dell'Occidente e dal quale proviene il linguaggio che indica l'inconscio dell'Occidente, è l'inconscio dell'inconscio dell’Occidente?»'#, Come si è detto, l'inconscio nichilistico non è il fondo ultimo dell'Occidente. Al fondo di quell’inconscio c'è un altro inconscio, definibile per l'appunto «inconscio dell'inconscio», che consiste nella verità originaria dell’essere e che è presente al fondo di ogni abitatore del tempo. In questo senso l’uomo è la convinzione di essere mortale, pur essendo presente, nel suo più profondo inconscio, la posizione della propria eternità, la Gioia. L'uomo è questa convivenza. La filosofia di Severino si afferma dunque come il tentativo di espri-

mere «per la prima volta, ma nel modo più determinato e concreto, la

Struttura inconscia che sta alle spalle della stessa struttura inconscia —_—_

'° E, Severino, La strada, la follia e la gioia, cit., p. 87. 4 Ibi, p. 97,

98

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

dell'Occidente»! e insieme come «il tentativo di condurre nel linguaggio la struttura della civiltà occidentale», il cui «senso autentico si lascia cogliere in un sottosuolo essenzialmente più profondo di quello espiorato da Hegel, dal marxismo, dalla psicoanalisi, dalla linea ermeneutica

Nietzsche-Heidegger,

dallo

strutturalismo.

Questo

sottosuolo

può essere raggiunto solo se [...] si lascia che il luogo della Necessità (ossia

la struttura originaria della Necessità), già da sempre aperto al di fuori della struttura dell'Occidente, consenta al linguaggio di testimoniarlo come qualcosa di abissalmente estraneo a quell'altro luogo che è appunto la struttura

in cui cresce la storia dell’Occidente. Se questa struttura continua a rimanere l’inconscio essenziale della nostra civiltà, quell'altra — il luogo della Necessità — è l'inconscio di questo inconscio, il sottosuolo del sottosuolo, l’avvolgente

dell'avvolgente»!99.

Nel precedente paragrafo si è visto come l'apparire non sia qualcosa

di semplice ma una struttura articolata in diversi momenti e significati;

ora si analizzerà quel particolare apparire dell’essere in cui consiste la Terra (espressione che indica la totalità delle cose che entrano ed escono

dall’apparire) e il suo isolamento, che trasforma l’uomo in un mortale

e lo aliena dalla sua vera essenza: l'essere apparire dell’essere. Queste tematiche costituiscono gli elementi fondamentali per capire perché la storia dell'Occidente è stata la storia dell'errore e se e come è possibile porsi il problema del superamento dell’errore. La loro trattazione (il cui riferimento in questo contesto è stato La Terra e l'essenza dell’uomo e in generale Essenza del nichilismo) trova il proprio completamento nel capitolo v del presente scritto, intitolato Alienazione e Salvezza. A esso però si potrà giungere correttamente solo dopo aver percorso e com-

preso le questioni contenute nei capitoli Il e I (in cui viene chiarito il senso in cui l'essere è fondamento e linguaggio). Nel capitolo v, infatti, si mostrerà che ogni risposta ai presenti interrogativi e in generale alla domanda che chiede se sia possibile portarsi fuori dall’errore è da ricercare in quella dimensione che Severino definisce Gioia (Destino della necessità) e quindi Gloria (La Gloria, Oltrepassare). Il riferimento bibliografico, per il lettore che volesse approfondire, si basa pertanto sul percorso concettuale che da Essenza del nichilismo conduce a Destino della Necessità, quindi a La Gloria e a Oltrepassare. ‘5 E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 14. ! E. Severino, Gli abitatori del tempo, cit., p. 7.

99

Idue inconsci dell'Occidente: il nichilismo e la Gioia

«I mortali credono di vivere in un mondo che, comunque sia inteso da essi, è isolato dal destino della verità. Nei miei scritti, la parola terra indica l'insieme

di ciò che sopraggiunge [...). I mortali non sanno che ciò in cui credono di

vivere è la terra isolata dal destino. Chi sa questo — chi sa — è il destino»!??.

Il fondamento del nichilismo consiste nell'isolare la terra da ciò che

le conviene essenzialmente. Sul fondamento di questo isolamento l’uo-

mo diventa il mortale e il nichilismo diventa il fondamento dell’Occi-

dente, che «non sta più semplicemente a fondamento rie, operazioni mentali, ma fonda ormai anche tutte le agire storico dell’Occidente»'9, L’isolamento della terra è dunque il fondamento del capitolo La terra e l'essenza dell’uomo, contenuto in

di pensieri, teoopere e l’intero nichilismo. Nel Essenza del ni-

chilismo, la riflessione si rivolge proprio all’eternità dell'ente in rela-

zione all’apparire della Terra e all'uomo come apparire. Dicendo che tutto quello che appare è eterno, si deve dire che anche quell’ente che consiste nell’apparire di ciò che appare è eterno, così come si deve dire che anche quell’ente che consiste nella dimensione trascendentale

dell’apparire è eterno: l'apparire come trascendentale” non può cioè apparire e sere, infatti, «non consente nemmeno di nulla (o che sarebbe potuto non apparire

“orizzonte totale” ed “evento scomparire. La verità dell’essupporre che non appaia più nulla); se ciò accadesse, l’ap-

parire (cioè un non niente) diventerebbe un niente. L'essere è destina-

to ad apparire; in questa destinazione risiede l'essenza dell’uomo»! L'uomo è l’apparire dell’essere: «io significa apparire in quanto ha

come contenuto sé medesimo; cioè esprime in forma brachilogica l'1-

dentità della forma e del contenuto»'?, Dunque l'essenza dell'uomo è essere coscienza dell’essere e la filosofia è la coscienza di questa essenza. Qui si può porre la questione centrale ed essenziale: non è l’essere a essere in contraddizione, ma l’uomo: «l'essere è incontraddittorio, ma

l’uomo si contraddice»!?!. Il pensiero dell’uomo, in quanto apparire, è lo sfondo intramontabile in cui le cose entrano ed escono; esso «è il fermo luogo che accoglie l’accadimento». In quanto accoglie ciò che appare e poi scompare, —_

— _— I

E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 30. . di . de ‘E, Severino, La struttura originaria, cit.; p. 15.

'* E, Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 198. 0 Ibidem. "Ibi, p.171.

100

Cap. 1 - Il sentiero della notte e il sentiero del giorno

l’apparire finito non accoglie tutto ciò che è, ossia non coincide con

l’apparire infinito dell'essere. Per questo viene detto “apparire finito”,

L'uomo è la coscienza o l'apparire finito dell’essere, che non tramonta mai, ma nemmeno mostra tutto ciò che è. Quindi l’apparire finito

dell’essere, ossia la verità in quanto appare presentando come tutto ciò

che tutto non è, è una contraddizione

consistente nell'essere un dire

che si presenta come un dire che non dice (e non può dire) tutto. Nel secondo capitolo vedremo che, affinché quel tutto formale appaia, è necessario che appaiano alcune determinazioni essenziali dell’essere che costituiscono una totalità semantica intramontabile (lo “sfondo”).

Ma «nella vita dell’uomo la filosofia è un evento insolito: l’uomo vive solitamente nella non verità»'?? e «in quanto vive nella non verità, l’uomo è apparire di una contesa: tra la verità, che eternamente appare, e l’errore»!?, Non negando l'errore, l'uomo è l’apparire di tale convivenza. Quindi, da una parte si ha l’uomo come apparire finito della verità che, in quanto apparire finito, è contraddizione, poiché pone come tutto ciò che tutto non è; dall’altra l’uomo come errore, ossia come contesa in cui la verità si trova coinvolta in una contraddizione più ampia, quella tra il proprio essere contraddizione (che non nega la verità dell’essere, ma solamente non lascia apparire tutto ciò che è) e la contraddizione che nega la verità dell’essere, la contraddizione ad esempio in cui consiste il nichilismo occidentale. L'apparire finito in cui consiste l’essere umano è esposto all’errore, perché aperto all’irruzione dell’errore come non negato: infatti, non apparendo tutte le determinazioni e gli essenti dell'originario, l'errore può apparire come non negato e cioè come non errore, come verità. Basti pensare al sentiero della Notte. In questo senso si può parlare di «potenza dell'errore»; in quanto all’interno dell’apparire finito esso è capace di «mantenersi nell’apparire in contesa con la verità»!”. Il vivere nella non verità è dunque l'apparire di una contraddizione «che appare come ciò che deve essere tolto, ma che intanto non si lascia togliere perché i contendenti possiedono uguale potenza»!”5. La Terra è dunque l’apparire finito delle cose in cui l'errore può fare irruzione. Non porre l’errore come tale significa credere che la Terra

V2 {bi, p. 201. 193 Ibi, p. 203. v4 Ibi, p. 205. 19 Ibidem.

Idue inconsci dell'Occidente: il nichilismo e la Gioia

101

coincida con la Totalità delle cose, che oltre essa non ci sia niente.

Una tale concezione dell’apparire lo separa dal resto dell’essere. In questo modo la Terra, sguardo parziale sull’essere, nello sguardo del nichilismo viene isolata dalla verità. C'è dunque una parzialità non imputabile all'uomo ma derivante dalla sua finitezza strutturale, ovve-

ro dalla finitezza dell’apparire (finito) dell’essere, e c’è un isolamento

imputabile all'uomo, che non si limita ad accogliere l'essere, ma sta-

bilisce che ciò che così egli accoglie sia anche ciò che di più certo e sicuro sia. L'uomo che isola la Terra è il mortale. Ed è tale perché ha

fede nel divenire altro: «la morte (innanzitutto quella altrui) è infatti il

contenuto della fede in quella forma preminente del divenir altro dove nell’altro, cioè nel cadavere, non si manifesta più la volontà di divenire

e di far divenir altro [...] E se la forma preminente del divenir altro è la

morte dell’uomo, ogni forma del divenir altro è un morire»!”, Il mortale è «alienazione del destino» perché isola l’essente dal destino. Per questo l’uomo, nello sguardo del destino, è il presentarsi dello scontro tra la fede nel diventare altro e l'apparire del destino.

Si ponga attenzione a non identificare l'isolamento della Terra con la finitezza dell'apparire infinito. Dire che la Terra è isolata non significa dire che l'apparire della Terra sia privo dell'apparire della verità, ma che il pensiero isola ciò che appare dall’apparire della verità. Un apparire così isolato è appunto la Terra isolata. Ma si tratta, come vedremo,

di due isolamenti essenzialmente diversi: il presentarsi parziale del deslino, ossia l'isolamento dell’apparire finito del destino da quell’apparire infinito che pure esso è, e l’ulteriore e diverso isolamento che separa quel presentarsi dalla verità. L'uomo è il luogo in cui accade

tale isolamento dalla verità, ma è anche il presentarsi del destino; in questo senso la filosofia «è lo stesso atto eterno in cui consiste l’essenza dell’uomo, come eterno apparire della verità dell'essere»!”?. Si è dunque giunti al momento di occuparsi di tale «verità».

———__

n E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 64.

E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 212.

CAPITOLO

SECONDO

LA STRUTTURA ORIGINARIA

«La struttura originaria è l'essenza del fondamento. In questo senso è la struttura anapodittica del sapere e cioè

lo strutturarsi della principalità, o dell’immediatezza.

Ciò importa che l'essenza del fondamento non sia un che di semplice,

molteplice».

ma

una

complessità,

o l’unità di un

(E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 107)

1. Che cos'è la struttura originaria?

Nel precedente capitolo si è considerata la critica che Severino rivolge alla metafisica e alla civiltà occidentale, in quanto fondate sulla convinzione che il contenuto di una fede (il divenire come entificazio-

ne del niente e nientificazione dell’essente) sia il contenuto originario dell’apparire. È evidente come tale critica sia possibile solo in quanto si vede quella fede come fede e quindi in quanto si esclude che il divenire (come passaggio essere-non essere) sia un contenuto originario dell’apparire. Sempre nel precedente capitolo si è anche visto in cosa consiste il fondamento della negazione che l’apparire sia, nella sua immediatezza, il luogo in cui l’essere diventa niente e in cui il niente

diventa essere: in quanto è impossibile che l’essere non sia essere, è impossibile che l'apparire possa contenerne l'annullamento. È impossibile che l'apparire contenga l'impossibile. Il fondamento di quella critica consiste pertanto nella posizione della necessità dell'opposizione assoluta tra essere e non essere: in quanto l'essere non può essere niente, l'apparire non può essere l’accadere dell'impossibile. Dal momento che non è possibile che il contenuto originario dell’apparire sia l’entificazione del niente e la nientificazio-

ne dell'ente, si tratta di analizzare il contenuto originario dell’apparire.

Ci si deve perciò rivolgere alla verità della verità, dal momento che,

«poiché la verità è la struttura delle determinazioni necessarie di ciò

che con verità può essere affermato, nessun essere può apparire se non

104

Cap. It - La struttura originaria

appare la verità dell’essere»'. In questo senso, nel primo capitolo, si

è iniziato a parlare di un inconscio dell'Occidente (nichilismo come

verità dell'Occidente) e di un inconscio dell’inconscio (de-stino come

verità dell’essere e dunque anche di quell’essente che è l'Occidente).

La critica al nichilismo occidentale è dunque fondata sull’afferma-

zione della verità della verità ossia sulla verità del significato essere. Severino si occupa del significato veritativo dell’essere (si potrebbe quasi dire della sua “grammatica”) in uno scritto intitolato La struttura

originaria (1958), che, nonostante includa ancora (a dire dello stesso Severino) alcuni aspetti nichilistici, «nimane ancora oggi il terreno

dove tutti i miei scritti ricevono il senso che è loro proprio»?. Nell’in-

troduzione (1981) a La struttura originaria Severino riconduce tale

residua permanenza nel nichilismo all'incapacità di concepire l’apparire in modo completamente estraneo ai principi della fenomenologia di stampo husserliano?. Il nichilismo de La struttura originaria viene emendato negli scritti successivi, a partire da Essenza del nichilismo quindi con Destino della necessità e in modo particolare con La Gloria e Oltrepassare, che hanno anche il compito di integrare e approfondire

alcune questioni fondamentali. Severino stesso rileva che il testo del 1958 «incomincia a parlare la lingua della testimonianza della necessità», e cioè, in quanto incomincia, ancora «rimane sotto la lingua che testimonia l'isolamento della terra dalla Necessità»4.

La struttura originariaè un libro molto particolare. Infatti, a differenza degli altri scritti, dove la parte iniziale e introduttiva consiste quasi sempre in una pars destruens (critica all'Occidente come negazione

della verità dell’essere) a cui segue, come fondamento della prima,

una pars costruens (affermazione della verità dell'essere), la struttura

originaria non accoglie nessuna questione dall’esterno, ma, partendo dall’opposizione fondamentale dell’essere al non essere, mostra tutto quello che tale affermazione significa e porta con sé. In questa sua esposizione (o analisi) si incontrano le posizioni filosofiche dell’Occi-

dente (la storia efferruale) non perché introdotti esternamente, ma perché costituiscono le negazioni della stessa struttura originaria, la quale,

in quanto fondamento, consiste essenzialmente nel loro toglimento.

! Ibi, p. 200. 2 E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 13. ® Per approfondire il nichilismo de La struttura originaria cfr. l’ultimo paragrafo del presente capitolo. < E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 16.

Ch e cos'è la struttura originaria? 8

105

Per questa sua interna articolazione può ricordare l’ Ethica ordine geo-

metrico demonstrata di Spinoza’, anche se, nel caso de La struttura originaria, il criterio che guida l’esposizione è puramente funzionale

alla chiarezza comunicativa e non segue un ordine logico immanente

e necessario. Parte dal significato dell'essere come originarietà, ossia

fondamento, e attraversa tutte le significazioni che, direttamente o in-

direttamente, competono a tale dimensione logica e semantica, incontrando — non perché acquisite dall’esterno ma in quanto emerse dal suo

intemo — tutte le determinazioni e le questioni via via pensate e poste

dalla metafisica occidentale: fondamento, principio di non contraddizione, apparire, proposizione, giudizio (analitico, sintetico a priori e

a posteriori), dialettica, metafisica, trascendentale ecc. Dicendo che procede dall'interno e non dall’esterno significa che le grandi questioni metafisiche non vengono accolte come questioni preesistenti di cui La struttura originaria sì faccia carico, ma come aspetti che vengono via via scoperti dall'analisi del senso dell’opposizione tra essere e non essere: «l'intento dell’intera indagine contenuta ne La struttura originaria è di determinare in maniera rigorosa il senso dell’opposizione del negativo e del positivo». Non solo questo avvicinamento alla metafisica occidentale avviene dall'interno, ma, in quanto procede come riflessione sul significato autentico dell’opposizione essere-non essere, esso non è un avvicinamento ma una progressiva contrapposizione e toglimento, poiché, negando il nichilismo che sta alla base delle posizioni, determinazioni, signifi-

cati e categorie occidentali, nega completamente il significato che queste ultime avevano assunto e pone la propria concretezza nel loro toglimento. Avremo cura di indicare questa differenza in maniera analitica,

mostrando specificamente come le singole determinazioni categoriali, pensate alla luce dell'opposizione non nichilistica dell’essere al non essere, siano distanti dalle corrispettive determinazioni pensate e poste dalla metafisica occidentale. Si è dato grande spazio alla spiegazione di questo testo perché è fondamentale. Data la sua importanza, accanto al chiarimento delle complesse questioni in esso contenute, si è contestualmente cercato di

conservare in buona misura il suo linguaggio specifico. Ciò consentirà al lettore di tornare agevolmente a quelle pagine per proprio conto. _————

1 Cfr. infra, vi,

6

, è E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 36.

106

Cap. Il - La struttura originaria

Il testo de La struttura originaria si pone come la testimonianza della verità originaria dell'essere in quanto opposizione originaria alla

propria negazione. Come si vede c'è un termine che ricorre: originario, Che bisogno c’è di specificare che si tratta di verità originaria? C'entra forse con il fatto che si è poi aggiunto «in quanto opposizione originaria alla propria negazione»? Queste domande conducono direttamente al cuore della questione. Infatti, se l’obiettivo de La struttura originaria è l’approfondimento del senso autentico dell'opposizione tra essere

e non essere, il fondamento dell’intera riflessione è, come vedremo, proprio l’originarietà.

Stando al testo de La struttura originaria, all’inizio del primo paragrafo del primo capitolo si legge che la struttura originaria dell’essere

è l'essenza del fondamento:

«La struttura originaria è l'essenza del fondamento. In questo senso è la strut-

tura anapodittica del sapere e cioè lo strutturarsi della principalità, o dell’im-

mediatezza. Ciò importa che l'essenza del fondamento non sia un che di semplice, ma una complessità, o l’unità di un molteplice»?.

Mettendo in conto un possibile disagio del lettore davanti a questo linguaggio, si intende partire dal chiarimento dei termini struttu-

ra e originario per arrivare a chiarire espressioni come essenza del fondamento, strutturarsi della principalità e struttura anapodittica del sapere. La corretta comprensione di tale linguaggio è il presupposto

fondamentale della comprensione dell’intera filosofia di Severino. Ciò a cui quelle espressioni si riferiscono, quali suoi predicati,è la struttura originaria. Ma cosa significa questa espressione? Struttura significa unità non semplice, nel senso di complesso logico e semantico costituito da una pluralità di determinazioni essenzialmente intrecciate tra loro. Che siano essenzialmente intrecciate tra loro signi-

fica che sono concretamente ciò che sono solo all’interno di quell’intreccio. Il che rende quella pluralità di determinazioni una pluralità di modi diversi di predicare l’identico. La struttura originaria dell’essere è dunque una predicazione di identici. Il lettore pensi a una corda: essa è quell’unità che è formata da un intreccio di fili; quell’intreccio, pur essendo complesso, è unico, e, pur essendo unico, è complesso:

togliendo anche solo uno di quei fili, viene meno ciò che esso è. Per questo, nonostante la necessaria (in quanto discorsiva) progressività ? Ibi, p. 107.

Che cos'è la struttura originaria?

107

dell'analisi, Severino avverte fin dall'inizio (Prefazione 1957) che «il

discorso non verte, per dir così, su di un segmento, ma su di un punto logico; onde tutti gli elementi dell'esposizione sono, sin dall'inizio, egualmente richiesti»*. Insomma, in termini più chiari ed espliciti, si sta dicendo che una struttura è un’unità complessa, cioè qualcosa che consta di parti e significati che solamente tutti insieme sono quell’unità che sono; quindi si dovrebbe pensare a essi e averli presenti solo in quanto parti di un tutto da cui non possono essere disgiunti e separati.

Ma perché l’essere è struttura? Severino ci dice che esso è struttura

perché è originario, e in quanto originario è fondamento: «ciò importa che l'essenza del fondamento non sia un che di semplice, ma una complessità, o l’unità di un molteplice»®. Prima di spiegare il perché essere originario (ossia fondamento) significa essere struttura, chiariamo

perché essere originario significhi essere fondamento. Si tratta, cioè, di analizzare il significato originario. Originario significa essente e ap-

parente non mediante altro; tutta l’opera di Severino è un chiarimento,

diretto o indiretto, del significato del termine originario. A tale proposito c'è un breve passaggio di Oltre il linguaggio (raccolta di saggi principalmente rivolti al rapporto tra linguaggio e verità, ma contenente anche altre analisi di grande rilievo concettuale, esposte con grande chiarezza ed esaustività) che vale la pena citare: «l'originarietà dell’innegabile consiste dunque nell’impossibilità che ciò la cui negazione è autonegazione sia affermato sul fondamento di altro. L'originario non ha dunque nulla a che vedere con “ciò che si presenta per la prima volta”, o con “l’istante” — quale sembra essere l’originario husserliano (almeno nell’interpretazione datane da J. Derrida)»!°. Per capire cos'è l'originarietà dell'essere partiamo dal significato essere: essere significa innegabilità, impossibilità di non essere. In quanto la negazione dell'essere è impossibile, ossia in quanto l'essere è ciò che non può non esistere, esso è necessariamente originario: l'essere è ciò che originariamente esiste, Esso è originario, cioè immediatamente essente e apparente, dove immediatamente significa per sé e non per altro: se fosse noto o fosse essente attraverso altro, non sarebbe originario. Come sl nota, tutte queste determinazioni logiche e semantiche dell'essere sono cooriginarie e per questo esso è struttura: il significato essenziale dell'essere è l’originarietà, e cioè l'essere intreccio (nel senso che si è =————+—

8 Ibi, PP. 105-106.

° Ibi, p. 107,

"E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 157.

108

Cap. ll - La struttura originaria

indicato sopra) di predicazioni e significati. L'essere, in quanto origi.

nario, non è un significato semplice ma un intreccio di significati, cioè una struttura. Dunque l’essere è struttura perché è originario, in quanto cioè è l'insieme delle determinazioni che rendono essere l'essere e che, come tali, solo tutte insieme lo costituiscono veritativamente. In questo

senso si trovano spesso, negli scritti di Severino, affermazioni come

questa: «Ia totalità dell’immediato è una struttura semantica costituita

da una pluralità di fattori semantici»!!.

Nella sua verità l'essere è struttura originaria: originaria, in quanto

il suo negativo è impossibile; struttura in quanto, essendo originaria, è un'articolazione di senso, consistente innanzitutto nell’identità tra l’affermativo dell’affermativo e il negativo del negativo. Ecco chiarito perché l’essere sia lo «strutturarsi della principalità, o dell’immediatezza» e perché «importa che l’essenza del fondamento non sia un che di semplice, ma una complessità, o l’unità di un molteplice»: immedia-

tezza (originarietà) significa l'impossibilità del proprio negativo (altrimenti l’essere sarebbe un mediato) e quindi significa struttura. L'essere è srruttura in quanto è originario, ed è originario in quanto è struttura: se, infatti, non fosse struttura, non potrebbe essere originario, in quanto l’originarietà è una complessità semantica. Come si può iniziare a no-

tare, i predicati dell’identico sono identici.

Il modo in cui l’originario è necessariamente negazione del pro-

prio negativo lo struttura immediatamente come fondamento: l'essenza

dell’originario è di essere fondamento, ossia negazione della propria negazione. Nell’/ntroduzione (1981) a La Struttura originaria (1958)

si legge che essa «non è un prodotto teorico dell’uomo o di Dio, ma il

luogo già da sempre aperto della Necessità»'!?. Nel linguaggio severiniano, come si è visto nel precedente capitolo, necessità (ne-cedo) in-

dica l’assoluta innegabilità dell’essere: «la struttura originaria indica la struttura originaria della Necessità alla quale si riferisce Destino della necessità»!*?. Come detto in precedenza!‘, la necessità è tale perché il negativo dell’originario è originariamente tolto. L'espressione “già” nei testi di Severino è un modo per esprimere tale necessità dell’originario. L’originario è originario — e cioè immediato — in quanto il suo negativo è impossibile; ed è impossibile in quanto non si può costituire; "' E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 283. 12 Ibi, p. 13. ! Ibi, p.99.

“ Cfr. a tale proposito quanto detto sulla necessità e sul destino nel 1 capitolo.

Che cos’è la struttura originaria?

109

e non si può costituire in quanto implica e realizza il contrario di quello

che vorrebbe fare: l'intenzione di negare la verità originaria accade

inevitabilmente come sua affermazione. Avvicinandosi all’è/enchos

aristotelico, Severino mostra che il negativo dell’originario è un’au-

tonegazione che implica ciò che intende negare; ovvero mostra che il negativo dell’originario non è qualcosa che esiste e viene tolto, ma

qualcosa che non riesce, mai, a costituirsi. Negare l’originario significa

presupporlo e pertanto ogni tentativo di negarlo (che resta per l’appunto tentativo) non

solo è immediatamente

autonegativo,

ma

dà luogo

inevitabilmente a una implicita affermazione di ciò che intende negare. Questa forza innegabile, in cui consiste l'immediata autonegatività del proprio negativo, è propriamente la Necessità!*. Si capisce bene in che senso Severino neghi che la Necessità dell’essere possa essere il pro-

dotto intellettuale di qualcuno. Ma tutto ciò ha anche reso più semplice comprendere l’affermazione de La struttura originaria da cui siamo partiti e cioè che «la struttura originaria è l'essenza del fondamento». Infatti, in quanto l'essere

nega originariamente il proprio negativo, esso è struttura originaria;

ma, in quanto tale, la struttura originaria è l'essenza (il vero modo di

essere) del fondamento, ossia di ciò che consiste nel toglimento della

propria negazione. Essere fondamento significa mostrare l’impossibilità del proprio negativo; e in quanto la struttura originaria è il toglimento originario del proprio negativo, essa è l'essenza del fondamento. Riassumendo: l’essere è originarietà, dove originarietà significa immediata autonegatività del proprio negativo; in quanto originarietà, esso è struttura, cioè unità di un molteplice. In quanto struttura originaria l'essere è dunque essenza del fondamento, giacché essere fonda-

mento significa non consentire al proprio negativo di esistere. E chiaro che l’espressione essenza del fondamento va compresa al di fuori della metafisica occidentale. Nel pensiero di Severino, o per meglio dire nel linguaggio della Necessità, i termini “essenza” e “fondamento” acquistano un significato mai incontrato lungo il sentiero della Notte: lungo il sentiero della Notte essi indicano ciò che è stato isolato da una certa determinazione in quanto ritenuto «più vero»; e proprio perché ritenuto tale, può essere affermato come la sostanza della deter-

minazione, implicando che il resto sia accidentale e inessenziale, non fondamentale appunto. In Essenza del nichilismo Severino rileva come =—__—_—_—_—_—_—__—&

Cfr. infra, vi, 5.

" Cfr. infra, vi, 6.

110

Cap. 11 - La struttura originaria

da Platone in poi la parola essenza abbia indicato il ciò che è della cosa,

trovando il proprio completamento concettuale (al di là delle differenze più rivendicate che effettive) nel fundamentum o sub-stantia aristoteli-

ca (hypokeìmenon). Nella concezione predicativa occidentale ‘“essen-

za” e “fondamento” sono la base permanente cui possono convenire le proprietà accidentali, i predicati contingenti. Sappiamo bene come la nostra grammatica e logica predicativa siano radicate in questa concezione: il soggetto e il predicato sono termini diversi, esistenti l’uno fuori dall'altro, che possono unirsi a un certo punto. L'identificazione

che ne consegue è una contraddizione, in quanto implica che qualcosa sia identico e insieme non identico. Questa identificazione impossibile

è il divenire altro, di cui Severino si occupa in tutti i suoi scritti (ap-

profondendone e sviscerandone costantemente le modalità, da Essenza del nichilismo fino a Oltrepassare), indicando le responsabilità di Platone e Aristotele nell’aver condotto l’intero Occidente lungo il sentiero

della Notte. Per questo, modificando il significato di essenza e fondamento, Severino modifica la stessa concezione predicativa occidentale

e compie una vera € propria rivisitazione grammaticale e linguistica. Essenza e fondamento, per il pensiero occidentale, sono ciò che resta dell’ente quando lo si spoglia dei suoi attributi: un esempio gran-

dioso di ciò che è il sub-jectum lo troviamo nelle Meditationes de prima philosophia di Cartesio, che riprende e riafferma in termini chiarissimi l’Aypokeîmenon arnistotelico. In quel testo infatti Cartesio, per affermare l’esistenza della res exfensa, considera un pezzo di cera e il suo divenire sensibile, all’avvenire del quale, constatando lo scompa-

rire dei predicati che gli convenivano in precedenza, si chiede: «Rema-

netne adhuc eadem cera? Rimanere satendum est; nemo negat, nemo

aliter putat»!?. Parafrasando Cartesio, si potrebbe esprimere la critica severiniana al sentiero della Notte affermando che tale rimanere nemo in Occidentem negar: il fundamentum come sub-stantia è ciò che nimane. Nemmeno Heidegger (che pure è uno dei maggiori critici della sub-stantia di matrice aristotelica) è davvero estraneo a questo modo di pensare, giacché anche la sua concezione dell'essere non mette in discussione la concezione del fenomenologico “puro” che, seguendo il discorso severiniano, è la matrice originaria della forma predicativa occidentale in cui l’essenza e l’esistenza dell’essente sono concepiti

come originariamente separati.

! Cantesio, Meditationes de prima philosophia, li, 26, 19-20.

Che cos'è la struttura originaria?

111

A queste prime considerazioni manca ancora il chiarimento di una determinazione della struttura originaria prima incontrata, ossia il suo

essere «struttura anapodittica del sapere». Da Aristotele in poi, il sapere anapodittico è quel sapere che non deve essere dimostrato (non apodittico), che è cioè vero per sé, immediatamente valido. La struttu-

ra originaria è innanzitutto struttura anapodittica del sapere proprio in

quanto fondamento, ossia in quanto l’essenza del fondamento consiste

nell’implicare «la sua negazione come tolta» e nel «realizzarsi come apertura originaria della verità». Il fondamento è cioè sapere immedia-

to, coscienza immediata di sé come immediata verità.

In quanto il fondamento è il toglimento originario delle proprie ne-

gazioni, non fa differenza che tali negazioni siano accadute, siano effettuali o solo possibili. E «questo sistema di possibilità, comprendente anche l’accaduto, l’effettuale, è appunto da intendere come la storia possibile del fondamento»!*. Ma le negazioni possibili del fondamento sono di diverso tipo: lo si può negare

«perché al suo contenuto non si riconosce valore di fondamento, oppure perché

questo valore è riconosciuto soltanto a una parte di quel contenuto (sia pure

perché la parte residua è ignorata); oppure perché si nega che il sapere debba avere un fondamento; oppure perché, semplicemente, il fondamento è ignorato sia nel suo contenuto concreto sia quanto al suo stesso significato formale»!?.

Dunque la posizione del fondamento, proprio in quanto tale, “implica essenzialmente il toglimento della negazione del fondamento”; solo in quanto

il fondamento

è tale, esso si realizza «come

apertura

originaria della verità»?°, La struttura originaria, in quanto fondamento, è dunque essenzialmente in relazione con il proprio negativo: essere fondamento infatti non è altro che la «capacità di togliere assolutamente la sua negazione»?!, La struttura originaria è fondamento in quanto essenzialmente capace di togliere la propria negazione; per questo, fuori da quel toglimento, il fondamento non è fondamento. Di conseguenza, porre il fondamento senza porre la sua negazione, significa che ciò che è posto come

fondamento non è tale: «esso è invece soltanto un momento astratto del I

" E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 110. ‘ Ibidem.

VIbi, p.lll. ? Ibidem.

112

Cap. Il - La struttura originaria

fondamento, l’intero o concreto del fondamento essendo appunto la relazione posizionale tra questo momento e la sua negazione»? Questa sua negazione «non è un’astratta universalità, ma il sistema concreto delle negazioni possibili. E questo sistema è appunto la storia possibile del fondamento»? Si capisce quanto sia essenziale per il fondamento questo sistema di negazioni, dal momento che essere fondamento significa essere posizione della propria negazione come tolta. Questo organismo di negazioni «si realizza in un processo, in un divenire» in cui l'universalità della negazione si individua, si attua nel particolare; e in tale attuazione lo stesso fondamento si concretizza come toglimento della negazione: «se il fondamento implica negativamente la sua negazione, non può infatti essere indifferente al concretarsi di questa»?4, Il che può far sorgere un interrogativo: fino a quando non è compiuto tale processo, il fondamento non vale come tale? Vale come tale, poiché «il fondamento, nel suo aprirsi, non implica (negativamente) una quaniità della negazione, ma la totalità di questa o, appunto, l’universale di questa. Sì che, l'estensione della negazione è infinita e universale»?5, In questo senso sì può dire che il fondamento non dipende dallo sviluppo della sua negazione, pur non essendone nemmeno indifferente, come si è visto, dal momento che lì è in gioco la sua essenza.

Come conciliare le due posizioni (indipendenza ma non indifferenza)? In quanto il fondamento, aperto come tale indipendentemente dal processo del suo negativo, si fa valere come tale «rispetto a ogni incremento della negazione: mostrandolo, riconoscendolo appunto come un

già tolto, e cioè includendolo nel tolto orizzonte dell’universalità della

negazione»? Il fondamento esercita il suo valore proprio in relazione allo sviluppo della sua negazione; «la condizione della possibilità di uno sviluppo storico del sapere filosofico sta appunto in questa struttura, per la quale il fondamento — e ogni posizione logica che su questo si appoggia implica (negativamente) il concreto della sua negazione. La fenomenologia rientra così essenzialmente nella scienza, o la scienza è l’unità di fenomenologia e scienza»”?. Il fondamento è il renersi fermo rispetto a questo sviluppo della negazione; e in questo stare esso è sempre lo

2 Ibi, p. 112. 3 Ibidem. % Ibidem. ® Ibidem.

% Ibi, p. 113. Ibidem.

L'esposizione della struttura originaria e il giudizio originario

113

stesso. Tuttavia, rileva Severino, tale tenersi fermo è anche movimen-

to: il movimento della negazione del fondamento come processualità; «sì che — per questo lato — il fondamento è svolgimento, novità, progresso»?, pur tenendosi fermo e restando sempre il medesimo. In questo senso Severino può dire che «il sapere metafisico non è, rispetto al fondamento, un’ulteriorità da conseguire, ma appartiene all’essenza stessa del fondamento»?* 2. L’esposizione della struttura originaria e il giudizio originario

La struttura originaria «si realizza» in un’affermazione che prende

il nome di giudizio originario (esso è «l'affermazione in cui si realizza

la struttura originaria»?), Una prima formulazione del giudizio originario è questa: «il pensiero è l’immediato»*!. Ma tale affermazione, “in relazione alle precisazioni che a suo tempo dovranno essere apportate”, può anche essere così formulata: «tutto ciò che, nel modo che gli conviene, è immediatamente noto, è l’immediato»??.

La struttura originaria è la struttura dell’immediato,

dove

imme-

diato è ciò che è immediatamente noto nel modo che gli conviene. Il termine “pensiero” significa dunque la presenza immediata dell’essere, la sua «attualità»; il pensiero è l'immediato (la presenza immediata o attualità dell’essere), ossia ciò che è immediatamente

noto nel modo

che gli conviene. Tale attualità o presenza immediata è «assunta in relazione alle strutture semantiche che sono immediatamente implicate» da essa" e che per ora possono solo essere indicate genericamente e, proprio per tale genericità, indicate come una «pluralità». Chiamiamo questa attualità ‘esperienza’ (o “orizzonte ontico” in senso heideggeriano); ebbene, così inteso, il pensiero «resta definito come l’implica-

zione immediata tra l’esperienza e quelle strutture (o tra l'orizzonte ontico e l'“orizzonte ontologico)». L'affermazione «il pensiero è l'immediato» è però da considerare come puramente «preliminare», poiché il termine “pensiero” «indica % Ibidem.

" Ibi, p, 109

% Ibi, p. 114, Vl Ibidem.

°° Ibidem.

! Ibidem. * Ibidem.

114

Cap. Il - La struttura originaria

soltanto un aspetto o una valenza dell’immediatezza che costituisce il soggetto del giudizio originario»? Tale immediatezza, infatti, è Ja «strutturazione dei sensi che le convengono» e che lo sviluppo dell’indagine manifesterà. L'immediatezza è pertanto «strutturazione di sensi», di cui il pensiero è un aspetto. L'esperienza (o orizzonte ontico) implica immediatamente, si è det-

to, alcune strutture semantiche (o piano ontologico); in quanto così implicante, il giudizio originario ha come soggetto proprio l’esperienza

ed è così formulato:

«l’esperienza è l'immediato»,

o anche

«l’essere

che è per sé noto, è per sé noto». Il giudizio originario è dunque affermazione che l’essere attualmente presente è l'essere immediatamente noto, ovvero che l’essere immediato non è noto mediante altro.

L'esposizione del giudizio originario, pur non essendo una dimostrazione o fondazione dell'originario, non è nemmeno un discorso a esso estraneo: «l’accidentalità riguarda piuttosto la forma che l’esposizione assume in quanto è ordinata a una comunicazione possibile; in quanto cioè subentra e si fa valere l'esigenza del dialogo»””. Essendo la struttura un complesso semantico, la sua esposizione è l’analisi di quella complessità; in questo senso la concreta manifestazione dell’originario è «compresenza di sintesi ed analisi»*. Separando l’analisi dalla sintesi,

il giudizio è un modo astratto di presentare il concreto. Il che significa che, in quanto l’esposizione del giudizio originario è un dis-corso, cioè una manifestazione processuale, analisi e sintesi sono necessariamente

compresenti e distinte e quindi i singoli momenti sono tutti presenti e insieme fuori l’uno dall’altro: la manifestazione o discorsività «importa infatti, da un lato, che tutti gli elementi che lo costituiscono siano manifesti; e, dall'altro, che ognuno di tali elementi sia manifesto come un momento, o un astratto; sì che la manifestazione dell’intero contenutoè

posizione dell’astrattezza dei singoli elementi»”. La discorsività, in quanto è distinta dal suo contenuto (l'originario), è il realizzarsi dell’astratto del concreto: nel discorso «si è costretti a dire una cosa dopo l’altra (e quindi una cosa fuori dell’altra); senza che il dopo esprima alcunché sulla natura del rapporto logico tra le due cose». Ciò pone il problema della legittimità di un discorso Ibidem.

* Ibi, p. 115. ® Ibidem.

®* Ibi, p. 116.

” Ibi, p. 118.

*° Ibi, p. 120.

L'esposizione della struttura originaria e il giudizio originario

115

sulla struttura originaria, problema che viene sostanzialmente risolto

distinguendo la posizione astratta dell’astratto dal concetto concreto dell’astratto, laddove

l'originario è il concreto,

il discorso su esso è

l'astratto del concreto e il porre o non porre l’astratto come astratto è la posizione concreta o astratta di quell’astratto che è il discorrere. In termini semplici: l’astratto, posto e saputo come astratto, è il con-

creto dell’astratto, la sua posizione concreta, ossia la sua verità, ciò

che autenticamente esso è. L’originario dunque è il concreto ovvero la posizione concreta dell’astratto. In questo senso «l'elemento logico dell’astratto non è, come tale, negazione del fondamento»! (come tale è solo la parte distinta, ma non isolata, del fondamento) e «la validità dell’analisi è data da questo, che l’analisi è posta come sintesi»‘. «Le presenti considerazioni sono dunque il realizzarsi del contenuto astratto dell'originario, ma non astrattamente, bensì concretamente concepito: realizzazione del concetto concreto dell’astratto. E dunque per il lettore queste

considerazioni saranno valide nella misura in cui egli saprà sollevarsi alla concreta comprensione della struttura originaria»*.

Infatti, se il lettore non è «già arrivato per suo conto al disvelamento della struttura originaria» e dunque se la manifestazione della struttura originaria si realizza al termine dell’esposizione o analisi dell’originario, «non si realizzano le condizioni che determinano la validità dell’analisi» in quanto «non si verifica l’immanenza della totalità dell'originario allo sviluppo analitico» e dunque «l’analisi si realizza indipendentemente dalla sintesi o al di fuori della sua relazione con questa. In questo senso l’esposizione dell’originario è necessariamente equivocata»*. Dunque come leggere l'esposizione dell’originario? Solo elevandosi alla comprensione concreta dell’originario, che consiste nella relazione essenziale di analisi e sintesi. In questo senso «l’assenso che si presta all’esposizione dell'originario non avviene punto per punto: l'esposizione è accettata d'un tratto, e tutta insieme». Il discorso in cui l’originario viene espresso “trae il suo significato da ciò che esprime”. In Oltre il linguaggio viene ripresa e approfondita Pm.

4! Ibi, p. 118.

€ Ibi, p. 119.

* Ibi, p. 121. * Ibidem.

© Ibidem.

116

Cap. Il - La struttura originaria

la questione del rapporto tra parola e cosa ovvero tra segno e significa.

to e, rispondendo alle obiezioni delle filosofie cosiddette della “svolta

linguistica”, vengono chiarite ed esplicitate molte analisi contenute ne La struttura originaria*. La struttura originaria non è un significato qualsiasi, ma il «significato originario, ossia l'apertura originaria del significato. Per questo lato, il giudizio originario va formulato dicendo che il significato è per sé significante». La struttura originaria è dunque il significato origi-

nario o anche l’originarietà del significare (in questo senso l'apertura originaria del significato) e dunque «è struttura o sintassi originaria»””, La struttura originaria è il significare del significato come autosignificazione, ciò che è significante per sé e non mediante altro. Cosa significa che la struttura originaria è «apertura originaria del significato»? Innanzitutto che, prescindendo da essa, ci si pone nella insignificanza. Lo stesso interrogarsi sul significato è reso significante nell’atto in cui gli si risponde: la risposta dà senso alla domanda in quanto la toglie come domanda. Tale domanda poi può esistere come problematizzazione o richiesta del fondamento*?. Non vi è dunque nulla di insignificante, nemmeno

lo stesso nulla,

dal momento che, in quanto posto, è una posizione di senso, un signi-

ficato, un positivo significare. Il che non significa, come si vedrà in

seguito‘, che il nulla sia e che dunque l’essere sia nulla. In sintesi, nel giudizio originario si tratta del fondamento del significare; e quest’ultimo è l'immediatezza o originarietà del significato. L’immediato è dunque il soggetto del giudizio originario. La predicazione autentica, in quanto l’unica non contraddittoria, consiste nell’affermazione dell’identità originaria di soggetto e predicato. Il predicato è il soggetto e il soggetto è il predicato. Dunque il giudizio originarioè quel giudizio in cui il soggetto, che è identico al predicato, è il predica to che è identico al soggetto. Il che può essere espresso dalla formula: (S=P)=(P=S).

* Cfr. infra, cap. 11. * E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 129. “ Per l'approfondimento della questione, che in questa sede non può essere esposto, si rimanda a una importante nota alla fine del capitolo 1 de La struttura originaria, cit., p. 139 * Cfr. infra, par. 5 «L'aporetica del nulla».

L'immediatezza dell'essere: L-immediatezza e F-immediatezza

— 117

1. L'inmediatezza dell'essere: L-immediatezza e F-immediatezza

Nel paragrafo precedente si è detto che il giudizio originario consiste nell’affermare che «tutto ciò che, nel modo che gli conviene, è immediatamente noto, è l'immediato». O anche, più semplicemente,

che «il pensiero è l'immediato». Ciò significa che, per essere affermato, l'essere non richiede altro che se stesso: «per affermare che l’essere è, non c’è bisogno di introdurre un termine diverso da ciò che è affermato»"'. In questo senso l’affermazione «l'essere è» è affermazione anapodittica. L'essere è in base ase stesso e non mediante altro: im-mediato. Immediato significa che è

per sé noto, ossia noto non per altro; pertanto affermare che l'essere è,

significa che è immediatamente noto che l’essere è. Ciò per cui l'essere è noto — il fondamento della notizia dell'essere — è l’essere stesso che è noto. Solo in quanto si afferma che l’essere è per sé noto, l’affermazione «l’essere è» non esiste semplicemente come fondamento (vale a dire in sé) ma è posto e saputo come fondamento: «se il fondamento è (semplicemente) il fondamento, esso non è il fondamento», E ancora, sull'’immediatezza: «Merito intramontabile della filosofia greca è avere svelato il senso dell’immediatezza. Questo svelamento non è dunque un che di accessorio rispetlo all'immediatezza, ma è proprio ciò per cui essa vale come fondamento. O l'immediatezza è fondamento solo in quanto è svelata, o è posta come

immediatezza»?

L'esser noto per sé e V’esser noto non per altro non sono due momenti diversi né tantomeno tali che l'uno si fonda sull’altro «se il fondamento è inteso come un’antecedenza logica rispetto al fondato»:

il primo momento è un altro modo di dire il secondo; la distinzione è

frutto dell’analisi del medesimo e non di una mediazione tra due. Considerati come distinti e separati, i due momenti sono astratti da quel concreto che è la struttura dell’immediatezza dell’essere. Nei capp. 11 e 1 de La struttura originaria Severino analizza tale immediatezza dell’essere esaminandone tutti gli aspetti collaterali e n—_— —_—

# E. Severino, La struttura originaria, cit., pi 114.

Ibi, p. 143.

% Ibi, p. 146, ® Ibi, p. 147. % Ibi, p. 148,

118

Cap. Il - La struttura originaria

conseguenti, comprese le varie aporie che via via si presentano e che sono riconducibili a un modo

di pensare astratto, tendente cioè a te.

nere separate le determinazioni che, in quanto parti del medesimo, non possono essere così isolate. Per una prospettiva più analitica sj rimanda il lettore a quella parte di testo, che non presenta difficoltà

particolari, essendo molto chiara e scorrevole; ci limiteremo a espome

gli elementi essenziali.

Innanzitutto va detto che l’immediatezza dell’essere che fonda l’af.

fermazione dell’essere è essa stessa un tratto dell’essere; ovvero, detto

ancora più semplicemente, l’essere, che è posto come fondamento, è lo

stesso essere che è fondato sul quel fondamento. Ma ciò non determina forse una contraddizione, consistente nel dover affermare che poiché l’immediato è contemporaneamente fondante e fondato non è più immediato? «Rispondiamo dicendo che la medesimezza del fondamento non è un risultato, ma è essa stessa il fondamento o l’immediato. Il fon-

damento è anche un fondato - e l’autofondazione diventa pertanto identità di fondamento e non fondamento - solo se ciò che il fondamento trova nel punto di sutura del circolo di autofondazione — e ciò che trova è se stesso — è concepito come preesistente al momento del trovarsi»*, Che l’essere sia autofondazione non significa dunque che esso sia «fondamento ed insieme fondato, ma significa la medesimezza tra il contenuto PI e ciò per cui esso è posto». In altri termini: autofondazione significa che «un termine x è ciò per cui x è affermato. Se uno dei due x

fosse fondamento e l’altro fondato, i due x non sarebbero il medesimo, e, quindi, non si darebbe autofondazione». L'obiezione di partenza può

così essere rovesciata: «proprio perché l’immediato è fondamento di sé medesimo, esso non può essere insieme fondamento e fondato». Il giudizio originario («il pensiero è l’immediato») afferma dunque che l’immediatezza dell’immediato resta inclusa nell'immediato nell’atto stesso in cui l’essere è posto come immediato. L’esser-noto è cioè immediatamente incluso nell’essere che è per sé noto: l’immediato, in quanto struttura originaria, deve includere la sua stessa posi-

zione come immediatezza. Per questo «il giudizio originario non va formulato dicendo che l'essere è l'immediato, ma che l’immediatoè

l’immediato»”?. Il giudizio originario è cioè una proposizione analitica (per la distinzione tra proposizioni si rimanda ai paragrafi 7 e 8). Ibi, pp. 163-164.

36 Ibi, p. 164. 5 Ibi, p. 171.

L'immediatezza dell'essere: L-immediatezza e F-immediatezza

119

Si è visto che l’essere (l'immediato) è struttura originaria in quanto

complessità semantica (struttura) e immediata autonegatività del pro-

prio negativo (originaria). In quanto complessità semantica la struttura

originaria è relazione in cui ogni aspetto è un modo diverso di dire l'identico (in questo senso la struttura originaria è dire dell’identità).

I due ambiti fondamentali di questo complesso che è l'essere — i due modi fondamentali di esser essere — sono la logicità, l'essere identità-

innegabilità, e la fenomenologicità, l'essere apparire. Se immediato

significa ciò che è non mediante altro, l'immediato logico è

«l'immediatezza del nesso tra i significati (essendo il logo il nesso tra i significati) [...] e l'immediatezza della logicità viene chiamata principio di non contraddizione. L'immediatezza della notizia, ossia dell’apparire delle varie forme di nessi che uniscono î significati, è chiamata immediatezza

fenomenologica»”*.

Questa distinzione potrebbe essere intesa come un permanere nel solco della tradizione metafisica occidentale. Sarebbe un errore: nella

struttura originaria infatti queste due dimensioni dell’essere non sono e

non possono essere separate, poiché l’una è se stessa in quanto è anche già l’altra. Che apparire sarebbe infatti quell’apparire che è e insieme non è quell’apparire? E che identità innegabile sarebbe quell’identità che non appare e non si presenta come tale? Severino mostra, gettando luce sulla struttura dell’essere e dell’apparire, che il Logico è già anche il Fenomenologico e viceversa. Da qui la terminologia L-Immediato e F-Immediato. Da quanto detto si deve affermare che la relazione tra F- e L-immediato è una relazione di identità originaria ovvero una proposizione analitica. L'identità tra F- e L-immediato è dunque una proposizione analitica, tale per cui: (L-imm.= F-imm.) = (F-imm.=L-imm.) o anche:

L-imm.(=F-imm.) = F-imm.(=L-imm.). Ciò significa: l’innegabilità logica dell’essere, che è immediatamente presente come innegabilità logica (altrimenti sarebbe e non sarebbe presente come innegabilità logica e dunque non sarebbe tale), è identica alla presenza dell’essere, che è immediatamente una identità-innegabilità logica (altrimenti sarebbe e non sarebbe apparire, quindi non sarebbe apparire). In quanto l’apparire è apparire, non può che essere originariamenle (cioè non mediante altro che il proprio essere) una identità logica: ———__—_——_—_-

" Ibi, p. 17.

120

Cap. ll - La struttura originaria

quindi F-immediato è originariamente L-immediato. Allo stesso modo, in quanto l’innegabilità logica è innegabilità, non può che essere originariamente (cioè anche qui non mediante altro che il proprio essere) presente come identità logica e quindi il L-immediato è originariamente il F-immediaro. La struttura logica dell’essere (L-imm.), che è immediatamente pre-

sente, è la stessa presenza immediata dell’essere (F-imm), che è immediatamente logica. Il punto di fondo è questo: un’identità-innegabilità logica non presente come tale (un’identità cioè che non sia apparire) non è identità

e un apparire non identico a sé (un apparire cioè che non sia identitàinnegabilità logica) non è apparire. Sull’immediatezza fenomenologica la prima questione da risolvere

è relativa al suo contenuto: cosa si intende quando si definisce l’immediato fenomenologico come «tutto quell’essere e solamente quell’essere che è per sé noto» in quanto quell’«essere di cui si può immediatamente affermare l'essere è appunto l’essere che è per sé noto»59?

Questa affermazione dell’immediato fenomenologico, dicendo che «è tutto e solo quell’essere che c'è», non può escludere che tale immedia-

tezza sia «soltanto un elemento di quella strutturazione dei significati dell’immediatezza che costituisce la concreta valenza dell’immediatezza» e quindi che

«ciò di cui si può affermare immediatamente l'essere non è semplicemente la

totalità dell'’immediato fenomenologico, ma è anche tutto quel positivo che si

fa affermare immediatamente, secondo tutti quegli altri sensi dell’immediatezza che si differenziano dall’immediatezza fenomenologica»*!.

Questa circostanza dà luogo a quel concetto Fa che viene affrontato nel paragrafo 11 del tr capitolo e analiticamente nel capitolo xI de La struttura originaria, che si può brevemente introdurre®' dicendo che l’affermazione «è tutto e solo quell’essere che c'è» è la posizione astratta dell’astratto in quanto afferma che l’essere immediatamente presente è l’immediatezza fenomenologica non includente quegli altri sensi dell’immediatezza sopra citati: la posizione, cioè, che astrae

ciò che è astratto (il puro immediato fenomenologico) dalla totalità 5° Ibi, p. 167.

© Ibidem. ® Cfr. par. 11 del presente capitolo.

L'immediatezza dell'essere: L-immediatezza e F-immediatezza

— 121

dell'essere immediato. Se non si concepisce astrattamente l’immediato fenomenologico, ma lo si afferma come appartenente al contesto

concreto cui appartiene, allora esso è l’astratto saputo come tale e cioè è la posizione concreta dell’astratto. Il che è come dire: tutto l'esse-

re immediato è immediatamente presente, ossia è F-immediatamente presente anche quando non sembra presente come F-immediatezza; il

che significa che, anche se sembra presentarsi come F-immediatezza,

quest’ultima, concretamente intesa, è la totalità di ogni essere imme-

diatamente presente e quindi non si può affermare una immediatezza diversa dall’immediatezza fenomenologica. Si tratta pertanto di intendere correttamente la F-immediatezza, uscendo dai limiti F-immediati

di essa. Ma dunque in cosa consiste l'immediatezza fenomenologica? La F-immediatezza, nel suo significato originario e autentico, consiste nell’apparire immediato di ciò che è immediatamente presente, dove questa immediata presenza non è la presenza puramente fenomenologica affermata ad esempio da Husserl, ma è l'apparire immediato di ciò che è immediatamente presente anche fuori da quei limiti fenomenologici (la presenza immediata della L-immediatezza è uno

di questi sensi esterni alla F-immediatezza astrattamente concepita). Il grande merito de La struttura originaria è per l'appunto quello di ini-

zare a pensare l'apparire fuori dai limiti della tradizione occidentale. E sì comprende l’importanza decisiva della questione proprio in quanto si comprende che la convinzione che il divenire sia la verità originaria dipende essenzialmente dal modo di intendere ciò che appare solo entro i limiti di ciò che appare. In sintesi: se l'essere immediato è visto dal punto di vista del concetto Fa, «ossia dal punto di vista per il quale l’intero dell’immediatezza è l'immediatezza fenomenologica», allora tutto ciò di cui si può immediatamente affermare l’essere immediato è l'immediato fenomenologico;

«dal punto di vista, invece, per il quale l'immediatezza fenomenologica è soltanto un momento della totalità o della struttura dell’immediato, si dovrà dire che il contenuto del principio di non contraddizione non è dato, immediatamente, soltanto dall’immediato fenomenologico, ma da tutto ciò, il cui essere,

in un modo o nell’altro, è immediatamente presente»®?,

n

_—___ sì

. ni . . E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 196.

122

Cap. ii - La struttura originaria

Ma se «essere immediato» e «totalità dell’immediato» indicano |a strutturazione concreta dei vari sensi dell’immediatezza, allora non siè

più nella prospettiva del concetto Fa, e questa strutturazione concreta

è l’essere immediatamente presente. In quel caso «si potranno usare, per indicare l’immediatezza logica e fenomenologica,

rispettivamente, “L-immediato” (F-immediatezza)»®?.

(L-immediatezza)

le espressioni,

e “F-immediato”

L’immediatezza dell’essere è negazione della negazione dell’essere: «la posizione dell’incontraddittorietà dell’essere appartiene es. senzialmente alla posizione dell’essere»*, così come questa posizio-

ne appartiene essenzialmente alla posizione dell’incontraddittorietà dell'essere. Le due posizioni «valgono come momenti astratti» della struttura dell’immediato. In relazione a entrambi i momenti si parla necessariamente di posizione dell’essere e della sua incontraddittorie-

tà: senza quel porre, infatti, immediatezza e incontraddittorietà non

varrebbero come tali: limitarsi ad affermare l’essere, significa che «né

l’affermazione né la negazione sono in grado di escludersi o di tenersi ferme di contro all'altra e stanno perciò insieme come un infinito svanire l'una nell’altra»*, Questo infinito svanire è cioè “senza risultato”

oltre se stesso, ossia oltre la «definitività dell’annullamento dei termini

contrapposti». Insomma, in questo semplice stare l’uno contro l’altro si perdono i termini stessi. Per non perderli si deve superare questo modo di concepire la contrapposizione, non “mettendola da parte”, ma

mostrando la «fondatezza» di uno dei due: non si tratta dell’ «emergere

di un medio tra l'affermazione e la negazione — onde l'annullamento le investirebbe entrambe —, ma è l'emergere del fondamento di uno dei due termini contrapposti»f”. L’immediatezza e l’incontraddittorietà devono dunque essere poste come

tali. Per porre come

tale l’incontraddittorietà, essa deve essere

posta come immediatezza: «l'essere non è e non può non essere perché che l’essere non sia non essere è per sé noto»*8. Ora si incontra quanto affermato precedentemente,

ossia che l'immediatezza

(o originarie

tà) è struttura logico-semantica: «il senso secondo cui l'affermazione 9 Jbidem.

% Ibi, p. 173. 4 Ibi, p. 146. ® Ibidem.

9 /bi, p. 147. s Ibi, p. 174.

L'immediatezza dell'essere: L-immediatezza e F-immediatezza

123

dell'essere è una posizione immediata non è il senso secondo cui il principio di non contraddizione è, in quanto tale, posizione immediata.

L'immediatezza è infatti, nel primo caso, presenza immediata del con-

tenuto - immediatezza fenomenologica —; mentre in questo secondo

caso si tratta dell’immediatezza della connessione tra due determina-

zioni — immediatezza logica. Questa immediatezza è d’altronde essa stessa presente [...]»99. Come si può vedere l’immediato è una struttura

nel senso già chiarito, ossia «un organismo estremamente complesso di connessioni (o di predicazioni)»?°.

L'immediata convenienza del soggetto al predicato, determinata dalla loro identità, è espressa dalla affermazione «l’essere è essere» o anche «l'essere non è non essere». (In merito alla distinzione tra pro-

posizioni analitiche e sintetiche a posteriori si rimanda al par. 7 del presente capitolo). Abbiamo così incontrato l’altro aspetto o valenza del giudizio originario, dove uno è «il pensiero (o l’esperienza) è l'immediato» (imme-

diatezza fenomenologica), l’altro è «l'incontraddittorietà è l’immediato» (immediatezza logica).

L'incontraddittorietà dell’essere è immediatamente tale, ossia la sua

negazione è in contraddizione con l’immediatezza dell’incontraddit-

torietà; tale negazione è pertanto «intrinsecamente contraddittoria»?!, Stesso

discorso

per

l'immediato

fenomenologico,

per

quanto

quest'ultimo in aggiunta «abbia anche una valenza per la quale tale

negazione non è contraddizione intrinseca, ma è — semplicemente — in contraddizione con l’immediatamente manifesto [...]. Se [...] fosse data, semplicemente e assolutamente, dalla contraddittorietà intrinseca della negazione, l’immediatezza dell’essere manifesto sarebbe infatti un

che di mediato dal toglimento della contraddittorietà intrinseca. In altri termini, la posizione dell’immediatezza dell'essere è tale solo in quan-

to è toglimento della negazione dell’essere immediatamente presente

[...). E dunque necessario che la negazione dell’immediato sia tolta in

quanto è, semplicemente, in contraddizione con l'immediatezza», pur

Testando «chiaro che la negazione dell’immediato è tolta in quanto non SI può, insieme, affermare e negare l’immediato»”?, Tale impossibilità

è il principio di non contraddizione, che, per questo aspetto, «non è =—_—__—___

® Ibidem.

"0 Ibidem.

0 Ibi, p. 176. ? Ibi, p. 177.

124

Cap. Il - La struttura originaria

il fondamento rispetto al quale l'affermazione dell’immediato sia un fondato, ma è la forma di questa affermazione»??. Queste pagine de La struttura originaria, dedicate al rapporto tra affermativo e negativo, mostrano in maniera chiara ed esemplarmente lucida e argomentata come la negazione dell’incontraddittorietà sia impossibile e come questa sussista solo come intenzione di negare, come il principio di identità e quello di non contraddizione non siano due principi diversi ma i due momenti astratti della medesima struttura concreta in cui consiste il principio di non contraddizione, quali sianoi modi di formulare tale principio (che dunque potrà essere chiamato di identità non contraddizione), e affrontano progressivamente le aporie

che si presentano, indicando come debbano essere affrontate e superate. Pagine molto importanti, ma che purtroppo, in questo contesto,

non possono essere considerate analiticamente. Ci si limiterà pertanto a soffermarsi sui momenti che paiono di maggiore rilievo teoretico.

In relazione alla distinzione tra il momento noetico e dianoetico del principio, si rileva che il momento noetico (semantico) non può essere presupposto a quello dianoetico (apofantico): il primo non è cioè il fondamento del secondo, pur essendo distinti. Tale distinzione è «la stessa interna articolazione dell’identità»”*. Vediamo in che senso, nell’affermazione «l'essere è essere», la di-

stinzione dei termini «è la stessa articolazione interna dell’identità»”, Tale chiarimento è il superamento di un modo astratto (e dunque aporetico) di includere l’identità dell'essere e l'essere dell'identità: chiarendo

in che senso è legittimo e necessario affermare che «l’essere è essere», si chiarisce in che senso è legittimo e necessario parlare di “identità”. In che modo si deve concepire infatti il soggetto e il predicato di un’identità? Si comprende l’importanza della tematica, che, proprio perché tale, viene ripresa in questo stesso capitolo e in quello successivo.

L'identità dell’essere è l'identità concreta dell’essere con se stesso; ciò significa che il soggetto, che è identificato al predicato, è il soggetto identico al predicato e viceversa si dica per il predicato: l’identità concreta dell'essere è «identità dell’essere, che è già esso identità di sé con sé, con l'essere che, daccapo, è già esso questa identità»”*. L'identità,

essendo identità dell’identico, è già (come tale) identità di identità. Per ? Ibidem.

% Ibi, p. 181. 9 Ibidem.

* Ibidem.

L'immediatezza dell’essere: L-immediatezza e F-immediatezza

— 125

questo si può dire che «l'essere è essere» «solo in quanto l'essere, che

vale come soggetto di questa proposizione, è visto (= posto) appunto

come l'essere che è essere; e in quanto l’essere, che vale come predica-

to, è visto appunto come predicato, e cioè, daccapo, come essere. Ciò significa che sia il soggetto, come il predicato in questione, non hanno semplice valore noetico, ma sono già essi, come tali, realizzazioni

dell’apofansi, ossia dell’identità»”.

La formula dell'identità concreta pare dunque essere la seguente:

(E° =E”).

C'è sviluppo infinito a tale equazione solo rimanendo all’interno di una concezione astratta e non concreta dell’identità; infatti tale equazione «non è identità di due contenuti semantici distinti in modo tale che nel campo posizionale dell’uno non sia posto l’altro»”*. Tali termini sono cioè posti in ciò che sono nell’opposizione concreta, o anche essa è la posizione concreta (e dunque definitiva) dei termini posti e, come tale, esclude uno sviluppo ulteriore e pertanto infinito. In questo senso «lo sviluppo deve essere inteso come cooriginario o ciò che così si sviluppa, [...] si costituisce dunque uno sviluppo infinito solo perché

si ripete all'infinito l’astratta presupposizione dell'identità all'identità dell'identità con se stessa»”. La concezione astratta dell’identità ha luogo se i termini che la compongono le sono presupposti, o anche se essa viene intesa come identità tra soggetto e predicato posti come momenti semplicemente

«noetici». In quest'ultimo caso la semplice posizione dei termini (distinti) dell'identità non è ancora la posizione della loro concretezza: «l’astratto (= il distinto = i termini dell’identità) è infatti concretamente

concepito quando la sua posizione non è negazione del concreto»®. L'affermazione «l'essere è essere» implica certamente una distinzione tra l’astratto (noesi) e il concreto (apofansi). Nella sua concretez-

za, nell'affermazione dell'identità dell'essere il campo posizionale del soggetto include il campo posizionale del predicato. Tuttavia, soggetto € predicato sono distinguibili dalla concretezza dell’identità; ma tale distinzione è allora la distinzione tra la posizione astratta e la posizione concreta dell’identità. Il predicato è dunque lo stesso «ma posto come predicato di sé medesimo»®'. Da un punto di vista formale, predicare è ——_—_—_

_—-

"lhi, pp. 182.

"Ibi, pp. 184-185. N Ibi, p. 185. ® Ibi, p. 187.

N Ibi, p. 190.

126

Cap. Il - La struttura originaria

ripetere e quindi «l’analisi del concreto trova certamente ripetuto l'a. stratto; ma il concreto non è semplicemente l’astratto ripetuto, perché

ciò che è posto nella ripetizione è posto insieme come predicato di sé medesimo»? Partiamo da questa semplice considerazione: nell’affermazione «l'essere è essere» il soggetto e il predicato, per quanto distinti, non sono due termini ma la ripetizione (o posizione) del medesimo, Il che

può sollevare la seguente obiezione: affermare l'identità significa distinguere, ma insieme significa togliere ogni distinzione. L'identitàè perciò identità di una differenza. Come è possibile? Ciò non conduce forse alla negazione dello stesso principio di identità-non contraddizione, dal momento che, se per affermare che l’essere è essere si deve distinguere l'essere dall’essere, tale distinguere non finisce forse col negare l’identità che intende affermare? Si deve forse concludere che

per affermare l'identità dell’essere è necessario negame l’incontraddittorietà? Se si separano i due momenti della relazione stessa, la conclusione è certamente corretta. (Qui Severino fa riferimento alla Logica

di Gentile, che «concepisce l’analisi della proposizione A = A: come

risolventesi A, A. [...] Ciò che in questa situazione logica presenta difficoltà è [...] la differenza dell’identico)»®.

Il problema è cioè questo: in quanto A e A sono identici, sembra impossibile distinguerli; ma se non li si distingue, cioè senza porre alcuna differenza tra essi, non ci può essere posizione dell’identità. Dunque una differenza deve esserci, per porre l'identità; ma l’identità

è ciò che esclude assolutamente la differenza. In questo modo la diffe-

renza «vien lasciata semplicemente accanto all'identità, in opposizione con questa»®*. L’identico è diverso e dunque non identico? E il diverso è identico e dunque non diverso? Tale contraddizione è apparente; essa dipende, come visto, dalla concezione astratta dell’identità e della diversità: «se l'identità è intesa come identità di momenti astratti, non si può non aller

mare che condizione dell'identità è la contraddizione, stante che la differenza

richiesta dal costituirsi dell'identità, non può essere riferita che all’identico N

quanto tale»*5. ®° Ibi, p. 191. 5 Ibi, p. 192. * Ibidem.

8 Ibi, p. 193.

127

Sul significato semplice e complesso dell'essere In quanto

l'immediato

fenomenologico

è solo un

momento

del-

la totalità, «il contenuto del principio di non contraddizione non è

dato, immediatamente, soltanto dall’immediato fenomenologico, ma da tutto ciò, il cui essere, in un modo o nell’altro, è immediatamente affermato»**. Chiamiamo L-immediatezza l'immediatezza logica e F-immedia-

tezza l'immediatezza

fenomenologica.

E immediatamente

presen-

te che l'essere non è non essere; l’incontraddittorietà dell’essere «è cioè immediatamente presente così come è presente ogni altro con-

tenuto F-immediato. Ciò significa che l’essere è F-immediato come incontraddittorio»*”.

L’incontraddittorietà

è una

valenza

semantica,

uno degli aspetti del F-immediato. Si distingua il significato formale da quello concreto dell'essere, per cui l'essere formale è l’universale astratto, in grado di valere come ogni determinazione, mentre l'essere concreto è unicamente quella

determinazione

(totale) che, pur essendo

l’orizzonte di ogni deter-

minazione, può essere individuazione solo in questa determinatezza: «l'individuazione dell’universale concreto, infatti, esaurisce e adegua l'essenza, sì che si pone necessariamente come unica». Ma anche la posizione del concreto dell’essere, il suo essere totalità concreta, è, dal

punto di vista dell’originario, solo una totalità formale (cfr. parr. 10 e

soprattutto 13 del presente capitolo). Il che non toglie però la distinzio-

ne tra astratto e concreto; l’essere formale non deve cioè essere confuso con l'universale astratto, poiché il contenuto semantico dell’essere

formale «non comprende come posta la relazione alla determinazione (sia, questa, astrattamente o concretamente concepita), ma comprende,

o meglio, è costituito dal semplice significato essere»*°. Che è quanto verrà approfondito nel prossimo paragrafo.

4. Sul significato semplice e complesso dell'essere . L'essere è dunque un significato complesso; ma 1°“è” del «ciò che è», ossia l'essere nel suo significato formale, è semplice o complesso?

Nei testi severiniani il significato dell’“è” del «ciò che è» subisce delle

i

* Ibi, p, 196, "Ibi, p. 199

ubi. p. 200.

Ibi, p. 201,

128

Cap. Il - La struttura originaria

importanti variazioni, che vengono sintetizzate in questo passo di Q/. trepassare: «nella Struttura originaria (v1, 5) questo “è”, così distinto,

è chiamato “essere formale” e se ne afferma l’assoluta semplicità se.

mantica: non presupponendola (come accade nel pensiero hegeliano),

ma fondandola sulla necessità che, se l’“è”’ non è un significato sempli-

ce, gli elementi, o «momenti» da cuiè costituito o siano oppure non si.

ano; sì che, nel primo caso, l'“è"’ è già nel molteplice che, solo unendo-

si, dovrebbe costituire il significato “è”, e, nel secondo caso, l'è" non

si costituisce — ossia non è un che di significante — perché è costituito da niente (ossia da ciò che non è)»®°. Sembrerebbe dunque doversi con-

cludere che l'essere dell’essente, formalisticamente inteso, sia un che di semplice; sennonché, nell'/ntroduzione del 1981 alla Struttura originaria, si rileva che l’essere dell’essente è una complessità semantica,

in quanto è impossibile separare l°“è” del “ciò che” da quest'ultimo:

essi sono senz'altro distinti, ma sono ciò che sono solo in quanto non

separati. Oltrepassare ripercorre in questo modo quelle affermazioni: «è al qualcosa-che-è che compete l’“è”; e gli compete non come l'è”

di qualsiasi cosa, ma come il suo “è”, ossia come l’“è” del “qualcosa”,

sì che è il “qualcosa-che-è” (x=y) ad essere l’“è"-di-questo-qualcosa

(y=x). [...] La summenzionata Introduzione, tesa a mostrare la com-

plessità dell'essere dell’essente, ritiene che tale complessità sia incompatibile con la semplicità semantica dell’“è” di “ciò che è”, e respinge la fondazione di tale semplicità {...] nel modo seguente: (...] dire che del momento si deve predicare l’essere, non equivale infatti a dire che il significato del predicato debba entrare a costituire il significato del momento di cui il predicato si predica»”!. Severino fa notare come tale motivazione sia conseguenza dell’isolamento che, nel momento (e, propriamente, nei momenti) separa ciò che è dal suo essere. Vediamo di chiarire. Il testo del 1958 sostiene la semplicità dell’essere formale perché, se non si trattasse di un significato semplice ma complesso, i suoi momenti o sarebbero o non sarebbero. Tolto il se-

condo caso (che vanifica la questione stessa, perché se i suoi momenti

non fossero, l’essere stesso non sarebbe) e tenendo fermo il secondo,

segue che l'essere formale sarebbe già presente in quei momenti in cui invece esso dovrebbe essere presente solo in quanto sintesi: «l’“è"è

già nel molteplice che, solo unendosi, dovrebbe costituire il significato ° Oltrepassare, cit., p. 320.

® Ibi, pp. 320-321.

Sul significato semplice e complesso dell'essere

129

«è”y92, Ma poiché ciò è contraddittorio, il testo del °58 conclude che J'è”, inteso in senso formale, è necessariamente un che di semplice. Posizione del 1981: l’essere cosiddetto formale è necessariamente

una complessità semantica, perché non si può separare l’“è" dal suo “ciò che”. Essi possono essere distinti, ma non separati, perché sono

ciò che sono solo in quanto relati. Questa l’argomentazione: l’“è”, che viene predicato al “ciò che”, anche se inteso in senso formale, non è un

qualsiasi “è”, ma è quell’“è” che gli compete. Tale “è” è dunque complesso, e perciò esso non può essere semplice, come invece sosteneva

il testo del ‘58. Il fondamento di questa posizione, in risposta all’argo-

mentazione del testo del ’58, è la seguente: «dire che del momento si deve predicare l'essere, non equivale infatti a dire che il significato del

predicato debba entrare a costituire il significato del momento di cui il

predicato si predica»”

Quest'ultima affermazione potrebbe risultare un po’ criptica e soprattutto disorientante, perché sembra che, per sostenere la complessità dell'essere formale e cioè per evitare di isolare l'essere dalla relazione originaria con i suoi momenti, finisca con l’isolare il momento dal suo predicato: per evitare l'isolamento, produce isolamento. Essa tiene ferma la premessa del ‘58, e cioè che se l'essere è un significato complesso, allora consta di elementi o momenti

che sono. Ma per il testo del

1981 l'argomento con cui la posizione del 1958 negava la complessità dell'essere formale era fondato su questo passaggio logico errato: che i momenti siano significa che in essi è già presente quel significato ‘“es-

sere” che invece viene posto solo come sintesi dei momenti. Il testo del 1981 critica questa argomentazione, rilevando che dire che i momenti

sono non significa che l'essere del momento” sia l’essere quale «sintesi dei momenti»: dire che del momento

si deve predicare l’essere,

non equivale a dire che tale predicato entri a costituire il significato del momento. Il momento “è”; ma ciò non significa che questo «essere» del momento sia quell’ «essere complesso» che consiste nella sintesi. La prima cosa da chiarire è perché queste affermazioni costituiscano una critica alle posizioni del 1958. Infatti, qualcuno potrebbe chiedere: perché dire che il predicato “è” non costituisce il significato del “ciò che”, si pone come critica all'affermazione che l’essere non è un

significato complesso ma semplice? Non si deve forse dire, al contra———

°° Ibi, p. 320. ® Ibi, p. 321.

130

Cap. Il - La struttura originaria

rio, che proprio questa critica del 1981

finisce col sostenere le posi-

zioni del 1958, proprio perché, come quelle posizioni, sta sostenendo

che il predicato del momento non «entra a costituire il significato del momento di cui il predicato si predica»? In altre parole, non c’è nelle

posizioni del 1981 la medesima concezione isolante che troviamo nelle

posizioni del 1958, in cui si afferma che il predicato “è” deve essere

inteso come qualcosa di semplice, cioè di non ancora in sintesi, con il

significato del “ciò-che””? Il senso del testo del 1981 è questo: che il complesso consti di momenti, e che dunque questi già siano, non significa «che allora il “momento conterrebbe già ciò che dovrebbe risultare dalla sintesi con

tutti gli altri momenti”». In altre parole: sostenere l'essere dei singoli momenti non significa (come invece veniva posto nel ’58) che essi già debbano contenere quel significato complesso di essere che è dato dalla sintesi con gli altri momenti. Questa chiarificazione porta a galla anche l’origine delle possibili difficoltà comprensive

del testo del 1981, individuabile, da ultimo,

nell’espressione ‘significato del momento”. Per il testo del 1981 dire che ognì momento “è”, non significa dire che il significato del momento sia già quel significato complesso che consiste nella sintesi dei momenti. Il che risponde all’argomentazione del 58. Per quest’ultima, infatti, se l'essere fosse un significato complesso, quest’ultimo dovrebbe già essere contenuto nei suoi momenti in quanto “sono”; ma se ogni momento già contenesse la complessità dell’intero, verrebbe meno la

differenza tra il momento (parte) e la sintesi (totalità). In questo modo

l’argomentazione del 1981, in risposta a quella del 1958, mostra che la complessità del significato “essere” non porta affatto con sé la necessità che i singoli momenti già contengano quello che invece dovrebbe essere contenuto solo nella sintesi. In conclusione, mentre la posizione del 1958 sostiene la semplicità

dell'essere formale, quella del 1981, tenendo ferma l’incompatibilità del significato semplice e complesso dell'essere, esclude che l’essere formale possa essere un significato semplice: anche l'essere formale, essendo l'essere dei momenti, è già complesso. Se non lo fosse, non

sarebbe l'essere di quei momenti, e si sarebbe compiuta astrazione dal concreto. Considerare così l’essere formale significa isolare i momenti dalla loro sintesi. Ma per tenere ferma l’originarietà della sintesi tra i momenti, che è un altro modo per dire la complessità dell’essere, il testo del 1981 deve, per così dire, smontare le posizioni del 1958. E per

Sul significato semplice e complesso dell'essere

131

farlo, incorre inavvertitamente in un’altra forma di isolamento: quella tra il momento e il suo predicato. Per il testo del 1958 il significato for-

male è semplice perché altrimenti esso sarebbe già nei suoi momenti;

per il testo del 1981, invece, dire che l'essere è un significato comples-

so non significa dire che esso sia già presente nei suoi momenti, ma in

questo modo, dicendo cioè che non è già presente nei suoi momenti,

finisce col dire che il predicato del momento è separato dal momento

(o che il momento è separato — e non semplicemente distinto — dal suo

predicato). Le posizioni del 1981 non si accorgono cioè di ricadere in quell’isolamento che intendono evitare. In Oltrepassare (2007) Severino mostra che le posizioni del 1981 ricadono nell'isolamento perché partono dal presupposto dell’incompatibilità tra essere semplice e complesso. Per tenere ferma quella incompatibilità, si separa il momento dal suo predicato; per questo Severino dice che quelle posizioni sono «conseguenza dell'isolamento che, nel momento (e, propriamente, nei momenti) separa ciò che è dal suo essere». Rilevato come il mantenere il momento separato dal predicato sia frutto dell’isolamento (tra momento e predicato), in Oltrepassare si mostra che i due significati (semplice e complesso) non sono affatto incompatibili, ma che, al contrario, ‘si implicano con necessità”. Il significato complesso è l'identità tra il “ciò che” e l’“è” secondo la formula (x = y) = (y= x), o anche (x è y) è (y è x), dove l’“è"” o 1°“=”

che unisce le due affermazioni distinte è «un significato semplice non analizzabile (“essere formale”)»®. Tuttavia tale semplicità, certamente in quanto non isolata dall’equazione dell’essere, non significa insignificanza: semplicità «non significa indeterminatezza semantica». Cosa significa dunque quell’essere semplice o formale? Significa da un lato “essere identico” e dall’altro “significare”, dove quell’“identico” «è pleonastico, un chiarimento della forma esterna della parola “essere”»®, L'affermazione «questa lampada è accesa», rileva Severino, significa che “questa lampada è identica al suo esser accesa”, ossia

che questa lampada, distinta dal suo esser accesa, è un esser accesa in

quanto «il suo esser accesa, che le compete in quanto distinta dal suo esser accesa, è identico al suo esser accesa»”. Il semplice “è” significa dunque “essere identico”, senza per questo smettere di essere sempli==———_

* Ibi, p. 322. % Ibi, p. 323. % Ibidem.

® Ibidem.

132

Cap. 11 - La struttura originaria

ce: infatti, è l'unione tra x e y (nella formulazione appena vista) a essere una complessità semantica, mentre l’“è” che ne costituisce il predicato è distinto da essa e, così distinto, non è complesso ma semplice,

dove — come detto — essere semplice non significa essere insignificante:

«solo se ne fosse separato non sarebbe un che di significante, e quindi

nemmeno un significato semplice, cioè sarebbe niente»®. La relazione

di identità, per quanto nella lingua italiana il verbo riflessivo «identifi-

carsi a» possa trarre in inganno in questo senso, «non allude a una relazione ulteriore rispetto a quella dell’identità, ma è dovuta alla natura

del verbo italiano “identificarsi’’»’, cosa che non accade, invece, con “eguagliare”, dal latino aequare, formato su aequus (“uguale”). Anche

nel caso dell'equazione, quale “eguaglianza” di due eguaglianze (come

si è visto nella formula x-y), le eguaglianze sono due «solo per la forma

esterna del linguaggio, ma propriamente sono lo stesso»!”. L'essere semplice significa “si identifica a” ma anche “significa”; pertanto “eguaglia” e “significa” si eguagliano, sono il medesimo significato. Ecco dunque come si deve intendere la compatibilità di essere semplice e complesso: «come “essere” semplice è significato semplice, come equazione dell’“essere” è significato complesso». E così, come l’essere formale è significato semplice, anche i significati “significare” e “eguagliare” sono significati semplici; per essi può essere ripetuto quanto detto a proposito dell'essere formale: «sono significati semplici in quanto distinti da ciò che essi necessariamente implicano e che costituisce la concretezza della loro semplicità semantica». In sintesi: se si prescinde dall’identità tra soggetto e predicato e se ne isolano i termini, il soggetto è posto come diverso dal predicato. All’interno dell'identità, il predicato (‘è’) è un significato semplice in quanto distinto dal soggetto (ciò-che), pur essendo solo distinto ma non separato (se infatti fosse separato avremmo il problema di cui sopra); in quanto invece il predicato (“è”) è lo stesso ciò-che (che è), allora

quell’“è” è da intendersi come significato complesso. Interessante notare come la posizione del 2007 sia la sintesi e il superamento delle posizioni del 1958 e del 1981: con essa si ritorna infatti all’affermazione della semplicità del significato formale dell'essere (tesi), ma tale semplicità non vale come negazione della complessità ® * ‘0 !0!

Ibidem. Ibidem. Ibi, p. 324. Ibidem.

L'aporetica del nulla, il contraddirsi e la contraddizione

133

dell'essere (antitesi), dal momento che si deve affermare che entrambe

le posizioni (della semplicità e complessità dell’essere) «si implicano

con necessità» (sintesi). In altre parole, il ritorno del 2007 alle posizio-

ni del 1958 è un «ritorno» solo in quanto «supera» ciò a cui fa ritorno, ossia in quanto non prescinde dalle posizioni del 1981, ma le conserva

emendate dalla loro contraddittorietà.

In conclusione a questo intervento, Severino fa notare che anche il

significato “non” è semplice: «in quanto distinto da ciò che esso nega,

ad esso compete infatti la proprietà dell’“è”, cioè di essere un significato che, se fosse complesso, sarebbe costituito da momenti che, oltre

ad essere sé stessi, non sarebbero l’altro da sé, sì che il “non” si costituirebbe già come momento della sintesi in cui il “non” dovrebbe consistere. E pertanto anch'esso un significato semplice»!°. Nel caso di “non è” si ha la sintesi dei due significati semplici “non è” ed “è”; nel caso invece, ad esempio, di “x è”, si ha la sintesi di un significato semplice e di x. In conclusione, anche per il “non è” vale dunque quanto detto in

relazione all’“è”, anche se in relazione al non essere, inteso in termini

assoluti, si apre una questione di primaria importanza che viene affrontata nel prossimo paragrafo. S. L'aporetica del nulla, il contraddirsi e la contraddizione Come si può pensare al nulla? Come si può dirlo? Parmenide, affermando che essere è pensare, aveva messo in luce l’impensabilità e dunque indicibilità del nulla. Eppure, per affermare che il nulla è impensabile (e indicibile), esso viene posto: è cioè pensabile e dicibile. Il significato o posizione del nulla sembra dunque portare con sé una

problematica senza soluzione, la quale è tanto più rilevante in quanto

investe essenzialmente l’innegabilità dell'essere: se l’essere è ciò che è essenzialmente contrapposto al nulla, se l’essere è cioè essenzialmente la negazione del nulla, la posizione dell’essere come tale esige la posizione del nulla. La posizione dell’essere è la stessa posizione della nullità del nulla: «la posizione del principio di non contraddizione richiede la posizione del non essere. Non solo, ma il “non essere” »” appartiene allo stesso significato “essere”»'°. IT]

12 Ibi, pp. 328-329.

"° E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 209.

134

Cap. Il - La struttura originaria

In questo modo inizia il capitolo IV de La struttura originaria, dedicato proprio all’aporetica del nulla e al suo risolvimento. Vedremo che il modo in cui viene risolta tale aporia consente di superare agevolmente anche la questione della differenza terminologica tra non essere, niente e nulla.

Il nulla cui si fa riferimento è il nulla assoluto, l’assolutamente al-

tro dall’essere: il nihil absolutum. La posizione dell’incontraddittorietà

dell'essere esige la posizione del niente come ciò che non può esistere;

in caso contrario, se cioè il niente non fosse ponibile, l'essere non po-

trebbe negarlo e sarebbe pertanto ciò che non nega di non essere. Senza

porre il nulla come negato, l'essere non potrebbe essere “essere”. Ma poiché ciò è impossibile, l'aporetica del niente deve avere una soluzione. È in effetti, mostra Severino, tale aporetica è solo apparente. Il problema nasce perché quando si afferma il niente come ciò che

non è, si dice che esso è niente, ossia si afferma il niente, si dice che

e cosa esso è. Ma dicendo che il niente è niente, non lo si tratta forse

come un non-niente, cioè come un essente? Se per parlare del niente si

deve necessariamente parlare di qualcosa, sembra proprio impossibile porre il niente, giacché, ponendolo, si pone qualcosa e non si pone più il niente assoluto!”. All’interno di tale aporetica, le possibili conclusioni sembrano queste: o si conclude l’impossibilità di pensare e parlare del niente, oppure si conclude che anche il nulla è. Certo che, se le cose stessero realmente così, la stessa posizione dell’incontraddittorietà dell’essere finirebbe con l’implicare la sua contraddittorietà, poiché implicherebbe sia che il nulla è nulla, cioè impossibilità a essere, sia che non è nulla, in quanto per essere posto deve essere qualcosa. Come prospettato da Platone nel Sofista, rileva Severino, pare che il principio di non contraddizione si fondi sulla contraddizione. Tuttavia — rileva Severino — tale aporia è solo apparente. Così, dopo aver passato in rassegna alcuni modi di togliere l’aporia e mostrato la loro insufficienza o inconsistenza, Severino passa a definirla nei suoi

momenti strutturali e mento. Tali momenti che il non essere non mostrando come non

infine a indicare in cosa consiste il suo risolvipossono essere ricondotti a due: «o mostrando è, o tenendo fermo il non essere del non essere, possano costituirsi quelle strutture logiche che

1 In merito all'importanza della soluzione severiniana dell’aporetica del niente si rimanda

all’ultimo paragrafo dell'ultimo capitolo di questo scritto (vi, 12), in cui si mostra il rilievo della mancanza di tale soluzione all'interno del pensiero di Heidegger.

L'aporetica del nulla, il contraddirsi e la contraddizione

135

implicano la posizione del non essere»!. Vediamo di chiarire. Severi-

no sta dicendo che sono due gli aspetti dell’aporia: quello consistente nel porre il niente e quello consistente nel tenere fermo il niente come niente. Nel primo caso, ponendo il niente, si perde il non essere asso-

luto come tale, poiché il porre porta con sé necessariamente l'esser

qualcosa di ciò che è posto e quindi porre il niente significa perdere il niente come assolutamente insignificante e insignificabile. Nel secondo caso, invece, proprio in quanto non si vuole perdere il niente assoluto ma tenerlo fermo come tale, non lo si può porre in alcun modo:

per conservare l’aspetto assolutamente insignificante, non essente, del niente, non lo si può porre. Nel primo caso ponendo il niente lo si perde; nel secondo caso, per non perderlo, non lo si può porre. Il risultato è il medesimo: è impossibile pensare al niente, cioè porlo o dirlo.

L'aporia può dunque prodursi in due diverse modalità: in quanto posizione del nulla o in quanto nullità del nulla. Nel primo caso l'atto del porre il nulla sembra entrare in conflitto con il nulla posto, per cui porre il nulla equivale a porre l'essere del nulla, poiché ciò che non è non può, in quanto tale, essere posto. Nel secondo caso la contraddizione scatterebbe per il motivo opposto: si ha l'assoluta nullità del niente solo nella misura in cui non la si pone come tale. Ma, non ponendola come tale, essa non può nemmeno essere tale. Sembrerebbe doversi concludere che il nulla non può essere né posto né concepito: appena posto (concepito, pensato, detto) il nulla è perduto. La soluzione dell’aporia (che dunque deve esserci) non può consistere nel cessare di pensare e porre il nulla: infatti «non porre il nulla significa essere nell’impossibilità di escludere che l’essere sia nulla. Non solo, ma non può essere posto nemmeno l’essere», dal momento che esso è per definizione ciò che nega di non essere: «porre l'essere senza il non essere significa non porre nemmeno l’essere»!%. Poiché l’aporeticità deriva dal ritenere che, ponendo il nulla (ossia l'essere del nulla), si identifichino i significati essere e nulla, la soluzio-

ne consiste innanzitutto nel comprendere che a essere posto come non-

nulla non è il nulla come tale, ma il nulla in quanto significato (ossia

posizione) del nulla: a essere qualcosa non è il nulla come tale, ma il nulla in quanto posto. A essere qualcosa non è l’assolutamente niente,

ma la sua posizione. Come il nulla posto (la posizione del nulla) non è

i

!" E, Severino, La struttura originaria, cit., p. 213.

"5 Ibi, p.211.

136

Cap. il - La struttura originaria

l’assolutamente niente ma la sua posizione, allo stesso modo l’essere del nulla, ossia la posizione del nulla, non è nulla, ma è, appunto, l’essere del nulla: non nel senso che il nulla sia qualcosa, ma nel senso che

il nulla è nulla.

Dunque il nulla è? Sì, ma non nel senso che ciò che non è sia qual-

cosa. Tale affermazione deve essere intesa concretamente: «il positi-

vo significare non è dato semplicemente dall’“è” [...], ma anche dal

concreto contenuto semantico che viene pensato allorché, ponendo il

nulla, è posto “l’altro dalla totalità dell'essere»! Dicendo che il nulla è, si pone l’essere del nulla: non nel senso che il nulla sia qualcosa, ma nel senso che si afferma (ed è tale affermare a essere!) che il nulla non può esser essere e che questo non potere è il suo essere. L'essere

del nulla è cioè la posizione dell’identità del nulla, ossia del nulla quale assoluta nullità. Il che rende evidente come la contraddizione non sia interna al significato niente, ma tra il significare in quanto tale e il

niente: è il significare in quanto tale a essere in contraddizione con la nullità del nulla: «la positività del significare — nleva Severino — è cioè in contraddizione con lo stesso contenuto del significare, che è appunto significante come l’assoluta negatività»!*. Il significato “nulla” è pertanto la contraddittoria sintesi tra significanza e insignificanza. In questo significato contraddittorio è contenuto ficato

il momento

incontraddittorio,

semantico del nulla: è

momento

del

«il “nulla”, come

“nulla”,

come

signi-

significato

autocontraddittorio»!”, Quando il principio di non contraddizione dice che l’essere non è il non essere, non si riferisce dunque al nulla autocontraddittorio ma alla nullità del nulla. In questo senso il fondamento del principio di non contraddizione non è la contraddizione ma l’incontraddittorietà. Ma ecco concretamente le soluzioni ai due modi di prospettare l'aporia. La prima consiste nel rilevare la contraddittorietà (0 impossibilità) del porre il nulla, giacché, una volta posto, “nulla” significa “nonnulla” ossia “essere”. Nel par. 8 viene indicata la soluzione a questa prima modalità aporetica, rilevando che si afferma che “nulla è” non in quanto “nulla” significhi “essere”, ma in quanto “nulla” è quel positivo significare — e pertanto un certo essere — che «è significante come l’assolutamente negativo, [...] pertanto il nulla è, nel senso che l’asso-

10? Jbi, p. 214 t@ /bi, p. 213. 10 /bi, p. 214.

L'aporetica del nulla, il contraddirsi e la contraddizione

137

lutamente negativo è positivamente significante; o il nulla è, nel senso

che quello di “nulla” è un significato autocontraddittorio»', dove i due lati della contraddizione sono «l'essere (il positivo significare), e il nulla, come significato incontraddittorio (appunto perché il nullamomento non è assolutamente significante come

“essere”’)»!!!. Detto

altrimenti: la nientità del niente è in conflitto con il suo stesso esser-

niente proprio in quanto essere: l'insignificanza del niente è in con-

traddizione con il significare dell’insignificanza come insignificanza.

In altri termini ancora: è lo stesso significare dell’insignificanza a essere in contraddizione con l’insignificanza. Ma ora si osservi: è proprio questa contraddizione ciò che rende assolutamente incontraddittorio il principio di non contraddizione.

Infatti, quest’ultimo esclude la nien-

tità dell'essere proprio in quanto mostra il non essere del niente, ossia il suo carattere essenzialmente contraddittorio: l’autocontraddittorietà del niente — appena considerata — è cioè l’incontraddittorietà dell’essere. Come

si è visto, infatti, il nulla è sia l'assoluta negatività, sia il

suo significare come tale; ebbene, proprio perché è impossibile (ossia

contraddittorio) significare l’insignificanza, il nulla non vale solo come

significato incontraddittorio (assoluta insignificanza): se valesse come

tale, «escludere che l'essere sia nulla sarebbe un non escludere nulla,

poiché l'esclusione non avrebbe un termine non apparirebbe nemmeno». D'altra parte è impossibile pensare che nulla. Come sarebbe infatti possibile porre porlo? Poiché è il porre in quanto tale che

su cui esercitarsi: il nulla

il nulla possa valere come il nulla come nulla senza toglie l'assoluta insignifi-

canza. L’assoluta insignificanza, per valere come tale, deve cioè essere

posta; se non viene posta, essa non è e non c’è. Essendo per definizione non-ponibile, e insieme essendo tale solo se posta, l'assoluta insignificanza del niente (il momento incontraddittorio) è autocontraddittoria

in quanto posta; in quanto non posta, «se il nulla è nulla, il nulla non

è e non significa nulla; e quindi non può nemmeno apparire». E per

questo aspetto non è nemmeno un significato autocontraddittorio: sem-

plicemente nulla. Tale nullità del nulla è quanto viene posto dal principio di non contraddizione, la cui forza consiste proprio nell’affermare l'impossibilità del niente quale assoluta insignificanza. In questo sen=——————————

"9 Jbi, p,215. !!! Ibidem.

"! Ibi, p. 216. 1 Ibidem.

138

Cap. II - La struttura originaria

so tale principio «non esige che l’autocontraddittorietà del significato “nulla” sia tolta, ma esige il campo semantico costituto da questo signi. ficato autocontraddittorio»!!*. Questo campo semantico — la nullità del nulla — è dunque un «momento semantico del nulla come significato autocontraddittorio»!"5,

Dopo aver mostrato la soluzione alla prima formulazione dell’a. poretica, Severino, prima di passare alla soluzione della seconda for-

mulazione, nel par. 9 esplicita i «motivi che determinano l’aporia»!!,

Essi sono riconducibili alla comprensione astratta dei termini (positivo

significare e nulla-momento) del significato nulla. Vediamo sinteticamente perché, rimandando anche in questo caso al testo de La struttura originaria per una prospettiva maggiormente analitica. Il significato nulla in quanto unità dei due momenti è il concreto: il concreto è cioè quel significato autocontraddittorio costituito dallo scontro tra il positivo significare e la nullità (o insignificanza) del nulla. L'aporetica scatta quando il nulla-momento non viene inteso come momento ma come sintesi dei due momenti astratti, e dunque

«viene posto come quella stessa concretezza di cui era momento. Questa posizione è la semplice ripetizione della precedente posizione di quella concre-

tezza. Sicché sarà necessario ripetere il toglimento dell'astratto. E se il non essere, come momento astratto della concretezza ripetuta, si porrà daccapo

come sintesi di essere e nulla, si produrrà una seconda ripetizione»!!7. Ebbene, questa ripetizione, rileva Severino, è

«intrinsecamente contraddittoria: da un lato lascia come posto ciò che progetta come coinvolto in una ripetizione infinita — ché, per così progettarlo, deve in qualche modo porlo —, e dall'altro, proprio in forza del contenuto del progetto, il progettato non deve esser posto — perché, altrimenti, la ripetizione infinita sarebbe limitata dal toglimento di quel momento astratto che non si pone a sua

volta come ripetizione del concreto»!!,

L’aporia dunque è prodotta dal tenere irrelati i due momenti e con-

siderare

il nulla-momento

come

momento

che è, indipendentemente

dall’altro momento. Ecco che allora, dice Severino, si «trova l’essere

14 Jhi, p. 217. 5 Ibidem. 6 Ibidem.

" Ibidem.

te Jbi, p. 218.

L'aporetica del nulla, il contraddirsi e la contraddizione

139

del nulla»!'°. Se il nulla-momento venisse considerato come momento, esso sarebbe soltanto un momento (incontraddittorio) di un certo sinificato autocontraddittorio; «ma il discorso aporetico impedisce [...] che il nulla si costituisca (o ricostituisca) come significato incontraddittorio, appunto in quanto, oltre a non considerare come momento il nulla-momento, oltre a ciò lo considera come momento»! L'aporia è dunque determinata dal trattare come concreto ciò che è astratto; se la posizione del nulla come assoluta insignificanza viene tenuta ferma come momento della generale autocontraddittorietà della sintesi tra positivo e negativo in cui consiste il significato nulla, non si produce

infatti nessuna aporia. C'è aporia solo in quanto si ritiene che il nullamomento sia separato dal suo positivo significare. Rilevati i motivi dell’aporetica, Severino può passare a risolvere la

sua seconda formulazione. In generale, come si è visto, a determinarla

è la posizione astratta della relazione tra i due momenti; nello specifico, nella prima formulazione il positivo significare viene separato dal nulla-momento e quindi poi si ripresenta in esso, determinando la

contraddizione, mentre in questo secondo caso «il prescindere da quel

momento lo fa completamente perdere di vista»!?. Nel secondo caso l’aporia è cioè provocata dal tenere ferma l’assoluta insignificanza del nulla, ossia dal suo prescindere dalla positività significante senza prescinderne: se infatti ne prescindesse completamente non ci sarebbe alcuna aporia e il non essere non sarebbe nemmeno posto: «il nulla,

che è momento

astratto del nulla come

significato concreto, è astrat-

tamente concepito come irrelato al momento del positivo significare: concetto astratto del momento astratto del nulla»! Nel paragrafo successivo Severino ritorna sul «concetto concreto e astratto del nulla come momento astratto» approfondendo e sviscerando ulteriormente la tematica. Pur rimandando il lettore a quelle note, si riportano qui alcune considerazioni che paiono rilevanti. Posto e mostrato quanto già detto, seppure in questo caso riferendosi a prospettive aporetiche differenti (pur permanendo essenzialmente all’interno delle due modalità considerate), e cioè che «il nulla è momento perché la distinzione non è separazione; sì che ciò da cui il negativo si distingue è appunto quella sua positività che gli consente di valere come momento», viene e

—_——

! Ibidem.

1° Ibidem.

'2 Ibi, p. 219. "2 Ibi, p. 220.

140

Cap. ll - La struttura originaria

attentamente considerato il nulla come assoluta negatività, per rilevare

come esso, semplicemente o astrattamente considerato, non abbia valore alcuno. Per valere come tale deve essere momento del significato

niente: «l’assolutamente altro dall’essere, in quanto altro dall'essere, non è un essere; ma in quanto è significante come l’assolutamente altro dall’essere è un essere, una positività [...] il nulla, in quanto tale, è il non significante (il non essente). Ma il non significante non è separa

to dal suo essere significante come il non significante»! In quanto il significato nulla «è distinto dalla positività del suo significare [...] esso è in grado di significare l’assolutamente altro dall’essere e di valere come momento ( e dunque come positività che è momento) della contraddizione»! Ecco mostrato in che senso l’aporia è solo apparente: o non si parla del nulla, non lo si pensa e non lo si pone, oppure, in quanto lo si pone,

non c’è aporia, poiché, «se questa consapevolezza sussiste, il negativo

è con ciò già in sintesi con il negativo. Basterà allora, [...] che la sintesi sia concretamente concepita: come originaria, immediata, e non come

un risultato che presuppone l’irrelatività dei distinti»!”. Il nulla è ciò che non esiste e non può esistere; in questo senso nulla è la contraddizione. L’aporetica del niente è dunque essenzialmente correlata al contraddirsi e alla contraddizione: infatti, così come pote-

va sembrare problematica l’esistenza del niente, può sembrare problematica l’esistenza dell’errore: come può esistere l'errore se, in quanto

tale, esso è affermazione e negazione di se stesso?

Nel caso del nulla si è visto che porre il nulla non significa non porre nulla, ma porre la nullità del nulla; la posizione della nullità del nulla non è nulla. Nel caso dell’errore siamo di fronte a una questione analoga, proprio considerando che la contraddizione è nulla: poiché l’errore esiste, accade, innegabilmente, come è possibile dire che esso sia nulla? Dicendo che l’errore è contraddizione, cioè niente, si dice forse che l’errore non accade? La risposta alla questione consiste essenzialmente nella distinzione tra contraddirsi e contraddizione, tra errare ed errore: la contraddizione

(errore) è il contenuto contraddittorio di un certo pensare che si contraddice e può esistere solo come suo contenuto. La contraddizione esiste solo come contenuto del contraddirsi, ossia di quel pensiero con-

193 Ibi, p. 222. 124 Jbidem. 12% /bi, p. 223.

L'aporetica del nulla, il contraddirsi e la contraddizione

141

sistente nel credere che ciò che non è (la contraddizione) sia. L’errare o contraddirsi è l’azione (convinzione, pensiero ecc.) che accade e che ha come contenuto l'impossibile (la contraddizione); la contraddizione,

come tale, è ciò che non accade né può accadere fuori dalla convin-

zione in cui consiste il contraddirsi.

La contraddizione,

infatti, fuori

da quella convinzione, è l'assoluta insignificanza. Essa è propriamente

nulla. Eppure, anche in questo caso, non si deve dire che la contraddizione esiste, che la possiamo dire, indicare e criticare? Certo, essa esiste. Ma solo come contenuto di quel contraddirsi che non la sa (e per

questo si contraddice) come niente.

Se, mentre dormo, sogno di leggere, ciò (rispetto allo stato di sonno

che qui si pone come verità) è falso (lasciando valere il presupposto che

verità e veglia coincidano); infatti credo di leggere mentre sto dormen-

do, e quindi l’azione sognata è immediatamente smentita dall’atto che

la pone. Eppure quella contraddizione, ossia il non essere niente del

leggere quando non si legge (si dorme), pur non essendo, accade; ma

accade appunto sofo come contenuto del sogno. Il sogno, come il con-

traddirsi, è l’atto che contiene quella contraddizione, ossia in cui la con-

traddizione non è saputa come tale. Il sogno, in quanto contraddirsi, è il

non vedere che il niente è niente: si sbaglia, ci si contraddice, solo nella

misura in cui l'errore e la contraddizione non sono saputi come tali. In

questo senso la contraddizione, che è nulla, può esistere solo in quanto

contenuto di un pensiero (convinzione, azione ecc.); fuori da esso, essa

è nulla. Ciò che non è. La contraddizione, in quanto non contenuta dal sogno, ovvero in quanto consistente nella pretesa che fuori dal sogno l’atto del mio leggere esista, è nulla, un contenuto impossibile, auto-

contraddittorio. Insomma,

la porta aperta che è chiusa, ovvero l’esser

chiusa di questa porta aperta (di questo essere aperto che è la porta aperta) e tutto ciò che è (immediatamente) autocontraddittorio esiste

solo come contenuto dell’atto che lo pone, mentre fuori da quell’atto esso è nulla. Per questo il risolvimento dell’aporetica del niente è un modo di porre la differenza tra contraddirsi e contraddizione.

Oltre al presente capitolo de La struttura originaria si segnala, tra

gli interventi di Severino sull’argomento, il contributo di Essenza del nichilismo (La terra e l'essenza dell’uomo), dove Severino mostra che il contraddirsi sussiste solo se in esso tesi e antitesi differiscono; il contraddirsi «non è l’esser persuasi della tesi e insieme dell’antitesi, ben-

sì è l’esser persuasi della negazione (volgimento) dell’identificazione

della tesi e dell’antitesi: stante l'identità di tesi e antitesi, non si dà con-

142

Cap. Il - La struttura originaria

traddirsi». E pertanto «la modalità secondo cui appare la contraddizio. ne, non può essere la pura contraddizione [...] Se la modalità [...] fosse la pura contraddizione, allora l’appanire della contraddizione sarebbe impossibile (sarebbe un niente): sarebbe impossibile contraddirsi»'%, Ma

si deve richiamare sopra tutti uno scritto severiniano dal tito.

lo Fondamento della contraddizione (Adelphi, Milano 2005). Le pri.

me «due parti» di questo scritto sono uno studio sui principi primi (in modo particolare sul principio di non contraddizione e sull’é/enchos)

nel pensiero di Aristotele, prendendo in esame anche alcune interpre-

tazioni del pensiero aristotelico (in modo particolare Lukasiewicz e Calogero). Ciò che ne risulta non è solo un'analisi particolarmente rigorosa sul pensiero di Aristotele, ma anche un contributo teoretico importante per le posizioni del linguaggio che testimonia il destino (contributo che verrà poi accolto e sviluppato in O/trepassare). In modo particolare, come

messo in luce nell’Avverrenza, si chiarisce il senso

della contraddizione e il suo “fondamento” ultimo. A tale proposito spicca, per rilievo teoretico, il Iv capitolo della parte prima, dal titolo

Destino della verità e negazione della contraddizione (pp. 77-94). In

esso Severino riprende quanto già mostrato in Essenza del nichilismo,

e cioè l’identità formale tra l’«evidenza» (secondo Aristotele) dell’af-

fermazione dell’«impossibilità di esser persuasi della contraddittorie tà dell’ente» (libro IV Metafisica) e l'evidenza di tale affermazione in quanto appartenente «già da sempre alla struttura della Necessità»!”. Tale evidenza, rileva Severino, è la caratteristica essenziale (dorismòs)

del principio di non contraddizione aristotelico: «l'impossibilità che si sia persuasi della negazione del suo contenuto». Esser convinti di qualcosa non è infatti «un atto mentale che si aggiunga all’appari-

re di ciò di cui si è convinti», ma è «il puro apparire di ciò di cui siè convinti»': «esser convinti di qualcosa significa, essenzialmente, che qualcosa appare senza che esso appaia come negato»! Ogni convinzione, anche se si tratta di un'illusione, è essenzialmente un apparire;

anche se «nello sguardo della verità [...] appare come ciò in cui non appare ciò che in verità appare»!?!. !% E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 204. 1? E. Severino, Fondamento della contraddizione, cit., p. 77. 128 Ibi, p. 78. 1° Ibidem.

10 /bi, pp. 78-79. 1 Ibi, p. 79.

L’aporetica del nulla, il contraddirsi e la contraddizione

143

Ora, sia per Aristotele che per lo sguardo del destino è impossibile la

convinzione della contraddittorietà dell’ente, ossia l'esser convinti che un esser sé non sia l’esser sé che è, dal momento che «l’esser altro da sé [...] è nulla [...]. Ma il nulla non può nemmeno apparire, perché se l’ap-

parire fosse apparire di nulla, sarebbe nullo come apparire». E dunque impossibile che «qualcosa appaia come il non esser ciò che esso è»!?2. Quanto esposto non significa che la contraddizione e il nulla non

appaiano (sebbene in modo diverso, rileva Severino, «a seconda che appaiano nella verità o nella non verità»!*); la contraddizione e il nulla

appaiono, come si è mostrato proprio in questo paragrafo, in quanto

positivo significare del nulla. Si può pertanto concludere che l’errare

è impossibile, «proprio perché è impossibile l’errore»'*: non ci si può convincere di ciò che è impossibile, perché da una parte l'impossibile è nulla, e dall’altra il convincersiì è un apparire; e l'apparire non può essere apparire di nulla. Questo sia per Aristotele che per lo sguardo del destino (anche se, come detto, si tratta di identità puramente formale). Ma pur affermando l'impossibilità dell’errare, si deve anche dire — in un diverso senso — che l’errare esiste: si deve cioè affermare, «nonostante tutto questo,

che l'errare esiste, ed esiste come

convinzione

esplicita del mortale che l’essente diventa altro da sé e che, diventatolo, è altro da sé (sebbene rimanga implicita la convinzione che qualcosa, in quanto non è altro da sé, è altro da sé); e, anche, come convinzione esplicita che l’essente

proviene dal nulla e vi ritorna; e come convinzione implicita che l’essente, in

quanto essente, è niente. Cioè si tratta di comprendere che anche nella non verità l'apparire dell’errare, cioè della contraddizione, è possibile solo in quanto la contraddizione appare come negata, e che questa negazione si fonda da ultimo sulla negazione

(dell’errare e della contraddizione) che appartiene al destino della verità»!*,

i Fondamento ultimo che è, appunto, il fondamento della contraddi-

zione. E ora la conclusione. In quanto essere convinti di qualcosa significa

l'apparire di un certo contenuto come non negato, essere convinti della

contraddizione non significa l’apparire della pura contraddizione, ma l'apparire della sua negazione come non negata: ==—__—_—_—__—_——_—

12 Ibidem. 1 Ibidem.

! Ibi, p. 80.

‘ Ibidem.

144

Cap. ll - La struttura originaria

«se dunque l’essenza della forma di ogni “convinzione” [...] è il puro apparire, in cui il contenuto che appare appare come non negato, è necessario che ciò

che è chiamato “l'essere convinti della contraddizione” sia in verità non il

puro apparire della contraddizione, ma l'apparire che ha come contenuto la

negazione della contraddizione, e che tale contenuto appaia come non negato.

È impossibile che la contraddizione appaia puramente (cioè come non nega ta), ossia il puro esser convinti della contraddizione è impossibile (è qualcosa di contraddittorio). La contraddizione può apparire solo come negata»!*,

6. La struttura originaria come dire e la proposizione Una volta chiarito il significato della L- e F-immediatezza, si può passare a considerare una delle questioni più importanti de La struttura

originaria e cioè l'articolazione tra immediatezza e mediazione. Tale

questione presuppone però la distinzione tra le proposizioni e l’individuazione di determinazioni “costanti” e “varianti”, di cui ci si occupa

in questo e nei prossimi due paragrafi. La struttura originaria è struttura in quanto è relazione e dunque predicazione. La predicazione è il dire che il soggetto è il predicato; ma, affinché questo dire accada, soggetto e predicato devono essere diversi: se non fossero diversi, non accadrebbe nessun dire. Il che pone un problema, già noto a Platone e Aristotele e quindi a tutta la filosofia occidentale: se soggetto e predicato sono enti diversi, come possono essere unificati nella identificazione predicativa senza determinare una

contraddizione? Una tale identificazione, infatti, significherebbe affer-

mare che una cosa è altro da sé. Si deve dunque concludere che ogni forma di dire, il dire come tale, cioè come pre-dicare, è contraddizione? La struttura originaria si occupa del senso incontraddittorio del dire come predicare: la predicazione è contraddizione solo se concepita come atto esterno; se, invece, il dire è concepito come la coscienza (ossia l'apparire) dell'essere della cosa'”, il predicare non produce nessuna contraddizione. Cerchiamo di chiarire questa fondamentale affermazione. Prescindendo (per il momento) dalla distinzione tra proposizioni analitiche e sintetiche, partiamo dalla considerazione generale che il dire, in quanto predicazione, esige la distinzione tra soggetto e predi1 Ibi, p.B1.

1” Sul rapporto tra la struttura originaria e il linguaggio cfr. infra (11).

La struttura originaria come dire e la proposizione

145

cato. Per affermare A=A (così come A=B) si esige necessariamente che

A (come soggetto) sia diverso da A (come predicato): altrimenti non si

avrebbe nessuna predicazione. Se la diversità tra A-soggetto e A-predicato viene intesa come una estraneità originaria dei termini, che sono unificati da una sopraggiunta mediazione predicazionale, allora il dire è necessariamente contraddizione; invece, se quella diversità è intesa come la distinzione tra due termini che sono correlati originariamente, allora la predicazione non determina alcuna contraddizione, poiché l'A

di cui si predica A è il medesimo A

in quanto posto nella sua determi-

nata relazione con se stesso. Obiezione: ma se è sempre il medesimo A,

come si può predicare qualcosa che gli sia altro da sé senza negame la «medesimezza»? Appunto predicandogli l’unico predicato possibile: questo suo essere una tale medesimezza! Il dire non può essere altro che il predicare l’esser sé della cosa. In termini molto semplici (che ora però si andranno complicando), questo significato del dire è quello affermato da La struttura originaria, contro la millenaria tradizione predicativa occidentale in cui il dire è un atto contraddittorio e dunque impossibile, in quanto, fondandosi sulla separatezza originaria di soggetto e predicato, intende affermarne l'unione. Il dire, nella concezione predicativa occidentale, è la pretesa impossibile che il diventare altro sia possibile; pretesa che è impossibile perché diventare altro, significando diventare identico al proprio altro, significa il «diventare identico a ciò a cui gli è impossibile essere

identico»!, Si è parlato di “concezione predicativa occidentale”, anche se negli studi contenuti in Destino della necessità (capp. VIII, IX, x), Severino mette in luce come la lingua occidentale abbia una sua preistoria linguistica, e indica la possibilità di intendere il timbro della flessione nelle lingue greca e latina e anche indoeuropee come rivelativo o del diventare altro da parte delle cose modificate dalle «potenze» (il loro flettersi: il timbro della flessione) oppure della loro resistenza a farsi così modificare (il non-flettersi: il timbro dell’inflessibile), e an-

che di ampliare la regione linguistica dell’indoeuropeo, «se si potesse

sviluppare l’indicazione di certe indagini più recenti delle scienze del

linguaggio, per le quali le famiglie linguistiche sarebbero riconducibili a un'unica lingua originaria ed esisterebbero pertanto radici “univer-

sali”. Si aprirebbe in tal modo la possibilità di reperire, anche in que-

ste radici, la contrapposizione tra il timbro della flessione e il timbro ——_—___—_

!* E. Severino, Tautòtes, Adelphi, Milano 1995, p. 14.

146

Cap. I! - La struttura originaria

dell’inflessibile. [...] La contrapposizione tra i due timbri si rispecchia poi nella contrapposizione tra nome e verbo, dove il nome tende a in-

dicare il contenuto della cosa, nella sua più o meno durevole capacità

di non flettersi; cioè nel suo più duraturo restare presso di sé; mentre il verbo tende a indicare l’agire, o come flessione, che fa diventare altro

la cosa, oppure come capacità di resistere a tale flessione»!”,

In ogni caso, pur invitando il lettore ad approfondire per suo conto

questa interessante lettura dei timbri nelle lingue che hanno preceduto il linguaggio dell'Occidente, è a quest’ultimo che ci si rivolge perché solo con esso si apre la dimensione dell’essere e del non essere e dunque solo con esso il diventare altro assume i connotati assoluti — e assolutamente angoscianti — che il mortale bene conosce.

Il significare autentico, ossia l’unico significato del dire come signi-

ficare, è il luogo in cui la medesimezza di ogni cosa con se stessa è fatta

vivere come tale. Ecco perché la struttura originaria è i/ dire origina-

rio, ovvero i/ significare originario. Ogni affermazione dell’originario

è pertanto un'affermazione in cui la relazione affermata è sempre una relazione di identità: il dire originario è il dire dell’identità (identità

di genitivo soggettivo e oggettivo). Il che è intuitivo: se non dicesse

l’identità, direbbe la diversità, e cioè direbbe l’essere altro della cosa e

quindi la struttura originaria sarebbe un dire contraddittorio. La struttura originaria non sarebbe cioè struttura originaria, ciò la cui negazione è immediatamente un’autonegazione. La struttura originaria è dunque dire in quanto mostra l'identità di ogni essente con se stesso. All’interno di questa identità originaria di ogni relazione predicativa, La struttura originaria distingue le propo-

sizioni in analitiche, sintetiche a posteriori e sintetiche a priori. Qui si deve richiamare l’attenzione del lettore a una distinzione importante: 1) dire che ogni proposizione è affermazione di una identità non significa

negare la possibilità di distinguere relazioni diverse tra determinazioni (e dunque tra proposizioni): essere identità non significa svuotarsi di determinatezza; 2) la distinzione dei tre tipi di proposizioni non equivale — in quanto tale — alla negazione della struttura originaria come

dire dell'identità, in quanto «dire dell’identità» non significa negare la

distinzione tra le relazioni e dunque tra le proposizioni che esprimono quei diversi nessi. In altri termini: affermare che la struttura originaria è dire dell’identità non significa negare nessi e relazioni tra enti diversi, !# E. Severino, Oltrepassare, cit., pp. 49-50.

La struttura originaria come dire e la proposizione

147

ma significa affermare questi nessi nel loro costituirsi come predicazioni di identità. Si deve sgombrare il campo da un possibile equivoco:

affermare che la struttura originaria sia dire dell'identico non significa

affermare che gli unici giudizi incontraddittori sono solo le proposizioni

tautologiche del tipo il «sole è il sole» e non «il sole è luminoso», giac-

ché anche in relazione alle prime, come vedremo, si ripropone lo stesso

problema dell’unione dei diversi che si pone nelle proposizioni sintetiche. Ne La struttura originaria si conserva la distinzione tra proposizioni analitiche e sintetiche; nel prossimo paragrafo si vedrà se e come

questa dislinzione possa essere mantenuta accanto all’affermazione che la struttura originaria, quale dire dell'identico, significa che qualsiasi predicazione e dunque qualsiasi relazione tra determinazioni non è contraddittoria solo in quanto identità originaria di soggetto e predicato.

Le questioni che si stanno considerando incontrano le grandi que-

stioni della metafisica occidentale da Platone a Hegel; si tratta infatti anche (ma non solo) di rivisitare il problema che Platone aveva eredi-

tato da Parmenide e Hegel da Schelling, consistente nel chiedere come fosse possibile affermare la molteplice determinatezza delle diversità senza negare l’identità originaria dell’essere. La struttura originaria non risponde però solo a quella questione: infatti, mentre da una parte (compito svolto da Platone e da Hegel) mostra come si possa distingue-

re l'identico mantenendolo identico, dall’altra (compito non svolto né

da Platone né da Hegel ma solo da La struttura originaria) mostra in che modo il dire possa essere incontraddittoriamente unione di diversi. Mostra cioè il fondamento della predicazione come tale. La struttura originaria dà la risposta definitiva alla questione: come è possibile l'incontraddittorietà della predicazione in quanto unione di diversi? La domanda vale allo stesso modo per le proposizioni analitiche e sintetiche; come

si è visto, infatti, anche affermando

che A è A si

implica, affinché ci possa essere predicazione, che A-soggetto sia diverso da A-predicato, e dunque non si evita affatto il problema legato all'unione di un soggetto diverso dal predicato. Tale problema dunque non è circoscritto solo ai casi di predicazione sintetici, ma appartiene alla predicazione come tale. Nella struttura originaria del dire questo problema della predicazione non sussiste, in quanto il dire originario è dire dell'identità: soggetto e predicato sono, sì, diversi, ma la loro diversità è la distinzione del soggetto che è aperto al predicato e del predicato che è aperto al soggetto. Dicendo che A è A, si dice che il

primo A è diverso dal secondo: A (cheè A) è A (che è A). Tale que-

148

Cap. 11 - La struttura originaria

stione viene analizzata in modo particolare nel paragrafo 10 del capi. tolo ili (L’immediatezza dell'incontraddittorietà dell’essere) intitolato

per l’appunto Significato concreto dell'identità (p.181). Si consideri

l’affermazione «l’essere è essere: il soggetto e il predicato non sono

semplici momenti noetici, dei quali il giudizio, espresso da quella pro-

posizione, sia sintesi; ma sono il giudizio, l'identità stessa nel suo esser

posta». Non sono semplicemente momenti noetici ma già, come tali, realizzazione dell’identità in quanto il soggetto (in questo caso l’essere) è già posto come l'essere che è essere e il predicato (l’essere) come, daccapo, l'essere che è essere.

«In altri termini: se il soggetto e il predicato dell’identità valgono sempli-

cemente come momenti noetici (e l'identità vale come semplice riferimento della noesi alla noesi), il campo semantico costituito da ognuno di essi non in-

clude come posto che esso sia l’altro, poiché la posizione che l’uno sia l’altro è posizione dell'identità ossia dell’apofansi. Concepiti a questo modo il soggetto e il predicato, non sussiste nemmeno l’affermazione “l'essere è essere” (ossia sussiste come semplice espressione verbalistica)»!9,

Dunque l’identità affermata come predicazione non può costituirsi come semplice riferimento della noesi alla noesi; l’identità può costituirsi solo come identità dell’identità con se stessa!". L'essere (El), di cui si predica l'essere (E2), è l'essere (E2) di cui si predica l'essere (E1): (E1=E2)=(E2=E1). Questa equazione non determina uno svilup-

po infinito, come può portare a ritenere un certo modo astratto di riflettere, perché i suoi termini non necessitano di essere sviluppati. Se, invece, si intende l’identità come astratta (cioè esternamente presupposta) ai suoi termini, allora ha luogo uno sviluppo infinito della stessa

(per l’analisi del quale, con tutte i possibili casi da esso derivanti, si

rimanda al capitolo citato de La struttura). Dunque,

dicendo che il sole è il sole, si dice che il sole (che è il

sole), è il sole (che è il sole) ovvero che solo S(=S) = S(=S), dove

l'identità tra soggetto e predicato è diversa rispetto all'identità trai singoli termini con loro stessi. Le stesse difficoltà, in forma più evidente, appartengono alle proposizioni sintetiche a posteriori: «Hegel affermava che ogni giudizio non tautologico è una contraddizione. Il che è esatto, ma solo qualora il giudizio sia considerato astrattamente. La 14 E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 182. !! Per l’approfondimento del significato identità si rimanda al capitolo nil.

La struttura originaria come dire e la proposizione

149

considerazione astratta consiste nell’assumere il soggetto ed il predicato del

giudizio come termini irrelati»'‘?.

Come osservato precedentemente, si sta dicendo che, se soggetto e

predicato sono concepiti come presupposti alla sintesi, il giudizio che li

unisce viene considerato come una convenienza logicamente ulteriore tra essi. Anche nel caso dei giudizi sintetici il soggetto deve già includere il predicato che gli viene predicato. Si consideri l'affermazione:

“i sole è luminoso”. Come detto, tale identità deve essere concepita come S(=L) =L(=S); il che significa che (S=L)=(L=S).

Se non la

concepissimo così, si negherebbe sia la L- che la F-immediatezza: si

negherebbe la L-immediatezza, in quanto si affermerebbe che S non è

se stesso ma è quell'altro da S in cui consiste L; si negherebbe la Fimmediatezza in quanto ciò che si affermerebbe non sarebbe ciò che

si presenta immediatamente, ma ciò che è già presupposto al di fuori di quell’apparire (e cioè S al di fuori di L e L al di fuori di S). Dunque anche i giudizi sintetici sono giudizi identici; se non fossero tali sarebbero unioni contraddittorie. Ma, restando alla affermazione di sopra, da ciò consegue l’affermazione che L=S ossia che «il luminoso è il sole». Questa espressione, stando all’interno della lingua occidentale, è qualcosa di insignificante o per lo meno incomprensibile; nella struttura originaria, invece, significa che se il sole, che si dice essere luminoso, non fosse luminoso prima che lo si definisse tale, non potrebbe mai sopraggiungere il predicato di questa sua luminosità: è in quanto il sole è luminoso che gli si predica il suo essere luminoso. Quindi quell’essere luminoso è il sole. La predicazione non è cioè unione di due determinazioni separate, perché se così fosse non potrebbe esistere, sarebbe

impossibile; la predicazione invece è mettere in luce l’essere determi-

nato di un certo ente. «Il dire non è la sintesi di soggetto e predicato [...], ma è l’identità tra la relazione del “soggetto” al “predicato” e del

“predicato” al “soggetto”»!‘).

Al di fuori della struttura originaria è contraddittorio qualunque dire, dunque non solo le proposizioni sintetiche ma anche quelle analitiche, In quanto esprimono la volontà (impossibile) che significati diversi e indipendenti vengano unificati con un'operazione sopraggiunta a un certo momento. Al di fuori della struttura originaria è contraddittorio affermare, lo si ripeta, tanto A=B. quanto A=A, giacché se si intende _—_———__—__—

"2 E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 271.

5 Ibi, p. 29.

150

Cap. Il - La struttura originaria

predicare l'essere A di A, si deve affermare la diversità di A rispetto ad A e quindi si deve spiegare in che senso e in che modo si possano unire due enti presupposti come originanamente diversi. Se non si rimane entro la distinzione del dire identico della struttura originaria, qualunque tentativo di unire due diversi porta sempre necessariamente alla contraddizione. Dunque nessuna differenza, per questo aspetto, tra proposizioni analitiche e sintetiche. La struttura originaria non riafferma le posizioni categoriali e logiche della metafisica occidentale, ma le conserva solo formalmente,

mostrando come

non sia il concetto di

proposizioni analitica o sintetica a entrare in conflitto con la necessità dell’essere (questione importante su cui si tornerà nel prossimo paragrafo), ma il significato stesso di predicazione: una volta mostrato l’unico senso incontraddittorio del dire come predicare, si può tornare a distinguere le proposizioni. Nella struttura originaria la proposizione è dunque rivelazione della complessità semantica dell’identico nel suo essere identità tautologica oppure totalità di identità tautologiche (è, come vedremo, il caso della sintesi A è B): in ogni caso, ognuna di queste proposizioni è, seppure diversa, un dire identico. La distinzione tra le proposizioni significa pertanto distinzione (e non isolamento) dall’originario. Solo in quanto così distinte, le proposizioni «possono essere tali che la loro negazione, rispettivamente, è immediatamente autocontraddittoria, non è immediatamente autocontraddittoria, è mediatamente autocontraddittoria»'*. Nel primo caso si hanno le proposizioni analitiche (o L-immediate); nel secondo le proposizioni sintetiche a posteriori (F-immediate) e nel terzo le proposizioni sintetiche a priori (L-mediate). Eppure nel capitolo vii (dedicato al rapporto tra immediatezza € mediazione), si trova l'affermazione che esiste un'unica proposizione sintetica a posteriori (F-immediata) e un’unica proposizione analitica (L-immediata). Come si spiega con quanto appena detto? Ciò si spiega perché, in quanto distinte dall’originario — cioè dall’immediato logico (identità-innegabilità della totalità dell’ente) e dall’immediato fe-

nomenologico (totalità dell’apparire) —, le proposizioni che affermano l’identità-innegabilità dell’ente sono sintetiche a priori; in questo senso «esiste un'unica proposizione analitica L-immediata»!*, Allo stesso modo le proposizioni che affermano un certo nesso tra determinazioni 14 Ibi, p. 32. 143 Ibi, p. 320.

La struttura originaria come dire e la proposizione

151

che appaiono non sono proposizioni sintetiche a posteriori ma proposi-

zioni sintetiche a priori. In questo senso «esiste un'unica proposizione sintetica a posteriori F-immediata»'*. (L'analisi dell’articolazione tra immediatezza e mediazione verrà svolta nei prossimi paragrafi). Si consideri la prima affermazione:

analitica L-immediata».

«esiste un'unica proposizione

Il fondamento dell'affermazione «A è A» —

ovvero la sua necessità — non consiste semplicemente nell’impossibi-

lità che A non sia A, ma nell’impossibilità che l'essere non sia essere;

se non si intendesse così, l’esser B di B potrebbe valere come non necessario. Il fondamento dell’identità-incontraddittorietà di A è il suo essere una individuazione dell’universale identità-incontraddittorietà dell'essere. Tale identità-innegabilità dell'essere, ossia il principio di non contraddizione, non è cioè un’ulteriorità o, per meglio dire, un’an-

tecedenza logica rispetto a quella individuazione: tale individuazione è lo stesso principio di non contraddizione che si individua. L'essere, che

è impossibile che non sia essere, non è cioè il puro significato formale “essere”, ma quel significato relazionato al suo essere totalità concreta delle determinazioni. Per questo si deve dire che A è A in quanto l’essere è essere, ma l’essere è essere in quanto A è A, Bè Be via così per tutte le sue determinazioni.

Da ciò segue che l'identità dell’essere come universale concreto

è un'affermazione L-immediata; è cioè la stessa immediatezza logica; mentre l’identità dell’essere come significato formale (“essere è essere”), distinto cioè dalle sue determinazioni concrete, e l’identità

semplice di tale concrete determinazioni (A è A, B è B ecc.), in quanto

cioè distinte dal significato essere, sono affermazioni L-mediate e cioè proposizioni sintetiche a priori.

L'affermazione

«l'essere è essere»

come universale astratto è dunque L-mediata e proposizione sintetica a priori, in quanto l’identità affermata avviene attraverso la mediazione

passante per l'identità dell’universale concreto. Per questo Severino può affermare che «l’identità L-immediata è dunque solo l'identità del concreto, e questa identità è espressa dalla proposizione “l’intero è l’in-

tero” — l’intero essendo appunto l'essere, come universale concreto»!*?,

Questa è, pertanto, l’unica proposizione analitica o L-immediata. Qui può sorgere un problema che è opportuno segnalare: dicendo che A è A, in quanto individuazione dell’universale, e che B è B, in quanto _—_—___—_—_—

! Ibi, p. 328.

!° Ibi, p. 323,

152

Cap. Il - La struttura originaria

individuazione dell’universale, non si afferma che A e B sono lo stes. so contenuto concreto. Ciò infatti potrebbe condurre all’errata (cioè

astratta) conclusione che A e B siano lo stesso contenuto in quanto non

sussiste tra loro alcuna differenza.

L'identità del dire originario

avrebbe cioè cancellato ogni distinzione tra le determinazioni, come

l'essere parmenideo o la notte dell’ Assoluto schellinghiano in cui tutti

i colori sono neri. Le cose non stanno così, poiché le due identità sono

distinte e, così distinte, implicano L-immediatamente l’intero: dunque

sia A che B sono questo identico implicare che accade nella sua distinta determinatezza, «sì che il significato concreto di entrambe è il medesimo». Se così non fosse, non si avrebbe più una proposizione Limmediata (analitica) ma L-mediata (sintetica). Su questo punto l’analisi de La struttura originaria prosegue considerando i vari sensi in cui

si può parlare di proposizioni analitiche e di proposizioni sintetiche: per la considerazione specifica di tali aspetti si rimanda alle pagine di quello scritto, che qui non possono essere presentate per intero. Ciò che si voleva mostrare è in che senso è necessario affermare che esiste solo una proposizione logicamente immediata, che le proposizioni L-immediate «valgono L-immediatamente come individuazione del principio di non contraddizione», mentre le proposizioni L-mediate valgono Lmediatamente come siffatta individuazione»; e quindi che «l’immedia-

tezza logica può essere fondamento di una proposizione solo in quanto il campo semantico di tale immediatezza include questa proposizione stessa». L'immediatezza logica poi, essendo il suo concreto individuarsi, deve come tale comprendere anche quella individuazione della immediatezza logica che è determinata dalla mediazione (e cioè la affermazione L-mediata della immediatezza logica); e per questo si deve affermare che la vera immediatezza

logica, cioè il vero essere fonda-

mento, è «l’orizzonte che si costituisce in seguito allo stesso realizzarsi della mediazione»'*, Chiariamo ora la seconda affermazione: «esiste un’unica proposizione sintetica a posteriori F-immediata». Il ragionamento si collega a quello precedente: la presenza F-immediata di una certa convenienza di un predicato a un soggetto (ad es. «questa estensione è rossa» nel testo de La struttura originaria) non appartiene a questa specifica convenienza, ma al suo essere individuazione di quell’universale che è la

6 [hi, p. 327. ° Jbidem.

Proposizioni analitiche, proposizioni sintetiche e «permanenza»

153

totalità del F-immediato. Ogni contenuto immediatamente presente è pertanto sempre il medesimo contenuto, non nel senso che non ci sia differenza tra l'essere presente di questa estensione rossa e l’essere

presente di questa estensione verde, ma in quanto entrambe sono il medesimo contenuto: la totalità del F-immediato. Anche qui si invita

il lettore a proseguire lo sviluppo analitico del discorso rivolgendosi al testo de La struttura originaria.

Dunque la distinzione tra proposizioni analitiche e sintetiche è la distinzione tra «i diversi modi in cui si struttura l’identità originaria del dire della Necessità»'°, Il dire (e quindi la proposizione come predicazione) non è contraddittorio solo in quanto esprime una relazione

di identità originaria tra soggetto e predicato, da una parte, e dall’altra

solo in quanto le proposizioni non sono isolate tra loro, ma in quanto il loro dire è il medesimo dire, in quanto cioè il dire di ogni proposizione coesiste col dire di tutte le altre proposizioni ed è pertanto il medesimo dire che si specifica. Ma se nella struttura originaria tutte le proposizioni sono analitiche, ovvero identità originaria di soggetto e predicato, è legittimo continuare a parlare di proposizioni sintetiche? 1. Proposizioni analitiche, proposizioni sintetiche e «permanenza» In questo paragrafo, per chiarire il senso in cui non è nichilistico di-

stinguere tra proposizioni sintetiche e analitiche e in cui si può parlare di permanenza senza finire nel sub-stratum e nella predicazione impos-

sibile dell'Occidente, si chiamano in causa quegli aspetti dell'identità per l’analisi dei quali si rimanda al n capitolo (in modo particolare al paragrafo 3). Qui si introducono essenzialmente i termini della questione, per poi riprenderli più analiticamente in quella sede, integrando le posizioni de La struttura originaria con il contributo di altri scritti successivi, in modo particolare di Tautòtes e Oltrepassare. Come prima cosa, seguendo le indicazioni delle stesso Severino, va detto che ne La struttura originaria permane una visione nichilistica della sintesi a posteriori (parr. 12 e 13 del presente capitolo). Infatti, mentre in relazione alla proposizione analitica si afferma che è immediatamente contraddittorio che soggetto e predicato non convengano

e

—_—_

19 Ibi, p.32.

154

Cap. Il - La struttura originaria

l’uno all’altro, ne La struttura originaria si ritiene che in relazione alle sintesi a posteriori non si possa affermare questa immediata contraddit. torietà: in conformità alla logica nichilistica occidentale, e in particolare alla concezione fenomenologica dell’apparire di stampo husserlia.

no, la sintesi è concepita come un fatto, ciò che è privo dell’immediata incontraddittorietà della proposizione analitica. Per chiarire: mentre in relazione alla proposizione analitica è immediatamente incontraddittorio sia che (A=A)=(A=A) diatamente

sia che A=A,

incontraddittorio che A=B,

nella sintesi non è imme.

pur essendo incontraddittorio

che se A=B allora (A=B)=(B=A). Pertanto, pur affermando che «la distinzione tra proposizioni analitiche e sintetiche permane ugualmente come distinzione interna delle proposizioni identiche», ne La strut.

tura originaria sì afferma che «l'apofansi che costituisce il soggetto ed il predicato del giudizio può avere duplice valenza; ossia può essere: 1) tale che la sua negazione non appare immediatamente come auto-

contraddittoria, oppure: 2) tale che la sua negazione appare immediatamente come autocontraddittoria. Nel primo caso il giudizio si dice sintetico, nel secondo analitico»!?!, Come detto, negli scritti successivi a La struttura originaria Severino segnalerà questa suo permanere nel nichilismo, mostrando che nel giudizio sintetico, al pari di quello analitico, l’unione F-immediata di soggetto e predicato è una unione Limmediata ovvero è immediatamente incontraddittorio che A=B. Se all’interno dell'identità originaria del dire, per cui ogni unione predicativa è una identità originaria, la proposizione sintetica è l’affermazione F- e L-immediata di una certa identità, se dunque anche la sintesi è una relazione originaria ossia L-immediata, che differenza

c’è una proposizione analitica e una sintetica? In cosa differisce l’una

dall'altra all’interno dell'identità originaria del dire? Il chiarimento a questa fondamentale questione non si trova solo né La struttura originaria, anche se l’introduzione (più volte citata) af fronta e chiarisce definitivamente molti aspetti. Per avere una visione € comprensione definitiva si devono considerare sia i due scritti dedicati al linguaggio e all’identità quali Tautòtes e Oltre il linguaggio, sia gli importanti Destino della necessità e Oltrepassare.

In Tautòtes, tra i molti capitoli dedicati all’identità dell’essente € alla predicazione, c'è un capitolo dal titolo A è B, in cui si considerano

le condizioni e il fondamento dell’esser sintesi all’interno dell'identità 151 /bi, p. 277.

Proposizioni analitiche, proposizioni sintetiche e «permanenza»

155

originaria del dire: «quando si afferma che A è B si afferma che un’i-

dentità non è solo l’identità con se stessa della relazione tra A e B'°?,

ma è anche la relazione di B con se stesso. Questo vuol dire che A è B

non è identificazione dei non identici, non solo alla condizione che A

non sia isolato da B — sì che “A è B” significhi l'identità con se stessa

della relazione tra A e B —, ma anche alla condizione che l’esser B da arte di A sia un esser B da parte di B». E ancora: «rilevare che B con-

viene ad A [...] in quanto in A esiste B, significa rilevare che l’essere qualcosa (A, B) da parte di qualcosa (A) è sempre l’identità del qual-

cosa e del qualcosa che gli compete »'53. Alla luce di queste ultime affermazioni, si può cercare di sintetizzare tutto quello che fino a ora abbiamo compreso per trarne le prime

conclusioni: 1.«A è B» nonè identificazione dei non identici solo se A e B non sono noemi isolati, «sicché l’esser B da parte di A è l’identità con se stessa

della relazione tra A e B»!54;

2. B non è un accidente di A ma un certo determinato esser-A in cui consiste l’esser B di A (A può infatti essere anche C, D, E...); B è dun-

que un certo essere A in quanto è un essere in A; 3. B è identico a se stesso, cioè B è B. Quindi si può dire che «una parte del significato in cui A consiste è identico a B, è B»!9. Dunque, per non essere identificazione dei contraddittori, l’affer-

mazione A è B deve essere intesa come l'essere insieme di A e di B,

nel senso che «A è una totalità specifica di cui è parte anche B (sì che

la relazione A e B non è espressa dalla formula “A è B”, nella quale A è identificato a ciò che esso non è, ma è appunto, la relazione tra una

totalità specifica ed una sua parte)», per cui non si deve semplicemente dire che A=B, ma che quell’A-che-è-B è il B-che-è-A (e dunque B).

A è una totalità specifica di essenti (C,D,E..) dei quali uno è B. «Al

di sotto della forma “A è B”, che A abbia la proprietà B significa che

A è il tutto (specifico) di cui B è una parte. [...] La forma adeguata

che si mostra al di sotto della forma A è B, è dunque «A è includente

B»'*. Il che significa che A è B solo in quanto B non sia isolato dalle

altre determinazioni di A (cioè C, D, E) e che B è A solo in quanto B è

_————

n Per questo si veda infra (11 Capitolo). * E, Severino, Tautòtes, cit., p. 139.

!S Ibi, p. 141, 5 Ibi, pp. 140-141.

° Ibi, pp. 141-142,

156

Cap. li - La struttura originaria

insieme a C, D, E. Chiariamo. A è un certo insieme di determinazioni (B, C, D, E); dicendo che A è B, si dice che l’insieme A include l’essere

B in quanto relato a C, D, E, ossia che ogni determinazione, pur non essendo l’altra (per cui B non è C ecc.), è identicamente inclusa inAe

pertanto, in questo essere Inclusa in A, è identica alle altre.

L'affermazione A è B è incontraddittoria solo se: 1) soggetto e pre. dicato non sono isolati; 2) se il predicato è se stesso; 3) se sotto la forma A è B si intende il loro essere insieme e cioè l'essere incluso di B in A, ovvero l'identità tra A-includente B e B; 4) in quanto B è identico alle altre determinazioni di A in quanto inclusioni in A. Nonsi

dice dunque che A, come tale, è identico a B, ma che A-includente B è

identico a B; quindi si implica che A (includente B) sia A. Le determinazioni che sono incluse in A non sono identiche; ognuna

è una certa determinazione diversa dalle altre; eppure esse, in quanto

incluse in A, sono il medesimo essere incluse. In ciò sono identiche, Siamo di fronte al rapporto tra il tutto e la parte (anche parlando di

totalità finite: singole determinazioni, situazioni, eventi ecc.). Ogni de-

terminazione dell’originario ripropone in sé il rapporto di identità del

diverso e diversità dell’identico che sussiste tra ogni determinazione e il Tutto: B, C, D, E sono le diversità dell’identico essere insieme in A (identità del diverso), e insieme sono il medesimo essere insieme inA

che si differenzia nelle diverse e specifiche determinazioni (diversità

dell’identico). Oltre a questa identità, le singole determinazioni sono

identiche tra loro anche nel loro essere insieme alla totalità degli essenti. Si considerino le affermazioni sintetiche a posteriori: questa manoè

aperta (A è B), questa mano è chiusa (A è C), questa mano è bianca (A

è D) ecc. In base a quanto detto, si deve affermare che A è la totalità di A-B, A-C, A-D in cui A è B significa che questa-mano-chiusa è questo essere-chiuso-della-mano e A è C significa che questa-mano-apertaè questo-essere-aperto-della-mano. Vediamo ora di chiarire da una pate il rapporto tra questi due enti, e dall'altra il rapporto tra questi due enti e ciò che, allo scomparire di questi due enti, permane. Nella lingua dell'Occidente questa mano chiusa e questa mano aperta sono un me desimo ente che, mostrandosi

in modi diversi, continua ad apparire:

in questo modo l'essere aperta e l'essere chiusa della mano diventa accidentale rispetto all’esistenza sostanziale della mano. Quell'essett

sostanziale, nel linguaggio della struttura originaria, è il pensare che la sintesi a posteriori (questa mano chiusa) sia un essente che viene dal niente e nel niente ritorna. Per questo aspetto la Il Meditazione mete

Proposizioni analitiche, proposizioni sintetiche e «permanenza»

157

fisica cartesiana, che conduce all’affermazione della res extensa, rap-

presenta una perfetta sintesi dei presupposti e delle contraddizioni che

la predicazione occidentale porta con sé. Concepita come sub-stantia,

la cera cartesiana (nel nostro esempio la mano) si configura come una

antecedenza logica, mai esperibile come

tale, (in questo Nietzsche e

Heidegger avevano perfettamente ragione); ciò che si esperisce (il con-

tenuto immediato dell’apparire) diventa pertanto indicibile, perso appena pronunciato, e il linguaggio non fa che esprimere un presupposto logico in cerca di sintesi impossibili: infatti, la mano che è aperta non è la mano sostanziale; la mano sostanziale non appare mai, non è mai

esperibile, pur essendo l’essente su cui si fonda e da cui dipende la pensabilità stessa dell’apparire. Il problema a questo punto è: compresa la follia (ossia l'impossibilità) della concezione predicativa occidentale, in cui il linguaggio è

il dire impossibile e l'impossibilità del dire, come è possibile concepire la relazione tra questa mano aperta e questa mano chiusa da una

parte, e tra questi due essenti e ciò che continua ad apparire quando

essi non appaiono più e che noi continuiamo a chiamare questa mano?

È cioè legittimo continuare a chiamare questa mano ciò che rimane quando scompaiono questa-mano-chiusa e questa-mano-aperta? È cioè

legittimo concepire come permanenza un certo essente, continuando a

indicare col medesimo significato ciò che non appare più e ciò che con-

tinua ad apparire? Ora si può rispondere: in quanto l’esser mano (A) è concepito come la totalità finita delle sue determinazioni, essa può

configurarsi come un permanere e cioè come una “sequenza di stati”

(cfr. Destino della necessità e Oltrepassare).

L'ente questa-mano-aperta e l’ente questa-mano-chiusa sono sintesi

eterne e originarie (in caso contrario, cioè concependole come

varia-

zioni del medesimo ente che si specifica, si permarrebbe all’interno

della prospettiva della permanenza come sub-stantia-hypokeimenon),

ma prendere distanza dall'Occidente non equivale a negare qualsiasi modo della permanenza. Affermare l’eternità originaria degli essenti non porta cioè ad affermare che questa mano chiusa non abbia niente In comune (cioè oltre a ciò che ogni ente ha in comune con gli altri)

con questa mano aperta. Non si è cioè costretti a dire che tra questa

mano-aperta e questa mano-chiusa c’è lo stesso rapporto che sussiste

tra la mano aperta e il sole che splende. Certo, tra ogni ente c’è un legame necessario che lega l’essente al Tutto, ma qui si sta dicendo

qualcosa d'altro e cioè che, all’interno di quell’originario legame tra

158

Cap. Il - La struttura originaria

il Tutto e ogni essente, è legittimo individuare legami ulteriori a cui sj

può dare il nome di permanenza senza per questo affermare un concer.

to nichilistico. Il che vale, naturalmente, solo se si tiene presente che ne La struttura originaria la distinzione tra proposizione analitica e sintetica è ancora nichilistica e che, dunque, solo superando quel nichi. lismo è possibile concepire veritativamente la sintesi e la permanenza. Ne La struttura originaria, infatti, si è visto che è immediatamente

autocontraddittorio negare che la mano-che-è-aperta non sia la mano. che-è-aperta, ma non è immediatamente contraddittorio progettare che la mano non sia aperta ma sia chiusa: se con ciò si intende che questo esser chiusa della mano che è chiusa possa diventare aperta, allora siamo davanti a un'affermazione nichilistica, poiché si ritiene che ciò che

è aperto possa smettere di esserlo, divenendo altro da sé. Se, invece, con ciò si intende che la mano, intesa come l’A di cui parlava sopra,è anche l’eterno esser chiuso del suo esser chiuso, ossia è anche l’eterno essere aperto di ciò che è aperto ecc., allora la mano è l’esser-insieme di eteri. Ne La struttura originaria, pur indirizzata verso la seconda e non nichilistica posizione, permane (come vedremo nei parr. 12 € 13) ancora la prima prospettiva. Poiché si deve affermare che la mano aperta è una determinazione eterna e innegabile, la questione si era

spostata ed era diventata domanda intorno alla «mano» come permanenza dell’esser mano oltre alle eterne sintesi originarie di mano-aper-

ta e mano-chiusa; e ora si è visto in che senso, senza negare la struttura

originaria, si può affermare l’esistenza di una permanenza semantica dell’esser-mano includente questi due eterni che sono la mano-aperta e la mano-chiusa. La permanenza non è la permanenza della mano come sub-stantia, perché la mano-aperta è una relazione originaria; il permanere non è altro che il progressivo mostrarsi di determinazioni specifiche (ed eterne) legate da un significare comune che permane nell’apparire, nel processo di manifestazione delle determinazioni che appaiono e scompaiono. Il che significa che ciò che permane nonè questa mano-aperta che ora è questa-mano-chiusa, ma questa mano-il quanto-non-aperta che è questa mano-in-quanto-non-aperta. Eterna la mano aperta ed eterna la mano chiusa. Anche l'affermazione analitica (A è A) non è l'affermazione analiti-

ca che conosce l'Occidente; non solo sulla base di quanto detto in quel

capitolo e cioè che A in quanto soggetto non è A in quanto predicato, altrimenti la predicazione non potrebbe avere luogo; ma anche perché

Proposizioni analitiche, proposizioni sintetiche e «permanenza»

159

l'ente è ciò che è in quanto è in una determinata relazione con la totalità finita in cui appare:

«Nel camino la legna attende di essere accesa; la lampada fa luce sul tavolo. Insieme alla lampada e al tavolo, appaiono tutti gli altri enti che appaiono. Poi

la pioggia inizia a battere sul tetto. [...] Col sopraggiungere della pioggia, la

legna rimane in attesa di venire accesa [...] e rimane in attesa anche quando le

nubi nascondono le montagne. Ma in questa successione, ove sopraggiungono

prima la pioggia € poi le nubi [...], la legna nel camino non rimane lo stesso ente, non mantiene lo stesso significato: anche se non è stata spostata, anche se non è stata accesa. Nella successione la legna non è più quella di prima: il sopraggiungere della pioggia e poi delle nubi [...] è il sopraggiungere del legame che unisce la pioggia alla legna e, poi, del legame che unisce le nubi

alla legna. La legna che è legata alle nubi non è la legna che è legata alla pioggia. E tuttavia la legna che precede la pioggia, la legna legata alla pioggia e la legna hanno qualcosa in comune che non hanno in comune con alcun altro ente. Questi tre diversi sono anche qualcosa di identico. Ognuno dei tre infatti

è un disporsi di questa legna nel camino per essere accesa. Questa identità non

esiste in alcun altro ente. Anche se in altre case e in altri camini c’è legna pronta per essere accesa; esiste sì una identità tra questi tre diversi esser-legna e

questa legna degli altri camini, ma è un'identità diversa dall’identità che quei

tre diversi esser-legna (e solo quei tre diversi) hanno in comune»,

Questi tre diversi esser-legna sono cioè la diversità dell’identico di cui si parlava prima e dunque sono «la permanenza dell’identità di quei tre diversi esser-legna [...): il permanere è appunto questo continuare ad apparire dell’identico nella successione del diverso»! In realtà le cose sono un po’ più complicate, come si vedrà nei ca-

pitoli I e Iv, dove, tra l’altro, verrà anche ripresa e approfondita la tematica del passare e del permanere. Qui arriviamo a un altro punto fondamentale: è legittimo distinBuere questo essere insieme di B sia alla totalità degli essenti che alla totalità delle determinazioni di A (C, D, E)? Se è legittimo operare questa distinzione, allora è legittimo affermare che, all'interno dell’essere

necessariamente tutte-insieme, le determinazioni sono insieme in modi

diversi; per cui si può affermare che all’interno dell’apparire finito, A, In quanto totalità, può apparire anche se non appare l'insieme B, C, D, E, pur permanendo la necessità che l'apparire di A sia legato all’appa——_—__—_—__- -

‘E. Severino, Destino della necessità, cit 1% Ibi, p. 182.

sep

181-182 i

160

Cap. Il - La struttura originaria

rire di tutte le determinazioni della totalità infinita; e insieme che A può

apparire solo se appaiono alcune determinazioni di A senza le quali non apparirebbe nulla di A. Siamo cioè arrivati alla individuazione di significati costanti di un certo significato e di significati varianti,

Come detto, in Destino della necessità ci sono importanti chiari. menti sulla questione che stiamo affrontando su cui ritorneremo nei capitoli n e Iv. Qui facciamo ancora un paio di considerazioni necessarie a comprendere la questione che si sta per introdurre (la contraddizione

C come contraddizione dell'originario). Si consideri l'affermazione «il

cielo è azzurro»: essa non indica «il cielo azzurro come universale», ma «si riferisce all’azzurrità del cielo, considerata nella sua irripetibilità e singolarità. [...] L’è unisce il cielo e la sua azzurrità, ma lì unisce, appunto, nell’essere. La loro unità è, ossia è eterna»: il cielo che è azzurro è l’azzurro di questo cielo. L’è copulativo è anche esistenziale: «proprio perché l’ente non è e non può diventare un niente, il

dire del destino non è una proposizione che da “vera” possa diventare

“falsa”»'5°, Nel destino il dire è l'apparire dell’identità trascendentale che costituisce l'essere qualcosa da parte di qualcosa, ad esempioè l'apparire dell'essere azzurro del cielo. Il cielo è etermamente azzurro; quando la sua azzurrità scompare esce semplicemente da quella scena che è l'apparire finito dell’essere (cfr. capitolo Iv sull’apparire). «Nel

dire del destino, la sintesi detta è l'essere (l’esser qualcosa da parte di

qualcosa), cioè l'identità (l'identità di qualcosa con ciò che di esso si dice)»'®°. La sintesi è quindi identità originaria, in quanto l’essere «è la sintesi (che unisce, ossia è l’identità di ciò che è detto)»!®!.

Riprenderemo tale questione nei successivi capitoli, mostrando come il permanere accada a diversi livelli e con significati diversi; per ora si consideri che /a permanenza, intesa in questo senso, porta con sé la necessità dî distinguere tra determinazioni senza le quali un certo ente (0 significato) non può apparire e determinazioni invece

senza le quali un certo ente può apparire, fermo restando, ovviamente, che ogni determinazione è necessariamente

determinazioni.

15° Ibi, p. 156. 150 Jbj, p. 161. 10) Ibi, p. 162.

legata a

tutte le altre

Costanti, varianti e i due «piani» della struttura originaria

161

8. Costanti, varianti e i due «piani» della struttura originaria Si è visto che, nel linguaggio della struttura originaria, predicare si-

gnifica dire l'identità originaria. Per questo solo all’interno della originaria analiticità della predicazione si possono distinguere proposizioni

analitiche e sintetiche, espresse dalla forma “A è A” oppure “A è B”,

dove «al di sotto della forma “A è B”, che A abbia la proprietà B significa che A è il tutto (specifico) di cui B è una parte»!*?. In questo senso la sintesi «A è B» è analitica: quell’A che è B (ovvero quella parte di A che è identica a B) è identica a B che è identico a quella parte di A (che è identica a B). Questo discorso può essere esteso a tutte le determinazioni dell’o-

riginario, perché ogni distinzione posta all’interno del significato originario è una distinzione dell’identico; ciò vale per la distinzione tra le proposizioni analitiche e sintetiche, che accade all’interno dell'essere tutte originariamente analitiche, così come per la differenza tra determinazioni “costanti” e “varianti” che si considera in questo paragrafo. Si vedrà, infatti, che anche tale distinzione è interna all’essere costante di ogni determinazione: «se la struttura originaria è l’apertura originaria dell’intero, e se ogni determinazione è costante dell’intero, ogni de-

terminazione è una costante del significato originario. Per questo lato, la distinzione tra varianti e costanti [...] non sussiste»!*. Ma cosa significa essere costante o variante? In che senso, cioè, un

significato (un essente, una situazione, la stessa totalità!) ha costanti e

varianti? Per rispondere seguendo La struttura originaria, si consideri

la totalità dell’immediato indicandola con il simbolo S (= Significato

originario). In quanto totalità, S include tutte le determinazioni. Tutta-

via, stando nell'immediato, è possibile ipotizzare (progettare nel testo)

che S, pur permanendo la totalità dell’immediato, includa o non in-

cluda più alcune determinazioni e ne includa altre. Tale progetto (sorvolando sulla problematicità che il progettare come tale porta con sé) è immediatamente incontraddittorio perché non è in contrasto né con la L- né con la F-immediatezza: infatti, se da una parte si può dire che il progetto è, proprio in quanto pro-gettare, in contraddizione con la F-immediatezza perché implica che essa non sia F-immediatezza in quanto ipotizza che possa essere diversa), d'altra parte, proprio in ——_ __

Ù E. Severino, 7auròtes, cit., p. 141.

E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 428.

162

Cap. Il - La struttura originaria

quanto afferma se stesso come progetto, afferma anche di non riferirsi

alla F-immediatezza ma a una dimensione ulteriore a essa e quindi di non intendere affatto negarla.

Progettando che S non includa più (o non ancora) alcune determina-

zioni, si presenta però l'impossibilità che questo progetto possa valere

per tutte le determinazioni (significati) di S, perché, proprio mentre si ipotizza che S possa non contenere sempre tutte le determinazioni,

emerge che in realtà alcune di esse non possono mai assentarsi: infatti, se non fossero presenti, non potrebbe essere presente e significare come se stesso nemmeno

S! Per questo motivo alcune determinazioni

vengono definite costanti di S.

Le costanti non sono pertanto determinazioni che appartengono al

significato dell’intero (S) in quanto ne sono semplicemente

incluse,

ma gli appartengono in quanto è L-immediatamente noto che S non può essere posto come tale se una di loro non è posta. Dicendo che è L-immediatamente noto si dice che «è immediatamente autocontraddittorio affermare che la posizione di S non sia posizione di tutte le

costanti di S»'*.

Le determinazioni

che non sono costanti

L-immediate

(nel senso

suddetto) di S sono dunque tali che è L-immediatamente noto che S

può essere posto come S anche senza il loro appanre. In base a ciò, tali determinazioni possono essere definite varianti di S. Si può cioè supporre, senza con ciò negare S (L-immediatezza) né cadere in contraddizione con l’apparire immediato (F-immediatezza), che S rimanga S, anche se non include più alcune determinazioni o ne include altre. Da quanto detto finora segue che, da una parte, è L-immediatamente noto che S, in quanto totalità dell'immediato, debba includere tutte

le determinazioni immediatamente presenti (e per questo aspetto non si può distinguere tra costanti e varianti: ogni determinazione è costante); dall'altra, non è L-immediatamente contraddittorio ipotizzare

che S possa non includerle e apparire lo stesso come S, e dunque non è contraddittorio distinguere tra costanti e varianti. Il primo aspetto, come si vedrà nel prossimo paragrafo, dà luogo alla contraddizione

fondamentale dell’originario; il secondo è la questione di cui si tratta ora e che è antecedente all’altra: se ogni determinazione inclusa in $ è

una sua costante, come si può distinguere legittimamente tra costanti € varianti? Come possono esistere delle varianti? 10 [pi, p. 284.

Costanti, varianti e i due «piani» della struttura originaria

163

La legittimità della distinzione è collegabile alla legittimità della distinzione tra proposizioni: se da una parte si deve dire che ogni de-

terminazione è costante dell’intero (dato il significato concreto di $, è L-immediatamente necessario che ogni determinazione di S sia una sua costante), dall’altra non è contraddittorio distinguere, all’interno

di questo universale essere-costante di ogni essente, alcune determinazioni che è L-immediatamente

incontraddittorio affermare che se

non appaiono determinano «una contraddizione ulteriore, oltre a quel-

la determinata dalla non-posizione di una variante»'9, cioè rispetto a quella provocata dal non apparire della totalità concreta. E cioè quella ulteriorità della contraddizione il fondamento della distinzione tra co-

stanti e varianti, la quale distinzione deve pertanto essere correttamente riformulata come distinzione tra costanti-costanti (determinazioni

che, mancando, producono questa contraddizione ulteriore) e costantivarianti (determinazioni che, mancando, non producono questa con-

traddizione ulteriore). Le costanti-costanti appartengono cioè all'intero

non solo in quanto esso è intero, e dunque in quanto senza una delle sue parti l’intero non sarebbe tale, ma anche nel senso che la loro mancan-

za determinerebbe una contraddizione ulteriore rispetto a quella per cui l’intero non è più intero: l’impossibilità che l’intero si presenti! Per questo, posto che la distinzione tra costanti e varianti è interna all'essere costante di ogni determinazione, è legittimo affermare che le costanti-costanti appartengono L-immediatamente alla posizione di S, mentre le costanti-varianti no. La distinzione tra costanti e varianti trova così la sua corretta formulazione: le costanti-costanti appartengono alla sintassi dell’essere perché senza esse S non può apparire e perciò sono definibili come costanti sintattiche; le costanti-varianti non appartengono alla sintassi dell'essere perché la loro assenza non produce quella contraddizione

ulteriore (consistente nel non poter apparire di S) e perciò sono definibili come costanti non sintattiche o iposintattiche. Le prime costituiscono il fondamentale campo persintattico, determinazione che viene detta anche “sfondo dell’apparire”. Ne La struttura originaria viene individuato un terzo tipo di costanti, cosiddette metasintattiche, che In quello scritto non vengono ancora ritenute appartenenti al campo Persintattico. Negli scritti successivi emergerà che la loro esclusione dal campo persintattico testimonia la permanenza de La struttura nel nichilismo e quindi se ne affermerà necessariamente l’inclusione. 155 Ibi, p. 428.

164

Cap. Il - La struttura originaria Nel capitolo Immediatezza

e mediazione logiche si mostra come

il rapporto tra $ e le sue costanti-costanti non sia semplice, poiché dì luogo a importanti ampliamenti, implicazioni, posizioni immediate e mediate. Non potendo, anche in questa circostanza, offrire per intero l’analisi de La struttura originaria, ci limiteremo a chiarime i punti

fondamentali, partendo da questi interrogativi: l’implicazione tra S e le sue costanti dà luogo a implicazioni immediate o mediate? E a quali

tipi di relazioni: analitiche, sintetiche a posteriori o a priori?

Si consideri la relazione L-immediata tra S e la costante s, tale che

«la posizione di S implica la posizione della costante s», e si chieda se è analitica. La proposizione analitica esprime la relazione di identità tra soggetto e predicato e perciò dà sempre luogo a una implicazione L-

immediata tra due determinazioni, tale cioè che il soggetto non può ap-

parire se non appare il suo predicato (per questo la sua L-immediatezza è F-immediatezza). Il predicato nella proposizione analitica è sempre una costante L-immediata del soggetto. Sarebbe però errato, mostra il testo de La struttura originaria, concludere che, in quanto ogni propo-

sizione analitica dà luogo a implicazioni L-immediate, ogni implica zione L-immediata sia una proposizione analitica. E il caso di quelle

costanti che, pur essendo implicate da S, a loro volta non implicano S per significare ciò che significano (è il caso di significati come imme-

diatezza o totalità: cfr. oltre). Queste situazioni logiche danno luogo a quello che nel testo viene definito come «ampliamento del concetto di costante». Il testo chiama questo insieme di costanti o: è contraddittorio progettare che S sia posto senza 6, ma non è contraddittorio progettare che o sia posto senza S. Tralasciando per ora la considerazione

che, se S sta per il significato originario, ciò comporta l'impossibile (ovvero un apparire di o senza S e dunque al di fuori della struttura originaria), possiamo concludere che si deve affermare l’esistenza (che

prima sembrava esclusa) di costanti L-immediate che non danno luogo a proposizioni analitiche. È il caso di quelle determinazioni immediatamente implicate da $ che non possono esseme i predicati, oppure di quelle implicazioni logiche in cui la predicazione è solo univoca. Consideriamo con attenzione questi due casi. Caso A: due determinazioni logiche immediatamente implicate da S: 6 Jbi, par. 11, p. 285.

Costanti, varianti e i due «piani» della struttura originaria

165

A) Includente ogni parte dell’immediato (=x)

B) Parte dell’immediato I) Essendo S il tutto, l'essere l’insieme delle parti non è solo L-imme-

diatamente implicato dal significato S ma ne è anche predicato necessario. Dunque (S=x) = (x=S).

2) Essendo $Sil tutto, l'essere «parte» è sì L-immediatamente implicato dal significato S, giacché in quanto includente ogni parte dell’imme-

diato non potrebbe significarsi senza il significato parte dell’immedia-

to, ma non ne è affatto il predicato (poiché non si può certo affermare che «il tutto è una parte»).

Caso B: l’implicazione L-immediata tra un significato e una determinazione può dare luogo a una predicazione univoca, nel senso che il significato S non può essere predicato alla determinazione che è sua costante, mentre la sua costante gli può essere predicata. Da ciò emerge che le implicazioni L-immediate non danno sempre luogo a implicazioni predicazionali ma a volte solo a implicazioni logiche; e che anche tra le implicazioni predicazionali non tutte danno luogo a proposizioni analitiche, in quanto non sono “biunivoche”. Alle costanti di S appartenenti alla prima tipologia (predicati) il significato implicato è un predicato di S; nel secondo caso è solo un’implicazione logica: infatti, un conto è dire che il tutto è ciò che include ogni parte;

un conto è dire che per comprendere il significato “tutto” c’è bisogno di quello di parte: in questo caso l’implicazione non può dare luogo a una predicazione, perché ciò comporterebbe l’affermazione che «il tutto è la parte». Per questo dalla prima tipologia segue la seconda, ma dalla seconda tipologia non segue la prima. Questi due tipi di costanti sono considerate nel paragrafo 3 del capitolo vu de La struttura originaria (Immediatezza e mediazioni logiche), intitolato per l'appunto Classificazione generale delle costanti!””: quelle che sono predicato del significato S e quelle che sono necessariamente incluse in S, cioè logicamente implicate, senza esserne un predicato. Ogni costante è tale In nome di una necessaria implicazione logica, che però non equivale a una predicazione. Tutte sono cioè implicazioni logiche, ma non tutte sono predicati del significato da cui sono implicate. Il che crea una non perfetta identità tra le implicazioni L-immediate e le implicazioni predicazionali e tra queste ultime e le proposizioni analitiche. m—— —T_—__

5° Ibi, p. 287.

166

Cap. tl - La struttura originaria

Così come il rapporto implicazionale tra S e le sue costanti non è

sempre una proposizione analitica, allo stesso modo non si tratta nem-

meno sempre di un’implicazione L-immediata. Ad esempio sono costanti anche quelle varianti di S che sono costanti delle sue costanti: in

tal caso l’implicazione non è L-immediata ma L-mediata. Si consideri la determinazione sl: essa è sia variante di S sia costante L-immediata di s, dove s è costante L-immediata di S. In quel caso sl sarà costante L-mediata di S, perché sl è implicato L-immediatamente da s, che a

sua volta è implicato L-immediatamente da S: dunque S implica Lmediatamente sl. Ma poiché si è sul piano della struttura originaria,

come si può parlare di costanti di S che non diano luogo a implicazioni L-immediate? Il testo de La struttura risponde a questo importantissi-

mo interrogativo individuando due piani della struttura originaria: un piano base o immediato e un piano mediato o mediazionale. Le predicazioni distinte dalla totalità immediata logica e fenomeno-

logica «non sono l'immediato, ma un mediato — un mediato che è me-

diato dall’appartenenza del mediato all’immediato»!*8, Le predicazioni che affermano il principio di non contraddizione, in quanto distinte dall’immediato logico, non sono proposizioni analitiche ma “sintetiche a priori”’, ossia proposizioni mediate. Per questo aspetto esiste solo una proposizione analitica: quella che dice l'immediato logico. Allo stesso modo le predicazioni affermanti relazioni tra determinazioni che appaiono, in quanto distinte dall’immediato fenomenologico, sono proposizioni mediate: l’unica proposizione ‘sintetica a posteriori” è quella che

esprime l'immediato fenomenologico. L’immediato fenomenologico e

l'immediato logico, essendo totalità e fondamento delle predicazioni immediate, includono anche le predicazioni mediate, che sono appunto una parte della totalità e cioè quella parte che è distinta dalla totalità cui appartiene (la posizione di sé astratta dal concreto). Ma se la distinzione tra le predicazioni e l’immediatezza è intesa come individuazione dell’universale, allora tali proposizioni non sono

più mediate, ma sono la stessa immediatezza. In parole semplici: l’i-

dentità di A con A è una predicazione mediata se pensata come distinta dall’identità universale, ossia se pensata come qualcosa di fondato sull’identità-incontraddittorietà:

in tal caso, questa identità di A con

A non è tale immediatamente, ma solo mediatamente. Per cui si può

dire che l’identità di A con A è diversa dall’identità di B con B, di € 168 fbi, p. 35.

Costanti, varianti e i due «piani» della struttura originaria con C ecc. In quanto, invece, si pensa l’identità di A con A

167 in relazione

all'identità universale, allora l’identità di A con A è una predicazione

immediata, è l'individuazione dell’universale in cui l'identità di A con A è il medesimo esser-identico di B con B e C con C, «sì che il conte-

nuto che è posto in questa molteplicità di inclusioni è il medesimo, ed è questo medesimo a costituirsi come l’unica proposizione analitica»'9. Lo stesso si dica per le predicazioni fenomenologiche: «nella relazione alla totalità dell’apparire, ogni nesso particolare che appare è questa stessa totalità»'”, pur distinguendosi da essa. Se si isola il senso dell’identità e dell’apparire dal loro significato concreto e immediato, allora

l'identità di ogni ente con se stesso esclude l’identità degli altri enti con loro stessi, e il nesso tra due enti che appaiono esclude l’affermazione di tutti gli altri nessi che appaiono. Consideriamo

le costanti

(sia predicazionali

che implicazionali)

immediate. «La totalità dell’immediato è costituita da un sistema di implicazioni posizionali aventi valore analitico (L-immediate) e da un sistema di implicazioni F-immediate espresse da proposizioni sintetiche a posteriori»'7!. Le posizioni implicazionali immediate sono cioè o relazioni analitiche (L-immediate) oppure F-immediate (e allora abbiamo proposizioni sintetiche a posteriori). Queste ultime sono le implicazioni “fattuali”’, consistenti cioè nel fatto (incontraddittorio poiché la sua negazione contraddice il F-immediato) che due determinazioni

sono entrambe presenti. In questo senso tutte le determinazioni immediatamente presenti si implicano immediatamente e danno luogo a proposizioni sintetiche a posteriori. Tutte le proposizioni vere, che cioè non negano né la F- né la L- immediatezza, o sono analitiche o sono sintetiche a posteriori. Se l’implicazione L-immediata tra una variante e le sue costanti dà luogo a una proposizione analitica, tali costanti prendono il nome di co-varianti (costanti di una variante).

Stando sul piano dell’immediatezza non è contraddittorio progettare che l’implicazione fattuale tra y e z (sintesi a posteriori) possa non

avere più luogo!”: ovvero, in quanto sintesi a posteriori, non è con-

traddittorio ipotizzare che y non implichi più z. Non è però nemmeno contraddittorio progettare che continui a implicarlo. Abbiamo cioè due =—__——_—_—__—

'® Ibi, p. 37. "0 Ibidem.

""!UU Ibi,; p. 288.

. . 2 Lie è I Si tenga presente quanto già. detto in. merito al residuo nichilistico nella concezione della Sintesi a posteriori.

168

Cap. II - La struttura originaria

progetti — diciamo 1 il primo e 2 il secondo zati nelle conseguenze che portano con sé. Se y non implica più z, può smettere di 1) in quanto di fatto non la implica più (e, ulteriori progetti); 2) in quanto sarebbe contraddittorio che y

- che devono essere analizimplicarlo in due modi: quindi, come ora è aperto a implicasse z; in questo caso

se y implicasse z si produrrebbe /a contraddizione M1.

Se y continua a implicare z, può continuare a implicarlo in due

modi:

A) in quanto di fatto continua a implicarlo (e, quindi, come ora è aperto

a ulteriori progetti) B) in quanto sarebbe contraddittorio che y non implicasse z; in questo caso se y non implicasse z si produrrebbe /a contraddizione M. La differenza tra M e MI consiste in questo: la prima contraddizione è determinata dal permanere dell’implicazione, nel secondo caso dal suo venire meno. Il progetto non è immediatamente autocontraddittorio in nessuno dei due casi, in quanto l’implicazione di partenza non è analitica ma sintetica a posteriori; la contraddizione M e MI non è tolta dunque né L-immediatamente né F-immediatamente (in quanto l’implicazione y-z è una sintesi a posteriori, z non può cioè essere una costante L-immediata di y). I casi di sintesi a posteriori sono molti; infatti le determinazioni che si implicano possono essere due varianti di S, oppure una variante di S che è insieme una costante di s (cfr. esempio di prima). In ogni caso si opera una mediazione in virtù della quale una variante di S si mostra come una sua costante, che prende convenientemente il nome di costante mediazionale: «ogni variante di S ha la possibilità immediata, ossia non è immediatamente incontraddittorio il progetto che essa venga, ossia che appaia, come una costante di S». Non solo. Ogni variante di S ha la possibilità di diventare una co-variante (costante di una variante).

Da cosa è tolta dunque la contraddizione M e M1? È tolta da una proposizione sintetica a priori, ovvero da una mediazione in virtù della quale ciò che era una variante diventa una costante e per questo prende il nome di costante mediazionale. (11 che vale soltanto in quanto y non implichi posizioni che implicano z - o non z - nel caso della contrad-

dizione M).

Le proposizioni sintetiche a posteriori «sono dunque tali in quanto hanno la possibilità di divenire proposizioni sintetiche a priori, o in quanto il progetto di questo divenire non è immediatamente

Costanti, varianti e ì due «piani» della struttura originaria

169

autocontraddittorio»'”. Se le implicazioni immediate tra le diverse determinazioni che sopraggiungono (che sono F-immediate ma anche L-immediate) vengono distinte (ma non isolate) dal loro essere immediatamente analitiche, queste implicazioni sono sintesi a posteriori, da

intendersi come distinte ma non isolate dal loro essere sintesi originarie.

Solo così separate, infatti, possono dar luogo a dei progetti in cui una

certa contraddizione viene posta e si mostra come ciò che deve essere

tolto; e questo toglimento progettato è una sintesi a priori. In questo senso a p. 32 dell’introduzione de La struttura originaria si legge che

«le proposizioni analitiche, sintetiche a priori e a posteriori sono i diversi modi in cui si struttura il dire della Necessità — dove la diversità di modo è data dal diverso tipo di equazione identificate nell’identità originaria — ossia è data dal fatto che queste equazione, come concretamente distinte dall’identità originaria del dire, possono essere tali che la loro negazione, rispettivamente, è immediatamente autocontraddittoria, non è immediatamente autocontraddittoria, è mediatamente

autocontraddittoria.

Come

concretamente

distin-

te; ossia non come isolate, separate dall’identità originaria, ma considerate nel loro semplice differire da tale identità, ossia quel concreto distinguersi

per cui in (x=y) = (y=x), x=y non è (x=y) = (y=x). É appunto in questo loro

concreto distinguersi che esse possono valere come qualcosa che non è immediatamente autocontraddittoria. Perché se tali equazioni sono assunte non

nel loro concreto distinguersi ma nel loro isolamento dall'identità originaria del dire, allora, qualunque sia il loro contenuto, esse sono immediatamente

autocontraddittorie»'”,

In termini semplici: in quanto identità originaria di F e L-immediatezza, ogni sintesi è l'eterno esser-sé che appare come esser-sè; “stando

sul piano dell’immediatezza” (che non contiene la totalità infinita delle

cose e del loro apparire: si veda oltre, capitolo sull’apparire), si può dire che le sintesi a posteriori sono tali che possono essere concepite come non apparenti più; e in quel caso è possibile ipotizzare una serie

di implicazioni logicamente incontraddittorie che danno luogo a pro-

posizioni sintetiche a priori. Le sintesi a priori progettano dunque delle implicazioni necessarie tra le determinazioni dell’immediato. L'insieme delle sintesi a priori, cioè dei progetti in tal senso, dà luogo al piano mediazionale della Struttura originaria che è immediatamente incluso nel piano base o ——__—_ __T__—_

!° E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 293.

"" Ibi, p. 32.

170

Cap. ll - La struttura originaria

immediato. In questo senso va affermato che «la mediazione logica appartiene alla struttura dell’originario»!?, Tale piano consiste nel connettere in modo necessario quegli elementi della realtà presente che sj

lasciano così connettere. Come

abbiamo

visto la mediazione consiste

nel togliere la contraddizione M o MI. Quando si progetta il sopraggiungere

di una determinazione

dell’immediato,

tale progetto nonè

valido immediatamente perché toglie la contraddizione che sorgerebbe se si negasse il sopraggiungere (per cui il F-immediato sarebbe e non sarebbe se stesso), ma vale immediatamente perché quella contraddi-

zione è originariamente tolta dalla distinzione forma-contenuto della

totalità del F-immediato. Si è visto cosa siano le proposizioni sintetiche a priori e come sia possibile che una costante di S sia L-mediata: le sintesi a priori sono il risultato di quelle operazioni logiche sulle proposizioni sintetiche a posteriori (ad esempio y implica z) che, come abbiamo visto, intervengono a togliere una contraddizione m 0 m/. Nel primo caso la sintesi a posteriori (y implica z) viene accertata come necessaria, nel secondo si mostra come essa debba venire negata. Va detto che ci sono anche proposizioni sintetiche a priori che non derivano da proposizioni sintetiche a posteriori, ma che consistono nell’affermazione della implicazione necessaria tra una implicazione non presente di fatto (proposizioni sintetiche a posteriori) ma esistente solo all’interno di un progetto. In ogni caso le proposizioni sintetiche a priori sono dei progetti di implicazioni tra le determinazioni dell'immediato, che collegano «in modo necessario quegli elementi della realtà presente che si lasciano

così connettere», Il che, s'è detto, dà luogo a un piano mediazionale

che appartiene alla struttura originaria pur non essendo immediato. Ebbene, come può appartenere, ciò che è mediato, alla struttura originaria? Vi appartiene perché la mediazione (costituita dal toglimento

della contraddizione m o m/) si fonda sulla immediatezza: infatti, in

quanto la struttura originaria è fondamento di ogni possibile sapere, lo è anche di ogni mediazione. Per questo la mediazione appartiene (in

quanto rileva le implicazioni necessarie dell'originario) e non appartie-

ne (proprio in quanto mediazione) alla struttura originaria. La struttura originaria consta dunque di due piani: un piano base, la struttura originaria vera e propria quale totalità del sapere immediato,

173 Ibi, p. 301. 1% Ibidem.

Costanti, varianti e i due «piani» della struttura originaria

171

che, come tale, comprende anche il progetto (o il sistema di progetti)

del piano mediazionale; e un piano mediazionale in quanto oltrepassamento dell’originario.

«La differenza tra questi due momenti dell'originario è la stessa differenza che sussiste tra l’effettuale e l’universale, ossia tra una strutturazione di fatto dell'originario, che pertanto si può progettare — entro certi limiti — come diver-

samente costituita, e una struttura dell’originario, il progetto di variazione di costituzione della quale o è (caso limite) assolutamente eliminato, o è ristretto

a un ambito particolare dell'originario (per esempio a quello delle determinazioni “empiriche”’): struttura universale: nella misura appunto in cui si è in grado di rilevare come autocontraddittorio quel progetto di variazione»!7?,

Dunque da una parte il piano base si distingue da quello mediazionale, dall'altra è incluso in quello base: «Come è immediatamente presente l’implicazione di fatto di due determina-

zioni, così è immediatamente presente la struttura logica che converte l’im-

plicazione di fatto (proposizione sintetica a posteriori) in una implicazione necessaria (proposizione sintetica a priori)» !?*.

Una esposizione «compiuta» della struttura originaria dovrebbe consentire di dedurre il piano mediazionale, nella sua specificità, dal piano base. Le costanti mediazionali e dunque le proposizioni sintetiche a priori ne La struttura originaria vengono analizzate e suddivise in tre tipologie «salva la possibilità di accertamento di altri tipi»!? che dà luogo alla «distinzione di tre tipi di proposizioni sintetiche a priori»!®. Per ovvi motivi tale distinzione è troppo specifica per essefe qui riportata e per questo si rinvia il lettore al testo de La struttura originaria. . Riassumendo: la struttura originaria consta di due piani: uno “base”, Immediato (a cui appartengono anche le mediazioni logiche-progettuali in quanto immediatamente presenti), e uno “mediato”, consistente nel contenuto di quei progetti e cioè nell’insieme delle proposizioni sintetiche a priori in cui ciò che valeva come una variante ha iniziato

a valere come una costante in virtù di una mediazione logica. Si tratta =—_—_—_———_—_—_—

!” !? '" "°

Ibi, p. 302. Ibidem. Ibi, p.312. Ibi, p. 313.

172

Cap. ll - La struttura originaria

in quel caso di costanti mediazionali. L’immediato (o piano base della

struttura) è composto da proposizioni analitiche o sintetiche a posterio-

ri. Stando nell'immediato, non è in contraddizione né con la F- né con

la L-immediatezza progettare delle variazioni del presentarsi dell’immediato; e si è visto che le determinazioni progettabili che possono tra-

montare senza che tramonti l’apparire stesso sono definibili varianti; le determinazioni, invece, senza le quali non si può progettare che l’im-

mediato appaia, sono dette costanti. Dal che emerge che l’immediatoè un sistema di implicazioni logiche mediate e immediate. Ma se da una parte ogni significato è costante non sintattica di ogni altro significato, dall'altra il «semantema infinito» (ciò che all’inizio era stato chiamato S) è invece costante sintattica di ogni significato. Ciò, come già accennato, determina un’aporia in relazione all’apparire di S: come può apparire $, che è costante sintattica di ogni significato, se non appaiono tutte le determinazioni della concreta totalità? Ovvero: cosa appare se non appaiono tutte le determinazioni di cui S è

costante sintattica?

9. Il fondamento come contraddizione: la contraddizione C

Le considerazioni svolte nel precedente paragrafo ci conducono, nel modo che ora analizzeremo, a concludere che anche il fondamento (ovvero la struttura originaria) è contraddizione. Questa tematica essenziale è affrontata nei capitoli VII, x e XI de La struttura originaria

ed è sempre presente, in modo implicito o esplicito, in tutti gli scritti di Severino. Per comprendere il senso in cui l’originario è contraddizione si deve partire da quanto messo in luce nei paragrafi 1 e 7 dell capitolo de La struttura originaria, dove sì mostra che l'originarioè fondamento perché è immediata autonegatività del proprio negativo; ed è concretamente il significato che è solo in quanto il Tutto è una sua costante. Abbiamo visto che essere costante significa essere logicamente implicato o in quanto predicato o in quanto appartenente al contenuto semantico (implicazione semplice). Pertanto, che il Tutto sia costante della struttura originaria significa che quest’ultima è quel

significato che è (che continueremo a chiamare S per indicare che Sl

tratta del significare in quanto tale) solo se appare avvolta nel Tutto. Questo è il primo dei due lati dello scontro che determina la contraddittorietà dell'originario. L'altro Jato, che abbiamo iniziato a considerare

Il fondamento come contraddizione: la contraddizione C nel paragrafo precedente e che ora cercheremo

173

di integrare, consiste

invece nel mostrare che l’originario non appare avvolto dal Tutto, pur intendendo valere come tale. Il particolare contenuto del contraddirsi in cui consiste l’originario prende il nome di contraddizione C. Nel precedente paragrafo si notava come non sia contraddittorio

progettare «l'accertamento di una struttura mediazionale in base alla quale ciò che vale immediatamente come una variante diventa una costante»'. Si notava cioè come non fosse immediatamente autocontraddittorio progettare «l'accertamento di una struttura mediazionale

in base alla quale all'insieme di costanti sl..sn si aggiungessero una

o più costanti di S non appartenenti a questo insieme. In quanto ba-

safe su una struttura mediazionale, tali costanti possono essere dette med.(sn+sm)»!*. Si era anche visto che tali costanti sopraggiungono in quanto una certa struttura mediazionale pone come costante ciò che prima valeva (era posto, saputo, noto) come variante. Poiché le nuove

costanti erano già presenti come varianti, si potrebbe negare che il so-

praggiungere sia tale. In realtà, in quanto tali varianti valevano (erano

presenti, note, sapute) come varianti e non come costanti, il loro sopraggiungere può essere definito tale. Su questa scia, ora è necessario chiedere se

«si possa progettare un ampliamento, e quindi un completamento della stessa analisi di S in quanto tale, la quale conduca pertanto al rilevamento di nuove

costanti di S non attraverso l'introduzione di strutture mediazionali, ma, semplicemente, perché in un secondo momento — che non vale come ulteriorità logica ma temporale — si riesce, analizzando S, ad accertare l'esistenza di co-

stanti di S, che in un primo momento dell’analisi non erano state rilevate»!93,

Tali costanti possono essere indicate con il simbolo imm.(sn+wm). Supponiamo che ci sia un insieme di costanti sl..sn che sono L-

immediatamente implicate da S; ebbene, in quanto tali, esse sono an-

che F-immediatamente note, ovvero è immediatamente noto che non

vi sono altre costanti di questo tipo. Dire che esiste una costante ulteriore (sn+m) significa dunque «mettersi in contraddizione con il FImmediato»'*. A questo insieme di costanti s1..sn appartengono anche le costanti mediazionali che sono state mostrate come L-immediata-

—_—_—_—__—_—__

19 10 "I !8

Jbi, p. 336, Ibidem, Ibidem, Ibi, p. 335.

174

Cap. Il - La struttura originaria

mente implicate da S, poiché è stato mostrato che «il progetto che |a posizione di S non implichi la loro posizione è immediatamente tolto come autocontraddittorio». In questo senso la domanda sulla possibilità di ampliare l’analisi di S diventa la seguente: è possibile progettare il sopraggiungere di costanti L-immediate

di S oltre l’insieme s1..sn definibili come imm.

(sn+m), dove in tale insieme si possono includere anche nuove costanti

mediazionale del tipo sopra descritto, cioè tali che, pur essendo media-

zionali, sì sappia che appartengono L-immediatamente a S e dunque che possono essere fatte rientrare nell'insieme imm. (sn+m)? In altri

termini: è possibile progettare un prolungamento dell’analisi di S che mostri che una o più costanti L-immediate di S sopraggiungano?

«Per escludere immediatamente (dal punto di vista cioè del piano base della struttura originaria) la possibilità di un tale prolungamento dell’analisi di S»!*, tale costante ulteriore dovrebbe essere in contraddizione con il F-immediato ed essere anche autocontraddittoria L-immediatamente: «solo così il progetto di un prolungamento dell’a-

nalisi di S può essere immediatamente escluso», in quanto progetto dell’impossibile. Dunque: per escludere immediatamente (nel senso suddetto) che l’analisi di S si prolunghi, ovvero che sopraggiungano una o più costanti L-immediate di S, dovrebbe darsi l’autocontraddittorietà dell’affermazione

della manifestazione

di sn+sm;

ma poiché

questa autocontraddittorietà non è immediatamente presente, non si può escludere l’ampliamento dell'analisi di S e, con esso, anche il progetto di med. e immed.(sn+sm). Ma in quanto non è immediatamente autocontraddittorio progettare un prolungamento dell’analisi di S, non è nemmeno immediatamente escludibile che da tale prolungamento dell'analisi emerga che una simile manifestazione sia autocontraddittoria. Il che, detto nei non semplici termini de La struttura originaria, suona così: «non è cioè immediatamente contraddittorio progettare l'accertamento dell’immediata autocontraddittorietà del progetto della manifestazione sia di imm.(Sn+m) come di med.(Sn+m)»!®.

Si osservi: che l’analisi della manifestazione di S non ne riveli l'au-

tocontraddittorietà,

non significa che si possa escludere

che essa sia

autocontraddittoria: non è cioè immediatamente autocontraddittorio progettare l'accertamento dell’immediata autocontraddittorietà del

185 Jhi, p. 336. 18 Ibidem.

1 Ibi, p. 337.

Il fondamento come contraddizione: la contraddizione C

175

progetto della manifestazione sia di imm.(sn+sm) che di med.(sn+sm)

e «cioè: è possibile (non è immediatamente autocontraddittorio) pro-

gettare l'accertamento che il progetto che appaiano sia imm. (sn+sm)

che med (sn+sm) sia immediatamente autocontraddittorio». Non è pertanto immediatamente autocontraddittorio progettare l’accertamento

(immediato o mediazionale) della immediata autocontraddittorietà del progetto che gli insiemi imm. (sn+sm) e med (sn+sm) siano autocon-

traddittori né quello che siano incontraddittori.

Ora abbiamo tutti gli elementi necessari per comprendere il senso in cui l'originario è contraddizione senza che si debba negare che esso è la struttura originaria della verità (giacché è questa la questione

delle questioni). La struttura originaria è fondamento e cioè immedia-

ta innegabilità-incontraddittorietà in quanto immediata autonegatività del proprio negativo. Ma la struttura originaria è anche quel significato S che, come ogni altra determinazione, ha come propria costante il «semantema infinito» ovvero il Tutto concreto che «è costante di ogni determinazione e ogni determinazione è costante del semantema infinito»!**. Perché il Tutto è costante della struttura originaria del destino della necessità? Perché essa, essendo costante di ogni significato, ha nel Tutto il proprio concreto significare; e dunque può apparire concretamente solo se appare legata al semantema infinito. Ciononostante, la struttura originaria appare isolata da ciò da cui non può essere isolata: infatti, essa appare anche se non appare il Tutto, poiché il Tutto, nella struttura originaria, appare e scompare. Quindi si deve dire che nella struttura originaria il Tutto si presenta processualmente e dunque non appare come Tutto. Le sue costanti sopraggiungono progressivamente, come si è visto; il che significa che il Tutto non riesce a entrare tutto insieme nell’originario e quindi l’originario, pur essendo se stesso, non € presente come se stesso! In quanto fondamento e insieme isolamento dialettico, la struttura

originaria è sia struttura incontraddittoria (in cui il negativo è imme-

diatamente tolto) sia contraddizione dialettica, in quanto astrazione

€ isolamento dal suo significato concreto (ossia dal significato Tutto

quale sua costante). Ma dicendo che la struttura originaria è una tale

contraddizione, non si nega la verità della struttura originaria e dunque la struttura originaria come verità? Si deve rispondere di no, essenzialmente per due motivi:

—__ 188

È E. Severino, Lu struttura originaria, cit., p. 72.

176

Cap. il - La struttura originaria

a) Che l'originario sia tale lo dice lo stesso originario («non è questa un’affermazione

operata

da una riflessione esterna alla struttura

originaria»); è cioè lo stesso originario a mostrarsi, a palesarsi come

contraddizione. E ora andrà chiarito il rilievo di questa considerazione e cioè perché che sia l'originario a mostrarsi come contraddizione è

così importante.

b) In quanto l’originario è essenza del fondamento, ossia autonega-

zione immediata del proprio negativo, che l'originario non sia verità

è impossibile. Poiché questa posizione va tenuta ferma, si è costretti a comprendere come l’originario possa contraddirsi senza negare di essere originario e quindi innegabile (che è appunto quanto non può

essere). Ciò, in definitiva, costringe a concepire la contraddizione C come una contraddizione che non nega la verità della struttura originaria (identità del genitivo soggettivo e oggettivo). Per questo secondo aspetto si dovrò dunque chiarire in che senso essa sia “contraddizione”. Per chiarire questi aspetti essenziali si è ricondotti al paragrafo 6 del 1 capitolo de La struttura originaria, nel quale si era mostrato che l'apparire finito è strutturalmente incapace di contenere il Tutto

concreto (il semantema infinito). Quanto detto in quel paragrafo ora si

completa e mostra la sua importanza: nell’apparire finito la struttura originaria non riesce ad apparire concretamente, cioè nel suo legame al Tutto; però, poiché tale legame è originario e costitutivo, ciò che appare nell’apparire finito è e non è la struttura originaria. Ecco chiarito il punto 2 e cioè il senso in cui la struttura originariaè contraddizione: apparendo nell’apparire finito, essa non nega di essere struttura originaria, cioè non dice di essere e non essere verità origina-

ria in quanto immediata autonegatività del proprio negativo, ma face sul proprio esserlo. L’originario non è contraddizione in quanto dice di non essere verità originaria; esso è contraddizione in quanto mostra, palesa, rende evidente che ciò che appare come struttura della Necessità non è il suo significato concreto. E lo mostra in quanto mostra che quel significato è tale solo in connessione col Tutto e dunque in quanto mostra che tale connessione non è presente, ovvero che è presente solo formalmente. Ecco chiarito il punto 1 e cioè cosa significhi e importi che la contraddizione dell'originario sia una contraddizione diversa perché mostrata dallo stesso originario. In quanto l'originario mostra la con 1 Introduzione a La struttura, p. 72.

Il fondamento come contraddizione: la contraddizione C

177

traddizione, cioè la pone come nota, non la lascia semplicemente ap-

parire come potenziale verità, ma la lascia apparire mostrandola come

ciò che non può essere verità. Ciò che appare è pertanto la coscienza

(ovvero la presenza) della contraddizione come tale. Quindi la contraddizione appare come tolta, pur non essendo concretamente tolta,

giacché il toglimento concreto consiste solo nell’apparire del Tutto

(che è impossibile).

Per questo l’originario è toglimento della contraddizione in senso formale, in quanto ciò che appare è solo il significato formale di $S. E lo

stesso originario, cioè, che ci dice di essere isolato dal tutto, giacché,

in quanto si afferma come ciò che non può che essere essenzialmente legato al Tutto, mostrandosene slegato afferma che ciò che appare non è il suo essere concreto ma la sua posizione astratta. Quindi esso «dice

la diversità tra sé come isolato dal Tutto e sé come manifesto nel Tutto,

ma insieme dice l’identità di questi due diversi, l'identità che necessario che essi abbiano in comune». In ciò consiste la formalità della sua presenza. L'originario isolato è pertanto contraddizione in quanto unisce l'originario concreto all’originario astratto, ossia fa dell'uno il predicato dell’altro. La contraddizione C non consiste pertanto nel negare la verità della verità, ma nell’automostrarsi della verità come presente solo formalmente. Questo mostrarsi come contraddizione, consistente nell’apparire non avvolto dal Tutto concreto ma solamente presente come tutto formale — per cui l'originario stesso è presente formalmente —, è affermato sia F- che L-immediatamente: la finitezza dell’apparire finito è immediatamente

presente

(F-immediatezza)

e immediatamente

innegabile (L-immediatezza), e cioè è immediatamente

escluso il suo

poter diventare infinito. Infatti, solo mostrando concretamente il Tutto nell’apparire finito, la struttura originaria potrebbe togliere concretamente la negazione C; ma affinché l’apparire finito potesse contenere il Tutto infinito dovrebbe non essere più finito. Il che è L-immediatamente impossibile (cfr. La terra e l'essenza dell'uomo). Tale questione,

fondamentale per la verità, è presente in maniera costante negli scritti

di Severino; infatti la incontriamo anche negli ultimi scritti e, in modo

particolare, occupa un posto centrale nella trilogia (Destino della necessità, La Gloria e Oltrepassare). I prossimi due capitoli torneranno a occuparsene in maniera approfondita. '° Ibi, p. 75.

178

Cap. Il - La struttura originaria La contraddizione C —- e quindi il senso in cui il fondamento è con-

traddizione - rimanda da ultimo alla finitezza strutturale dell'apparire

finito; il che ci conduce a riflettere sulla totalità dell’immediato fenomenologico e sulla posizione astratta dell’astratto che prende il nome di concetto Ta.

Riassumendo. Si è visto che ci sono due tipi di contraddizione, quella consistente semplicemente nella identificazione dei contraddit-

tori (che è dunque formalmente identica a ogni altra contraddizione) e

quella consistente nel conflitto derivante dallo scontro tra uno specifico

contenuto e un certo modo di porre se stesso, per cui, pur trattandosi

di identificazione dei contraddittori — si tratta pur sempre di contraddizione! -, la contraddizione dipende dal contenuto specifico di un certo significato che entra in conflitto col suo porsi. Un certo significato si presenta come ciò che contiene e implica altri significati i quali non appaiono determinatamente, ma, ciononostante, quel significato appare lo stesso. In quel caso la contraddizione dipende da quello che il significato implica per essere se stesso e non semplicemente dal fatto che quel significato venga o non venga posto. Dire «questa porta aperta è chiusa» è un’affermazione che esprime certamente una contraddizione in quan-

to consiste nella pura identificazione dei contraddittori; dire, invece, che

essere questa porta aperta significa essere una certa totalità concreta e determinata, che però non si presenta completamente, significa dire che

questa porta non appare per come è. Il che non significa semplicemente

identificare i contraddittori, ma intendere essere la posizione di qualco-

sa che non si riesce a porre come tale, ovvero che lo è solo formalmente.

Dall’esempio appena fatto si evince che la contraddizione dell’originario può essere estesa a ogni totalità finita (o identità finita).

Il toglimento di queste due forme di contraddizione è molto diver-

so: nel primo caso, infatti, si tratta di togliere lo stesso dire in quanto

dice e nega ciò che dice; nel secondo caso, invece, il toglimento nonè

toglimento ma integrazione di ciò che il dire, tacendo, non manifesta:

si tratta, in altri termini, di mostrare il concreto di ciò è posto come

formale. Ciò che è così posto dunque è e non è la cosa che si intende pone, e pertanto la contraddizione si fonda sul contenuto specifico del significato che si contraddice. Restando all’interno di questo secondo senso della contraddizione, leggiamo quanto scrive Severino ne La struttura

originaria:

La dialettica originaria

179

«Dire: “nella posizione di S non implicante la posizione di una o più costanti di S, S è posto di fatto, ma insieme non può essere posto come tale”, significa che ciò che in questa posizione di S si intende porre, non è ciò che effertiva-

mente o realmente si riesce a porre»'?!.

Il contraddirsi dell'originario (contraddizione C) consiste dunque

nel porre come tutto ciò che non è tutto, dove però che non sia tutto è

quello stesso porre a dirlo. La contraddizione C è determinata dal fatto

che quello stesso porre, che pone un significato che è privo di alcune sue determinazioni, implica al contempo che quel significato sia se stesso solo se include tutte le sue determinazioni, quindi anche quelle

che nel suo porre mancano. In quanto implica il concetto concreto di

sé, quel porre, che pone l’esser sé come astratto, produce la contraddizione, ossia entra in conflitto con se stesso.

Se ogni contraddizione consiste nel fatto che ciò che si realizza non

è ciò che si intende realizzare (altrimenti non ci sarebbe contraddizione), la contraddizione C si costituisce come quella contraddizione in

cui, stante l'intenzione di esprimere un certo significato, il significato espresso manca di quelle determinazioni che presuppone di dover possedere per essere se stesso. Il contraddirsi della contraddizione C «significa dire o porre qualcosa che non è ciò che si intende dire o porre: e non — come si è già detto — porre e non porre ciò che effettivamente si pone (e nemmeno — aggiungiamo ancora — intendere e non intendere porre ciò che si intende porre)»!®, La contraddizione C consiste, dunque, nella posizione del significato formale di ciò che viene posto invece come concreto, dove posizione formale è quella posizione basata sulla «disequazione tra il contenuto semantico effettivamente posto

e l'intenzione di porre»!??.

Il contenuto della contraddizione C non è pertanto un dire l’impos-

sibile, come il contenuto del nichilismo, ma è il tacere sulla verità del contenuto posto.

10. La dialettica originaria Che cos'è la dialettica all’interno della struttura originaria? Ossia:

în cosa consiste la dialettica originaria? «Nella sua essenza, la “dialete—_—______

mn E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 346.

"° Ibi, p. 347.

> Jhi, p. 348.

180

Cap. Il - La struttura originaria

tica» è la struttura che conviene al significato in quanto ente che è edè impossibile che non sia”!*. La dialettica originaria è cioè la struttura che conviene all’originario in quanto fondamento. Sappiamo che la struttura originaria è quella struttura predicazionale in cui ogni negazione è originariamente tolta come autonegazione implicante ciò che tenta di negare. Ebbene, in questo suo essere originario toglimento,

la struttura è dialettica originaria.

In questo senso

«è impossibile che dalla struttura originaria del destino sia derivabile

una qualsiasi contraddizione, e quando sembra che ciò accada ciò che

è derivato è, appunto, l'apparenza di una contraddizione»!%. E inoltre necessario distinguere tra aporia autentica e aporia inautentica: «l’aporia autentica — rispetto al destino della verità — è la contraddizione fra due tratti del destino, dove la contraddizione è dovuta

a una motivazione apparente; l’aporia inautentica è la motivazione apparente che accompagna una certa forma di negazione del destino»'*,

Autentica è dunque la contraddizione tra due tratti del destino determinata da una motivazione apparente, dove la motivazione è apparente proprio in quanto i due tratti sono solo in apparenza tra loro contraddittori (es. l’esser sé è e non può non essere altro; tuttavia, l’esser sé è, in quanto tale, un esser altro, proprio perché esso è sé solo in quanto è altro dall'altro da sé). L'aporia inautentica è invece esterna per così dire al destino: anch'essa è determinata da una motivazione apparente (in caso contrario la verità sarebbe contraddizione), ma quest’ultima

«accompagna una certa forma di negazione del destino» e dunque il suo toglimento non è, come

nel caso precedente, il modo concreto di

esistere dell’astratto, bensì il toglimento della posizione stessa che si palesa come immediatamente autocontraddittoria. Sull’originarietà del toglimento della contraddizione e sul rapporto tra contraddizione e destino, in Oltrepassare si legge che «nel suo significato più radicale, un'aporia è una negazione così motivata

dal destino (ché se non fosse così motivata non avrebbe l'apparenza dell’incontrovertibilità). Ma l’aporia non mostra che la negazione del

destino non sia un’autonegazione; e quindi (richiamiamo anche qui un discorso già presente nei miei scritti) l'appartenenza del motivo della negazione alla struttura originaria del destino è necessariamente apparente — sì che anche qualora il linguaggio che testimonia il de-

IS Ibi, p. 48.

!% E, Severino, Oltrepassare, cit., p. 164.

i Ibi, p. 468.

La dialettica originaria

181

stino non fosse capace di dissolvere questa apparenza — che dunque sarebbe l'apparenza di una contraddizione del destino con se stesso —, l’incontrovertibilità del destino rimarrebbe inalterata»! Ciò significa

che l'appartenenza del motrivo dell’aporia al destino non indica la con-

traddittorietà di quest’ultimo; e pertanto, in quanto esso (destino) è in-

contraddittorio, l'«appartenenza del motivo dell’aporia» al destino «è necessariamente apparente». Il destino è infatti ciò che non può essere in sé contraddittorio, e quindi non traballa a causa di una propria interna contraddittorietà, non può smettere di essere lo stare che è quale

immediata autonegatività del proprio negativo. E infatti il testo chiude proprio evidenziando che l'evenienza che il linguaggio che testimonia il destino non sia talvolta capace di dissolvere «questa apparenza», 0ssia l'apparenza per cui il destino si presenta in conflitto con se stesso, non ha alcuna relazione con l’incontraddittorietà del destino: l'essenza del destino, ciò che esso è, è l’incontrovertibilità dello stare e lo stare

dell’incontrovertibilità, anche nel caso in cul il linguaggio che lo testi-

monia rimanga avvolto dall’aporia.

In quanto struttura predicazionale, la struttura originaria è “il nesso

originariamente necessario” che unisce le determinazioni dell’originario; tale nesso, in cui la struttura originaria consiste, è un organismo di predicazioni, unificato da quella predicazione che afferma l’identità della F- e della L-immediatezza. La predicazione in cui F- e Limmediatezza sono poste come identiche «unifica» quell’organismo di predicazioni in cui consiste la struttura originaria.

La fondamentale tematica della dialettica è trattata nel capitolo 1x de La struttura originaria. Il testo, riprendendo quanto già esposto nella parte iniziale, mette in luce che il fondamento è tale «in quanto implica il toglimento della negazione del fondamento», e che esso

consiste nella «posizione del’identità dell’essere e del pensiero»!”. (La negazione di tale posizione è una delle negazioni del fondamento «in

cui il pensiero storico si è maggiormente impegnato»'*).

La negazione del fondamento è dunque immediatamente tolta dalla posizione del fondamento quale «sistema delle negazioni immedia-

tamente note»?%, L’immediatezza del fondamento è dunque la stessa «mediatezza» (o risultare). —_—_ ! Ibi, pp. 258-259, n

- Severino, La struttura originaria, cit., p. 365.

” Ibi, p. 366.

"Ibidem,

182

Cap. tl - La struttura originaria

L'essenza di ogni negazione del fondamento è quella di essere immediatamente tolta. In quanto le negazioni del fondamento sono imme-

diatamente presenti come aventi valore di negazione del fondamento, la loro immediatezza è «duplice»: nel senso appena illustrato e in quanto appartenenti alla totalità dell'immediato. Le negazioni appartengono alla totalità dell'immediato sia in quanto incluse come momenti, sia in quanto la loro negazione «è un momento essenziale della struttura originaria del fondamento»? Il primo aspetto le distingue per la «diversa complessità semantica», il secondo le rende identiche tra loro (in quanto cioè ognuna è negazione). Si chiarisca quanto già considerato all’inizio di questo capitolo: cos'è la negazione del fondamento? Si è visto che essa è la posizione astratta dell’astratto, ossia la posizione che separa i momenti dell’immediato dalla totalità dell’immediato. Ma occorre fare una precisazione. Negare non significa soltanto negare esplicitamente il

fondamento, dicendo, per intendersi, che esso è non verità; si nega il

fondamento, anche se si tiene separato (si astrae) un momento distinto del fondamento come posizione concreta di esso. In quel caso, infatti,

si astrae dalla sua astrattezza, si pone l'astratto come concreto, si dà

luogo al concetto astratto dell’astratto. Pertanto si nega il fondamento non soltanto dicendo che esso non è vero, ma anche dicendo che esso, come Tutto, non è altro che una sua parte. Quel dire la parte come tutto dà luogo alla medesima negazione dell’originario cui dà luogo la sua esplicita e dichiarata negazione. In questo senso, se l'essenza del fondamento consiste nel toglimento delle sue negazioni, è necessario affermare che appartiene «all'essenza del fondamento che vi siano negazioni implicite — quelle in cui il fondamento non è posto come tolto —, e negazioni esplicite del fondamento — quelle in cui il fondamento è posto come tolto»?°. Ogni negazione del fondamento è un momento astratto dell’immediato e, come tale, lascia valere quel momento come

l’intero originario «nella misura in cui il campo posizionale della negazione non include il suo toglimento»?%. In quanto momento astratto, la negazione è dunque concetto astratto dell’astratto. Riassumendo. La strutturazione unificante dell’originario è il “concreto”, mentre “astratto” è ogni momento distinto dal concreto. La posl-

zione “concreta dell’astratto” è pertanto la posizione del legame essen20) Ibi, p. 368. 20 Ibidem.

10 Ibi, p. 370.

183

La dialettica originaria

ziale tra il momento e l'originario come totalità concreta; la posizione “astratta dell’astratto” è la separazione (o posizione della separatezza)

di ciò che è distinto e che, come tale, è posizione concreta dell’astrat-

to. Separare i momenti dell’originario dall’originario significa porre astrattamente l’astratto (realizzare un concetto

astratto dell’astratto).

In questo senso, negando il nesso parte-tutto, ogni posizione astratta dell’astratto è una “negazione” della struttura originaria, in quanto essa

è, come detto all’inizio, il nesso originario tra la parte e il tutto. In quanto tale, il concetto astratto dell’astratto è contraddittorio, nega cioè la L-immediatezza. L'astratto separato dall’originario è pertanto una determinazione (un significato) diversa dall’astratto concretamente posto, ossia dall’astratto distinto ma non isolato dalla sua concretezza.

Ma proprio perché la connessione all’originario è qualcosa di essenziale per la parte, essa non può essere posta come separata: la parte come separata è cioè qualcosa di impossibile, «e l'impossibile è appunto il contenuto che viene affermato nel concetto astratto dell’astratto»?”*. La “rete isolante” del concetto astratto dell’astratto non contiene l’astratto ma una posizione impossibile, ossia che A (l’astratto come distinto essenzialmente legato a ciò da cui è distinto) sia non A (l’astratto come

isolato dal legame essenziale in cui solo è ciò che è):

«Ciò che in verità sta dinanzi, nel concetto astratto, è l’esser non-A da parte

di A; ma il concetto astratto pone questo esser non-A da parte di A, come un esser A da parte di non-A. La contraddittorietà del concetto astratto appare, come tale, solo nel concetto

concreto

dell’astratto (nel concetto

astratto la

contraddittorietà appare, ma non come tale, bensì appunto come identità con

sé di A)»295,

Questo non-A non appare come non-A (altrimenti non ci sarebbe

contraddizione), ma appare come A. Dunque A appare come tale; altrimenti il concetto astratto dell’astratto non sarebbe autocontraddittorio.

Îl contenuto del concetto astratto dell’astratto è un’impossibilità logi-

ca; ed è tale solo in quanto esso implica essenzialmente il concetto concreto dell’astratto, non posto e saputo come tale (giacché il concetto astratto dell’astratto «tratta la struttura originaria come un niente»?%),

In quanto il concetto astratto di A è apparire astratto (isolato) di A,

èsso «è necessariamente l’apparire di A, ossia è l'apparire di quel signi—_—____—_—_

3 Ibi, p. 43,

23 Ibi, p. 44,

2% Ibi, p. 46,

184

Cap. tl - La struttura originaria

ficato concreto di A, relativamente al quale quel predicato è un predica. to impossibile»? In quanto nega la relazione concreta di A ad A, esso ne è l’apparire. Esso, cioè, implica l'apparire della concretezza di A e dunque della struttura originaria, pur trattando quest’ultima «come un niente» nell’atto in cui pone A come isolato e isolabile. L’apparire del concreto implicato dall’astratto non è pertanto un apparire del concreto posto come tale, così come l’astratto non è posto come tale. «Ne Lg

struttura originaria la “dialettica” è appunto nel suo significato centrale il rapporto tra il concetto concreto e il concetto astratto dell’astratto»?® La contraddizione dialettica è appunto «l’identificazione dell’astratto e del suo contraddittorio — l’identificazione di A e di non A»?®, Come visto nel precedente paragrafo, la contraddizione è presente nella struttura originaria in due modi: in quanto è formalmente identica, perché consistente nella identificazione dei contraddittori (cambia

solo la determinazione specifica che viene isolata nel concetto astratto) e in quanto è un contenuto specifico (fermo restando il suo essere

identificazione dei contrari proprio essendo contraddizione). Questo secondo significato può essere così espresso: la contraddizione dialettica è contraddizione in quanto il suo contenuto specifico, isolato dal

suo concreto essere-significare, va contro se stesso. È questo il caso di

quel particolare tipo di contraddizione che è la contraddizione C. Ogni concetto astratto dell’astratto è negazione del fondamento, così come ogni negazione del fondamento è un concetto astratto dell’astratto. La struttura originaria è pertanto struttura negante un «sistema» di negazioni del fondamento (siano esse implicite o esplicite), in cui ogni negazione occupa una certa necessaria posizione, determinata dall'ampiezza del suo campo d'azione (campo posizionale). Tale sistema di negazioni si realizza come sistema di posizioni affermanti o posizioni neganti: nel primo caso esso dà luogo a un sistema ordinato di affermazioni astratte dei momenti

astratti dell'originario

(affermazioni come negazioni implicite — cfr. precedente distinzione), nel secondo caso esso dà luogo a un sistema ordinato di negazioni dell'originario (negazioni esplicite). Nel primo caso si tratta di por concretamente ciò che è stato posto astrattamente, nel secondo caso di togliere (o negare) ciò che viene negato (negare la negazione). Tale dif. 2 Ibi, p. 45. 208 Jhi, p. 47. 1° Ibidem.

La dialettica originaria

185

ferenza è però completamente interna all’identità di fondo tra negazio-

ne del fondamento e concetto astratto dell’astratto: in entrambi i casi si tratta di posizioni astratte dell’astratto. Nel primo caso la struttura ori-

ginaria è progressiva posizione di sé (progressivo concretizzarsi), nel

secondo caso è progressivo toglimento del non sé. I due momenti sono cioè le due facce della medesima medaglia; ancor più, i due momenti sono i due modi diversi in cui l’originario è autoaffermazione di sé.

Il sistema delle negazioni del fondamento è costituito da un «or-

dine di disposizione delle negazioni» avente un “limite minimo” e un

“limite massimo”, dove il primo è «quel momento astratto che non contiene come momento alcun altro momento astratto, e che quindi

è una determinazione semplice»?!, Tale limite minimo o “cominciamento” ( a seconda che lo si consideri come posizione astratta o toglimento) non è però «un unico contenuto minimo, ma una pluralità di minimi semantici»?! H limite minimo è cioè costituito da un pluralità di negazioni.

Ebbene, posto tale limite minimo, come si sviluppa l’ordine progressivo che conduce al limite «massimo»? A tale proposito Severino riconosce al pensiero hegeliano il merito di avere realizzato il massimo

tentativo (lungo la storia dell'Occidente) di determinare una tale strut-

tura progressiva. Tuttavia, anche se le pagine de La struttura originaria

mostrano «come sia operabile una valorizzazione del metodo di determinazione di quell’ordine di progressione», per la struttura originaria

è e non può che essere «inaccettabile la concreta determinazione di

tale ordine, quale è stata proposta dallo Hegel»?!?. Severino mostra tale «valorizzazione» nei parr. 6-10 del testo, ai quali si rimanda il lettore

non potendo in questa sede ripercorrerli analiticamente; pare invece opportuno soffermarsi a evidenziare la differenza tra la dialettica hegeliana e quella originaria.

I termini della dialettica originaria sembrano molto vicini alla dia-

lettica hegeliana; e anche se in molti punti del suo discorso Severino evidenzia questa vicinanza, ne indica sempre al contempo l’essenziale lontananza: tra le due dialettiche infatti, pur parlando gli stessi linBuaggi «tecnici», vi è una differenza incolmabile?!?. Come lo stesso Severino segnala (Introduzione alla Struttura originaria), in Essenza ——_—__—_—___

MO Ibi p.371.

di2! 2

mE

Si veda a tale proposito l’argomentazione de La struttura originaria sul cominciamento, vi. . Severino, La struttura originaria, cit., p.371.

A tale proposito cfr. anche infra, vi, 9.

186

Cap. il - La struttura originaria

del nichilismo e ne Gli abitatori del tempo compare concretamente «il rilievo critico fondamentale [...] rivolto al metodo dialettico hegeliano in quanto teoria semantica: di presupporre implicitamente quel nesso

necessario tra gli opposti che invece, nel concetto del metodo, figura

come un risultato, ossia come

l’unità degli opposti in cui si risolve

la contraddizione dialettica»?!. La sintesi hegeliana, che pure si pone come risultato, è il presupposto logicamente indispensabile affinché possa scaturire la contraddizione: se la sintesi non fosse logicamente antecedente, la tesi non si rovescerebbe in alcuna antitesi. Nonostante

la sua originarietà, la sintesi nella dialettica hegeliana è la verità finale, ciò che, accadendo, toglie la contraddizione: il vero è essenzialmente

risultato. Nella struttura originaria, che è essenza del fondamento e

quindi impossibilità dell’esistenza della non verità, la sintesi, quale posizione concreta della determinazione, è originaria.

La differenza esplicita tra la dialettica originaria e quella hegeliana consiste pertanto nella concezione della sintesi come originaria o risultato; alla luce della critica che Severino rivolge a Hegel, si deve dire che tale differenza risiede nella impossibilità hegeliana di parlare di sintesi: o la si afferma come originaria o non la si può affermare. L'inconscio della dialettica hegeliana è la struttura originaria come sintesi originaria o originarietà della sintesi (cfr. oltre, v1,10). Tornando allo svolgimento del fondamento dal limite minimo a quello massimo, pare rilevante riportare l’analisi esposta negli ultimi paragrafi del capitolo IX de La struttura originaria e in modo particolare nel paragrafo sul fondamento come cominciamento. Se concepito astratta-

mente, il fondamento è «cominciamento» in quanto è affermabile come

ipotesi (progetto) che «la totalità delle costanti di S includa come paste

la totalità delle costanti immediatamente presenti»?!5. Dal punto di vista del concetto concreto del fondamento, invece, quell’inclusione non è il contenuto di un progetto ma un'affermazione L-immediata. In quanto tale progetto (in base al quale lo sviluppo dell'analisi dell’originario accerta l’esistenza di costanti non attualmente presenti) non è immediatamente autocontraddittorio, «il fondamento si realizza

in modo peculiare come cominciamento di un percorso dialettico»”". L'originario è, per questo aspetto, la totalità «progettata come eccedente 2 E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 47.

215 /bi, p. 400. 2 Jhi, p. 401.

187

La dialettica originaria

l'attualità»?!?, Nel progetto del fondamento come cominciamento il fon-

damento posto come primum è la stessa presenza attuale dell'originario come non includente tutte le sue costanti, e dunque è posizione astratta

del concreto. Ma dicendo che quella posizione astratta è tutto quello che può essere attualmente posto, la posizione del fondamento come cominciamento non è semplicemente un momento (posizione astratta) dell'intero (concreto), ma è posizione astratta di quell’astratto che è il momento dell’intero. La posizione attuale dell’intero non è la posizione

dell’intero nella sua concretezza e dà così luogo alla contraddizione C. In relazione al contraddirsi del fondamento ci si trova di fronte però a una situazione unica. Per questo Severino aveva precedentemente detto che il fondamento si realizza in modo peculiare. Infatti il concetto astratto dell’astratto in cui esso consiste non dà luogo all’affermazione

che ciò che non è l’intero (S”’) sia l’intero (S), ma dà luogo a una situa-

zione in cui la contraddizione è rilevata e posta come tale, ossia come quella negazione di S che deve essere tolta. Tuttavia, pur rilevando la necessità di questo toglimento, il fondamento non riesce a toglierla: proprio in quanto progetta una totalità più ampia, il fondamento sa la contraddizione come contraddizione, ma in quanto pone l’attualità di S (dell'intero) come

totalità dell’immediatezza

attuale, si afferma

anche come ciò che non è in grado di togliere la contraddizione. Per questo, progettando la totalità concreta come altra dalla totalità imme-

diatamente presente, il cominciamento del fondamento (il fondamento come cominciamento) dà luogo a un concetto astratto dell’astratto. È

cioè il progettare come tale a dover essere tolto: «si deve dire invece che è affermazione L-immediata — o appartiene alla struttura del fondamento — che il fondamento valga come cominciamento: appunto perché è affermazione L-immediata che la totalità simpliciter delle costanti di

S oltrepassa Ja totalità delle costanti immediatamente presenti»?!8, In

altri termini: l’oltrepassamento del fondamento da parte del tutto non può essere il contenuto di un progetto, ma deve essere un'affermazione L-immediata. In quanto tale, essa appartiene alla struttura stessa del fondamento, il quale è dunque cominciamento in quanto l’affermazione della differenza tra l’apparire attuale e l’intero concreto è L-immediata: il fondamento è cominciamento in quanto l’apparire immediato

(le costanti immediatamente presenti di S) non è l'apparire del tutto (delle costanti totali di S).

___ mm

®" Ibidem.

Ibi, p. 402.

188

Cap. Il - La struttura originaria Come già visto poc'anzi in relazione al progetto del fondamento,

quest’ultimo «è cominciamento in modo tipico»?!. Il lettore può svol-

gere da sé questa parte, analogamente a quanto appena esposto in re.

lazione al fondamento quale progetto: anche se è L-immediato (e non frutto di un progetto) che l'apparire attuale delle costanti di S non sia la totalità di queste ultime, il fondamento (quale apparire attuale) è un momento

del concreto, cioè è posizione concreta dell’astratto. Però,

pur essendo tale, esso non è tuttavia presenza immediata dell'intero

e perciò, affermandosi ugualmente come fondamento e non ponendo altro oltre sé, non si afferma solo come posizione concreta dell’astratto,

ma si afferma anche come posizione astratta dell’astratto. E anche in

questo caso la contraddizione è posta come contraddizione, e dunque

come ciò che deve essere tolto, ma è posta anche come ciò che non viene e non può essere tolto. Pertanto, se il fondamento è cominciamento

in quanto riconoscimento di non poter essere posizione del fondamento, d'altra parte esso è di fatto inteso come tale, poiché non appare la totalità concreta e con ciò non appare l’oltrepassamento delle costanti attualmente presenti a opera delle costanti totali di S. Quindi il concetto concreto del fondamento è il fondamento stesso

«in quanto si costituisce come la stessa posizione L-immediata del suo valere [...] come concetto astratto dell’astratto»??9, Si rilevi inoltre che proprio in quanto il fondamento è, nella sua essenza, negazione della propria negazione, ogni negazione della negazione del fondamento è una sua costante. Il discorso esplicito della nota finale del capitolo Ix de La struttura originaria può così essere ricondotto ai suoi termini concettuali di fondo: l'originario è originariamente se stesso, il suo essere concreto è nell'essere già da sempre se stesso e nell’apparire come tale («il concreto, in base al quale si effettua quel toglimento è già tutto manifesto sin dall'inizio del discorso»??'). Poiché il concreto originario

è questo essere già da sempre se stesso, la sua esposizione, ossia il movimento che lo conduce progressivamente alla propria concretezza togliendo via via l’astrattezza, non è un movimento essenziale, poiché

in esso non è in gioco l’esser sé del concreto, essendo tale concretezza originaria. Per questo, mentre nella dialettica hegeliana è lo stesso contenuto a determinare l'andamento progressivo e il ritmo della sua 21 [bi, p. 403. 220 [bidem. 121 /bi, p. 405.

La totalità dell’immediato fenomenologico e il concetto astratto

189

progressione, nella dialettica originaria «la discorsività si realizza in modo arbitrario, e cioè solo in vista dell'opportunità di far precedere una parte del discorso originario a un’altra, affinché la comunicazione

resti il più possibile agevolata»??? Insomma il criterio espositivo non è lo stesso farsi forma (movimento) del concetto, ma la semplice ‘op-

portunità espositiva”.

In conclusione, come anche questo paragrafo ha ribadito, la struttura originaria è contraddizione originaria; «come l’isolamento di una determinazione dell’originario (dall’originario) implica la contraddi-

zione dialettica, così la contraddizione dialettica è implicata dall’isolamento dell’originario dal Tutto»? L'originario, che in quanto apparire processuale del Tutto (e quindi

esposizione di sé) non

può essere il

Tutto concreto, mostra che il suo significato non è il significato del

Tutto. Ma proprio mostrandosi come tale, l'originario mostra che il

proprio essere contraddizione è contraddizione; l'originario non lascia cioè apparire la contraddizione come un che di incontraddittorio. In questo senso l'originario è toglimento, per quanto solo formale, della propria contraddizione. Sarebbe toglimento concreto se fosse l'apparire del tutto concreto, e non solo di una parte, «sì che la parte continua

ad apparire come l’essere struttura originaria da parte di ciò che non è la struttura originaria»??4. In questo senso l’originario è la struttura la cui negazione è autonegazione solo in quanto toglimento formale della contraddizione. L'originario è contraddizione in quanto dire indeterminato; è toglimento della propria contraddizione in quanto apparire progressivo della propria concretezza (cfr. ultimo paragrafo del presente capitolo).

Il. La totalità dell’immediato fenomenologico e il concetto astratto

dell'astratto (concetto Ta)

Come si è visto in precedenza (par. 3 del presente capitolo), nel

paragrafo 26 del n capitolo de La struttura originaria (pp. 167-168) Severino introduce il concetto Fa. Esso è la posizione fenomenologica della totalità dell'immediato fenomenologico, ossia la posizione per cui la totalità del F-immediato è la totalità del positivo che si ——__—_—____

°° Ibidem.

mn ibi, p.73.

2 Ibi, p. 74.

190 può

Cap. Il - La struttura originaria affermare

immediatamente:

per il concetto

Fa la totalità del F.

immediato è la totalità dell'essere immediatamente presente: è tutto e solo quell’essere che c'è. Si tratta del «punto di vista che se ne sta alla semplice considerazione della totalità dell’essere F-immediato»,

ossia del punto di vista «che separa astrattamente l’apparire dell’ente dall’impossibilità che l’ente non sia (cioè separa astrattamente la F-immediatezza dal senso autentico, concreto della L-immediatezza, dove l’opposizione dell'ente al proprio altro è insieme opposizione dell’ente al suo esser niente). Il “concetto Fa” (determinatamente con-

siderato nel capitolo x1) è appunto l’apparire dell'ente in quanto così astrattamente separato»?5, Data la rilevanza della tematica, Severino le dedica l’intero capitolo xI. Il punto di partenza della riflessioneè l'affermazione che «è tutto e solo quell’essere che c’è»: posto che l’immediato fenomenologico è l'essere che «è per sé noto», tale essere può essere «tutto ciò che c’è»? La risposta (L-immediata) è no: la stessa innegabilità logica (L-immediatezza) è espressione della necessità che l'immediatezza fenomenologica debba essere oltrepassata. Se, dunque, l’immediatezza fenomenologica «è soltanto un elemento di

quella strutturazione dei significati dell’immediatezza, che costituisce la concreta valenza dell’immediatezza, [...] ciò di cui si può affermare

immediatamente l'essere non è semplicemente — come invece sopra si prospettava — la totalità dell’immediato fenomenologico, ma è anche tutto quel positivo che si fa affermare immediatamente secondo tutti quegli altri sensi dell’immediatezza che si differenziano dall’immediatezza fenomenologica»??, La proposizione «è tutto e solo quell’essere che c’è» dunque «deve apparire come concetto astratto dell’astratto: concetto astratto di quell'astratto che è l'immediatezza fenomenologica rispetto al concre-

to costituito dalla strutturazione dei vari sensi dell’immediatezza»”. Se l'immediato fenomenologico,

presente nella sua semplice presen

za fenomenologica, è astrattezza, la posizione che non pone l’astratto come astratto («è tutto e solo quell’essere che c'è») è appunto posizione astratta dell’astratto, in quanto, non ponendo l’astratto come astratto, lo pone come concreto: astrae dall’astrattezza dell’astratto. Si può affermare che «è tutto e solo quell’essere che c’è», solo se si separa l’essert F-immediato dalla sua strutturazione logica e da tutte le determinazioni

25 Ibi, p. 19. 28 Jbi, p. 167. 227 Jbi, p. 168.

La totalità dell’immediato fenomenologico e il concetto astratto

191

che gli competono. L’immediata presenza dell'essere, in quanto conce-

pita come separata dagli altri aspetti che le competono, è la posizione astratta (affermante cioè che l’astratto non è astratto: astraente appunto

dall’astrattezza dell’astratto) di quell’astratto che consiste nel fenomenologico puro. Ebbene, tale concetto astratto dell'astratto è il concetto Ta. Esso è «quella strutturazione dell’originario, o quel modo di essere della struttura originaria, per il quale l'immediatezza fenomenologica è tenuta ferma come l’intero dell’immediatezza, ossia come l’orizzon-

te di tutto ciò il cui essere può venire affermato immediatamente»??8,

In altre parole: il concetto Ta pone l’essere F-immediato come totalità o «l’intero dell’immediatezza»;

con ciò tale concetto non intende

negare l’esistenza di altre immediatezze oltre quella fenomenologica,

ma afferma queste ultime come forme di immediatezza ulteriori che

«non sono in grado di affermare l’essere di un contenuto non appartenente alla totalità dell’immediato fenomenologico»??? La posizione del concetto Fa è dunque la posizione dell'impossibilità (o esclusione) che forme di immediatezza diverse da quella fenomenologica possano

affermare l’essere di un contenuto non appartenente all’immediato fe-

nomenologico. Il concetto Fa è dunque la stessa affermazione che «è tutto e solo quell’essere che c'è»? Sembrerebbe di sì. Ma c’è forse un modo di intendere la proposizione «è tutto e solo quell’essere che c'è» in cui essa smette di essere posizione astratta

dell’astratto e diviene posizione concreta dell’astratto? Se la si intende «in base, relativamente,

limitatamente,

all’immediatezza fenome-

nologica, si può e si deve dire che è tutto e solo quell’essere che c'è,

ossia appunto tutto e solo quell’essere che è fenomenologicamente immediato»??, Se si rimane all’interno dell’immediatezza fenomenologica, allora dire che «solo l’essere che appare è tutto l’essere che l'è» è qualcosa che «si può e si deve dire». Sembra dunque doversi concludere che è impossibile affermare l’esistenza di un essere che

trascende il F-immediato basandosi solo sul F-immediato. In questo modo non si sarebbe più nella concezione

astratta dell’astratto, ma

nella posizione concreta dell’astratto, in quanto si starebbe ponendo quest'ultimo come astratto, e porre l’astratto come astratto significa aPpunto porre l’astratto nella sua concretezza, porlo cioè per quello =—_—_—_—_———_—_—

2% Ibi, p. 169. 2 Ibidem,

30 Ibi, p. 168.

192

Cap. ll - La struttura originaria

che è: astratto. La posizione concreta dell’astratto è cioè la posizione che non astrae dall’astrattezza dell’astratto, ma la pone come

tale, E

per questo è concretezza. Pertanto, il concetto astratto dell’astratto «è ciò che il fondamento (la struttura dell'originario 0 dell’immediato)

implica necessariamente come folto, e quindi come posto (esplicitato, sviluppato, esposto), proprio affinché possa essere tolto»??.

Se si pone concretamente l’astratto, si afferma la necessità che «Ja

totalità dell’essere F-immediato possa lasciarsi oltrepassare da un positivo, da un essere, che pure è affermato immediatamente»?, Come

è possibile che tale positivo oltrepassante sia immediato ma non F-immediato? Ossia: come è possibile che un positivo, «che non appartiene

alla totalità del fenomenologico, possa essere ugualmente contenuto di una proposizione immediata»??? Come si inizia a vedere, c’è sicuramente in questa stessa posizione una permanenza in quella concezione fenomenologica pura (nichili-

stica) che il pensiero di Severino intende lasciarsi alle spalle. Come si

vedrà con maggiore chiarezza nel prossimo paragrafo, La struttura originaria permane ancora, in relazione alla “purezza” fenomenologica, nel nichilismo occidentale di cui essa rappresenta d'altra parte il primo grande superamento, ovvero il primo grande tentativo di superamento, che gli scntti successivi di Severino condurranno a compimento, purificandolo dal residuo modo di pensare nichilistico. Nel

capitolo

x1 si parte dalla considerazione

che,

se la struttura

originaria è, come tale, posizione concreta dell'identità della F- e Limmediatezza, qualora la si consideri come «non strutturantesi come affermazione L-immediata di un positivo non appartenente alla totalità del F-immediato»?*, si astrae dalla sua concretezza e quindi la si pone

astrattamente. In quanto tale capitolo si occupa di ciò, esso è l'esposizione della posizione astratta della struttura originaria astrattamente

considerata, ossia l'esposizione del concetto astratto dell’astratto. Po-

sto che «l’esposizione ideale dell’originario dovrebbe essere di certo

esposizione di tutti i concetti astratti dell’astratto (ossia — cfr. cap. IX,

par. 4 — di tutte le negazioni dell'originario)», perché esporre proprio

questa posizione astratta dell’astratto? In altri termini: se l'esposizione originaria dell'originario è il toglimento delle sue posizioni astratte, 2 Ibidem. ®? Ibidem.

23 Ibi, p. 169.

2% Ibi, p. 457.

La totalità dell’immediato fenomenologico e il concetto astratto

193

quali sue negazioni, perché dare un così grande spazio alla negazione particolare in cui consiste il concetto Ta? Perché, rileva Severino, «in questo caso ci si trova dinanzi a un tipo emergente di concetto astratto dell'astratto. Tale emergenza è dovuta al fatto che la differenza tra il concreto {la struttura originaria) e questo concetto astratto dell’astratto è così ridotta che, affinché quest’ultimo si realizzi come il concreto, non ha a che porre, nel suo concreto valore semantico, la L-immediatezza dell’oltrepassamento della

totalità del F-immediato (sì che l'esposizione di l'a sfrutta tutti gli elementi che l'esposizione del concreto ha sin qui guadagnati, meno la posizione — che d'altronde è sin qui soltanto preannunciata - di quella L-immediatezza)»?!.

In altre parole: proprio dal punto di vista del concreto stesso, ossia della struttura originaria, il concetto Ta differisce dal concreto stesso solo in quanto non include un unico aspetto della struttura originaria e cioè la L-immediatezza dell’affermazione di un positivo non F-immediato; ma tale aspetto, rileva Severino, è anche quello «che più si sottrae alla riflessione filosofica»? e quindi il carattere «ridotto» della differenza di cui si parlava tra originario e concetto Ta «è ridotta al dislivello che per tale riflessione è il più difficile a superarsi»??”. Che è come dire; separati da un soffio, anche se ciò che così sottilmente divi-

de è quanto di più consistente ci sia e perciò più arduo da perseguire. Accanto a questa serie di considerazioni, ci sono altri motivi per cui al concetto Ta Severino dà grande rilievo. Tra essi «l'intento di darne la fisionomia autentica: la realizzazione storica di quel concetto, quale è dato reperire nel pensiero contemporaneo (cfr. cap. 1, par. 3, b),

ne lascia inespressi alcuni tratti fondamentali. Diciamo infatti che la strutturazione autentica del concetto Fa — ossia di quell’apertura dell’originario per la quale [...] è un progetto l’oltrepassamento del F-immediato da parte di un positivo — include o si struttura come affermazione (categorica) L-immediata

che il positivo oltrepassa la totalità del F-immediato»?”*.

- Inaltre parole: la strutturazione autentica del concetto Fa è afferma-

zione L-immediata, pur essendo il concetto Fa apertura di un progetto (ossia di una possibilità, e non di un'affermazione categorica). Eppure T_T.

"9 Ibidem. 2% Ibidem. ?? Ibi, pp. 457-458.

DI Ibi, p. 458,

194

Cap. Il - La struttura originaria

in ciò, rileva Severino, non c’è contraddizione, poiché il senso secondo il quale esso è progetto non è lo stesso senso secondo il quale esso è affermazione L-immediata. Riassumendo.

Il

concetto

Ta

è

«quella

strutturazione

dell’ori-

ginario, o quel modo di essere della struttura originaria, per il quale l’immediatezza fenomenologica è tenuta ferma come l’intero dell’im-

mediatezza, ossia come l'orizzonte di rutto ciò il cui essere può veni-

re affermato immediatamente»?

quando

si dice che il concetto

Ne La struttura originaria,

anche

Fa è posizione astratta dell’astratto e

dunque che la struttura originaria è una tale posizione astratta, «ciò

non significa che Fo neghi che oltre l'immediatezza fenomenologica vi

siano altre forme di immediatezza», giacché «questo concetto dà luogo a un concetto astratto che si distingue da l'a»; ma significa che «per l'a queste ulteriori forme di immediatezza non sono in grado di affermare l’essere di un contenuto non appartenente alla totalità dell’immediato fenomenologico», Quindi Fa non è quella posizione che afferma l'impossibilità logica che oltre il F-immediato vi siano altre forme di immediatezza, ma è quella posizione che afferma che queste diverse forme di immediatezza non possono affermare l’esistenza di qualcosa che non appartenga alla totalità del F-immediato. Stando alla pura immediatezza non è dunque possibile affermare l’esistenza di contenuti non appartenenti alla totalità del F-immediato, però è possibile (cioè non immediatamente contraddittorio) progettar-

lo. Se dunque «qualcosa è posto come totalità dell’immediato solo in quanto è escluso un immediato eccedente ciò che è posto come una tale totalità»”!, ossia qualcosa è posto come totalità solo se si esclude che possa esistere un immediato che «ecceda» tale totalità, ebbene il concetto Fa sostiene che in relazione al puro immediato fenomenologico non è immediatamente autocontraddittorio progettare che: 1) esiste un positivo che oltrepassa quella totalità immediata; 2) che l'immediato si determini in modo diverso da quello che gli com-

pete fattualmente. Il concetto Fa è essenzialmente questo duplice progettare che accade all’interno della prospettiva fenomenologica del fenomenologico. Come tale, esso è posizione astratta dell’astratto: posizione che isola (cioè astrae) quell'astratto (che è il fenomenologico) dalla sua relazio-

2 Jhi, p. 169. 30 Ibidem.

21 Ibi, p. 473.

La totalità dell'immediato fenomenologico e il concetto astratto

195

ne necessaria al logico. Ciò che è presente come totalità dell’immediato è cioè essenzialmente progetto, e dunque «il progettare appartiene alla struttura dell’originario»”*?. A tale proposito Severino rileva che «la posizione di un qualsiasi significato immediatamente presente è un progettare»?*’, in quanto «sporgenza semantica» - e dunque permanenza

rispetto a un suo momento (determinazione effettuale): «il proget-

tare appartiene pertanto alla struttura dell’universalità del significato,

stante che l'universalità è appunto la liberazione del significato dalla

sua determinazione effettuale, rendendosi disponibile per una ulteriore

determinazione (=individuazione)»?*.

Il concetto Fa è affermazione L-immediata che il positivo oltrepassa il F-immediato, ma insieme è anche il progetto (e dunque solo possibilità e non affermazione) di un tale oltrepassamento. In quanto l'affermazione L-immediata che un positivo oltrepassa il F-immediato appartiene al concetto Ta quale posizione astratta dell’astratto, «rispetto a quella strutturazione dell’originario che non include nemmeno quell’affermazione L-immediata» il concetto Ta vale come posizione concreta. Il toglimento del concetto Ta è la stessa posizione concreta dell’originario come contraddizione originaria (C): secondo Fa la contraddizione C è soltanto un progetto; e dire che è un progetto significa che la contraddizione C «non è rilevata L-immediatamente,

ossia non è immediatamente noto che il realizzarsi dell'originario in quanto tale sia l’apertura di una contraddizione»”*. Il progettabile è il non L-immediato. Il concetto Ta è il duplice e incontraddittorio progetto che la totalità del F-immediato sia oltrepassata dall’essere totale e che la totalità del F-immediato sia determinata in modo diverso da come è determinata di fatto, includendo

determinazioni

diverse (per

questo aspetto del nichilismo de La struttura originaria cfr. prossimi due paragrafi). Ma se il contenuto progettato non è affermato in quanto

Immediatamente presente, su quale base è affermato? Se il progetto è

il tenere insieme l'affermazione e la negazione, dal punto di vista Fa l'originario è problematicità sotto un duplice aspetto: 1) come possibilità di determinare l’altro dall’immediato;

2) come possibilità dell’accertamento della impossibilità di determinare l'altro dall’immediato. __—_—_—__—_—_—_—

% Ibidem.

% Ibi, p. 467. % Ibidem.

US Ibi, P. 460.

196

Cap. ll - La struttura originaria

«Se la struttura originaria è l’apertura originaria della contraddizione (C), essa è insieme la strutturazione originaria della non contraddittorietà dell'essere (ed è appunto il modo per cui tale strutturazione si costituisce che essa è l'a. pertura originaria della contraddizione C). È quindi immediatamente autocontraddittorio il progetto di un accertamento dell’autocontraddittorietà di tale strutturazione e dei momenti semantici che in essa si strutturano»?*, Fino a quando non si esce dal progettare, risolvendo l'alternativa (l’altro dall’immediato è essere o nulla?), «l'originario è posto senza che

una sua costante lo sia: quella costante appunto che resta determinata dal risolvimento dell’alternativa»?”. L’originario è L-immediatamente contraddittorio proprio perché incapace di «determinare il suo altro»?8, A questo punto dell’esposizione dell’originario la struttura originaria,

quale filosofia originaria, si presenta come «sintesi originaria del cale-

gorico (posizione della totalità dell’immediato) e del problematico»? Ma questa contraddittorietà della struttura originaria «è di natura affatto diversa da quella della contraddittorietà di cui la struttura originariaè toglimento originario. Essa è tolta infatti solo attraverso l’oltrepassa-

mento dell’originarietà quale attualmente si realizza, e cioè solo attra-

verso il risolvimento della problematicità originaria»?5°. «Il progettare appartiene dunque all’essenza della struttura originaria» in quanto «dal punto di vista dell’immediatezza attuale non si è in grado di affermare l’equazione o la disequazione dell’immediatezza e dell’intero»?, Questa problematicità appartiene all’essenza dell’immediatezza attuale, è una sua “costante”. Su tale base è immediatamente autocontraddittorio affermare che «l'originario è l’intero»:

«l'originario vale L-immediatamente come momento dell’intero»”’.

Ma l'originario è la struttura dell’immediato; per cui è proprio in base all’immediatezza (logica) che si afferma che l’intero oltrepassa l'immediato: in questo modo si dice che c’è qualcosa che oltrepassa l’originario, ma insieme si dice che niente lo oltrepassa, poiché «tale disequazione appartiene alla struttura dell’immediato»?9.

26 Jbi, pp. 465-466. 29 Jbi, p. 470. 24 Ibidem. % Ibidem.

230 Ibi, p. 471. 291 Ibi, p. 472. 52 Ibi, p. 473. 2 Ibidem.

La totalità dell’immediato fenomenologico e il concetto astratto

197

Ponendo l'immediato come progetto e problematicità si è però già

risolto il problema iniziale, in quanto si deve affermare (L-immediata-

mente) che è autocontraddittorio che quell’essere in contraddizione, in cui consiste l'originario, sia l’intero semantico. Infatti, se il contraddittorio fosse l’intero, la contraddittorietà sarebbe definitiva e si dovrebbe dire che l’essere è contraddittorio: l’originanio non può dunque essere l’intero. Non essendo l’intero, si ribadisce il suo essere contraddittorio, in quanto in esso non sono poste tutte le sue costanti (contraddizione

C). Ciò significa che la posizione dell'originario come contraddizione C è la posizione concreta di quella posizione astratta che è il concetto Ta, e cioè, in altre parole, che la posizione dell'originario come contraddizione C è il superamento della contraddizione posta dal concetto Fa. Infatti la soluzione oltrepassa e non oltrepassa l’immediato: lo oltrepassa, in quanto non è L-immediatamente noto cosa (cioè quale contenuto positivo) oltrepassi l'immediato; non lo oltrepassa, perché è L-immediatamente noto che l’immediato sia oltrepassato: quell’oltrepassamento dell’immediato è cioè sapere (posizione) dell’immediato. Il concetto Fa, che si sta analizzando, è in relazione «al fatto che la strutturazione attuale dell’immediato non è in grado di risolvere tale progetto»”, che invece potrebbe essere risolto da uno sviluppo dell’a-

nalisi dell’immediato. A tale posizione Severino perviene dal par. 10 in

poi: «è chiaro che qualora la struttura dell’immediato si apra come ri-

solvimento immediato di quel progettare (ossia del problema se l’essere oltrepassa o no in senso forte l'immediato), il punto di vista nel quale qui ci si mantiene si rivelerebbe come concetto astratto»? Infatti «è solo in quanto quel momento è astrattamente concepito, che esso può realizzar-

si come progetto che l’altro dalla struttura dell’immediato sia essere o

nulla: tolto il concetto astratto, il progetto è immediatamente risolto»?. In quanto la struttura originaria è posizione L-immediata della necessità che il progettare sia tolto, tale progettare è già tolto: è infatti posto il suo dover essere tolto. Il toglimento è cioè presente in quan-

to formalmente presente: «il toglimento della contraddizione consiste

Precisamente nel riconoscere che la contraddizione originaria deve

€ssere tolta», La formalità del toglimento equivale al sapere che la soluzione c'è, anche se non se ne conosce il contenuto specifico.

—_—_——_—_>—

24 Ibi, p. 477.

%3 Ibidem,

3 Ibi, p. 478, 5) Ibidem.

198

Cap. Il - La struttura originaria

In questo modo siamo giunti alla posizione dell’autentico orizzonte metafisico: «in quanto l’originario si realizza come quell’oltrepassa-

mento formale del momento problematico, la struttura originaria vale come l’apertura originaria del sapere metafisico»? Il toglimento formale della contraddizione ha cioè condotto dall’apertura “problematica” di un orizzonte metafisico, «aperto come un’al-

ternativa tra la positività e la sua nullità»? (si veda ad esempio l’o-

rizzonte ontologico heideggenano), all'apertura “categorica” di tale

orizzonte, dove la categoricità è data «dalla posizione necessaria del momento in cui il progettare è risolto»? Si è cioè aperta la strada alla

autentica metafisica che ha come proprio compito il superamento materiale (e non solo formale) della contraddizione.

A questo punto il testo de La struttura originaria considera «il

concetto

di

una

deduzione

dell’impossibilità

metafisica»,

do (par. 4) che tale concetto «vale immediatamente

come

mostran-

un’auto-

contraddizione»?', E sufficiente rilevare come ogni possibile «deduzione o fondazione dell’impossibilità della metafisica» sia @ priori autocontraddittoria: poiché è immediatamente contraddittorio afferma-

re che il toglimento

della contraddizione

sia autocontraddittorio, «è

immediatamente autocontraddittorio il concetto di impossibilità della

metafisica»? Ma dicendo che è impossibile che la contraddizione non sia tolta, si dice forse che è anche impossibile che la struttura originaria sia un tale toglimento? O forse è possibile ipotizzare, proprio sulla base della struttura originaria, la non immediata autocontraddittorietà di un «orizzonte posizionale diverso dalla struttura originaria, che si realizzi come toglimento di quella contraddizione»?°? Infatti, rileva Severino,

«non sembra cioè immediatamente autocontraddittorio progettare che sia impossibile realizzare il discorso metafisico nell’ambito o come sviluppo dell'originario (= impossibilità del discorso metafisico come

discorso umano, 0, meglio, come discorso mio), qualora però si ponga un diverso orizzonte posizionale o coscienziale, in cui quel discorso sia

realizzato»?#,

258 Ibi, p. 479. 29 Ibidem. 360 Jbidem.

1 Ibi, p. 482.

262 Ibi, p. 483. 23 Jbidem. 4 Ibidem.

La totalità dell’immediato fenomenologico e il concetto astratto

199

Affermare quel diverso orizzonte — rileva Severino — «signifi-

ca, sia pure

al limite,

realizzare

nell’ambito

originario

il discorso

metafisico»? e dunque risolvere la contraddizione. Il tentativo di dimostrare l'impossibilità della metafisica è dun-

que il tentativo di «dimostrare che quella parte dell'intero che è la struttura originaria e il suo sviluppo

è un essere necessariamente

in

contraddizione»?%,

Se, da un lato, alla struttura originaria «appartiene di fatto la possi-

bilità di trovarsi in contraddizione», dall'altro le appartiene essenzial-

mente «il compito di salvaguardare la manifestazione dell’essere, o il

dovere di impedire la vanificazione. Poiché l'originario è la stessa ma-

nifestazione dell'essere, ciò significa che all’originario compete essenzialmente il compito di salvare il suo contenuto dall'annullamento»?8?. (In merito alla presenza di questo annullamento si rimanda al prossimo paragrafo, che come già più volte annunciato mette in luce il nichilismo residuale de La struttura originaria e il peso che quella residualità possiede all’interno della speculazione severiniana.) Il compito dell’originario consiste dunque nella «tutela dell’apparire dell’essere» avendo cura «che nulla di sé vada perduto»; un compito «essenziale» ma non per questo certo del suo «espletamento, poiché la contraddizione incombe sull'originario come una possibilità»?8®, A questo punto il discorso può rilevare come il «divenire» stesso dia luogo al toglimento della contraddizione. Questa è una grande tematica,

che, opportunamente depurata del nichilismo ancora presente, trova collocazione prioritaria anche nei recenti La Gloria e soprattutto Oltrepassare, e che anche il presente scritto affronta con particolare attenzione nei capp. VI e v. Il divenire toglie la contraddizione in quanto toglie via via forme determinate e specifiche di contraddizione C. Vediamo come. i

Se S è l’intero nel momento m, e S+S'’ è l’intero nel momento m',

il piano posizionale S+S’ in m’ vale, rispetto a S in m, come la totalità

(T) rispetto alla totalità ricordata r(T) «affetta da steresi posizionale» di S°. Se dunque S è la totalità ricordata r(T), in quanto quest’ulti-

ma si realizza come implicante l’orizzonte progettato r(P), S’ «è im-

plicitamente incluso in r(P) come una nullità possibile»?, Ne deriva

—_—_—__—___&

15 Ibi, p, 484. 16 Ibidem,

19 Ibi, p, 494, 38 Ibidem.

149 Ibi, p. 495,

200

Cap. ll - La struttura originaria

che m si realizza come implicazione tra la totalità ricordata r(T) e il progetto di un nuovo orizzonte r(P) in cui S°* è una reale possibilità.

In m, pertanto, S’ vale come «nullità possibile» e «reale possibilità», ossia m

«si realizza come

uno

stare in contraddizione»?”° che viene

tolto dal sopraggiungere di S”. Così come il sopraggiungere di nuove determinazioni è il determinato toglimento di specifiche contraddizio-

ni, «la strutturazione concreta dell'originario è toglimento originario

della problematicità di Ta: l'affermazione che l’essere oltrepassa la totalità dell'essere immediatamente presente (intesa come esperienza

possibile) è infatti L-immediata»?”!. Poiché ciò può anche essere detto così: «le costanti di S immediatamente

presenti non sono la totalità

delle costanti di S», si può affermare che la problematicità di Ta è tolta ponendo l’originario come posizione della contraddizione C; e dunque l'originario non è «semplicemente l’apertura originaria della metafisica come sapere formale, ma è l’apertura originaria della metafisica come sapere concreto»???, Ma

cos’è dunque, e in cosa consiste concretamente,

originaria?

la metafisica

12. La metafisica originaria, il compito originario e la permanenza nel nichilismo

Nelle ultime pagine de La struttura originaria Severino espone il

significato originario di metafisica, mostrando come

da ultimo essa

consista nella necessità che la totalità del positivo F-immediato sia oltrepassato dalla totalità concreta e immutabile dell’essente, ossia nella affermazione necessaria (L-immediata) della parzialità del contenuto

presente in modo processuale o “diveniente” (F-immediato). Ripercorriamo essenzialmente i paragrafi contenenti le posizione basilari della metafisica originaria, fino al compito originario con cui termina il libro. Nel par. 6 si determina il valore ontologico del princi-

pio di non contraddizione, ossia il suo non essere semplicemente una «logica del pensare», e si pone la necessità di intenderlo in modo «non formalistico» ma come ciò che «ha anche valore ontologico», per cui «risiede nel significato stesso dell’essere, che l’essere abbia ad essere, 0 Ibidem.

171 Jbidem. 3 Ibidem.

La metafisica originaria

201

sì che il principio di non contraddizione non esprime semplicemente l'identità dell'essenza con sé medesima, [...] ma l’identità dell’essenza

con l'esistenza»???. Nei parr. 8 e 9 si esibisce il fondamento della immu-

tabilità dell’essere, la cui negazione (ossia posizione del suo divenire) è «intrinsecamente contraddittoria»?”*; non si nega il divenire perché «il divenire è tale, ma in quanto il divenire implica come tale il non essere di

ciò diviene, e quindi, qualora sia predicato dell’essere, implica come tale il non essere dell'essere: questo non essere — che, come tale, è negato come con-

veniente all'essere — è momento o parte semantica del significato “divenire”. Ciò vuol dire che nella proposizione “L'essere non diviene” il predicato conviene (come negato) al soggetto non L-immediatamente (ossia non in quanto

tale, o ratione sui ipsius), ma mediante un termine — tale termine è appunto il “non essere” [...] - che vale peraltro come momento semantico del significato

attuale del predicato [...] onde si diceva che il predicato conviene (come negato) ratione suae partis al soggetto»?”5,

Nel par. 15, in ideale continuazione con i parr. 8 e 9, viene evi-

denziato come l’immediatezza logica sia toglimento originario della

mediazione: se, infatti,

«la situazione logica, nella quale l’intero non è ciò cui come tale conviene l'immutabilità — sì che la posizione di questa convenienza esige il realizzarsi di una mediazione —, ciò importa che tale situazione sia originariamente o immediatamente tolta: la concreta apertura dell’immediatezza logica (e quindi l'apertura della struttura originaria) è, come tale, toglimento o negazione

della non convenienza del predicato al soggetto della proposizione “L'essere è immutabile”»?70,

Nel par. 17 (La necessità dell’immutabilità dell'essere quale posizione concreta del principio di non contraddizione) si torna a rilevare che «in quanto le proposizioni L-immediate aventi come soggetto

l’intero sono lo stesso principio di non contraddizione nel suo vario

formularsi segue che anche quelle due prime proposizioni affermanti l'assoluta immutabilità o permanenza dell'essere valgono come for-

mulazioni del principio di non contraddizione»?”. Il che conduce alla

conclusione che il principio di non contraddizione è lo stesso signifi—_—_—_———

"9 Ibi, p. 517. T fbi, p. S19.

74 Ibi, pp. 520-521.

D6 Ibi, p. 528. Ibi, p. 530.

202

Cap. ll - La struttura originaria

cato essenziale dell'argomento ontologico e quindi che l’immutabilità

dell’intero è lo stesso essere. Questa posizione conduce però inevita.

bilmente all’aporetica del divenire, considerata infatti nel paragrafo

successivo (18), consistente nel rilevare che, se da una parte è neces. sario affermare (L-immediatamente) che l’intero è immutabile, dall’altra è necessario affermare che il divenire è affermazione F-immediata

(«l'orizzonte aperto dalla totalità dell’essere F-immediato è appunto il regno del sopraggiungere e del dipartirsi dell’essere»??*). Si tratta cioè della contraddizione tra l'immediatezza logica e l’immediatezza feno-

menologica che già impegna il pensiero post-parmenideo e che nel par. 19 viene ripercorsa nelle sue manifestazioni storiche, soffermandosi in

modo particolare sui contributi della grande metafisica (Platone, Aristotele, Tommaso, ecc.). In conclusione di paragrafo si giunge però a

una importante considerazione teoretica:

«La differenza tra parmenidismo e aristotelismo [...] può essere ricondotta

alla differenza tra il concetto del sapere metafisico come appartenente alla

struttura del fondamento, e il concetto per il quale il sapere metafisico è un'ul-

teriorità, rispetto a quella struttura, che deve essere conseguita attraverso un

procedimento mediazionale. Questo concetto trova la sua configurazione più rigorosa nel concetto Ta, stante che [...] l’intero come assoluta immutabili-

tà è appunto la posizione L-immediata del positivo che oltrepassa la totalità

dell'essere F-immediato»???,

L'aporetica del divenire è tolta ponendo la differenza tra totalità immutabile e diveniente: nel par. 21 il testo mostra proprio che è ne-

cessario (L-immediato) che il positivo oltrepassi la totalità dell'essere

F-immediato: «in quanto la totalità dell'essere F-immediato non è nulla», la distinzione tra l’immutabile e il diveniente «è affermazione che la totalità del F-immediato appartiene, ossia è inclusa, o è momento

dell'intero, ma - stante quella distinzione — non dell’intero in quanto

immutabilità. Affermare che l’intero, come immutabilità assoluta, non è la totalità dell’essere F-immediato, significa dunque affermare che l’intero oltrepassa questa totalità»?f°. Posto il toglimento dell’aporetica del divenire, Severino si può aY-

viare verso l'affermazione del rapporto autentico tra immutabilità € 198 Jbi, p. 531.

??° Ibi, pp. 541-542. Sul concetto Ta cfr. il paragrafo precedente.

240 /pi, p. 543.

La metafisica originaria

203

divenire (par. 25), per cui «il divenire non aggiunge e non toglie alcuna positività all'intero immutabile [...] sì che il positivo, che si aggiunge o si dilegua, è già o è ancora nel cerchio dell'intero immutabile»?! e porre quindi lo stesso divenire come apparizione dell’immutabile (par. 26), per pervenire alla determinazione originaria del senso dell’alterità dell'immutabile e del diveniente (par. 27) e alla loro autentica relazione (par. 30). Posta, infine, la necessità che l’immutabile sia costante persintattica (par. 34), individua il compito originario (par. 35) con cui

si chiude il libro. Analizziamo i momenti che paiono più rilevanti sotto il profilo teoretico, per indicare al lettore come il testo del 1958 permanga ancora nel nichilismo. Sappiamo

che la «L-immediatezza dell’immutabilità

dell'intero, e la F-immediatezza del divenire dell’essere provocano

una situazione aporetica»?? in quanto la totalità concreta è opposta (in

quanto trascendente) alla totalità fenomenologica che pure include (ossia in quanto totalità la totalità concreta è totalità assoluta). La totalità concreta (“l’intero come immutabilità») non è l’essere F-immediato,

ossia «la totalità del F-immediato è momento dell’intero»?. La differenza tra la totalità immutabile (apparire infinito nel linguaggio severiniano successivo) e la totalità presente processualmente (apparire

finito) non deve essere dimostrata, è cioè L-immediata: l’esigenza di

dimostrazione nasce dalla non posizione dell’immutabile come tale. La posizione concreta dell’immutabile è perciò L-immediatamente il suo differire dal mutabile.

«Si dirà dunque: la struttura originaria si realizza come affermazione che l'immutabile oltrepassa la totalità del F-immediato; e cioè oltrepassa la stessa Struttura originaria (in quanto ogni elemento dell'originario è momento della tolalità del F-immediato. Cfr. par. 23). In questo senso la struttura originaria è

la concreta apertura originaria del sapere metafisico»?8*,

In altre parole: in quanto la struttura originaria è posizione della necessità (L-immediatezza) dell’oltrepassamento della totalità dell’es-

sere F-immediato da parte della totalità dell’immutabile, la struttura originaria «è la concreta apertura originaria del sapere metafisico». —_—

2 Ibi, p. 547.

282 Ibi, p. 542. 2% Ibi, p. 544. 2 Ibi, p. 545.

204

Cap. Il - La struttura originaria

La struttura originaria è la posizione originaria dell’autentico sapere

metafisico. In ciò, si legge in Essenza del nichilismo, consiste Ja vera

Differenza ontologica (cfr. ultimo capitolo). L'affermazione «l’intero immutabile oltrepassa la totalità del F-im-

mediato» è una affermazione L-immediata e consiste pertanto in una

formulazione del principio di non contraddizione (corollario S.b, pp. 516-517).

La nota 1 (par. 22) arriva a una prima conclusione rilevantissima: la

proposizione «l'essere è», anche se separata dalla distinzione tra totalità concreta e totalità dell’essere F-immediato, è da intendersi «come

ciò che oltrepassa la totalità del F-immediato»?. Ciò significa che la posizione dell’essere è già la posizione della sua concretezza, ossia

del suo distinguersi dalla totalità del F-immediato. Ma tale distinzione non può significare che la totalità del F-immediato contenga qualcosa

che non sia incluso nella totalità concreta, la quale in tal caso non sarebbe più tale: «e lo sviluppo, l'incremento; o il dileguare, lo sparire

— il divenire dunque del contenuto della totalità del F-immediato, non aggiunge e non toglie alcuna positività all’intero immutabile [...] sicché il positivo, che si aggiunge o dilegua, è già o è ancora nel cerchio dell’immutabile, già da sempre carpito al futuro e per sempre trattenuto nel cerchio dell’essere»?90, La totalità dell’immutabile è diversa dalla totalità del diveniente pur includendola, in quanto continua a contenere e già contiene ciò che

nel diveniente non è più contenuto. Quest'ultima affermazione espri-

me una certa ambiguità concettuale, che il testo poco dopo chiarisce affermando che «il cerchio dell’immutabile è così la patria o il grembo

dell'essere; ivi è custodito anche ciò che nel mondo non si sottrae alla

rapina del nulla»? Ecco venire esplicitamente alla luce quello che la frase precedente racchiudeva implicitamente: nel mondo, nell'ap-

parire F-immediato, l'annullamento accade, l’essere è realmente “Tapinato dal nulla”; in esso l'essere diventa davvero niente. L'essere è

eternamente salvo solo nella dimensione dell’immutabile: l'essere che diviene, quello che si mostra processualmente (F-immediato) è sogget-

to alla rapina del niente. Viene a galla, cioè, la permanenza residuale nel nichilismo de La struttura originaria. Severino stesso la denuncia negli scritti successivi, in modo particolare a partire da Essenza del 2 Ibidem. 26 Jbi, p. $47. 28 Ibidem.

La metafisica originaria

205

nichilismo (testo in cui, ciononostante, permane ancora un residuale nichilismo che verrà definitivamente superato solo con Destino della necessità”). Nella stessa Introduzione del 1981 a La struttura originaria (introduzione cui si è fatto più volte riferimento in questo scritto) Severino evidenzia tale aspetto ancora nichilistico, su cui non ci si può non soffermare leggendo questa parte del testo del 1958. Si consideri,

atale proposito, il par. 24 dedicato alle sintesi a posteriori. Lì si legge

che «il positivo in cui consiste la sintesi a posteriori, è (ossia è assolutamente o immutabilmente), il predicato conviene necessariamente al

soggetto, ma appunto come ciò che, in quella certa sfera dell'essere, che è la totalità del F-immediato, può non convenire al soggetto»?*. Il predicato, che conviene necessariamente al soggetto, nel F-immediato «può non convenire al soggetto». E ancora (par. 26):

«La totalità dell'essere F-immediato, come orizzonte in cui la nascita e l’annullamento dell’essere viene alla manifestazione, deve essere pertanto determinata come l’orizzonte in cui è manifesto il comparire e lo scomparire dell'essere; ossia ciò che, da un punto di vista che se ne sta alla semplice considerazione della totalità dell'essere F-immediato (ma si potrebbe anche dire: ciò che dal punto di vista del concetto Fa si manifesta come un sopraggiungere e un annullarsi), si rivela, nella strutturazione concreta dell'originario,

come un apparire e uno scomparire»®,

Dunque solo «nella strutturazione concreta dell’originario» il ‘“sopraggiungere” è presente come “comparire” e l’‘“annullarsi” è presente come “scomparire”! Il che significa che c’è una dimensione, quella del F-immediato, in cui appare che l’essere si annulla, in cui cioè l’annullamento del’essere è presente, è evidente, accade. Nella totalità dell’es-

sere F-immediato l'annullamento dell'essere dunque ha luogo. Queste affermazioni, in cui si pone la scissione tra intero immutabile e intero diveniente come posizione metafisica originaria, tornano al nichilismo occidentale nell’atto in cui ritengono di allontanarsene, in quanto ripropongono una realtà diveniente che di per sé viene e va nel nulla, la quale necessita di una realtà indiveniente e trascendente che la salva. Insomma, queste pagine de La struttura originaria, proprio nell’atto in cui pongono la necessità che l’essere non possa annullarsi, che esso —_——_—_— __

2 Cfr. a tale proposito infra, Iv.

*° E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 546.

20 Ibi,p. 547.

206

Cap. li - La struttura originaria

sia cioè il già da sempre salvo, lo pensano come qualcosa che viene e torna nel niente. Si ponga la differenza, dice Severino, tra il divenire che è proprio dell’essere F-immediato e il divenire che è proprio della presenza

dell’essere, dove il secondo divenire non implica il primo; ebbene, in relazione a questo secondo divenire «non è immediatamente contrad.

dittorio supporre (progettare) che non sussista un sopraggiungere o un annullarsi dell’essere immediatamente presente»? Evidente, anche qui, il nichilismo insito in tale prospettiva: il divenire dell’essere F-im-

mediato è “scomparire” e “apparire” solo in relazione a «ciò che è originariamente posto», ossia solo in relazione alla «permanenza assoluta

dell’essere»; e ancora «il divenire del contenuto F-immediato»

nonè

«irreale» in quanto «generazione e annullamento»? giacché solo «in

relazione all’intero immutabile» esso è un apparire e uno scomparire.

«Nell'ambito della totalità del F-immediato il divenire, come nascita e

annullamento dell'essere F-immediato, è pienamente reale. [...] Relati-

vamente al contenuto F-immediato [...] la nascita e la morte dell'essere

è reale: è irreale [...] come proprietà dell’essere in quanto tale»?”, La conclusione del paragrafo sottolinea con chiarezza il medesimo concetto nichilistico: «ciò che dunque nasce e muore è l’essere in quanto totalità dell’essere F-immediato; ciò che appare e scompare è l’essere in quanto permanenza assoluta»?9. La concezione della totalità dell’essere F-immediato è ancora im-

mersa nel nichilismo. Di conseguenza, tutta la metafisica originaria e

il compito originario (anche per un altro aspetto che tra poco si con-

sidererà) ne restano intaccati. Anche se ne La struttura originaria è

fortemente presente, quale concetto fondamentale di tutta l‘opera, il senso dell’opposizione assoluta tra il positivo e il negativo. Proseguendo nella distinzione tra la totalità concreta e la totalità dell'essere Fimmediato, il testo rileva come essa non determini una contraddizione

«solo in quanto sia intesa in questo modo» e cioè solo in quanto «la totalità dell’essere F-immediato sta «oltre» l’intero immutabile, comé un positivo che non aggiunge nulla all’eterno cerchio dell'essere»? Da ciò, rileva Severino, non consegue che la totalità dell'essere F-im3! Jbi, p, 548, 32 Ibi, p. 549. 29 Ibidem. 2% Ibidem.

29 Ibidem.

207

La metafisica originaria

mediato sia uguale a nulla: questa conclusione deriva da un modo di pensare matematico-quantitativo («se x è un numero tale che, aggiunto o sottratto da un numero y, non determina un aumento o una diminu-

zione di y, x è uguale a zero»?*). Dunque come intendere correttamen-

te la distinzione tra le due totalità? All’interno del concetto autentico di differenza, che «non implica come tale, o L-immediatamente, che in a sussista una positività che non sussiste in b, e viceversa»?”. Se la differenza fosse questo non si potrebbe nemmeno distinguere la parte dal tutto. Ma il nichilismo de La struttura originaria non consente di

intendere la totalità del F-immediato come parte del tutto immutabile, poiché «l'orizzonte del divenire non può essere, come tale, parte dell’immutabile»??, Tale concetto viene ribadito nel paragrafo successivo (28): «non solo non è contraddittorio affermare che la realtà diveniente non appartiene necessariamente all'intero, ma è autocontraddit-

torio affermare la necessità di quell’appartenenza»?”, Se, infatti, la si affermasse, si affermerebbe l’autocontraddittorietà del non essere del

divenire e quindi si concluderebbe che esiste una positività (del divenire) non inclusa nell’intero immutabile: «se l'inesistenza del divenire

provoca un’autocontraddizione, l’orizzonte del divenire possiede qualcosa che l’immutabile non possiede»; il che è impossibile. Dunque «è autocontraddittorio affermare l’appartenenza necessaria del divenire all'intero»? A questo punto (par. 29) il testo si chiede se questa non sia una forma di negazione del principio di non contraddizione, consistente nell'affermare che la totalità della realtà diveniente è niente. Potrebbe sembrarlo.

«Il toglimento di questa contraddizione consiste pertanto nell’affermazione

della esistenza della realtà necessaria, ossia dell’immutabilità della realtà di-

veniente come tale. Il che provoca daccapo una contraddizione, perché la real-

tà diveniente è F-immediatamente nota come diveniente [...] sì che, come tale,

non può essere immutabile»?0!,

Questo ripresentarsi dell’aporia,

rileva Severino,

va ricondotto

al

«tenere ferme due operazioni logiche tra loro contraddittorie». In=_—_—__—_—__—_—_—_——

2% Ibi, pp. 549-550. 2 Ibi, p. 550.

34 Ibidem,

Ibi, p.sSs1.

5° Ibidem, % Ibidem. 1 Ibidem.

208

Cap. ll - La struttura originaria

fatti, se da una parte si deve affermare che la totalità dell’essere F-immediato — proprio in quanto essere, cioè positivo — è immutabilmente, dall’altra l'essere immutabile è anche diverso dall’essere diveniente, il quale, come tale, è appunto non-immutabile. «Se a questo punto — rileva Severino — il concetto del diveniente viene astrattamente separato dal concetto dell’immutabile [...] accade che la realtà diveniente si presenta daccapo come una positività di cui non si può predicare il

non essere, e quindi è immutabilmente»°?,

La separazione che astrae il diveniente dall’immutabile (prima ope-

razione delle due contraddittorie) ha cioè come risultato «la ripetizio-

ne della posizione dell’orizzonte immutabile»? Ma ecco la seconda operazione: dopo averli separati, «si vuole tenere fermo il diveniente in quella relazione semantica dalla quale pur si aveva prescisso»; ma in questo modo l’immutabilità «non può dar luogo a un orizzonte diverso da quello costituito dalla realtà diveniente, {...] sì che si deve conclude-

re che l’immutabilità (accertata dalla prima di quelle due operazioni)

deve convenire allo stesso diveniente in quanto tale»? Una volta indi-

viduata l’origine dell’aporia, essa è tolta rinunciando a «tenere ferme entrambe quelle due operazioni tra loro contraddittorie»? e quindi non separando più astrattamente l’immutabile dal diveniente. E qui Severino torna alla totalità dell’essere F-immediato in quanto distinta dalla totalità dell’immutabile, per rilevare che la prima, separata dalla seconda, è, «in quanto così distinta, la dimensione di ciò che sarebbe potuto non essere e che potrebbe non essere»?, Siamo di fronte a una affermazione del “fenomenologico puro” — cioè di per sé non strutturato secondo la logica dell’identità-innegabilità dell’essere — che costituisce uno degli aspetti fondamentali della critica severiniana al nichilismo.

Il par. 29 conclude, infine, rilevando che l'«affermazione dell’essere stesso dell’ambito della realtà diveniente dà luogo a una sintesi a posteriori»*%, nel senso che «il diveniente è, nel cerchio dell’immutabile, eternamente o immutabilmente come ciò che, al di fuori di quel

5 Jbi, p. 552.

3% 35 306 ®

Ibidem. Ibidem. Ibidem. Ibidem.

ws Jpj, p 553.

209

La metafisica originaria

cerchio, sarebbe potuto non essere, e potrebbe non essere»?, Anche nel paragrafo successivo (30) si ribadisce il medesimo

concetto:

è il

tutto immutabile a salvare, eternizzandola, una dimensione dell’essen-

te (la totalità diveniente) che, per se stessa, non ha necessità dunque

eternità e innegabilità: «la totalità del F-immediato, e, in generale, la totalità dell'essere diveniente, è solo in quanto l’intero immutabile

è»*!9, Il fondamento di questa posizione, ossia il motivo per cui La struttura originaria permane

nel nichilismo,

è chiarito subito dopo:

dire che «la totalità del diveniente coincide con la totalità dell'essere,

significa affermare che l'essere non è»"!. Il che è certamente innegabile, ma senza pervenire, come

Severino mostrerà negli scritti suc-

cessivi, a queste conclusioni: identificare la totalità dell’essente con l'essente immediatamente presente nei limiti della sua presenza conduce certamente alla conclusione che quando l’essere non è presente è niente, e dunque, quando esso non è presente, non è; ma non si può concludere, sulla base di questa necessità, che l'essere presente non sia già di per sé, in quanto tale, essente etemamente.

In tal caso, infatti,

riprendendo un'affermazione severiniana di Essenza del nichilismo vista nel precedente capitolo, ci si comporterebbe come la più compiuta metafisica nichilistica, che “chiude la stalla dopo aver fatto scappare i buoi”. Fuor di metafora: quando ne La struttura originaria si dice che l'essere F-immediato non può essere eterno se non all’interno della totalità concreta immutabile dell'essere, si ritiene di avere messo al sicuro l’essere F-immediato (di avere cioè chiuso la stalla) mentre in

realtà lo si è esposto all’(impossibile) annullamento prima ancora (e

in questo senso la stalla, prima di essere chiusa, è rimasta aperta tanto quanto era sufficiente perché i buoi scappassero). Al pari della tradizione metafisica occidentale, La struttura originaria salva ciò che pensa

come niente: la totalità F-immediata. Questa prospettiva (nichilistica)

Viene approfondita nel par. 32, che è per l’appunto la continuazione dichiarata del par. 30: «all’opposto, l’intero immutabile è, anche se la totalità del diveniente non è, [...] perché se l’intero immutabile fosse, solo in quanto l'orizzonte del divenire è, questo orizzonte conterreb-

be una positività che non è contenuta nell'immutabile»*!?. Anche qui,

e

——__—_—

__—_——

*? Ibidem. !0 Ibidem. ! Ibidem,

N fbi, p. $54.

210

Cap. il - La struttura originaria

appunto, come sopra. Sulla base dell’ultima posizione, quella per cui l’immutabile è il fondamento di sé «anche se la totalità del divenire non è», il testo conclude che «che la totalità del divenire sia, è una vera

decisione dell’immutabile»?!. Il che, posto che un tale immutabile non possa che essere costante persintattica (par. 34) conduce alla «determinazione del compito originario» (par. 35): in quanto l’immutabile oltrepassa l'originario (e a dirlo è la stessa struttura dell'originario), «l’apertura originaria dell’intero è formale: l’immutabile è cioè ma-

nifesto in una sua valenza formale [...]; il contenuto della forma è ciò

che sta oltre l’originario. Con ciò è posto il compito autentico dell’o-

riginario», che consiste nel «toglimento della contraddizione», ossia

nella «manifestazione dell’immutabile»*!4. Un compito infinito, la cui

tematica verrà approfondita in questa sede nei capp. IV e soprattutto v e vi. In quest’ultimo capitolo c’è proprio una parte dedicata al parallelismo, per questo aspetto, tra il pensiero di Fichte e quello di Severino, riprendendo proprio quanto Severino stesso indica nel testo che si sta esaminando: «non si dovrà forse dire che si tratta di un compito infinito, e che precisamente in “ciò è l'impronta della nostra destinazione per l’eternità” (come diceva Fichte in relazione a una situazione logica che presenta molta analogia con quella che qui ci si presenta)»?!5? Come per gli altri aspetti, anche in relazione al concetto di compito originario non si può non sollevare la medesima critica di nichilismo, proprio in quanto si tratta di compito, ossia di qualcosa di soggetto alla decisione

del mortale,

alla volontà dell’individuo

che cerca di usci-

re dalla contraddizione. Come si vedrà in modo particolare nel V capitolo, questa è propriamente la prospettiva nichilistica dell’esser sé

dell’essente; il concetto di compito si fonda, da ultimo, sulla concezio-

ne dell’esser sé dell’essente come diventare altro. In conclusione va detto che, se la struttura originaria della veritàè l'essenza del fondamento, cioè quel complesso semantico in cui consiste l'immediata negazione della negazione di ciò che è immediata mente presente, lo scritto che la dovrebbe testimoniare permane ancora

nel nichilismo, soprattutto in relazione al modo

in cui in esso viene

concepito il rapporto tra apparire ed essere. Tutti i modi contraddittori rilevati sopra (specialmente i parr. 23, 26 e 33 del capitolo xI1) sono Ml Ibidem. 34 Ibi, p. 555.

3 Ihidem.

La metafisica originaria

211

riconducibili a un modo di pensare la totalità del F-immediato come isolata dalla verità. Riconsideriamoli brevemente: nel paragrafo 26 si sostiene che il contenuto della filosofia non appartiene allo sfondo

dell’apparire, cioè al campo persintattico. È invece necessario afferma-

re il contrario, come Severino stesso rileva in Essenza del nichilismo, dal momento che, se il contenuto della filosofia è la verità dell'essere,

ossia la struttura «all’interno del quale soltanto può costituirsi ogni

predicazione necessaria e il senso stesso della necessità», non può che

essere «lo sfondo di ogni apparire»?!9. Ne segue che, contro il testo del 1958, si deve affermare che il contenuto della filosofia appartiene necessariamente al campo persintattico. Nel paragrafo 23 si afferma l’esistenza di situazioni in cui la struttura originaria non è presente. Fondamento di tale esistenza è il principio della purezza fenomenologica di stampo husserliano: solo isolando l'apparire dalla struttura logica della verità, si può ritenere che in alcune situazioni non sia inclusa la struttura originaria. Nel paragrafo 33 si sostiene la differenza tra il contenuto della filosofia (quale insieme delle costanti metasintattiche) dalla struttura orì-

ginaria (quale sfondo e totalità delle costanti persintattiche). In ripresa di quanto detto in relazione al paragrafo 26, anche in questo caso «è invece necessario togliere la differenza tra questi due tipi di costanti

ed identificare il campo persintattico alla verità dell'essere»?!”. Analiz-

ziamo bene questo discorso. Si è visto che nella struttura originaria le determinazioni si distinguono in costanti-costanti e costanti-varianti € che i nessi tra le determinazioni dell'originario danno luogo a proposizioni (o giudizi) che non hanno valore analitico, Si è anche visto che la

struttura originaria è la totalità dell’immediato e insieme la totalità dei progetti fondati sull'immediato e immediatamente presenti, e che, se soggetto e predicato vengono intesi come separati ed estranei in origine,

la loro unificazione predicativa è volontà dell’impossibile e dunque che nonsi può identificare ciò che è presupposto come non identico; si è visto inoltre che la struttura originaria della verità è lo sfondo della verità

dell'essere, cioè quell’intreccio di significati e determinazioni senza i

quali nulla può essere e apparire. In questo senso si è parlato di costanti della struttura originaria che appartengono alla sintassi dell’essere (costanti appunto sintattiche), ovvero senza l’apparire delle quali nulla

_———————6&

n E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 213. "Ibi, p. 214,

212

Cap. Il - La struttura originaria

potrebbe apparire, neppure quel significato formale di S in cui consiste la contraddizione

C. L'insieme delle costanti sintattiche forma il

campo persintattico, che può essere definito lo «sfondo» dell’apparire proprio perché senza le determinazioni in esso incluse nulla potrebbe apparire. Ciò conduce, ne La struttura originaria, all’interrogativo se il contenuto della filosofia, quale testimonianza della verità dell'essere

e quindi quale struttura originaria stessa, appartenga alla dimensione

persintattica. Ne La struttura originaria «si esclude che la struttura ori-

ginaria appartenga, essa, al campo persintattico», mentre «in Essenza del nichilismo si mostra che questa esclusione è determinata dalla permanenza nel nichilismo»:!*. Ne La struttura originaria, cioè, ritenendo che il contenuto della filosofia sia costituito dalle costanti metasintattiche e non dalle costanti persintattiche, si esclude che il contenuto della

filosofia possa includere il campo persintattico e quindi si pensa a delle situazioni «in cui non si fa presente la struttura della verità dell’essere (cap. x, par. 15). Questa attestazione spinge allora a ricercare le con-

dizioni che consentono tale assenza (ibi, parr. 23, 24). L'attestazione,

assunta come fondamento, è il principio della fenomenologia»”!. È necessario dunque togliere la differenza tra le costanti metasintattiche e quelle persintattiche per non cadere nel nichilismo. Sulla base dell'analisi fin qui condotta, si deve concludere che ne La struttura originaria (in modo particolare nei capp. xI e xn1) l’affermazione dell’apparire e scomparire dell’ente è ancora fondata sul nichilismo, cioè è ancora intesa come

uscire dal niente e tornare nel

niente. Un nichilismo riconducibile alla concezione fenomenologica non strutturata logicamente: a essa devono essere infatti ricondotte la

distinzione tra costanti metasintattiche e persintattiche e la convinzione che alcune situazioni o momenti (il tempo della non verità) sia un tempo accaduto al di fuori dell’accadere della verità, in cui cioè la ne-

gazione della verità è potuta accadere come non tolta, la concezione delle proposizioni sintetiche a posteriori e la distinzione tra intero immutabile e intero diveniente.

Può sembrare strano che proprio La struttura originaria, che affer-

ma esplicitamente l'identità immediata di F e L-immediato, includa an-

cora la concezione nichilistica del F-immediato, ossia il suo isolamento dal L-immediato, dall’identità-innegabilità logica dell'essere. In realtà * E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 77. 1° Ibidem.

La metafisica originaria

213

non è così strano. Facendo ritorno a quanto detto in apertura del capitolo (citando lo stesso Severino), non si può non rilevare che La struttura originaria “incomincia” a parlare la lingua della necessità e che «quando si incomincia a parlare una lingua diversa, si rimane a lungo

sotto la soggezione della lingua materna, cioè della lingua in cui nasce il mortale»?°, ossia la lingua del nichilismo. Per questo motivo può accadere che proprio ne La struttura originaria, in cui, per la prima volta nel pensiero filosofico, è posta la necessità dell’identità dell’immediatezza logica e fenomenologica, quell’identità, così fortemente riconosciuta e

affermata, sia anche negata nei suoi risvolti più profondi. Si tratta, cioè, del permanere presso il luogo di partenza (in questo caso il nichilismo) che caratterizza ogni

distacco

nel suo momento

iniziale; o anche

di

quella necessaria astrattezza, tipica di ogni inizio, che davanti al primo apparire di una cosa può solo iniziare ad accoglierla, nella parzialità che tale iniziare necessariamente porta con sé. Un'ultima osservazione, di particolare importanza. Il nichilismo de La struttura originaria deve essere inteso come il medesimo nichilismo che caratterizza il pensiero e la civiltà dell'Occidente, oppure il suo dimorare all’interno di un modo di concepire l’essere radicalmente opposto al nichilismo occidentale fa sì che si debba parlare di quel nichilismo in termini diversi? Si deve cioè concludere che tra il nichilismo residuale de La struttura originaria e quella occidentale non ci sia differenza? E se ci fosse, in cosa consisterebbe? In modo più o meno diretto Severino, nell’Introduzione (1981) a La struttura originaria ri-

sponde a questi interrogativi, in quanto evidenzia che in questo scritto «la testimonianza dell’impossibilità che l'ente non sia spinge verso la verità dell'essere anche il senso della “fenomenologia”, ossia del concetto dell’apparire dell’ente»*. Questo libro, proprio per come intende la fenomenologia, «rimane ancora sotto la soggezione della lingua che

testimonia l'isolamento della terra dalla Necessità»? ma d’altra parte,

Proprio in questo scritto, «la testimonianza dell’impossibilità che l’ente non sia spinge il senso della “fenomenologia” verso la verità dell’essere; e cioè un tratto della verità dell’essere (la L-immediatezza) spinge l'altro tratto (la F-immediatezza, la “fenomenologia”) verso il senso

che gli conviene nell'unità concreta dei due tratti e che ancora non rag-

glunge perché è soltanto spinto verso tale unità, anche nell’estrema vi-

e

_—

3 Ibi, p. 14,

2! Ibi, p. 18. Ibidem.

214

Cap. Il - La struttura originaria

cinanza di essa»??. 1] testo è molto chiaro: assodato senza alcun dubbio

il nichilismo de La struttura originaria, si tratta di comprenderlo come essenzialmente legato a quell’iniziare di cui già si parlava: «proprio per questo suo essere spinta verso la verità dell’essere, in questo libro la “fenomenologia” presenta un senso essenzialmente diverso da quello

che compete all’esistenza storica di tale concetto»?”.

Tale differenza è dunque da ricondurre essenzialmente alla consa-

pevolezza, da parte de La struttura originaria, che l’essere non possa nascere e morire, che non possa venire dal niente e tornare nel niente, Ma tale consapevolezza non è presente anche nella realizzazione storica del nichilismo? Non nello stesso senso che ora si sta affermando: in quella realizzazione, infatti, ossia

«nella esistenza storica della fenomenologia la volontà esplicita di riconoscere ciò che appare, e nella misura in cui appare, nasconde la volontà inconscia di coprire l’ente che appare con la forma nichilistica del suo uscire e ritornare nel niente; e quindi, essendo questa forma ad esser posta come ciò che appare, il fenomenismo appartiene all’essenza della fenomenologia, e la volontà inconscia di coprire con tale forma ciò che appare è protetta da quella volontà che l’ente in quanto ente sia niente, che costituisce il significato essenziale ed esso

stesso nascosto di tale forma»??5,

Per questo «Ia “fenomenologia” è inscritta nella struttura originaria della Necessità, che le conferisce un significato essenzialmente diverso»?%. Però, anche se ne La struttura originaria quella volontà inconscia di coprire l’ente che appare con la forma nichilistica nonè più «protetta» dalla volontà che l’ente sia niente, «questa volontà di co-

primento continua peraltro a operare quindi continua a operare implicitamente la volontà che l'ente sia niente»?”, Infatti, come già rilevato, ne La struttura originaria la F-immediatezza non è ancora posta come il luogo in cui è impossibile che appaia la derivazione dell'essere dal niente, «ma ci si limita a integrare il senso del divenire come uscire € tornare nel niente, col senso del divenire come comparire e scomparire dell’immutabile»?. Interessante a questo punto la considerazione seve-

353 Ibi, pp. 18-19. 3% Ibi, p. 18. 35 Ibi, pp. 19-20.

3% Ibi, p. 19. 3 Ibi, p. 20.

323 Ibidem.

La metafisica originaria

215

riniana: «questa integrazione segna il punto estremo sino al quale si spingela dominazione del nichilismo ne La struttura originaria, ma segna

anche il punto estremo sino al quale può spingersi la testimonianza della

verità dell'essere all’interno di un linguaggio dove non è ancora tramon-

tata la persuasione che l’uscire e il ritornare nel niente da parte dell'ente

appaia: [...] all’interno di questo linguaggio la testimonianza della verità dell'essere è così radicale da giungere ad affermare, entro questo stesso

linguaggio, addirittura il tratto che è la negazione di una caratteristica

essenziale di tale linguaggio (il tratto consistente cioè nel porre come

comparire e scomparire dell’immutabile il divenire che appare)». In realtà

«tutte le forme linguistiche di questo libro, che suonano apparentemente come

espressione diretta del nichilismo [...] devono essere intese alla luce del si-

gnificato che è loro conferito dalla testimonianza (convergente sul cap. xI1)

dell'impossibilità che l’ente in quanto ente non sia. [...] Ciò significa che, se le

forme linguistiche, che in questo libro esprimono apparentemente la presenza diretta del nichilismo, sono intese [...] come espressione della fede nichilistica

che questo contenuto sia dato, allora tutto il linguaggio de La struttura origi-

naria parla la lingua della Necessità e si sottrae interamente a ogni soggezione

alla lingua dell'Occidente e dell'isolamento della terra»?°°,

Severino in tutti i suoi scritti mostra come il suo pensiero sia la negazione di tutto ciò che è apparso «lungo la storia del mortale». E il linguaggio de La struttura originaria inizia appunto «a testimoniare ciò che non si lascia in alcun modo ricondurre al pensiero

dell'Occidente —, e ciononostante questo pensiero continui ad essere considerato, nel suo insieme, come positivamente coordinabile al senso autentico della struttura originaria, cioè come materiale in cui sono presentiti, sia pure in

modo inadeguato, i tratti fondamentali di tale struttura, e dove l'inadeguatezza del presentimento, per quanto profonda, è intesa non come sintomo di un errare che appartiene all’essenza alienata del pensiero occidentale, ma soltanto

come sintomo dell’incapacità di sviluppare in modo coerente e rigoroso la positività e verità implicita di tale pensiero»3"!.

Vi è dunque senza dubbio una differenza essenziale tra la lingua

che parla il nichilismo e il linguaggio che inizia a portarsene fuori; e —

_——

°° Ibidem.

|

% Ibi, pp. 21-22. ° Ibi, p. 42,

216

Cap. Il - La struttura originaria

una differenza che, per quanto carica dei limiti e delle permanenze che quell’iniziare porta con sé, non per questo smette di essere differenza,

Infine, un ultimo ordine di considerazioni. Sulla base di tale per-

manere nel nichilismo da parte del testo del 1958, in cui è esposta la struttura originaria, qualcuno potrebbe obiettare che la stessa struttura originaria sia figlia di quel nichilismo di cui si pone come esplicita negazione e che perciò essa non sarebbe affatto verità in quanto il testo che la testimonia permane nel nichilismo. Il fondamento implicito

di tale obiezione è l’identità tra la struttura originaria, quale struttura

dell’immediatezza o del fondamento, e il testo de La struttura originaria, in cui tale struttura è appunto esposta. In realtà, e a questo punto dovrebbe essere chiaro, la struttura originaria come

fondamento è

la posizione del carattere mediato dell’esistenza di qualcosa come La struttura originaria. Ossia: che esista qualcosa come un testo che si

intitola La struttura originaria, e che in tale testo sia testimoniata la

struttura originaria ecc., tutto ciò all’interno della struttura originaria

appare come frutto di una certa interpretazione storica. E, come tale, è un atto di fede per la struttura originaria: tale esistenza, infatti, non

mostra l’autonegatività del proprio negativo, la propria necessità, il proprio fondamento. In altre parole: l’obiezione che sostiene che la struttura originaria non è verità perché il testo che la testimonia rimane nel nichilismo, non vede che la struttura originaria (come fondamento) non è La struttura originaria (come scritto), e che perciò manca il

fondamento sulla cui base affermare che ciò che colpisce la seconda colpisce la prima. In conclusione,

il nichilismo de La struttura originaria è diverso

da quello occidentale per la consapevolezza della necessità dell'etemi-

tà dell'essere; e non inficia la verità della struttura originaria, giacché

questa, in quanto struttura dell’immediatezza, non è lo scritto storico

che la contiene. Tuttavia, come si è visto, tale nichilismo, pur non toccando la verità di fondamento della struttura, possiede certamente una

certa rilevanza all’interno del pensiero che testimonia la verità. E in questa sua rilevanza è stato considerato in queste pagine. 13. L’originario e il Tutto. Chiarimenti e conclusioni

Constatata la permanenza de La struttura originaria nel nichilismo e chiarito il valore che tale permanere possiede, è utile, anche in fun

L'originario e il Tutto. Chiarimenti e conclusioni

217

zione delle tematiche che verranno sviluppate nei prossimi capitoli, fare qualche precisazione finale, che, riassumendo quanto analizzato in tutto il capitolo, eviti fraintendimenti che potrebbero assumere anche

un certo rilievo.

In modo particolare ciò che nario in relazione alla totalità, concreta e infinita pur essendo, basilare, la cui posizione fonda

preme precisare è il senso dell’origiossia il suo distinguersi dalla totalità esso stesso, verità. Si tratta di un tema per intero anche l’ultimo capitolo di

questo scritto. L'originario è la verità: la struttura originaria è la struttu-

ra originaria della verità, lo stare dell'essere e l'essere dello stare. Essa è, come si legge nei testi successivi a quello de La struttura originaria, il de-stino in quanto stare. Ma tale stare dell'originario, in cui consiste

la verità in quanto fondamento, non è lo stare della verità in quanto totalità, pur trattandosi del medesimo stare. Questa definizione può risultare oscura e perciò deve essere chiarita. Si è visto che la struttura originaria è la verità in quanto fondamento: ciò che è immediatamente presente è l’originario, cio-è l’immediato, cio-è l’innegabile, dove essere presente (in quanto immediatamente noto, per sé e non per altro) significa esser-essere, ed esser-essere (cioè essere per sé e non per altro, negante originariamente il proprio negativo, essere una struttura logica innegabile) significa esser presente come essere. Come abbiamo visto, nel linguaggio de La struttura originaria l'immediatezza dell’originario è chiamata F- e L-immediatezza. In quanto originario, l'originario è struttura logico-semantica. In quanto fondamento, l'originario è struttura negante o sistema di toglimento originario del proprio negativo. Per questo aspetto l'esposizione della struttura originaria è l'esposizione del progressivo esser tolto del proprio negativo. In questo essenziale rogliere, la struttura originaria

è autoriflessività e dunque è lo stesso originario filosofare. In quanto tale, essa è dialettica originaria e dire originario. In quanto manifestazione processuale dell'intero, la struttura originaria non è la posizione concreta dell’intero: «la posizione originaria dell’universale concreto,

ossia dell'intero, è una posizione formale: tale cioè che il concreto va-

lore semantico del determinato non resta posto»?*. Si tratta della contraddizione dell’originario, ossia dell'originario come contraddizione.

Tralasciando il concetto Fa (par. 11), ciò cui ora si fa riferimento è la

contraddizione C quale posizione dell’impossibilità che l'originario sia

____—___——_—_—

19 Ibi, P. 200.

218

Cap. Il - La struttura originaria

il tutto (par. 10). L'originario è pertanto verità astratta; esso è il fonda.

mento, il ma nonè mento e il cessuale,

dire, l'apertura del significare, la dialettica, l'immediatezza, la totalità concreta dell’essere: esso è il presentarsi del fondafondamento del presentarsi. In quanto tale presentarsi è proesso è finitezza, cioè posizione astratta del tutto. Ciò spinge,

come vedremo, il linguaggio che testimonia il destino verso una nuova

terminologia, in cui l'originario è il destino in quanto apparire finito, mentre il destino in quanto totalità concreta prende il nome di apparire

infinito o Gioia, quale toglimento originario di ogni contraddizione (e dunque dolore). Ma dopo La struttura originaria sappiamo che le for-

me essenziali di contraddizione sono due: quella in cui la verità è negata, e quella in cui è solamente taciuta (contraddizione C). La negazione

della verità accade sempre e soltanto come autonegazione; ma anche tacere la verità non è già, in un certo modo, negarla? Tra non poter dire tutto e voler dire l'impossibile vi è una differenza sostanziale, anche se,

come si è visto, anche il non dire tutto significa dire ciò che qualcosa

concretamente non è, e dunque significa contraddirsi seppure in quel

modo unico che compete solo alla contraddizione C.

Ricollegandoci al capitolo precedente, potremmo dire che l’isola-

mento nichilistico della verità del destino dà luogo a una contraddizione del primo tipo, cioè alla negazione della verità, mentre il secondo tipo di contraddizione, ossia il silenzio sulla verità, è lo stesso silenzio della verità su sé stessa, ossia ciò che prende il nome di contraddizione C e che avvolge, costitutivamente ed essenzialmente, l’originario come tale. Quello stesso originario che, invece, consiste proprio nell’o-

riginario superamento dell’altra forma di contraddizione: l’isolamento nichilistico. Queste considerazioni sono direttamente collegate alle tematiche di riferimento dei capp. Iv e v e, in modo particolare, del primo paragrafo del cap. VI, in cui è esposta la premessa teoretica del contenuto dell’intero capitolo. In quest’ultimo contesto, infatti, si parla di tracce della Gioia e ci si ricollega alla tematica dell’inconscio dell'inconscio

analizzata nel primo capitolo. Potrebbe infatti sorgere la domanda st

quell’inconscio dell’inconscio sia la struttura originaria (l’originano come tutto formale) oppure il Tutto concreto. In realtà una simile domanda scaturisce da una concezione astratta del Tutto infinito, essendo

quest’ultimo la posizione concreta dell’originario. L'originario e il Tutto infinito (Gioia) non sono due determinazioni diverse, ma la pnmà

è la posizione astratta di sé stessa; la struttura originaria è la visione

L'originario e il Tutto. Chiarimenti e conclusioni

219

finita (parziale) che il destino ha di sé. L'apparire infinito del destino è

lo sguardo totale su se stesso, l’autovisione completa di sé. In quanto

inconscio dell'inconscio, la Gioia è (anche) la posizione concreta della struttura originaria; la Gioia è lo stesso originario pur non essendo

l'originario. Dicendo che non è l’originario non si dice che la Gioia,

quale totalità infinita e concreta, non sia fondamento, dire, ecc., ma che non può essere la struttura originaria in quanto questa è solo la posizione astratta di quel concreto, ossia è il concreto visto (saputo) in

modo astratto dalla sua concretezza o totalità. In questo senso l’originario, quale presentarsi finito dell'essere, è la verità pur non essendo la verità nella sua totale concretezza: «il cerchio finito dell’apparire del destino» non è il suo apparire infinito: «l'apparire infinito è l'apparire infinito del destino, e pertanto non è il cerchio finito del destino; e tut-

tavia esso è assolutamente questo cerchio finito»?*. A questa tematica è essenzialmente legato il rapporto tra la verità e il linguaggio: in quanto l’originario è dire originario, apertura originaria della verità, esso è linguaggio della verità; ma in quanto esso non è

la posizione concreta o infinita della verità (e dunque di sé), il suo dire

non è il dire della verità (ossia il dire che la verità è). È quanto inizie-

remo a considerare nel prossimo capitolo.

—___—_—_—_—_—_—_——&£

3 E, Severino, Oltrepassare, cit., p. 175.

CAPITOLO

TERZO

IL DESTINO E IL LINGUAGGIO

«L'identità è sempre (attualmente) portata da una differenza, ma la portatrice non riesce a nascondere e a smorzare ciò che essa porta» (E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 229)

1. Premessa

Nell’Introduzione a La struttura originaria si legge che «il termine “filosofia” indica la struttura originaria in quanto testimoniata dal linguaggio». Questa definizione pone non pochi interrogativi, tutti rivolti, in definitiva, alla natura del linguaggio che testimonia il destino:

che cos'è il linguaggio che testimonia la verità del destino? E destino esso stesso? E se non lo è, in che rapporto di alterità si trova con la verità che testimonia? E inoltre: la struttura originaria testimoniata dal linguaggio è diversa dalla struttura originaria in quanto non testimoniata dal linguaggio? Tutte queste domande sono essenzialmente collegate all’annoso dibattito filosofico sul linguaggio come rapporto tra segno e significato o parola e cosa); affrontarle, in questo contesto, offre l'opportunità di sviluppare la tematica della fondatezza e legittimità — fuori dal cammino occidentale epistemico e antiepistemico — della testimonianza della verità del destino. In linea generale e per ora solo introduttiva, possiamo distinguere due significati di linguaggio: il linguaggio della verità nel senso del genitivo soggettivo, ossia il linguaggio che la verità è, e il linguaggio della verità nel senso del genitivo oggettivo, ossia il linguaggio che parla della verità in quanto essa è il proprio oggetto: parla della verità pur non essendo la verità. Nella breve prefazione a Oltrepassare Si Incontra, a tale proposito, un interessante chiarimento, che è utile Nportare per esteso:

ee

TT

I E. Severino, . La struttura originaria, cit., p. 88.

222

Cap. tI - Il destino e il linguaggio

«È opportuno avvertire che l’espressione “il linguaggio che testimonia il destino” (di continuo ricorrente, insieme a “testimonianza del destino”, nelle

pagine che seguono — e nella Gloria) non è abbreviata in quella, più semplice,

di “linguaggio del destino”, perché è preferibile evitare equivoci piuttosto che il fastidio della ripetizione. L’equivoco, da un lato, che in quest’ultima espressione sia presente un genitivo soggettivo, ossia che il destino, in quanto tale, parli e sia un agire che produce il linguaggio (nemmeno “testimonianza del destino”, quindi, è un genitivo soggettivo); e, dall'altro, che quella espressione

sia confusa con l’identica espressione, presente soprattutto nei paragrafi In e IV del capitolo xIv di Destino della necessità, dove però essa non indica un agire del destino, ma la «traccia» che il destino lascia nella ‘contesa’ tra sée

la terra isolata — la “contesa” che sta al centro delle tematiche sviluppate da

Essenza del nichilismo in poi. In quei paragrafi di Destino della necessità [...] la contesa tra destino e isolamento della terra appare insieme come la contesa,

all’interno del linguaggio, fra le tracce che il destino lascia nel linguaggio e quelle che in esso sono lasciate dalla terra isolata — sì che la dimensione costituita da quelle prime tracce può essere chiamata “linguaggio del destino”. Le tracce del destino nella parola non sono la parola del destino, perché anche la parola, come volontà di parlare, appartiene alla volontà che costituisce l’essenza della terra isolata dal destino. Lungo la storia dei mortali [...] il linguaggio non testimonia il destino, ma la terra isolata. [...] Il linguaggio che riesce

a testimoniare il destino differisce quindi essenzialmente da quello in cui il destino lascia le proprie tracce. Appunto per questo in Destino della necessità

si dice: “[...] Il linguaggio nascosto, parlato dal destino, ma ancora indecifra-

bile per la stessa testimonianza del destino, è la traccia che la contesa lascia

nel linguaggio in verità parlato dai mortali”. E si aggiunge: “nemmeno la testimonianza del destino sa parlare il linguaggio del destino” (xiv, Iv, p. 514)».

Il presente capitolo intende dare risposta a questi interrogativi fondamentali, partendo dalla questione prioritaria (essenzialmente collegata al capitolo precedente) della possibilità di una esposizione dell'o riginario, ossia della legittimità dell’analisi di ciò che, per essenza, è € non può che essere sintesi. I testi severiniani di riferimenti sono principalmente Oltre il linguaggio e Tautòtes, accanto ad alcuni (fondamentali) contributi di Oltrepassare, Essenza del nichilismo e Destino della

necessità con cui i testi succitati verranno integrati.

? E. Severino, Oltrepassare, cit., pp. 21-23.

La struttura originaria e il linguaggio oltre il linguaggio

223

2. La struttura originaria e il linguaggio oltre il linguaggio

Si è visto che la struttura originaria è un complesso semantico-pre-

dicazionale in cui ogni determinazione è quello che è, concretamente,

solo in quanto parte o momento inseparabile di esso. Ciò significa che

l'isolamento di una determinazione dal tutto in cui consiste la struttura

nella sua concretezza produce un'aporia consistente — come s'è visto

- nella posizione astratta della parte, ossia nel concetto astratto dell’a-

stratto. La struttura originaria, nel suo essere totalità, è quella concre-

tezza che consiste nel toglimento originario dell’astrattezza sopra defi-

nita. In questo senso nel paragrafo intitolato l'esposizione del giudizio

originario (11, 2) si affermava che la struttura originaria «deve essere

compresa tutta insieme» e che essa è l'unione inscindibile di analisi e sintesi. Volendo individuare un fondo comune alle aporie dell’originario, si può dire che i tratti dell’originario, isolati dal tutto concreto, sono negazioni dell’originario: isolare le determinazioni dell’origina-

rio significa porre astrattamente il concreto, ossia porre controvertibilmente l’incontrovertibile. Se, in generale, le aporie sono l'isolamento di una determinazione dall’originario, gli esempi più significativi (s'è visto) sono quelli dell’esser-sé dell’essente, ovvero dell'identità che, implicando la differenza dei termini relati, per ciò stesso è e non è una non-identità; l'opposizione dell’essente al non-essente (che fonda l'innegabilità dell’innegabile) è e non è una non-opposizione, perché il non-essente appare (ne stiamo parlando!) e quindi l’innegabile non è innegabile; la negazione dell'essere è autonegazione, mentre il discorso che la esibisce non è l’innegabilità, per cui quest’ultima è tale sulla base di un “esibire” che non è l’innegabile; infine l'apparire dell’essente, che, poiché inizia ad apparire e poi smette, sembra essere un ente che nasce e muore, che viene dal nulla e torna nel nulla. Si è visto che le aporie della struttura originaria non ne mostrano la contraddittorietà, «ma mostrano che, nonostante la sua incontrover-

tibilità, essa è contraddetta da certi plessi concettuali che appaiono a loro volta come incontrovertibili»?. Hl toglimento delle aporie è dunque l'originario stesso in quanto posizione concreta dell’astratto. Si è anche visto che

__—————€@ J

è

E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 181.

224

Cap. tn - Il destino e il linguaggio

«la struttura originaria della Necessità è, innanzitutto, l'apertura di senso, concretamente determinata, che non può essere negata [...] nel senso che la nega. zione di tale apertura (ossia del senso che in essa si apre) è un togliersi da sé,‘

Ebbene, alla luce di tutto ciò, ora si intende riflettere sul fatto che

è il linguaggio a mostrare che l'originario è questa apertura di senso immediatamente negante il proprio negativo, ossia consistente nel toglimento originario delle aporie. Ma che sia il linguaggio a mostrare

la concretezza dell'originario, ovvero l'originario come concretezza, apre un problema: da una parte il linguaggio è l'atto che mostra che

l’originario è il concreto toglimento delle aporie, dall'altra proprio il linguaggio, che mostra come l’originario sia un tale toglimento, si trova avvolto in un’aporia, che ora indicheremo.

Le determinazioni della struttura sario (le costanti sintattiche) di ogni non appare la “sintassi” dell’essere. l’intramontabile: esiste un contenuto in quanto c’è qualcosa, uno sfondo,

originaria sono lo sfondo necesapparire: nulla può apparire se Ciò significa che l’originarioè che entra ed esce dall’apparire un intreccio logico-semantico di

predicati che non esce mai, che non tramonta mai. Questa è la struttura

originaria. Il linguaggio che dice l’originario non è però altrettanto intramontabile: in quanto linguaggio esso è anzi necessariamente sviluppo, incremento, progressione, integrazione, modificazione. La struttura originaria è lo sfondo che non può mai uscire dal cerchio dell’apparire (e per questo è intramontabile), mentre il linguaggio che la dice è il tramontante,

ciò che necessariamente entra ed esce dall’apparire in

quanto sviluppo, apparire e scomparire. La struttura originaria non può essere sviluppo e deve essere l’intramontabile, perché, essendo lo svi

luppo il progressivo «inoltrarsi degli eterni nel cerchio dell’apparire»’, se la struttura originaria fosse sviluppo non sarebbe più ciò che è, cioè l’innegabile, perché alcuni tratti resterebbero separati da altri e, così separati, tali tratti non solo non sarebbero più innegabili, ma sarebbero vere e proprie negazioni della struttura originaria. Insomma, pensiamo a cosa sarebbe il significato innegabilità senza quello di totalità (l’innegabilità non potrebbe escludere l’esistenza del proprio negativo) oppure quello di essenze senza quello di negante di essere non essente, 4 ® naria, “

E. Severino, La struttura originaria, Introduzione, cit., p. 16. Per l'approfondimento di tali questioni si rimanda in modo particolare a La struttura origiEssenza del nichilismo e alla n parte di Oltre il linguaggio. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 176.

La struttura originaria e il linguaggio oltre il linguaggio

225

ecc. Ciò pone un doppio problema: se il linguaggio è progresso e la struttura originaria immobilità, come può il linguaggio dire la verità della struttura? E anche ammettendo che il linguaggio dica la verità

della struttura, lo potrà fare solo perché ne ha delimitato i confini; il che ci conduce alla domanda: «quali sono allora i confini dell’essenza

della struttura originaria?»

Affinché il linguaggio possa essere l’atto che mostra che la struttura

originaria è il concreto dell’astratto, è necessario che l’aporia che lo

abbraccia sia originariamente tolta. Tuttavia, sulla base di quanto detto si deve affermare che, se anche il linguaggio che dice la struttura originaria è, in quanto linguaggio, necessariamente sviluppo, ebbene anche

esso non la dice una volta per tutte, ma «come ogni linguaggio, deve

ridire all'infinito ciò che esso dice». Il linguaggio che testimonia la

verità dunque ridice, sempre e di nuovo, la struttura originaria, la quale invece è ciò che non tramonta e mai può tramontare. L'essenza della struttura originaria è l’«esser sé dell’essente che appare, e che appare come ciò la cui negazione è autonegazione»’. Ma così ciò che è intramontabile è detto da ciò che appare e scompare, da ciò che tramonta, da ciò che è sviluppo, dove lo sviluppo è «l’inoltrarsi degli enti eterni nel cerchio dell’apparire, apparendo sempre più». Tuttavia, pur essendo vero che il linguaggio che testimonia la struttura originaria è uno sviluppo in tal senso, si deve anche affermare che «l'apparire di questo sviluppo non si sviluppa», nel senso che ciò che appare come contenuto dell’atto che è sviluppo, quel contenuto che

appare e il suo apparire, non si sviluppano. Lo sviluppo del linguaggio che dice la struttura originaria è sì uno sviluppo che dice un contenuto che non si sviluppa, ma il suo apparire, ossia l'apparire di quello sviluppo (che dice ciò che non si sviluppa), è un contenuto che non si sviluppa: in quanto contenuto che appare, lo sviluppo del linguaggio € uno dei contenuti del “contenuto che non si sviluppa”. Chiariamo quest’ultimo passaggio: in quanto l'apparire dello sviluppo (ossia l’apparire del linguaggio come sviluppo) è un apparire, esso è necessaria-

mente contenuto (come ogni altro apparire) nella struttura originaria, che è ciò che non si sviluppa. Quindi l'apparire di quello sviluppo appartlene al contenuto che non si sviluppa. Ricapitolando: mentre lo sviluppo del linguaggio, in quanto svilupPO, sì contrappone alla struttura originaria come ciò che non si svilup—_—_—___———_—_@—

* Ibi. p. 175. "Ibi, p. 176.

226

Cap. i

- Il destino e il linguaggio

pa, l'apparire di quello sviluppo, in quanto è un apparire, appartiene al

contenuto immobile cui si contrappone, in quanto la struttura originaria non può essere sviluppo, mentre il linguaggio è sviluppo. Si è infatti visto che le determinazioni della struttura originaria non possono “so. praggiungere”, perché altrimenti l’innegabile non sarebbe tale. Nel linguaggio che testimonia la verità (che, in quanto linguaggio, è sviluppo)

esse però sopraggiungono. Sembrerebbe pertanto impossibile dire la verità, in quanto il dire come tale comporterebbe sempre e comunque la negazione della stessa. Ebbene, è un problema dire la verità? Si deve rispondere di no. Il

problema sussiste solamente se e perché non si distingue lo sviluppo

del linguaggio dalla verità che tale sviluppo (il linguaggio) contiene: lo sviluppo, infatti, non appartiene alla verità ma al linguaggio. Il linguaggio che dice la struttura originaria non dice lo sviluppo di essa, ma la progressione di se stesso; il linguaggio dice cioè la progressività del proprio apparire: non è la struttura originaria ad apparire progressiva-

mente, ma il linguaggio che la dice. Essa, infatti, è già (da sempre) lì,

quando il linguaggio la dice nel modo in cui gli compete di apparire:

progressivamente. In questo senso, ne La struttura originaria si legge-

va che: «si è costretti a dire una cosa dopo l’altra (e quindi una cosa

fuori dell’altra); senza che il dopo esprima alcunché sulla natura del rapporto logico tra le due cose»?. Ritornando all’aporia del linguaggio, essa va formulata come segue: il linguaggio che mostra che le aporie sono originariamente tolte

dall’originario, produce un’aporia consistente in questo: il toglimento

delle aporie accade come aporia. «Quale determinazione toglie questa

più ampia aporia, per la quale tutto ciò che è necessariamente implicato dall’essenza della struttura originaria [...] è tuttavia introdotto dal linguaggio successivamente al momento originario in cui tale essenza pretende di valere come l’incontrovertibile?»!0. Poiché l'essenza della struttura originaria è l’autonegatività immediata del proprio negativo, è necessario che la contraddittorietà rappresentata da questa aporia contenga essa stessa una contraddizione, cioè sia, essa stessa, autocontraddittoria.

Mostrare

questa autocontraddit-

torietà significa mostrare che l’aporia è stata determinata dall'assenza

di una determinazione che è invece essenzialmente implicata dall'es:

senza dell’originario. Dunque, se per l’essenza dell’originario questo * E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 120. ®© E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 181.

La struttura originaria e il linguaggio oltre il linguaggio

227

mostrare è qualcosa di essenziale, e poiché questo mostrare accade nel linguaggio — che è sviluppo, progressione, apparire e scomparire — si finisce col dire che l’essenza dell'intramontabile è affidata al tramon-

tante. Come è possibile che le cose stiano così?

Per rispondere partiamo da qui: che l'essenza della struttura originaria sia l’innegabile significa che la sua strutturazione concreta

non sopraggiunge nell’apparire, ma vi appare originariamente. Perciò la struttura originaria include originariamente quelle determinazioni (essenziali) che invece vengono

via via poste da quello sviluppo che

è il linguaggio. In questo senso «ciò che appare come e nella struttura originaria è sempre più ampio di ciò che il linguaggio, nel suo sviluppo, ne dice»!!. Inoltre «ogni linguaggio, anche quello che parla dell'originario, proprio in quanto si sviluppa è sempre finito a ogni livello del suo sviluppo [...]. L'essenza linguistica della struttura origi-

naria si contraddice — e tuttavia è l’incontrovertibile»'?, Ed è tale «per il suo significato implicito [...] ossia per la totalità delle determina-

zioni della struttura originaria [...] che appaiono originariamente, già

prima di mostrarsi nello sviluppo del linguaggio (cioè nello sviluppo dell’esplicito)»'*. In questo senso l’implicito è «l'apparire della totalità dell’originario». «E questa totalità è il sottinteso della definizione, ossia dell’essenza linguistica dell'originario»!*. In quanto tale, la totalità

o originario concreto appare già, ossia senza il linguaggio che lo dice; quell’implicito è già lì, originariamente, quando la parola che lo nomina (l’esplicito) inizia il suo disvelamento progressivo. Il che può anche essere detto così: «che, dunque, il significato appaia senza l’apparire della parola che lo indica, si può e anzi è necessario affermarlo perché e solo perché l’incontrovertibile esiste». Sulla base delle considerazioni svolte, non si deve solo affermare

che l'originario è oltre il linguaggio, ma che c’è un senso del linguagg10 per cui si deve affermare che il linguaggio stesso è o/tre il linguaggio: il linguaggio originario è cioè oltre il linguaggio storico. In questo senso Severino può affermare che «il linguaggio appare anche là dove

èsso non appare»!f, ossia là dove ancora non c’è il significato storico

che lo nomini. Il che spiega bene il titolo Oltre il linguaggio.

=____———_—_—_——_—

"Ibi, p. 184. "Ibi, pp. 188-189. " Ibi, p. 189. “ Ibidem. '5 Ibi, p. 190. "Ibi, p. 202.

228

Cap. ui - Il destino e il linguaggio Il comparire e lo scomparire del linguaggio che testimonia l’origi-

naro «ha verità solo in quanto l'originario già appare nel silenzio dei linguaggi storici»!”. E ancora:

«È mostrandosi nel linguaggio che l’originario mostra il proprio trascendi. mento nel linguaggio. [...]. E all’interno della situazione in cui la parola non può essere evitata che appare la necessità che la cosa (il destino) trascenda e

circondi la parola»!*.

Linguaggio e originario sì trovano inseparabilmente uniti, ma «nemmeno in questa situazione l’originario è catturato e vanificato dalla storicità del linguaggio»! In altre parole: «quell’essente eterno

che l’unità dell’originario [...] e del linguaggio ammette accanto a sé, nell’essere, quell’essente eterno che è l'originario in quanto si lascia

alle spalle il linguaggio»?0. E che cos'è l'originario che si lascia alle spalle il linguaggio, cioè lo sviluppo, la processualità dell’accadere?È

«quell’essente eterno che è il destino come Totalità infinita che da sem-

pre oltrepassa ogni contraddizione e quindi anche la contraddizione del linguaggio, mantenendosi da sempre al di sopra dell'isolamento della

terra, e circondandolo»?!.

3. La parola e la cosa: differenze e identità, segno e significato

Rivisitando la tematica dell'Occidente come percorso necessario dall’affermazione dell’episréme alla sua negazione, si può dire che l'e-

pistéme ha dato luogo proprio al tentativo (fallimentare) di affermare

l'indipendenza del significato dalla parola che lo dice, mentre l’antie-

pistème (filosofie della “svolta linguistica”) ha mostrato che l’impossi-

bilità di una verità assoluta coincide con l’inseparabilità di parola e si gnificato. Il che è facilmente intuibile: se l’epistéme afferma l’esistenza di una verità eterna, è chiaro che il linguaggio, in quanto sviluppo e processo, è storico e dunque è diverso ed esterno a tale verità; pertanto, se la verità è la cosa (il significato), ne risulterà necessariamente la sua sporgenza rispetto alla parola (segno); se, invece, si nega l’esistenza di

una verità eterna, come fa il pensiero contemporaneo antiepistemico, !? Ibi, pp. 205-206.

1 Jbi, p. 207. ‘° Ibi, p. 208.

® Ibidem. 2 Ihidem.

La parola e la cosa: differenze e identità, segno e significato

229

è chiaro che il significato (la cosa) sarà storico e perciò coinciderà, di volta in volta, con la parola storica che lo nomina: la parola è la cosa

stessa; è autocontraddittorio cercare la cosa oltre la parola.

Dove si colloca, in questo panorama, il pensiero che testimonia il destino? Ripensare l’epistéme fuori dal cammino occidentale significa forse mostrare incontraddittoriamente l'indipendenza del significato dalla parola che lo dice? In questo paragrafo si intende proprio mettere in luce il rapporto tra parola e cosa in quanto questione del rapporto tra il pensiero che testimonia il destino e il destino. In quanto il destino non è l’epistéme occidentale, esso esiste necessariamente e include, nel proprio stesso significato, la necessità dell’indipendenza tra parola e significato: in quanto il significare del destino è ciò che originariamente è e sta, non può coincidere con il farsi del linguaggio. Se il significare del destino fosse tale, non sarebbe originario e perciò non sarebbe incontrovertibile: la sua incontrovertibilità sarebbe lo stesso processo (linguistico) del divenire se stesso e quindi

del non essere se stesso. C'è dunque uno scarto essenziale tra l’originario come originaria autonegatività del proprio negativo (e quindi come totalità concreta) e l'originario detto dal linguaggio, progressivamente, nell'esposizione che toglie via via le contraddizioni (o l'isolamento delle sue determinazioni).

Queste affermazioni partono dal significato del destino della verità come assolutamente innegabile. Ma anche quel significato non è forse interno a un linguaggio storico? In altri termini: «come è possibile parlare del destino della verità, se si riconosce che la parola è la forma della cosa e cioè che il significato appare all’interno della parola?»?? Inoltre, ammesso che sia possibile quel significato di destino della verità, il parlare come tale (cioè in quanto sviluppo storico) non è il contenere

nella storia ciò che per definizione è a-storico? Se il destino è lo stare inamovibile, mentre la parola è sviluppo, storicità e pertanto instabilità

(«la parola storica rinvia infatti indefinitamente ad altre parole storiche

che ne condizionano e modificano il significato, togliendogli quindi ogni stabilità»?3), apparendo nel linguaggio, cioè nel divenire della stoNa, il destino non smette per ciò stesso di essere lo stare inamovibile? Ossia; può essere se stesso lo stare del destino all’interno della instabi-

lità della parola? Là dove il significato è Geschick (e si noti la conso_——T———&

2 Ibi, p.217. ® Ibidem.

230

Cap. 111 - Il destino e il linguaggio

nanza con Geschichte e Geschen, ossia con l’accadere puro) può essere

affermato lo stare del de-stino? Alla luce delle premesse sembrerebbe

necessario concludere di no, che «il senso del de-stino volta le spalle al

senso del Geschick»*. Prima di seguire l’esposizione di Oltre il linguaggio, in cui viene data una definitiva risposta alla questione, è bene riportare quanto Severino afferma sul significato del significato in O/trepassare: «Domandare

il significato del significato è dunque una autonegantesi nega-

zione del destino della verità, che, come apparire dell’esser sé del significa-

to, negando la negazione dell’esser sé del significato, nega la negazione del

significato»?!.

Severino, in quelle pagine, sta rilevando come il chiedere il significato di qualcosa che appare significa chiedere il significato “nascosto” (potremmo anche dire ulteriore) di ciò che, in quanto appare e proprio perché appare, già mostra un certo significato. In questo senso si deve rilevare che la problematizzazione del significato «si fonda su ciò che essa problematizza. E poiché assumere come problema qualcosa è negarne l’incontrovertibilità, problematizzare il significato (chiedendo, appunto, quale sia il significato del significato o che cosa significhi il significare) è una negazione che nega se stesso (S.O., I, 25). (La negazione

del significato è autonegazione perché il destino, come apparire dell’esser sé dell’essente, è l'apparire dell’esser sé del significato, e l’autonegazione della negazione dell’esser sé è l’autonegazione della negazione di ciò che è se stes-

so, ossia del significato — dove la negazione del significato si configura via via come domanda sul significato del significato, come negazione dell'essere e dell’apparire del significato, come affermazione dell’insignificanza del significato, ecc.)»?9. Passaggio di grande rilievo teoretico, questo, che racchiude uno

degli aspetti fondamentali del destino. Rispetto alla assoluta incontrovertibilità del destino, l’esistenza di una lingua storica, rileva Sever-

no, «è un voluto (qualcosa, cioè, di cui si vuole l’esistenza — si ha fede in essa — senza sapere che la si vuole, ma anzi, per lo più, ritenendo

che il voluto sia un constatato, che è già lì, indipendentemente da ogni % Ibi, p.218. * E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 388. ® Ibi, p. 386.

La parola e la cosa: differenze e identità, segno e significato

231

volontà umana). L'esistenza stessa della “storia” come sistema diacro-

nico è un voluto»??, Ma dunque che cos'è la parola? E che rapporto c’è, se c’è, tra la parola e la cosa di cui la parola intende essere parola? In quanto la parola dice la cosa, la parola non è la cosa, è altro da essa; ma è legittimo

porre l’alterità di cosa e parola, intendendo con “cosa” il significato?

Questi interrogativi hanno caratterizzato da sempre il dibattito filoso-

fico sul linguaggio, divenendo fondamentali in quello contemporaneo. Oltre il linguaggio, rispondendo alla questione sulla legittimità della testimonianza del destino, dà anche una risposta assoluta al dibattito sul rapporto tra segno e significato. Se il rapporto segno-significato non è di assoluta identità, come è possibile che il linguaggio testimoni

il destino della verità? Cosa testimonia, qual è il contenuto del suo dire,

se è vero che tra dire e detto c'è una frattura? Se ogni dire è altro da ciò

che dice, il dire che dice la verità è dunque altro dalla verità? Quel dire è cioè non verità? Per rispondere a queste domande fondamentali, partiamo da qui: «per quanto complessa possa risultare la relazione tra la parola e la cosa, il linguaggio è questa relazione»?®. Se si afferma che il linguaggio non è questa relazione, ma che è solo parola, allora «la parola diventa una cosa, cioè diventa puro significato: quel significato puro (separato dalla parola) a cui le filosofie “della svolta linguistica” negano la possibilità di apparire e di essere. Se esistesse soltanto la parola, e non ciò di cui la parola è parola, il linguaggio non esisterebbe»?*. Tale relazione

parola-cosa, in cui consiste il linguaggio, appare — rileva Severino - e, in quanto appare, è innegabile, dal momento che «l'apparire è un tratto

del destino della verità»?,

Dunque la parola non è la cosa e viceversa, ma c’è una relazione tra

la parola e la cosa, consistente nella necessità che la parola parli della

cosa, anche se, come ora vedremo, la relazione tra cosa e parola non è

una relazione necessaria. In quanto la parola parla della cosa, la cosa è il “significato” della parola; tuttavia, quel significato, proprio in quanto distinto dalla parola che lo indica, «è un significato che si costituisce a sua volta come parola, attraverso o all’interno di una parola». La —_—___————_—_—_—_—_—_È—

NE, Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 218.

" Ibi, p. 213, " Ibi, p. 214. ® Ibidem.

Ibi, p. 215.

i

232

Cap. Hi - Il destino e il linguaggio

parola è necessariamente

la forma

della cosa, ossia «il modo

in cui

il significato è significante», in quanto il significato non può apparire «separatamente dal modo in cui è significante»??, Tuttavia, anche se il significato appare come parola (dove tale apparire, proprio in quanto apparire, è innegabile), quel significato non è la parola: il nesso tra parola e significato non è un nesso necessario, La parola è necessariamente relazione al significato, proprio in quanto essa è costitutivamente forma del significato, ma un certo significato

può essere detto anche da altre parole: non c'è pertanto alcun nesso ne-

cessario tra una certa parola e un certo significato. Si deve concludere che il significato, per essere se stesso, non implica la parola. Ma questa differenza tra parola e cosa è la medesima differenza che il pensiero contemporaneo, liberandosi dalla e della prospettiva epistemica, è condotto ad affermare quando rileva la semplice fattualità del rapporto tra parola e cosa? La differenza tra l'affermazione severiniana e quella del pensiero contemporaneo è evidente: il discorso che Oltre il linguaggio sta sviluppando mostra come la parola non sia la cosa, perché la cosa (il significato) è eterna e stabile, mentre la parola (forma) è storica e instabile. Dunque il legame tra parola e cosa non è necessario. Ma non nel senso che non sia necessario il legame (eterno e necessario come ogni ente) tra l'apparire della parola e della cosa, bensì nel senso che

non è necessario che quel legame (necessario) dica l'essenza della cosa detta dalla parola. Eterno e dunque necessario il legame che si presenta

nell’apparire tra parola e cosa, ma non necessario il legame tra parola e

cosa se con ciò si intende che slegando cosa e parola si produce una contraddizione specifica (diversa cioè da quella generale appena rilevata):

«Nel cerchio eterno dell’apparire è entrato quell’eterno che è la relazione di parola e cosa, ma è possibile che esista anche quell’eterno che è la cosa senza la parola (non la cosa în quanto è questa che è unita alla parola — e tale unione è un eterno —, ma in quanto è un significato che possiede una particolare similarità alla cosa in quanto è questa (cfr. Destino della necessità, cit., cap. v1), ed è possibile che anch’esso abbia a entrare nel cerchio dell’ apparire»”?.d

Nel pensiero contemporaneo, invece, manca completamente lo stare del destino, ossia l'eternità generale della relazione tra parola e cosa: si tratta di fatti che accadono, la parola e la cosa, legati dal loro comune far parte del divenire. ® Ibi, p. 215. 8 Ibi, p. 217.

La parola e la cosa: differenze e identità, segno e significato

233

Se Ja parola, che in quanto “forma” della cosa è separata da essa,

è essenzialmente storica, cioè instabile, diveniente, continuamente rin-

viante ad altre parole, storiche anch’esse e quindi soggette a cambiare

e dipendere da altre parole, la parola non è forse una forma in continua modificazione? Ebbene, in questo continuo cambiare e modificarsi della forma, non viene necessariamente modificato anche il significato del destino? In altri termini: la parola storica non rende instabile il destino?

Pare che se il linguaggio è, nella sua essenza, volontà di imporre un certo senso e certe relazioni tra parola e cosa, allora anche il destino, in quanto detto dal linguaggio, è da ricondursi alla medesima volontà: una volontà di stare, destinata a essere travolta da un’altra, inevitabile, volontà.

La filosofia contemporanea, rifacendosi spesso a Heidegger, nel porre questo rilievo dimentica un aspetto fondamentale della sua stessa posizione: che un certo sistema linguistico non è qualcosa di oggettivo ma un’ipolesi interpretativa: «Che l'insieme di eventi comunemente considerati come quel che ci rimane

dell'antica lingua greca sia un sistema linguistico unitario, dove ogni parola

interagisce indefinitamente con le altre e con quelle di altri sistemi linguistici della stessa area, questo, diciamo, è un insieme di ipotesi delle scienze del linguaggio — così come è un'ipotesi interpretativa che un certo insieme di even-

li sia comunemente considerato come quel che ci rimane dell’antica lingua greca. Non è sufficiente che in un libro, in un codice, in un papiro una parola si presenti insieme ad altre, per affermare che tale parola forma con esse un sistema linguistico oggettivo. L'“oggettività” del sistema è la volontà — in cui ci si trova — che un certo insieme di eventi sia un sistema oggettivo»**.

Il significato appare certamente all’interno di un certo linguaggio storico, ma questo suo apparire, intrecciato e in ciò condizionato da altre parole, e l'intreccio con altri linguaggi, «non è una evidenza incontrovertibile, ma è, appunto, un voluto, qualcosa di posto dalla volontà interpretante, contenuto in una fede. [...] È sul fondamento

di questa fede che, nella forma linguistica che il significato assume (di fatto) si vede ciò che impedisce al significato di costituirsi come de-stino»”.

| Ad esempio, in relazione al rilievo di Derrida sull’impossibilità che Il significato “essere” non possa essere per Heidegger e

——___

* Ibi, p. 219.

" Ibi, P. 220.

234

Cap. iti - Il destino e il linguaggio

«“un significato primo e assolutamente irriducibile”, perché “così com'è fis. sato nelle sue forme sintattiche e lessicologiche generali all’interno dell’area

linguistica della filosofia occidentale è ancora radicato in un sisterna di lingue ed in una ‘significanza’ storica determinata” (J. Derrida, Della grammatolo-

gia, Jaca Book, Milano, 1969, pp. 76-77)»*%,

Severino fa notare che quel significato, come ogni altro significato,è posto come impossibile sulla base di quella che abbiamo appena visto essere una fede e non una evidenza incontrovertibile. In questo senso, mette in luce il testo che stiamo considerando, se per il pensiero contemporaneo l’“essere” non può essere un significato incontrovertibile

sulla base della storicità del linguaggio, quel pensiero, per distruggere la fissità o stabilità dei significati, smentisce la propria antiepistemicità, facendosi sostenitore della necessità del radicamento di ogni significa-

to in un sistema di relazioni (linguaggio storico). Se, infatti, in coeren-

za con le proprie premesse, il pensiero contemporaneo affermasse che quel radicamento non esprime una necessità ma solo una possibilità, ossia che quel trovarsi delle parole le une accanto alle altre è un semplice fatto, allora dovrebbe anche affermare che «il significato di ogni parola è indipendente dal significato di ogni altra parola»?”. Ma poiché questo è proprio ciò che il pensiero contemporaneo non vuole e non può riconoscere, allora trasforma il radicamento da possibilità a necessità assolutamente incontrovertibile: «si trasforma il voluto in una oggettività indiscutibile»?. Il significato è l'apertura di un senso: esso è l’essente, sottolinea Se-

verino, esso è la cosa. La parola parla della cosa in quanto una certa volontà unisce una certa parola a una certa cosa (significato): è la volontà

di unire la parola de-stino a quella «cosa» che è il destino. La volontà di

parlare della verità, la stessa testimonianza della verità, non è la verità

(cfr. infra, par. 6). Ma allora la verità, la cosa, il significato “destino”

cos'è se la parola ne è la negazione? Non ne stiamo forse parlando? E parlando non lo dissolviamo, negandolo nella sua essenza più profonda? «Per il fatto di avere come forma la parola, la cosa non svanisce. Non può svanire, perché è l'identità a cui si rivolgono i diversi modi di parlame»”. Ma alla differenza della parola non corrisponde forse

» Ibi, p. 219. Jbi, p. 221. % Ibidem.

% Ibi, p. 223,

La parola e la cosa: differenze e identità, segno e significato

235

anche una differenza della cosa? Certamente, rileva Severino, ma «la

differenza della parola o della cosa non può spingersi fino al punto di sopprimerne l’identità. L'identità è l’esser sé dell’essente, il suo esser

sé e non l’altro. Ma l’identità, in questo suo significato fondamentale, non è qualcosa di diverso dalla permanenza dell’essente»*. Che cos'è dunque l'identità? Essa è ciò che permane nell’apparire (cfr. prossimo paragrafo e prossimo capitolo); e si dice che permane in quanto si relaziona a ciò che non permane nell’apparire:

«La diversità dei modi di parlare della cosa è appunto un sopraggiungere e un andarsene di quelle cose che sono le parole della cosa — giacché i diversi, infiniti, modi di parlare della cosa non sono detti tutti insieme, ma in una suc-

cessione, che è tale solo in relazione al permanere dell’identità»*!.

Le parole sono dunque i modi, le forme, in cui la cosa viene detta, ossia i modi in cui la parola è forma della cosa, la quale è l’identità a cui questi modi si riferiscono: se essi non si riferissero alla cosa (identità), non potrebbero essere le differenze che sono: «se si nega questa identità [...], questo significato identico lo si ha sotto gli occhi proprio nell'atto in cui lo si nega, e proprio per poterlo negare». La tematica che il testo in esame sta introducendo è una tematica fondamentale, che verrà sviluppata anche nel prossimo capitolo: per negare qualcosa, esso deve apparire. Se i diversi modi di dire la cosa, ossia le parole come forma e quindi differenza, sono diversi modi di dire lo stesso e si vogliono tenere fermi in questo loro porre lo stesso come sempre diverso, se cioè si intende dire che le parole sono la negazione del significato “destino”, proprio per dire ciò, si implica necessariamente che essi si riferiscano al medesimo significato: altrimenti sarebbero via via parole sempre nuove e per nulla legate tra loro. Come tali, non negherebbero affatto che il significato destino non può essere posto perché le parole non lo possono dire: le parole sono negazione della stabilità di un certo significato solo se si riferiscono a quel medesimo significato. Ciò comporta che esse, paradossalmente, lo stabilizzino proprio nell’atto In cul tentano di destabilizzarlo, in quanto per destabilizzarlo devono Nconoscerlo e implicarlo come significato identico, come l'apparire di una identità di fondo. Se non gli si riferissero in questo modo, non

Potrebbero nemmeno negarne la stabilità! n __



© Ibi, p. 224. 4 Ibidem. * Ibidem.

236

Cap. ni - Il destino e il linguaggio

Se si nega che il linguaggio sia affermazione di identità, se si afferma che sia il puro differenziarsi, rileva Severino, si afferma insieme che il linguaggio è posizione dell’identità delle differenze come tali: per essere la differenza che è, ogni differenza deve essere differenza, e dunque qualcosa di identico: l'identità delle differenze. Ogni differen.

za è identica alle altre in quanto differenza. Anche se questa identità delle differenze non è «l’identità a cui esse si riferiscono [...], l'identità

delle differenze è sufficiente a smentire la tesi che il linguaggio (e il mondo) sia differenza pura, senza identità»*. Inoltre, se non esistesse nessuna identità, le differenze non potrebbero costituirsi come tali,

ossia come modo differente di parlare di qualcosa: tale qualcosa «è l’identità a cui le differenze del linguaggio si riferiscono [...] e quindi le differenze sono identiche non solo perché ognuna è differenza, ma anche perché ognuna è un parlare di qualcosa». Dunque, affinché le

differenze siano tali, cioè un differente modo di parlare di qualcosa,è

necessario che quel qualcosa sia l’identità di cui esse parlano e a cuisi

riferiscono. Altrimenti «il linguaggio parlerebbe di niente. Se parla di

qualcosa (l’essere essente) è l'identità a cui le differenze del linguaggio si riferiscono». L’apparire dell’identità è condizione dell’apparire delle differenze:

«Se il giorno non apparisse più quando la notte sopraggiunge (...) la notte non sopraggiungerebbe rispetto a niente: non apparendo ciò rispetto a cui essa

sopraggiunge, non potrebbe apparire il suo sopraggiungere»*?.

Il giorno, dunque, appare prima dell’apparire della notte e continua ad apparire, ossia permane. Affinché la notte possa sopraggiungere, è necessario che il giorno che appariva prima e il giorno che appare poi sia il medesimo e che la loro inevitabile differenza sia sottesa da un'identità, «cioè dall'essere sé, che permane, dopo essere apparso prima, nell’apparire del poi. (L'identità eterna permane nel sopraggiungere delle differenze eterne). L'apparire di questa identità è appunto il fondamento dell’apparire del

poi come poi»*?, * Ibi, p. 225.

# Ibi, p. 226. 4 Ibidem.

* Ibidem. * Ibi, pp. 226-227.

La parola e la cosa: differenze e identità, segno e significato

237

Pertanto, se si riconosce il sopraggiungere delle differenze e si intende negare l’esistenza dell’identità, ci si contraddice perché l’identità

è il fondamento dell’apparire delle differenze.

Le differenze sono le parole in quanto forma che via via cambia;

l'identità è la cosa, il significato indicato dalle differenze. Ma in quanto questa identità, in cui consiste il significato (la cosa), appare all’interno di una parola (differenza), ciò che appare non è

il significato, Da

una parte l'identità non è riconducibile alle differenze, dall’altra essa

appare invece sempre mescolata con esse. Ma il discorso di Oltre il lin-

guaggio sta affermando che, nonostante non appaia, l'identità pura c’è, e dunque appare, dietro le differenze. Il fondamento di questa affermazione consiste nell’impossibilità che l’ apparire avvolta dalla differenza incida sull'identità dell'identità, ovvero che «l'identità è identità non in quanto avvolta da una differenza. [...] L'identità

è identità nel suo essere avvolta da una qualsiasi delle differenze che la indi-

cano. [...] L'identità è sempre (attualmente) portata da una differenza, ma la portatrice non riesce a nascondere e a smorzare ciò che essa porta»**.

L'identità è e appare come identità: cambiando infinitamente, l’identità permane; se non permanesse, non potrebbe apparire il cambiamento. Il cambiamento che appare può apparire solo in quanto appare una certa identità e dunque il permanente: «Il permanente è l'identità in quanto sottesa al cambiamento. Nel cerchio dell’apparire, solo il permanere può cambiare. Se l'identità non apparisse, il cambiamento non potrebbe apparire come il suo cambiamento»*.

Uno sguardo poco attento potrebbe chiedere se questa identitàpermanenza non sia in fondo il medesimo sostrato (di stampo aristotelico-cartesiano) affermato dalla tradizione filosofica epistemica, che soggiace, quale base permanente, ai suoi predicati. La differenza fondamentale tra le due posizioni è data innanzitutto dal rapporto tra lidentità e le sue differenze, tali per cui l'identità è la totalità del pro-

prio essere insieme (il prossimo paragrafo riprende e sviluppa questa tematica) e, soprattutto perché, come evidenzia costantemente il testo In esame, si tratta di differenze e di identità eterne, in cui cioè non è mai

In questione il loro diventare niente. e

“ Ibi, pp. 228-229.

“Ibi, p. 229.

238

Cap. nt - Il destino e il linguaggio

L’apparire presenta l’avanzare e il congedarsi delle cose, ma questo

divenire non ha il senso che l'Occidente gli assegna. Ogni accadere

implica un prima e un poi; l'identità è ciò che rimane nel prima e nel poi, giacché se non vi rimanesse non potrebbero essere individuati un prima e un poi: essa è

«ciò che vi è di identico in una certa parte della totalità del prima e in una certa parte della totalità del poi. Ma se questa identità non appare non ci può essere memoria del prima — la memoria essendo il permanere del prima nel poi»,

L'identità dunque, anche se appare sempre avvolta dalla differenza, non per questo ne è modificata; così come il suo non esserne toccata non significa però che ne sia separata: essa, rileva Severino, ne è distinta: «dire che è necessario che l’identità appaia è dire che è necessario che essa appaia in questo distinguersi»5!. Ma come è possibile che l’identità sia avvolta eppure distinta dalla parola che la nomina, e che ne sia distinta ma non separata? Il che equivale a chiedere: che cos'è l’identità e in che senso è legittimo parlare di identità come permanenza? 4. Identità e permanenza

Sulla base di quanto detto, potrebbe sembrare che l'identità sia qualcosa che non può che restare al di fuori di ogni dire, proprio in quanto distinta dalla parola ed esistente oltre essa: persa appena detta. Si vuole forse intendere che l’identità è propriamente l’indicibile? Severino risponde esplicitamente all’interrogativo: «L'identità non è l’indicibile. Anzi, è proprio ciò che è detto. Essa si distingue dalle differenze del dire non perché sia l’indicibile, ma perché differisce dalle

differenze», e ne differisce «perché è una differenza qualsiasi, all’interno di un

certo insieme di differenze qualsiasi, la quale, in quanto qualsiasi [...] è quel

che vi è di identico in ciò a cui si riferiscono tutte le differenze di quell'insie-

me. L'identità è identità [...] in quanto è differenza qualsiasi. L'indifferenza

della (o rispetto alla) differenza è l'identità che è avvolta dalla differenza» 5 Ibidem. Per lo sviluppo di questa tematica si rimanda al prossimo capitolo.

S' Ibi, p. 230. *? Ibidem.

Identità e permanenza

239

Il senso del discorso si chiarisce alla fine: l'identità è tale in quanto, all’interno di un certo insieme, essa è quella differenza che rimane indifferente alle differenze; mentre ogni altra differenza (parola) è mo-

dificata dalle altre differenze (parole), l’identità (significato) è quella differenza che, per quanto avvolta dalle differenze, non ne viene toc-

cata o alterata, rimane cioè indifferente alle differenze. In questo senso essa è la «differenza qualsiasi».

«La parola parla di una molteplicità infinita di identità: ogni identità si diffe-

renzia infinitamente nelle parole che la esprimono. [...] Ciò a cui si riferisce

quanto qui stiamo dicendo è un'altra identità, estremamente più complessa

perché raccoglie in sé la totalità delle identità e del loro differenziarsi nella parola. L'identità a cui si riferisce [...] è il destino della verità [...]: il destino è l'identità, a cui si riferiscono le diverse lingue che possono parlare di esso, perché la lingua che qui parla il destino è una lingua qualsiasi, che, in quanto

qualsiasi, e dunque non in quanto è quella certa lingua che è, è quel che vi è di identico in ciò a cui si riferiscono tutte le lingue che possono parlare del destino della verità»”.

Questo passaggio sembrava particolarmente importante e per questo lo si è riportato quasi per esteso. «L'universale è un particolare che, in quanto è un particolare qualsiasi (e dunque non in quanto è quel particolare che esso è), non solo indica, ma è l’identità che è presente in tutti i particolari di un certo insieme». Si sta dicendo che un certo insieme di differenze è tale in quanto-

sottende un’identità, che è appunto «la relazione che unisce una differenza qualsiasi a tutte le differenze di tale insieme». La differenza qualsiasi, se separata dalle altre differenze, è una semplice differenza; solo in quanto unita alle differenze, quale loro predicato, essa è identità. In questo senso l’universale «non è un semplice elemento semantico: è semantico-apofantico; ossia è predicazione, quella in cui l’identità è il predicato delle differenze». Rispetto alle differenze l'identità è dunque un universale. Ma che rapporto c’è tra la differenza qualsiasi e il «linguaggio originario», il linguaggio oltre il linguaggio, non storico, ——_—_—____—

S Ibi, p. 231.

% Ibi, p. 234. 5 Ibidem.

“ Ibi, P. 235.

240

Cap. ul - Il destino e il linguaggio

di cui abbiamo parlato in precedenza? Il destino è l’identità in cui «si

manifesta incontrovertibilmente la totalità delle identità e il rapporto tra l’identità e la differenza. [...] L'eternità dell’essente che appareè

l'eternità dell'identità avvolta dalla parola — è l'eternità della parola

come forma della cosa»??. Nella non verità (nell’isolamento della terra

dal destino) la parola è «esposta alla propria smentita». E lo è «perché sembra rinviare a infinite altre parole che ne modificano e ne condizio-

nano il senso. [...] Di questo sono consapevoli (pur mantenendosi nella

non verità) le filosofie della “svolta linguistica”. L'identità si perde nel

suo differenziarsi infinito. Ogni parola è storica», Ma eccoci dunque

al punto decisivo: la parola è storica perché «parla al di fuori del destino della verità. /! destino della verità è l’identità la cui negazione

nega se stessa». Fuori dalla parola storica e dalla «fede fondamentale

dell'Occidente» il destino è ciò che sta, ossia ciò la cui negazione è in-

consistente. E la volontà interpretante, il linguaggio storico, a rinviare

«a infinite altre parole [...] le parole che parlano del destino. Ma qui il torrente

delle parole non smuove e non intacca il greto dell'identità [...], perché ponen-

dosi come sua negazione, smuove e intacca se stesso»8!.

Si può ora rispondere all’interrogativo fondamentale: il destino della verità, che appare all’interno di un certo linguaggio storico, «è dunque soltanto un gioco linguistico»? In quanto innegabile esso è il non gioco, rileva Severino, intendendo il gioco come contesto di regole

infondate, arbitrarie, presupposte. Partiamo da qui: «quando un lin-

guaggio nega il destino nega se stesso»*. Il destino è la stessa innega-

bilità, che è certamente della parola»*. Ebbene, (parola e cosa) non può la cosa non sarebbe mai apparirebbe nemmeno

«nella parola, ma è il contenuto non smentibile per concludere, il rinvio tra segno e significato apparire come infinito: se apparisse come tale, raggiunta, cioè non apparirebbe «e quindi non la parola»*5. Il rinvio interpretante «si arresta

di fatto alla cosa: nel senso che, da ultimo, le cose, pur apparendo nel 9 " # ® ©' 9 Si “ 9

Ibi, p. 236. Ibi, p. 237. Ibidem. [bidem. Ibi, p. 238. Ibidem. Ibi, p. 239. Jbidem. Ibi, p. 241.

Identità e permanenza

241

loro essere avvolte dalla parola, è necessario che non appaiano come

avvolte dalla parola».

La “volontà interpretante” vuole che la parola parli del destino della

verità, ma nel suo parlare è circondata dal destino, così come il destino è avvolto dalla parola. La differenza tra destino della verità e

volontà interpretante consiste nello strutturarsi del primo, a differenza

del secondo, secondo necessità. Ma dunque è necessario che nel cerchio dell’appanire il destino non appaia avvolto dalla parola, ma appaia come significato puro, come cosa: «il destino è appunto la dimensione in cui appare anche questo suo dover apparire da ultimo, nel rinvio dalla parola alla cosa, come cosa, come significato»®”. Il significato dunque «oltrepassa la parola». La volontà di parlare è quella contrad-

dizione, originariamente tolta dalla verità del destino, che avvolge il

destino stesso; il destino che toglie (originariamente) la contraddizione

del linguaggio come volontà di assegnare un significato a un segno è

l'apparire del destino come «significato puro, che già da sempre oltrepassa, eterno, la parola. Anche la contraddizione, e dunque anche la

parola, sono eterne; ma sono eterne come oltrepassate»*8.

La volontà interpretante avvolge il significato nella parola (storica); ma proprio per poterlo così avvolgere, ossia «per volere che esso sia nella parola — deve vederlo»®9. Il destino appare anche se ignorato dalla parola storica; affinché la parola storica possa apparire è cioè necessario l'apparire del destino. Per questo si deve dire che il significato oltrepassa la parola in due modi: in quanto apparire infinito del tutto e in quanto apparire finito del tutto”. In quanto apparire infinito esso è l'apparire del tutto che sporge sulla finitezza o parzialità della sua presenza; in quanto apparire finito esso è l'apparire del destino che appare anche quando il pensiero mortale (la volontà interpretante) lo ignora, e

così ignorato, ossia non testimoniato dal linguaggio, esso continua ad apparire ma solo come “inconscio” del mortale. L'inconscio è dunque ildestino non in quanto non appare, ma in quanto, pur apparendo, non è testimoniato dal linguaggio, ossia dalla parola storica. Anche in questo caso, come si vede, viene richiamata la fondamentale distinzione tra la contraddizione provocata dall’isolamento dell’essere dell’essente

T————__——__ ——

“ Ibidem.

9 Ibi, p. 242.

Ibi, p. 243, * Ibidem. Îv . lett . ” Per . l’approfondiment o di . questa distinzi one cfr. prossim o capitolo .

242

Cap. 111 - Il destino e il linguaggio

dalla verità del destino e la contraddizione consistente nella parzialità

dell’autoesposizione di sé cui il destino dà luogo in quanto apparire

finito. E, come si è visto, se il toglimento della prima contraddizione consiste nella negazione del suo contenuto, il toglimento della seconda

consiste nel progressivo ampliamento del suo contenuto: la prima è, in

quanto tale, negazione della verità del destino; la seconda, che invece

in quanto tale è affermazione della verità, nega quest’ultima (e cioè la struttura concreta e veritativa di sé) nella misura in cui quel contenuto non lo offre completamente. La prima nega in quanto è posizione (affermazione) di un certo contenuto; la seconda nega in quanto è af.

fermazione parziale di un cesto contenuto. In questo senso Severino

chiude Oltre il linguaggio affermando che «l’infinito è la regione più

profonda dell’“inconscio”. Oltrepassa la forma finita del destino. E a differenza della forma finita del destino, che oltrepassa la parola, ma

ne è anche raggiunta, la forma infinita del destino, come pura luce del significato, lascia eternamente dietro di sé la parola»”!. Ritornando alla tematica dell’identità come permanenza, nel 1 capitolo si è visto che l’identità delle determinazioni è una complessità semantica consistente nella totalità finita di determinazioni che sonoinsieme, cioè che sono legate da dei tratti comuni. Ciò è affermabile a qualsiasi livello e per qualsiasi situazione. Nel precedente paragrafo sì è ripresa e integrata quella posizione, mentre ora si intende esplicitarne le conseguenze.

In Tautòtes (Il divenire e l’eternità della relazione) si riflette sul

pensare e dire in quanto azione tesa a stabilire una identificazione dei non identici dovuta all’isolamento di soggetto e predicato: il pensiero

unisce ciò che è originariamente isolato (in quanto pensato come esi-

stente al di fuori della relazione) e tale relazione dà luogo al diventare

altro dell’esser sé dell’essente. Per questo, se da una parte l'isolamento esige che sopraggiunga un divenire (dire) che unisca, dall’altra il divenire (dire) implica sempre — ossia in quanto tale — che originariamente esista l'isolamento: l’isolamento richiede il divenire e il divenire nichiede l’isolamento. L’isolamento è la nullità di ogni legame; per cul il divenire a cui l'Occidente si rivolge è lo stesso isolamento che po! cerca di oltrepassare nella struttura predicativa. Relazione impossibile tra i due noemi isolati; il divenire fa uscire dal nulla la relazione di identità e quindi nullifica la relazione. A questo proposito va detto che non soltanto nell’Occidente il divenire è fondato sull’isolamento: ?! E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 244.

Identità e permanenza

243

«Anche nella preistoria dell'Occidente il divenire è fondato sull’isolamento, perché nel pensiero dei mortali il divenire è divenir altro, anche se ancora non

viene pensato come un uscire e un ritornare nel nulla»”?.

Ma è necessario che non sia così. «Gli essenti non sono isolati tra

loro soltanto se tra essi esiste un nesso necessario, per il quale ognuno

non può essere significante senza gli altri»?; se si isolano gli essenti,

si nega qualsiasi dire e l’essente stesso; pertanto se non si vuole negare

il dire, la predicazione e l’identità dell’essente con se stesso, si deve

affermare che gli essenti non possono essere isolati tra loro, cioè che

esiste un nesso necessario tra essi che fa sì che ogni essente sia qualcosa di eterno. Tale nesso necessario lega ogni ente a un altro e quindi nega il divenire dell’ente: se, infatti, l’ente divenisse, si negherebbe quel nesso. Dunque, anche qui, come il divenire e l'isolamento erano due facce della stessa medaglia, ora lo sono eternità dell'ente e legame

necessario tra enti. Affermare che ogni essente è in rapporto necessario con gli altri è dunque innegabile sia perché ogni essente è eterno (Strut-

tura originaria, Essenza del nichilismo, ecc.), sia perché, isolando gli essenti tra loro, si determinerebbe l’incapacità dell’essente di essere

determinato da altro e di essere anche predicato: l’ente isolato non può essere unito a niente e nemmeno affermato come identità con se stesso. Isolandolo, l'ente è qualcosa che non può essere predicato a niente,

nemmeno a se stesso; non essendoci un nesso necessario tra gli enti,

questi si succedono nel divenire e quindi escono dal niente; non può esistere un divenire necessario”. Ma se non ci può essere tale nesso necessario tra gli enti, questi non possono essere unificati; quindi affermare che gli enti divengono significa affermare che non ci può essere nessun tipo di legame, che non ci può essere, cioè, alcun linguaggio e che l'identità stessa dell’ente è impossibile. Dire che l’ente è divenire significa spegnere la parola, la coscienza, l'essere; significa stare nella contraddizione. Invece concepire gli enti come non isolati significa affermare l’eternità degli enti e dei nessi necessari tra loro; per cui poter dire che una cosa è identità con se stessa

Presuppone che questa relazione di identità tra la cosa con se stessa sia Una relazione eterna:

e

___12—

? E. Severino, Tautotes, cit., p. 131.

” Ibi, p. 132,

ma

Questo tema è sviluppato soprattutto in Destino della necessità: in quanto l'ente

esce da nie! iu: 7 ‘od: . nie, non può essere anticipato in nessun modo e quindi non ci può essere nessun nesso necesSano tra gli enti.

244

Cap. i - Il destino e îl linguaggio

«La forma del pensare e del dire — cioè la relazione tra qualcosa e qualcosa non è dunque negazione dell’identità dell’essente con se stesso, solo se il contenuto del pensare e del dire (ciò che è pensato e ciò che è detto) è l'eterno»!

In questo senso il dire o il pensare è una relazione originaria di soggetto e predicato e quindi è l'identità con se stessa della relazione, ovvero la questione dell’identità dell’identità che Severino affronta nei primi capitoli di Tauròres. La relazione è possibile solo se è eterna, ma può essere eterna solo se soggetto e predicato non sono chiusi nel loro isolamento e di conseguenza se la sintesi tra soggetto e predicato è un eterno e un nesso necessario ed eterno. Ma analizziamo con maggiore profondità questa tematica fondamentale. S. Identità ed essere insieme ad altro

L'identità dell’essente è l’esser sé dell’essente. Il pensiero dell’Oc-

cidente,

rileva Severino,

«è il tentativo fallito di pensare

l’identità

dell’essente»”5; uscire dal nichilismo occidentale significa perciò pensare veritativamente la relazione d’identità. In questo paragrafo, seguendo in modo particolare le indicazioni di Tautòtes, si indicheranno le condizioni fondamentali dell'identità, ossia come pensare l'identità

senza cadere in contraddizione.

L'identità è una relazione dell’essente con se stesso. Qualcosaè

qualcosa in quanto nega di essere qualcos'altro o in quanto afferma di essere qualcosa. La forma fondamentale di relazione è quella soggettopredicato: «Anche nelle lingue in cui è assente la copula o, in generale, che hanno una

struttura diversa dalle lingue indoeuropee, il dire e il pensare è sempre un dire

e pensare qualcosa di qualcosa. Anche quando si nega che esista “il” dire e “il” pensare, si dice e si pensa che qualcosa (‘il dire, il pensare”) è qualcosa

(“non esiste")»?,

Per poter affermare l'identità è dunque necessario, innanzitutto, af-

fermare la differenza dei termini relati, ossia la loro dualità: così ass€-

risce esplicitamente Aristotele nella Merafisica (v, 1018 a 7-9). Ma 0 E. Severino, Tautòtes, cit., p. 134.

% Jhi, p. 94. P Ibi, p.97.

245

Identità ed essere insieme ad altro

questo modo l'identità finisce con l'essere identità dei non identici: una cosa è certamente una; però, quando viene posta come identica a sé, viene per così dire sdoppiata e alterata.

Severino mostra come ciò sia inevitabile per tutto il pensiero oc-

cidentale, perché soggetto e predicato vengono

intesi come origina-

riamente esterni ed estranei alla relazione d'identità, che, sopraggiungendo a un certo momento,

non può che tentare di fare uno di due.

Soggetto e predicato sono estranei anche nel caso della tautologia, cioè della relazione A=A. Da Aristotele a Tommaso emerge come il sogget-

to sia il termine noetico (operatio prima intellectus) antecedente il pre-

dicato, che è invece termine dianoetico (operatio secunda intellectus): l'essente (noema) è cioè isolato dal proprio esser se stesso e dunque dal proprio negare di essere altro da sé. Ogni predicazione, ogni dire, è

perciò un predicare al noema il suo esser altro: il noerma A

« qualcosa a cui non può convenire nessuno di quei predicati (nemmeno quel predicato che è il qualcosa stesso), perché quando esso è raggiunto dal predi-

cato (B), è raggiunto come qualcosa che non esclude che il predicato non gli

convenga [...] ossia è raggiunto come qualcosa a cui il predicato non conviene e non può convenire, giacché il predicato conviene a ciò che esclude che il

predicato non gli convenga»”.

Stando così le cose, sembrerebbe che l'identità, come affermazione che due sono uno, non riguardi l’essente quanto il conoscere. È questa la posizione di Tommaso,

il quale, fondandosi a sua volta sulla teoria

aristotelica quale «isolamento della dimensione noetica dalla dimensione dianoctica»”’, intende proprio in questa direzione il passo della Me-

tafisica in cui Aristotele afferma che, dicendo che «qualcosa è lo stesso

di Se stesso, lo stesso viene considerato come due» (1018, a 9): «quando

si dice che qualcosa è identico a se stesso l'intelletto assume come due ciò che quanto alla cosa è uno» (In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio, 912). Lo sdoppiamento, il dualismo di soggetto € predicato, non appartiene alla cosa bensì alla ragione; l’identità, così Intesa, «non è una relazione reale, ma soltanto di “ragione”»*0.

L'identità di un essente con sé, prosegue Tommaso, è tale però solo

Se l’esser sé è identico a se stesso, cioè solo se l’identità dell’essente è =——__————_t__

" Ibi, pp. 104-105. ” Ibi, p. 107.

" Ibi, p. 109.

246

Cap. HI - Il destino e il linguaggio

identica a sé: «se l'identità dell’essente non fosse identica a sé, l’essen-

te sarebbe e non sarebbe identico a sé»*!. Siamo a una considerazione fondamentale: l’identità è tale solo se è identità di identità. Ma parlare di identità dell'identità non apre forse un regresso all'infinito? Infatti, se, affinché l’essente sia se stesso, è necessario che l'identità sia iden-

tica a sé, allora anche l’identità dell'identità deve essere identica a sé,

e così via all’infinito. Ma il rinvio all’infinito non riesce ad affermare l’identità come tale. Le indicazioni di Tommaso sono chiare: egli intende rilevare come

le complicazioni relative all'identità non riguardino la cosa, bensì la

conoscenza della cosa: la conoscenza sdoppia la cosa, e dunque rende

impossibile la posizione incontraddittoria dell’identità; inoltre, rilevando la necessità di porre l'identità dell'identità apre un rinvio all’infinito dell’identità che è da ultimo la sua negazione. Ebbene, Severino intende mostrare come tutte queste complicazioni siano inevitabili all’interno del pensiero occidentale, in quanto isola soggetto e predicato: «Con questi rilievi si intende dire che, all’interno del modo in cui il pensiero

occidentale intende l'identità [...] la conclusione di Tommaso [...] del carattere ideale (ens rationis) dell’identità è inevitabile non solo per la filosofia realisti-

ca, ma anche per quella idealistica»*?.

La concezione occidentale dell'identità è bene riassunta da queste

poche righe di Tautòtes:

«Nel pensiero e nel dire dei mortali, pensare e dire che qualcosa è qualcosa è,

in ogni caso, pensare e dire che qualcosa è altro da ciò che esso è. Questa iden-

tificazione dei non identici è dovuta al pensiero che li isola. La loro relazioneè

quindi il risultato di un divenire, nel quale il pensiero li unisce»*).

Nel precedente capitolo si è analizzato questo isolamento tra soggetto e predicato (concepiti come noemi isolati) e si è iniziato a con-

siderare il senso autentico della relazione d'identità. Ora si intende analizzare in modo più profondo il senso di quella relazione originaria. Nell'essente l’identità è in sé, semplicemente; è in sé e per sé solo nell’intelletto. Questo semplice essere non nega il proprio esser altro; € !! Ibidem.

# Ibi, p. 110. ® Ibi, p. 130.

Identità ed essere insieme ad altro

247

infatti per l'Occidente, poiché l’essente è ciò che è semplicemente sé, nella realtà può diventare (e diventa) altro da sé, mentre solo nel pensiero esso è in sé e per sé e perciò negazione del proprio diventare altro.

Mase l’ente reale è ciò che è identico a sé solamente in sé (e non in sé e

per sé), allora esso è isolato dalla sua identità con sé e cioè «nemmeno

in sé può esser se stesso». Non a caso il capitolo di 7autòfes in cui vengono esposte queste considerazioni si intitola /solamento e relatio identitatis, e non a caso nel capitolo successivo, dal titolo Re/ario identitatis e non isolamento,

Severino espone il senso veritativo (non contraddittorio) della relazio-

ne d'identità. Ricapitolando. Sembra che sia la forma del dire a produrre inevitabilmente una contraddizione, mentre: «La forma del pensare e del dire — cioè la relazione tra qualcosa e qualcosa

- non è dunque negazione dell'identità dell’essente con se stesso, solo se il contenuto del pensare e del dire (ciò che è pensato e che è detto) è l’eterno»®!. E ovviamente «ciò che è pensato ed è detto è l'eterno [...] solo se la forma del pensare e del dire non nega l’identità [...], ma è relazione originaria del qualcosa (soggetto) al qualcosa (predicato), e cioè è l’i-

dentità con sé di questa relazione»*. Da La struttura originaria si sa che l'identità tra A e B è tale solo se A non è originariamente isolato

da B, e perciò solo se l'identità è concepita come originaria: (A=B) = (B=A). L’identità è tale solo se A

«non è un A chiuso nel proprio isolamento, ma è e appare come A in relazione a B- ossia è e appare come A-che-è-B — e B è a sua volta in relazione ad A - ossia è ed appare come B-di-A — sì che, affermando che A è B, si afferma

l'identità della relazione con se stessa»!”.

Inoltre l'identità dell’essente è tale solo se essa appare come identità, ossia solo in quanto appare l’identità della relazione con se stessa. L'essente è se stesso in quanto il proprio esser sé è originariamente identico al sé cui viene predicato. L'identità è tale solo se è identità

di identità. L'identità della relazione con se stessa è negazione che la e _

M Ibi, p.lll. ! Ibi, p, 134.

* Ibidem.

U fi, p. 121.

248

Cap. til - Il destino e il linguaggio

relazione differisca da se stessa: «l’identico appare come identico [...] solo in quanto il suo differire da se stesso appare come negato»88, Tuttavia,

il testo in esame

non

solo si ricollega esplicitamente a

La Struttura originaria, in modo particolare alla sua Introduzione del

1981, per riprendere i concetti fondamentali, ma introduce anche delle integrazioni fondamentali. Emerge infatti che «l’affermazione che A

è B-A=B- nonè contraddittoria solo se, dunque, essa significa che

A è insieme a B»*°. Ma cosa significa essere insieme? A livello introduttivo si può dire che sono due i significati fonda-

mentali dell'essere insieme: l'essere insieme in quanto ogni essenteè insieme a una certa totalità finita, e l'essere insieme in quanto l’essente è una certa totalità finita rispetto a se stesso. In entrambi i casi l’essere

insieme è ciò che fonda l'identità dell’essente. Ma vediamo di chiarire. In Destino della Necessità c'è un capitolo determinante dal titolo Passato, perfectum®, in cui si approfondisce il significato dell’identità in relazione al suo permanere, al suo passare e al suo compiersi nel

e come perfectum. L'intero discorso è condotto attraverso una bella esemplificazione: la legna nel camino attende di essere accesa, mentre intorno a essa ci sono varie determinazioni

(la lampada sul tavolo, le

montagne ecc.) che compongono la totalità finita attualmente presente e rendono la legna l'identità che è in quanto relata a esse. Ma ecco che sopraggiungono altre determinazioni (le nubi che coprono le monta-

gne, la pioggia che batte sul tetto ecc.) e la struttura della totalità attualmente presente cambia volto: «Basta che la pioggia incominci a battere sul tetto, perché non solo la legna

disposta nel camino, ma la stessa struttura intramontabile della verità si pre-

senti con un nuovo senso».

Con la pioggia battente si presenta cioè «una nuova totalità degli enti che appaiono, ma anche un nuovo senso dell’intramontabile, cioè il legame che unisce l’intramontabile all'apparire della pioggia»”!.

L'identità di ogni cosa con se stessa è pertanto l'eterna relazione di un certo esser sé al tutto in cui essa appare (all'insieme attualmen-

te presente) e al tutto intramontabile. Si è visto che l'identità di una

cosa con

se stessa non è la sostanza aristotelico-cartesiana, ma quel

8 /bi, p. 122. 8 Jbi, p. 151.

% Cfr. prossimo capitolo, paragrafo 3. ® E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 205.

249

Identità ed essere insieme ad altro complesso

semantico,

eternamente

identico

a sé, che consiste

in un

intreccio di relazioni eterne tali per cui ogni determinazione non è la medesima all’apparnire di un’altra determinazione: la medesima legna,

immobile nel camino, non è le medesima legna se entra nel cerchio dell’apparire la pioggia, se la mosca si alza in volo, se il vento inizia a ululare. L'ingresso di qualsiasi ente determina una nuova relazione tra le parti e il tutto, tale che ciò che era presente nell’insieme precedente

non è più quel medesimo ente, pur permanendo un legame di identità (cioè di appartenenza al tutto finito che una certa determinazione è: A come totalità di B,C,D...).

Questo senso dell'identità dell’essente è qualcosa di mai pensato

prima. Ma porta con sé qualche problema, per lo meno così sembre-

rebbe. Infatti, se da una parte l’eternità dell’ente costringe a ripensare il rapporto tra soggetto e oggetto, mettendo in discussione la concezione

separata di giudizi analitici e sintetici (cfr. supra, Il capitolo) e negando la prospettiva sostanzialistica dell’essere di stampo aristotelico-carte-

siano (l’ens come sub-stantia-hypokeîmenon), dall’altra trasforma il concetto di “ente” in “ciascun momento”

dell’intero; ma se ogni mo-

mento dell'intero è un esser ente, l'identità dell’esser ente non viene forse disgregata e via via polverizzata in parti sempre più piccole, che sembrano perdere la loro consistenza e identificabilità? Qualcuno po-

trebbe vedere una certa assonanza con le omeomerie anassagoree o lo smembramento-dissolvimento zenoniano della realtà. Questa vicinan-

zaè in qualche modo fondata?

Abbiamo visto che è impossibile che il dire unisca gli opposti; e se

il dire non può unire gli opposti, è chiaro che si ha dire solo in quanto la predicazione è identità degli identici. Ma sembra che l’identità oriBinaria neghi l'identità dell’essente: ad esempio se la lampada accesa

è l'essere acceso di questa lampada, la lampada spenta, ossia l’esser spento di questa lampada, è un ente diverso da questa lampada? Cioè:

se questa lampada significa essere questo ente in cui consiste questo essere acceso della lampada, questa lampada spenta è un altro ente, altro cioè dalla lampada accesa? Lampada accesa e lampada spenta

sono due enti diversi? Se questa lampada accesa è questo esser acceSo, non si dovrà forse dire che l’essere spento che è questa lampada è Un ente completamente diverso da questa lampada accesa? Come già

anticipato, queste domande si interrogano sulla legittimità dell’identità

della lampada, che pare messa in discussione dalle infinite identità che

Sembrano coincidere con le predicazioni della lampada: sembra cioè

250

Cap. 11 - Il destino e il linguaggio

che “lampada spenta” sia un ente diverso da “lampada accesa”; e che “lampada rotta” sia ancora un altro ente e dunque un’altra identità, senza punti di contatto con tutte le altre determinazioni che con “lam-

pada” avrebbero dunque solamente un collegamento puramente nominale. Sembrerebbe

che, affermando

la struttura originaria come dire

in cui soggetto e predicato non esistono come momenti antecedenti e

separati, la realtà si dissolva in un'infinità via via sgretolantesi di enti che sono e non sono un’identità con loro stessi. Infatti, sa da una parte

dicendo “lampada” si dice l’identità di quell’esser sé con sé, dicendo “lampada accesa” si dice un ente che nega la precedente identità; e

ancora dicendo “lampada accesa sul tavolo” si dice un ente che nega la

precedente identità della lampada accesa; e dicendo “lampada spenta

sul tavolo” un altro ente ancora, e così via.

Per non cadere in questa contraddizione, sembrerebbe necessario

concludere che per continuare a parlare di identità anche la struttura originaria debba implicare quella permanenza del substrato che sem-

brava necessario negare per non cadere nel nichilismo. Se, infatti, nulla

permanesse, ogni nuova differenza sarebbe l'apparire di un ente diver-

so, senza nulla in comune con il proprio precedente esser sé, che a questo punto diventerebbe un semplice omonimo. Tuttavia, se si ammette che l'identità dell’essente implica che alla base dell’identità ci sia un certo permanere, non si rimane forse nella logica del sub-stratum e dunque nella predicazione come unificazione degli opposti? Si intende appunto mostrare che, anche conservando un certo permanere, questo non conduce affatto alla concezione predicativa occidentale e quindi a quel significato che sembrerebbe inevitabile: il diventare altro. Per rispondere alle domande di sopra, interroghiamoci sul rapporto tra questa lampada accesa e questa lampada spenta: possiamo dire che tra esse ci sia un rapporto diverso, in qualche modo privilegiato, rispetto a quello che c’è tra la lampada e il cielo azzurro fuori dalla finestra? Lampada accesa e lampada spenta sono cioè enti diversi come lo sono la stanza e la lampada, accomunati soltanto dalla medesima appartenenza

a un medesimo Tutto, che necessariamente lega a sé e tra loro tutti gli

enti che vi appartengono? Inoltre: si può ancora parlare di questa lampada in astratto, cioè al di fuori dei concreti momenti del suo apparité (accesa, spenta, rotta ecc)? Sono due domande fondamentali per portarsi

oltre la lingua predicativa occidentale e parlare la lingua della Necessità.

Consideriamo la relazione sintetica A è B. Sappiamo che A è B ©

B è B. Quando si dice che A è B si afferma un’identità che non è solo

Identità ed essere insieme ad altro

251

l'identità con se stessa della relazione tra A e B, ma è anche la rela-

zione di B con se stesso: l’esser B da parte di A deve anche essere un esser B da parte di B. Nel 11 capitolo si è visto che l'identità è identità

tra qualcosa e qualcosa che gli compete; l’essere è sempre relazione di identità: in caso contrario significherebbe la differenza e quindi si

direbbe che qualcosa è altro da sé. Se A non includesse B, sarebbe un A

che non include B e quindi la predicazione sarebbe impossibile. A è B non significa però nemmeno dire solo che B è B, giacché dicendo che A è B si dice che una parte del significato di A è identica a BA è A,

e dunque non è B, e B è B, e dunque non è A; tuttavia A è B, e quello stesso B che, in quanto è B, dovrebbe essere negazione di tutto ciò che

non è B, dunque anche di A. Come è dunque possibile la predicazione sintetica di diversi? Tale sintesi è incontraddittoria in quanto una parte del significato di A è identica a B: A è B significa che A è una totalità di nessi predicativi e relazioni semantiche e che AB è uno di questi nessi. In questo senso si deve dire che A è anche la sintesi AB, ossia che A che è B è B. Per questo di A si può affermare non solo il suo esser B, ma anche il suo esser C e D ecc. Ora consideriamo attentamente la predicazione A è B. Potremmo

anche dire: “questa lampada è accesa”. La lampada è diversa dal suo essere accesa, ma Severino chiarisce che la differenza tra la lampada e il proprio essere accesa è diversa dalla relazione che c’è tra la legna e la cenere ad esempio, poiché «mentre questa lampada è accesa, la legna non è cenere, ossia è non cenere»”. Dunque potremmo dire, riprendendo il linguaggio dell’Introduzione de La struttura originaria, che questa lampada è il suo essere acceso, o anche l'essere acceso è questa lampada. Tuttavia, questa lampada è anche altro, oltre il proprio essere accesa: è pesante, di bronzo, perfino spenta! Questa lampada è però certamente accesa in quanto è un essere accesa. «E con “essere accesa” non si indica qui il qualcosa (il sostrato) che è acceso, ma, appunto, l'essere acceso che viene riferito al qualcosa. [...] non è in quanto tale

qualcosa è sostrato che tale qualcosa è acceso»”. Il discorso di SeveriNo prosegue con un esempio:

«Socrate è bianco, ma è bianco non in quanto egli sia ateniese o bipede e nemmeno in quanto egli sia Socrate [...] se l'individuo non è le sue proprietà, ————t—_———+6—6

"E. Severino, Tautòtes, ci., p. 137.

® Ibi, p. 138.

252

Cap. 11 - Il destino e il linguaggio

le sue proprietà non possono convenirgli in quanto esso è un non essere tali proprietà». Se in Socrate non esistesse l’esser bianco, non si potrebbe affermare che Socrate è bianco; e tuttavia Socrate è bianco non perché sia diverso e ulteriore dall’esser bianco, ma in quanto in lui c'è un essere bianco

che non è un qualsiasi esser bianco, ma che è il suo esser bianco. Come

si può vedere, sottolinea Severino, affermando che A è B non solo si afferma l’identità con se stessa della relazione, ma si afferma anche

l'identità di B con se stesso. L'identità è tale se A non è isolato da B e se B è identico a B. Mase

B è B, esso è diverso da A: come può dunque essere affermato come identico ad A?

Severino mostra che B può convenire ad A solo se in A è presente B: A è B solo se all’A che è B compete B, e solo se AB è identico ad AB. In altre parole, A deve includere B: «una parte del significato in cui A consiste è identico a B, è B»*. Per non cadere nella contraddizione dell'identità, nleva Severino, è necessario che il pensiero «si mantenga al di fuori della forma “A è B”, che è l'inevitabile identificazione dei

non identici e che al di sotto di questa forma veda che A è insieme a B (e B è insieme ad A), e cioè che A è una totalità specifica di cui è parte

anche B (sì che la relazione tra A e B non è espressa dalla forma "A è B”, nella quale A è identificato a ciò che esso non è, ma è, appunto, la

relazione tra una totalità specifica e una sua parte)»®. Come nel caso precedente di Socrate, dicendo che egli è bianco, si dice che l’esser bianco è una parte di quella totalità specifica che è Socrate. Per questo, la forma espressiva più adeguata a esprimere il senso autentico della relazione di identità non è A è B, bensì A è includente B; per meglio dire A è includente il proprio esser anche B. «In altri termini, se B, C, D sono le determinazioni dell'insieme A, nell’affermazione che l'insieme A è includente B, il soggetto è identico al predicato.

giacché l’esser A, cioè l’esser insieme di B, C, D è lo stesso includere B nel

suo non essere isolato da C e da D. [...] se ognuna delle determinazioni di questo insieme non è le altre, d'altra parte l'inclusione di ognuna, da pare

dell'insieme, è la stessa inclusione delle altre»””. % Ibidem.

95 /bi, pp. 140-141. % Ibi, p. 141, " Ibi, p. 142.

Identità ed essere insieme ad altro

253

Dunque Socrate è una certa totalità finita, anche se «totalità finite», rileva Severino, «non sono soltanto quelle che la tradizione filosofica intende come rapporto tra “sostanza” e “accidenti”, ma anche le situa-

zioni, i rapporti, gli eventi», Socrate è quella totalità finita che consi-

ste nell'essere insieme ad altro, così come A è quella totalità finita che

consiste nell'essere insieme a C, D di Bea B,DdiC,eaB,Cdi D. Ma non solo. B non solo è identico al suo essere insieme a C e Din A, «ma è anche identico al suo essere insieme alla totalità degli essenti. B

è e significa: questo essere insieme alla totalità degli essenti — e questo essere insieme è la totalità assoluta dell’essente»*. La parte (il signi-

ficato, l’essente) non è il tutto concreto, sta rilevando Severino; e per

questo ogni parte, ogni essente, «il significare in cui ogni parte consiste

è, in quanto tale, un essere insieme a certe altre parti»'”,

Non si può dunque isolare nessun essente dalla totalità, ossia dal suo essere insieme ad altro: se lo si isolasse, non lo si penserebbe come essente, ma come niente, poiché essere essente significa, appunto, essere insieme ad altro. Ogni essente è, con se stesso, una certa relazione

d'identità al proprio essere un essente. Ma questo «essere insieme ad altro non è la semplice “categoria” dell'essere insieme ad altro, ma è l'unità di questa “categoria” e delle determinazioni concrete e specifiche che essa esprime»'. Infatti, l'essere insieme non è qualcosa che permanga, invariato, come caratteristica degli essenti; l’essere insieme

è il continuamente variante apparire di un certo insieme, di una configurazione presente dell’apparire che, non essendo la totalità concreta,

accoglie via via nuove determinazioni. Ricapitolando. Nella affermazione «A è B», si identificano i diversi, giacché A è diverso da B e B è diverso da A. E così «il linguaggio continua a dire che A è B; ma dice l’impossibile [...] anche se A=B è pensato come (A=B) = (B=A). Solo se al di sotto della forma linguisti-

ca “A è B” si pensa l'essere insieme a B da parte di A, si può continuare

a dire che (A=B) = (B=A). La forma adeguata è dunque:

{A = (insieme a B) ] = [ (insieme a B) = A]J»!®?. Questa forma espressiva «inadeguata», rileva Severino, è simile a un'altra: quella per cui si dice che un essente appare. Infatti, si è vi—_—__—_—_—6

9 lhi, p. 144,

"Ji, p. 145.

"0 Ibidem, " Ibi, p. 147,

‘0 Jbi p. 152

254

Cap. tn - Il destino e il linguaggio

sto, l’essente che appare è diverso dal suo apparire: l’essente è l’esser

sé, mentre l’apparire è l’apparire dell’esser sé (dell’essente); per cui

entrambi sono sì due essenti (l’essente consistente nell’esser sé e l'es. sente consistente nell’apparire dell’essente che è sé), ma due essenti

diversi. Anche nel caso dell’essente e del suo apparire si dovrà dire che l’essente è insieme al suo apparire; e dunque così dovrà essere intesa incontraddittoriamente l’affermazione che l’essente appare. Nel caso

poi dell’apparire dell’apparire si dovrà dire che l’apparire non è insieme all’apparire, ma è identico a sé: e si tratta dell’unico caso in cui

l’apparire è identico all’esser sé dell’essente, giacché, in tutti gli altri

casi, è solamente insieme al suo apparire.

All’interno dell’isolamento della terra ogni «cosa» è una interpre-

tazione

«cioè un isolamento, che conferisce e impone una certa unità; ossia è il principio unificatore di una certa molteplicità di determinazioni [...]. In ogni interpretazione isolante, l'unificazione della molteplicità delle determinazioni in totalità finite è identificazione dei non identici (“Socrate è bianco”,mod “questa casa è soleggiata”,sod “questo albero è verde)» 103

Nella verità tutte le cose che l’essente è (l'essere identico a sé, il suo essere eterno, il suo essere negazione del proprio negativo ecc.) sono delle identità «che si implicano necessariamente e che pertanto sono identiche, cioè sono lo stesso»!%. Si tratta di ciò che Severino chiama “identità delle identità”, quale identità che lo stesso essente «si trovaa essere». Ma tale identità delle identità non è la vanificazione delle differenze in cui ogni identità consiste, per cui ad esempio essere eterno

non sarebbe diverso dall’essere negazione del proprio negativo ecc.; si tratta di una identità delle identità che, se da una parte afferma l’identità delle identità tra loro, dall'altra afferma anche la loro diversità. Non c’è contraddizione in questa esigenza di mantenere la diversità e insieme affermare l’identità. Ogni identità è diversa in quanto distinta dalla propria relazione con le altre identità, mentre è identica in quanto non

è distinta da tale relazione, ossia in quanto «è in relazione al proprio

significato concreto, cioè al significato concreto che è lo stesso di ogn! altra identità, e che è, appunto, l’identità delle identità»!®. 103 Jbi, p. 157. 10 fhi, p. 165. 109 Ibi, p. 167.

255

Persintassi e testimonianza della verità

6. Persintassi e testimonianza della verità: il linguaggio che lo testimo-

nia nega il destino

Come si è anticipato nella Premessa al presente capitolo, nella breve introduzione a Oltrepassare Severino

fa un chiarimento

linguistico e

concettuale molto importante in relazione all’espressione «il linguaggio che testimonia il destino». Riprendiamo le affermazioni lì già citate:

«Il linguaggio che riesce a testimoniare il destino differisce quindi essenzialmente da quello in cui il destino lascia le proprie tracce. Appunto per questo in Destino della necessità si dice: “[...] Il linguaggio nascosto, parlato dal

destino, ma ancora indecifrabile per la stessa testimonianza del destino, è la traccia che la contesa lascia nel linguaggio în verità parlato dai mortali”. E si

aggiunge: “nemmeno la testimonianza del destino sa parlare il linguaggio del destino” (x1v, 1v, p. 514)»!%, Il linguaggio che testimonia il destino è infatti

«sempre inadeguato rispetto alla persintassi del destino della verità, sì che il linguaggio rimane costantemente isolato dalla persintassi del destino, per quanto

ampia possa essere la testimonianza del destino offerta dal linguaggio»!

Qui il testo riprende, dichiarandolo, il capitolo x1 de La Gloria, per mostrare che il linguaggio testimonia sì progressivamente le determinazioni del destino, ma tale testimonianza «è ancora inadeguata rispetto alla totalità delle determinazioni della persintassi - anche se il solo apparire dell’esser sé degli essenti è quell’essenza del

destino che, già essa, è ciò la cui negazione è autonegazione»'.

Il linguaggio che testimonia la verità resta isolato dalla persintassi della verità: «Il capitolo x1 della Gloria mostra che la persintassi della verità appare nella Sua totalità in ogni cerchio finito dell’apparire, che questa totalità è identica nell'apparire finito e nell’apparire infinito del destino, che la “misura” in cui Illinguaggio testimonia il destino è sempre inadeguata rispetto alla persintassi el destino della verità, sì che il linguaggio rimane costantemente isolato dalla n . n rino

106

-

1° Ibi, p. 210,

Oltrepassare, cit., pp. 22-23. .

256

Cap. HI - Il destino e il linguaggio

persintassi del destino, per quanto ampia possa essere la testimonianza del destino offerta dal linguaggio»!”,

La testimonianza della verità, o per meglio dire «il linguaggio che testimonia la persintassi della verità [...] incomincia dalla testimonianza dell'apparire dell’autonegazione della negazione dell’esser sé dell’essente in quanto essente e, insieme, dalla testimonianza dell’apparire degli essenti della terra, la cui negazione è anch'essa autonegazione»!!0,

Ebbene, dopo aver indicato come si dispiega tale testimonianza, ossia attraverso quali determinazioni essa non può che passare, Severino rileva come essa sia ancora «inadeguata rispetto alla totalità delle determinazioni della persintassi»!!!. Tale inadeguatezza è determinata dal contrasto tra destino e isolamento, ossia dalle limitazioni imposte dal linguaggio in quanto volontà di dire, in quanto è «quella forma emergente di isolamento [...), ossia il luogo dove prevale la

testimonianza della terra isolata e dove la testimonianza del destino rimane

sempre inadeguata rispetto alla totalità della persintassi del destino»!!?,

Dal prossimo capitolo inizieremo a vedere che l'isolamento è ne-

cessariamente destinato al tramonto, e con ciò la persintassi del destino

è destinata alla liberazione dall’isolamento stesso e da «quella forma emergente di isolamento che è il linguaggio». In altre parole, anche il linguaggio che testimonia il destino, in cui il destino non può che con-

vivere con la propria negazione, è destinato a tramontare lasciando il posto non più alla testimonianza della Gioia, bensì al «farsi innanzi [...] con un volto mai prima mostrato»!!? della Gioia stessa. Ma se questoè quanto si vedrà appena nei prossimi due capitoli, ciò che ora importa rilevare è come il linguaggio che testimonia il destino sia il luogo in cui accade il contrasto tra isolamento e destino: ciò che è detto è lo stare del destino, mentre quell’esser detto è l’accadere della verità in ciò che è la sua negazione. i

Ne La struttura originaria si è visto che testimoniare la verità ori ginaria significa esibirne il suo essere fondamento, ovvero mostrare " " !! 42

Ibi, pp. 208-209. /bi, p. 209. /bi, p. 210. Ibidem.

1! Ibidem.

Persintassi e testimonianza della verità

257

come ogni sua possibile negazione sia essenzialmente un’autonegazione che implica ciò che intende negare. Esibendo la struttura originaria dell'essere, si mostra innanzitutto in che senso tale struttura sia inne-

gabile e quindi immediatamente vera. La testimonianza della struttura originaria dell'essere è ovviamente

un tratto di tale struttura. Ma

in

quanto «l’esporsi del giudizio originario» è soggetto «all'esigenza del dialogo», in quanto è «ordinato a una comunicazione possibile»!!! po-

trebbe sembrare estrinseco e inessenziale alla struttura originaria stes-

sa. Che rapporto dunque in questo caso tra il porre e il posto, laddove il posto non è un posto qualunque ma il contenuto dei contenuti? Proprio quest'ordine di considerazioni introduce un problema fondamentale, consistente nella complessa relazione tra la testimonianza

della verità, la terra isolata e il tramonto dell'isolamento della terra.

Tale problema, che riguarda più specificamente il rapporto tra alie-

nazione e salvezza (cfr. v capitolo), chiama in causa direttamente il linguaggio, come emerge in modo particolare negli scritti più recenti, soprattutto ne La Gloria e in Oltrepassare. In Essenza del nichilismo (in modo particolare ne La terra e l'es-

senza dell'uomo) veniva posto come possibile ciò che invece successivamente appare «necessario affermare» (cfr. La Gloria pp. 410-411), in quanto si mostra che il problema non è determinato dalla finitezza del cerchio finito dell’apparire, ma dipende dall’isolamento della terra che avvolge anche la filosofia. In questo senso, quel problema non appartiene al destino. Infatti, la totalità assoluta e assolutamente com-

piuta delle costanti sintattiche (determinazioni dello sfondo) contiene

- come determinazione sintattica — anche «quale sentiero la terra sia destinata a percorrere». Ma procediamo con ordine. «Il linguaggio che testimonia il destino e le tracce da esso lasciate nella terra isolata"! [...] appare (almeno) nel cerchio originario dell’apparire del destino ed è parlato dall’io della terra isolata che appare in tale cerchio [...]. Anche

questo linguaggio, come ogni altro linguaggio, è una forma della volontà di

far diventare altro le cose, è un tratto della solitudine della terra: vuole che cerli eventi siano segni di quel significato che è la stessa struttura originaria del

destino; e tuttavia il linguaggio che testimonia il destino argina il linguaggio

che non testimonia altro che la terra isolata, e anche nel permanere del contra-

Sto tra destino e isolamento consente che, a tratti, l’eterno apparire del destino

=—___—_—_—__—_____6&6

4

. . ns E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 115. Tale tematica è svolta analiticamente nel prossimo capitolo.

258

Cap. il - Il destino e il linguaggio

non sia contrastato e lasciato ai margini del linguaggio che, oltre ad essere,

come ogni linguaggio, linguaggio della solitudine (Destino della necessità

XIII-XV), non sa testimoniare altro che la solitudine della terra (non certo chiamandola per nome, ma chiamandola “regione sicura con cui gli uomini hanno

sicuramente a che fare””)»!!9.

7. Il significare nel destino e nella terra isolata «Nel destino della verità può apparire la non verità della terra isolata solo in quanto un insieme di significati è identico sia nel destino sia nella terra isolata (cfr. cap. II, par. 11). Se questa identità non esistesse, la dimensione semantica del destino non potrebbe nemmeno essere negazione della dimensione semantica della terra isolata. Se, ad esempio (ma si tratta di un esempio primario), l’essente e il divenir altro che nella terra isolata sono uniti (ossia voluti) come

soggetto e predicato avessero un significato differente da quello che appare nel destino, l'affermazione che l’essente sia un divenir altro non sarebbe, in

quanto tale, una negazione del destino, non apparterrebbe alla terra isolata

— o sarebbe negazione del destino e apparterrebbe alla terra isolata, solo in quanto, se avesse un significato, fosse una convinzione isolata della struttura originaria del destino (cioè isolata da ciò la cui negazione è autonegazione).

Affinché il contenuto dell’affermazione che l'essente è un divenir altro sia negazione del destino è cioè necessario che il contenuto delle parole “essente” e “divenir altro” sia identico nel cerchio dell’apparire del destino e nella

convinzione che l’essente diventa altro. Il destino della verità nega l'errore, ma questa implica necessariamente che ciò che è negato dal destino sia quello stesso che è affermato dall’errore (e viceversa). Se non fosse quello stesso,

ma un che di solamente differente, il destino, negando tale affermazione, non negherebbe la propria negazione»!!?.

Il testo qui è molto chiaro e ci conduce alla tematica importantissima (che verrà sviluppata nel prossimo capitolo) della necessità che il significare dell’essente nella terra isolata e nel cerchio del destino

siano identici. L'essente è il significare:

«Nel cerchio del destino l’essente è il significare. Nei miei scritti lo si dice sin

dalla Struttura originaria [...]. Tutto è un significare: parola 0 cosa, “immagi"© E. Severino, La Gloria, cit., p. 284.

cu

17 E. Severino, Oltrepassare, cit., pp. 364-365. A tale proposito analoghe considerazioni {in

ripresa e approfondimento di quanto già mostrato nella Gloria) si trovano anche nel già citato scritto severiniano dal titolo Fondumento della contraddizione, in modo particolare alle pp. 35-37.

259

Il significare nel destino e nella terra isolata ”

ne”, “rappresentazione”,

n

“idea”,

du

“sensazione” o “realtà”, “senso” o “significato”

(intesi nel significato attribuito loro da Frege). [...] Un certo essente è un certo significare. [...] L'essente (o un essente) non “ha” un significato: è un significato

- ossia un significare, un significante. [...] E “un che di significante” non può

significare che al di fuori di un certo significare vi sia qualcosa (il “che”) che, dal

di fuori — e dunque non significando — sorregga questo significare» !8,

Se fosse esterno al significare, non significherebbe; esisterebbe cioè il non significante: il che è impossibile, poiché non significare significa

non essere. Ebbene, ora si tratta di stabilire in che senso si dice che c’è

identità tra l’essente (la determinazione o il significare) che appare nel

cerchio del destino e quello che appare nella terra isolata, ossia in che senso l’essente nella terra isolata e nel cerchio del destino hanno lo stesso significato.

Tale affermazione pone innanzitutto il seguente problema: se da una

parte è necessario dire che i due significati sono il medesimo signifi-

care, d'altra parte è anche immediatamente evidente e necessario che,

se l’essente che appare nell'isolamento è l’essente isolato dalla sua verità, è impossibile che esso sia il medesimo essente che appare legato essenzialmente alla sua verità: per lo sguardo che vede il destino

l'essente isolato è il divenir altro, ossia il diventare altro è il predicato che si crede convenirgli essenzialmente e necessariamente. Affermare che essi hanno lo stesso significato (che sono lo stesso essente) sembra dare luogo a una insanabile aporia, per cui è tanto necessario quanto impossibile che l’essente «che appare come essente nel destino della verità sia identico all'essente che appare come essente nell’isolamento della terra»!!’. Se, dunque, l’essente isolato è l’essente che essenzialmente è un diventare altro, tale essente non può essere lo stesso essente che appare nel cerchio del destino, poiché quest’ultimo

è essenzial-

mente ciò che non diventa altro: «in quanto legato alla negazione del

destino, l’essente non può essere identico all’essente in guanto legato al destino»! Dunque «in che senso esiste quella medesimezza senza di cui le determinazioni, i significati, gli essenti della terra isolata sarebbero altro da ciò che il destino ha dinanzi quando vede la non verità della terra isolata?»!?!. e

"E. Severino, Oltrepassare, cit., pp. 366-367. "9 /bi, p. 369.

12° Ibi, p. 370. 2! Ibi, p, 372.

260

Cap. Il! - Il destino e il linguaggio

L’essente isolato potrebbe essere identico all’essente del destino

solo se fosse isolato dal suo isolamento; e poiché il legame tra essente isolato e isolamento non è un legame necessario, esso può essere «spez-

zato» dal destino stesso, che, «isolando l’essente dal suo diventar altro

mostra appunto quell’apparenza»'??, ossia l'apparenza (non necessità) di tale legame. La necessità che l’essente sia diventare altro non è affatto una necessità ma un atto di fede, ossia all’interno dell'isolamento si vuole (senza rendersene conto) che l’essente sia un diventare altro.

Nello sguardo del destino appare perciò che l’essente isolato è isolato da ciò che, nella terra isolata, è ritenuto un legame essenziale e inscindibile: quello con il proprio diventare altro. Il destino mostra, cioè, che il diventare altro non è un aspetto necessario e fondamentale dell’essente isolato (come invece si ritiene all’interno della terra isolata), ma

solo un nesso voluto, una condizione che si crede (dunque si vuole) sia

necessaria e costitutiva. L'isolamento, che nello sguardo del destino

isola l’essente (isolato) dalla apparente necessità del proprio diventare altro, è dunque «isolamento solo dal punto di vista della fede (ossia di ciò che in verità è isolamento, ossia dal punto di vista dell'isolamento

della terra)»!. Si incomincia a comprendere come sia possibile che

l’essente nell’isolamento della terra e nello sguardo del destino siano il medesimo essente: «solo in quanto è così isolato, l’essente [...] è iden-

tico all’essente in quanto appare nello sguardo del destino»'”. Per mostrare come tale aporia sia apparente in quanto determinata da una concezione astratta del destino, si parte dalla differenza tra distinzione e separazione (già analizzate nel precedente capitolo). Sappiamo che nel cerchio del destino le determinazioni (persintattiche € iposintattiche) sono distinte tra loro ma non separate. Ebbene, quello

che ora si deve rilevare è che «il contenuto a cui si riferisce /a parola “essente” (significare), in quanto distinto, nel cerchio del destino, dal

proprio esser sé [...] e dalle altre determinazioni persintattiche e iposintattiche che nel destino competono a quel contenuto, è identico al contenuto a cui si riferisce, nella terra isolata, la parola “essente”, in quanto questo contenuto è isolato, nello sguardo del destino, dalle de terminazioni [...] alle quali l'isolamento della terra lo vuole unito»!

122 13 1 15

fhi, Jbi, fhi, Ibi,

p. 370. p. 371, pp. 370-371. pp. 272-373.

Il significare nel destino e nella terra isolata

261

L'essente della terra isolata, che nello sguardo del destino è isolato dal suo isolamento, è identico all’essente che nel cerchio del destino è

distinto dalle sue determinazioni: l’essente isolato dal suo isolamento è identico all’essente che, nel cerchio del destino, è distinto dalle deter-

minazioni che gli competono: nello sguardo del destino l’isolato dall’i-

solamento è identico al distinto dalle sue determinazioni. L'identità fra

l'essente distinto e l’essente isolato è tale solo in quanto l’essente che nel cerchio del destino è distinto dalle altre determinazioni è distinto, ossia non unito a esse: infatti, se fosse così unito, non potrebbe essere identico all’essente isolato dall’isolamento.

Non si deve confondere però la tematica ora in questione con l’altra importante tematica (che verrà ampiamente sviluppata nel vI e ultimo capitolo del presente saggio), che riguarda le analogie tra il linguaggio che testimonia il destino e il linguaggio della terra isolata, per cui «può sembrare che il linguaggio del destino e della terra isolata dicano a vol-

te le stesse cose. Ad esempio, anche l’esser sé degli essenti è presente sin dall'inizio nel pensiero greco [...]. Ma in questo caso si tratta delle “stesse” parole che hanno invece un significato essenzialmente diverso (e quindi è anche impossibile [...] che siano le “stesse” anche come

parole). Il tema che invece si sta ora considerando riguarda il fonda-

mento della necessità che ciò a cui si riferiscono le parole del destino e

dell'isolamento sia identico» '?*, Qui è in gioco, in definitiva, l'essenza stessa del de-stino, in quanto si tratta, alla fine, di indicare come sia possibile che la negazione del destino sia il tentativo (originariamente fallito in quanto impossibile) di negare il destino e non qualcos’altro. Il che, in altri termini, significa: la verità del destino è il suo stare in-

negabile in quanto negazione originaria della sua negazione; ma ciò significa che la sua negazione deve essere sua, ossia deve essere ne-

Bazione (per quanto realizzantesi solo come tentativo impossibile) del destino e non semplicemente affermazione di un contenuto diverso dal

destino. In caso contrario, il destino non potrebbe essere il negativo del negativo che esso è, e cioè non sarebbe il de-stino (lo stare innegabile)

che è. Si comprende bene l’importanza fondamentale della necessità dell'identità del significare nella terra isolata e nel destino.

Fermo restando che, utilizzando una metafora di Oltrepassare, il canto della verità non può che affiorare rovesciato nel canto dell’er127 . Tore, qui totsi sta dicendo che le note sono le stesse ma i. canti . sono —______—



Ibi, p. 374. .

.

.

Per lo sviluppo di questa importante tematica cfr. infra, vi, 1.

262

Cap. Hi - Il destino e il linguaggio

opposti: se le note non fossero le stesse, l'una (il canto dell'errore)

non potrebbe apparire come negazione del destino, e l’altra (il canto della verità) non potrebbe apparire come la negazione della propria

negazione. Ma che le note siano le stesse, avverte Severino, «è l'esito

(S.O. 1x) nel quale l’identità di quei due gruppi di significati differisce

dal loro differire in quanto appartenenti ai due diversi contesti della verità e dell’errore»'?8. Chiariamo. La non semplice affermazione che «l’identità di quei due gruppi di significati differisce dal loro differire» significa che l'identità non è data dal loro differire, ossia non sono identici in quanto diversi, ma sono identici in quanto (e solo in quanto) l’uno è isolato dall’isolamento della terra e l’altro è distinto dalle determinazioni (persintattiche e iposintattiche) che gli competono. In questo senso i contenuti che appaiono nella terra isolata sono l’apparire di “un che di determinatamente significante”. Il nichilismo è dunque negazione della verità solo in quanto esiste questo tratto identico del significare nel destino e nella terra isolata, così come il destino è negazione del nichilismo in quanto «il cerchio originario del destino [...] è affermazione necessaria dell’esistenza di quella convinzione (fede, volontà, interpretazione) originaria nella quale consiste l'isolamento della terra. Ed è in relazione alla necessità di tale esistenza [...] che si presenta la tematica [...] della necessità che i significati del

contenuto della terra isolata siano identici ai significati del contenuto del destino [...]. L’apparire del destino include infatti nel cerchio originario del destino, un apparire che, diversamente dall’apparire del destino, è la convinzione che soltanto la terra sia il terreno sicuro del mortale [...], ossia tale convinzione

(l'isolamento della terra, appunto) è un apparire della terra dove però essa non

appare unita al destino — all'opposto di quanto accade nel cerchio originario

in cui il destino la accoglie»'?,

Ciò significa che l’esistenza dell’errore è fondata dal destino, e che perciò il destino «non trova dinanzi a sé, già data e di per sé esistente e significante, la terra isolata: non si imbatte in essa come in qualcosa che stia già lì ad attenderlo [...]: l’esistenza della convinzione che [...] è la non verità della terra, è fondata

dal destino e in quanto è così fondata appare secondo isignificati [...] che

costituiscono la fondazione della sua esistenza nel cerchio del destino. (Al di 1 E, Severino, Oltrepassare, cit., p. 375.

1° Jbi, pp. 378-379.

Il significare nel destino e nella terra isolata

263

fuori di questa fondazione, l’affermazione dell’esistenza della terra isolata è

non verità)» !59.

Il destino dunque fonda l’esistenza dell'errore in quanto fonda, ne-

cessariamente, l’affermazione dell’esistenza della propria negazione, e

in questo senso Severino afferma che «l’esistenza della terra isolata è

innegabile in quanto appare nel destino, cioè nel contenuto che appare

nel cerchio originario»"; il destino, in altri termini, fonda l’afferma-

zione dell’esistenza dell’errore (della terra isolata) «perché ne afferma

l'incontrovertibile apparire»"*; e ne afferma l’innegabile apparire in quanto esso stesso, destino, non è altro che l’apparire di quella negazione come negata, ossia perché «tale cerchio è l’apparire dell’autonegazione della negazione che la terra isolata appaia»'!. Per questo motivo che

«i significati del contenuto della terra isolata siano gli stessi dei significati che il destino nega, negando la verità della terra isolata, è una necessità originaria.

È la necessità, si è detto, che le stesse note formino due canti contrapposti: che le stesse parole e i loro significati formino le dimensioni contrastanti del destino e della terra isolata. L'opposizione tra verità e non verità può esistere — ed è necessario che esista, giacché il destino è negazione della propria autonegantesi negazione —, solo se ciò che la verità afferma ha lo stesso significato

di ciò che la non verità nega»'*.

Evidente il rilievo teoretico di questa tematica: ciò che la terra isolata nega deve avere lo stesso significato di ciò che la verità afferma, e viceversa, E lo deve proprio in quanto il destino è destino. Ma se si deve necessariamente affermare che il destino fonda l’esistenza dell'errore, si deve forse anche affermare che esso fonda il contenuto che appare all’interno dell'errore, della follia dell'isolamento nichilistico? Che

cos'è e come deve essere considerato il contenuto dell’errore? Come

il semplice contenuto di un contraddirsi, ossia come la contraddizione

che fuori dal contraddirsi non è, è niente, oppure come un contenuto che esiste anche al di fuori di quella convinzione, ossia che è essente (significante) anche al di fuori della sua esistenza veritativa come

errore? Si è visto che, in quanto isolato dall’isolamento della terra, ———_—_—_—_—

'% Ibi, p. 379. ' Ibi, p. 381. 1 /bi, p, 382. 1 Ibidem.

1 Ibi, p. 380.

264

Cap. n - Il destino e il linguaggio

ossia nello sguardo del destino, il contenuto della terra è il medesimo

contenuto che appare nel cerchio del destino in quanto distinto dalle

determinazioni che gli competono. Ebbene, ora si sta chiedendo: che ne è di quel contenuto in quanto non isolato dall’isolamento, ossia in

quanto non apparente nello sguardo del destino? Certamente, e già lo si può evincere da quanto detto finora, quel

contenuto non isolato dall’isolamento non è (e come potrebbe?) fon-

dato dal destino: il destino non fonda e non può essere il fondamento del contenuto dell’errore in quanto non isolato dal suo isolamento. Il fondamento di quel contenuto è — e può solamente essere — la volontà,

la fede, la follia nichilistica:

«Il destino fonda l’affermazione dell’esistenza dell'insieme dei contenuti delle convinzioni che costituiscono la terra isolata, ma il contenuto in quanto tale

di queste convinzioni non può essere fondato sul destino, ma è fondato sulla

volontà che isola e interpreta la terra»!?5,

E ancora: «i contenuti di quelle convinzioni sono fondati dalla volontà interpretante»'*°. Il destino fonda la volontà (l’esistenza dell’errare), la quale a sua volta è il fondamento dell’esistenza delle convinzioni

della terra isolata, dei contenuti (errori); e in questo caso è lecito dire che il destino non

fonda,

ma

«“si imbatte”,

“trova” dinanzi

a sé un

insieme di significati che, come significati dell'errore, non possono essere fondati dal destino»!?”. Il fondamento teoretico dell'intero discorso è riconducibile alla differenza tra contraddirsi e contraddizione: il contraddirsi è ciò che innegabilmente esiste, ed è pertanto l’esistenza dell’errore fondata dal destino di cui si sta parlando; la contraddizione è invece l'impossibile, ciò che non può esistere, ossia che può esistere solo come contenuto (folle e impossibile) di una volontà interpretante che si convince della verità dell’impossibile: ed è chiaro che l'impossibile non può essere fondato dal destino, ma solo dalla volontà interpretante. Facciamo un esempio, di cartesiana memoria: dormo, nel letto, mentre sogno di camminare.

Tale “camminare” esiste solo come contenuto del sogno, ossia la sua

verità è quella di esistere come contenuto onirico: fuori dall’essere un

tale contenuto, il camminare non è. È una contraddizione: come non 139 Ibi, p. 382. 1 /bidem. 13? Ibi, p. 383.

Il significare nel destino e nella terra isolata

265

sognato quel contenuto è niente, contraddizione appunto. L'Occidente

esiste come convinzione del diventare altro dell’essente e la verità di quel contenuto è di non essere (di non poter essere) vero: il contenuto di quel pensiero esiste solo come contraddizione, e il suo fondamento è il contraddirsi. Il che significa che, fuori dal contraddirsi che lo pone,

esso non è, è non verità. Essere il contenuto (impossibile) di un certo

contraddirsi è la sua verità; non posto come contraddizione, quel contenuto non è. Esso esiste so/o come il contenuto del contraddirsi, che si

convince che una certa cosa, che non è, sia. Consideriamo quell’essente, dice Severino, che è la legna all’interno dell'isolamento:

«Come determinazione della terra isolata, la legna è un positivo significare di un nulla, di un errore (e l'esser sé della legna è l’esser sé di questo significare), ma la verità di questo significare è la relazione di esso alla totalità infinita

degli essenti {...] “io stesso”, in quanto appartenente alla terra isolata, e pertanto in relazione agli “altri”, sono un contenuto dell’interpretare, un positivo

significare del nulla»!”,

Ma in relazione al contenuto della terra isolata il linguaggio che lestimonia il destino si trova avvolto in questo interrogativo: fermo restando che il contenuto contraddittorio non può esistere al di fuori del contraddirsi che lo pone, può esserci «un residuo» della terra isolata nella terra che salva? «Una possibilità, questa, che come ogni altra, non compete al destino, ma è

un'incapacità del linguaggio che lo testimonia a mostrare la totalità della persiniassi. Tale possibilità sussiste solo qualora ogni essente della terra isolata non implichi necessariamente, in quanto esso è quell’essente che è, la propria appartenenza all’isolamento della terra»!*.

In altre parole, «nello sguardo del destino, turro ciò che nella terra isolata appare sul fondamento della volontà interpretante è errore, cioè negazione del destino.

Errore, cioè non problema [...]. È invece un problema (per il linguaggio che testimonia il destino) se, col tramonto della terra isolata, esista un residuo di £ssa che, quanto al suo contenuto, non sia necessariamente implicata dall’isolamento della terra — un residuo, tuttavia, che sia necessariamente diffee

_—

"4 Ibi, pp. 393-394. ! Ibi, p. 385,

266

Cap. n - Il destino e il linguaggio

rente dal significare che esso è in quanto, prima di quel tramonto, appartiene

alla terra isolata»!

Lo sviluppo del discorso conduce a tematiche non ancora affrontate,

tra le quali è primaria quella del tramonto della terra isolata. Una volta

chiarito che il significare è identico nel destino e nella terra isolata, e in che senso il destino è il fondamento dell’errare e non dell’errore, resta

l'interrogativo sul contenuto che appare nella terra isolata: in esso c'è

solo il nulla della follia? Il testo qui si riferisce a qualcosa che non si

è ancora trattato e cioè il tramonto dell'isolamento della terra e la sua necessità; in realtà, anche senza aver ancora introdotto quella tematica,

si può ugualmente comprendere la consistenza dell’interrogativo, che verrà ripreso e affrontato nel prossimo capitolo!*: ci può essere, nel

contenuto della terra isolata, un tratto (un «residuo») che non sia ne-

cessariamente implicato dall’isolamento della terra? Ricapitolando. Si è mostrata l’identità tra il significare delle determinazioni che nell’isolamento sono affermate e nella verità sono negate: ad esempio il “divenire altro” affermato nel e dal nichilismo è lo stesso significato “diventare altro” negato dal destino. Si è visto che ciò è possibile in quanto quel significare è isolato dall’isolamento in cui si trova; così isolato, esso è identico al significato “diventare altro”

che nel cerchio originario è distinto dalle determinazioni persintattiche e iposintattiche che gli competono. Ciò aveva portato a rilevare la necessità dell’esistenza della terra isolata come esistenza di quei significati la cui negazione è lo stesso stare del destino. Il che consente di affermare che il destino è il fondamento dell’esistenza dell'errore. Ma proprio in quanto destino, esso non può certamente essere il fondamento del contenuto dell’errore, ossia (restando nell’esempio di sopra)

del diventare altro di un certo essente in quanto non isolato dal suo isolamento:

quel

contenuto

è l'impossibile,

è il voluto della fede in

cui consiste il nichilismo. Il che rimanda, da ultimo, alla differenza tra contraddirsi e contraddizione. L'attenzione si era così spostata sul contenuto affermato nella fede (o nella terra isolata: è lo stesso Severino,

proprio in Oltrepassare, a indicare come alla espressione de La strut tura originaria «sapere prefilosofico» corrisponda concettualmente l’espressione “fede” di Studi di filosofia della prassi e “terra isolata” 0

“isolamento della terra” degli scritti successivi). Ebbene, riprendendo N° Ibi, p. 384. 14 Cfr. in modo particolare parr. 3 e 4.

Il significare nel destino e nella terra isolata

267

una tematica di quegli Studi, la questione ora è quella di appurare se è possibile non — come veniva posto da quegli Studi — che «Ia verità

confermi la fede (qualsiasi essa sia), ma di stabilire che cosa rimanga, come non oltrepassato dalla terra che salva, della terra isolata una volta che questa pervenga al tramonto, oltrepassata dalla terra che salva»'‘?.

In altre parole: fuori dall’isolamento che li avvolge, cosa sono e a

cosa sono destinati

i contenuti

presenti nella terra isolata? Sono

de-

stinati a permanere o a tramontare col tramonto della terra isolata? In

attesa di nuove determinazioni che tolgano la (apparente) problemati-

cità, il linguaggio che testimonia il destino deve affermare che, se da

una parte è necessario che il contenuto isolaro dall’isolamento e quello distinto dalla totalità della persintassi e iposintassi siano identici, dall'altra è un problema se e cosa di tali contenuti apparirà una volta tramontato l'isolamento.

Interrogativi che conducono al contenuto e alla struttura autentica

dell'apparire.

‘2 Ibi, p. 385.

CAPITOLO

QUARTO

LA STRUTTURA DELL'APPARIRE

Il destino «vuole la propria negazione come negata all’in-

terno dell'apparire di se stesso»

(E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 589)

I. Che cos'è l'accadere?

Si richiamano in questo capitolo le tematiche dell’apparire come apparire dell'apparire dell’apparire (supra 1, 9) e dell'identità della dimensione logica e fenomenologica (supra 11, 4). Nel primo capitolo si è visto che un ente appare in quanto appare il suo apparire: l'ente appare, ossia è presente, in quanto questo suo essere presente è presente. Se non lo fosse, il suo essere presente sarebbe un non essere presente e cioè l’ente non apparirebbe. Che un ente appaia significa perciò che appare il suo apparire, ossia che il suo apparire è un essente (eterno) presente come tale. Ma anche quell’essente

che è l'apparire dell’apparire deve apparire; infatti, se non apparisse, l'apparire dell’apparire non apparirebbe e cioè l'apparire dell'ente non apparirebbe e cioè l'ente non apparirebbe. In altre parole, un ente appare non solo in quanto appare il suo apparire, ossia in quanto il suo essere presente è presente, ma anche in quanto appare l'apparire del suo apparire. Il che può anche essere detto così: in quanto l’autocoscienza (in cui consiste l'apparire dell’apparire) appare, ossia è cosciente come tale (coscienza dell'autocoscienza). Si è anche mostrato come questa triplice posizione non dia luogo a un regresso all'infinito, giacché la coscienza (apparire dell'ente), l'autocoscienza (apparire dell'apparire)

€ la coscienza dell’autocoscienza (apparire dell’apparire dell’apparire)

Non sono tre momenti che stanno l’uno fuori dall'altro, ma strutturano

la medesimezza dell’apparire dell’ente. In altre parole, quell’atto semPlice in cui sembra consistere l’avere coscienza è, in verità, qualcosa di complesso e articolato: la coscienza è già, cioè in quanto tale, coscien-

za di autocoscienza (apparire dell’apparire dell’apparire).

270

Cap. Iv - La struttura dell’apparire

Alla luce di ciò, credere che l'apparire sia un atto semplice, ossia credere che l’ente si possa presentare senza che si presenti il suo

presentarsi (e il presentarsi del presentarsi), significa porre l’apparire come non apparire. La concezione semplice dell’apparire non è dun-

que qualcosa di neutrale, come comunemente si crede, ma è una posizione concettuale immediatamente autocontraddittoria, in quanto la

semplicità dell’apparire coincide con la sua impossibilità. L'apparire non è dunque un atto semplice ma complesso, consistente nell’apparire dell’apparire dell’apparire: l'apparire è un originario apparire di sé in quanto il contenuto che appare include necessariamente il suo apparire, anche se comunemente non si è consapevoli di tale essenziale inclusione. L'apparire è per questo una sfruffura, cioè un intreccio di posizioni logiche, un semantema complesso. Questo è il punto di partenza delle considerazioni che seguiranno. In Destino della necessità, in modo

particolare nei capitoli 1v e v,

come anche ne La Gloria e in Oltrepassare, Severino prosegue le mai abbandonate riflessioni sulla struttura dell’apparire. Cercheremo di sintetizzare in maniera essenziale la sua riflessione. In Destino della necessità la riflessione si rivolge innanzitutto all’accadere. Per il nichilismo «accadere» significa «incominciare ad essere venendo dal niente»: ex-sistere, rileva Severino, è sempre inteso dall’Occidente come un venire dal niente e tornare nel niente (cfr. 1); «l'evento è, appunto, un e-vento, ex-venire. Ma da dove viene l'even-

to? [...] L'evento viene dal niente — risponde l'Occidente. Non esiste

un mondo in cui l’evento abiti originariamente e da cui esso venga»'. Severino mostra che l’accadere non può essere l’incominciare a essere dell’ente che appare: «l’accadere è l’incominciare ad apparire dell’ente. È questo l’accadere che, nell'apertura della verità, appare. Inteso invece come un incominciare a essere, uscendo dal niente, l’accadere

non è qualcosa che appare»?. L'accadere è cioè la vicenda in cui l’ente incomincia ad apparire e cessa di apparire: «l’accadere non è l’incominciare ad essere ma l’incominciare ad apparire»?. Come si nota, non solo l’accadere non è l’incominciare a essere, ma

non è nemmeno solo l’apparire: l’accadere è l’incominciare ad appari re e il cessare di apparire. Il motivo è semplice: se l’accadere fosse solo ! E. Severino, Gli abitatori del tempo, cil., p. 137. 2 E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 104.

3 Ibi, p.97.

Che cos'è l’accadere?

271

l'apparire dell’essente, esso sarebbe un contenuto costante (dell Ap-

parire trascendentale: cfr. infra), e quindi non sarebbe un accadere; e

se fosse un contenuto costante, apparterrebbe necessariamente all’ Apparire, con la conseguenza che il suo non appartenergli ancora o il suo non appartenergli più darebbero luogo a una forma di entificazione o annullamento. L'accadere è perciò l'incominciare ad apparire e il cessare di appanire.

Ma tale incominciare e cessare non danno forse luogo ugualmente, proprio in quanto tali, a una certa entificazione e nientificazione dell’essere? In altri termini, come è possibile che l’incominciare ad apparire e lo smettere di apparire siano essenti eterni, se essi sono, appunto, un incominciare e uno smettere? L'incominciare e il finire non portano necessamamente con sé un venire dal niente e tornare nel niente? L’accadere, inteso come incominciare ad apparire, è un essente: «questo passaggio dall’ombra alla luce ha un significato, cioè è un ente; quindi è eterno»*. Il passaggio dall’ombra alla luce, in cui consiste l’accadere come incominciare ad apparire, e il passaggio dalla luce all'ombra, in cui consiste l’accadere come smettere di apparire, sono essenti. Quindi eterni. L'accadere esige cioè, per essere tale, che ci sia un prima e un poi. Ma questo prima e questo poi, in quanto non apparire ancora è non apparire più, non negano forse l’essere dell’apparire che inizia? Quel prima e quel poi non costringono forse

ad affermare che quell’ente che è l'apparire sopraggiungente prima di sopraggiungere è niente e quando cessa di presentarsi torna nel niente? Cos'è infatti l'apparire sopraggiungente prima di apparire e dopo essere apparso? Per rispondere a queste domande, si deve innanzitutto tenere presente che l'accadimento è il sopraggiungere dell’apparire dell’essente e non il sopraggiungere dell’essente. L’apparire cioè ha come contenu-

to l'apparire dell'essere e non semplicemente l’essere (che pure è ciò che appare): se, infatti, l'apparire non avesse come contenuto l’apparire dell’essente ma l’essente, il non-apparire-ancora dell’ente sarebbe il suo non essere ancora (e cioè il suo essere niente) e, viceversa, il nonapparire-più dell’ente sarebbe il non essere più dell’ente (e cioè il suo essere niente). Il prima sarebbe cioè il momento in cui l'essere ancora

non è (e non invece in cui non è ancora sopraggiunto) e il dopo sarebbe il momento in cui l’essere non è più (e non invece in cui non appare

C—_—__—_————_————_—

‘Ibi, p.97,

272

Cap. IV - La struttura dell’apparire

più). Il sopraggiungere dell’ente che sopraggiunge è dunque il sopraggiungere dell’apparire dell’ente, così come lo scomparire dell’ente è lo scomparire dell’apparire dell’ente: «l’apparire del sopraggiungere è l'apparire dell’incominciare ad apparire del qualcosa (ossia è l’apparire dell'incominciante apparire del qualcosa)». In altre parole, si può dire che il non apparire ancora dell’apparire incominciante non è il suo essere niente, cioè la nientità di tale essente (in cui consiste l’apparire

incominciante): «con l’incominciare ad apparire dell’ente non si pro-

duce una sintesi nuova tra l’ente e il suo apparire, ma tutro ciò che so-

praggiunge (e sopraggiunge anche la sintesi tra l’ente sopraggiungente e l’apparire in cui il sopraggiungente sopraggiunge) è già, eterno»®, E che non si formi una sintesi nuova (uscita dal niente) «non significa

dunque che quella tra il sopraggiungente e il suo sopraggiungere [...] non sia una sintesi, ma significa che, in quanto questa stessa sintesi

sopraggiunge, essa è già, eterna»”. Le domande a cui si è ora risposto sono in realtà una individuazione della domanda generale sull’apparire, che abbiamo già affrontato nel primo capitolo e che suona così: dal momento che l’apparire dell'essente è un essente, che ne è di esso quando non appare? Che ne è cioè

dell’apparire quando non appare? Non si deve forse dire che, se la sua essenza è quella di apparire, non apparendo esso smette di essere ciò che è, ossia è niente?

Questa obiezione nasce dall’isolamento tra l'apparire della determinazione e la determinazione che appare: come abbiamo visto, l’ente che appare, appare in quanto appare il suo apparire. I due momenti non sono isolabili. In tal modo, quando qualcosa appare, e si dice che esso

non nasce ma inizia a presentarsi, si dice lo stesso del suo apparire: che non nasce, che non viene dal niente, ma che inizia a presentarsi.

Per cui si deve dire che «quando qualcosa comincia ad apparire — ossia

si inserisce nell’orizzonte trascendentale dell’apparire —, incomincia

ad apparire anche il suo apparire, ossia incomincia ad apparire anche l’inclusione del qualcosa nell’apparire trascendentale»*. Ma consideriamo ora il ripresentarsi, in modo più specifico, di quella domanda. Abbiamo detto che, in quanto l’apparire dell'essente non è un contenuto costante dell’ Apparire, il suo apparire non è semplice3 Ibi, p. 103. ° Ibi, p. 101.

? Ibidem. 8 E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 110.

Che cos'è l’accadere?

273

mente apparire, ma iniziare ad apparire. L'apparire dell’essente che inizia ad apparire non è dunque, semplicemente, il suo apparire, ma il

suo apparire incominciante, un essente etemo come

ogni altro. Ecco

l'obiezione: non si deve forse dire che l’apparire incominciante, proprio in quanto tale (!), consiste nell’iniziare e non nell'essere sempre, etemamente? Non si deve forse dire che l'apparire incominciante, proprio in quanto incomincia, prima di incominciare era niente? Anche in questo caso, come si nota, la domanda non fa altro che ripresentare l’obiezione generale, sopra prospettata, sull'apparire dell’essente in quanto contenuto non costante dell’ Apparire trascendentale. Infatti, anche in questo caso, si tratta dell’incominciare ad apparire e mon dell’incominciare a essere; e tale iniziare (e cessare)

dell'apparire è necessario perché l’accadere degli enti è a sua volta un essente, e il suo essere qualcosa consiste appunto nel suo essere accadere, cioè nell’incominciare ad apparire e smettere di apparire. Perciò, in virtù della necessità che ogni essente non sia niente, il passaggio dal non apparire all'apparire e viceversa, in cui consiste quell’essente che è l’accadere, deve accadere. Che tale passaggio debba accadere significa poi che è necessario che l’ente che accade si mantenga nascosto sino a che incomincia ad apparire. Senza questo nascondimento l’accadere non sarebbe accadere; ma poiché l’accadere è un essente che, in quanto

tale, non può essere niente, devono esistere sia il nascondimento che il

disvelamento. Si apre una parentesi. Quest'ultimo aspetto potrebbe dare luogo a un nuovo interrogativo: dicendo che esiste il disvelamento solo in quanto esiste il nascondimento, ossia dicendo che l'ente che appare può apparire solo in quanto un certo altro ente non è presente, si dice che un certo ente appare in quanto appare l’assenza dell’altro ente. Precisa infatti Severino che, «come l'apparire di ciò che appare, così l'ombra dell'assenza non è un niente, e quindi è eterna»’. Enti eterni, dunque, sia la presenza dell’ente che la sua assenza. Riprendiamo l'esempio del

festo citato: il cielo scuro e il cielo azzurro sono due essenti (due insie-

mi dì essenti); quando la presenza del cielo scuro entra nell’apparire, entra anche l'assenza dell'altro essente e viceversa:

«Variando il contenuto di questo cerchio, varia insieme il senso dell'assenza delle cose che sono assenti da tale contenuto. Il contenuto precedente e l'as—_———_——_—

SE

Severino, Destino della necessità, cit., p. 165.

274

Cap. IV - La struttura dell’apparire

senza che gli corrisponde escono dal cerchio dell'apparire e in questo cerchio entrano il contenuto nuovo e l'assenza che gli corrisponde»!9.

Ora, alla luce di ciò, non si dovrà forse concludere che il cielo scuro

presente non è il cielo scuro assente e cioè che esistono due diversi cieli

scuri? Ma se sono due enti assolutamente diversi, e cioè se ciò che è

assente e ciò che è presente non sono il medesimo cielo scuro, come si può dire che il cielo scuro assente è presente e, viceversa, che il cielo scuro presente è assente?

«In quanto eternamente assente, il cielo scuro differisce dal cielo scuro in quanto eternamente presente. E tuttavia, in quanto entrambi i differenti sono

cielo scuro di Venezia in una certa giornata, essi hanno in comune qualcosa di identico, che non hanno in comune col cielo azzurro e con qualsiasi altro ente. Questa identità è il presente-assente. Ogni cosa della terra è questa identità

presente-assente del diverso»!!.

Si concluda dicendo che il rapporto tra l'apparire dell’essente e la sua appartenenza all’apparire è un essente, eterno, che si presenta e si assenta. In altre parole, non è quel rapporto a iniziare e finire, bensì è l'apparire di quel rapporto a stare nascosto, quindi a mostrarsì, quindi a scomparire. Anche in questo caso, è quell’essente etemo che è l’apparire di tale rapporto a presentarsi e assentarsi. E così come i tre momenti dell’apparire (apparire, apparire dell’apparire, apparire dell’apparire) non sono tre momenti l’uno fuori dall’altro, ma lo stesso

medesimo apparire dell’essente, allo stesso modo, in questo caso, non si dà regresso all'infinito proprio in virtù della medesimezza dell’apparire di quel rapporto. La forza logica di tale posizione risiede, da ultimo, nell’impossibilità che ciò che è non sia niente (cioè nell’autonegatività della negazione del destino). L’accadere non è dunque l’incominciare a essere, ma l’incominciare ad apparire di quell’essente eterno che è l'apparire dell’ente. Che l'apparire delle cose sia un essente (eterno) necessita però ancora di

alcuni notevoli chiarimenti teoretici. Innanzitutto si deve distinguere tra I’ Apparire trascendentale (essente che lo sviluppo del discorso aveva già costretto a introdurre), come dimensione trascendentale che accoglie e congeda l'apparire dei !0 Ibi, p. 166. ! Ibi, p. 167.

275

Che cos'è l’accadere?

singoli enti, e l'apparire empirico, ossia l'apparire particolare (inco-

minciante e cessante)

delle singole

determinazioni.

Da

Essenza

del

(è il caso,

ad

nichilismo in poi i testi severiniani ritornano costantemente su tale differenza, apportando

integrazioni

talvolta fondamentali

esempio, degli emendamenti apportati da Destino della necessità su alcuni momenti

ancora nichilistici di Essenza del nichilismo). L'ap-

parire empirico, ossia l'apparire particolare dell’ente, non è l’appari-

re trascendentale quale orizzonte della totalità di ciò che appare. Le

cose appaiono (appare cioè il loro particolare apparire) in quanto esiste l'apparire trascendentale, cioè la dimensione in cui il loro apparire vie-

ne accolto, ospitato e congedato. Ma per poter accogliere e congedare

l'apparire delle cose, tale dimensione trascendentale non può apparire e scomparire, ovvero non può apparire il suo sopraggiungere e conge-

darsi. In Essenza del nichilismo questo apparire viene definito «l’even-

to trascendentale, ossia l'orizzonte della totalità di ciò che appare (e

quindi come l’orizzonte in cui sopraggiungono e da cui si congedano le determinazioni che divengono)»!?, o anche il «cerchio dell’apparire».

Ne La Gloria e in Oltrepassare l'apparire trascendentale è l’Io (o il cerchio) finito del destino. In ogni caso, comunque lo si voglia chiamare, esso non può apparire e scomparire come l'apparire empirico, giacché, per farlo, dovrebbe entrare e uscire dal cerchio dell’apparire, ossia da se stesso! L'apparire trascendentale non può entrare e uscire da se stesso, perciò non inizia mai ad apparire e non smette mai di apparire. Esso è intramontabile: è «la ferma dimensione trascendentale

dell'apparire». Ferma in due sensi: nel senso in cui tutti gli enti sono immobili in quanto eterni, e cioè nel senso profondo della immobilità, per cui ogni ente è eterno e dunque non si muove, anche quando appare e scompare (cfr. prossimo paragrafo); e nel senso più comune

della immobilità, cioè in quanto all’apparire trascendentale non competono né il sopraggiungere né il dileguarsi. Per apparire e scompari-

re, l'apparire trascendentale dovrebbe diventare contenuto di se stesso € smettere di essere contenitore; ma smettendo di essere contenitore, £sso non potrebbe essere contenuto di se stesso, giacché il contenuto non avrebbe chi lo contenga (sarebbe contenuto del nulla). Quindi il

cerchio dell’apparire non si muove, cioè non appare nel senso dell’entrare e uscire da sé; ciò che appare in tal senso è il suo contenuto. Il modo in cui l'apparire trascendentale «non diviene» (nel senso non niT—_—_—_——-

" E. Severino, Essenza del nichilismo, cit, p. 98.

276

Cap. IV - La struttura dell’apparire

chilistico dell’apparire testé menzionato) è essenzialmente collegato al

«non divenire» della persintassi, ossia al non tramontare della struttura originaria come sfondo dell’apparire. Ma anche se iniziante e tramontante, l'apparire empirico è un es-

sente e, come tale, non nasce e non muore. Anche l’apparire empirico è cioè quell’essente eterno che nell’accadere inizia, «uscendo dall’ombra

del non apparire»!: l'apparire è un ente eterno che inizia in quanto so-

praggiunge nell’accadere. Per questo Severino lo definisce l'apparire

iniziante o anche sopraggiungente. Senza l'apparire iniziante, l’appa-

rire dell’ente non potrebbe accadere, cioè non potrebbe iniziare e cessare, e quindi l’accadere come iniziare e cessare sarebbe niente. Senza l'apparire iniziante, l'apparire non inizierebbe e non smetterebbe, sarebbe cioè costantemente presente. Come detto, non si deve considerare l’apparire che accade come un semplice essere presente, perché così sì negherebbero quegli essenti che sono l’apparire iniziante, l'apparire cessante e dunque l’accadere come sopraggiungere e dileguarsi. E anche qui, lo si ribadisca, per non negare l’innegabile (cioè l’esser essere

dell’essente), si deve affermare che il sopraggiungere non è il passaggio tra l'apparire e il non apparire, ma è l'apparire del passaggio tra il non apparire e l’apparire: se non apparisse il passaggio tra non apparire e apparire, l'apparire che inizia non apparirebbe come apparire che inizia e il suo iniziare ad apparire sarebbe un iniziare a essere. Questo chiarimento risponde a un’altra domanda: posto che ogni apparire è eterno, questo apparire che ora accade poteva forse non accadere e lasciare il posto all’accadere di un altro apparire? A tale domanda si deve rispondere dicendo che l’apparire dell’accadere, ossia l'apparire dell'apparire che incomincia ad apparire, «appartiene all’essenza dell’accadere»"‘, e cioè che l’accadere non può rimanere nascosto, non può non apparire: non si può dire che questo accadere sarebbe potuto «restare nel non apparire lasciando che un altro apparire appaia. [...] Questa supposizione (che in Essenza del nichilismo consente di te-

nere aperto ta, appunto (Che in pende dalla

il problema della “contingenza”) non può essere mantenuperché l’apparire appartiene all'essenza dell’accadere». Essenza del nichilismo rimanga aperta tale possibilità dipermanenza di quel nichilismo residuale di cui abbiamo

! E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 99.

! Ibi, p. 105. ! Ibidem.

Che cos'è l'accadere?

277

parlato nel I capitolo). Questo accadere, dunque, non poteva non accadere così come accade.

Ricapitolando. L’ Apparire trascendentale è l'orizzonte che accoglie, ospita e congeda l’apparire particolare: esso è detto “trascendentale” non nel senso dell’universale presente in ogni particolare, bensì

in quanto orizzonte assoluto che include in sé ogni apparire empirico. Anche quell’apparire che consiste nell’esser altro da sé: anche l’apparire come altro da sé appare infatti nell’apparire trascendentale.

Eb-

bene, che tale apparire — o apparire finito o Io finito del destino — sia

un ente immutabile, comporta che l'essere sia destinato ad apparire: in quanto 1° Apparire trascendentale esiste, non può essere apparire di niente, quindi all'essere (immutabile) appartiene essenzialmente l’en-

trare e l’uscire dall’apparire. Per questo, I’ Apparire trascendentale è «l'occhio di luce in cui si mostra il Dio»'9; un occhio di luce sempre

aperto, senza palpebra; una luce sempre accesa, che non si può spegnere. Mai. Anche questa luce è un essente, perciò il suo spegnimento

corrisponderebbe alla negazione dell’esser sé di un essente; se essa si

spegnesse, accadrebbe il diventare niente di un essente: «poiché anche la luce è un ospite della casa dell’essere, il suo annullarsi è un mancamento nel coro divino»!?. L’Apparire trascendentale dunque non può iniziare e smettere di apparire, mentre l’apparire empirico sì. In tal modo, all’immutabile compete essenzialmente di apparire nel cerchio dell’ Appanire trascendentale, perché altrimenti quest’ultimo non sarebbe. Ma in quanto l’apparire in tale cerchio è un iniziare e uno smettere, è necessario, come vedremo tra poco, che il luogo che lo

ospita (l'Apparire trascendentale) non sia il luogo in cui esso dimora nella sua eternità. Il che porta con sé notevoli interrogativi: che differenza c'è tra l'ente che appare quando appare e lo stesso ente quando

non è presente in tale cerchio? Ovvero: c’è differenza tra i due enti? Non si può forse concludere che essere illuminati dalla luce del sole o

non esserlo comporta che l’ente illuminato sia diverso dallo stesso ente non illuminato? Non si pensi che la differenza consista in una mancanza di illumi-

nazione quando l’ente non è presente nel cerchio finito dell’apparire

(cfr. oltre), perché, al contrario, la mancanza riguarda l’ente illumi-

nato in tale cerchio, in quanto, come ora vedremo, la condizione di

tale illuminazione è l’astrazione dalla totalità concreta dell’essente in —_—____

" E, Severino, Essenza del nichilismo, cit., pp. 99-100.

" Ibi, p. 100.

278

Cap. IV - La struttura dell’apparire

cui tale apparire si trova. In Poscritto (Essenza del nichilismo) si parla

a tale proposito di differenza ontologica!*, mostrando che, apparendo nell’apparire finito, l'essente è isolato dalla totalità in cui si trova; in questo senso (può sembrare un paradosso, ma non lo è), l’essente non illuminato è l’essente che appare nella totalità concreta. L’illuminazio-

ne che ha luogo nell’apparire finito sarebbe pertanto la manifestazione progressiva del tutto concreto, ovvero un illuminare oscurando. E così emersa la necessità che l' Apparire trascendentale (o «appa-

rire finito») non sia la totalità dell’apparire. Che è appunto quanto si

considererà nel prossimo paragrafo (pur avendo già introdotto il tema in relazione alla contraddizione C!°).

2. L'apparire finito e l'apparire infinito del destino L’apparire della determinazione empirica non è dunque l’apparire inteso come evento trascendentale, ossia come orizzonte della totalità (finita) di ciò che appare. Le cose appaiono (appare cioè il loro particolare apparire) in quanto esiste una dimensione in cui il loro apparire viene accolto, ospitato e congedato. Proprio per questo, tale dimensio-

ne trascendentale non può apparire e scomparire, ovvero non può apparire il suo sopraggiungere e il suo congedarsi. Posta la distinzione tra

l’apparire della determinazione empirica e l’ Apparire trascendentale, si può procedere a una distinzione ulteriore, essenzialmente collegata alla prima. I testi di riferimento del tema che stiamo per trattare sono

La struttura originaria, Essenza del nichilismo, Destino della necessità (in modo particolare I! destino e l'attesa), La Gloria (in modo particolare 1 e x) e Olrrepassare (3 sensi diversi della necessità dell’ap-

parire infinito). Si è visto che l'apparire trascendentale è immobile in due sensi: in quanto, come ogni essente, è eterno, e in quanto non inizia e non tramonta, ossia non è compreso nel processo dell’apparire e dello scomparire che esso ospita. Tuttavia, in quanto essente, anche l'apparire empirico è eternamente quell’apparire che è, solo che, rispetto a quello trascendentale, esso sopraggiunge e tramonta, appare e scompare. Polché non si può dire, come si è iniziato a mostrare nel paragrafo pre!! Si può prescindere, per come viene ora intesa, dal permanere ancora nel nichilismo di quel modo di affermare tale differenza. !° Cfr. supra, 11, 9-13.

L'apparire finito e l'apparire infinito del destino

279

cedente, che l'apparire empirico inizia a essere e smette di essere, ma solo di apparire, si deve chiarire in che senso ciò sia possibile. Abbiamo visto che è impossibile che l’apparire empirico sia un contenuto costante dell’Apparire, perché, in tal caso, quell’essente

che è il rapporto tra l'apparire îniziante e 1’ Apparire trascendentale sarebbe niente, e lo stesso Apparire trascendentale sarebbe negato, in

quanto accogliente l'apparire empirico e congedante il suo scomparire. Poiché non si può affermare l’intramontabilità dell’apparire empirico (per non negare quegli essenti che sono l'apparire incominciante, l’apparire terminante e quello trascendentale), si tratta di spiegare in che senso esso possa apparire e scomparire, ossia in che senso esso, che consiste nell’esser presente, possa incontraddittoriamente non essere sempre presente. Qualcuno potrebbe vedere in ciò un autentico problema, perché

da una parte si deve dire che l'essere è necessariamente soggetto alla

processualità dell'apparire e dello scomparire (per non negare gli enti apparire trascendentale ed empirico), e dall'altra che non può esserne soggetto, in quanto l’essere presente deve essere sempre presente (e cioè non può iniziare o smettere di apparire). E così si potrebbe concludere che l'apparire, se da una parte deve essere sempre presente

(perché non apparire più o non apparire ancora, per ciò che è apparire, significa non essere più o non essere ancora apparire), dall’altra non può essere sempre presente, perché se lo fosse negherebbe quell’essente che è l’apparire empirico (quale presentarsi e scomparire). Per uscire dall’impasse non si può nemmeno affermare che l’apparire sia appa-

rente, ovvero che non esista alcun processo dell’apparire e che tutto sia fermo immobile, perché 1’ Apparire trascendentale è quell’essente che

ospita il processo dell’apparire come processo dell’andare e venire. Va dunque tenuto fermo che l’apparire degli enti, quale presentarsi e scomparire, appare innegabilmente.

Per comprendere l’incontraddittorietà del processo del presentarsi e

dello scomparire devono essere introdotte alcune distinzioni, all’inter-

no dell’apparire, di cui si è già trattato nei capitoli precedenti. L’Apparire trascendentale è l'apparire processuale di ciò che è immutabile; dal che consegue che, se ciò che è immutabile appare processualmente, ciò che di esso appare è necessariamente parziale: la processualità porta con sé la parzialità della presenza della totalità dell’essere. In questo senso il termine più adeguato per indicare tale apparire è quello di ap-

parire “finito”,

280

Cap. IV - La struttura dell’apparire

Nell'apparire finito il tutto appare processualmente, ossia parzialmente. Ma tale parzialità non nega l’esser tutto del tutto: il tutto è tale anche se non viene mostrato come tale. Ma qui sorge un interrogativo

fondamentale: non si deve forse dire che il tutto, proprio in quanto tale,

è tale solo se appare come tutto? Se non apparisse come tutto, che tutto sarebbe? È pertanto necessario affermare che il tutto deve apparire

come tutto. Ma poiché ciò che appare nell’apparire finito non è il tutto, si deve necessariamente distinguere un apparire finito, o parziale, del

tutto, che coincide con la processualità dell’ Apparire trascendentale,

e un apparire infinito del tutto, ossia un apparire in cui il tutto appare

concretamente come tutto. Severino affronta tale questione fondamentale in ogni suo scritto teoreticamente rilevante, da La struttura origi-

naria a Oltrepassare. É necessario distinguere tra un apparire “finito”, in cui le cose che appaiono e il loro apparire entrano ed escono — ovve-

ro iniziano ad apparire e finiscono di apparire —, e un apparire “totale”,

“infinito”, in cui l’ente e il suo apparire non iniziano e non smettono di

apparire. Cerchiamo di chiarire. Nel paragrafo precedente si è visto che l'apparire e lo scomparire dell’apparire non sono l’inizio e la fine dell’apparire, ma l’inizio e la fine dell’apparire dell’apparire. In altre parole, l'apparire non smette di essere tale, ma si assenta dall’apparire finito. Poiché l’apparire dell’essente non può diventare niente, è necessario affermare che esso smette

di apparire entro l'apparire finito, pur continuando necessariamente a

essere l’apparire che è. Il che significa che deve esistere un’altra dimensione in cui l’apparire empirico continua ad apparire. In altre parole: in quanto l'apparire dell’essente è un essente, esso è eterno e necessario € non può smettere di essere l'apparire che è; perciò è necessario che esista una dimensione in cui esso appare eternamente, ovvero dove esso è eternamente ciò che è anche quando questo suo essere non appare più. Gli essenti non possono restare permanentemente entro il cerchio finito dell’apparire; è perciò necessario che esista un apparire diverso da quello finito, in cui ogni essente e ogni apparire empirico appare, da sempre e per sempre. Questa dimensione è l’apparire “infinito”, che nei testi severiniani prende anche il nome di Gioia. In quanto esiste una coscienza (0 apparire) trascendentale e una coscienza (o apparire) empirica, e in quanto la seconda entra ed esce dalla prima, dove entraré e uscire non significa diventare niente, ma continuare ad apparire, ele namente, è necessario che esista un altro apparire, dove la totalità delle cose eternamente appare, che Severino chiama infinito.

L'apparire finito e l'apparire infinito del destino

281

Ma esaminiamo più rigorosamente il fondamento della necessità dell’esistenza dell’apparire infinito. L’apparire infinito è l'apparire della totalità concreta degli essenti. In quanto tale, esso è il toglimento originario di ogni contraddizione del finito. Per questo prende anche il nome

di Gioia. Ebbene, su quale base si dice che l’esistenza di tale apparire è necessaria, ovvero che l’appanre infinito esiste necessariamente?

Il fondamento di tale necessità è l'esser sé dell’essente che appare nell'apparire finito del destino, dal momento che «l’esser sé sarebbe qualcosa di contraddittorio se l'apparire infinito non fosse»?

Esplicitiamo questa fondamentale affermazione. L’apparire infinito è l'apparire della totalità concreta ed eterna degli essenti, e dunque è il toglimento originario della contraddizione C in cui sì trova avvolto l'originario. Se tale apparire non esistesse, la contraddizione non

sarebbe qualcosa di originariamente tolto, ovvero di immediatamente

autonegativo, ma qualcosa che sussisterebbe e dovrebbe essere tolto;

in questo modo però l'originario non sarebbe tale, cioè non sarebbe originaria negazione del proprio negativo: esso infatti sarebbe essen-

zialmente diveniente, consistendo in quel divenire altro che sarebbe iltoglimento della propria negazione. Il de-stino non sarebbe lo stare

etemo e innegabile dell’essere, ma il divenir se stesso: il divenire altro sarebbe la sua essenza originaria. In altre parole: l’esser sé dell’essente sarebbe il divenire altro, la contraddittorietà del non essere negazione

(eterna e originaria) del proprio negativo. In altre parole ancora: la propria negazione non sarebbe autonegazione originaria. Ma poiché ciò è immediatamente

impossibile

(perché immediatamente

autonegativo),

l'apparire infinito esiste necessariamente, ed è sulla base dell’apparire finito, ovvero sulla base dell’esser sé dell’essente che appare nell’appanre finito del destino, che è necessario affermare l’esistenza.

Abbiamo dunque un apparire infinito e un apparire finito del deslino, dove il primo è la posizione (apparire) della totalità concreta dell’essente, mentre il secondo è la posizione (apparire) formale di tale

totalità: l'apparire finito è posizione della necessità dell’esistenza di CIÒ che in esso non può apparire concretamente, ovvero posizione della Necessità dell’esistenza di una infinità (totalità concreta) dell’essente

fondata sulla innegabilità dell’esser sé dell’essente. In Essenza del nichilismo Severino mostra — approfondendo il senso della contraddiZone C — come il cerchio trascendentale dell’apparire non contenga —_—_——_@—&

NE. Severino, Oltrepassare, cit., p. 175.

282

Cap. Iv - La struttura dell’apparire

(e non possa contenere) l'apparire infinito dell'essere. Tale questione viene poi ripresa in Destino della necessità (soprattutto nei capitoli xIl e xl intitolati /! mortale e l'inconscio e Il destino e l'attesa), ne La Gloria (soprattutto 11 e x) e in Oltrepassare.

Nel 1 capitolo de La Gloria, riprendendo le posizioni affermate da La struttura originaria in poi, seppur emendate da quel nichilismo residuo di cui si è parlato (supra, 11, 12), Severino indica la necessità

dell’apparire infinito. È una sintesi concettuale molto apprezzabile, perché va al fondamento di tale necessità, dando — per così dire — alla questione la parola definitiva. In Essenza del nichilismo e successivamente in Destino della necessità, si era mostrata la necessità che «la totalità concreta della contraddizione sia eternamente oltrepassata nella

Gioia»?!. Riprendendo tale posizione, Severino mostra che «la necessità di tale oltrepassamento è uno dei tratti essenziali del fondamento della destinazione dell’uomo alla Gloria»??, Sappiamo che l’originario è la posizione formale della totalità, e dunque non è la totalità concreta dell’essente, per cui è necessario affermare che il tutto che appare nel e come originario non è il tutto concreto. Si potrebbe chiedere: come si può affermare, stando nell’apparire attuale o originario, che ci siano altre determinazioni oltre quelle che appaiono? Si può affermare innegabilmente che l’originario non contiene almeno una determinazione: quella «che consiste nel risolvimento del problema se ciò che appare attualmente sia o meno la totalità concreta dell’essente»?. In relazione a tale determinazione Severino sviluppa il seguente ragionamento: essa potrebbe esistere come non esistere affatto. Se non esistesse, si dovrebbe chiedere se tale inesistenza è affermata dalla struttura originaria oppure se si tratta di una semplice ipotesi senza fondamento, una convinzione, un atto di fede. «Nel primo caso, Ja struttura originaria della verità, nella sua configurazione

attuale, non include quella fondazione, e pertanto non è la totalità concreta dell’essente. Nel secondo caso, la struttura originaria è e non è, sub eodem,

un problema».

Consideriamo questo secondo caso. Il testo dice che la struttura orl-

ginaria, laddove ponesse senza fondamento che non si dà soluzione al 2 E. Severino, La Gloria, cit., p. 78.

2 Ibi, p.79.

" Ibidem. % Ibidem.

L'apparire finito e l'apparire infinito del destino

283

problema, sarebbe e insieme non sarebbe un problema: lo sarebbe, in

quanto non includerebbe tale fondazione; non lo sarebbe in quanto affermerebbe l’insolubilità del problema e potrebbe così porsi come totalità concreta, dal momento che non esiste altro dall’originario, nemmeno quella determinazione che è la risposta al problema se esista altro.

In questo caso, però, la struttura originaria sarebbe e non sarebbe tale

problema, ossia sarebbe contraddittoria. Il che è impossibile. Consideriamo i due lati di questa contraddizione: da un lato abbiamo l'apparire

della non

inclusione,

ossia dell’assenza,

della fondazione;

dall’altro

abbiamo l'affermazione infondata che quella fondazione non esiste.

Abbiamo cioè un apparire fondato, quello dell'assenza della soluzione,

e un apparire infondato, quello dell’inesistenza della fondazione.

«È quindi necessario che la struttura originaria sia negazione di questa contraddittorietà, e che si costituisca come siffatta negazione negando non già l'apparire di questa assenza, ma quell’affermazione senza fondamento; e dunque affermando che — appunto perché non ha fondamento l’affermazione che sia un nulla la soluzione del problema se l’originario sia o non sia la totalità

concreta dell’essente — la totalità dell’essente non coincide con l’originario: per lo meno perché l’originario non è l'apparire di quell’essente che è la soluzione di questo problema, e la cui inesistenza è impossibile»?5.

L'originario è perciò apparire formale del tutto concreto, e dunque contraddizione C. In tutti gli scritti resta fermo che l’infinità del destino appare. Accanto a ciò, resta altrettanto fermo che l'apparire del destino è necessariamente finitezza. Il che determina quella contraddizione C, consislente nell’essere infinito e totale e insieme nel non essere né infinito né totale da parte dell’apparire del destino. Si cercherà ora di analizzare Proprio il significato dell’infinità e della finitezza dell’apparire del destino e del loro rapporto, partendo da Essenza del nichilismo e ripercorrendo tutti i principali contributi teoretici degli scritti successivi fino a Oltrepassare.

In Essenza del nichilismo Severino aveva mostrato che il cerchio

finito dell’apparire non contiene il Tutto ed è perciò una parte del Tut-

to, anche se il Tutto deve necessariamente apparire totalmente: se così

non fosse, il tutto non sarebbe tutto. Che Tutto è, infatti, quel tutto che

non appare come tutto? È pertanto necessario distinguere tra un ape

——_—

* Ibi, p. 80,

284

Cap. Iv - La struttura dell’apparire

parire infinito del tutto e un apparire finito, coincidente con il cerchio

dell’apparire trascendentale in cui consiste la coscienza dell’uomo (nel senso inizialmente chiarito dell’esser “io” come autocoscienza). Tale apparire trascendentale è finito, e perciò in esso il tutto non può appa-

rire come tale. Si deve pertanto concludere, che è quanto Severino fa in Destino della necessità, che «l’apparire compiuto e totale del Tutto si mantiene, rispetto al cerchio dell’apparire del destino, nell'ombra del non apparire»??. Il cerchio dell’apparire non contiene dunque l’apparire infinito del tutto: esso è cerchio dell'apparire anche senza che in esso appaia il tut-

to. Il che è evidente: se così non fosse, il tutto sarebbe compreso in esso

e nulla più entrerebbe e uscirebbe. Non potrebbe accadere la Terra. Da una parte si deve dunque concludere che è necessario che l’apparire infinito del tutto non entri completamente nel cerchio dell’apparire finito, pena altrimenti la negazione dell'ente che è il cerchio dell’apparire

stesso, l’inoltrarsi della terra, così come l’apparire e lo scomparire di tutto; dall'altra però proprio questa necessità determina la contraddi-

zione dell'originario (contraddizione C).

In quanto il destino appare e insieme non appare nella sua con-

creta infinità, Severino può affermare che la Gioia è l'inconscio dello

stesso apparire del destino. Il che può apparire paradossale, dal momento che il destino è infinità, cioè totalità concreta dell’essente. Il destino è dunque sia apparire finito sia apparire infinito. Comprendere e approfondire questo aspetto, cioè in che senso il destino possa essere finito e infinito insieme, significa fare ritorno alla contraddizione C

tematizzata nel 1 capitolo. Ecco spiegato il motivo per cui dopo La struttura originaria Severino non può abbandonare mai la riconsiderazione della contraddizione C, la cui analisi si trova infatti in tutti gli scritti successivi, compresi La Gloria e Oltrepassare. Ma poiché non si sta parlando di un ente qualsiasi, bensì di quell’ente che è la stessa totalità infinita, come è possibile che essa si affermi per quello che non

è? Come è possibile che il tutto si contraddica? Queste sono alcune delle domande, già incontrate nel 11 capitolo, che la contraddizione € solleva. Ora si tratta di affrontarle più analiticamente.

Ne La Gloria Severino dedica un intero capitolo (11) alla differen

za tra lo finito e lo infinito, mostrando innanzitutto che la finitezza dell’Io del destino è la contraddizione della verità, mentre la finitezza ® E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 427.

L'apparire finito e l'apparire infinito del destino

285

dell’io dell’individuo è la contraddizione della non-verità. Emerge che

la totalità dell’apparire infinito non può coincidere con la totalità delle cose che appaiono nel cerchio finito, perché altrimenti, prima e dopo

il loro apparire, le cose e il loro apparire sarebbero nulla. Ciò porta

alla necessità di affermare la differenza tra apparire finito e infinito del destino (che, rileva Severino, è la vera differenza ontologica), in cui

l'apparire che via via si presenta non è la totalità infinita dell’apparire

del destino. Questa distinzione può avvicinare molto la riflessione se-

veriniana all’àrerpov anassimandreo, ovvero a una certa esplicitazione di quest’ultimo (cfr. in proposito VI, 2).

Nella

verità

del

destino,

l'apparire

dell'ente

(ossia

l’apparire

dell’apparire del suo apparire) non inizia e non finisce mai, è cioè in-

finito; anche se, in un altro senso, esso inizia e finisce, in quanto entra

ed esce da quell’essente che è l'apparire trascendentale, ossia entra ed

esce dalla eterna luce dell'occhio intramontabile che è l'apparire finito. L'apparire finito è cioè quell'essente eterno in cui accade il processo dello scomparire e dell’apparire di ciò che eternamente è e appare (nell’infinità del destino).

Alla luce della differenza tra apparire finito e infinito del destino, si può rispondere a un interrogativo che potrebbe essere rimasto in relazione alla differenza tra apparire empirico e trascendentale: così come si accetta che l’apparire empirico continui ad apparire su un’altra scena, non si potrebbe sostenere che anche l' Apparire trascendentale possa tramontare, continuando ad apparire su un’altra scena? Questa conclusione è immediatamente contraddittoria, poiché si fonda sul-

la posizione astratta dell’apparire (empirico e trascendentale).

Posti

concretamente, l’obiezione e gli interrogativi svaniscono. L’apparire trascendentale è infatti il luogo (l’apparire) che ospita l'apparire empirico, che può iniziare e smettere di apparire in quanto può entrare e

uscire dall'apparire trascendentale; quest’ultimo, invece, non può ini-

Ziare e smettere di apparire, perché per far ciò dovrebbe entrare e uscire da se stesso.

Negli scritti di Severino l'apparire finito del destino viene definito «non già come determinazione particolare o empirica, ma come evento trascendentale, ossia l'orizzonte della totalità di ciò che appare (e quindi come l’orizzonte in cui sopraggiungono e da cui si congedano le determinazioni che divengono)»?7. In Essenza del nichilismo fino _—_—_—_——@& n

»

E. Severino, Essenza del nichilismo, cit., p. 98.

286

Cap. IV - La struttura dell’apparire

ad alcune parti di Destino della necessità, Severino usa l’espressione

«apparire trascendentale»; da Destino della necessità in poi quella di-

mensione, oltre a «cerchio originario dell’apparire», prenderà sempre

più stabilmente il nome di «Io finito del destino». L’approfondimento

del concetto in questione ci consentirà anche di comprendere tale ade-

guamento terminologico. Il destino è l'apparire dell’esser sé degli essenti. In quanto tale, il destino è ‘‘io’’, cioè autocoscienza: «soltanto un apparire può rivolgersi a sé e vedere nel veduto lo stesso vedere, e dire “io”’»?8. L'io del destino non ha niente a che vedere con l'io dell’individuo (cfr. prossimo paragrafo): non si tratta della coscienza individuale, di ciò che l'individuo

crede di essere, della “persona”, dell’“anima” o di qualcosa di simile. L’io del destino è quell’apparire che «può rivolgersi a sé» e vedersi in ciò che vede e dire “io”. L’io del destino è l’apparire autocosciente dell’esser sé dell’essente: «l'apparire originario del destino è apparire di sé, autocoscienza e in questo senso “Io”: l’io del destino è la stessa

verità originaria»? Tale apparire autocosciente, nel linguaggio che te-

stimonia il destino, è la “verità originaria”, dove l’originario, come si è visto alla fine del 11 capitolo, è ciò che è sorpassato dall’immutabile. In quanto tale, l'apparire originario non è la totalità infinita dell’apparire, e per questo l’Io del destino, quale apparire originario, è un io finito. L’io finito del destino è il cerchio originario dell’apparire, ossia (la totalità del) l’apparire attuale. La verità originaria si struttura come «riferimento dell’apparire del destino a se stesso (dove il “sé” non pre-

cede il riferimento, ma coincide con esso)»?°. La totalità di ciò che

appare originariamente è dunque l’Io finito del destino; e, poiché in ciò che appare è incluso originariamente il proprio apparire (cfr. paragrafo precedente e supra, 1, 9), alla totalità di ciò che appare è originariamente incluso il proprio apparire. Essendo un tale apparire, lo del destinoè «la dimensione attuale dell' apparire»"!. L'Io del destino possiede originariamente, nel proprio inconscio, «l'apparire di tutti i contenuti che possono inoltrarsi nel suo cerchio»??. Questo inconscio

possesso è l'apparire concreto del tutto, «l’apparire infinito del destino». L’apparire infinito non può apparire nel cerchio finito, e in quanto ® E. Severino, La Gloria, cit., p. 60.

® Ibi, p. 59. * Ibidem.

® Ibi, p. 60. ® Ibi, p. 62.

L'apparire finito e l'apparire infinito del destino

287

non appare, ne è l’inconscio (Destino della necessità, La Gloria). In

quanto apparire concreto del Tutto, l'apparire infinito del destino non

appare in contraddizione con se stesso, come invece accade al destino

finito (o apparire finito del destino). Questo significa che I°Io del de-

stino è un contraddirsi solo in relazione al proprio conscio, poiché il proprio inconscio — in quanto apparire infinito — è il toglimento della

contraddizione in cuì consiste la finitezza dell'Io. Per questo Severino

può affermare che «nel proprio inconscio l'Io finito è se stesso infini-

tamente, cioè senza contraddizione, senza essere in contraddizione con se stesso. È concretamente se stesso. Nel proprio inconscio l’Io finito del destino è la Gioia»”!. È opportuno, a questo punto, chiarire il significato del termine infinito nel discorso severiniano. In Oltrepassare, soprattutto nei capitoli

wie vii (Aporie e risoluzioni. Verticalità e Ontologia e matematica) si

trovano esaustive delucidazioni; in modo particolare viene chiarito che

«l'infinito a cui quel linguaggio si riferisce ha un significato essenzialmente diverso dall’infinito matematico, e in generale dall’infinito della scienza e di

ogni sapienza dei mortali. L'infinito che appare nello sguardo del destino è il concreto e concretantesi esser sé dell’essente — l’esser sé la cui negazione è

autonegazione»**.

L'aggettivo concretantesi, accanto all'altro aggettivo concreto, non

si riferisce all’apparire infinito come tale, ma all'infinito della Gloria, che riguarda l’apparire finito e consiste nell’«esser sé nel suo esser sempre più concreto, cioè sempre più libero dalla contraddizione»* che in esso ha luogo. L’apparire infinito è l'apparire della totalità concreta dell'essente; mentre nel finito, come vedremo nei prossimi para-

grafi analizzando il significato della Gloria, c’è un progressivo dispie-

Bamento dell’essente verso la sua concretezza,

sempre più, proprio in quanto apparire finito L'apparire finito è propriamente il progressivo parire dell'essente in cui consiste il progressivo tradizione C. All’interno dell’apparire finito,

che, pur avvicinando

non raggiungerà mai. infinitizzarsi dell’aptoglimento della conl'infinito non può ap-

parire nella sua concretezza bensì in un dispiegamento progressivo e

esauribile. La situazione dell’Io finito severiniano può ricordare il

Compito infinito dell’lo fichitiano, come evidenzia lo stesso Severino —_—_—_—_—_——_—_—