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Italian Pages 290 [256] Year 2023
Marco Rienzi Emanuele Severino. Con l’Occidente, oltre l’Occidente
Zeugma
Collana diretta da:
Massimo Adinolfi e Massimo Donà
Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.
Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 34 - Proposte
Marco Rienzi
Emanuele Severino Con l’Occidente, oltre l’Occidente
Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN
Stampato con fondi del Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale dell’Università degli Studi di Salerno
© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 34 - novembre 2023 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-441-6 ISBN – Ebook: 978-88-5529-454-6 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Abstract concept illustration of white marble male classical bust on pedestal with overlaid glitch colorful frame face portion from 3d rendering on grey background. © Rrose Selavy – stock.adobe.com
Ai miei genitori
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Note e ringraziamenti
Questo volume rappresenta l’esito delle ricerche da me condotte in sede di tesi magistrale, trattandosi infatti dell’espansione di un capitolo appartenente all’elaborato finale. Desidero perciò ringraziare, in particolare, il prof. Massimo Donà, che dei miei studi ha seguito e guidato l’evoluzione sin dalla stesura della mia tesi triennale. Del resto, è stato lo stesso prof. Donà a consigliarmi, all’indomani della discussione di laurea tenutasi nel luglio 2022, di pubblicare l’esito delle mie ricerche. A lui devo la passione per il pensiero di Emanuele Severino, filosofo di cui ho avuto la fortuna di seguire gli ultimi corsi presso la sede dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Devo ringraziare, inoltre, anche il dott. Giulio Goria, che gli sviluppi della mia tesi magistrale ha seguito in qualità di correlatore, fornendomi preziosi consigli e indicazioni. Alla disponibilità, alla pazienza e alla dedizione che ha mostrato nel discutere il mio lavoro devo molto. Meritano una menzione anche i compagni con i quali ho condotto il percorso di questi anni, senza i quali tutto questo fiume di parole sarebbe stato né più né meno di uno scolorito esercizio d’erudizione. Grazie a tutti: a coloro che ho avuto la fortuna di avere vicino, così come a chi di questo lavoro – e a
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quel che vi sta dietro – ha visto i natali, senza assistere però alla conclusione. Infinito ringraziamento meritano infine i miei genitori: pur lontani da Milano, la sede ove ho condotto i miei studi, non hanno mai mancato di supportarmi in questo cammino non sempre facile e privo d’ostacoli. Per quel che posso, esprimo questo profondo debito dedicando loro il libro.
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Introduzione
Secoli fa, alcuni greci stravaganti fecero propri i panni di quel l’atteggiamento spirituale che secondo Edmund Husserl ha sancito l’apertura dell’orizzonte filosofico così come della razionalità europea. A dispiegarsi, in questo lungo quanto frastagliato cammino, è «un contegno critico ben deciso a non assumere nessuna opinione già data, nessuna tradizione, senza indagarle, e insieme a interrogare, di fronte all’universo tradizionalmente dato, l’universo vero in sé, nella sua idealità»1. Continuando a manifestarsi nel corso dei secoli della storia occidentale, l’atteggiamento spirituale di quei greci stravaganti ha donato origine a orizzonti filosofici che mai hanno esitato a condurre la testimonianza del λόγος sino alle sue estreme conseguenze, nel solco del più radicale rifiuto di qualsiasi presupposto o dato immediato ereditato dal piano dell’ovvietà e dell’opinione (δόξα). 1. E. Husserl, Die Krisis des europäischen Menschentums und die Philosophie, in Id., Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, in Husserliana, vol. VI, a cura di W. Biemel, Nijhoff, Den Haag 19762, pp. 314-348: p. 333; tr. it. di E. Filippini, La crisi dell’umanità europea e la filosofia, in E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, pref. di E. Paci, il Saggiatore, Milano 1997, pp. 309-336: p. 324.
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E tuttavia, il capolavoro husserliano titola: Crisi. Tutto il pensiero del Novecento non ha mancato di attestare questo statuto: la compagine post-hegeliana, ben lungi dal condurre il λόγος al suo compimento, sembra al contrario averne diagnosticato il dissolvimento. La ragione precipita nella storia, in una storia a maglie più larghe dello stesso sapere concettuale à la Hegel. È forse in quest’ottica, allora, che potrebbe rileggersi l’intera sequela di pensatori che hanno tentato di riportare in luce un pensiero più originario di quello logico-concettuale. Per citare un caso emblematico, potremmo appellarci al Martin Heidegger di Che cos’è metafisica?, ove il pensatore di Meßkirch palesa l’esigenza della filosofia a lasciarsi catturare dal «vortice di un domandare più originario»2, di un interrogare che cioè non risulti compromesso dall’abito logico e dalla corrispettiva postura. È questa, per Heidegger, l’unica condizione per sviluppare un pensare che sia realmente in grado di mettere in questione la sovranità della logica3. È in un simile sfondo che allora si colloca il nostro lavoro, nella tensione propria del ruolo che la filosofia di Emanuele Severino può giocarvi. In certo senso, lo statuto di crisi della filosofia è dal pensatore bresciano ben diagnosticata: l’intero Occidente, teoria e prassi indissolubilmente intrecciate, è nichilismo. L’episteme metafisica, che ha in Hegel il proprio compimento, volge al tramonto. La consapevolezza filosofica di ciò, ossia la consapevolezza più propria dell’essenza dell’Occidente, si ha in coloro cui Severino si rivolge come ai tre grandi protagonisti del sottosuolo filosofico del nostro tempo: Leopardi, Nietzsche e Gentile. Non è allora peregrina la base di partenza che abbiamo 2. M. Heidegger, Was ist Metaphysik? (1929), in Id., Wegmarken, in Gesamtausgabe, vol. IX, a cura di F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt a.M. 1976, pp. 103-122: p. 117; tr. it., Che cos’è metafisica?, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2001, p. 58. 3. Cfr. ivi, p. 44: «Ma può la sovranità della “logica” essere lesa?».
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individuato per quest’introduzione: con Heidegger, Severino si lascia catturare da un interrogare più originario, Ritornare a Parmenide titola una delle sue opere più celebri4; con Husserl, il ritorno all’originario, il ritorno all’eterno passato dell’Occidente, fa tutt’uno con il contegno critico risoluto a non assumere contenuti dalla δόξα, in forza del vaglio della razionalità. Può essere però fruttuoso indugiare su natura e statuto che competono all’originarietà severiniana. L’idea da allontanare è quella che si tratti semplicemente del recupero di un contenuto già preconfezionato, tornando a quanto Parmenide avrebbe già espresso e il resto della filosofia dimenticato. Se in questione è la motilità propria di un “ritorno”, questo però non è risposta, ma piuttosto domanda in quanto è anzitutto messa in questione, istanza critica. Ha visto bene, seguendo questa linea, Andrea Tagliapietra: Il “ritorno” significa […], non la ricostruzione di una risposta, ma il ricupero di una domanda, ovvero il disporsi a pensare tutta la filosofia come contemporanea. Severino pensa l’originario come contemporaneo in quanto risorsa effettiva per ogni ri-soluzione del pensiero a-venire.5
È in questi termini che in La filosofia futura – opera dal titolo non meno eloquente – Severino pone la questione dell’ori4. Ci sia consentita l’inadeguatezza di questo rimando; sarà compito del seguito chiarire il senso del “ritornare” qui in gioco, ché come ben noto financo l’eleate Parmenide, per Severino, appartiene al coro nichilista. 5. A. Tagliapietra, Il panorama al limite del senso. La lezione del maestro, in M. Capanna - M. Donà - L.V. Tarca (a cura di), Cháris. Omaggio degli allievi a Emanuele Severino, Inschibboleth, Roma 2019, pp. 135-150: p. 139. Cfr. pure ivi, p. 141: «In questo senso il ritornare che si inscrive nell’insegna araldica del pensiero severiniano non si limita ad indicare un luogo strategico, finanche un “inizio” cronologico della storia della filosofia e di un sapere per così dire “disciplinare”, ma fonde la questione della verità posta dai testi del canone filosofico con una radicale messa in questione dell’ovvio e del vissuto di ciascuno».
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ginalità del suo pensiero: originale e originario è ciò che non dipende dal modello, ma anzi, è esso il modello, l’origine rispetto ai derivati. Sfondo intramontabile che però non costringe gli essenti a un’estrinseca relazione, ma al contrario ne incarna il cuore più profondo. Pensiero originale è quindi pensiero originario, testimonianza della verità dell’essente, sicché «pensiero autenticamente originale può essere solo quello che riesce a mettere in questione la fede in cui cresce l’intera civiltà occidentale»6. Differentemente da Heidegger, quindi, non è questione di testimoniare un’apertura dell’essere che sia più originaria rispetto a quella di natura logica. Il tentativo del presente elaborato va dunque collocato in questo sfondo, a dire: prima e dopo il λόγος per Severino v’è ancora il λόγος. Del resto è stato Massimo Cacciari a esprimersi in merito al polemos HeideggerSeverino, ravvedendovi «una relazione inconciliabile, […] un aut-aut»7: questione in cui troverebbe sede nientemeno che il problema fondamentale della nostra filosofia. L’interrogazione più originaria di Severino non perviene ad altro che a una visione maggiormente limpida, e per ciò stesso inaudita, del bagaglio concettuale attraverso cui l’Occidente ha pensato e abitato il mondo. Continuità e rottura rispetto alla tradizione, convivono in Severino in un indissolubile intreccio: continuità, ché s’impossessa degli elementi classici della storia della filosofia; rottura, ché proprio la filosofia s’è dimostrata non all’altezza,
6. E. Severino, La filosofia futura, Rizzoli, Milano 1989, p. 19. È in quest’ottica, inoltre, che la filosofia severiniana ha attirato l’attenzione anche da un punto di vista “meta-filosofico”; in merito, cfr. L. Illetterati - E. Tripaldi, The Philosophy of the Future: The Relevance of Severino’s Metaphilosophy Today, in «Eternity & Contradiction», vol. 4, n. 7, 2022, pp. 7-34. In merito al rapporto tra metafilosofia e crisi del sapere filosofico, cfr. T. Williamson, The Philosophy of Philosophy, Blackwell, Oxford 2007. 7. M. Cacciari, Lettera a Severino, in «La Repubblica», 22 febbraio 2011.
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non sufficientemente autocritica, per pensare coerentemente se stessa e le proprie leggi, il proprio statuto. Sempre in La filosofia futura, Severino scrive infatti che il pensiero dell’originario «è ciò che la filosofia dell’Occidente sarebbe voluta essere, ma non è riuscita ad essere»8. È all’altezza dell’inequiparabile rigorosità e limpidità speculativa del Destino, che Severino perviene alla celebre tesi dell’eternità di ogni essente, così come alla conseguente identificazione dell’Occidente e della sua storia al nichilismo. Se quella che intendiamo portare avanti è l’idea di Emanuele Severino come pensatore in continuità e insieme rottura con l’Occidente, lo vogliamo fare anzitutto per compiere un passo a lato rispetto all’insieme di quelle letture che, forse eccessivamente schiacciate sulla stessa lettera severiniana, mancano di appurarne lo spirito d’importante vicinanza con il resto della filosofia occidentale, al contrario accentuandone la cesura. In gioco è qualcosa di simile all’operazione critica messa in campo da Kant: proprio in quanto critica della metafisica, la critica è essa stessa metafisica. Non casualmente, sfogliando le pagine della Introduzione alla Critica della ragione pura, leggiamo: «E così, una qualche metafisica è realmente esistita sempre in tutti gli uomini, non appena la ragione si è estesa in essi sino alla speculazione, ed una qualche metafisica esisterà sempre negli uomini»9. Ufficio della filosofia critica è anzitutto quello di provvedere a eliminare ogni influsso dannoso della metafisica; e tuttavia, proprio questa operazione è di natura profondamente metafisica, che sempre esisterà negli uomini. Per analogia, potremmo ascrivere un simile gesto anche alla filosofia severiniana, che proprio attingendo al piano dell’originario – e dunque radica8. E. Severino, La filosofia futura, cit., p. 12. 9. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Id., Werke, vol. III, a cura di W. Weischedel, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1983; tr. it. di G. Colli, Critica della ragione pura, Adelphi, Milano 1976, p. 64.
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lizzando quella che è stata la razionalità filosofica del pensiero occidentale – perviene a una messa in questione, non meno radicale, dell’intera storia dell’Occidente. È criticando l’Occidente, insomma, che il pensiero di Severino mostra la propria inclinazione profondamente occidentale, lungi da ogni astratta e puerile semplice contrapposizione. Assunto il presente intento, potremmo poi esplicitare come lo sguardo con cui intendiamo rileggere la filosofia severiniana assuma natura, per così dire, trascendentale10: nostro primo obiettivo non sarà tanto il contenuto filosofico in quanto tale, la tesi dell’eternità degli essenti o quella del divenire nichilisticamente inteso, ecc., celebri tematiche che hanno contribuito peraltro a rendere famoso il pensiero severiniano, anche al di fuori delle aule accademiche. Al contrario, quel che cercheremo di porre in luce sarà anzitutto l’operatività razionale che a questo o a quell’altro contenuto ha concesso di sorgere. Ciò non equivale, beninteso, a tralasciare il contenuto della filosofia severiniana, e in tal senso certamente non mancheremo di passare in rassegna alcuni luoghi nevralgici della sua opera. S’intende piuttosto mostrare cosa sia celato da queste tesi, come si rapportino controintuivamente, per esempio, rispetto alle tante presupposizioni del senso comune, venendo così a palesare l’istanza critico-razionale che a quelle posizioni ha condotto. Con Leonardo Messinese, conveniamo quindi nella possibilità d’intendere il pensiero severiniano come «l’indicazione di “un altro apparire”, rispetto a ciò che consideriamo il luogo sicuro del nostro pensare e del nostro operare»11. Si
10. Secondo la celebre definizione kantiana; cfr. ivi, B 25; tr. it. cit., p. 67: «Chiamo trascendentale ogni conoscenza che in generale si occupa non tanto di oggetti, quanto invece del nostro modo di conoscere gli oggetti, nel senso che un tale modo di conoscenza dev’essere possibile a priori». 11. L. Messinese, Nel castello di Emanuele Severino, Inschibboleth, Roma 2021, pp. 11-12.
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tratta dunque di una testimonianza filosofica operante anzitutto all’insegna di una razionalità decostruttiva, per dirla con Wittgenstein, delle immagini e dei presupposti che ci tengono prigionieri nel piano dell’ovvio. L’eternità degli essenti, ad esempio, non vuol dire che si debba negare l’evidenza dell’apparire come dello scomparire delle cose, ma piuttosto mira a metterne in questione il senso nichilista che l’interpretazione dell’Occidente vi ha sovrapposto. Più nello specifico, mostreremo in generale come tale razionalità sia avvicinabile a un abito critico del pensare, ben deciso a non fare propria nessuna opinione già data, scendendo così ai ferri corti con qualsiasi presupposto immediato, con qualunque affermazione che tragga la propria legittimità da una fonte che non sia lo stesso esercizio in atto del filosofare, peccando così di insufficiente autocritica. Di tale postura, la tesi dell’eternità degli essenti, quanto quella della negazione del divenire, è solo uno dei plurimi precipitati: se per il senso comune è naturale che la legna, bruciando, diventi cenere e quindi altro da sé, il pensare filosofico attesta piuttosto che tale diventar altro dell’essente è una violazione dell’originarietà propria del piano fenomenologico, dato che mai, né in cielo né in terra, appare l’esser diventata altro da sé, o addirittura nulla, da parte della legna. Così come è fede affermare che il sole, tramontando alle spalle dei monti, vada via nel nulla, allo stesso modo per ogni essente: congedandosi dalla luce dell’apparire, questo non viene tuttavia inghiottito dal nihil negativum12. 12. Come noto, l’esempio è mutuato da E. Severino, Ritornare a Parmenide. Poscritto, in Id., Essenza del nichilismo, nuova ed. ampliata, Adelphi, Milano 1982, pp. 63-133: pp. 85-86: «Questo pezzo di carta sta bruciando, ed ora è ridotto a poca cenere. Diciamo allora che è andato distrutto e che il risultato di questa distruzione è il suo essere ormai un niente. Ma – ecco il problema – questo esser niente appare, oppure di quell’oggetto non appare più niente […]? Appare che l’oggetto è niente, o l’oggetto non appare più? […] appare che l’oggetto è ormai un niente, si dice, perché la fiamma
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Questo scenario del corpo a corpo con i presupposti della coscienza comune, che noi evochiamo in sede ermeneutica, merita qualche nota di rilievo anche rispetto all’elaborazione giovanile della dialettica. Dialettico, per Severino, è il dispositivo messo in gioco al fine di accertare il toglimento – rectius: l’originario toglimento – di qualsiasi elemento che in qualche modo avanzi la pretesa di risultare indipendente rispetto allo statuto dell’orizzonte filosofico. Se si pensa, per esempio, a come la dialettica viene ad articolarsi sin da La struttura originaria, è palese l’integrale indirizzo della medesima a manifestare l’impossibilità del porsi di quell’elemento cui Severino si riferisce mediante l’espressione “concetto astratto dell’astratto”. Deponendo la terminologia dialettica, ma riservandoci di esplicitarne analiticamente gli snodi entro l’elaborazione che segue, è qui in gioco la nullità della pretesa di chi intenderebbe sfuggire all’assolutezza onto-logica dell’orizzonte filosofico, di quel folle che continua a vivere nell’onirica persuasione del nichilismo13 alterando il contenuto di quanto appare alla luce dell’ἀλήϑεια. Traducendo tutto ciò in linguaggio più colloquiale: esperienza astratta è quella di chi, per esempio, non si rende conto che tutti gli eventi che chiama in causa, o cui si riferisce in un’ordinaria conversazione, appaiono sullo sfondo
che lo andava consumando e la cenere che è rimasta appartengono al contenuto dell’apparire. Ma se a costoro si domandasse se il sole che scompare dietro le nubi vada distrutto, essi risponderebbero di no, perché il sole può ritornare […]. Ché se, invece di attenersi alle categorie della δόξα […], ci si attiene alle categorie dell’ἀλήϑεια […], e cioè, in questo caso, ci si preoccupa di esprimere il contenuto, che appare, così com’esso appare, allora il divenire che appare non potrà più essere inteso come annullamento dell’essere». 13. Cfr. E. Severino, Oltrepassare, Adelphi, Milano 2006, p. 96: «Il contenuto dell’interpretazione è sogno, illusione – e in esso appare la sconfinata vicenda dei mortali –, ma il sogno e l’illusione non sono un nulla, cioè sono anch’essi essenti, e pertanto anch’essi eterni».
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di una struttura logica, che fra le altre implicazioni chiama il differenziarsi della cosa da tutto ciò che essa non è. Se a questo aspetto “dialettico” della filosofia severiniana abbiamo dedicato il primo capitolo, il successivo insiste invece sul tema della contraddizione dell’originario: la contraddizione C. Intento principale che ne ha condotto la stesura è stato quello di mostrare come sia possibile individuare vitalità e dinamicità in una filosofia che, incentrandosi su concetti come quelli di “essere”, “eternità”, “immobilità”, rischia di consegnare al lettore un’idea eccessivamente monocromatica e granitica che al contrario – come tenteremo, in concreto, di dimostrare – non le appartiene. Lo abbiamo fatto, appunto, sviluppando il tema della contraddizione C, che attraversando la filosofia severiniana da La struttura originaria sino a Testimoniando il destino, costituisce di fatto un elemento d’importante costanza nell’intera arcata della sua opera. È in essa, infatti, che è probabilmente recuperabile il senso più profondo della processualità severiniana14. Con l’Occidente, oltre l’Occidente: è proprio la processualità in cui consiste l’«oltrepassare» che realizza, da un lato, la critica radicale alle categorie nichilistiche con le quali l’Occidente avrebbe tradotto e tradito il divenire e, dall’altro, lo sforzo più radicale di Severino per pensare il processo nella sua autenticità. Dalle analisi condotte nei primi due capitoli è infine sorto il tratto conclusivo della nostra indagine, dedicato al confronto con Hegel. Si tratta del filosofo che avrebbe compiuto, secondo Severino, l’episteme occidentale, nonché lo sforzo più radicale per pensare l’identità dell’essente. È un confronto dovuto,
14. Senso più profondo che poi sta alla base dell’inquietudine vitale per la stessa testimonianza linguistica severiniana: essa continuamente torna su se stessa, trovandosi a correggere alcune delle posizioni precedentemente assunte così come a rimodellarne i concetti, i termini, le argomentazioni, ecc.
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proprio nella misura in cui più volte Hegel emerge direttamente dalla pagina severiniana, così come dalla nostra discussione, a testimonianza di una parentela teoretica quanto strutturale certamente da approfondire. Non ci siamo risparmiati dall’assumere, in tutti e tre i capitoli di questo libro, una postura critica e interrogativa, volta a mettere in questione, dall’interno, gli elementi che via via la filosofia severiniana ha tentato di sistematizzare. E a un pensiero che fa dell’έλεγχος il proprio pivot, certo non potrebbe che far piacere.
Così non poteva non darsi che tutta la filosofia non fosse al servizio di questo bisogno, di questa «volontà» che ha l’uomo di non morire, e quindi della costruzione della speranza-credenza-certezza che non si muore. E infatti tutta la filosofia, dal Fedone all’idealismo «attuale», si può prospettare come uno sforzo, sempre più complicato e sottile, sempre meno ingenuo, sempre più astuto, infaticabile a cercare nuove vie, elaborate, tortuose, strane, evanescenti, man mano che ognuna delle più semplici e chiare precedenti veniva distrutta, perdentesi infine nella nebbia, ma incoercibile e sempre risorgente, per cancellare il fatto della morte […]. Così, alla stessa guisa della morte, le contraddizioni devono non esistere. E di conseguenza tutta la filosofia, come, sotto un aspetto, può essere prospettata quale lo sforzo per far sparire il fatto della morte, può essere, sotto un altro aspetto, prospettata come lo sforzo o la prestidigitazione per far sparire il fatto delle contraddizioni. G. Rensi, La filosofia dell’assurdo, Adelphi, Milano 20094, pp. 41-42.
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Capitolo I
Struttura originaria e dialettica
1. La struttura originaria come nucleo dell’indagine Nella preziosa Introduzione alla nuova edizione de La struttura originaria, che funge da importante raccordo tra l’opera del 1958 e gli scritti successivi, Severino presenta questo testo come «il terreno dove tutti i miei scritti ricevono il senso che è loro proprio»1. La possibilità che dunque si dia interpretazione della filosofia severiniana lasciando in ombra quest’opera, è immediatamente fugata. L’indagine che intendiamo intraprendere, avvalendosi della presente affermazione nonché delle sue implicazioni, intende allora illuminare proprio questo terreno, al fine di guadagnare il senso necessario per gettare poi luce pure sugli scritti successivi a La struttura originaria. Occorre allora porci innanzi al problema che nello scrivere un testo del genere è immediatamente implicato: pretesa di Severino è qui quella di testimoniare l’esposizione della verità, far sì che il contenuto indicato dal linguaggio sia nientemeno che l’apparire della verità nel suo valore, nella sua innegabilità. Cosa poi qui s’intenda tecnicamente per linguaggio e verità re1. E. Severino, La struttura originaria, nuova ed. ampliata, con modifiche e intr., Adelphi, Milano 1981, p. 13.
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sta del tutto indeciso, compito del prosieguo dell’indagine essendo quello di approfondire, tra gli altri, il plesso in questione. Ciononostante, possiamo già ora intraprendere il primo corpo a corpo con un problema teoretico: come si manifesta la verità? Come far sì che il dire – nel senso di “manifestazione”2 – possa accogliere il vero in quanto suo contenuto? Ciò è possibile, in linea con Severino, se e solo se il dire non è altro dalla verità, ma piuttosto il dirsi della verità medesima, sua immanente esposizione. Si tratta di un guadagno concettuale che permarrà nell’intero dell’elaborazione severiniana, restando uno dei punti fermi della sua produzione teoretico-speculativa. Un assetto teoretico del genere è presente pure a sottendere le riserve mosse da Giovanni Gentile alla distinzione hegeliana tra Fenomenologia dello spirito e Scienza della logica3. All’interno de La riforma della dialettica hegeliana, il pensatore siciliano scrive: Il processo dialettico della fenomenologia dunque non è un processo dentro la verità, ma un processo alla verità: la quale non è concepita perciò come identica al pensiero: ma soprannuotante ad esso, come le idee platoniche all’anima infiammata da Eros, e come l’intelletto attivo all’intelletto passivo di Aristotile.4
Ancora un residuo contraddittorio di trascendenza sarebbe presente, per Gentile, a inficiare la filosofia hegeliana; lungi
2. Si ricordi pure la parentela etimologica tra dire e δείκνυμι (mostrare), parentela che s’installa sulla base della radice indoeuropea “deik”. 3. Sul rapporto Gentile-Severino, cfr. B. de Giovanni, Emanuele Severino e Giovanni Gentile. Linee di filosofia italiana, in «Il Pensiero», LI, n. 2, 2012, pp. 137-152; in forma più estesa, cfr. Id., Disputa sul divenire. Gentile e Severino, Editoriale scientifica, Napoli 2013. 4. G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze 19543, p. 227.
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dal prendere in esame il confronto col pensatore tedesco5, più importante è rilevare la vicinanza all’impostazione severiniana: alla verità non si giunge dalla non verità, poiché le strade da questa indicate sarebbero, per l’appunto, non vere e nulla più di sogni di un visionario. La verità non la si ricerca dunque, quanto piuttosto la si abita nell’intrascendibilità peculiare del suo piano: il discorso de La struttura originaria non è una ricerca attorno alla verità, bensì è indice della sua immanente esposizione, realizzazione ed esposizione discorsiva della struttura originaria6. Con e oltre l’Occidente, si ricordava in incipit. E infatti, a proposito di questo modo di concepire la verità, l’errore sorge proprio con Parmenide, «padre venerando e terribile»: Purtroppo il modo più grande in cui questa forma erronea di concepire la verità è stata espressa è proprio il Proemio del Poema di Parmenide. Mégas, questo padre – Platone lo chiamava “padre venerando e terribile” (cfr. Platone, Teeteto, 183 e); ma proprio lui dedica questo grandioso Proemio al viaggio che si compie per arrivare alla verità. Se si impostano le cose in questo modo, il viaggio non potrà mai aver termine.7
5. A mostrare l’incomprensione gentiliana del rapporto tra fenomenologia e logica è stato anzitutto Vincenzo Vitiello; a tal proposito, si vedano le convincenti argomentazioni contenute in V. Vitiello, Hegel in Italia. Itinerari. I – Dalla storia alla logica. II – Tra Logica e Fenomenologia, Inschibboleth, Roma 2018, pp. 209-212. 6. Cfr. L. Messinese, L’apparire del mondo. Dialogo con Emanuele Severino sulla “struttura originaria” del sapere, Mimesis, Milano 2008, p. 40: «il dire della filosofia è vero (e, viceversa, la verità è), solo se esso è il dire che l’essere dice di se stesso. La filosofia, in quanto si costituisce come “sapere assoluto”, non può non identificarsi con l’automanifestazione dell’essere (questo genitivo è oggettivo e soggettivo) e insieme […], con l’automanifestazione incontrovertibile». 7. E. Severino, L’identità della follia. Lezioni veneziane, Rizzoli, Milano 2007, p. 51.
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Non si tratta, quindi, di “bussare alla porta della verità”, per usare la metafora evangelica; se la verità è rinchiusa in una casa, il percorso che le si avvicina è nella non verità. L’alternativa è cominciare a pensare alla verità come all’intramontabile sfondo che, già da sempre, accoglie gli essenti.
2. La struttura originaria come fondamento «La struttura originaria è l’essenza del fondamento, in questo senso è la struttura anapodittica del sapere – ἀρκὴ τῆς γνώσεως – e cioè lo strutturarsi della principialità, o dell’im mediatezza»8. Così comincia La struttura originaria, esplicitando l’intenzione severiniana di render testimonianza del piano originario o immediato. Il fondamento è struttura anapodittica del sapere, ove ciò è implicito nella sua originarietà: se ogni apodissi è internamente resa possibili da principi che ne stanno alla base, il piano fondazionale, l’im-mediato è certamente ciò che non è mediato o reso possibile da altro, al contrario essendo proprio ciò che rende possibile ogni dimostrazione o mediazione. Se ciò di cui il testo intende esser testimonianza è il piano originario, è insomma da allontanare l’idea per cui questo piano risulti da un processo mediazionale, pena il non porsi come fondamento da parte del medesimo. L’originario dunque, in quanto tale, non può essere conclusione apodittica, bensì struttura anapodittica del sapere, nota per sé e non per altro9. L’originario ha a che fare, severinianamente, con la
8. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 107. 9. La struttura argomentativa qui evidenziata è ben presente nella filosofia aristotelica; lo Stagirita, del resto, è già presente negli studi severiniani sin dalla produzione giovanile del filosofo bresciano, come mostra il saggio pubblicato nel 1956 intitolato La metafisica classica e Aristotele: La metafisica
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verità dell’essere, ossia con la totalità nella ricchezza delle sue determinazioni. Questo incipit è inoltre indicativo di quanto abbiamo esposto nel precedente paragrafo, proprio laddove il cuore della pretesa di questo testo10 non consiste nell’essere l’esposizione di Emanuele Severino, quanto piuttosto lo strutturarsi dello stesso piano fondazionale o dell’immediato. A riecheggiare è il celeberrimo frammento eracliteo: οὐκ ἐμοῦ, ἀλλὰ τοῦ λόγου ἀκούσαντας11. Non meno importante è poi rilevare come l’immediato, presentandosi al modo di una struttura (e cioè: come complessità, mediazione), non debba essere inteso nelle vesti di un’unità astratta, semplice o indifferenziata; l’immediato, al contrario, si articola al proprio interno al modo dell’«unità di un molteplice»12. Il principio è unità concreta e in sé differenziata: non unità che, gelosa di se stessa, si allontani in un eremo isolandosi dalla molteplicità, quanto piuttosto unità di unità e molteplicità, universalità concreta. E tuttavia, l’unità concreta del principio è, in quanto tale, incontrovertibile, essendo finanche la sua negazione da esso fondata: «la negazione della struttura originaria è possibile solo presupponendo questa struttura stessa […] la condizione della negazione è quello stesso che viene negato»13. Di modo che
classica e Aristotele, in Aa. Vv., Aristotele nella critica e negli studi contemporanei, Vita e Pensiero, Milano 1956, pp. 1-25; ora in E. Severino, Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005, pp. 115-142. 10. Così come del resto della produzione scritta severiniana. 11. Cfr. Heraclitus, DK 50; tr. it., I Presocratici, con testi or. a fronte, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006. 12. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 107. 13. Ibidem.
28 alla struttura originaria compete […] quanto Aristotele rilevava a proposito del principio di non contraddizione: che la sua stessa negazione, per tenersi ferma come tale, lo deve presupporre. Sì che ad un tempo lo nega e lo afferma: lo nega in actu signato, e lo afferma in actu exercito; e quindi, proprio perché insieme lo afferma e lo nega, non riesce a negarlo.14
Così come in Aristotele, all’originario conviene il carattere dell’incontrovertibilità: la negazione della struttura originaria, per tenersi ferma come tale, presuppone il contenuto che essa pretenderebbe negare, sicché ad essa compete insieme l’esse14. Ibidem. Ricordiamo in questa nota, seppur cursoriamente, l’articolazione essenziale della dimostrazione per ἔλεγχος nella filosofia aristotelica. La dimostrazione esige solamente che l’avversario della βεβαιοτάτη ἀρχή πασῶν – id est: del principio di identità e di non contraddizione – dica qualcosa; ché, laddove non dicesse nulla, non negherebbe nemmeno e, per questo motivo, ci si troverebbe innanzi a una pianta, piuttosto che a un avversario del principium firmissimum. L’avversario dovrà dunque conferire al suo discorso un significato determinato, il quale valga come il discorso del negatore della βεβαιοτάτη ἀρχή. Ma, così facendo, il significato del discorso del negatore appare come pienamente rispondente ai dettami del principio: il significato del discorso del negatore è il significato del discorso del negatore e non quello del non-negatore, è ente incontraddittoriamente determinato esso stesso, del principio essendone allora piena individuazione e istanziazione. Concedere che ciò che si dice abbia un certo significato, equivale a riconoscere l’esistenza di un essente definito e determinato, che si distingue pertanto da ciò che esso non è, ossia da ciò che è altrimenti significante –; ed ecco che anche di esso non si potrà dire, insieme, che è ciò che è, e non è ciò che è. Per il rimando allo Stagirita, e nello specifico alla tematica dell’ἔλεγχος, cfr. Aristotele, Metaph., IV, 1005b 35-1009a 5; tr. it., Metafisica, con testo gr. a fronte, a cura di E. Berti, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 139-151. Più in generale, in riferimento alla tematica della βεβαιοτάτη ἀρχή πασῶν e a come questa vada poi a configurarsi nella filosofia di Aristotele, cfr. E. Severino, Fondamento della contraddizione, cit., pp. 19-112. Notiamo, inoltre, come la tacita presupposizione della dimostrazione elenctica sia, in fondo, che il significato debba necessariamente essere significato determinato, meglio: significato determinato identico a sé in quanto negazione escludente di tutto ciò che è altro da esso: omnis determinatio est negatio. Su questo punto, in sede anche critica, avremo modo di tornare in quanto segue.
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re e il non essere la negazione del fondamento15. La negazione pretende, in actu signato, di negare l’immediato ma, in actu exercito, la negazione afferma al contrario il contenuto intenzionalmente negato, proprio per questo venendo a disegnare uno scarto fra ciò che essa pretenderebbe e quel che, invece, realmente ed effettualmente viene a costituirsi. La negazione è come una freccia che, intendendo colpire il bersaglio dell’originario, colpisce al contrario se stessa, in ciò non riuscendo a negare il fondamento16. Già qui viene alla luce l’ossatura formale della razionalità di cui Severino intende rendere testimonianza. Qualsiasi pretesa contraria rispetto all’orizzonte che si apre con l’originario – e che quindi avvolge, beninteso, tutto ciò che è – verrà palesata nella sua intima inconsistenza o fantasmacità. Ma appunto, è proprio in virtù di tale istanza critica, per cui verità è ciò che non può essere negato in quanto la sua negazione è autonegazione, che la filosofia severiniana può esser letta come una radicale messa in mora dei presupposti e delle convinzioni che abitano la vita ordinaria del senso comune. Ma qui non si tratta tanto di una distruzione di presupposti, ché sarebbe concedere già troppo 15. E tuttavia, sempre per Severino, il principio aristotelico, pur affermando l’impossibilità che lo stesso insieme sia e non sia a un tempo e sotto il medesimo rispetto, non esclude affatto che l’essente possa non essere. Posta la questione in questi termini, l’autenticità del senso dell’essere è già perduta. In merito alla formulazione del principio nel De interpretatione, scrive Severino che questo «si limita ad affermare che, qualora l’essere sia, l’essere è essere (o l’essere non è non essere), e, qualora l’essere non sia, il non essere non è, o non è non essere» (E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 517). 16. Pagine fondamentali sono state dedicate all’ἔλεγχος anzitutto in Ritornare a Parmenide; a tal proposito, cfr. E. Severino, Ritornare a Parmenide, in Id., Essenza del nichilismo, cit., pp. 19-61: p. 43: «esso [l’ἔλεγχος] non consiste semplicemente nel rilevare che la negazione dell’opposizione è anche affermazione dell’opposizione, bensì consiste nel rilevamento che l’affermazione dell’opposizione, ossia l’opposizione, è il fondamento di ogni dire, e quindi, perfino di quel dire in cui consiste la negazione dell’opposizione».
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a un avversario avente, al contrario, la stessa consistenza di un fantasma; ciò che entra in gioco ha, piuttosto, il carattere di uno smascheramento dell’insussistenza del presupposto come tale, un accertamento della sua incapacità a esser tenuto fermo, col corrispettivo radicale capovolgimento subito dall’atteggiamento comune o prefilosofico17. È dunque a mo’ d’un «allargamento dell’inquadratura»18 che intendiamo leggere il gesto all’opera nel filosofare severiniano, coup de théâtre che scuote la pigrizia dell’opinione costringendola a riconsiderare l’intera concezione del mondo, portando trasparenza sui presupposti che lo sguardo non filosofico assume inconsapevolmente.
3. Il giudizio originario: L-immediatezza e F-immediatezza Con l’espressione “giudizio originario” Severino si rivolge all’affermazione in cui si realizza la struttura originaria: «“Il pensiero è l’immediato” […]. “Tutto ciò che, nel modo che gli conviene, è immediatamente noto, è l’immediato”»19. Il primo lato o
17. Per evitare di appesantire l’argomentazione con elementi sinora non necessari allo sviluppo dell’indagine, ci riserviamo di introdurre la figura dell’isolamento della terra – che mutatis mutandis corrisponde alla coscienza prefilosofica – in quanto segue. 18. F. Valagussa, Severino e l’oltrepassamento della metafisica, in M. Capanna - M. Donà - L.V. Tarca (a cura di), Cháris, cit., pp. 193-208: p. 196; per un analogo esempio a proposito dell’aporetica del nulla, cfr. F. Valagussa, L’aporia del nulla: astrazione e narrazione, in «Il Pensiero», LI, n. 2, 2012, pp. 253-265, in part. pp. 262-264. 19. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 114. Rimandiamo pure, a conferma di quanto abbiamo visto sopra, a ivi, p. 115: «Le riflessioni che seguono non sono una “dimostrazione” o “fondazione” del giudizio originario, che lo pongano come una struttura estranea alla struttura del porre; ma sono l’esporsi del giudizio originario». Sul sostrato teoretico, ma anche storico, che sottende la posizione del giudizio originario, nonché sul tentativo
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momento dell’immediatezza propria dell’originario è quello relativa al pensiero in quanto manifestazione dell’immediatamente noto. E tuttavia, non meno importante è la seguente caratterizzazione: «Col termine “pensiero” si intende qui – in sede di caratterizzazione preliminare – l’attualità o la presenza immediata dell’essere, assunta in relazione alle strutture semantiche che sono immediatamente implicate dalla posizione dell’attualità o presenza immediata dell’essere»20. Se con pensiero è possibile quindi intendere l’attualità dell’essere, poniamo: la presenza immediata di questa scrivania, non meno rilevante è riconoscere come l’immediata presenza di questa scrivania si dia unicamente in relazione alle strutture semantiche immediatamente implicate dalla sua posizione. In sede del tutto preliminare, potremmo dire che il darsi di qualsiasi essente implichi, per ciò stesso, un insieme di rimandi logici che ne tessono la strutturazione: il darsi di questa scrivania, per l’appunto, è tale in quanto, ad esempio, si differenzia da questa luce o da questo libro, così come da tutto ciò che essa non è. A questo punto, occorre insistere nel rilevare come il piano dell’immediatezza non si esaurisca affatto con la posizione dell’immediata presenza dell’essere, bensì come si dia immediata relazione tra quel che appare e le strutture semantiche da esso chiamate in causa21. Se a questa attualità si riserva il nome di “esperienza” (“orizzonte ontico”, nella terminologia dello Heidegger), il termine “pensiero” resta definito come implicazione immediata
di assestare la metafisica classica alla luce dei contributi più rilevanti dell’idealismo moderno e dell’attualismo della filosofia contemporanea, si veda pure L. Messinese, L’apparire del mondo, cit., pp. 46-50. 20. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 114. 21. Al presente livello possiamo lasciare indeterminato cosa ciò implichi per l’immediata presenza dell’essere, nonché il contenuto più specifico di tali strutture semantiche.
32 tra l’esperienza e quelle strutture (o tra l’orizzonte ontico e l’“orizzonte ontologico” – intendendo, con questa espressione, il piano della manifestazione di tali strutture).22
Pensiero designa l’immediato in quanto implicazione tra esperienza e strutture semantiche, tra orizzonte ontico e ontologico. L’immediata presenza di qualsiasi essente implica dunque quello che potremmo definire un “piano logico”, nel giogo di quest’implicazione manifestandosi la concretezza di tutto quel che è. «Nella misura in cui l’orizzonte ontologico è immediatamente implicato dall’orizzonte ontico, allora l’orizzonte ontologico rientra nell’orizzonte ontico pur distinguendosene»23. Quel che qui più interessa a Severino è insistere sul gioco, ossia sul nesso che stringe assieme i due orizzonti: se l’orizzonte ontologico rientra nell’ontico, poiché esso – si potrebbe dire – è pur sempre noto e, in quanto tale, a sua volta contenuto dell’esperienza, se l’ontologico rientra nel noto, dicevamo, tuttavia v’è distinzione tra i due piani24. Distinzione, e non separazione,
22. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 114. Il rimando alla filosofia heideggeriana non è casuale: il confronto di Severino con il pensiero di Martin Heidegger è presente sin dalla sua tesi di laurea – dal titolo: Heidegger e la metafisica – discussa con Gustavo Bontadini e poi pubblicata nel 1950. Intento dell’indagine severiniana era quello di «mostrare che non solo Gentile (come, invece, riteneva Bontadini), ma anche Heidegger, lungi dall’essere un maestro dell’ateismo, era una porta spalancata sulla metafisica, cioè sull’affermazione dell’esistenza di Dio» (E. Severino, La follia dell’angelo. Conversazioni intorno alla filosofia, a cura di I. Testoni, Mimesis, Milano 2006, p. 16). Per una ricostruzione del contesto da cui emerge la stesura della tesi di laurea severiniana, come più in generale per un ripercorrimento dell’itinerario giovanile della sua filosofia, si veda pure il recente L. Messinese, Nel castello di Emanuele Severino, cit., pp. 19-22. 23. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 115. 24. Per ora possiamo limitarci a dire che la distinzione sussiste quanto al contenuto dei due orizzonti; nel seguito dell’indagine ne avremo prova concreta.
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ché l’errore consisterà – come vedremo proprio nel prossimo paragrafo – per l’appunto nell’assunzione astratta dell’astratto, ossia nel considerare la parte di là dal contesto, dal tutto per cui essa unicamente è quel che è. Nella relazione sussistente tra esperienza e strutture semantiche da essa implicate, assistiamo da vicino all’aspetto per cui l’unità in cui consiste la struttura originaria è in sé inclusiva di differenze. E avvalendoci del lessico tecnico che Severino adopera nella presente opera, possiamo finalmente riferirci ai due ambiti semantici fondamentali di cui la struttura è immanente relazione: “immediatezza logica” (L-immediatezza) e “immediatezza fenomenologica” (F-immediatezza). Per immediatezza logica deve intendersi l’immediatezza del nesso tra i significati, le cose, gli essenti; immediatezza cui conviene l’incontrovertibilità propria del principio di non contraddizione. L’immediatezza fenomenologica, invece, consiste nell’immediatezza della notizia, nell’immediatezza dell’apparire delle varie forme di nessi che uniscono i significati25. Struttura originaria è la coalescenza di L-immediatezza e F-immediatezza, la loro unità concreta: fra piano logico e fenomenologico sussiste dunque una connessione necessaria e intrinseca, l’errore o astrazione originandosi sempre e solamente a partire da una considerazione che pretenderebbe di isolare il piano fenomenologico dal logico, o viceversa26. Distinzione e non isolamento dunque: 25. Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 34: «L’immediatezza logica è l’immediatezza dell’identità-non contraddittorietà dell’ente in quanto ente, cioè di ogni ente, cioè della totalità dell’ente. L’immediatezza fenomenologica è l’immediatezza dell’apparire dell’ente che appare, in quanto ente che appare, cioè di ogni ente che appare, cioè della totalità dell’ente che appare». 26. Sull’originaria coalescenza di L-immediatezza e F-immediatezza, cfr. N. Cusano, Capire Severino. La risoluzione dell’aporetica del nulla, Mime-
34 Il contenuto dell’apparire (la configurazione dello spettacolo che appare) non può essere cioè stabilito da una semplice riflessione fenomenologica, cioè da una fenomenologia isolata dal logico, ossia dal senso originario della necessità del nesso (= predicazione). Alla semplice riflessione fenomenologica sfuggono necessariamente i legami necessari che uniscono ciò che appare, e che rendono ogni determinazione costante di ogni altra determinazione.27
Tralasciamo per ora tanto la tematica della predicazione quanto quella delle costanti, che verranno discusse in quanto segue. Il punto sul quale occorre battere l’accento è che il contenuto dell’apparire non possa essere determinato da una fenomenologia astrattamente isolata dal logico, dal senso originario della necessità del nesso. L’analisi astrattamente fenomenologica, e cioè svincolata e isolata dal logico, tratta come se fossero un niente tutte quelle relazioni che al contrario sono necessarie affinché sia posta la determinatezza e la significanza di quel che appare. A partire dal saggio La terra e l’essenza dell’uomo28, quel che appare è “la terra”: la totalità delle cose, umane e divine, che vengono e vanno, entrano ed escono dal cerchio dell’apparire. E tuttavia, perché si palesi «quella sorta di distrazione dalla verità […], si richiede dell’altro, oltre all’accoglimento della terra»29: si richiede, per l’appunto, l’isolamento della terra, l’asis, Milano-Udine 2011, p. 57 «In quanto l’apparire è apparire, il “fenomenologico” è già “logico”, così come il “logico” è già “fenomenologico” in quanto l’identità-innegabilità logica appare come identità-innegabilità logica». 27. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 76. 28. E. Severino, La terra e l’essenza dell’uomo, in Id., Essenza del nichilismo, cit., pp. 195-251. 29. Ivi, p. 202. Si noti, fra le righe: al fine di introdurre il problema dell’isolamento della terra, Severino introduce una figura dai tratti ben poco “logici”: la distrazione dalla verità. Perché? V’è forse un residuo di presupposizione nella filosofia del Destino? Un “bruto” darsi dell’isolamento? Si tornerà su questo problema nel par. 8 del presente capitolo.
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strazione di quel che appare dall’intramontabile sfondo della verità dell’essere, ossia da quel piano logico cui tutto quel che si dà è pur sempre connesso. Bene l’analisi fenomenologica dunque, ma guai a recidere i ponti con la logica. E proprio questo taglio avrebbe operato, secondo Severino, l’operazione fenomenologica condotta da Edmund Husserl. Se principio di tutti i principi è che «ogni intuizione originariamente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, […] tutto ciò che si dà si dà originalmente nell’“intuizione” […] è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà»30, cionondimeno quanto appare è quel che è unicamente nei rimandi logici che lo rendono tale, uno fra gli altri: l’essere quel che è e il distinguersi dal proprio altro. Scrive Severino: «La più rigorosa delle indagini fenomenologiche, affidata unicamente a sé stessa, è completamente incapace di dire ciò che appare. Altera e impoverisce essenzialmente ciò che appare»31.
4. Concetto concreto e concetto astratto dell’astratto Nel paragrafo precedente abbiamo introdotto dei concetti fondamentali al fine di comprendere più specificamente cosa implichi, per Severino, il darsi dell’originario come una struttura: abbiamo visto, infatti, come originaria sia anzitutto la concretezza che compete alla sintesi dei due piani – logico e fenomenologico – dell’immediatezza. Raggiunto questo livello dell’in30. E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch. Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie. I. Halbband, in Husserliana, vol. III/1, a cura di K. Schuhmann, Nijhoff, Den Haag 1976, pp. 43-44; tr. it. di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo. Introduzione generale alla fenomenologia pura, Mondadori, Milano 2008, pp. 52-53. 31. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 76.
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dagine, risulta decisivo soffermarsi su quello che potremmo definire il vero e proprio nucleo della dialettica severiniana, ossia il rapporto sussistente tra concetto concreto e concetto astratto dell’astratto. È da tenere presente che la relazione sussistente tra concreto e astratto non istanzia un elemento di fondamentale importanza unicamente per La struttura originaria, bensì per la filosofia severiniana nella sua interezza. Severino scrive che «Il concetto concreto dell’astratto si differenzia dal concetto astratto dell’astratto […]. La concretezza dell’astratto consiste nel suo esser posto come tale, cioè come astratto»32. Prendendo le mosse da uno sguardo più superficiale, potremmo cominciare a rilevare che l’elemento contenutistico dei due concetti si presenti come il medesimo – l’astratto –, sicché la differenza tra gli stessi consiste piuttosto nella forma, concreta o astratta, mediante la quale tale contenuto viene concepito e assunto. Si tratta di uno sguardo più superficiale nel senso che, ovviamente, forma e contenuto non stanno l’uno di contro all’altro come due pezzi di legno che poi giungerebbero a legarsi tramite l’ausilio del nesso fragile quanto esteriore di una corda. Assunta la presente cautela, possiamo domandare: cosa s’intende per “astratto”? L’idea dell’astratto rimanda all’operazione del separare, del “trarre via da” (astrarre, da abstrahĕre). Da cosa, tuttavia, sarebbe separato o separabile l’astratto? Per cercare di semplificare questo plesso, avvaliamoci dell’esempio già adoperato: è immediato il darsi di questa scrivania, il suo apparire. E tuttavia questa scrivania si distingue, per esempio, dall’armadietto che ho di fronte, dal sole che batte alle mie spalle, così come dall’ufficio alla mia sinistra. Astratto è il finito, la determinatezza, la parte in quanto parte: questa scrivania; ma di questo astratto sono possibili due concezioni, 32. Ivi, p. 117.
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concreta la prima, astratta la seconda. Si dà concetto concreto dell’astratto laddove l’astratto è considerato in relazione a tutte quelle implicazioni logiche di cui esso è necessariamente costituito: il non esser questo bagliore, da parte della scrivania, è per l’appunto una di queste relazioni logiche, quella esemplificabile nel non essere il proprio altro. Concetto concreto dell’astratto è quindi la considerazione della parte o dell’astratto in quanto tale, ossia nella nervatura logica in virtù di cui esso è membro di un tutto. Non è quindi da pensare che il concetto concreto dell’astratto annichilisca l’astratto, quanto è piuttosto esso stesso a porlo manifestandone l’autentica essenza. In questo caso: porre l’astratto come tale è porre l’astratto in relazione concreta a ciò che da esso si distingue, considerazione dell’essente in relazione a tutto ciò che è altro da esso33. Ebbene, se il concetto concreto dell’astratto è l’unico orizzonte a partire dal quale è possibile riconoscere e porre l’astrattezza dell’astratto, in negativo ne emerge pure una delucidazione del concetto astratto dell’astratto: quest’ultimo, in quanto altro dal concetto concreto dell’astratto, pretenderebbe34 di considerare l’astratto come isolato dal plesso relazionale all’interno del quale esso è, dal punto di vista concreto, originariamente inscritto. Riassumendo: il concetto concreto dell’astratto è altro dal concetto astratto dell’astratto; il concetto concreto dell’astratto è la considerazione che pone l’astratto nella sua necessaria relazione ad altro; il concetto astratto dell’astratto è la conside-
33. Potremmo quindi anche dire che il concetto concreto dell’astratto coincida con la posizione della determinazione particolare come tale, ossia della determinatezza in quanto non è il tutto o l’intero, il concreto. 34. Il condizionale è d’obbligo, dato che contenuto del concetto astratto dell’astratto è propriamente, secondo l’articolazione del discorso severiniano, il nulla.
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razione che pretenderebbe di porre l’astratto come elemento isolato dalla sua relazione ad altro. È appunto in questo senso che la posizione dell’astratto in quanto tale (concetto concreto dell’astratto) «implica di necessità la posizione di una eccedenza semantica rispetto a ciò di cui si predica l’astrattezza, in relazione alla quale eccedenza l’astratto può esser appunto posto come tale»35. Il rimando è chiaramente all’eccedenza semantica – o strutture semantiche – di cui, nel precedente paragrafo, era stata evidenziata la posizione in qualità di termine dell’implicazione chiamata in causa dall’immediatamente noto. In questo senso, possiamo comprendere ancora meglio quanto si diceva a proposito del fondamento in qualità di originaria coalescenza di immediatezza logica e fenomenologica: isolare l’uno dei due aspetti dal rimando necessario all’altro e trascurarne la concretezza è alterare l’astratto stesso, indebito scambio della parte con il tutto che pretendendo di assolutizzare il finito non fa che perderlo come tale. Per dare un saggio tanto della rilevanza quanto della fecondità che il tema dell’astratto assume nella filosofia severiniana, potremmo riflettere su come questo permanga, mutatis mutandis, sino all’ultimo lascito teoretico di Severino: si tratta dell’importante scritto apparso nel 2019 e intitolato Testimoniando il destino. È qui che, tirando le somme sugli sviluppi del suo intero Denkweg, Severino paragona l’astrazione a una rete la quale, gettata sulla pura terra, altera essenzialmente il volto di ciò che appare allo sguardo del destino, donando così origine alla terra isolata36. Come si può vedere già da queste brevi e cursorie indicazioni, tanto è cambiato negli sviluppi linguistici
35. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 117. 36. Cfr. E. Severino, Testimoniando il destino, Adelphi, Milano 2019, p. 118.
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della testimonianza severiniana: l’astrattamente astratto è stato identificato alla terra isolata, la struttura originaria, battendo sempre più l’accento sull’innegabilità della stabile verità, si è intanto consolidata come De-stino dell’esser sé dell’essente. Ciò che non è mutato, invece, è l’atteggiamento critico rivolto tanto all’astratto quanto all’isolamento della terra, atteggiamento indirizzato ad attestare la nullità dell’illusione e della follia cui i presupposti dell’atteggiamento nichilistico donerebbero origine. Poniamo ora un problema a proposito della struttura dialettica sopra passata in disamina: s’è detto che contenuto della considerazione concreta è l’astratto in quanto tale, ossia l’astratto concepito nella rete logica di connessioni che ne costituiscono l’essenza. Introducendo una terminologia estrinseca a La struttura originaria, ma che potremmo giustificare una volta assunte finalità esemplificative, è possibile rilevare come invece un’altra rete – quella dell’astrazione o della volontà isolante – sia all’origine dell’alterazione dell’astratto, rete che cioè, isolando l’astratto dalla sua connessione ad altro, pretenderebbe di stringerne in pugno l’identità di là dalle relazioni intrattenute con le altre determinazioni. Ma, se il concetto astratto dell’astratto è «quel concetto che contraddittoriamente nega il concreto»37, quale il contenuto dell’esperienza astratta? A tutto questo la filosofia severiniana risponde fermamente, in piena continuità con quanto abbiamo già passato in rassegna: ciò che è negazione della verità, ciò che è quindi negazione del concreto, è nulla e solo nulla. E tuttavia, se come esito dei sogni visionari scaturiti dalla presa di tale rete isolante v’è né più né meno che l’intera storia della civiltà occidentale, tanto nel suo sapere quanto nelle sue pratiche, come rendere ragione dell’intero di questa esperienza? Se 37. Ivi, p. 118.
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tutto ciò è nulla, cosa esperisce il mortale? Quel mortale che è addirittura Severino stesso nella misura in cui, col linguaggio, intende, vuole far sì che contenuto di certi segni linguistici sia propriamente il Destino, la verità dell’essere in quanto tale? Per ora possiamo accontentarci di aver problematizzato quest’istanza in sede critica, istanza che potremmo sintetizzare nel rapporto sussistente tra l’assenza di un’effettiva negazione della verità e la positività, l’esserci di tutto quel che ci circonda, della nostra storia e financo dello stesso linguaggio di chi intenderebbe testimoniare il Destino. Per non lasciare sospesa la questione, possiamo anticipare come l’esito e dunque il ribaltamento di tale aporia sia presente nella sua massima densità teoretica all’interno del capitolo IV de La struttura originaria, ove Severino, facendo i conti con l’antichissima problematica del nihil absolutum, ha così dato i natali a uno dei punti nevralgici della sua filosofia, che non casualmente è uno degli snodi più discussi in sede critica. Senza arrivare all’aporetica del nulla, ma già riflettendo sul plesso della dialettica, Massimo Donà ha esposto una rilevante critica al panorama che abbiamo cercato di esporre con Severino. Tematizzando la relazione di alterità posta da Severino fra concetto concreto e concetto astratto dell’astratto, si è detto che la medesima relazione sussiste in quanto l’astrazione pretenderebbe di considerare l’astratto nell’isolamento dalla sua relazione ad altro. Quel che Donà problematizza è l’istituzione, poste le or ora menzionate puntualizzazioni, di una reale distinzione fra questi due orizzonti: in che misura, insomma, varrebbe la distinzione fra concetto concreto e concetto astratto dell’astratto? Si è davvero certi che, istituendo una siffatta alterità fra i due concetti, si abbia realmente innanzi allo sguardo della mente qualcosa come il concetto astratto dell’astratto? O forse, la posizione dell’astrattamente astratto come altro dal concreto, non è altro che una riproposizione della concezione concreta dell’astratto, per cui l’astratto ver-
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rebbe pensato come ciò che originariamente implica la relazione all’altro38? Facciamo un passo indietro. In qualche modo le pretese che potremmo ascrivere all’astrattamente astratto sarebbero quelle di chi, volens nolens, intenderebbe guadagnare un privilegio o quantomeno una refrattarietà del piano dell’immediatezza rispetto all’orizzonte logico. In ciò, per l’appunto, prendendo le distanze dall’immediatezza severinianamente intesa, che non avendo nulla a che fare con tale refrattarietà al piano logico, lo accoglie al contrario in qualità di momento della coalescenza originaria. Ebbene, l’idea di questa immediatezza, di una positività da ascrivere alla determinatezza in una fase precedente, per esempio, al suo differenziarsi da altro per essere quel che è, l’idea di questa immediatezza è autocontraddittoria39. Perché? Perché per essere quel che è, per essere cioè quell’immediatezza che non è interna all’orizzonte logico, abbiamo già chiamato in causa l’alterità o differenza tra essa e quell’orizzonte logico con cui non intendeva venire a patti, alterità o differenza che, chiaramente, sono null’altro che la tacita operatività sotto banco della logica. Non è a quest’esperienza dell’immediatezza che intende far richiamo Donà, massimamente consapevole della succitata istan38. Questa critica alla necessità di una distinzione reale tra concreto e astratto verrà rivolta dal filosofo veneziano pure alla dialettica hegeliana; in ciò ci pare che sia presente un’affinità con la prospettiva critica di un altro pensatore italiano del Novecento come Luigi Scaravelli, il quale problematizzava proprio l’incapacità hegeliana a restituire una concreta differenza. In merito, rimandiamo a L. Scaravelli, Critica del capire, La Nuova Italia, Firenze 1968. 39. Quest’equivalenza tra immediatezza e autocontraddittorietà è stata problematizzata su vari fronti, donando origine ad alcune delle più interessanti prospettive teoretiche sorte nel recente dibattito italiano. Si pensi, per esempio, al passo che Massimo Adinolfi avrebbe inteso compiere accanto al plesso logico-metafisico; su ciò, cfr. M. Adinolfi, Qui, accanto. Movimenti del pensiero, Inschibboleth, Roma 2020.
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za critica; il suo incedere questiona, al contrario, il rischio della mancanza di una reale ed effettiva distinzione tra il darsi del concreto e dell’astrattamente astratto. L’astrattamente astratto, infatti, non si dà mai, proprio laddove si riconosce che, differenziandosi dal concreto, vi è già originariamente connesso: l’isolantesi dalla distinzione è distinto dalla distinzione, così come l’altro dall’alterità è né più né meno di un fantasma. Mai si dà l’immediatezza in quanto altra dalla mediazione, ché altra dalla mediazione l’immediatezza è mediata. Ma allora, conclude Donà, non avendo altro cui rapportarsi, è la mediazione stessa a essere il vero immediato, così come l’unico veramente astratto è il concreto stesso, unico punto di vista dal quale si possa «stabilire la differenza tra astratto e concreto»40.
5. Analisi e sintesi. Oltrepassamento originario e toglimento dell’astrattamente astratto È in relazione al rapporto sussistente tra analisi e sintesi che Severino chiama in causa la dialettica tra concreto e astratto. Ogni
40. M. Donà, Identità e totalità. Il pensiero di Emanuele Severino e il folle sogno della ‘verità’, in «Il Pensiero», LI, n. 2, 2012, pp. 185-212: p. 203; cfr. pure ivi, pp. 203-204: «stante che l’astratto appare come tale solo in quanto separato da un concreto che, per quanto “come separato”, appare; e dunque dice la concretezza, l’ineludibile concretezza di quel che definiamo “ancora privo di quel che avrebbe reso conoscibile la sua astrattezza”. L’astratto, insomma, appare sempre e comunque come concetto concreto dell’astratto; perché il concetto astratto dell’astratto può apparire come tale solo in relazione ad un concreto che dovrà già essere connesso all’astratto che si dice concepito astrattamente, cioè indipendentemente da ciò rispetto a cui non è affatto indipendente». Se si vuole pensare agli sviluppi che la suddetta tematica guadagnerà entro la filosofia severiniana, si tenga presente che la relazione tra concreto e astratto verrà a maturare in quella tra verità del destino e isolamento della terra.
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elemento, ogni oggetto d’analisi – e cioè: ogni astratto – nasce nel contesto alla luce del quale solamente è possibile ricostruire il senso che gli è proprio. Qualsiasi finito, insomma, certamente si distingue da ogni altro finito o parte, e tuttavia mai dai suoi pari va separato, distinzione non essendo pareggiabile a isolamento. Anticipando quanto risulterà decisivo ai fini di una concreta comprensione della risoluzione dell’aporetica del nulla, differenziare distinzione e isolamento rende possibile concentrarsi sulla singola parte – distinta, per l’appunto, dagli altri membri del tutto – senza perdere di vista l’intero. Con la terminologia più propria de La struttura originaria, potremmo dire che approccio analitico è quello volto a considerare l’elemento o la parte del plesso come tale, ossia in qualità di astratto inteso alla luce del concreto istanziato dalla struttura originaria. Concetto concreto dell’astratto, lo abbiamo visto, si ha con la considerazione della parte come tale, e cioè all’interno dell’intero: il significato di una pagina de La struttura originaria assume senso unicamente alla luce della relazione con quanto espresso dalle pagine precedenti e da quelle che seguono, isolamento contraddittorio essendo quello di chi pretenderebbe di far valere il contenuto semantico di quanto letto di là da quel cui rimanda la scrittura del resto del volume. Concettualizzando radicalmente un lascito di cui dovrebbe far tesoro chiunque si avvii alla lettura e addirittura alla comprensione di un testo filosofico, Severino insegna a non separare astrattamente analisi e sintesi. Questa separazione è né più né meno di quel che abbiamo visto a proposito dell’isolamento o concetto astratto dell’astratto, concepibile come un «originario passare, da parte dell’astratto, in altro»41. Mai v’è stata parte avulsa dal contesto, poiché essa, proprio in quanto parte, rimanda necessariamente all’intero di 41. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 117.
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cui è membro. Da questo punto di vista, ponendosi al modo di un “originario passare”, il toglimento dell’astratto viene ad assumere una cadenza tipicamente hegeliana. Non sono certamente un segreto importanza e ruolo che la dialettica hegeliana ha giocato nel corso dello sviluppo della filosofia severiniana: già in La struttura originaria riferimento e debito nei confronti di Hegel sono palesi, per un percorso che potrebbe giungere almeno sino a Tautótēs, altro caposaldo ove si consuma un ulteriore confronto teoretico. A ogni modo, quel che qui più conta è sottolineare la parentela teoretica tra questo originario passare e la configurazione della prima triade interna alla Scienza della logica hegeliana, composta come noto da essere, non-essere e divenire42. Così come in Severino, la prima triade della Logica hegeliana insegna come mai vi sia stato un essere a sussistere, in qualità di cominciamento, nella sua separatezza dal non-essere, allo stesso modo in cui neppure v’è mai stato un non-essere sulle prime isolato dall’essere: il passare che muove dall’essere al non-essere e dal non-essere all’essere è un originario oltrepassamento, l’isolamento è pura e fantasmatica astrazione – o opinione (Meinung) – dalla concretezza propria del Werden, loro unità sintetica. Originario è sempre e solo il divenire, ciò che si riconosce al termine dell’esposizione essendo, al contrario, il vero inizio43.
42. Cfr. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik I (d’ora in avanti, WdL I), in Id., Werke in zwanzig Bänden (d’ora in avanti, W), a cura di E. Moldenhauer e K.M. Michel, vol. V, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1969, pp. 82-115; tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, Scienza della logica, 2 voll., intr. di L. Lugarini, Laterza, Roma-Bari 1981, vol. I, pp. 69-102. 43. Cfr. ivi, p. 83; tr. it. cit., vol. I, p. 71: «la verità non è né l’essere né il nulla, bensì che l’essere – non passa, – bensì è passato, nel nulla, e il nulla nell’essere».
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E così per la dialettica severiniana: l’astrattamente astratto non è elemento che sussista in quanto tale per poi, in un secondo momento, venire oltrepassato, al contrario: originario è l’oltrepassamento dell’astratto in altro, laddove invece «il trattenersi in sé è contraddittorio»44. L’atomo che pretenderebbe di restare in se stesso è contraddittorio, ché già questo trattenersi chiama in causa una forza dal quale l’elemento si tratterrebbe e con la quale è dunque in relazione. Mai si costituisce, dunque, un astratto se non concretamente inteso: nulla è l’astratto che precederebbe l’intero della struttura originaria, e cioè l’apertura del sapere filosofico. L’astrattamente astratto non è il terminus a quo, il trampolino di lancio da cui il movimento dialettico proverrebbe per giungere, infine, alla sua concezione concreta: originariamente contraddittorio è l’astrattamente astratto proprio perché si manifesta solo in questo rinvio alla struttura originaria, all’esterno dell’apertura dell’orizzonte filosofico non essendovi propriamente nulla. È qui che si può leggere tra le righe la radicale messa in questione dei presupposti a opera della filosofia severiniana: se per presupposto s’intende un elemento tale da condizionare dall’esterno la razionalità filosofica, pretendendo così di ritagliare uno spazio in cui accampare i propri diritti, qui non v’è propriamente nulla del genere, nulla che la ragione debba concedere al sentimento, alle immagini, a opinioni, credenze e quant’altro. Rispetto a ogni altra forma di sapere scientifico, tratto distintivo della filosofia è quello di non poggiare su giustificazioni esteriori, su presupposti che fungerebbero, per essa, da punto di partenza o cominciamento ereditato per altra via. Se ogni sapere scientifico rimanda per sua propria natura a datità e immediatezze – tanto per quanto concerne l’ambito d’indagine, quanto per il metodo –, peculiarità della filosofia è l’indisposi-
44. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 117.
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zione a adottare contenuti affermati per una via che non sia lo stesso esercizio della razionalità45. «La posizione della quantità originaria dell’eccedenza implica di necessità la posizione di ciò che è così oltrepassato: nel senso che la presentazione concreta del giudizio originario è posta come il concreto […], in relazione cioè all’astratto che il concreto toglie in sé ponendolo come tale»46. L’intero è toglimento dell’astratto, laddove hegelianamente il toglimento è assieme negazione e conservazione: negazione dell’astratto in quanto astrattamente inteso, conservazione dell’astratto in quanto concretamente posto. Tra le righe di questo passaggio si legge però pure come la posizione del concreto si dia unicamente in relazione al toglimento dell’astrattamente astratto. La verità è tale in quanto è in grado di dare ragione di se stessa, ove dar ragione di se stessa è in Severino mostrare il proprio valore, esibire la propria incontrovertibilità accertando l’autocontraddittorietà della propria negazione: come dunque mostrare il valore del concreto, come porre la vera concezione del finito? Accertando, sub eodem, la contraddittorietà del finito in quanto isolato, ossia l’originario toglimento dell’astrattamente astratto. I due momenti sono inscindibili: la verità è posta come tale unicamente in virtù della posizione del toglimento dell’errore, in virtù, cioè, dell’accertamento della contraddittorietà conveniente all’astrattamente astratto. Cosa vuol dire, quindi, che il concreto toglie in sé l’astratto ponendolo come tale? Che posizione del concreto è, in uno, posizione della contraddittorietà dell’astrattamente astratto, accertamento del suo originario autotoglimento47. 45. Su questa peculiarità del sapere filosofico in riferimento al pensiero severiniano, cfr. L. Messinese, L’apparire del mondo, cit., pp. 38-39. 46. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 117. 47. Con altro linguaggio, e anni più avanti, dirà Severino: «E l’essere negazione della propria negazione appartiene all’essenza del Destino: il Destino
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È a questo livello che dunque viene introdotta la tanto problematica “figura concettuale” dell’esser posto come tolto, corrispondente all’accertamento della caratura fantasmatica propria dell’astrattamente astratto. Corre in soccorso all’interprete, a testimonianza dell’importanza giocata da Hegel, la definizione di Aufhebung data nella Scienza della logica: «Qualcosa è tolto in quanto è entrato nella unità col suo opposto»48. Il tolto è tale in quanto entra in unità col suo opposto: Aufhebung della determinatezza A si dà laddove la sua identità accolga come momento essenziale la differenza, di modo che non-A è ciò che, determinando A, risulta essenziale al suo concreto concepimento. Togliere A è concepirlo in unità con non-A, laddove la concezione isolante della determinatezza – il concetto astratto dell’astratto – viene corrispettivamente a palesarsi in tutta la sua insussistenza. E tuttavia, qui si presenta un problema centrale per La struttura originaria: se verità è tale là dove accerta l’impossibilità dell’errore, come render conto di questo concetto, iuxta propria principia, aporetico? Come accertare, cioè, un’impossibilità, qualcosa che neppure per un momento sfiora la positività propria dell’essere e dunque di tutto ciò che è? Questa quella che, prima facie, sembra l’ineludibile aporia in cui si è immerso l’originario: come tenere insieme possibilità e impossibilità, positività e negatività? Se il toglimento è originario, secondo la prospettiva individuata dalla filosofia severiniana, allora mai v’è stata fase in cui l’astratto astrattamente inteso sarebbe riuscito a costituirsi; ma quindi cosa nega la verità per porsi come tale? Da dove quel minimum di positività necessario affinché la ve-
è lo stante, solo in quanto è tale negazione e dunque solo in quanto include la propria autonegantesi negazione» (E. Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992, p. 168). 48. G.W.F. Hegel, WdL I, p. 114; tr. it. cit., vol. I, p. 101.
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rità possa porsi come tale, id est: come negazione della propria negazione, o posizione del toglimento dell’errore49?
6. La posizione dell’astratto come posizione dell’impossibile Siamo giunti a quello che potremmo definire, senza particolari timori, uno dei veri e propri nuclei della dialettica severiniana: la posizione del concetto concreto dell’astratto è, allo stesso tempo, posizione del toglimento del concetto astratto dell’astratto. Quel che ha destato maggiori perplessità è certamente la problematicità ascritta alla figura dell’esser posto come tolto, ché l’impossibile a darsi, l’originariamente toglientesi, pur in certo qual modo appare e si manifesta, quantomeno come oggetto del discorso che, di tale impossibilità, è testimonianza. Affinché sia posto il concreto, è dunque necessaria la posizione dell’impossibile. Questa l’esigenza del discorso severiniano, che dovendo cucire posizione e impossibilità introduce la
49. Come vedremo, la risposta della filosofia severiniana all’aporia qui enucleata appare nella sua massima evidenza con la risoluzione dell’aporetica del nulla, che in ciò assume infatti valore fondazionale. Sarebbe già possibile enucleare, sulla base offerta da tali plessi concettuali, la distinzione fra contraddizione e contraddirsi che la filosofia severiniana provvederà a evidenziare. Latentemente presente, in questo discorso, è infatti la distinzione fra contraddizione, o l’originariamente impossibile a costituirsi, e il contraddirsi, ossia quella persuasione che ha per contenuto la contraddizione. Se il contenuto contraddittorio è l’impossibile, la persuasione che ha per contenuto il contraddittorio, al contrario, non lo è. Ciò che ne nasce è una nuova figura problematica: qualcosa d’impossibile – il contenuto contraddittorio –, che non rende impossibile, però, la persuasione che l’abbia per contenuto, la persuasione dell’impossibile: il contraddirsi. È possibile la persuasione di ciò che è impossibile a darsi, di ciò che neppure riesce a costituirsi.
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figura concettuale dell’esser posto dell’astrattamente astratto come tolto. In questo senso, dunque, «la posizione dell’astratto come tale, poi, è lo stesso toglimento del concetto astratto dell’astratto»50. Se stiamo insistendo tanto su questo plesso – che è poi decisivo per comprendere l’operatività della dialettica severiniana – è per guadagnare l’essenzialità del rimando che si dà tra posizione e toglimento: la posizione dell’astratto non è un che di indifferente al toglimento, non posizione e toglimento dunque, bensì: la posizione è il toglimento. Citando nuovamente Severino: «Per altro verso, il concreto è posto in quanto è attuale l’assenza di un termine in relazione al quale il concreto, a sua volta, sia depotenziato a momento astratto. E, anche qui, il concreto è ciò che attualmente si distoglie da questa relazione, e pertanto è ciò che sta in relazione a tale relazione tolta»51. Attualmente assente è il concetto astratto dell’astratto, che non riuscendo neppure a costituirsi è posto come tolto. Ed ecco Severino precisare tale giro di concetti facendo nuovamente richiamo alla figura hegeliana dell’Aufhebung: «Ciò che è confermato è appunto la materia, o il contenuto logico dell’astratto. Ciò che è tolto, è invece la forma che conviene all’astratto in quanto esso non è passato nell’orizzonte che originariamente lo comprende»52. L’oltrepassamento originario dell’astratto nella totalità dell’eccedenza viene risemantizzato come unione di toglimento e conservazione. A esser tolta è la forma dell’astratto in quanto non oltrepassato nell’orizzonte che originariamente lo comprende, forma astratta dell’astratto; materia e contenuto logico, al contrario, vengono confermati e conservati, all’interno del già da sempre compiuto movimen50. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 118. 51. Ibidem. 52. Ibidem.
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to entro il quale si riconfigurano entro la forma concreta che prima pareva assente. È questa forma (= concetto astratto dell’astratto) ciò di cui l’astratto si spoglia nel suo passare, ed è essa che diventa un «passato», un non esser (originariamente) più – un non esser più nella verità, s’intende, non nel tempo (ché altrimenti non avrebbe senso parlare di un «non essere originariamente più»; tale espressione significando dunque che l’errore è originariamente tolto, oltrepassato).53
L’errore, l’isolamento dal concreto è originariamente (zeitlos) tolto e oltrepassato, di un passato logico e non temporale, s’intende. Ed è un capovolgimento, un cambio dell’inquadratura corrispettivo alla presa di coscienza propria del passaggio dall’astratto al concreto – meglio: all’astratto concretamente inteso –, quella cui instrada la filosofia severiniana: tutta la nostra civiltà, fino alla più banale delle azioni che possiamo credere di intraprendere, si riveleranno nella loro essenza identiche al nulla, presupposti prefilosofici che solamente un’indagine non sufficientemente autocritica è in grado, inconsciamente, di sostenere. La manifestazione dell’intero o struttura originaria si dà quindi nella posizione dell’astrattezza dei singoli momenti: la posizione concreta dell’astratto s’individua nella considerazione del momento come distinto dagli altri elementi della struttura originaria, l’isolamento di questo essendo al contrario l’originariamente toglientesi. «In altri termini: se il contenuto manifesto (= la manifestazione in quanto tale del giudizio originario) si distingue dal modo di manifestazione (= la discorsività) bisogna, anche qui, tenere presente che il valore di questa distinzione si fonda sulla concreta unità dei due momenti»54. L’unità di con53. Ibidem. 54. Ivi, p. 119.
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tenuto e discorsività si constata nell’esigenza del concreto di esprimersi parzialmente, e cioè: nell’astratto, pena l’abbandono del discorso per l’intuizione. Se nel discorso a realizzarsi è, necessariamente, l’astratto del momento in quanto mai potrebbe darsi il tutto in forma linguistico-discorsiva, tuttavia il contenuto non per questo va isolato dagli altri momenti del tutto, l’errore consistendo proprio nello slittamento dalla distinzione sussistente tra le parti all’isolamento delle stesse. A titolo d’esempio, poniamo che l’intero contenuto si esaurisca in questa stanza. Ebbene: discorsivamente non potremmo che testimoniare, a una a una, tutte le determinatezze che la compongono: la bottiglia, lo zaino, il libro, la scrivania, ecc. Certamente, dunque, l’intero non si dice mai come tale, come concreto sic et simpliciter, ma si dice, in qualche modo, tradendosi: ossia sempre come parte, nella bottiglia, nello zaino, nel libro e in tutte le determinatezze che lo compongono. Dove l’errore? Nella concezione isolata della parte che, in quanto tale, lederebbe il senso stesso ad essa conveniente: la bottiglia si trova in questa stanza per un motivo preciso, ossia per abbeverarmi, e dunque rimanda a me, così come la mia permanenza in questo luogo rimanda al suo essere un’aula-studio, ecc. In quanto contenuto linguistico la determinatezza appare sempre e solo nella sua parzialità, e cionondimeno il darsi dell’intero nella parte non va confuso con un’assolutizzazione o isolamento di quest’ultima. Contenuto del discorso non è dunque la reciproca esteriorità o indifferenza fra i termini, bensì l’astrattezza dei momenti che vanno concepiti secondo la loro unità concreta, di modo che il linguaggio possa intendersi come manifestazione parziale e processuale dell’intero. Uno dei testi più importanti ove Severino indaga il rapporto tra verità e linguaggio è certamente Oltre il linguaggio. In esso, il filosofo bresciano s’impegna a declinare lo sviluppo del linguaggio come la manifestazione di quanto, al contrario, «non
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si sviluppa»55: lo sviluppo è tale in quanto sviluppo del linguaggio della struttura originaria, essa al contrario essendo incontrovertibilmente data di là da ogni storicizzazione, linguistica o meno, della medesima. Le determinazioni dell’essenza della struttura originaria non possono sopraggiungere nell’apparire, perché, separate le une dalle altre […], sono qualcosa di controvertibile, e anzi sono negazioni della struttura originaria; e tuttavia esse appaiono in un sopraggiungere, all’interno di uno sviluppo, che dunque non è il loro sviluppo, ma è lo sviluppo del linguaggio.56
Nel secondo capitolo, vedremo come il problema di un linguaggio in quanto testimonianza del Destino rimanda, in verità, a una contraddizione differente e più originaria rispetto a quella normale, in specie a una contraddizione che non viene tolta per ciò che essa dice, ma piuttosto per la parzialità di quel che dice. Questa contraddittorietà, cui Severino si riferisce mediante l’espressione “contraddizione C” è infatti il nucleo tematico della seconda parte del presente lavoro. In Testimoniando il destino, a tal proposito scrive Severino: Questa contraddizione – che sussiste perché il linguaggio testimoniante il destino testimonia una dimensione finita della persintassi – non è dunque una contraddizione normale, il cui contenuto è un nulla, ma è una contraddizione C, il cui togli-
55. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 173. Questo il passo integrale: «il linguaggio che dice l’essenza della struttura originaria è uno sviluppo, ma l’apparire dello sviluppo non si sviluppa, e lo sviluppo del linguaggio che dice quell’essenza dice ciò che non si sviluppa». Per un’interpretazione che assume una postura critica rispetto al tema del linguaggio in Severino, e più specificamente a proposito del rapporto intercorrente fra segno e identità, rimandiamo a M. Adinolfi, Segno e identità. Sul linguaggio, a partire da Emanuele Severino, in «Il Pensiero», LI, n. 2, 2012, pp. 213-230. 56. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 175.
53 mento è dato dall’apparire della sempre maggiore concretezza del suo contenuto.57
Non avendo ancora discusso della contraddizione C, quest’affermazione potrebbe presentarsi molto oscura. A ogni modo, cercando di semplificarla: se per persintassi intendiamo la connessione delle determinazioni fondamentali della struttura originaria, il linguaggio, come tale, è manifestazione parziale della persintassi. Il linguaggio, in questo senso, non è contraddittorio in quanto insieme dice e non dice lo stesso. La testimonianza, al contrario, è contraddittoria perché dice non dicendo, ossia perché dice parzialmente quel che guadagna il proprio autentico significato unicamente nella connessione all’intero della dimensione persintattica. Designando l’originario, la testimonianza linguistica lo altera non nel senso che affermi l’opposto di quanto dice l’originario, ma nel senso che il contenuto designato è necessariamente manifestazione astratta e unilaterale rispetto al concreto. Oltrepassamento di questa contraddizione non è quindi sua negazione originaria, ma piuttosto oltrepassamento dell’astrattezza e della parzialità del suo contenuto, ossia dell’isolamento dei tratti testimoniati dell’originario58.
7. Struttura originaria e forma della predicazione A sintetizzare quanto sinora abbiamo visto tramite la dialettica, interviene un passo tratto dall’introduzione del 1979: Ne La struttura originaria la «dialettica» è appunto, nel suo significato centrale, il rapporto tra il concetto concreto e il 57. E. Severino, Testimoniando il destino, cit., p. 226. 58. Ulteriore punto è quello del tramonto della terra isolata, che coinvolgerebbe pure il tramonto del linguaggio in quanto volontà e dunque della testimonianza del destino; ci torneremo nel secondo capitolo.
54 concetto astratto dell’astratto – il rapporto per il quale l’originarietà del concetto concreto è negazione della contraddittorietà del concetto astratto dell’astratto. Il nesso necessario, secondo cui l’originario si struttura, è tale in quanto è negazione della contraddizione (cioè della negazione della L-immediatezza) determinata dall’isolamento in cui il concetto astratto rinchiude i tratti dell’originario. Nel linguaggio de La struttura originaria la «dialettica» è questa negazione della contraddizione, e questa contraddizione (cioè l’identificazione dell’astratto e del suo contraddittorio – l’identificazione di A e di non-A) è la «contraddizione dialettica».59
Dell’operatività dialettica in gioco nella filosofia severiniana è però possibile dare un riferimento più specifico, individuandolo, per esempio, nella forma predicazionale corrispondente alla struttura originaria. A tal proposito, prenderemo le mosse ancora una volta da quanto esposto nella nuova introduzione a La struttura originaria. La struttura originaria è struttura, perché è predicazione, cioè una relazione in cui qualcosa viene detto di qualcos’altro appunto perché quest’altro è ciò che esso è – e quindi il qualcosa detto è dedicato (prae-dicatum) a quest’altro […]. Ma il dire, in quanto struttura originaria, è l’identità tra il qualcosa detto e il qualcosa di cui esso è detto, ossia è l’apparire dell’identità delle cose che sono in relazione: la relazione è identità.60
Severino riconduce la struttura originaria alla predicazione, non solo: essa è la forma fondamentale della predicazione, la quale si costituisce come identità61. E tuttavia, proprio passando in rassegna un qualsivoglia enunciato appartenente alla 59. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 47. 60. Ivi, p. 24. 61. Cfr. ivi, p. 25: «La distinzione tra i vari tipi di proposizioni è interna all’unico senso che la proposizione, in quanto predicazione, può assumere in quanto essa si costituisce come la stessa struttura originaria o come elemento di tale struttura». Tutte le varie e differenti proposizioni assumono il loro
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vita di tutti i giorni, parrebbe sorgere una facile obiezione: in ogni predicazione, non è mai posta un’identità simpliciter. Assumiamo come esempio la proposizione “il divano è giallo”, formalizzabile in “A è B”. Qui ad apparire è certo un’identità, ma semmai un’identità dei diversi, di quei due diversi costituiti dall’esser-divano e dall’esser-giallo. E nella Scienza della logica proprio tale discrepanza viene condotta a coscienza, laddove Hegel mostra come neppure nella più semplice delle tautologie – A è A – a darsi sarebbe una pura identità, data la diversità del primo dal secondo termine. Severino, al contrario, afferma che la predicazione nella sua strutturazione fondamentale si costituisce come un’identità, mostrandosi allo stesso tempo ben consapevole dell’aporia: «se di qualcosa si dice altro da ciò che esso è, il dire dice che qualcosa è altro da sé, non è sé, cioè il dire è un contraddirsi»62. Se predico B di A, sto identificando ad A qualcosa che è altro da A, qualcosa che è non-A: mi sto contraddicendo. Ma allora, come può Severino mostrare il toglimento di questa contraddittorietà che sembra, al contrario, costituire e innervare la struttura stessa del dire? Come è possibile affermare senso in quanto sono, da ultimo, specificazioni interne all’unico senso che proposizione e predicazione assumono in quanto struttura originaria. 62. Ibidem. Cfr. ivi, p. 269: «Se un certo tipo di significato complesso è una struttura apofantica nella quale ogni momento del complesso è in un certo modo gli altri momenti, ogni complessità semantica di questo tipo, i cui momenti siano differenti gli uni dagli altri, sarà una negazione del principio di non contraddizione. Affermare che questa estensione è rossa, significherà infatti affermare che questa estensione è non questa estensione (stante che il colore di questa estensione appartiene all’orizzonte del contraddittorio di essa)». L’aporia è testimoniata dalla tradizione filosofica a cominciare dal Sofista di Platone, ove l’autore ne denunciava l’insostenibile e paradossale conseguenza: l’impossibilità di ogni predicazione che non si costituisse come proposizione tautologica del tipo A = A. La linea aporetica giunge alla sua massima radicalità nella formulazione hegeliana, estendendo la problematica finanche alle proposizioni tautologiche.
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che la struttura originaria costituisca la forma fondamentale dell’apparire dell’identità dei relati secondo la modalità propria della predicazione? In quanto segue cercheremo di mostrare come Severino testimoni la struttura originaria in qualità di predicazione fondamentale che lascia apparire l’identità dei termini in relazione. Anche una proposizione sintetica come «questa lampada è accesa», se appartiene alla struttura originaria […], è necessario che si costituisca come un’identità, come un dire che non dice che qualcosa è altro da sé, non lo identifica al suo altro, ma lo dice identico a sé.63
Finanche una proposizione sintetica ha da costituirsi come un’identità, e tuttavia ciò continua a risultare incomprensibile, proprio per il giudizio sintetico che Severino ha posto a titolo esemplificativo: l’esser-lampada è infatti altro dall’essere accesa, e dunque identificare i due termini sembrerebbe manifestare una contraddittoria identificazione dei distinti. Per comprendere concretamente la tesi severiniana, risulta decisivo intendere il presente passo: «dire che questa lampada è accesa significa dunque che l’essere accesa conviene non semplicemente a questa lampada, ma a questa-lampadache-è-accesa. È al soggetto aperto al predicato, in relazione al predicato, che il predicato conviene»64. La struttura della predicazione, l’apparire della relazione fra un elemento e qualcosa d’altro da esso – id est: A è B – non corrisponde all’apparire del soggetto (A) in quanto isolato dal predicato (B), ma al soggetto in quanto aperto, in quanto connesso al predicato (A = B). Quando si dice che la lampada è accesa, non si sta 63. Ivi, p. 25. 64. Ivi, p. 29. Cfr. ivi, p. 271: «il giudizio “non identico” non è una contraddizione solo in quanto soggetto e predicato del giudizio hanno essi stessi valore apofantico e l’apofansi in cui sussiste il soggetto è l’apofansi stessa in cui sussiste il predicato».
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predicando B di A, l’esser-accesa dell’esser-lampada, ma si sta predicando l’esser-accesa-di-questa-lampada (B = A) di questa-lampada-che-è-accesa (A = B). Mai B conviene ad A, simpliciter, ma B che è A conviene a un A che è B: questa l’identità che la filosofia severiniana intenderebbe testimoniare. L’identità della predicazione appare in quanto, a ben vedere, non si manifesta il riferimento di un predicato a un soggetto altro o isolato da esso, ma il riferimento dell’identico a se medesimo, l’apparire dell’identità dell’identico con se stesso: la predicazione è l’epifania dell’auto-identità, e la struttura della predicazione assume la seguente formulazione logica: (A = B) = (B = A). Certo allora che, come insegna Hegel, ogni giudizio – tautologico o meno – è contraddittorio, ma solo qualora il giudizio sia considerato astrattamente, considerazione che «consiste nell’assumere il soggetto e il predicato del giudizio come termini irrelati»65. Questo il tentativo severiniano di mostrare l’originario toglimento della contraddittorietà intrinseca alla struttura della predicazione e del giudizio, che da ultimo si concentrerebbe e sedimenterebbe nella formulazione dell’identità originaria all’interno del cui orizzonte trascendentale va a inscriversi la totalità costituita dalle differenti specificazioni predicazionali: «ciò significa che tutti i giudizi non contraddittori sono giudizi identici, stante appunto che, anche nei giudizi “non identici” sia il soggetto, sia il predicato del giudizio hanno lo stesso valore apofantico [= predicazionale]»66. E
65. Ibidem. 66. Ivi, p. 272. Una delle critiche più rilevanti che sono state mosse alla struttura predicazionale qui esposta è stata elaborata da Massimo Donà in L’aporia del fondamento, Mimesis, Milano-Udine 2008, pp. 336-368. Secondo Donà la strutturazione originaria del dire riproduce, in altra guisa, la medesima aporetica che la forma severiniana intenderebbe togliere, rectius: che la forma severinana intenderebbe porre come l’originariamente toglien-
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nel riconoscimento dell’autentica struttura della predicazione originaria, possiamo assistere pure all’altrettanto originario toglimento del concetto astratto dell’astratto, il quale appare come il già da sempre negato isolamento del soggetto dal predicato e del predicato dal soggetto.
tesi. Nella formulazione logica sopra esposta – (A = B) = (B = A) –, facendo leva sull’inversione dei termini posti in relazione all’interno delle due parentesi, Donà intende mostrare come la contraddizione venga riproposta a più livelli: 1) All’interno di ciascuna parentesi è riformulata la contraddittoria identificazione dei distinti; 2) nella formulazione in quanto tale è riportata la medesima contraddittorietà, corrispondendo le due espressioni poste fra parentesi tonde ad A e B, della cui identificazione il dire contraddittorio pretenderebbe d’essere testimonianza. In virtù di ciò, sempre secondo la prospettiva teoretica progettata da Donà, a mostrarsi astrattamente astratto sarebbe proprio il concreto, e cioè quella che per Severino costituirebbe invece la strutturazione originaria del dire: (A = B) = (B = A). Posta la contraddittorietà della meta-identità, questa non toglierebbe assolutamente la contraddittorietà del concetto astratto dell’astratto, essa medesima piuttosto essendone inabitata, sia a livello microscopico che macroscopico (livelli corrispondenti ai due punti in questa medesima nota enucleati). Per la medesima motivazione, nella prospettiva elaborata da Donà, aporia e contraddizione non costituiscono elementi da porre in relazione di alterità e di distinzione rispetto all’identità incontraddittoria, al contrario: aporia e contraddizione rappresentano piuttosto la forma del manifestarsi della struttura dell’identità incontraddittoria medesima. Per la replica di Severino a Donà, cfr. E. Severino, Discussioni intorno al senso della verità, Ets, Pisa 2009, parte III. Si noti come, sostenendo che la posizione di Donà (A è insieme identico e non identico a B) si distingue determinatamente da chi sostiene: “A è identico ad A, o: A = A”, s’intende adottare la medesima struttura argomentativa che adopera Aristotele nel Libro IV della Metafisica per confutare, tramite ἔλεγχος, l’avversario della βεβαιοτάτη ἀρχή πασῶν: dal punto di vista severiniano, dunque, si sta attribuendo alla verità di Donà la struttura dell’identità, e cioè si sta determinando il contenuto del suo discorso, per ciò stesso questo rappresentando un’ulteriore istanziazione ed esemplificazione del logos dell’identità e dell’incontraddittorietà dell’essente. Sostenere la contraddizione non è sostenere la non-contraddizione: ma, per il medesimo motivo, la contraddizione si determina come incontraddittoriamente identica a sé e differente dal proprio altro.
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«E, analogamente, è il predicato del soggetto che conviene al soggetto67 […]. Il dire non è la sintesi di soggetto e predicato […] ma è l’identità tra la relazione del “soggetto” al “predicato” e la relazione del “predicato” al “soggetto”»68. Il dire non è l’apparire della sintesi fra soggetto e predicato, bensì dell’identità fra la relazione del soggetto al predicato e del predicato al soggetto: la lampada che è accesa è l’essere acceso della lampada, questa la strutturazione concreta, l’intreccio dell’identità del dire ponentesi come l’orizzonte dell’originario69. Dire che questa lampada è accesa significa che la luminosità in cui consiste questo essere accesa non è una luminosità generica e isolata da un contesto specifico, «ma è appunto questa lampada, questa certa forma visibile da cui si diffonde questa luce: lo stare acceso è questo esser lampada (giacché questa lampada è questo esser lampada) e il predicato “accesa”, che conviene alla lampada, è uno stare accesa»70. Il dire si struttura originariamente secondo tale sintesi: al soggetto aperto al predicato conviene il predicato del soggetto. Proprio per questo l’identità non è la contraddittoria identificazione dei distinti, ma l’originario apparire dell’identità dell’identico con se stesso, archetipica luminosità e relazione di due relazioni: non “A = B”, simpliciter, bensì “(A = B) = (B = A)”71. 67. Con l’esempio di Severino: è l’esser-acceso della lampada che conviene alla lampada che è accesa. 68. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 29. 69. Cfr. E. Severino, Tautótēs, Adelphi, Milano 1995, p. 121: «Ogni pensare che qualcosa è qualcosa – ogni pensiero che pensa la relazione tra qualcosa e qualcosa – manifesta l’identità della relazione con se stessa. L’apparire dell’essente è l’apparire dell’identità dell’essente». 70. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 29. 71. In Tautótēs Severino rileva l’insufficienza di tale formulazione logica; al fine di preservare il “non essere B” da parte di A, si afferma che A è piuttosto identico al suo “essere insieme a B”. La formulazione logica si ripresenta come segue: [A = (insieme a B)] = [(insieme a B) = A].
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«In questa espressione72, il segno di “uguale” che connette le due equazioni tra parentesi ha un senso diverso dai segni di “uguale” che costituiscono queste due equazioni. Esso è l’identità originaria, separatamente dalla quale l’identificazione di A a B (A = B) e di B a A (B = A) è la contraddittoria affermazione dell’identità dei non identici (A, B)»73. Distinto è il segno di “uguale” che sta per la meta-identità, quello che connette le due equazioni fra parentesi, dai segni interni alle medesime equazioni; il primo è identità originaria74, l’originario separatamente dal quale a prodursi è la predicazione contraddittoria, affermazione dell’identità dei non identici. Dire contraddittorio che, in quanto esemplificazione dell’isolamento del soggetto dal predicato del dire, «è fondato, come ogni altro isolamento, sull’isolamento della terra dalla Necessità […]. L’isolamento che costituisce il nichilismo dell’Occidente»75. Il linguaggio è ovviamente estraneo a La struttura originaria, e tuttavia risulta possibile chiarirlo con poche note. Per Severino, ogni significato o essente è costituito dalla sintesi tra la determinatezza (il “ciò che”) e il suo essere o positivo significare (il suo “è”). Sin da Platone – ma a ben vedere, già con Parmenide76 – l’Occidente avrebbe gettato la propria rete iso72. Il riferimento è sempre alla formulazione logica: (A = B) = (B = A). 73. E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 29-30. 74. Cfr. ivi, p. 30: «E l’identità è originaria, perché, come risultato di un movimento, sarebbe essa stessa contraddittoria». In polemica con Severino, e dalla prospettiva di una filosofia della possibilità pura, cfr. V. Vitiello, La lampada di Severino, in «aut aut», n. 267-268, 1995, pp. 77-86. 75. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 31. 76. Scrive infatti Severino: «Parmenide è insieme il primo responsabile del tramonto dell’essere. Poiché le differenze non sono l’essere – poiché “rosso”, “casa”, “mare”, non significano “essere”, non significano cioè “l’energia che spinge via il nulla” –, le differenze sono non-essere, sono esse stesse il nulla, che la dóxa chiama con molti nomi» (E. Severino, Ritornare a Parmenide, cit., p. 23).
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lante sull’essente, separando così determinatezza ed essere. Con il fondatore dell’Occidente, infatti, si è aperta la dimensione entro cui l’ente verrebbe concepito in maniera del tutto contraddittoria, pensato come ciò cui converrebbe la libertà del divenire, ossia: la libertà di passare dall’essere al nulla, e viceversa. È questa la determinazione trascendentale dell’ente come oscillazione (da ἐπαμφοτερίζειν) tra essere e non-essere. A tal proposito, vale citare un passo geniale di Severino tratto da Destino della necessità: In greco la contesa si dice ἔρις; ed ερίζειν è il contendere dei contendenti, e quindi il dibattersi tra i contendenti, da parte del conteso. Platone porta alla luce il senso della cosa – l’orizzonte al cui interno cresce l’intera storia dell’Occidente –, ponendo la cosa come un ἐπαμφοτερίζειν (Civitas, 479 c), ossia un ερίζειν ἐπί τά ἀμφότερα. L’espressione τά ἀμφότερα (“l’uno e l’altro”) si riferisce all’essere e al niente. La cosa è il dibattersi tra l’uno e l’altro […]. Ma la cosa si dibatte tra l’uno e l’altro appunto in quanto essi sono un contendersela. L’ente in quanto ente è ciò che è conteso dall’essere e dal niente.77
Lanciata da Platone la rete isolante, la concezione dell’ente è deturpata – deturpazione necessaria, come si dirà sempre a partire da Destino della necessità –, il legame tra l’ente e il suo essere abbandona l’inscalfibilità propria del ne-cessario, cedendo piuttosto all’oscillazione del divenire: qui le origini platoniche del nichilismo occidentale78, che pur credendo di
77. E. Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 21. 78. Il nichilismo raggiunge coerenza e radicalità massime con Leopardi, Nietzsche e Gentile. Tale coerenza, consiste nella posizione del divenire come l’unico vero immutabile. Che il divenire sia l’immutabile, per Severino, non implica contraddizione, poiché se l’immutabile del divenire venisse eliminato, allora si affermerebbero nuovamente quelli propri della tradizione occidentale che hanno provveduto a “soffocare” il divenire. In merito, cfr. E. Severino, Attualismo e serietà della storia, in Id., Gli abitatori del tempo. Cristianesimo, marxismo, tecnica, Armando, Roma 1981, pp. 116-127.
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concepire l’ente come non-niente, si tradisce nell’interpretazione dello stesso come ἐπαμφοτερίζειν. E così, operando questo vicendevole isolamento tra determinatezza ed essere, il nichilismo occidentale perviene alla contraddittoria identificazione di ente e niente, contraddittoria identificazione che altro non è se non l’inconscio dell’intero Occidente. Quello della predicazione è inoltre un ottimo punto da sfruttare per comprendere adeguatamente la tesi severiniana dell’eternità propria dell’ente in quanto ente79: lungi da concepire la determinatezza e il suo essere come due termini isolati, essendo al contrario originaria la loro sintesi, è altrettanto originaria l’impossibilità che qualsiasi ente, in quanto tale, non sia. Al cuore di ogni cosa, la più effimera inclusa: l’essere, financo la più radicale delle separazioni non potendo darsi che come il contenuto di un sogno, insufficiente a scalfire l’incorruttibile nesso che accorda l’essente al suo essere. Meritava rimprovero il giovane Socrate a pensare che non ci fossero idee delle cose più effimere: ogni cosa, per quanto spregevole, se è una cosa, è eterna80. Ha visto bene allora Vincenzo Vitiello, cogliendo «la ragione più profonda dell’attribuzione dell’eternità all’essente […] nella logica dell’inerenza del predicato – rectius: dei predicati – al soggetto»81. Predicatum inest subjecto: l’essere-predicato non
79. Come noto, l’eternità dell’essente sulla base del nesso necessario che lo lega al suo essere, è guadagno decisivo di Ritornare a Parmenide. 80. Cfr. E. Severino, Ritornare a Parmenide, cit., p. 28. 81. V. Vitiello, Tautà aeí. La logica dell’inerenza di Emanuele Severino, in E. Severino - V. Vitiello, Dell’essere e del possibile, Mimesis, Milano-Udine 2018, pp. 63-80: p. 70. A Vitiello va riconosciuto l’importante merito di aver posto la filosofia severiniana in un dialogo serio e serrato con i grandi autori della filosofia occidentale: Platone, Aristotele, Kant e Hegel, tra gli altri. In certo senso, l’operazione metodologica del filosofo napoletano è dunque in sintonia con l’approccio che abbiamo cercato di adoperare, tentando di
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s’aggiunge a un soggetto pensato a mo’ di noema isolato, in attesa dell’addizionale attribuzione. Al contrario: l’essere è contenuto già da sempre nell’essente, A è già da sempre A = A, «per cui l’identità-a-sé non è un atto noetico, bensì dianoetico»82. Collocando Severino nel grande filone occidentale della logica dell’inerenza83, l’inciso aristotelico presente nel Libro IX della Metafisica, che provvede a differenziare affermazione (κατάφασις) ed enunciazione (φάσις), viene prontamente disciolto84. Non v’è nessun momento noetico, nessun A a precedere il suo esser quel che è, la sua identità con sé, A = A. Il noetico è originariamente dianoetico, l’astratto è originariamente concreto, l’essente originariamente è, già da sempre: è eterno. L’affiliazione severiniana al filone della logica dell’inerenza, così come ci viene mostrata da Vincenzo Vitiello, è tacitamente un’ottima base di sostegno per la nostra tesi: proprio a valorizzare l’innegabile novitas rispetto alla tradizione dell’Occidente, il pensiero di Severino non va tuttavia separato dai grandi interpreti del pensiero filosofico. Ancora una volta: con l’Oc-
illuminare i problemi di Severino, ma di Severino solo in quanto di tutto il pensiero dell’Occidente, solo in quanto della filosofia. 82. Ivi, p. 65. 83. Filone che include, secondo il pensatore napoletano, altri filosofi come Leibniz e Hegel. 84. Cfr. Aristotele, Metaph., IX, 1051b 24-25; tr. it. cit., p. 395: «non sono infatti la stessa cosa l’affermazione e l’enunciazione». Su questo aspetto, ha battuto l’accento Guido Calogero nella sua interpretazione della logica aristotelica; a tal proposito si veda il suo fondamentale G. Calogero, I fondamenti della logica aristotelica, Le Monnier, Firenze 1927; nuova ed., con appendici integrative di G. Giannantoni e G. Sillitti, La Nuova Italia, Firenze 1968. In polemica con l’interpretazione calogeriana, si è espresso lo stesso Severino: cfr. E. Severino, Nota su ‘I fondamenti della logica aristotelica’ di Guido Calogero, ora in Id., Fondamento della contraddizione, cit., pp. 143-173.
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cidente, oltre l’Occidente. I continui corpo a corpo ingaggiati dalla filosofia severiniana sono tali, sono cioè del pensiero severiniano, solo in quanto propri di tutto il pensiero dell’Occidente, solo in quanto propri della filosofia. Per concludere l’analisi della struttura predicazionale, mostriamo pure l’originario toglimento di un’aporia che parrebbe istituirsi in relazione alla posizione del principio d’identità: “l’essere è essere”. In relazione a quest’ultima proposizione, si potrebbe nuovamente obiettare che la posizione dell’identità del soggetto e del predicato richiederebbe una distinzione, tra l’essere come soggetto e l’essere come predicato. In tal senso condizione di possibilità del principio di identità sarebbe data dalla negazione del principio di non contraddizione, visto che affermare che l’essere è essere, equivarrebbe a presupporre che l’essere deve, in certa misura, distinguersi dall’essere85. E tuttavia Severino illumina come, pure in questo caso, l’aporia è ingenerata dall’intelletto astratto, al quale sfugge necessariamente l’originarietà dell’identità sintetica che connette soggetto e predicato. Di là dall’isolamento del soggetto e del predicato che poi verrebbe tolto nella posizione dell’identità del giudizio, Severino afferma piuttosto: «L’essere, che è essere (l’essere cioè che vale come soggetto della proposizione “l’essere è essere”, è l’essere-che-è-essere, ossia è l’essere che è posto come identità; e non l’essere che, essendo posto (presupposto), è poi posto come identità (onde l’identità si costituisce come l’identificazione dell’alterità)»86. In questo senso si vede come l’autentica posizione dell’incontraddittorietà dell’essere, o del principio del logo strutturantesi quale concreta sintesi di principio di identità (l’essere è essere) e principio di non contraddizione (l’essere non è non essere), 85. Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 180. 86. Ivi, p. 181.
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è nuovamente il riconoscimento dell’originarietà sintetica del giudizio, originarietà che mostra il già da sempre avvenuto toglimento dell’isolamento del soggetto dal predicato e viceversa. O, in altri termini, riconoscendo e testimoniando l’originario valore apofantico di soggetto e predicato, palesa l’autocontraddittorietà di ogni tentativo di pensare l’uno o l’altro termine quali semplici momenti noetici87. Ancora una volta, l’analisi della struttura predicazionale ha concesso di assistere a un vero e proprio capovolgimento del nostro comune modo d’intendere soggetto e predicato, termini che si sono riconfigurati deponendo il loro senso abituale. Ingaggiando un testa a testa con l’aporia implicata dalla contraddittorietà del dire, e così facendo propria – pratica non desueta in Severino – una problematica ereditata almeno dal Sofista di Platone, la filosofia severiniana testimonia una forma predicazionale tale da accertare l’insufficiente autocritica propria di quella occidentale.
8. Sul contenuto del concetto astratto dell’astratto Sempre nel corso della nuova introduzione a La struttura originaria, Severino dedica un intero paragrafo alla trattazione della dialettica, cui quindi rivolgiamo particolare attenzione88. «Nel suo significato essenziale, il “concreto” è la strutturazione stessa dell’originario, ossia quell’unificazione dei tratti dell’originario, per la quale la negazione dell’originario è autonegazione. E l’“astratto” è il tratto o l’elemento particolare della
87. Per ulteriori rimandi che coinvolgano la tematica dell’incontraddittorietà dell’essere in relazione alla struttura predicazionale della filosofia severiniana, si veda l’intero capitolo III de La struttura originaria. 88. Si tratta del par. 4, intitolato La dialettica.
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struttura»89. Nulla di nuovo sotto il sole: la struttura è tale in quanto nesso necessario delle determinazioni che la compongono, e in quanto il nesso è necessario, la sua negazione è auto negazione. Se le determinazioni dell’originario – corrispondenti all’elemento astratto cui prima ci siamo diffusamente riferiti – sono, certo, originariamente comprese nel concreto, mostrate e poste come tali solo nella loro strutturazione concreta, in uno va affermato l’originario toglimento dell’astrattamente astratto, id est: della concezione che isolerebbe la determinazione del plesso pretendendo di farla valere come tale. Il problema che intendiamo risollevare in questo paragrafo concerne però, più specificamente, il contenuto dell’astrattamente astratto: il significato dell’astratto, all’interno della connessione necessaria, è infatti diverso dal significato dell’astratto al di fuori di tale connessione. Se A è il significato di una determinazione astratta nel suo concreto apparire come determinazione distinta e insieme necessariamente connessa all’originario, al di fuori di questa connessione A non è A e non è significante come A, ossia ciò che nella connessione è A, al di fuori della connessione è nonA, è significante come non-A.90
E tuttavia, se la connessione è necessaria, esserle esterno è impossibile, così come impossibile è il contenuto affermato dall’isolamento. Affermando che A è significante come A indipendentemente da ogni connessione ad altro, il riferimento dell’isolamento (A) è pur sempre il concetto concreto dell’astratto, ossia l’astratto nel suo apparire come necessariamente connesso all’originario. Per isolarsi, l’astrattamente astratto presuppone necessariamente la relazione a ciò da cui intenderebbe isolarsi, in ciò mostrandosi come concetto autocontraddittorio.
89. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 42. 90. Ivi, p. 43.
67 L’astratto, su cui cade la rete isolante del concetto astratto dell’astratto, è un tratto dell’originario, nel suo concreto strutturarsi come originarietà. È di questo tratto (A) […] che il concetto astratto afferma che il suo esser significante così come esso è significante (cioè il suo esser significante come A) è indipendente da ogni sua connessione ad altro.91
La rete potrà pur essere gettata, ma sempre sull’elemento in connessione ad altro. L’isolamento presuppone il non-isolamento, questo dice Severino. Ciò non sposta d’un centimetro il problema, affatto. Riproponiamolo: l’isolamento presuppone il non-isolamento, l’astratto presuppone il concreto. Quale allora il contenuto dell’isolamento? A quale spettacolo assiste chi getta la rete isolante, proprio laddove va pur riconosciuta una differenza tra isolamento e non isolamento, astratto e concreto, errore e verità? A tal proposito, sebbene l’argomentazione severiniana prenda a cuore la questione, invero pare ripiegarsi su se stessa. Per un’intrinseca problematicità? Certamente, ma solo laddove il problema è del pensiero stesso, solo laddove il problema è di Severino perché della filosofia stessa: Ciò che pertanto resta in verità affermato nell’affermazione che A è A indipendentemente dalla connessione di A ad altro, è che A è non-A: appunto perché ciò che nella connessione necessaria è significante come A, al di fuori di tale connessione è significante come non-A, sì che ciò che in verità il concetto astratto predica di A non è A, ma è non-A. Ciò che in verità sta dinanzi, nel concetto astratto dell’astratto, è l’esser non-A da parte di A: ma il concetto astratto pone questo esser non-A da parte di A, come un esser A da parte di A.92
L’astratto afferma in verità – e cioè: alla luce del concreto – che A è non-A. E tuttavia, l’astratto pone ciò che in verità è l’esser 91. Ivi, p. 44. 92. Ibidem.
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non-A da parte di A come un esser A da parte di A. V’è quindi uno scarto a consumarsi tra ciò che l’errore afferma in verità e l’interpretazione che l’errore offre di quel che gli sta innanzi. Con un esempio: l’albero è tale unicamente all’interno della tessitura di relazioni necessarie che gli competono, una tra le tante quella del non essere il proprio altro. Quando il prefilosofico, l’opinione s’approccia all’albero, non tiene conto della detta trama logica pur necessaria affinché quell’albero sia quel che è. E tuttavia, quell’albero, una volta offuscate le relazioni, non è quell’albero: A è non-A. Ciononostante, il prefilosofico che si rivolge all’albero, continua a pensarlo come albero, pur in quanto isolato da tutte le strutture semantiche necessariamente implicate: A è A. Se però risolleviamo la domanda che investe il contenuto del prefilosofico, si può facilmente rilevare come una vera e propria risposta non sia stata data: certamente come inconscio dell’isolamento si darà pur sempre il concreto, ossia quel presupposto necessario affinché la rete isolante possa esser gettata; certamente, inoltre, gettata la rete l’isolamento interpreterà quel cui assiste come la vera natura della cosa, pur laddove in verità è solo contraddizione; e tuttavia, resta la domanda: cosa si manifesta all’isolamento? Quale l’esito, quale lo spettacolo cui s’assiste una volta gettata la rete? A questa domanda La struttura originaria, financo riletta nella nuova introduzione, non risponde: se cioè appartiene alla struttura originaria della Necessità che A, come separato, sia un non-A, per tale struttura rimane ancora un problema quale sia il significato determinato del non-A che effettivamente appare. Nel concetto astratto di A appare effettivamente questo significato determinato del non-A, ma la struttura originaria non è ancora in grado di identificarlo.93 93. Ivi, p. 46.
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Si sta dicendo: certamente il contenuto dell’astrattamente astratto non può essere A, in quanto A si dà unicamente nella connessione necessaria alle altre determinazioni, ossia nel concetto concreto dell’astratto. Ad apparire, dunque, al concetto astratto dell’astratto è un non-A, un non-A che esso interpreta come A, un qualcosa d’altro dall’albero che esso interpreta come albero. L’unica affermazione che ne La struttura originaria è possibile avanzare a proposito di quel che è chiamato “esito” del concetto astratto dell’astratto, è che esso corrisponda a un contraddittorio dell’astratto o di A, dove ciò che resta indeterminato è se tale contraddittorio sia un contrario di A, un diverso da A, o addirittura niente. Quel che qui più importa è tuttavia cercare di offrire una comprensione del problema con cui la filosofia severiniana ingaggia un vero e proprio corpo a corpo. Da un lato, si sta cercando di render conto del contenuto di uno sguardo che, alla luce della verità, è nullo, l’impossibile A = non-A. Ci si sta chiedendo, insomma, cosa appaia a uno sguardo che ha per contenuto propriamente l’impossibile, posto che contenuto del detto sguardo non possa essere comunque quello della verità, ché altrimenti non si renderebbe conto della distinzione. Dall’altro, è presente l’esigenza severiniana di manifestare come, a ben vedere, vero contenuto dell’astrattamente astratto sia il concreto, esso gettando la rete isolante proprio su ciò che, al contrario, isolato non è. Cucire i due lati della questione è l’operazione severiniana: in verità all’astratto appare lo stesso contenuto del concreto, e tuttavia, gettando la rete isolante, lo sguardo astratto s’imprigiona in un contenuto altro da quello del concreto. Cercando di semplificare ulteriormente la questione con l’ausilio di un’immagine: è come se concreto e astratto si costituissero nelle vesti di punti di vista aventi, dinanzi a loro, il medesimo contenuto; e tuttavia, a rendere ragione della loro distinzione, è come se l’astratto disponesse di lenti atte a deformare quello stesso contenuto cui pure, in verità, assiste.
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Verrebbe da chiedersi: da dove questa distinzione? Da dove questo “lancio” della rete che stiamo cercando, con Severino, di narrare in immagine? L’ὅτι è dato dalla caduta della rete, e il διότι? Contenuto dell’astratto è lo stesso del concreto, contenuto dell’isolamento della terra è la pura terra. E allora, perché l’isolamento? Donde la sua necessità? Questa domanda, a partire quantomeno da Destino della necessità, verrebbe tacciata probabilmente di nichilismo: non corrisponde forse questo a ipotizzare una possibilità altra rispetto al darsi della terra isolata? Certamente, e tuttavia il problema resta: perché la terra isolata? È necessario che tutto quel che si dà si dia così come si dà, ma il darsi di quel che si dà, la necessità del darsi di quel che si dà, è forse inchiodata al bruto fatto del suo darsi? Di più: questa distinzione tra verità ed errare, seppure tutta partorita all’interno della verità – sfondo trascendentale financo della terra isolata – è forse narrata e solo narrata? È casuale questa funzione immaginifica del linguaggio severiniano94? Ricapitolando: contenuto dell’astrattamente astratto è quindi propriamente un concetto autocontraddittorio, l’impossibile. Ciò che in verità appare all’isolamento è dunque il medesimo contenuto del concreto, A in quanto A. E tuttavia, dovendosi riconoscere una distinzione tra verità ed errore, concreto e
94. La lettura di Vitiello procede probabilmente in sintonia con la linea critica qui ripresa: «Ma l’errore non è riducibile alla prospettiva della verità, alla autonegazione dell’errore. V’è l’errore non consapevole di sé in quanto errore, v’è l’errore che nulla sa della sua autonegazione. V’è, per dirla con Severino, la posizione dell’errore, l’atto dell’errare, che non è il contenuto autonegantesi dell’errore. Come spiegare questa posizione, l’affermazione, cioè, dell’errore, affermazione che è un positivo essere, un essente, qualcosa che è, ed è, come ogni altro essente, eterno, sebbene il suo contenuto sia negativo? Come spiegare il positivo accadere dell’errore?» (V. Vitiello, Anulus Aeternitatis. Severino interprete di Nietzsche, in Id., Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’io alla logica della seconda persona, Ets, Pisa 2009, pp. 77-98: p. 91).
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astratto, Severino vi provvede identificando il contenuto dell’astratto a un aporetico non-A. Quel che più ci sembra problematico, è proprio l’istituzione ragionata di questo non-A, il darsi dell’errare, dell’astratto. Non casualmente, in questa medesima cornice Severino introduce narrazioni immaginifiche95 – è il caso della «rete isolante» – che poco hanno a che fare con il dare ragione proprio della radicalità del λόγος96.
9. L’aporetica del nulla Una volta pervenuti al presente stadio dell’indagine, giova ripercorrere una tematica centrale de La struttura originaria cui Severino dedica un intero capitolo: l’aporetica del nulla. Ciò risulta non più procrastinabile in quanto diverse volte, nel corso dell’esposizione, abbiamo fatto riferimento all’apertura di un aporetico luogo concettuale individuato dal darsi, sub eodem, di posizione e toglimento del medesimo contenuto. Il concetto astratto dell’astratto, si diceva, è posto come l’originariamente toglientesi, ove problematico era anzitutto il tentativo di rendere ragione dello stare insieme di posizione e toglimento, in 95. Ma, tra gli altri, è possibile fare riferimento anche al saggio La terra e l’essenza dell’uomo, in cui Severino introduce la tematica trattando della «distrazione dalla verità»; in merito, cfr. E. Severino, La terra e l’essenza dell’uomo, cit., p. 205. 96. Questa linea critica sarà ripresa e approfondita nei prossimi paragrafi e poi in quelli conclusivi. Sul punto, cfr. F. Valagussa, L’aporia del nulla: astrazione e narrazione, cit., pp. 139-140: «In termini vichiani, la lingua pistolare di cui Severino è certamente uno dei massimi esponenti nel contemporaneo, è davvero capace di desensibilizzare in toto il proprio dire? O non sussiste invece una dimensione metaforica, narrativa – robustamente fantastica – anche del dire severiniano? Si potrebbe parlare, allora, di un “resto” che la logica non riesce a redimere […]. E quel resto inevaso sembra alludere a un dire che venga prima della logica: il dire che narra».
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una battuta: problematica è anzitutto la figura concettuale dell’“esser posto come tolto”. Da questo punto di vista l’aporetica del nulla, e nella fattispecie l’originaria risoluzione testimoniata dalla pagina severiniana, gioca un ruolo fondamentale: è in essa che a palesarsi è una chiara esemplificazione della posizione dell’impossibile nell’icastica figura del nulla, di modo che ciò consenta di pervenire a gettare maggior luce su quanto restava taciuto nei precedenti paragrafi. Non solo: è sulla base della posizione dell’autocontraddittorietà individuata dal concreto significare del nulla che può essere illuminata pure la distinzione fra contenuto contraddittorio e contraddizione97, anch’essa fondamentale tanto per la trattazione precedente quanto per quella che segue. L’aporetica del nulla coinvolge nientemeno che l’istituzione del principio di non contraddizione: nel sancire l’originaria distinzione fra essere e non essere, il principio richiede la posizione del non essere, così venendo attestata la contraddittorietà implicata dalla positività del nulla, la quale verrebbe afferma97. Su ciò, cfr. N. Cusano, Capire Severino, cit., p. 26: «“autocontraddizione” indica sia il contenuto impossibile e inesistente della contraddizione sia il suo positivo significare. Negli scritti successivi, Severino utilizza più rigorosamente l’espressione “contraddittorio” per indicare il contenuto impossibile della contraddizione, e “contraddizione” (o “contraddirsi”) per indicare il suo positivo significare. L’espressione “differenza tra contraddirsi e contraddizione”, che si incontra in molti testi severiniani, indica appunto la distinzione tra la “contraddizione” quale contenuto contraddittorio (impossibile) e il “contraddirsi” quale positivo significare di quel contenuto». Sul tema specifico tornerà pure lo stesso autore; cfr. E. Severino, Intorno al senso del nulla, Adelphi, Milano 2013, p. 109: «Tutte le volte che in tale scritto [: La struttura originaria] si afferma l’esistenza di quel “significato autocontraddittorio” – “ossia” contraddicentesi – non si dice dunque che l’impossibile, il contraddittorio in sé stesso, sia, ma che la contraddizione è […]. Tutte le volte che in quel libro si parla del nulla come “significato contraddittorio” o “autocontraddittorio” si devono intendere dunque queste espressioni come indicanti il contraddirsi del significato nulla, e cioè come indicanti, appunto, il significato contraddicentesi del nulla».
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ta appunto in virtù del medesimo plesso relazionale. Di qui il sorgere dell’antica aporetica del nulla; antica, poiché è noto come questa fosse già testimoniata esplicitamente nel Sofista di Platone: «osiamo pronunciare, mi pare, l’espressione “ciò che in nessun modo è”»98. Esplicitiamo allora, sinteticamente, i termini del problema: se il principio di non contraddizione afferma l’alterità fra essere e non essere, il medesimo viene a contraddirsi proprio nella testimonianza di questa legge, in quanto il non essere – e proprio in quanto escluso – viene a godere di un’aporetica positività. Ne segue a mo’ di corollario il rilievo che lo stesso principio di non contraddizione viene a installarsi su un’originaria aporia, quella cioè implicata dall’essere del non essere che viene posto come paradossale termine della medesima relazione d’incontraddittorietà99. Sinora abbiamo avuto modo di indugiare diffusamente sul nesso relazionale che coinvolge concetto concreto e astratto dell’astratto, cuore pulsante della dialettica severiniana. Con l’aporetica del nulla, si ha un’ottima occasione per manifestare in concreto l’operatività della logica dialettica severiniana: in piena coerenza con l’originario toglimento del contraddittorio,
98. Platone, Soph., 237b 7; tr. it., Sofista, con testo gr. a fronte, a cura di B. Centrone, Einaudi, Torino 2008, p. 99. Per Severino, tuttavia, in Platone l’aporia resta solo prospettata e poi definitivamente accantonata. Anche Aristotele formula l’aporia, senza però rilevarla come tale: «Perciò anche il non ente diciamo essere non ente» (Aristotele, Metaph., IV, 2, 1003b 10; tr. it. cit., p. 127). 99. Si tenga presente che, coinvolgendo tale aporetica pure la posizione dell’essere – ché l’essere è per essenza ciò che non è non essere –, essa va a investire la posizione di qualsivoglia significato, costituendosi ogni significato, anzitutto, come un “qualcosa-che-è”; cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 211: «Ma non porre l’essere significa non porre alcun altro significato determinato, stante che […] porre un significato equivale a porre una certa positività, o una certa determinazione del positivo, dell’essere».
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il gesto severiniano non consisterà nel risolvere, sic et simpliciter, l’aporia, quanto piuttosto nell’accertarne l’originario autotoglimento, come a dire che mai un’aporia si è concretamente costituita. E tuttavia, è possibile operare tale accertamento solo una volta guadagnata la relazione sussistente fra i termini dell’autocontraddittorietà del nulla: il rilievo fondamentale consiste nell’attestare come la contraddizione del non-essere-che-è non sia interna al significato “nulla”, ma piuttosto si apra fra il medesimo significato e l’essere, o la positività del significato stesso. A darsi è la contraddizione tra positività del significare e contenuto del significato, o assoluta negatività. Mutatis mutandis, sulla base dell’aporia del nulla è possibile gettare uno sguardo sulle modalità entro cui il problema verrà a evolversi nella filosofia severiniana. Leonardo Messinese, infatti, osserva come «Il “secondo” Severino riferirà tale “auto contraddittorietà che non è” alla Terra isolata dal Destino della verità dell’essere, la quale è “nulla” quanto a ciò che un tale apparire pretende di essere, e tuttavia non è un nulla quanto al suo “positivo significare”»100. Come si vede, il problema del nulla intesse di sé l’intera arcata della filosofia severiniana, sino a coinvolgere il sostrato teoretico sotteso da un importante concetto com’è quello della terra isolata. Per cercare di chiarire i termini in gioco, può essere utile illuminare un tratto centrale dell’ontologia severiniana: ogni significato – id est: ogni essente – si costituisce quale sintesi semantica tra positività del significare e contenuto determinato
100. L. Messinese, L’apparire del mondo, cit., p. 77. Cfr. E. Severino, Fondamento della contraddizione, cit., p. 86: «la terra isolata è nulla, in quanto l’apparire separati dal Destino è impossibile, è nulla; e la terra isolata non è nulla, in quanto è il positivo significare del nulla»; e Id., La morte e la terra, Adelphi, Milano 2011: «la totalità del contenuto della terra isolata è, in quanto tale, nulla. Come contenuto della fede in cui consiste la terra isolata, tale totalità è quell’essente che è la totalità del positivo significare del nulla».
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di tale positività. Il significato-essente “casa”, per esempio, è una sintesi tra l’essere e il contenuto determinato individuatosi nella casa: è cioè una positività determinata. È dunque chiaro come si palesi autocontraddittorietà nel caso specifico del significato “nulla”: in esso, infatti, l’assoluta negatività del contenuto, il nihil absolutum, contraddice il positivo significare o essere con cui è in sintesi. Di qui s’illumina dunque la concreta strutturazione del significato nulla quale autocontraddittorietà, che include come suo momento semantico il nulla significante come nulla – ossia il nulla come significato incontraddittorio – l’altro momento individuandosi, invece, nel positivo significare del nulla101. Compresa la situazione in questione, è possibile palesare l’originario toglimento dell’aporetica del nulla rilevando come il principio di non contraddizione, piuttosto che affermare l’inesistenza del significato autocontraddittorio, vada a sancire la differenza tra essere e nulla. Nella formulazione del principium firmissimum, infatti, il non essere che compare quale negazione dell’essere è il nulla valente come momento del non essere in quanto significato autocontraddittorio. L’autocontraddittorietà del nulla non implica infatti che “nulla” significhi “essere”, ma piuttosto che l’assolutamente negativo sia positivamente significante; ove i momenti di tale autocontraddittorietà sono, appunto, l’essere o positivo significare e il nulla come significato incontraddittorio, il nulla come assolutamente e incontraddittoriamente distinto dall’essere.
101. Si osservi che la positività del significare non è data semplicemente dall’essere del nulla, ma pure dal concreto contenuto semantico che conviene al significato “nulla” in quanto distinto dal significato “essere”: ciò che sta oltre l’intero, il nihil absolutum, è significante in modo così complesso da includere, nella struttura del suo significato, addirittura l’intero semantico. Oltre l’intero nulla, ma il significare del nulla implica lo stesso intero semantico.
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La contraddizione, insomma, non è interna al nulla, ma piuttosto essa si determina nel «cortocircuito logico-ontologico» – prendendo in prestito una bella espressione da Mauro Visentin – che si accende quando «si pronuncia l’espressione “nulla”, tra la “positività del significare” e l’assoluta negatività del contenuto significante»102. È proprio in virtù dell’esistenza dell’autocontraddittorietà del significato “nulla” che può sussistere il principio di non contraddizione103: affinché si possa escludere che l’essere non sia – e che cioè sia non essere – è necessario che il non essere sia, id est: che sussista il significato autocontraddittorio in cui consiste quell’essere del non essere. Meglio: se il significato “nulla” non valesse come quell’autocontraddittorietà, e se dunque il nulla consistesse unicamente nel nihil absolutum del significato incontraddittorio, allora escludere che l’essere sia nulla sarebbe un non escluder nulla, ché l’esclusione non avrebbe neppure termine alcuno su cui esercitarsi104. E dunque, affermare che la contraddizione è condizione del costituirsi del principio di non contraddizione, non significa certo che la negazione di tale principio ne stia alla base, ma piuttosto che il principio si costituisce solo in quanto il nulla sussiste come significato autocontraddittorio. È sulla base di tale autocontraddittorietà che si può affermare che l’essere non
102. M. Visentin, Tra struttura e problema. (Note intorno al pensiero di E. Severino), in Id., Il neoparmenidismo italiano, vol. II, Dal neoidealismo al neoparmenidismo, Bibliopolis, Napoli 2011, pp. 301-426: p. 315. 103. Si può dire addirittura che, lungi da negare il principio di non contraddizione, l’autocontraddittorietà del nulla ne costituisca la condizione del suo stesso sussistere. 104. Del resto la medesima supposizione che il nulla consista unicamente in quell’assoluta negatività è autocontraddittoria, in quanto che il nulla sia proprio nulla lo si può dire anzitutto sulla base del suo manifestarsi, foss’anche del suo manifestarsi come l’assoluta negatività.
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è non essere, ove questo non essere è il momento incontraddittorio del nulla come significato autocontraddittorio: il nulla è nulla, secondo quanto esige il principio di non contraddizione, solo in quanto il nulla incontraddittorio è momento semantico del nulla come significato autocontraddittorio. Nuovamente l’aporia sorge a causa dell’intervento dell’intelletto astratto, il quale pretenderebbe di isolare l’un momento dall’altro, nel caso specifico: il nulla assoluto dal suo positivo significare. Concetto concreto dell’astratto è invece lo sguardo che mira alla relazione di distinzione che compete ai due momenti; distinzione e non isolamento, poiché positivo significare e nulla assoluto sussistono solo nella concreta relazione istanziata dal significato autocontraddittorio105. Il significato “nulla” non è astrattamente separato, ma è concretamente distinto dalla positività del suo significare. Si badi: l’autocontraddittorietà è del concreto, e cioè della sintesi di positivo significare e nihil absolutum, momenti astratti assolutamente incontraddittori. E una volta posta la relazione tra i due momenti come distinzione e non isolamento, il nulla è custodito nella sua assoluta e incontaminata negatività: il principio di non contraddizione è dunque salvo. Nella relazione di alterità mediante cui l’essere esclude il non essere quale significato incontraddittorio, infatti, a essere escluso è certo un distinto dalla positività individuantesi nell’altro
105. Cfr. N. Cusano, Capire Severino, cit., p. 75: «in qualunque modo l’aporia venga formulata, il fondamento ultimo della sua insorgenza consiste nella incomprensione dell’essenziale e originaria relazione (o sintesi) dei distinti (momenti). Il che porta a concludere che tutte le difficoltà nel comprendere o accettare il risolvimento dell’aporetica del nulla siano da ultimo riconducibili all’incapacità di comprendere la differenza tra distinzione e separazione, ovvero all’insuperabilità dello “schema logico” per cui se qualcosa è distinto non può essere originariamente relato, come se la distinzione fosse incompatibile con l’originarietà e la necessità del legame».
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momento dell’autocontraddittorietà, ma non un irrelato a questo momento. Rileva Severino: Come distinto, il nulla-momento non è un’autocontraddittorietà, e pertanto può porsi in relazione di contraddizione con l’essere; ma proprio perché il nulla-momento è un distinto e non un irrelato all’altro momento, non accade che l’essere, riferendoglisi, nel rapporto di non contraddizione, non gli si riferisca. E cioè l’essere, nel suo riferimento al nulla, lo esclude come il suo contraddittorio solo in quanto si riferisce al nulla-momento; momento che, d’altronde, sta in relazione al momento del suo positivo significare, e per questa relazione – che è la stessa autocontraddittorietà del “nulla” come significato concreto – sopporta o è in grado di stare in relazione di contraddizione con l’essere.106
Accertare l’originario toglimento dell’aporetica corrisponde dunque all’opportuna concezione della natura dell’unità sintetica: il nulla come significato autocontraddittorio si pone cioè come sintesi originaria e immediata, e non quale risultato che presupponga l’irrelatezza dei distinti. Una volta testimoniata l’originarietà della sintesi per cui i distinti non vengono assunti come isolati, Severino ha buon gioco a rilevare come il negativo possa essere, insieme, tanto quell’assoluta negatività “esigita” dal principio di non contraddizione, quanto quel termine che può stare in relazione al positivo. Concepire l’originarietà della relazione dei due momenti del nulla è negarne l’isolamento, di nuovo: il concetto concreto dell’astratto (= nulla momento in sintesi con il positivo significare del nulla) è originario toglimento del concetto astratto dell’astratto (= isolamento dei termini interni al significato autocontraddittorio)107. 106. E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 220-221. 107. Cfr. N. Cusano, Capire Severino, cit., p. 43: «La differenza tra distinzione e separazione è questa: mentre i distinti sono ciò che sono solo all’interno di una certa relazione, i separati sono ciò che sono anche al di fuori di tale relazione. Intendere il nulla-momento come separato dal suo posi-
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Se la dialettica severiniana è posizione del concreto in quanto toglimento dell’astrattamente astrato, l’aporetica del nulla ne dà un’importante esemplificazione.
9.1. Nulla e significati autocontraddittori Sempre nel capitolo IV de La struttura originaria, Severino provvede ad analizzare pure le relazioni sussistenti fra significati autocontraddittori e nulla. Come avremo modo di enucleare sulla base delle argomentazioni che seguiranno, l’aporetica che sottende la posizione dei significati autocontraddittori è infatti la medesima di quella del nulla, trattata nel precedente paragrafo. Ogni significato autocontraddittorio è il nulla, e dunque la posizione di ciascuno di questi significati – RnR, ove R indica una determinatezza qualsiasi e n la sua negazione: x non-x, R non-R, rosso non-rosso – equivale alla posizione del nulla. Da questo punto di vista, così come porre il nulla non è un non porre nulla, allo stesso modo porre l’autocontraddittorietà non è un non porre nulla: pure i significati autocontraddittori sono presenti, e pertanto sono. L’aporetica dell’essere dell’autocontraddittorietà è analoga a quella del nulla: come per il significato “nulla”, anche quello dell’“autocontraddittorietà” è un significato autocontraddittorio. Rileva Severino: Che l’autocontraddittorietà sia incontraddittoriamente significante, o, che è il medesimo, che l’assolutamente negativo sia positivamente significante: questa è l’autocontraddittorietà i cui momenti sono il significato autocontraddittorio (= autocontraddittorietà-momento) e l’incontraddittorio o positivo significare del significato autocontraddittorio.108
tivo significare significa credere che esso possa esistere […] anche fuori da quella relazione». 108. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 229.
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Porre il significato RnR equivale alla posizione di un significato autocontraddittorio, i cui momenti sono il significato autocontraddittorio e il positivo significare di questo significato. Momenti che corrispondono, guardando al significato autocontraddittorio “nulla”, rispettivamente, al nulla-momento e al positivo significare di questo. Momenti distinti, ma non irrelati. Come è facile rilevare, l’operatività della logica dialettica severiniana è la medesima messa in luce con l’aporetica del nulla: attestare l’originarietà della sintesi che stringe assieme i due momenti costituenti l’autocontraddittorietà in quanto distinti, e corrispondente toglimento dell’irrelatezza degli stessi. Se si vuole: posizione del concetto concreto dell’astratto in quanto originario toglimento dell’astrattamente astratto. Di qui Severino provvede a distinguere due tipi o sensi del l’autocontraddittorietà: il contraddirsi (o contraddizione) e il contenuto della contraddizione. Il primo individua il positivo significare del significato autocontraddittorio, mentre il secondo palesa il significato impossibile vero e proprio, il contenuto che cioè viene detto dalla contraddizione, in sintesi con la sua positiva significanza109. E dunque tutte le autocontraddizioni i cui momenti sono o il nulla-momento e il positivo significare del nulla, o un’autocontraddittorietà (RnR) e il suo positivo significare, non sono il nulla. Sono il nulla, al contrario, quelle autocontraddizioni nelle quali la contraddizione si costituisce come lo stesso significato, ossia quelle nelle quali i termini tra loro contraddittori sono momenti nel significato. Guadagnati i presenti elementi, siamo finalmente in grado di offrire risposta alle domande sorte a proposito del contenuto dell’esperienza astratta, o, con linguaggio successivo a La struttura originaria, a proposito del contenuto dell’isolamento
109. Ciò di cui il folle è persuaso è nulla, ma il folle non è, egli, un nulla: è reale, e agisce nel mondo.
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della terra. Contenuto dell’isolamento è propriamente il nulla, e tuttavia un nulla originariamente connesso al suo positivo significare. L’insieme dei saperi, delle pratiche, delle azioni e di quant’altro compare entro l’alone del nichilismo è positivo significare del nulla.
9.2. Autocontraddittorietà e distinzione Va senz’altro segnalato come la tematica dell’aporetica del nulla sia stata certamente una delle più discusse, in sede critica, della filosofia severiniana. Tante sono le posizioni che si sono misurate proprio facendo i conti con essa, e in questo paragrafo cercheremo di esplicitare quelle che, da parte nostra, ci sembrano le più rilevanti sotto un punto di vista teoretico. Ricordiamo, in sintesi, come il nucleo speculativo relativo all’aporetica consista nell’attestare la natura della relazione che innerva il significato autocontraddittorio del nulla, relazione che garantisce tanto la posizione del principio di non contraddizione quanto la possibilità che il significato “non essere” venga escluso. Una critica del detto dispositivo proviene, ancora una volta, da Massimo Donà. Se il nihil absolutum è sempre da pensare in sintesi col momento del suo positivo significare – poiché altrimenti neppure potrebbe palesarsi discorso alcuno su di esso –, si domanda: com’è possibile che ciò garantisca la distinzione fra essere e non essere che intenderebbe porre il principio di non contraddizione? Se a esser posta è questa originaria e intrascendibile inseparabilità dei due momenti del significato autocontraddittorio, non andrebbe attestato, piuttosto, il fatto che il nulla si dia solo ed esclusivamente nel suo positivo significare, e dunque nel suo essere o nella sua presenza? E quindi, dandosi il nulla solo ed esclusivamente come momento della sintesi originaria dell’autocontraddittorietà – così come a darsi è ogni essente o significato –, non si sta forse dicendo che il principio di non contraddizione, lungi dal far valere la distinzione tra essere
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e nulla ne sancisca, piuttosto, la loro originaria in-distinzione? L’essere non riesce a determinarsi come altro dal proprio altro, il proprio altro essendo quell’assoluta negatività che, proprio in quanto originariamente in sintesi con il suo positivo significare, vale come essente essa medesima. Scrive Donà: Infatti, se il ‘nulla è nulla’, o ‘significa nulla’, in quanto nulla, esso non è altro dal suo positivo significare. Anzi, è proprio quel positivo significare che Severino astrattamente distingue dall’essere-nulla del nulla. Fermo restando che distinguere ‘astrattamente’ non vuol dire ‘separare’ ciò che sarebbe solamente distinto; ma indica piuttosto il semplice distinguere, che è proprio quel che in questo caso non può essere assolutamente istituito. E non può esserlo, appunto perché […], la positività del significare è già inclusa in ciò che quel significare (il significare come nulla da parte del nulla) significa, e dunque lo determina ab origine. Anzi, lo fa essere ciò che è – è infatti solo nel positivo significare come nulla (il nulla è nulla) che il “nulla è nulla”.110
Pensato come altro dall’essere, il non essere è appunto positivamente significante, è. Ma è allora nell’essere che si palesa il nulla, è nel positivo e solo nel positivo che a palesarsi è il negativo111. L’essente e il significato sono la base all’interno della
110. M. Donà, L’aporia del fondamento, cit., p. 200. 111. Sull’aporetica del nulla, entro una linea critica che si avvicina alla tesi qui avanzata, e cioè all’impossibilità di distinguere il nulla-momento incontraddittorio dal nulla come sintesi autocontraddittoria, segnaliamo pure V. Vitiello, Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992, pp. 243-245. Lo stesso Vitiello, inoltre, ha avanzato un rilievo estremamente interessante per cui, interpretando l’autocontraddittorietà come insignificanza, e riconoscendo a quest’ultima la positività, l’“è” del flatus vocis, sostiene che «ci siamo sottratti alla tirannia del ‘significato’, alla pretesa aristotelica, alla hýbris della filosofia di considerare hómoios phyto colui che non parla significando» (Id., Aporia – Contraddizione – Insignificanza, in «Il Pensiero», LI, n. 2, 2012 pp. 127-136: p. 131).
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quale solamente si manifesta l’in-determinato, quella negazione che essi stessi recano in sé. Quel che va posto in questione, insomma, è che realmente possa sussistere la relazione di originaria distinzione che Severino attesta fra i due momenti del significato autocontraddittorio. In questo gesto, in quest’operatività volta a sancire la relazione di distinzione fra nulla-momento e positivo significare del nulla, consiste una cellula fondamentale della logica severiniana. Sotto questo punto di vista, la critica di Donà mostra come trattare dell’autocontraddittorietà assimilandola a una relazione di distinzione, e non d’identità, sembrerebbe essere operazione parziale. Porre l’un momento è porre l’altro, porre l’altro è porre l’uno: i due momenti sono indistinguibili. Se una distinzione viene apportata, ciò viene effettuato unicamente a livello linguistico, ove l’incapacità del linguaggio a rendere la simultaneità della cosa non va tuttavia trasferita alla cosa stessa, andando quindi a distinguere con Severino i due momenti dell’autocontraddittorietà. Sempre in sede critica, una prospettiva alternativa rispetto al dispositivo severiniano è certamente quella elaborata da Luigi Vero Tarca. L’idea teoretica è quella di individuare un piano originario dell’essere che non rovini, sic et simpliciter, nella reciprocità propria della determinazione negativa dei significati conforme al principio omnis determinatio est negatio. La via tracciata da Tarca fa richiamo alla diversità tra l’essere come differenza (o positività) e l’essere come negazione112, venendo corrispettivamente a dischiudere un orizzonte per cui il passaggio alla determinazione negativa dei significati, che ovviamen-
112. Si tratta della diversità tra l’essere come positivo e l’essere come negativo, ossia l’essere come non-non-essere. L’essere positivo si distingue dall’essere-in-quanto-non-non-essere, ove la distinzione va qui diversificata dalla negazione.
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te la fa da padrone entro la dialettica severiniana, risulterebbe solo possibile e non necessario. Assunto questo punto di vista in relazione alle problematiche qui sollevate, se ne guadagna un approccio all’ente per cui, concepito nel suo isolamento dal piano logico-negativo, non verrebbe affatto a rovinare necessariamente nell’originario autotoglimento. Che l’astrattamente astratto sia contraddittorio, insomma, vale da un ben preciso punto di vista, ossia quello per cui la relazione dell’essente al proprio altro viene a tradursi in quella elenctico-negativa113. Ambedue le vie tracciate da questi indirizzi critici intendono dunque “disegnare” un orizzonte alternativo rispetto a quello severiniano. Andando a scavare nelle aporie proprie della struttura originaria, Donà fa richiamo all’immanente contraddittorietà che s’annida entro il principio di non contraddizione, mentre Tarca fa invece appello all’essere quanto alla sua positività. Che sia una differenza senza negazione (Tarca), o una negazione senza differenza (Donà)114, ambedue i pensatori enucleano le supposte aporie che la struttura originaria lascerebbe irrisolute. 113. Conformemente al principio per il quale ciascun essente o significato si costituisce anzitutto come immediata negazione di tutto ciò che da esso è altro. Che tale principio abbia valore elenctico viene sancito in quanto, negarlo equivarrebbe ad affermarlo, esso essendo proprio il principio della logica negativa. Per la prospettiva speculativa individuata da Tarca, la quale fa leva sulla differenza tra diversità e negazione, invece, non è affatto necessario che la determinatezza si ponga come identica a sé esclusivamente con la negazione dal proprio altro. Su ciò si veda, in forma più estesa: L.V. Tarca, Differenza e negazione. Per una filosofia positiva, La Città del Sole, Napoli 2001; Id., Elenchos. Ragione e paradosso nella filosofia contemporanea, Marietti, Genova 1993; in relazione al tema specifico dell’aporetica del nulla, e inoltre in forma più ridotta, cfr. Id., Negazione del non essere e verità dell’essere, in «Il Pensiero», LI, n. 2, 2012, pp. 153-168. 114. Per la teorizzazione del presente plesso, cfr. anzitutto M. Donà, Sulla negazione, Bompiani, Milano 2004, p. 15: «ad accadere è in primis, il nondistinguersi dell’essere dalla propria negazione».
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Potremmo concludere questo primo capitolo dell’elaborato prendendo a nostra volta misura rispetto alla filosofia severiniana, indicando una via per certi versi differente da quelle qui suggerite. Giunti a questo punto, ci pare necessario rilevare come la filosofia severiniana possa senz’altro essere riletta nei termini della più estrema radicalizzazione di quel cui la tradizione occidentale s’è riferita come al fondamento della propria logica: il principio di non contraddizione. Non è casuale che ambedue gli indirizzi critici qui passati in rassegna, tanto Donà quanto Tarca, si confrontino col pensatore bresciano proprio a partire da una presa di posizione quanto alla βεβαιοτάτη ἀρχή πασῶν. Ritornare a Parmenide, titola Severino uno dei suoi saggi più importanti e famosi. Lasciamoci allora guidare da una suggestione tratta proprio da questo titolo. Parmenide, il primo che avrebbe ascoltato dalla Dea il mythos del λόγος, il racconto della distinzione fra essere e non-essere, del principio di non contraddizione come verità dell’essere. E cosa chiede la Dea a Parmenide? Di «giudicare secondo il λόγος» (fr. 7, v. 5). Parmenide ascolta, e da questo prestar l’orecchio sorge la filosofia, pratica del giudizio conforme al λόγος, dire determinante che identifica e distingue, meglio: identifica distinguendo115. Due osservazioni. La prima: altra è la nostra posizione altra quella parmenidea. Se l’Eleate è in quella dell’ascolto, noi siamo in quella della domanda, che altro non stiamo facendo in questo testo se non domandare. Cos’è il λόγος? Cos’è la veri-
115. Sul punto si veda C. Sini, Metodo e filosofia, Unicopli, Milano 1996, pp. 23-56; in particolare cfr. ivi, pp. 27-28: «Parmenide del proemio è in un’infinita distanza rispetto a noi, alla nostra “mentalità”; ma Parmenide della seconda parte si configura per molti tratti come un uomo schiettamente “razionale”: il primo uomo “razionale” della storia del mondo». Il rimando è ovviamente a Parmenide, Sulla natura. Frammenti e testimonianze, tr. it., con testo gr. a fronte, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2001.
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tà? Cos’è il Destino? Come l’essere si distingue dal non essere? Veniamo alla seconda osservazione. Dopo Hegel, il λόγος della filosofia ben lungi dall’esser stato condotto al suo inveramento, sembra al contrario esser stato riportato al suo dissolvimento. Il λόγος precipita nella storia, in una storia ben più ampia del λόγος stesso, e che dunque necessita di un pensiero più originario di quello logico-concettuale per essere pensata. Se si riflette, per esempio, sul tentativo compiuto da Martin Heidegger per corrispondere all’essenza della verità, se si riflette sul tentativo di far sì che la filosofia si lasci catturare dal «vortice di un domandare più originario»116, è esplicita la tendenza a testimoniare un’apertura dell’essere priva di determinatezza logica. Senza arrivare al Novecento, altri autori – che non casualmente proprio nello scorso secolo hanno goduto di particolare fortuna – come Vico e Leopardi hanno individuato precisamente questa criticità, problematizzando ex ante, si potrebbe dire, gli esiti che il compimento hegeliano del discorso occidentale avrebbe potuto conseguire. Da questo punto di vista, il ruolo giocato da Severino è sui generis. Da un lato, il pensatore bresciano ha pienamente contribuito a diagnosticare l’atmosfera storico-concettuale propria della filosofia contemporanea, giungendo a interpretare autori come Leopardi, Nietzsche e Gentile quali punte di diamante della coerenza raggiunta dal nichilismo. La storia dell’Occidente giunge in tale scansione alla consapevolezza, sempre più radicale, del tramonto degli immutabili e delle verità epistemiche, facendosi testimonianza dell’assolutezza propria del divenire117. D’altro lato, ciò non ha corrisposto a un abbandono 116. M. Heidegger, Was ist Metaphysik?, cit., p. 117; tr. it. cit., p. 58. 117. Su Nietzsche, rimandiamo al fondamentale E. Severino, L’anello del ritorno, Adelphi, Milano 1999. In merito a Leopardi, si vedano almeno Id., Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Rizzoli, Milano 1990; Id., Cosa arcana e stupenda. L’Occidente e Leopardi, Rizzoli, Milano
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della sfera logico-filosofica, tutto il contrario: una sua più estrema radicalizzazione, un interrogare più originario – per dirla con Heidegger – era necessario al fine di disvelare l’autentica verità dell’essere. E ben più originario dell’interrogare cui si è spinta la tradizione filosofica, così come di quel Parmenide cui il titolo del saggio invita a ritornare. Perciò, l’interrogazione severiniana si palesa quale testimonianza del destino o della struttura originaria, espressioni che si rivolgono nientemeno che all’intramontabile verità dell’essere. E del resto come fare altrimenti? Non è forse il tentativo di testimoniare un orizzonte precedente a quello logico né più né meno di una auto-confutazione? Come guadagnare la precedenza al logico, se quella della precedenza è una scansione tutta logica? Individuando, per esempio, un’apertura dell’essere più originaria rispetto a quella logica, non si stanno forse distinguendo le due aperture logicamente? Ciascuna epoca dell’essere non è, forse, a sé identica così come distinta dalle altre? E inoltre, ponendosi come un’apertura, questa unità non è forse logica e tutta logica? Certamente. Il “prima” della logica – questo l’insegnamento della dialettica severiniana – è pura e vuota astrazione. Mandata via dalla porta, la logica non rientra dalla finestra, ma piuttosto dimostra di non esser mai stata respinta. Muoviamo ora un passo ulteriore. Questa astrazione, diciamo pure: questa vuota astrazione, è forse nulla? O forse è logica, e solo logica, la traduzione dell’astratto in nulla? Quanto conta l’ascolto di Parmenide? L’astratto, l’A prima di A = A cela lo sforzo volto a far emergere la genesi della logica, le operazioni costitutive dello spazio logico proprio dell’identità incontraddittoria dell’ente in quanto
2006. A proposito di Gentile, invece, cfr. Id., Attualismo e storia dell’Occidente, intr. a G. Gentile, L’attualismo, Bompiani, Milano 2014, pp. 7-72; E. Severino, Nietzsche e Gentile, in Id., Oltre il linguaggio, cit., pp. 77-98.
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tale. Ed esse affondano nel mythos, o quantomeno in regioni ancora prive di forma logica: corporee, sensibili, fantasticate, vissute. Certo, sarà pure logicamente indicibile il guadagno del prima, così come impossibile è a dirsi (logicamente) la presenza di altre modalità del discorso: «ma questo è piuttosto una difficoltà della logica, una sua costitutiva debolezza, che non una deficienza di quelle altre modalità»118. È forse in questo prima, né logico né crono-logico, che la filosofia riceve un invito a pensare, incrociandosi così con le grandi domande del secolo scorso. E si tratta del prima corrispondente all’astrattamente astratto interno alla dialettica severiniana, proprio laddove la sua equivalenza al nulla risulta dunque sospesa allo spazio logico che l’accerta. Quello che resta da chiedersi – e lo faremo in sede conclusiva – è come di questo astrattamente astratto possa farsi o sentirsi esperienza, appurata la spirale di contraddizioni in cui si caccia la logica non appena provi a dirlo.
118. M. Adinolfi, Non ogni via è perduta: dall’identità all’indifferenza, in «Il Pensiero», XLVI, n. 1, 2007, pp. 177-185: p. 185.
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Capitolo II
Contraddizione C Processualità e temporalità nella filosofia del destino
Tale forma è la notte in cui la sostanza venne tradita e si rese soggetto.1
1. La contraddizione originaria Il contenuto di questo capitolo è, per molti versi, un approfondimento del precedente. Il senso autentico della dialettica, consistente nel rapporto concreto-astratto così per come lo abbiamo passato in rassegna nel primo capitolo, scende infatti ancora più a fondo. Scrive Severino: «La struttura originaria della Necessità è negazione originaria della totalità delle contraddizioni […]. E tuttavia la struttura originaria della Necessità è essa stessa contraddizione dialettica, cioè isolamento, concetto astratto»2. Sulle prime, un’affermazione del genere suona paradossale: sinora non abbiamo detto altro che la struttura originaria consiste nel toglimento dell’astrattamente astratto, ossia del contenuto contraddittorio. E tuttavia, proprio questo toglimento, il toglimento della contraddizione, è esso stesso contraddittorio. In questo capitolo, cercheremo di chiarire il senso di questa affermazione, più in generale: di chiarire il sen1. G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (d’ora in avanti, Phäg), in W 3, p. 514; tr. it. di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, intr. di G. Cantillo, 2 voll., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008, vol. II, pp. 219-220. 2. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 71.
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so della contraddittorietà dell’originario. Come vedremo, quel che prima facie sembra ora così problematico, verrà riportato alla distinzione fra due tipi di contraddittorietà, di cui uno intreccia l’originario stesso. Prima di entrare nel tema, qualche chiarimento metodologico. In questo capitolo tratteremo della contraddizione dell’originario, della contraddizione C. Da un punto di vista teoretico-concettuale, cercheremo di mostrare come grazie a questo nucleo sia possibile restituire vitalità e dinamicità a una filosofia che, incentrata su concetti come quelli di “essere”, “eternità”, “immobilità”, rischia di consegnare al lettore un’idea eccessivamente monocromatica che al contrario – tenteremo di dimostrare – non le appartiene. In seconda linea, non va trascurato che il concetto di contraddizione C attraversi la filosofia severiniana da La struttura originaria sino a Testimoniando il destino, di fatto fornendo un elemento d’importante costanza nell’intera arcata della sua opera. Per questo motivo, cominceremo la trattazione da un’analisi generale della contraddizione C, così per come questa viene presentata da Severino nella nuova Introduzione a La struttura originaria (1981), non mancando di addentrarci nel corpo del testo laddove vi siano espliciti rimandi. Dopodiché, a saggiare l’evoluzione del concetto in concomitanza al resto della filosofia severiniana, passeremo brevemente in rassegna il percorso che la contraddizione C attraversa sino a Oltrepassare, facendo emergere i lineamenti di quella che potremmo definire una sorta di “torsione immanentistica” – l’espressione va presa cum grano salis – nel pensiero di Severino. Da Oltrepassare a Testimoniando il destino, il concetto di contraddizione C non subisce sostanziali mutamenti, per cui questo plesso dell’itinerario non è stato ripercorso. Così, nella nuova Introduzione a La struttura originaria, Severino introduce la contraddizione C: «la contraddizione in cui l’originario stesso è avvolto – e che in questo libro viene chiamata “contraddizione C” – è una contraddizione dialettica
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(rientra cioè nel senso autentico della dialettica), ma compete unicamente all’originario»3. Raccogliamo un prezioso indizio: la contraddizione C è dell’originario e solo dell’originario, così diversificandosi, per esempio, tanto dall’aporia del nulla, quanto da quella della predicazione4. Compiamo un passo ulteriore. Nel capitolo VII de La struttura originaria, Severino dedica particolare attenzione al concetto di “costante”: costante di una determinazione x è una determinazione y, il cui apparire è necessariamente implicato dall’apparire di x5. Perché y è una determinazione necessariamente predicata di x, oppure perché è un elemento del contenuto semantico di x. Nel capitolo X, inoltre, «si mostra che la determinazione, cioè il significato “Tutto” (il “Tutto”, “la Totalità dell’ente”) – il semantema infinito – è costante di ogni determinazione (cioè di ogni significato)»6. Così Severino definisce il concetto di totalità: Il tutto concreto, pieno, dell’ente – il semantema infinito, non come semplice significato formale dell’infinità del significare, ma come determinatezza concreta e assolutamente esaustiva di tale infinità (che dunque non è “tale”, ma contiene in sé ogni “talità”) – è cioè costante di ogni significato e, originariamente, è costante di quel significato che è la stessa struttura originaria della Necessità.7
3. Ivi, p. 72. In generale, i capitoli VIII, IX, X e XI de La struttura originaria, esprimono il significato concreto della contraddittorietà che conviene all’originario. 4. Si tratta delle aporie che abbiamo esaminato nel precedente capitolo. 5. Torneremo più diffusamente sulle varie tipologie di costanti in quanto segue. 6. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 72. 7. Ivi, pp. 72-73. O come scrive Severino più avanti: «Oltre l’intero, nulla. L’intero è posto solo in quanto è posto che oltre di esso non è nulla, ovvero in quanto l’orizzonte che oltrepassa l’intero è posto come tolto» (ivi, p. 421).
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Anche questo risulta un guadagno prezioso, poiché il concetto di intero permane immutato nel corso della produzione severiniana, tutt’al più modificandosi unicamente il rapporto intrattenuto con la parte. Riassumendo: la totalità, determinatezza oltre cui non v’è nulla, è costante di ogni essente o significato, ossia: affinché si dia posizione di qualsiasi essente o significato è necessario che appaia la totalità nella sua concretezza.
2. Negazione, principio di non contraddizione e intero semantico È nel capitolo X de La struttura originaria che Severino approfondisce la necessità dell’implicazione della totalità concreta da parte di ogni essente. Non casualmente, il titolo del detto paragrafo suona: La manifestazione dell’intero. Così comincia Severino: «L’analisi di un significato è posizione di ciò che questo significato è o significa, e non di ciò che è altro dal suo essere o significare; ossia la presenza di un significato non è presenza simpliciter di ciò che questo significato non è»8. La presenza del significato “albero”, ad esempio, non è presenza simpliciter di ciò che “non è albero”, formalizzando: la presenza di A non è, simpliciter, presenza di non-A. «D’altra parte, proprio perché ogni significato (ogni essere) non è il suo altro – proprio perché ad ogni significato conviene L-immediatamente ed essenzialmente di non essere il suo altro –, l’analisi di ogni significato è rilevamento dell’altro da questo»9. Proprio in quanto ogni significato non è, come tale, presenza del proprio altro, a ogni significato conviene L-immediatamente il non essere il proprio altro. E dunque, se a ogni significato conviene imme8. Ivi, p. 407. 9. Ibidem.
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diatamente il non essere il proprio altro, l’analisi di ogni significato implica per ciò stesso il rilievo del proprio altro, di modo che questo sia presente nel significato mediatamente: «il non essere il proprio altro vale L-immediatamente come costante di ogni significato, ma l’altro (il contenuto cioè dell’orizzonte del contraddittorio del significato considerato, e ogni particolare determinazione di tale contenuto) vale L-mediatamente come costante del significato»10. Se ogni significato è L-immediatamente negazione del proprio altro, negazione della negazione, allora il proprio altro vale L-mediatamente come sua costante. Posto che il significato sia l’albero che vedo di là dalla finestra, ciò che è altro da esso – in tutte le sue varie e specifiche individuazioni11 – vale come sua costante mediatamente implicata, immediata essendo, al contrario, la negazione di tale contenuto contraddittorio12. Riassumendo: A implica immediatamente la negazione della totalità di non-A; di conseguenza, A implica mediatamente la totalità di non-A. In gioco è nientemeno che una riscrittura severiniana del principio di identità e non contraddizione, il quale sancisce, per l’appunto, come la posizione di ogni significato implichi immediatamente il toglimento della totalità del proprio contraddittorio. Ne segue come corollario l’implicazione che più ci interessa: «l’analisi di ogni significato è per-
10. Ivi, pp. 407-408. 11. Cfr. ivi, p. 408: «Ma ogni significato non implica, come tolta, semplicemente una parte dell’orizzonte del contraddittorio del significato, ma la totalità di questo orizzonte: del significato x non si dice semplicemente che non è questo o quest’altro non-x, ma che non è la totalità di non-x». 12. La categoria del “contraddittorio” rimanda ovviamente alla tematizzazione operata dalla filosofia aristotelica, ove col medesimo termine s’intende tutto ciò che è altro da un determinato essente o significato; contraddittorio di A è cioè non-A, id est: tutto ciò che è altro da A. Sul tema si veda pure M. Donà, L’aporia del fondamento, cit., pp. 237-279.
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tanto manifestazione della totalità»13. Spartendosi con l’intero del proprio contraddittorio la totalità, ogni significato ne è manifestazione. Manifestazione dell’essente o del significato è, pertanto, epifania della totalità. Gli essenti altro non sono che differenti punti di vista sulla totalità, differenti prospettive entro cui, quel che si dà a vedere, è il tutto: «in questo senso va accettato il principio di Anassagora: “Tutto è in tutto”»14. Non casualmente, Vincenzo Vitiello ha da par suo illuminato una rilevante analogia tra Severino e la monadologia leibniziana. Nel filosofo di Lipsia la conoscenza perfetta di una singola monade (propria della sola monade assoluta: Dio) consente di conoscere tutto quanto è stato, è, e sarà non solo della singola monade, ma dell’universo tutto, «così in Severino, l’identità del singolo essente contiene in sé la totalità dei rapporti che esso ha con tutti gli essenti»15. L’analogia è profonda, tanto quanto il rimando alla monade assoluta che sola possiede la conoscenza perfetta. Riservandoci di trattare dell’analogon della monade assoluta severiniana – ossia: l’apparire infinito o Gioia del tutto – in quanto segue, concentriamoci ora sull’implicazione tra parte e tutto, finito e infinito. Chiosa Severino: La posizione di un significato x, la quale non sia posizione delle costanti di questo significato, ha come esito un termine 13. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 408. 14. Ibidem. Nella trattazione ora ripercorsa è stato pure illuminato il senso concreto di tale affermazione, la quale si palesa come implicazione dello strutturarsi del principio di identità e di non contraddizione, che fornisce la grammatica fondamentale dell’essente in Severino. 15. V. Vitiello, Severino/Hegel: un confronto, in E. Severino - V. Vitiello, Dell’essere e del possibile, cit., pp. 83-118: p. 97. Cfr. G. W. Leibniz, Saggi filosofici e lettere, a cura di V. Mathieu, Laterza, Bari 1963, pp. 72-73: «La nozione completa e perfetta della sostanza singolare implica tutti i suoi predicati, passati presenti e futuri […]. Ogni sostanza singolare, nella sua nozione perfetta, implica tutto l’universo e tutte le cose in esso esistenti, passate, presenti future».
95 contraddittorio di x (cfr. cap. IX). La totalità del non-x conviene o è predicata L-immediatamente, come negata, di x; ossia vale L-immediatamente come costante di x. Inoltre, il campo semantico costituito da tale costante è essenzialmente e L-immediatamente implicante il semantema infinito. Sì che, se questo non è posto, allorché si intende porre x non può essere posta la costante L-immediata di x, e quindi non è posto nemmeno x. Ma non può essere posto nemmeno un qualsiasi altro significato, poiché ogni significato ha, come costante L-immediata, la totalità del suo contraddittorio come negata; ossia a ogni significato conviene L-immediatamente una costante essenzialmente implicante il semantema infinito; sì che se questo semantema non è posto, non può essere posto, come esito della posizione astratta di x, alcun significato.16
Giungiamo quindi alla conclusione del primo interrogativo posto al fine di determinare la contraddittorietà dell’originario. Ogni essente implica l’apparire dell’infinito, sicché se questo non è dato allora non è posto nessun essente. Compiuto questo affondo nel capitolo X, possiamo tornare alla nuova Introduzione per determinare finalmente la natura della contraddizione C. Il tema viene qui introdotto, da Severino, con un’avversativa: «Ma l’ente che appare – l’ente che appare nella (e come) struttura originaria – è una parte del Tutto»17. Or ora abbiamo preso congedo dal capitolo X de La struttura originaria, in cui si dimostrava nientemeno che il rimando necessario da parte di ogni ente alla totalità concreta: da un lato, quindi, un lega-
16. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 411. 17. Cfr. ivi, p. 72: «Quest’ultimo asserto ha, in questo libro, un duplice significato: quello presente nel capitolo XI e quello, più rilevante, nel capitolo XIII. Ma nel capitolo XIII l’affermazione che l’ente che appare è una parte del Tutto è fondata sul nichilismo della persuasione che l’uscire e il ritornare nel niente appaia». Sul capitolo XIII de La struttura originaria torneremo trattando del problema rappresentato dall’aporetica del divenire.
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me necessario intreccia struttura originaria e intero, dall’altro, invece, il Tutto si nasconde, non si manifesta totalmente nella struttura originaria. L’intersezione dei due corni dà luogo all’aporia dell’originario, alla contraddizione C: La contraddizione (C) dell’originario sta dunque in questo, che poiché l’originario è e significa ciò che esso è e significa, solo nel suo legame col Tutto […], nell’isolamento dell’originario dal Tutto (cioè nel non manifestarsi del Tutto nell’originario) l’originario non è l’originario.18
Che dunque nella manifestazione di ogni essente non si dia concretamente l’intero determina, in linea con la filosofia severiniana, l’aprirsi della contraddizione C. Qualsiasi essente è una manifestazione parziale dell’intero, luce che assieme oscura i tratti della sua più profonda verità. L’assolutamente concreto non appare, si dà solo come parte o astratto, per citare un adagio hegeliano: «infatti manifestarsi e scindersi è una cosa sola»19. Apparire per il Tutto è tradirsi, consegnandosi alla parzializzazione pur necessaria affinché su di esso sia gettata luce, luce indissolubilmente contaminata dall’ombra: apparire e finitudine sono un tutt’uno, ad apparire è sempre e solamente la negazione dell’intero come totalità delle connessioni. E dunque ciò comporta che, il tentativo di porre un qualsiasi significato come svincolato dall’intero del significare sia un non porre quel significato, ossia, come scrive Dal Sasso, «un dar vita […] a quel concetto astratto dell’astratto che, in quanto negato dal concreto, costituisce la stessa contraddizione dialettica»20.
18. Ivi, p. 73. 19. G.W.F. Hegel, Differenz des Fichteschen und Schellingschen Systems der Philosophie, in Id., Jenaer Schriften 1801-1807, W 2, pp. 7-138: p. 87; tr. it. di R. Bodei, Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, in G.W.F. Hegel, Primi scritti critici, Mursia, Milano 1971, pp. 1-120: p. 87. 20. A. Dal Sasso, Dal divenire all’oltrepassare. La differenza ontologica nel pensiero di Emanuele Severino, pref. di G. Brianese, Aracne, Roma 2009,
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Siamo così pervenuti all’obiettivo di questo paragrafo, ossia far emergere l’ossatura formale della contraddizione C: la struttura originaria dell’essere, e dunque: ogni significato così come ogni essente, implica necessariamente l’apparire della totalità concreta, che però appare solo parzializzandosi, ossia assieme nascondendosi, lasciando avvolta nell’ascosità la sua pienezza. Quanto è necessario che appaia si manifesta solo in parte: se l’infinito s’illumina, il lucore è però sempre parziale e mai assoluto, costitutivamente contaminato dall’oscurità. Per definizione, la parte è tale in quanto parte di un tutto, è quel che è solo nella sua connessione all’infinito; e tuttavia, nel suo manifestarsi, l’infinito si dà solo in parte, tradendosi necessariamente come tale: «il logos costituisce il modo dell’apparire stesso, la maniera in cui l’intero si dice tradendosi, consegnandosi a una sua parte, falsa proprio in quanto parte»21. Il notturno della contraddizione C, oscurità che s’intreccia indissolubilmente alla luce dell’apparire, è «la notte in cui la sostanza venne tradita e si rese soggetto»22.
3. Contraddizione C e temporalità: la vita dell’eterno Già da questa prima tematizzazione della contraddizione C, risulta evidente come la filosofia severiniana prenda le distanze da qualsiasi astratto dualismo. Se laddove il Tutto si cela ad accendersi è la contraddizione, cionondimeno il finito non risulta pp. 49-50. Il volume di Dal Sasso, più in generale, si presenta come un’attenta analisi del concetto di “differenza ontologica” nella filosofia severiniana, da La struttura originaria sino a Oltrepassare. 21. F. Valagussa, Differenza ontologica e contraddizione C. La dicitura dell’essere tra Heidegger e Severino, in «La Cultura», LI, n. 2, 2013, pp. 307317: p. 310. 22. G.W.F. Hegel, Phäg, p. 514; tr. it. cit., vol. II, pp. 219-220.
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abbandonato a se stesso, quanto piuttosto lumen solo parziale dell’infinito. Nessuna contrapposizione astratta tra finito e infinito, nessuna ingenua alterità, anzi esattamente il contrario: sulla base della differenza sussistente tra parte e tutto, risulta infatti illuminabile il concetto di processualità così per come questo emerge nella filosofia severiniana. Il Tutto, abbiamo visto, è costante dell’originario, che quindi può apparire se e solo se appare il Tutto: «e tuttavia il Tutto non appare, si nasconde all’originario, e insieme progressivamente si svela – proprio perché si svela progressivamente, si nasconde, e viceversa»23. La mossa compiuta da Severino è della massima delicatezza: il Tutto si dà gradualmente, processualmente, temporalmente. La temporalità è momento della struttura originaria, meglio: è quella modalità d’apparire che concentra in sé luce e ombra della totalità, la luce caliginosa in cui ogni essente, dicendo il Tutto come parte, consiste. Temporale è il darsi dell’Essere che si mantiene nell’ascoso, offrendo di sé solo una parte: «l’ente ha luogo sempre e soltanto in un differirsi dell’essere, in un velamento, in cui l’intero insieme si mostra e si nasconde»24. Importante, dicevamo, è l’operazione severiniana, poiché ci consente di mostrare come, lungi dall’essere pensata in qualità di dimensione astrattamente contrapposta a quella dell’eterno, la temporalità venga a consistere nel progressivo disvelamento della totalità concreta: «è l’essere stesso a differenziarsi»25, dice bene Dal Sasso. Pensiero dell’essere è pensiero del divenire, pensiero dell’essere come divenire, muovendo così un passo a lato rispetto alle interpretazioni che intenderebbero il divenire come caduta, dispersione o allontanamento dall’origi23. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 73 (corsivo nostro). 24. F. Valagussa, Differenza ontologica e contraddizione C, cit., p. 314. 25. A. Dal Sasso, Dal divenire all’oltrepassare, cit., p. 53.
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ne. Intrecciato indissolubilmente alla modalità finita del darsi dell’infinito, il divenire severiniano è nientemeno – prendendo in prestito una felice espressione di Massimo Donà – che “la vita dell’eterno”. Scrive il filosofo veneziano: L’eterno, pur rimanendo eterno, “vive”; mostrando, da ultimo, di vivere nella vita di ogni dinamica esistenziale, di ogni sopraggiungimento, di ogni compimento, di ogni digressione e di ogni spegnimento, di ogni accelerazione e di ogni rallentamento. Rendendo altresì evidente che non vi sono mai da una parte l’eterno e dall’altra la vita come divenire; mostrandoci, insomma, quello stesso che da sempre i testi di Severino si impegnano a mostrare, e a mostrarlo con un linguaggio sempre più coerente: che la vita è sempre e solamente vita “dell’eterno”.26
È dunque raccogliendo queste preziose indicazioni sulla vita dell’eterno che possiamo riavvicinarci alla contraddizione C, la quale da ultimo apre al tema della manifestazione temporale della totalità. Tempo è il darsi della cosa nella custodia della sua ascosità, mai potendosi illuminare quel Tutto pur necessariamente implicato27. Questo il senso della temporalità se-
26. M. Donà, Il respiro del destino, in E. Severino, Zirkus suite. Un peccato di gioventù, a cura di M. Donà, Mimesis, Milano-Udine 2018, pp. 35-95: p. 89. 27. Se questa interpretazione della temporalità severiniana regge, essa offre un’immediata analogia con la relazione tra essere ed ente nella filosofia heideggeriana: dato l’ente, è necessariamente implicata la sua condizione trascendentale: l’essere; insieme, apparendo nell’ente e come ente, l’essere si custodisce nell’ascosità, non manifestandosi in quanto essere. Per Heidegger, l’essere appare come ciò che si dà nell’ente, e tuttavia si dà sempre nascondendosi. L’analogia custodisce in sé un’importante differenza tra totalità concreta di Severino ed essere di Heidegger: per il pensatore bresciano l’essere, l’assolutamente concreto, è un ente, ed è impossibile mantenere – come insegna già Heidegger e la metafisica – la differenza ontologica heideggerianamente intesa. Mostrando come essere ed ente siano entrambi altri dal nihil absolutum, Severino onticizza l’essere e pretende di aver dissolto la differen-
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veriniana: l’assolutamente concreto, per dirsi e manifestarsi, non può che tradirsi e con ciò consegnarsi alla parte. Indice del tradimento è la temporalità, chiaroscuro dell’infinitamente luminoso, nonché vita e incessante movimento dell’eterno. Incessante movimento. Ma, per inciso, ci potremmo domandare: se la contraddizione C si dà con l’isolamento dell’originario dal Tutto, forse che questa sua temporalizzazione, questa sua processuale manifestazione, non corrisponda proprio all’altrettanto progressivo toglimento della contraddizione? E poi, questo progressivo toglimento, non potrebbe cessare una volta raggiunto l’eschaton, il termine ultimo? È asintotica la curva temporale, la curva della vita dell’eterno, o invero perviene col tempo ultimo, quello dell’ultima apocalisse, ad abbracciare la verità più profonda degli essenti?28 Come vedremo, dal punto di vista dell’originario, questo mai perverrà al suo più profondo esser sé, la curva del tempo essendo quindi destinata a non compiere mai il toglimento che si avrebbe con l’identificazione di parte e tutto, finito e infinito. Se in virtù della contraddizione C l’originario, così come ogni essente, risulta strappato a se stesso, la filosofia severiniana condanna la verità dell’immenso a restare nell’inconscio del finito. Probabilmente Severino non sottoscriverebbe la dicitura che abbiamo or ora adoperato: in-
za ontologica heideggerianamente intesa. Sul rapporto sussistente fra Heidegger e Severino si vedano pure i resoconti della più recente conferenza, tenutasi nei giorni 13-15 giugno 2019, contenuti in I. Testoni - G. Goggi (a cura di), Heidegger nel pensiero di Severino. Metafisica, Religione, Politica, Economia, Arte, Tecnica, Padova University Press, Padova 2019. Si veda, inoltre, F. Valagussa, Differenza ontologica e contraddizione C, cit. 28. Il tracciato apocalittico è ben presente nell’opera severiniana, e tuttavia terrà sempre più a sovrapporsi alla tematica del tramonto dell’isolamento della terra, problema differente da quello della contraddizione C. Per una diagnosi attenta quanto originale della tematica, cfr. G. Gris, L’escatologia del destino. L’apocalisse del linguaggio nell’opera di Emanuele Severino, pref. di A. Tagliapietra, postfaz. di M. Donà, Inschibboleth, Roma 2020.
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vero tale differenza fra finito e infinito apre a quella che, con lessico successivo, è la Gloria della Gioia, infinita processualità che perpetuamente cresce su se stessa. Nulla del timbro proprio della “condanna”, quindi. Avremo modo di tornare sulla questione, riservandoci di problematizzare i connotati di tale differenza a un livello successivo e più maturo dell’indagine. Riassumendo: la contraddizione C, sancita dall’isolamento del l’originario dal Tutto, rimanda alla questione della temporalità intesa come toglimento processuale della contraddizione. Divenire, per Severino, dice manifestazione processuale – e quindi parziale – della totalità concreta. Lungi dall’essere espunta dalla filosofia del Destino, la temporalità guadagna un ruolo fondamentale: via necessaria affinché la contraddizione della verità possa assottigliarsi sempre più, cuore pulsante e fiamma scintillante che ravviva e muove dall’interno la verità dell’essere.
4. Contraddizione C e contraddizione Abbiamo visto, con Severino, come la contraddittorietà dell’originario non sia da confondersi con altre tipologie di contraddizioni, in ciò risultando quindi peculiare. In questo paragrafo cercheremo di distinguere tra contraddizione e contraddizione, tentando di fare luce più specificamente sui tratti distintivi di quella conveniente all’originario. Il modo in cui l’originario è contraddittorio, quindi, compete unicamente ad esso, poiché «innanzitutto, che la struttura originaria sia contraddizione è essa stessa a mostrarlo; è essa stessa a mostrarsi come contraddizione»29. Una prima peculiarità di
29. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 73.
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questa contraddizione sussiste nel rapporto intrattenuto con il “chi” della testimonianza: è l’originario stesso, in questo caso, a mostrarsi nella sua contraddittorietà. Appare già un’immediata differenza rispetto a quanto abbiamo individuato a proposito della dialettica concreto-astratto: in aporie come quella del nulla o quella che insorge una volta isolati gli elementi della predicazione, era lo sguardo dell’originario a riconoscere l’elemento contraddittorio. È il concreto a testimoniare la contraddittorietà dell’astrattamente astratto, di modo che in questo caso il riconoscimento avvenga, per così dire, “dall’esterno”. Il nichilismo non si riconosce come tale, l’identificazione dell’ente al nulla cadendo nel fondo del suo inconscio, che solo lo sguardo del Destino è in grado di portare a galla. Potremmo però porre, in linea generale, un’altra questione a proposito della contraddizione C. Stiamo dicendo, in diversi modi, della contraddittorietà dell’originario, dell’erroneità in cui la stessa verità della struttura originaria risulterebbe imprigionata. Ma allora, perché tenere fermo questo discorso? Mostrandosi come contraddittoria, la verità dell’essere non esprime, per ciò stesso, il proprio naufragio? Importante è il controcanto severiniano: Che questa struttura sia un mostrare sé come contraddizione non può dunque significare che la struttura della Necessità mostri che la propria negazione non è autonegazione. Anzi, proprio perché tale negazione è autonegazione la negazione che l’originario sia contraddizione dialettica è autonegazione.30
Non solo la contraddittorietà che contamina l’originario non è suo naufragio, ma addirittura negarne questo tratto, negarne l’immanente contraddittorietà è opzione contraddittoria! E tuttavia, procede Severino, datane la contraddittorietà
30. Ivi, pp. 73-74.
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è altrettanto vero «che la negazione, il toglimento di questa contraddizione, ossia la negazione dell’originario in quanto contraddizione, non è autonegazione»31. Come render conto della compossibilità in gioco? Distinguendo due modi di negare la contraddittorietà dell’originario: quello di una negazione estrinseca, negazione dell’originario in quanto originario e dunque originariamente autotoglientesi; e quello di una negazione dell’originario in quanto contraddizione, ossia di un processo mediazionale che immanentemente all’originario ne rimuova, processualmente, la contraddittorietà. Così Severino ricapitola i termini in gioco a proposito dello statuto dell’originario: Esso infatti è contraddizione non perché affermi di essere altro da sé […], ma per un altro motivo. Mostrandosi circondato dal Tutto che si nasconde, mostrandosi isolato dal Tutto, l’originario mostra che il proprio esser significante come struttura della Necessità è il significato di ciò che non è la struttura della Necessità; e non lo è perché tale struttura è e significa ciò che essa è e significa, soltanto nella sua connessione, nell’apparire del Tutto.32
L’originario è allora contraddittorio non perché il suo dire identificherebbe i distinti, ma piuttosto poiché si mostra isolato da quel Tutto il cui abbraccio è necessario per far sì che l’originario sia l’originario. Pervenuti a questo livello dell’indagine, possiamo aggiungere un ulteriore tassello che sinora abbiamo trascurato. Detto della contraddittorietà dell’originario, detto dell’esser altro da sé dell’originario, esso «non lascia apparire questa contraddizione come qualcosa di affermato, ma come negata. Cioè l’originario non solo si mostra come contraddizione, ma ne è anche
31. Ivi, p. 74. 32. Ibidem.
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il toglimento»33. Un doppio sguardo, una sorta di strabismo è quel che ereditiamo da questo passaggio: da un lato, l’originario è contraddittorio, dall’altro esso, proprio testimoniando la sua intima contraddittorietà, non manca di attestarne il toglimento. Per il momento, ciò che più interessa è tuttavia precisare come si tratti di un toglimento solo formale, sua risoluzione esaustiva potendo darsi unicamente col comparire del Tutto entro il palcoscenico dell’originario, una volta che questo si apra «sino a raggiungere gli estremi confini del Tutto»34. Il Tutto continua dunque a celarsi all’originario, la contraddizione è tolta formalmente e non concretamente. Non pochi dubbi è possibile sollevare a proposito dell’argomentazione ora richiamata, soprattutto laddove, tentando di render conto di questo toglimento formale della contraddizione, Severino lo espliciti nel senso di un non adeguarsi o rimettersi alla contraddizione35. In certa misura, il toglimento formale e non concreto della contraddittorietà fa richiamo a un lessico quasi esigenziale, punctum dolens corrispondente a un dover essere che poco ha a che fare col λόγος dell’incontraddittorietà dell’essente di cui la filosofia severiniana è massima espressione. Avremo modo di tornare sul problema, così come sulle criticità che emergono a proposito della testimonianza, da parte dell’orizzonte del finito, di un toglimento concreto della contraddizione che pur lo investe indissolubilmente. Per ora possiamo tornare sul tema della distinzione severiniana della contraddizione C dalle altre contraddittorietà, mostrando come non si dia autotoglimento della processuale negazione nella misura in cui «essa nega l’originario non in quanto l’originario è un 33. Ibidem. 34. Ibidem. 35. Cfr. ibidem: «L’originario, dunque, è la struttura la cui negazione è auto negazione, perché esso è il toglimento formale della propria contraddizione (ossia è il non adeguarsi, il rimettersi ad essa)».
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dire – non per quello che esso dice –, ma in quanto esso è un non dire, per quello che esso non dice»36. La negazione della contraddittorietà dell’originario ne nega la parzialità, ne nega l’isolamento dal Tutto conducendo a una sua processuale epifania. L’originario dice il Tutto solo formalmente, lo dice nondicendolo, la sua vitalità consistendo proprio nell’ineliminabile patimento di questo dissidio, di questa “ferita”37. La parola del Destino risulta intrecciata, iuxta propria principia, a un indissolubile silenzio sul Tutto, sua più profonda e inconscia verità. La parola del Destino è sempre parola silente, badando così a non eliminare nessun corno dell’aporia: non va offuscata la luce, ché parola è pur sempre epifania della totalità, né va dimenticata l’ombra, il silenzio della parola a proposito del coro rispetto a cui essa si staglia. Il silenzio dell’originario a proposito del Tutto ne spalanca l’intima ferita, la sua contraddittorietà, tale «in quanto, dicendo ciò che dice, non dice»38. Ben più tremendo di un astratto silenzio è quello del parlante, essenziale silenzio cui la parola è inchiodata dalla sua propria natura, così consegnandosi a tacere della sua più abissale verità: è parlando, e solo parlando, che si tace. In questo senso, ancora una volta assistiamo all’intreccio di luce e ombra in opera nella filosofia severiniana: è nel dire della struttura originaria che a darsi è il non dire, il celarsi della totalità concreta inscindibile dal suo darsi in forma finita, astratta, parziale. Contraddizione C è il consegnarsi del Tutto alla parte, dell’infinito al finito, del concreto all’astratto, tradimento necessario affinché se ne dia manifestazione. Così come nella Fenomenologia hegeliana, la messa in scena dispiega il tradimento della sostanza che si rende soggetto.
36. Ibidem. 37. L’espressione è mutuata da A. Dal Sasso, La ferita del fondamento. Appunti per un’ontologia dell’esperienza, in «La filosofia futura», n. 2, 2015, pp. 69-95. 38. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 75.
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È questo tradimento che sotto notazione formale si presenta nella guisa del progressivo toglimento concreto della contraddizione dell’originario. Possiamo quindi concludere questa disamina della distinzione tra contraddizione originaria e normale citando, in grazia della sua eloquenza, un passo severiniano: L’oltrepassamento dell’originario è il sopraggiungere della sua concretezza. Ciò significa che mentre il toglimento delle contraddizioni tolte dall’originario consiste nella negazione del loro contenuto predicativo, il toglimento della contraddizione dell’originario consiste invece nell’affermazione concreta, determinata del contenuto predicativo originario, cioè nell’affermazione che non nega ciò che l’originario dice, ma quell’indeterminatezza e astrattezza del suo dire, per le quali esso è contraddizione.39
Già evocando il concetto di oltrepassamento (che peraltro dona titolo a Oltrepassare, uno dei suoi testi teoreticamente più densi), Severino ripensa il divenire come processuale e incessante toglimento del silenzio cui il dire, per altro verso, è indissolubilmente intrecciato.
5. Costanti: persintassi, sintassi e iposintassi Giunti al presente livello dell’indagine, possiamo introdurre la tematica delle costanti, cui l’esposizione precedente ha già implicitamente rimandato. In generale, la costante di una determinazione è un’altra determinazione il cui apparire è necessariamente implicato dalla determinatezza di cui essa è costante. Questo intreccio di apparire e necessità è null’al39. Ivi, p. 76. O, come più avanti scrive Severino, la contraddizione C non può essere superata attraverso la negazione o la non posizione dell’immediato, bensì «intensificando o potenziando la posizione dell’immediato» (ivi, p. 352).
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tro che un esplicito segnale dell’originario quale coalescenza di L-immediatezza e F-immediatezza40. Da ciò, dicevamo, ne segue come corollario la contraddittorietà che investe un atteggiamento astrattamente fenomenologico41: anche in questo caso, salta all’occhio la possibilità di interpretare la filosofia severiniana in quanto esercizio volto all’indicazione di un apparire differente rispetto a quello cui noi dogmaticamente ci riferiamo. E tuttavia, lungi dal mirare a sposarne in toto le tesi, l’elemento decisivo da illuminare in questa sede è anzitutto l’operatività razionale volta a decostruire, dall’interno, ovvietà e presupposti che contaminano tanto l’atteggiamento quotidiano quanto, sempre per Severino, l’intera storia della filosofia. Ritorniamo ora però alla tematica delle costanti, con il preciso intento di chiarire quanto necessario a illuminare ulteriori tratti della contraddizione C. Risulta decisivo anzitutto gettare luce sul cosiddetto “campo persintattico” delle costanti, orizzonte entro cui cadono le costanti di ogni essente42. Tra esse, abbiamo già incontrato la Totalità, la quale consegnandosi alla luce dell’apparire in maniera unicamente finita sanciva l’apertura della contraddizione C. E tuttavia, al campo persintattico appartengono non solo le determinazioni la cui assenza determina il contraddirsi dell’originario o la contraddizione C, ma più in generale l’impossibilità che qualcosa appaia. Tutto quel che appare è necessariamente richiamo della persintassi dell’essente, sfondo intramontabile di ogni spettacolo, finanche dell’errare. La verità, in quanto tale, è assoluta, mai nulla potendosi dare
40. Cfr. ivi, p. 76: «Lo strutturarsi delle costanti è un modo emergente della cooriginarietà della L-immediatezza e della F-immediatezza. È infatti perché una certa determinazione y è costante di una cert’altra determinazione x, che è necessità che l’apparire di x implichi l’apparire di y». 41. Cfr. infra, cap. I, par. 3. 42. Più diffusamente, cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 444446.
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di altro rispetto alla sua legge: persino l’isolamento nichilistico, l’errare dell’isolamento della terra non potendo trascendere il suo nomos, ma essendone anzi immanente incarnazione: «l’errore non può che crescere conformemente alle leggi della verità»43. Tratto comune di isolamento, verità astratta e verità concreta, il darsi dell’orizzonte persintattico è intrascendibile, sfondo intramontabile dell’apparire in quanto tale. In questo senso, la sua strutturazione è il predicato di ogni essente, ma come scrive Severino in La Gloria (2001) – testo successivo di non pochi anni a La struttura originaria –, «non nel senso che ogni essente (ad esempio questa lampada) sia la struttura del Destino, ma nel senso che ogni essente sta nel Destino, sì che il predicato di ogni essente è il suo stare nel Destino»44. Sempiterno, l’occhio del Destino non si chiude né si apre, ma sta. Costanti sintattiche di un certo significato sono quelle determinatezze la cui assenza ne sancisce il non apparire, «perché esse sono determinazioni necessarie della “sintassi”, cioè dell’essenza, della forma in quanto tale del significato. Ad esempio, il non esser non-x è costante sintattica di x»45. Per concludere, le costanti iposintattiche sono individuazioni di costanti sintattiche: se negare non-x è costante sintattica di x, qualsiasi individuazione del contenuto di non-x è costante iposintattica di x. Per questo, «la posizione di x, la quale non implichi la posizione di una costante non sintattica di x, ha come esito la posizione di x come significato astrattamente formale»46. Riassumendo: il 43. M. Donà, La “verità” e il mago Frestone, in M. Capanna - M. Donà - L.V. Tarca (a cura di), Cháris, cit., pp. 69-76: p. 72. Nel seguito del saggio, Donà prosegue sviluppando le aporie interne alla “fantasmaticità” dell’errore. Cfr. ivi, p. 75: «il “vero” “vince” su qualcosa che non si contrappone mai ad esso, proprio perché destinato a crescere secondo le sue leggi». 44. E. Severino, La Gloria, Adelphi, Milano 2001, p. 414. 45. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 77. 46. Ivi, p. 441.
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darsi dell’essente implica, come sua costante sintattica, il darsi della negazione dell’altro da sé. E tuttavia, come sua costante iposintattica, implica il darsi di tutte le individuazioni della forma, altrimenti astratta, dell’“altro da sé”. È qui che la tematica delle costanti guadagna l’opportuno spicco intrecciandosi con la contraddizione C: il non apparire della più piccola e misera particella dell’universo sancisce l’apertura di una contraddittorietà, il darsi in modo unicamente astratto e formale dell’originario. E con l’originario, il chiaroscuro pervade a cascata ogni cosa. Scrive infatti Severino in Fondamento della contraddizione: ogni determinazione che appare, appare e come ciò che essa è (ad esempio come questa stanza illuminata, che è una delle determinazioni della terra) e non come ciò che essa è – giacché questa stanza illuminata è ciò che essa è solo nella sua relazione alla totalità infinita delle determinazioni dell’essente, la quale non appare nell’apparire finito […]. La contraddizione C è appunto questo apparire della totalità e delle determinazioni dell’essente, dove ciò che appare appare nel suo essere e non essere ciò che esso è.47
Affinché si dia l’autenticità del granello di sabbia è necessario l’intero universo, sicché se questo continua a celarsi nella sua concretezza, il contagio dell’originario si espande a ogni essente48. Entro l’orizzonte apertosi con la temporalità severiniana la totalità è presente in modo unicamente formale, risultandone quell’indissolubile intreccio di luce e ombra su cui abbiamo insistito: «il progressivo manifestarsi del Tutto nell’origina47. E. Severino, Fondamento della contraddizione, cit., p. 88. 48. Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 424: «ogni significato è posto solo se è posto l’intero semantico; se poi quest’ultimo non è posto concretamente nella sua materia assoluta, e quindi vale come significato formale, anche quel qualsiasi significato posto sarà posto come significato formale, e l’orizzonte semantico che in tal modo verrà a costituirsi sarà l’apertura di una contraddizione».
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rio è il sopraggiungere, nell’apparire originario, delle costanti dell’originario»49. Apparendo formalmente in quanto affetto dalla steresi dell’iposintassi, ossia dalla mancata posizione degli essenti ancor non sopraggiunti, la temporalità individua il progressivo determinarsi, il progressivo riempimento della forma o sfondo dell’originario, che su questo tracciato si avvicina sempre più a se stesso. Coinvolgendo l’essente, l’aporia dell’originario ne investe dunque il suo più intimo statuto. Senza troppe remore, potremmo dire che ciò che continuamente sfugge alla luce dell’originario non è solo il Tutto, ma proprio il singolo questo dell’essente, rectius: proprio in quanto a sfuggire è il Tutto, proprio in quanto il Tutto si dà solo in questo sfuggire, a mancare è la singolarità della cosa. Nel differire da tutto ciò che gli è altro, ogni singolo essente chiama in causa l’intero, che celandosi lascia nell’oblio – nell’inconscio – pure la verità di ogni essente. L’irriducibile singolarità dell’essente si darebbe solo con lo sguardo sull’intero delle sue connessioni, sguardo precluso all’iride prospettica, finita, fenomenica dell’originario50. Vede bene questo plesso Massimo Cacciari in Labirinto filosofico: La singolarità dell’ente non si manifesta integralmente nella finitezza dell’apparire. In un solo evento, nel questo-qui determinato, non può esaurirsi l’apparire dell’essente nella sua
49. Ivi, p. 73. 50. Prendendo le mosse proprio da un confronto con la filosofia severiniana, scrive Tagliapietra: «L’esserci, ciascun esserci, è, in questo modo, nella sua necessaria singolarità […] assolutamente libero dal rinvio ad una fondazione archica (e arcaica) […] e pertanto intrinsecamente anarchico» (A. Tagliapietra, Il panorama al limite del senso, cit., p. 148). Per uno sviluppo di questa nozione di singolarità, cfr. pure Id., Esperienza. Filosofia e storia di un’idea, Cortina, Milano 2017. Lo stesso Tagliapietra, evidenzia il ruolo giocato da Italo Valent nella riconsiderazione del negativo all’ombra del pensiero di Emanuele Severino; in merito, cfr. Id., Mutando riposa. Italo Valent interprete di Emanuele Severino, in «Il Pensiero», LI, n. 2, 2012, pp. 231-251.
111 sostanza ultima e in verità. Qui la differenza, che non è affatto scissione o separazione. L’apparire qui-e-ora dell’ente, il suo essere phainómenon, sta necessariamente in relazione con la sua totalità o interezza.51
Proviamo a compiere un passo ulteriore. Il celarsi della totalità implica, severinianamente, un’indeterminatezza contagiosa dello statuto dell’essente. Non dandosi l’intero, non si dà nessun significato: l’essente è e non è quel che è, il determinato è indeterminato. Emendato dalle incrostazioni nichilistiche, «il “tempo” appartiene al contenuto che appare nella verità»52: temporale è l’incessante processo di toglimento della contraddizione che investe di sé ogni essente. Presente-futuro-passato: l’oltrepassare severiniano ravvede nel processo il futuro del presente-essente, futuro consistente nell’incessante approssimazione al suo già da sempre compiuto passato.
6. Contraddizione C e contraddizione, posizione e intenzione Il capitolo VIII de La struttura originaria titola emblematicamente: Il fondamento come contraddizione. In questa sede, Severino giunge a precisare alcuni aspetti decisivi della contraddizione C proprio nel tentativo di differenziarla dal normale contenuto contraddittorio. Risulta quindi decisivo un affondo in questo capitolo. Abbiamo visto come l’assenza della totalità implichi un’indeterminatezza propria dello statuto di ogni essente o significato. Scrive Severino: «La posizione di S implica la posizione di tutte
51. M. Cacciari, Labirinto filosofico, Adelphi, Milano 2014, pp. 46-47. 52. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 85.
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le costanti di S; ma S è posto anche se non tutte le costanti di S sono poste»53. Il significato S – segno che sta per ogni significato – è insieme posto e non posto, il suo apparire essendo affetto dalla condizione di steresi posizionale delle sue costanti. Come noto, tale steresi posizionale è null’altro che la contraddizione C: «è una contraddizione che S sia posto anche se non tutte le costanti di S sono poste»54. Nell’intreccio che tiene assieme distinguendo ogni essente, è contraddittorio che la pioggia caduta ieri non si manifestasse in relazione alla scrittura di queste righe. Col tempo, le costanti appaiono, il darsi della totalità si fa sempre più concreto: il processuale sopraggiungimento delle costanti di S coincide con il progressivo toglimento della contraddizione C. Abbiamo diffusamente insistito sul carattere “lacerante” della contraddizione C, ferita inferta all’originario che si ripercuote su ogni essente. E tuttavia, abbiamo pure posto in luce come l’originario si ponga, allo stesso tempo, in quanto toglimento formale della propria contraddizione, in ciò differenziandosi dalla normale contraddizione. Questa, dicevamo, neppure riconosce la sua contraddittorietà, isolamento attestato unicamente dallo sguardo del Destino. Ciononostante, che fosse l’originario stesso a farsi testimone della propria ferita, non rimuoveva l’enormemente problematica terminologia evocata da Severino in tale luogo concettuale: il toglimento formale della contraddizione, si diceva, corrisponde a un “non adeguarsi ad essa”. Quantomeno curioso l’utilizzo di questo lessico quasi esigenziale nella nuova Introduzione. Quantomeno curioso, se si pensa poi al problema teoretico istanziato dalla possibilità che il malato, contrariamente al nichilismo occidentale, sia testimone della sua stessa malattia, o fuor di metafora: che il
53. Ivi, p. 342. 54. Ivi, p. 343.
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finito, la parte, l’astratto possa essere testimone della sua stessa parzialità. Perché diciamo “problema teoretico”? Perché è necessario, affinché l’astratto attesti la propria contraddittorietà, affinché l’originario scorga la sua ferita, che la totalità si dia, rectius: che sia il finito stesso a riconoscere il darsi di quella totalità rispetto a cui, proprio esso, risulta isolato e manchevole. È possibile isolarsi solamente in connessione a ciò da cui ci si isola, così come è possibile che il finito riconosca la propria contraddittorietà solo in connessione a quella totalità concreta di cui pur riconosce la mancanza. Che poi Severino tratti di un toglimento formale, ne è in certa misura il precipitato. A ogni modo, non è poco rilevante notare come all’altezza del capitolo VIII il problema si ripresenti, e proprio laddove l’argomentazione severiniana intende evitare che la ferita dell’originario venga pareggiata all’ordinaria contraddittorietà. Proprio questo rischio sembra correre la formulazione della contraddizione C: «nella posizione di S non implicante la posizione di una o più costanti di S, S è posto di fatto, ma insieme non può essere posto come tale»55. S è posto ma non può esser posto, la contraddizione C si approssima pericolosamente a quelle contraddizioni di cui la verità sancirebbe l’originario autotoglimento. Non si danno forse, pure in essa, S e non-S, affermazione e negazione? Non casualmente, il gesto severiniano è quello di un mutamento dell’angolo prospettico da cui mira all’aporia: «ciò che in questa posizione di S si intende porre, non è ciò che effettivamente o realmente si riesce a porre»56. A esser chiamata in gioco è una cesura fra intenzione ed effettualità, fra il significato intenzionato e la sua effettuale posizione: si tratta di una risemantizzazione della differenza che sussiste tra totalità formale e totalità concreta. A essere
55. Ivi, p. 346. 56. Ibidem.
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intenzionato è il significato nella sua concreta incontraddittorietà, beata compagnia in cui giova del legame con le costanti da esso necessariamente implicate, mentre, effettualmente posto è il significato astratto, imprigionato nell’isolamento di una compagnia oscura e parziale. Ma torniamo al nostro problema: se contraddizione C si accende nella misura in cui ciò che è posto, de facto, non è posto concretamente, come distinguerla dall’ordinaria contraddizione? Individuando il debito nei confronti di un’intenzione non realizzatasi, aprendo una differenza tra astratto e concreto, così dispiegando un dire che non dice, ma non nel senso che assieme affermi e neghi lo stesso contenuto, ma piuttosto perché dice solo astrattamente, oscurando organi essenziali di quel che pur proprio esso mette in luce. La distinzione tra astratto e concreto, che qui si ripresenta nel rapporto tra intenzione e posizione effettuale, è la radice della possibilità di distinguere le due contraddizioni. In certa misura, nell’intera produzione severiniana la peculiarità della contraddizione C si fonda su un intrascendibile ruolo giocato dalla differenza dei due poli: finito e infinito, astratto e concreto, parte e tutto. Se l’orizzonte in questione non si realizzasse come questa intenzione, il suo non riuscire a valere come S non provocherebbe l’autocontraddittorietà di tale orizzonte […]. Se la contraddizione C è data dunque dall’intenzione di porre S, ponendo un certo contenuto, e dalla disequazione tra il contenuto effettivamente posto e S, ciò significa che tale contraddizione non è data dalla posizione e dalla non posizione del contenuto effettivamente posto. Che un contenuto sia insieme posto e non posto, questo è quanto è contraddittorio che si realizzi; ma che ciò che di fatto si pone non sia ciò che si intende porre, questo non è contraddittorio che si realizzi. 57 57. Ibidem. Come a dire che trovarsi nella situazione del contraddirsi, essere nella contraddizione, non è negare il principio di non contraddizione, non è cioè dare luogo alla contraddizione.
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Che S sia insieme S e non-S è contraddizione, non che l’intenzione di porre S precipiti in qualcosa d’altro rispetto al contenuto intenzionato. La distinzione fra contraddizione C e contenuto contraddittorio poggia e fa leva sull’ulteriore problematica distinzione posta fra posizione effettuale di S e intenzione di S. Il problema teoretico è quello che abbiamo già sollevato, ossia quello di dare ragione dello scarto dalla prospettiva del finito. Riconoscere che il significato effettualmente posto non è il significato intenzionato, non è per ciò stesso porre il contenuto intenzionato? Il contenuto intenzionato, o incrementando le pretese: il concreto, non è posto nella stessa misura in cui si riconosce la parzialità, l’astrattezza dell’astratto? Come tener ferma, logicamente, questa distinzione fra astratto e concreto? In certo senso, questa obiezione che muoviamo indossando lenti hegeliane, ha dalla sua tutto un bagaglio di ragioni, la più importante: quella di evitare di continuare a presupporre un’esteriorità al pensiero nella misura di un contenuto estrinseco alla forma attualmente posta. Come abbiamo visto, A è posto solo se è posto non-A nella sua concreta e totale iposintassi, ossia in ogni specificazione contenutistica, altrimenti A è posto solo formalmente. In quest’ottica, il contenuto è ciò che processualmente si manifesta, per ciò stesso rendendo A sempre più concreto. Quale l’obiezione hegeliana? L’idea che non-A si manifesti processualmente, ossia che davvero possa sussistere questa distinzione – troppo astratta, per Hegel – tra forma e contenuto che, via via, la riempie. Anziché essergli esterno, l’infinito è per il filosofo di Stoccarda nel finito, immanente dinamica che non prevede alcun ritaglio d’esteriorità rispetto all’orizzonte del pensare. Un significato intenzionato e non posto effettualmente è per Hegel fantasmatica astrazione, così come emerge dalle ardue pagine della Dottrina dell’essenza: il presupposto della riflessione è sempre posto come tale. Le intenzioni non realizzate sono le più astratte delle ineffettualità, così come non v’è mai nessuna beata compagnia dell’essente, se
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per questa dobbiamo intendere un’ulteriorità rispetto a quanto si manifesta nel campo concreto e attuale della Wirklichkeit. Facciamo tesoro di quest’obiezione, cercando di rintracciare in quanto segue le possibili soluzioni che la filosofia severiniana sarà in grado di offrire. Riassumendo: la contraddizione C è dunque dire o porre qualcosa che non è ciò che si intende dire o porre, mentre la contraddizione ordinaria è porre e non porre ciò che effettivamente si pone. Scrive Severino: «Diciamo che sussiste una disequazione tra il contenuto semantico effettivamente posto e l’intenzione di porre S; diciamo questo nel senso che quel contenuto semantico effettivamente posto è una posizione formale di S»58. Così come la Totalità concreta, ciascun essente si dà nel cerchio dell’originario unicamente in maniera formale e astratta, l’oscura caligine della contraddizione C pervadendo di sé ogni contenuto semantico. La distinzione che abbiamo visto sussistere tra totalità formale e concreta investe la posizione del significato, astratta in quanto sempre mancante di una parte delle costanti da esso necessariamente implicate. I problemi, dicevamo, insorgono nella misura in cui si deve render conto dell’astrattezza dell’astratto, ché questa sembra chiamare in causa proprio quella concretezza rispetto alla quale essa è mancante. Così Severino ricapitola i termini in gioco: La contraddizione C consiste dunque nel porre S formalmente, e nel non porlo concretamente; o nel porre S in modo tale che non resta posta la concreta valenza semantica, o la concreta significanza di ciò che si pone. Rispetto alla posizione di questa concretezza semantica di S, la posizione di S che effettivamente si realizza quando ponendo S non son poste tutte le costanti di S, è quindi soltanto l’intenzione della posi-
58. Ivi, p. 348.
117 zione di S: questa posizione è soltanto esigita. Dove è chiaro che la posizione di S, che effettivamente si realizza, può valere come un’“intenzione” solo in quanto S sia in certo modo già tutto posto: S è infatti già tutto posto nella sua valenza formale; sì che è appunto questo tutto, ciò che si “intende” pensare concretamente. La contraddizione C è pertanto l’intendere come S ciò che, proprio perché è soltanto la valenza formale di S, non è S.59
In questo senso, il significato è in certo modo posto e in certo modo non posto: la contraddizione C è un intreccio di affermazione esplicita e negazione implicita, ove la negazione è implicita «nella misura in cui non accade che le costanti non poste siano poste come tolte (negazione esplicita), ma avviene che esse, semplicemente, non son poste»60. E tuttavia, non ci pare secondario rilevare le problematicità che emergono una volta che s’intenda distinguere negazione esplicita da negazione implicita, ossia: contraddizione normale da contraddizione C. Se infatti è immediatamente autocontraddittorio porre S senza che tutte le sue costanti siano poste, tale contraddittorietà non si dà «qualora si riconosca che una siffatta posizione di S è posizione formale, ed è pertanto un essere in contraddizione»61. Da dove questo “riconoscimento”? Non presuppone, ancora una volta, il darsi di una concretezza rispetto a cui il pensiero riconoscerebbe la propria parzialità o astrattezza? Se una risposta la filosofia severiniana è in grado di offrire a questa problematica, questa va ricercata nella necessità della differenza fra orizzonte fenomenologico e totalità concreta, finito e infinito.
59. Ivi, pp. 348-349. 60. Ivi, p. 349. 61. Ibidem.
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7. Divenire, temporalità e toglimento della contraddizione L’affondo che stiamo effettuando nel capitolo VIII de La struttura originaria ci consente di tornare più analiticamente su una tematica trattata in precedenza, ossia quella della temporalità severiniana in quanto toglimento processuale della contraddizione C. Proprio in questa sede, infatti, Severino getta le fondamenta logiche di quel che abbiamo esaminato, meno specificamente, tramite la nuova Introduzione. Risemantizzandosi entro l’orizzonte problematico in cui ci siamo addentrati, a ripresentarsi è la funzione del divenire in qualità di processuale toglimento della contraddizione C: La contraddizione C […] è tolta ponendo quelle costanti, la cui non posizione provocava appunto la contraddizione C. Il processo o il divenire costituito da quell’incremento dell’orizzonte posizionale, che è determinato dal sopraggiungere delle costanti di S, è quindi lo stesso processo o atto di toglimento della contraddizione C.62
In quanto segue assisteremo a come, via via, quest’idea si risemantizzerà entro il corso della filosofia severiniana; ciononostante, così come la contraddizione C, l’idea della processualità è certamente un importante tratto costante degli scritti del pensatore bresciano63. A ogni modo, è già ora possibile enu-
62. Ibidem. Cfr. pure ivi, pp. 349-350: «è chiaro con ciò che se il toglimento della contraddizione C è un processo, la contraddizione C è un quantificarsi […]. Questa quantificazione è determinata dalla diversa misura o dal diverso grado della disequazione tra l’insieme S1… Sn che è posto in ognuna delle posizioni di S, e la totalità delle costanti di S». 63. Per anticipare: il divenire verrà a risemantizzarsi come “oltrepassare”, incessante svolgimento di quell’apparire infinito che, per altro verso, è il toglimento concreto e già da sempre compiuto di ogni contraddizione. Destinato a restare nell’inconscio del cerchio finito dell’apparire del destino, l’Assoluto nella sua concretezza offrirà tuttavia l’apertura di un’interminabile, incessante processualità.
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cleare l’esplicita lontananza di Severino da qualsiasi astratta abolizione del divenire. Per dirla hegelianamente, il divenire viene a riconfigurarsi in una vera e propria Aufhebung: negato quanto alla sua interpretazione nichilistica, conservato in quanto apparire e scomparire degli eterni. Indissolubilmente intrecciato al cuore della filosofia del destino – cuore ferito dalla contraddizione dell’originario – il divenire occupa un ruolo essenziale proprio in quanto suo processuale toglimento. Negare l’interpretazione occidentale del divenire non significa abbandonarlo, quanto piuttosto riconfigurarlo alla luce di uno sguardo emendato da presupposti non passati al vaglio di un λόγος sufficientemente autocritico. Ben lungi dall’abbandonare il divenire, Severino ne indica l’autentico statuto alla luce dello sguardo del Destino. Ancora una volta: con l’Occidente, oltre l’Occidente. Per la sua chiarezza, è possibile far riferimento a un passaggio di Oltre il linguaggio: Dire che il mondo non può essere trasformato significa che l’essente non può essere altro da sé: non significa la necessità di restare legati a ciò che ora appare, non significa che nell’esperienza venga perpetuato l’ordinamento che attualmente appare. Nel cerchio dell’apparire entrano via via gli eterni, e via via ne escono. Solo la vicenda del comparire e scomparire degli eterni rende possibile e pensabile il continuo cambiamento e l’inarrestabile avvicendarsi di ciò che appare – ossia rende possibile e pensabile il “divenire”, nel significato autentico che gli compete.64
Tornando al capitolo VIII de La struttura originaria, Severino individua nel piano base «l’apertura originaria della contrad dizione»65. Se contraddizione C si accende laddove si misuri uno scarto fra totalità dell’immediato e significati la cui posizione è necessariamente implicata da tale totalità (costan64. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 26. 65. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 352.
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ti), «questa, come ogni altra contraddizione, può essere tolta solo togliendo ciò che la provoca. E cioè ponendo o realizzando la manifestazione di tale complesso»66. Dall’astratto al concreto: se l’immediato si dà in quanto massimo isolamento dalle costanti, il processo consiste nel venire alla luce delle determinazioni che, in un inarrestabile crescendo, arricchiscono l’originario, ne ricuciono la ferita, consentendogli di diventare quel che è: «la totalità dell’immediato, come piano base della struttura originaria, è infatti anche l’orizzonte entro cui può comparire o sopraggiungere ogni processo mediazionale: nel senso che la struttura logica mediazionale che porta oltre il piano base diviene essa stessa immediatamente presente»67.
8. L’oltrepassamento del piano fenomenologico: aporia del divenire e compito dell’originario Giunti a questo livello dell’indagine, possiamo battere l’accento su un rilievo che, più o meno tacitamente, ha accompagnato l’intera trattazione della contraddizione C. Abbiamo analizzato come la contraddittorietà dell’originario si desse, sub eodem, col 66. Ivi, p. 352. 67. Ivi, p. 353. In ciò sono evidenti numerose analogie con la dialettica hegeliana, analogie che peraltro vengono esplicitamente discusse nelle medesime pagine; in merito, cfr. ivi, p. 360: «Il processo che conduce alla realizzazione assoluta del fondamento è quindi il processo che conduce a porre il fondamento come ciò che esso è: soltanto al termine di questo processo il fondamento è posto come ciò che esso è. La linea dell’avanzamento si manifesta così come un circolo: l’inizio è lo scopo, o l’inizio è il risultato: ciò che si intende porre allorché si pone la totalità dell’immediato, è ciò che è realmente posto al termine del processo della mediazione; sì che il fondamento della mediazione – l’inizio del processo – è lo scopo o il risultato del processo stesso. Pur essendo immediatamente in vista come posizione formale dell’immediato, lo scopo è realizzato soltanto da ultimo».
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celarsi della totalità nella sua concretezza: la posizione formale o astratta dell’originario, così come di ogni significato, chiama in causa la presenza di quella totalità che il finito non può manifestare se non contraddittoriamente. E tuttavia, sintantoché non si pone a tema l’ascosità propria dell’intero, questa resta nulla più di un presupposto. Severino ha poche esitazioni ad affermare che «l’intero oltrepassa la totalità del F-immediato»68, complice la dimostrazione logica che viene condotta nel capitolo XIII de La struttura originaria. È a questo plesso problematico che ora dobbiamo rivolgerci, se vogliamo comprendere concretamente la radice di quella distinzione fra finito e infinito che funge da tratto costante dell’intera filosofia severiniana. L’obiezione a tale oltrepassamento, prima di prendere visione di qualsiasi dimostrazione, è facile: l’essere che oltrepassa la totalità di quel che appare – con lessico severiniano: la totalità dell’immediato fenomenologico –, non appare come oltrepassante? L’essere che non è immediatamente presente, non è esso stesso immediatamente presente proprio nell’attuale discorso che ne fa il suo contenuto? Il problema non è trascurabile, laddove ogni inferenza volta all’oltrepassamento del piano fenomenologico è infettata, ab origine, dall’appartenenza a quel medesimo piano che vorrebbe oltrepassare. Lungi dall’ascrivere alla prospettiva severiniana una simile ingenuità, è bene ricordare come l’impostazione attualistica – che di tale astratto presupposto è precisamente l’originario toglimento –, fosse al centro del programma metafisico di Gustavo Bontadini, maestro di Severino. Va ricordato, inoltre, come proprio in sintonia con tale programma si ponesse il giovane Severino, che già in Heidegger e la metafisica mutuava la nozione di «fondamento metodologico», identità di pensiero ed essere che toglie qualsiasi possibilità di ascrivere una simile presupposizione all’impostazione severi-
68. Ivi, p. 414.
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niana69. Che dunque tale ulteriorità sia dogmaticamente assunta è opzione presto fugata, e anzi, in una nota Severino specifica come la contraddittorietà di un essere oltrepassante l’esperienza sarebbe propria solamente di un’affermazione F-immediata, non di un’inferenza logica70. Dire che appare ciò che non appare è contraddittorio, ma dire che ciò che non appare è, ossia: dire della disequazione fra intero ed esperienza, non è contraddittorio laddove tale dire sia animato dal senso della necessità. A ogni modo, Severino viene a capo dell’aporia anche per altra via. Ecco il suo controcanto: La contraddizione è immediatamente tolta […] col rilevare che l’essere, che non è F-immediato, è immediatamente presente quanto alla sua forma, o al suo significato formale, ma non è immediatamente presente quanto al suo contenuto concreto; ed è appunto questa concretezza che è posta come altro dalla totalità del F-immediato.71
Sia pure concesso che l’intero non presente sia presente, ma lo è quanto alla sua forma, non per il suo contenuto concreto o materia. Cosa si cela dunque all’orizzonte fenomenologico? Pienezza ed esaustività proprie del contenuto concreto. Continua Severino: «In altri termini: porre (L-immediatamente) l’essere come oltrepassante il F-immediato […] è un aver presente la forma del contenuto concreto di cui si afferma l’esistere al di là del contenuto presente»72. 69. In merito, cfr. E. Severino, Heidegger e la metafisica, II ed., con modifiche, Adelphi, Milano 1994, pp. 33-345. 70. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 415: «non è immediatamente autocontraddittorio affermare che l’essere oltrepassi la presenza: l’autocontraddittorietà immediata sussisterebbe qualora l’oltrepassamento fosse contenuto di un’affermazione F-immediata (e non di un’affermazione L-immediata)». 71. Ibidem. 72. Ibidem.
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La distinzione tra forma e contenuto risemantizza quella già incontrata a proposito del significato e della totalità del proprio contraddittorio, presente anch’essa quanto alla forma e non nella sua esaustività. A ogni modo, ci pare non neutrale e indifferente l’assunzione di tale ulteriorità. Non poche sono le pagine che Severino dedica all’interno di questo capitolo a rigettare le illazioni proprie dell’intelletto astratto, e tuttavia non crediamo sia secondaria l’assunzione dell’ulteriorità di questo contenuto rispetto alla forma, astratta, del darsi della totalità così come di ogni significato. Da dove, cioè, la posizione logica di tale contenuto? Come mantenerlo nella sua esteriorità alla forma se, tale esteriorità, è posta nell’orizzonte fenomenologico? E a tale problema se ne accompagna un altro, non meno decisivo: com’è possibile che il contraddittorio dica della propria soluzione, l’astratto del concreto? È come se si dicesse, nel finito in cui alberga la contraddizione della propria parzialità, dell’infinito in cui tale contraddizione sarebbe, già da sempre, tolta. La ferita che impedisce al finito di assistere all’autentico spettacolo dell’intero, non è tanto potente da far tacerlo a proposito della sua verità, già da sempre esistente. Lasciando in sospeso l’orizzonte interrogativo così apertosi, dobbiamo prendere in esame la trattazione severiniana dell’aporia del divenire. Come noto, è sulla base di questo giro di concetti che viene sostenuta la necessità logica propria dell’inferenza meta-fisica, ossia della posizione della differenza tra intero e orizzonte fenomenologico. Se ci volgiamo al capitolo XIII de La struttura originaria, lo facciamo tuttavia mettendo da parte qualsiasi interesse astrattamente storiografico o di esaustività quanto all’analisi sin qui condotta73, ma piuttosto con l’intenzione teoretica di gettare luce su un luogo che, 73. Per l’aporetica del divenire (e per il resto de La struttura originaria), l’analisi più serrata è stata condotta certamente da Leonardo Messinese; in merito, si veda il suo L’apparire del mondo, cit., pp. 151-198.
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pure in sede critica, è stato individuato come uno dei nuclei della filosofia severiniana. Su questa cellula della propria filosofia, tornerà lo stesso Severino, ravvedendovi un luogo in cui il discorso della necessità sarebbe stato ancora contaminato da persuasioni nichilistiche. E tuttavia, proprio ad essa si rinvia quanto alla posizione logica della differenza tra infinito e finito che tanto ci interessa. Aporia del divenire dice anzitutto di una contesa tra i due “tronchi” della struttura originaria: piano logico e fenomenologico. Contro il primo, che attesta la verità in quanto opposizione fondamentale tra essere e nulla, si scaglia né più né meno che il responso dell’evidenza: l’essente è e non è, le cose nascono e muoiono, sorgono dal nulla in cui si ritufferanno. Immediatezza logica e fenomenologia sono in contraddizione, il divenire suscita l’aporia74. Prestando attenzione a quanto abbiamo ricordato in precedenza, la postura assunta da Severino appare qui del tutto innaturale, proprio là dove viene ad attestare fenomenologicamente il darsi del divenire in senso nichilistico. E infatti, all’altezza de La struttura originaria, il divenire inteso come oscillazione fra essere e nulla – l’ἐπαμφοτερίζειν – è proprio il contenuto dell’evidenza, al punto da fare problema quanto al suo rapporto col piano logico: nella misura in cui attesta nascita e morte delle cose, il referto fenomenologico contraddice il piano logico dell’originario. Questa l’aporia del divenire, questa la contraddizione. Presone atto, ci resta da porre attenzione al gesto mediante cui Severino ne viene a capo. In questa sede, tale gesto consiste nell’integrare il dato fenomenologico con quanto di esso si sostiene sul piano logico, di modo che ne sorga l’interpretazione del 74. Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 531: «Mentre, dunque, il logo originario afferma l’immutabilità dell’essere, l’esperienza ne attesta il divenire: contraddizione tra l’immediatezza logica e l’immediatezza fenomenologica».
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divenire come comparire e scomparire dell’immutabile. Scrive Severino: La totalità dell’essere F-immediato, come l’orizzonte in cui la nascita e l’annullamento dell’essere viene alla manifestazione, deve essere pertanto determinata come l’orizzonte in cui è manifesto il comparire e lo scomparire dell’essere; ossia ciò che, da un punto di vista che se ne sta alla semplice considerazione della totalità dell’essere F-immediato […] si manifesta come un sopraggiungere e un annullarsi, si rivela, nella strutturazione concreta dell’originario, come un apparire e uno scomparire.75
È impossibile che l’essere sia nulla, ma insieme è evidente che appaia l’uscire e il ritornare nel niente delle cose. Il senso del divenire come uscire e ritornare nel niente viene pertanto integrato con quello del divenire come comparire e scomparire dell’immutabile76. L’aporia del divenire inclina verso il senso non nichilistico del divenire, senso che ne La struttura originaria si presenta unicamente nella guisa di un’integrazione necessariamente implicata: «l’istanza logica spinge quella fenomenologica verso l’affermazione del divenire come apparire e scomparire dell’eterno»77. In questo senso, scrive Messinese, «il divenire è l’apparire dell’essere; il mondo è l’apparire finito di Dio»78. Sebbene il lessico non corrisponda a quello di La struttura originaria, ritrova in questo assetto teoretico il proprio fondamento.
75. Ivi, p. 547. Cfr. L. Messinese, L’apparire del mondo, cit., p. 189: «Ma si badi: qui è solo in forza del logo […] che il divenire è affermato come un apparire e uno scomparire dell’essere. Infatti, stando sul piano fenomenologico, il divenire dell’essere è ritenuto proprio come il venire dal (e il ritornare nel) nulla F-immediatamente noto». 76. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 20. 77. A. Dal Sasso, Dal divenire all’oltrepassare, cit., p. 54. 78. L. Messinese, L’apparire del mondo, cit., p. 189.
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Facciamo un passo indietro. Se abbiamo compiuto questo affondo nel capitolo XIII è stato poiché nostro interesse era saggiare la tenuta logica della differenza fra intero ed esperienza, essere e divenire. Questo elemento, radice della differenza ontologica fra i due piani, resterà costante nell’intera filosofia severiniana. Sanare l’aporetica del divenire ha condotto proprio alla posizione di tale disequazione, in quanto integrare il senso del divenire come entrata e uscita dal nulla con quello dell’apparire e scomparire dell’eterno richiede, per l’appunto, la presenza dell’intero in qualità di contenuto manifestato processualmente dal divenire. Si dà il divenire. L’evidenza ci dice quel che è logicamente impossibile, ma dunque l’evidenza va integrata con un senso di quel che appare compatibile col piano logico. Questo senso implica il darsi dell’immutabile come oltrepassamento dell’esperienza: la differenza ontologica è stata posta, l’originario afferma logicamente il proprio oltrepassamento: «La struttura originaria si realizza come affermazione che l’immutabile intero oltrepassa la totalità del F-immediato; e cioè oltrepassa la stessa struttura originaria»79. È quindi impossibile che l’esperienza coincida con l’intero, poiché altrimenti non si darebbe risoluzione alcuna dell’aporetica del divenire. Anzi: «la totalità dell’essere F-immediato è solamente in quanto è l’immutabile intero: L’orizzonte del divenire può dunque essere solo in quanto l’intero immutabile è»80. Raccogliamo, intanto, un prezioso tassello per la nostra ricerca. Che la differenza ontologica, ossia la disequazione tra finito e infinito, non sia un presupposto, poggia su una sua posizione logica, posizione mostrata, per l’appunto, nell’ultimo capitolo de La struttura originaria. Possiamo quindi stringere un importante nesso d’implicazione fra contraddizione C e riso-
79. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 545. 80. Ivi, p. 550.
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luzione dell’aporia del divenire. In merito, si legge in Testimoniando il destino: Sin da La struttura originaria il motivo per il quale si afferma la finitezza dell’originario – e pertanto l’essere contraddizione C da parte dell’originario – è che tale finitezza è implicata dalla differenza tra l’originario e la totalità degli essenti. Da un punto di vista espositivo la contraddizione C è rilevata, in quello scritto, prima dell’ultimo capitolo, dove questa differenza viene mostrata. Ma già nell’Avvertenza si dice che il contenuto dell’ultimo capitolo è richiesto da tutti quelli che lo precedono; sì che, almeno dal punto di vista formale, l’affermazione che l’originario è contraddizione C non è un presupposto arbitrario.81
E tuttavia, come lo stesso Severino a più riprese sottolineerà nelle sue opere, tale posizione della differenza tra finito e infinito è originariamente intaccata dalla persuasione nichilistica di un divenire ancora inteso come oscillazione tra essere e nulla. Da questo punto di vista, scorrendo le pagine di Testimoniando il destino, rintracciamo il tentativo severiniano di raccogliere le ulteriori dimostrazioni di tale differenza ontologica, aggiungendo a quelle presenti nei suoi scritti ulteriori prove di questa tesi. Come noto, Testimoniando il destino (2019) è l’ultimo lascito del pensatore bresciano, e un po’ maliziosamente potremmo pensare che Severino abbia quasi tentato di render conto di un problema di cui egli stesso era pienamente consapevole. A più riprese infatti, proprio tale posizione della differenza ontologica, sarà messa in questione da alcuni critici82. Prima di render conto di questo ulteriore sforzo severiniano, possiamo però concludere l’incursione nel capitolo XIII de La struttura originaria facendo riferimento al tema del “compi-
81. E. Severino, Testimoniando il destino, cit., p. 92. 82. In merito, cfr. infra, cap. II, par. 11.
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to dell’originario”, indissolubilmente intrecciato a quello della contraddizione C, filo conduttore della nostra indagine. In quanto precede, ci siamo diffusamente soffermati sull’inscrizione del divenire entro il novero della filosofia severiniana. Se il processo può intendersi come graduale toglimento della contraddizione C, «la determinazione originaria dell’intero è un divenire»83, nel senso di una presentazione sempre più concreta dei volumi dell’intero. Questo l’orizzonte problematico in cui s’innesta il concetto di “compito” dell’originario: «Il compito dell’originario è cioè quello di essere l’intero. Dove è chiaro che il compito è dato appunto dalla necessità di liberare l’originario dalla contraddizione»84. Tale necessità di liberare la contraddizione dalla finitezza della verità, permane pure in Studi di filosofia della prassi: l’originario deve togliere la contraddizione, è mosso a esser se medesimo. Se l’originario è quel che è unicamente in quanto connesso alla totalità concreta, e se tuttavia questa si nasconde, allora l’originario si determina in un compito, compito che consiste nell’infinito toglimento della contraddizione C. Infinito, poiché uscire dalla contraddizione significherebbe identificare finito e infinito, l’infinitizzarsi del finito. Significherebbe, cioè, contraddizione, poiché se «il contenuto della coscienza umana diventasse l’intero concreto, l’uomo spodesterebbe Dio, e cioè l’essere immutabile si annullerebbe»85. Infinitamente più luminoso potrà diventare il lumen della coscienza finita, mai tuttavia potendo liberarsi dal timbro del suo statuto contraddittorio, dalla ferita della propria finitezza: «dire che il finito deve diventare l’infinito significa che, poiché il finito non
83. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 417. 84. Ivi, p. 424. 85. E. Severino, Studi di filosofia della prassi, nuova ed. ampliata, Adelphi, Milano 1984, p. 281.
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può identificarsi all’infinito, il finito deve crescere su di sé, all’infinito»86. Il finito deve diventare l’infinito, questo il compito che solamente potrebbe consentire al finito di conoscere esaustivamente se stesso, la sua più profonda verità. Ma per la contradizion che nol consente, il finito non può identificarsi all’infinito, e dunque il finito diviene infinitamente, differisce infinitamente da se stesso. Isolato dall’intero, sul finito grava il compito del doverlo abbracciare, il compito di liberarsi dalla contraddittorietà. Tale operazione potrebbe essere condotta a termine o esaurita solo con l’esaustiva epifania del significato concreto che, al contrario, continuerà costitutivamente a celarsi alla dimensione fenomenologica. Divenire è manifestazione della totalità concreta, dis-velamento che consente all’originario di avvicinarsi, via via, sempre più alla sua verità. Compito dell’originario è l’infinita, incessante, perpetua manifestazione dell’immutabile. Sulla via di questa traccia, Severino conclude La struttura originaria: In quanto l’originario si struttura come affermazione che l’immutabile oltrepassa l’originario, l’apertura originaria dell’intero è formale: l’immutabile è cioè manifesto in una sua valenza formale (e in quanto così manifesto rientra esso stesso nell’ambito dell’originarietà); il contenuto concreto della forma è ciò che sta oltre l’originario. Con ciò è posto il compito autentico dell’originario: in quanto quella manifestazione formale è apertura della contraddizione, il compito è dato dalla necessità del toglimento della contraddizione: il compito – ciò che si deve portare a compimento – è la manifestazione dell’immutabile. Non si dovrà forse dire che si tratta di un compito infinito, e che precisamente in “ciò è l’impronta della nostra destinazione per l’eternità” (come diceva Fichte in relazione a una situazione logica che presenta molta analogia con quella che qui ci si presenta)?87 86. Ivi, p. 282. 87. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 555.
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Prima di muovere un passo oltre, qualche osservazione. Anzitutto: suona paradossale, quasi spaesante che un’opera del genere si concluda con la posizione di una domanda. Ne La struttura originaria, opera consacrata a lemmi come teoremi, corollari, aporie e voci proprie di un armamentario dotato di una freddezza tanto elevata quanto quella del rigore logico ivi testimoniato, il volume conclude con la leggerezza di un interrogativo, con un “forse”. Non si tratta di un indugio esteriore, soprattutto se si pensa che quest’impronta della nostra destinazione per l’eternità permarrà mutatis mutandis sino agli ultimi testi severiniani. Questo problema, il problema dell’infinitudine del processo dal punto di vista del finito, ossia: l’originarietà della differenza tra astratto e concreto, è una costante del pensiero di Severino. Per questo, risulta quantomeno doveroso suggerire una via mutuabile dallo stesso testo: il ruolo fichtiano. Non casualmente, solo due anni dopo Severino pubblica un importante testo a proposito della filosofia di Fichte88, pensatore cui dedicò, tra l’altro, il suo primo corso accademico in Cattolica (1954). Più che rilievi storiografici, quel che intendiamo quantomeno suggerire è il rimando al timbro teoretico di natura fichtiana che permane nella filosofia di Severino. Originaria la differenza tra astratto e concreto, l’oltrepassamento della contraddizione C sarà da pensarsi come indissolubilmente intrecciato alla sua infinitudine. Ed è nel solco di questa differenza che si consuma l’inesauribile incedere della temporalità. Tempo è l’incessante differirsi dell’intero, scrive Valagussa:
88. E. Severino, Per un rinnovamento nella interpretazione della filosofia fichtiana, La Scuola, Brescia 1960; poi in Id., Fondamento della contraddizione, cit., pp. 293-424; in merito all’interpretazione severiniana di Fichte, si veda almeno F. Valagussa, Severino interprete di Fichte, in «Quaderni di Inschibboleth», n. 14, 2020, pp. 127-142. In polemica con l’interpretazione severiniana, cfr. M. Donà, L’aporia del fondamento, cit., pp. 209-234.
131 Il tempo non è forse anche la “causa” della contraddizione C? Nel senso che la contraddizione C come dicitura originaria dell’essere è indistricabile dal darsi degli essenti nella forma del tempo. “Tempo” dovuto alla distorsione che ogni apparire in quanto finito opera in riferimento all’intero […]. Perciò il toglimento della contraddizione è dato come compito, e come compito infinito. Di più, l’impossibilità del darsi dell’apparire concreto, inteso come totalità assoluta dell’essere che togli(erebbe) la contraddizione, coincide con il darsi del tempo: nel tempo, nella crescita dell’orizzonte posizionale, a dirsi è il differimento dell’intero.89
Non approfondiremo il rimando a Fichte con un’analisi dei suoi testi per evitare di farci condurre troppo lontano, ma possiamo enucleare un importante tratto: tanto in La struttura originaria, quanto in Studi di filosofia della prassi, il compito dell’originario si allaccia all’agire umano. Da Essenza del nichilismo in poi, tale idea verrà gradualmente deposta in quanto avrebbe ancora a proprio fondamento la persuasione nichilistica che l’ente sia niente. Emblematico, da questo punto di vista, è il ruolo giocato da Destino della necessità: emersa a chiare lettere la tesi per cui l’apparire non può manifestarsi diversamente da come si manifesta, ne consegue il crollo dell’idea per cui il toglimento della contraddizione del finito possa essere assimilato a un dovere o a un compito. In questa fase della sua produzione speculativa, come scrive Messinese, il concretarsi della verità viene riletto da Severino come «l’entrare nell’apparire di sempre maggiori volumi di ciò che costituisce il “Destino della necessità”, senza che l’incremento della manifestazione dell’essere venga quindi a dipendere dall’agire dell’uomo»90. Il crescere su se stesso del finito, ossia del destino della verità, allontana da sé ogni connotato prassi-
89. F. Valagussa, Differenza ontologica e contraddizione C, cit., pp. 315-316. 90. L. Messinese, Nel castello di Emanuele Severino, cit., p. 115.
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stico. Ciò che permane, al contrario, è l’incessante ombra che avvolge tale crescita, oscurità che s’intreccia con la sempre crescente luce dell’originario. La differenza s’assottiglia sempre più, ma mai si elimina91.
9. Passaggio alla seconda fase della filosofia severiniana: rigorizzazione della fenomenologia In quel che segue, cercheremo di render conto dello sviluppo del concetto di differenza fra infinito e finito a partire dai testi successivi a La struttura originaria. È implicata, ovviamente, una corrispettiva risemantizzazione della contraddizione C, che su tale differenza s’installa. Come abbiamo visto ne La struttura originaria, a questo proposito il ruolo giocato dall’aporetica del divenire è decisivo: data la contraddittorietà tra referto logico e fenomenologico, l’evidenza a proposito del divenire – id est: nascita e morte delle cose – va integrata con l’interpretazione dello stesso come apparire e scomparire dell’eterno. Come noto, l’idea dell’evidenza del divenire in quanto oscillazione fra essere e non essere verrà tacciata di nichilismo. Non è evidente, insomma, il divenire, ma è piuttosto un’interpretazione alienante del senso dell’essere. In questa direzione, il 91. Cfr. A. Dal Sasso, Dal divenire all’oltrepassare, cit., p. 60: «I termini della differenza vanno all’infinito assottigliandosi, la parte isolata va, all’infinito, concretandosi. Il suo essere isolata va relazionandosi al tutto in un processo senza fine. In questo infinito processo di autenticazione, la stessa problematicità originaria va gradualmente dileguando ed appaiono via via le soluzioni ai problemi precedentemente intravisti, ma non può apparire la soluzione a tutto. La differenza ontologica è, cioè, originaria». In merito, cfr. pure C. Scilironi, Ontologia e storia nel pensiero di Emanuele Severino, Francisci, Abano Terme 1980, p. 90.
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tassello fondamentale per la filosofia severiniana è aggiunto dall’importante Poscritto a Ritornare a Parmenide: l’evidenza fenomenologica non attesta un tale divenire, se per questo s’intende uscita ed entrata nel nulla da parte dell’essente. Δόξα il divenire nichilisticamente inteso, αλήϑεια in quanto processo della rivelazione dell’immutabile: non si tratta d’integrare quanto è evidente col referto logico, ma piuttosto di liberare la visione comune dai presupposti che in essa si sono incrostati e sedimentati. La filosofia severiniana opera in qualità di razionalità decostruttiva di immagini e presupposti che imprigionano l’apparire entro il piano dell’ovvio. L’eternità dell’essente, il più effimero incluso, non sancisce la negazione dell’evidenza del mutamento, quanto piuttosto mira a far cadere le lenti con cui l’Occidente lo interpreta. Scrive Severino: Questo corpo brucia e a questo corpo si sostituisce la sua cenere: l’apparire non attesta altro che una successione di eventi: il pezzo di carta bianco, l’avvicinarsi della fiamma, la fiamma che cresce, un pezzo di carta più piccolo e di forma diversa, una fiamma più esile, un pezzo ancora più piccolo e di forma ancora diversa, la cenere. Ad ogni evento ne succede un altro, nel senso che un secondo evento incomincia ad apparire quando il primo non appare più […]. Ma che ciò, che più non appare, non sia nemmeno più, questo l’apparire non lo rivela.92
Fenomenologia e logica non si scontrano: l’essere non può non essere, così come l’evidenza tace a proposito della nullificazione propria del divenire. Se in La struttura originaria e addirittura in Ritornare a Parmenide la verità del divenire si palesava in qualità di soluzione dell’aporia, a partire dal Poscritto l’esistenza stessa di una tale aporia è negata: il divenire è, ab origine, processo di manifestazione degli eterni, così non necessitando d’integrazione alcuna. Prendendo in presti92. E. Severino, Ritornare a Parmenide. Poscritto, cit., p. 81.
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to il lessico dagli scritti successivi a quelli sinora analizzati: il divenire è l’oltrepassare. Vediamo ora di trarre qualche implicazione a proposito della nozione di contraddizione C, che rispetto a questo plesso problematico subisce una corrispettiva risemantizzazione. Complice l’analisi sin qui condotta de La struttura originaria, e soprattutto pensando all’oltrepassamento dell’esperienza mostrato nel capitolo XIII, a emergere è anzitutto la differenza sussistente tra divenire e immutabile. E tuttavia, una volta emendata la comprensione del divenire dal nichilismo ancora presente nel testo del 1958, come scrive Dal Sasso, «sarà visibile l’identità sottesa alla differenza e l’aporetica del divenire potrà esser tolta dalla verità stessa»93. I due momenti della differenza ontologica vengono quindi sempre più ad avvicinarsi, senza che tuttavia tale avvicinamento implichi una loro piena identificazione. Quel che appare, è l’essere in quanto astrattamente manifesto, l’essere stesso che custodisce l’ascosità nell’atto medesimo in cui si rivela. Se gettiamo uno sguardo sugli sviluppi di questo plesso concettuale, potremmo dire di aver or ora compiuto il passo d’entrata in quella torsione “immanentistica” – espressione da assumere cum grano salis94 – che condurrà il metamorfico concreto a deporre la maschera del Dio creatore indossata in La struttura originaria, per assumere quella del Tutto assolutamente assoluto che noi siamo astrattamente e inconsciamente95. Se occorre rilevare che i tratti del concreto vengono a mutare, altrettanto vero è che a livello teoretico esso (il fondamento assoluto, la totalità simpliciter dell’essere) permarrà inscalfito ad alimentare
93. A. Dal Sasso, Dal divenire all’oltrepassare, cit., p. 77. 94. Il discorso severiniano, infatti, respinge qualsiasi facile assimilazione alla classica opposizione tra trascendenza e immanenza. 95. In merito, cfr. A. Dal Sasso, La ferita del fondamento, cit., pp. 77-79.
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la tensione dell’arco dialettico: «l’“originarietà” del differire dell’essere e il significato del processo dialettico restano tali in entrambe le circostanze. La funzione del concreto (prima Dio, poi “semplicemente” il Tutto) […] non sarà mai messa in questione»96. Riassumendo: se in La struttura originaria l’aporia del divenire richiedeva la posizione di una trascendenza rispetto al piano diveniente dell’esperienza, a partire da Poscritto, l’originario toglimento dell’aporia del divenire rende impossibile ripensare al rapporto fra parte e totalità in quegli stessi termini. Riconfigurando la questione nei ruoli propri della dialettica concretoastratto: se la parte è l’astratto e il tutto il concreto, all’altezza del Poscritto «l’apparire della parte senza l’apparire del tutto è una comprensione o manifestazione astratta dell’astratto, e cioè un non vedere l’astratto così come esso è»97. Concretamente concepito, il divenire è apparire e scomparire degli eterni, rispecchiamento astratto dell’essere nella sua pienezza. Occorre prestare particolare attenzione al “timbro” che la dicitura severiniana intreccia tanto all’esserci dell’astratto quanto alla sua contraddittorietà. È nella stessa pagina, infatti, che si legge come questo differire dell’astratto dalla propria verità sia pensabile come una sorta di “mancamento”, un apparire della parte che, isolata dall’essere, risulta per ciò stesso “av-
96. Ivi, p. 78. 97. E. Severino, Ritornare a Parmenide. Poscritto, cit., p. 102. Cfr. pure ivi, pp. 104-105: «Tutto ciò che appare (e dunque anche lo stesso apparire) differisce pertanto dall’essere: ma nel senso che ciò che appare è l’essere stesso in quanto astrattamente manifesto, ossia è l’essere stesso nel suo nascondersi nell’atto in cui si rivela […] ciò che appare è l’essere. Eppure ciò che appare differisce dall’essere: appunto perché l’essere, apparendo, non si rivela in tutta la sua pienezza. La differenza ontologica è così la differenza tra l’essere e l’esserci, ossia tra l’essere in quanto tale e l’essere in quanto astrattamente manifesto».
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vizzita”. Pur essendosi ormai incamminata entro il graduale avvicinamento dei due lati della differenza ontologica, la contraddizione C appare qui assumere toni propri di una radicale finitezza, nonostante Severino attesti, sin da Ritornare a Parmenide, l’eternità di ogni essente, il più effimero incluso. La ferita dell’originario, pure in questa nuova veste, continua a contagiare ogni singolo essente: mancando dell’infinito, il finito permane nella propria differenza rispetto a sé, dimentico di un’identità che potrebbe darsi solamente con l’inaccessibile abbraccio della totalità. Da sottoscrivere, in questo senso, l’affermazione di Gennaro Sasso volta a restituire la profonda “disposizione religiosa” della filosofia severiniana: gli essenti «sono bensì per essere sempre e da sempre, ma, qui giù, in quello che Severino ha definito l’“inospitale” regione dell’apparire, appaiono con il volto sbiadito e, se si vuole, stravolto di ciò che non riesce a, e non può, esser pari al suo autentico se stesso»98. Fratello dello Iago dell’Otello di Shakespeare, ogni essente intona con lui il canto: «Io non sono quello che sono»99. Sul carattere di finitezza che consegue come corollario della contraddizione C torneremo in fase conclusiva del presente capitolo. Per ora va tenuta ferma la direzione della prospettiva severiniana, una volta messa in luce questa sorta di torsione immanentistica che si svilupperà sino a raggiungere gli ultimi testi. Visto che a tenere banco è precisamente la questione della contraddizione C, illumineremo solamente i tratti essenziali della sua evoluzione a partire dall’assetto presentato nel Poscritto. Destino della necessità, La Gloria e Oltrepassare rappresentano le stazioni decisive per il nostro itinerario.
98. G. Sasso, Il logo, la morte, Bibliopolis, Napoli 2010, p. 156. 99. W. Shakespeare, Otello, tr. it., con testo ingl. a fronte, a cura di C. Pagetti, Einaudi, Torino 2017, I, I, 64, p. 13.
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10. Destino della necessità, La Gloria e Oltrepassare: l’evoluzione della contraddizione C Destino della necessità (1980) è stato definito da più parti come il vero e proprio capolavoro della filosofia severiniana100. E ciò a ragion veduta, trattandosi di un’opera dall’importante spessore speculativo, nonché decisiva per lo stesso sviluppo dell’itinerario severiniano. “Destino” è la parola mediante cui Severino si riferirà, da ora in avanti, alla struttura originaria dell’essere. Il verbo latino Destino è costruito sulla radice sta, che esprime appunto il senso fondamentale dello “stare”. E nel significato del destinare la particella de non introduce l’idea della separazione (come ad esempio in decidere) o della mancanza (come ad esempio in deesse), ma ha il compito di rafforzare e di portare al massimo il senso indicato dal termine sta (come avviene in deamare, detonare, devincere, ecc.) indicando nel contempo che lo stare è in riferimento a un ambito sul quale lo stare sta.101
De-stino indica dunque l’originaria apertura dello stare, necessaria in quanto incontrovertibile, ossia in quanto, differentemente dall’episteme occidentale, mai cede alla propria negazione. Con le parole di Oltre il linguaggio: «Il de-stino è quello stare che l’epi-stéme onto-teologica ha invano tentato di essere. Il destino è il significato che sta»102. A ogni modo, potremmo muovere il primo passo in quest’arduo groviglio concettuale riprendendo una problematica già aperta nel primo capitolo del presente studio103. L’isolamento della terra, dicevamo, si dà, è un fatto: con l’evento dell’isolamento della terra si ha l’epifania del nichilismo che si trascina 100. Cfr., ad esempio, V. Vitiello, Severino/Hegel: un confronto, cit., p. 103. 101. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 131. 102. E. Severino, Oltre il linguaggio, cit., p. 217. 103. In merito, cfr. infra, cap. I, par. 8.
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lungo la sua storia. È un fatto che la terra sia stata isolata dal pur intrascendibile sfondo persintattico, è un fatto che alla verità siano state voltate le spalle, e che quindi la rete isolante sia stata gettata sull’essere. Incalza la domanda: perché è accaduto l’isolamento della terra? E ancora più a fondo: l’accadere si dispiega necessariamente così come accade, oppure potrebbe darsi altrimenti? È qui che si muove un ulteriore passo rispetto a quanto guadagnato in Essenza del nichilismo. Ne Il sentiero del Giorno, si chiedeva Severino: «Ma l’essere che appare e scompare è tutto destinato ad apparire e scomparire, oppure l’epifania dell’essere è la libertà dell’essere?»104. Riformulando la questione nei termini del rapporto fra sfondo persintattico e varianti105: le varianti seguono un destino necessario, entrando e congedandosi dall’apparire, oppure appaiono ma sarebbero potute non apparire, e scompaiono, ma sarebbero potute non scomparire? Il III capitolo di Destino della necessità è una diretta risposta a questo problema, risposta intuibile già dall’eloquente titolo dell’opera. Affermare che qualcosa sarebbe potuto accadere diversamente da come, di fatto, è accaduto, è persuasione contraddittoria, in quanto affibbia l’esser possibile a quanto non appare. Libertà e contingenza «si presentano immediatamente come appartenenti all’alienazione del senso dell’essere»106, poiché l’apparire tace quanto alle sorti di ciò che gli sfugge. Tutto quel che accade, accade necessariamente, tutto è già da 104. E. Severino, Il sentiero del Giorno, in Id., Essenza del nichilismo, cit., pp. 145-193: p. 164. 105. Sfondo persintattico, come determinato in precedenza, è l’intramontabile insieme delle determinazioni della verità dell’essere; varianti, invece, sono gli essenti che entrano ed escono dallo sfondo. 106. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 92. Non è nostro obiettivo sviluppare esaustivamente la dimostrazione condotta da Severino, per la quale si rimanda direttamente al testo.
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sempre. All’altezza del capitolo IV, Severino riprende il nesso di implicazione necessaria che allaccia parte e totalità: ogni forma di contingenza dell’accadere è negata. Poiché tutti gli enti sono eterni, ognuno di essi non sta semplicemente insieme agli altri, ma è un loro inevitabile compagno. È cioè impossibile che un qualsiasi ente sia, senza che un qualsiasi altro ente sia […]. L’impossibilità che un qualsiasi ente sia, senza che un qualsiasi altro ente sia, è il legame necessario che unisce ogni parte al Tutto e ad ogni altra parte […]. L’essere in eterna compagnia di tutti gli altri enti appartiene all’essenza di ogni ente.107
Ma la legge del destino non corrisponde alla violenza di una soffocante necessità. Essa si allontana, come scrive Dal Sasso, dall’immagine di una gabbia che predetermina il senso degli enti che dal nulla emergono, ma è piuttosto «il cuore stesso di ogni ente, il luogo ove esso si mostra per quello che è, come è»108. Messo in luce cursoriamente il guadagno essenziale di Destino della necessità quanto alla natura necessaria dell’accadere, concentriamoci ora nuovamente sul tema della contraddizione C spostandoci nel capitolo XVI. Se con Il sentiero del Giorno è stato posto il problema del rapporto tra sfondo e varianti, va ricordato come tale plesso problematico sia tutto interno a quel che Severino chiama “apparire finito”, definibile come intreccio di sfondo e contenuto uscente ed entrante da esso ospitato. Cerchio finito dell’apparire è connessione di terra e destino. È in esso, nel cerchio finito, che appare il necessario evento dell’isolamento della terra dal destino. Come visto nel primo capitolo, l’isolamento della terra rimanda alla contraddizione normale, differente dalla contraddizione C: quest’ultima si dà
107. Ivi, p. 114. 108. A. Dal Sasso, Dal divenire all’oltrepassare, cit., p. 144.
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in quanto, come contenuto nel cerchio finito, il destino differisce da sé poiché isolato dalla totalità concreta. Apparire infinito, al contrario, è il luogo eminente dell’incontraddittorietà, il massimamente concreto che istanzia l’oltrepassamento già da sempre compiuto della contraddizione C. Lo sforzo di Severino è quello di non concepire finito e infinito secondo un’astratta contrapposizione, proprio in quanto il secondo è la concretezza, originaria verità del primo e toglimento della contraddizione. Apparire finito è la parte, apparire infinito è il tutto. Il tutto è la verità più profonda del questo nella sua questità: Il Tutto è l’esser sé stesso di ogni parte. In quanto ogni parte è sé stessa – nel senso compiuto dell’esser sé stesso – ogni parte è lo stesso, ossia è il Tutto come luogo che comprende ogni parte […]. La parte non è il Tutto, nel senso che l’esser sé nell’errore non è l’esser sé nella verità; la parte è il Tutto, nel senso che il Tutto è l’esser veramente sé della parte. Ogni parte è errore – contraddizione – in quanto è un apparire finito del Tutto: un apparire in cui il Tutto appare solo formalmente come Tutto, ma non nella concretezza delle sue determinazioni. Il cerchio eterno dell’apparire del destino della verità, in quanto cerchio finito, è l’errore che appare a sé come errore, cioè come l’errare che si addice a ciò in cui non appare il suo essere il Tutto pieno e concreto dell’ente, l’infinito illuminarsi del Tutto. Il Tutto è l’oltrepassamento del contraddirsi di questo che appare, di questo apparire, di questa estrema vicinanza che è il cerchio dell’apparire del destino – il cerchio che è il metro di ogni esser vicino e lontano. È questo che appare, che è sé stesso nel suo essere il Tutto. Oltrepassando il contraddirsi di questo che appare, il Tutto è l’esser sé stesso del questo.109
E tuttavia, così come abbiamo visto ne La struttura originaria, l’infinito non appare nel finito concretamente, ma in maniera unicamente astratta e formale. L’infinito è l’inconscio del fini109. E. Severino, Destino della necessità, cit., pp. 590-591.
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to, ombra che perennemente s’intreccia alla parziale luminosità del destino. Gioia è il nome che Severino assegna a tale inconscio: «Come oltrepassamento della totalità della contraddizione del finito, la Gioia è l’inconscio più profondo del mortale»110. Dandosi nella caligine costitutiva del cerchio finito, la parte differisce dalla sua verità propria dell’abbraccio della Gioia, suo inconscio più profondo. Di più: nello stesso finito è possibile distinguere ulteriormente tra dimensione immutabile e flusso diveniente, sfondo e varianti, destino e terra. La parte differisce da se stessa in quanto isolata dall’intero, e se questa parte contraddittoria – la componente diveniente, la terra – viene ancora isolata dallo sfondo del destino, ne consegue un ulteriore inabissamento della sua verità. Altro è infatti l’essente in quanto connesso allo sfondo, altro l’essente isolato dallo sfondo. È questa ulteriore separatezza a istituire – secondo una dicitura più strettamente logica – quel concetto astratto dell’astratto sul quale ci siamo diffusamente soffermati nel primo capitolo di questo lavoro, ravvedendovi l’indissolubile sintesi di nihil absolutum e positivo significare. L’isolamento della terra si dà, storia del nichilismo è il suo perpetuarsi. Quel che resta da chiederci è se tale perpetuarsi abbia un termine o meno. La contraddizione costituita dall’isolamento della terra è destinata o meno al tramonto? Da questo assetto problematico e queste domande prende le mosse La Gloria. Sulla scia di La struttura originaria, pure Destino della necessità, altro volume che prima facie si presenta come un inscalfibi-
110. Ivi, p. 595. Cfr. pure ivi, p. 429: «Il significato autentico e originario dell’“inconscio”, del “profondo”, del latente, è l’apparire infinito del Tutto in quanto esso rimane, al di fuori del cerchio dell’apparire, nell’ombra del non apparire». In merito alla questione dell’inconscio nella filosofia severiniana, rimandiamo al recente G. Pulli, Inconscio del pensiero, inconscio del linguaggio. A partire dall’opera di Emanuele Severino, Mimesis, Milano- Udine 2022.
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le blocco granitico, culmina con la spaesante postura filosofica del domandare: Ma quale sentiero la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata a percorrere? È destinata alla solitudine o all’oltrepassamento della solitudine? E queste domande esprimono il limite del linguaggio mortale che incomincia a testimoniare il destino, o il limite del destino che, abitando il cerchio finito dell’apparire, lascia nel proprio inconscio il riconoscimento del sentiero che la terra è destinata a percorrere?111
Di qui il testimone passa a La Gloria, ove viene in luce il cammino che la terra è destinata a percorrere, per anticipare: destino della terra è l’oltrepassamento della sua solitudine, del proprio isolamento. Le domande conclusive di Destino della necessità sono quindi il lascito, il segno della limitatezza del linguaggio di chi testimonia il destino: Gloria è l’infinito dispiegarsi della terra all’indomani dell’oltrepassamento dell’isolamento. Prima di vedere, in estrema sintesi, come Severino renda ragione della necessità della Gloria mostrando l’impossibilità di un oltrepassante inoltrepassabile, facciamo un passo indietro. La domanda a fastigio di Destino della necessità risemantizza, a suo modo, quella con cui si conclude La struttura originaria. Essa consisteva, come abbiamo visto, nella posizione del compito originario in quanto assegnato all’agire umano. E tuttavia, se invece in Destino della necessità è emersa la contraddittorietà di contingenza e libertà, viene insieme a cadere l’idea per cui il toglimento della contraddizione possa consistere nell’agire umano. L’incessante e perpetua processualità della Gloria, infatti, assumerà caratteri estremamente differenti. A ogni modo, decisivo per il vero e proprio passo innanzi speculativo è il capitolo III di La Gloria, in cui per l’appunto si 111. E. Severino, Destino della necessità, cit., p. 597.
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rende ragione della necessità della Gloria in quanto impossibilità di un oltrepassante inoltrepassabile. In questo capitolo, Severino riprende il plesso sussistente nel rapporto fra sfondo persintattico ed essenti che in esso sopraggiungono. Impossibile è che si dia un sopraggiungente ultimo, inoltrepassabile da altre determinazioni eterne. Lo sfondo persintattico, dicevamo, costituisce l’insieme delle costanti che qualsiasi essente chiama in causa. I legami necessari sono tali in quanto né cominciano né finiscono, ma sussistono già da sempre, eterni e inconcussi. Un sopraggiungente inoltrepassabile comincerebbe ad appartenere allo sfondo in quanto sfondo, ossia all’insieme di quelle determinazioni necessariamente implicate da ogni essente. Ma per l’appunto, è contraddittorio che un nesso necessario cominci a sussistere come tale: non si dà quindi possibilità di un oltrepassante inoltrepassabile. Se un nesso è necessario in quanto né sorge né tramonta, ma sta mai cedendo alla propria negazione, allora è impossibile che un sopraggiungente venga ad appartenere allo sfondo. E se questo è impossibile, ogni sopraggiungente verrà allora oltrepassato da un altro essente, all’infinito. Sancita l’impossibilità di un inoltrepassabile sopraggiungente, il destino della terra è quello della Gloria: sopraggiunto l’isolamento della terra, è infatti necessario che anch’esso sia oltrepassato. Ogni stato della terra, inclusi tutti quelli che abitano il nichilismo, è destinato al tramonto. Ogni stato della terra è in sé condensazione del duplice destino dell’oltrepassante-oltrepassato: sopraggiunge ed è sopraggiunto, sorge e tramonta. Non v’è fine di tutte le cose, «da questo punto di vista, l’éschaton è sempre differito, non vi è mai compimento e fine, intesa come arresto, ma un infinito inoltrarsi e incedere della Gloria»112. Eccoci raggiungere la visione autentica della temporalità, cui abbiamo mosso richiamo sin dall’Introduzione a La struttura originaria: «Il dispiegamento infinito della terra è 112. G. Gris, L’escatologia del destino, cit., p. 218.
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l’essenza autentica del “tempo”. Il tempo non divora i suoi figli, ma li conserva in eterno nel loro essere e – da ultimo e oltre gli oblii – nel loro apparire»113. Con l’Occidente, oltre l’Occidente: il tempo è negato e conservato secondo la polisemia peculiare dell’Aufhebung. Negato è il tempo del nichilismo, divoratore dei propri figli; conservata è la temporalità in quanto infinito dispiegamento della terra, oltre ogni isolamento e stato definitivo. Il tempo è Gloria: anziché inghiottire ciò che oltrepassa lo custodisce in sé, in carne e ossa. Ad agire sotto banco è un’altra tematica centrale nella filosofia severiniana, ossia quella dell’autentica comprensione del passato. Nel capitolo VI di Destino della necessità, il filosofo bresciano mostra come nel passare dell’essente nulla si perda di ciò che lo rendeva tale in carne e ossa114. E tale concezione trasla direttamente in La Gloria: «Tutto ciò che incomincia ad apparire è destinato ad essere definitivamente conservato nell’apparire – ed è conservato non come semplice “rappresentazione” o “idea”, ma “in carne ed ossa”, esso stesso, nella sua totale concretezza»115. Se l’isolamento della terra è destinato al tramonto, nulla di esso viene però perduto, nulla della sua contraddittorietà, né del dolore perpetuatosi nel decorso della storia del nichilismo116. Il punto è importante, e restituisce l’idea di una filosofia meno pacifica di quanto le sue letture più superficiali non lascino pensare. Nella salvezza della terra, ossia
113. E. Severino, La Gloria, cit., pp. 130-131. 114. Cfr. E. Severino, Destino della necessità, cit., pp. 173-211. In polemica con la concezione severiniana del passato, cfr. M. Donà, Il tempo della verità, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 261-290. 115. E. Severino, La Gloria, cit., p. 142. 116. Cfr. ivi, p. 78: «nell’oltrepassamento concreto e compiuto della contraddizione, del dolore e dell’angoscia non appare soltanto la loro “rappresentazione” o la loro “idea”, ma la contraddizione, il dolore e l’angoscia in carne ed ossa».
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all’indomani del tramonto della storia del nichilismo, non solo l’assiso sul trono rammenta il calvario, ma financo lo patisce, lo patisce in carne e ossa senza nulla perdere della gravosità che gli compete. Il calvario è presente in tutta la drammaticità della sua esperienza all’assiso. La salvezza di Severino eterna ogni esperienza, conservandola imperturbata. Se di Paradiso si tratta, è Paradiso che custodisce in sé le tenebre infernali con tutte le sue pene. Neppure una goccia di sangue è perduta, neppure un sospiro addolorato. Giungendo, al suo apice, ad accertare la nullità dell’angoscia per la morte, in quanto questa ha per contenuto l’impossibile caduta nel nulla delle nostre esistenze, la filosofia severiniana ha però del tragico al suo interno, ne è anzi l’eternizzazione, perpetuazione del tragico, dell’inferno, della contraddizione e del dolore in quanto tali. Nulla viene perduto, e non c’è nemmeno alcunché da salvare: tutto è già da sempre salvo dalla rapina del nulla117. Il λόγος severiniano deve incielare tutto e tutti. Nel capitolo V di La Gloria, Severino adopererà il medesimo teorema per mostrare la necessità di un’infinita costellazione dei cerchi finiti dell’apparire del destino. Più semplicemente: nel porre un’infinita costellazione di cerchi, il problema cui lo sguardo del destino mira è quello dell’intersoggettività118. Detto questo, concentriamoci ora sul vero e proprio tratto distintivo di quest’opera, ossia l’evento del tramonto dell’isola-
117. Evocando, con la finalità di distanziarsene, una famosa espressione di Heidegger, scrive Severino: «Nessun Dio ci può salvare. I Salvatori salvano dal nulla. Gli essenti – gli eterni – non hanno bisogno di essere salvati. Al di fuori della fede nel divenire e del senso alienato della salvezza, la “salvezza” è il tramonto della follia del divenire e dei Salvatori» (E. Severino, La buona fede, Rizzoli, Milano 2008, p. 133). 118. La struttura formale dell’argomentazione è la medesima di quella esposta nei precedenti capoversi, per cui rimandiamo direttamente al capitolo V de La Gloria per ulteriori approfondimenti.
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mento della terra119. Adoperando un lessico del tutto peculiare, la testimonianza del destino in queste circostanze sveste i panni della semplice parola per appropinquarsi a quelli dell’immagine con lineamenti teologici: “venerdì santo” è il tremendum, convegno in ogni cerchio dell’insieme delle determinazioni della terra isolata che concentra in sé piacere e dolore; “pasqua” è l’aspetto per cui l’isolamento viene lasciato alle spalle, di modo che si dia incontrastata epifania della terra che salva. Ogni cerchio è destinato ad accogliere, in un unico evento, l’intero bagaglio di piacere e dolore della terra isolata, immenso bagliore in cui insieme tramonta l’isolamento della terra e appare la pasqua, dispiegamento ormai limpido della Gloria della Gioia. Insieme: flebile l’istante del venerdì santo, ché suo parto è invero la sua morte, rectius: il suo inveramento, nella pasqua: È dunque necessario che il tremendum del “venerdì santo” della solitudine della terra […] appaia in ogni cerchio finito del destino nell’evento stesso in cui in ogni cerchio l’isolamento della terra tramonta, e pertanto tramontano il mortale e la morte.120
Dal tramonto, una nuova terra: la terra che salva. Infinito dispiegamento che accoglie, via via, dimensioni sempre più am-
119. Il tramonto dell’isolamento della terra porta con sé il tramonto di tutte le particolari contraddizioni che ne sono scaturite. Per citare solamente quelle cui in precedenza abbiamo fatto riferimento: la persuasione di esser padroni del divenire altro delle cose, la volontà interpretante, così come la stessa volontà alla base del linguaggio. Con tale tramonto, infatti, tramonta anche il linguaggio, financo la volontà di testimoniare il destino: pretendendo di assegnare la parola alla cosa, essa è contagiata dal nichilismo. In merito, cfr. E. Severino, La Gloria, cit., p. 397: «Il tramonto della solitudine della terra è anche il tramonto della volontà di testimoniare il destino, con la quale inizia il sentiero del Giorno – e dunque anche di ogni altra testimonianza del destino, come quella che queste pagine, e le precedenti, tentano di essere». 120. Ivi, p. 548.
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pie dell’eterno, e che per nulla lascia cadere nell’oblio il suo passato, cui al contrario dona compimento e perfezione (perfectum) nella sua eterna quanto gelosa custodia. All’indomani del tramonto, l’ora del vespro è delle più luminose: la Gioia si concede e apre sempre più limpidamente. Guai tuttavia a pensare di emendare la contraddittorietà propria di ogni essente: il finito permane nella sua contraddittorietà, sua verità essendo custodita nell’imperscrutabile apparire infinito: «il non contraddicentesi esser sé del finito»121. La processualità assume il volto dell’incessante dispiegarsi della Gloria della terra, infinito accrescimento della costellazione dei cerchi del destino. Quasi ai vertici della torsione immanentistica della filosofia severiniana, persiste tuttavia immutata la differenza tra finito e infinito, astratto e concreto, poiché altrimenti, laddove l’intero sopraggiungesse, «quell’essente che è il cerchio finito del destino resterebbe annientato dal sopraggiungere dell’apparire infinito»122. All’indomani dell’evento che in sé coagula tremendum del venerdì santo e immenso bagliore della pasqua, l’essente s’incammina verso un’incessante ricerca di quella totalità che, per altro verso, è già da sempre. È in quest’inguaribile ferita dell’originario, solco della sua autentica temporalità, che possiamo vedere una contraddizione del finito, scrive Dal Sasso, «che ne è la stessa vita, lo stesso motore dialettico, la fonte del proprio arricchirsi»123. Gloria è il processuale quanto incessante toglimento della contraddizione C, graduale concretarsi di un astratto destinato a condurre la sua vita al ritmo di un eterno sforzo di avvicinamento a sé. Evidente ancora una volta la concordia discors con lo Streben fichtiano. Con le parole di Severino:
121. Ivi, p. 563. 122. Ivi, p. 83. 123. A. Dal Sasso, Dal divenire all’oltrepassare, cit., p. 200.
148 Come apparire incontrovertibile dell’essente, il destino è il destino della totalità dell’essente. In quanto apparire della totalità e dell’eternità dell’essente, esso è l’apparire della necessità che in esso stesso non appaia l’infinita e concreta determinatezza della totalità dell’essente: il cerchio dell’apparire del destino è l’apparire della necessità della propria finitezza. Ciò significa che esso è l’apparire della forma della concreta e infinita determinatezza del Tutto; sì che tutto ciò che si voglia pensare come separato da tale forma – come un ‘in sé’ che possa costituirsi indipendentemente da essa – è nulla. In quanto è l’apparire della forma della totalità infinita, la necessità del destino è la necessità di ogni contenuto di tale forma.124
Continuando a celarsi, il concreto apre una processualità destinata a un’originaria quanto ineliminabile irrequietezza. Ulteriore tassello nella testimonianza della tensione sussistente tra finito e infinito è aggiunto da Oltrepassare, ultima stazione del nostro affondo entro l’itinerario speculativo di Severino. Tante le tematiche trattate in questo importante scritto, e tuttavia decidiamo di far riferimento unicamente a quanto utile per portare a fondo la nostra analisi dell’evoluzione della contraddizione C. In Oltrepassare, infatti, il volto della Gioia che si manifesta è sempre più vicino alla concretezza dell’intero: ad apparire, nel finito, è concretamente l’intero. Ciò non elimina tuttavia la differenza che scinde finito e infinito, ma piuttosto viene a battere l’accento su come il tutto assolutamente concreto, manifestandosi nel finito, renda quest’ultimo partecipe dell’«apparire dell’infinita ricchezza del Tutto»125. Che il Tutto, ora detto «assolutamente assoluto»126, si dia concretamente nella costellazione dei cerchi finiti del destino, non corrisponde quindi all’eliminazione dell’inoltrepassabile Gloria, infinito 124. E. Severino, La Gloria, cit., p. 27. 125. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 541. 126. Ivi, p. 538.
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sopraggiungimento di eterni. La contraddizione C permane, «ma permane come apertura, da parte del sopraggiunto Tutto infinitamente concreto che appare come tale, all’infinito crescente apparire della propria concretezza»127. Tramontato l’isolamento della terra, il volto concreto che la Gioia mostra di sé nel finito è un incessante crescendo: ancora formale rispetto al Tutto assolutamente assoluto, la Gloria della Gioia è tuttavia «infinito dispiegamento di luci infinite»128. Il finito è l’Infinito, ma essendolo finitamente non restituisce pienamente l’assolutamente assoluto. Ritorna, in veste trasmutata, la distinzione fra posizione formale e concreta della totalità. La differenza fra dispiegamento della Gloria e assolutamente assoluto è la sfasatura indice dell’eccedenza dell’infinito rispetto al finito. È forse proprio questa sovrabbondanza dell’infinito rispetto al finito a testimoniare della vitalità dell’eterno. Eterno che non è, ma sempre ancora da essere: il finito può esser quel che è solo in connessione a quel Tutto assolutamente assoluto che, a ben vedere, è necessario che non appaia. Incessante crescendo, appunto.
11. Severino e la differenza: dal creatore all’assolutamente assoluto Concluso l’itinerario che da La struttura originaria ci ha condotti sino a Oltrepassare, possiamo finalmente tirare le somme 127. Ivi, p. 558. Cfr. A. Dal Sasso, Dal divenire all’oltrepassare, cit., p. 219: «Per la prima volta, assistiamo all’affermazione per cui il tutto sarebbe destinato a manifestarsi nella sua concretezza. Certo, s’è visto, si allude ad una concretezza che non s’identifica simpliciter con la concretezza assolutamente assoluta dell’inesauribile ricchezza concreta dell’apparire del tutto infinito». 128. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 563.
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a proposito della tensione che tra finito e infinito si consuma nella filosofia severiniana. Lo faremo raccogliendo inoltre le varie istanze critiche che, via via, abbiamo sollevato contra la filosofia di Severino, sì da poterle rivolgere, questa volta, al suo assetto nella compiutezza più matura. In certo senso, proprio una di queste istanze critiche ha dato i natali alla nostra incursione nel tracciato severiniano: posta l’esteriorità del concreto rispetto all’astratto, del contenuto alla forma, questa pareva una presupposizione impossibile da tenere ferma in sede logica. Come abbiamo mostrato, ciò ha condotto ad approfondire l’introduzione della differenza fra orizzonte fenomenologico e intero immutabile al fine di sanare l’aporetica del divenire. Giunti sino a Oltrepassare, possiamo affermare come, mutatis mutandis, tale differenza fra astratto e concreto, finito e infinito permanga costante. Certo, è presente una virata immanentistica che dal Dio creatore di La struttura originaria conduce, in ultima istanza, al Tutto assolutamente assoluto. Severino si è spinto sino a pareggiare il finito alla manifestazione concreta dell’Infinito, seppur di una concretezza ancora differente da quella propria della Gioia che pure, inconsciamente, lo stesso finito è. Per questo, appunto, la differenza è costante: molto più sottile di quella ipostaticometafisica che si poneva fra creatore e creatura, la differenza permane a evitare la contraddittoria identificazione di finito e infinito. E come abbiamo visto, differenza per Severino è invero sintomo di processo: preservando l’eccedenza del concreto rispetto alla sua esposizione nell’astratto, la funzione della totalità permane ad alimentare la tensione propria della processualità dialettica. Il processo non avrà mai un termine: nessun risultato definitivo, nessun eschaton. Giunti a questo punto, possiamo tornare a riflettere sullo statuto, sulla condizione dell’essente così per come questo si qualifica e configura entro lo sguardo dell’apparire finito. In sintonia con il «mancamento» proprio della parte che si è presentato
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nelle pagine del Poscritto a Ritornare a Parmenide, tale sguardo risulta contaminato da un’originaria quanto sintomatica finitezza. Rispetto al concreto, fondamento assoluto inclusivo di ogni essente, l’astratto è manchevole, differente da quel che è il suo volto più autentico. Non abbracciando la beata compagnia di tutte le cose, il finito accerta la propria lontananza dalla sua identità concreta, con-crescente assieme all’immensità di questo coro. Posta la questione della finitezza, è rilevante dire qualcosa in più sul timbro o tonalità da assegnarle. In questo senso, Gennaro Sasso sosteneva come a tenere banco nella filosofia severiniana fosse precisamente una disposizione religiosa129. Poco interessa alla nostra indagine evocare lo statuto della religiosità o meno di questo pensiero, ma piuttosto l’assetto che Sasso fa seguire all’ineliminabile sfasatura dell’essente rispetto a quel che è il suo più autentico volto. Concesso che gli essenti siano già da sempre sottratti alla rapina del nulla, quel che ci è in dote è tuttavia un volto sempre sbiadito e stravolto della cosa, immagine perturbata della sua inaccessibile identità. Pur essendo la Gloria, l’infinito pellegrinaggio del destino non è la Gioia. Nel solco di quest’ineliminabile differenza, l’offerta è manchevole: quel che ci appare è un volto che s’instrada in un infinito crescendo, interminabile sforzo che tenta di raggiungere la sua verità più profonda. Intonando il canto di Iago, il contenuto manifesto riconosce di non essere quel che è, invero facendo proprio un nostalgico sguardo indissolubilmente intrecciato a un intero entro cui, già da sempre, ogni essente gioisce della propria beata compagnia con tutti gli altri enti. Nuova otre, stesso vino: il plesso concettuale or ora cursoriamente esposto viene a intercettare la serie di istanze critiche che abbiamo rivolto a Severino sin da La struttura originaria. Quel che è in questione, infatti, è nientemeno che lo statuto
129. In merito, cfr. infra, cap. II, par. 9.
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della differenza fra totalità formale e concreta, riportando a questo livello più alto l’insieme degli interrogativi che già avevamo mosso. Che la contraddizione C potesse intrecciarsi a un simile timbro di finitezza è stato ampiamente (ed eterogeneamente) evidenziato dalla critica. Luigi Vero Tarca, ad esempio, scrive in Differenza e negazione: il positivo non può presentarsi se non come ciò che sta essenzialmente al di là di ciò che si dà; come qualcosa di ‘noumenico’ […] il discorso filosofico dice la Gioia ma rischia di dislocarla in un assoluto altrove rispetto a tutto ciò che appartiene all’esperienza che facciamo in questo nostro mondo.130
Il tutto assolutamente assoluto non appare nella sua concretezza, dislocandosi piuttosto in un irraggiungibile altrove rispetto a tutto quel che si offre nella nostra esperienza. L’incedere di Tarca va pure oltre, spingendosi sino al punto da rovesciare la Gioia in Inferno, proprio perché quella stessa testimonianza che ci pone innanzi al destino ne disloca la sua concretezza più autentica allontanandola dalle nostre vite. Capovolgendosi nel peggiore degli inferni, la testimonianza del destino accerta il darsi dell’Infinito: «ma non per me, non per noi, non qui ed ora»131. Esiste il Paradiso, ma pure l’abisso, ineliminabile, che da esso ci separa. Per sempre: del toglimento della contraddizione C non ci è concessa esperienza. Su questa linea si posiziona pure la lettura della differenza ontologica offerta da Massimo Donà, che tende a ravvedervi una riproposizione del rapporto tra fenomeno e noumeno in Kant. Se la verità nella sua più autentica concretezza non può apparire, è destino che a manifestarsi siano sempre gli essenti nella
130. L.V. Tarca, Differenza e negazione, cit., p. 477. 131. Ivi, p. 478.
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loro intrascendibile parzialità. Al finito è offerta una fotografia sfocata dell’autenticità più concreta, «sostanziale noumenicità del volto dell’essente»132. Di là dal rimando kantiano, quel che più conta per l’indagine qui condotta è l’idea di questo “debito” mutuato dal finito nei confronti dell’infinito. Per noi, qui e ora, quel che appare non è quel che è: all’infinito il finito consacra un’incessante ricerca di se stesso. Originaria la differenza, incommensurabile la distanza che scinde finito e suo più autentico volto. Non dissimili le criticità severiniane rilevate dall’indagine di Andrea Dal Sasso. La sua operazione consta di una pars destruens e di una pars construens: la prima, indirizzata a problematizzare la funzione giocata dal concreto come fondamento assoluto nella filosofia severiniana; la seconda, invece, all’individuazione dell’idea di una prassi che sfugga alle categorie del nichilismo. Per la nostra ricerca, è soprattutto il primo lato che 132. M. Donà, Identità e totalità, cit., p. 205. L’analogia fra differenza ontologica in Severino e rapporto fenomeno-cosa in sé in Kant meriterebbe, a nostro parere, di essere approfondita, soprattutto se posta in relazione alla definizione kantiana presente nell’Opus postumum. In merito, cfr. I. Kant, Opus postumum, tr. it. parz., a cura di V. Mathieu, Zanichelli, Bologna 1963, p. 285: «La differenza tra i concetti di una cosa in sé e di una cosa nel fenomeno non è oggettiva, ma semplicemente soggettiva. La cosa in sé (ens per se) non è un altro oggetto, bensì un’altra relazione (respectus) della rappresentazione allo stesso oggetto, per pensar quest’ultimo non analiticamente, ma sinteticamente, come il complesso (complexus) delle rappresentazioni intuitive in quanto fenomeno, cioè di tali rappresentazioni che contengono un fondamento di determinazione solo soggettivo delle rappresentazioni nell’unità dell’intuizione. L’ens rationis = x è la posizione di sé secondo il principio d’identità». Suggerita l’analogia, non manchiamo di riconoscerne il punctum dolens: totalità concreta severiniana e cosa in sé kantiana hanno, probabilmente, statuto ontologico del tutto differente; Severino, da par suo, potrebbe rivolgere una critica alla posizione kantiana analoga a quella rivolta alla differenza ontologica di Heidegger in Heidegger e la metafisica, riconoscendo come lo statuto peculiare della cosa in sé si pareggi al fenomeno nella misura in cui, per entrambi, vale il loro non essere il nihil negativum.
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assume uno spicco decisivo, rimandando pertanto alla letteratura critica in nota per la discussione della rivalutazione della prassi in senso non nichilistico133. Punctum dolens del pensiero severiniano sarebbe la funzione del concreto in quanto fondamento assoluto, intero oltre cui non v’è nulla che alimenta l’inesauribile tensione del processo dialettico. Così pensata, la totalità assume infatti le sembianze – quasi come un vero e proprio presupposto naturalistico – di un intero che, anticipando il sopraggiungimento di ogni essente, bollerebbe ogni evento col suo esser già da sempre stato, fotogramma di una pellicola già composta. E tuttavia, la totalità non si limita a rinfacciare al finito il suo esser già da sempre, ma invero sembra pure destinarlo a restare prigioniero di una strutturale infelicità. Già da sempre appartenendo al Paradiso della Gioia in compagnia di tutti gli altri enti, il finito è purtuttavia destinato a non poter mai stringer loro la mano134. E tuttavia l’indagine di Dal Sasso si spinge pure oltre, indagando la genesi speculativa della differenza ontologica in qualità di radice della condizione di strutturale infelicità del finito. A monte, ritroviamo l’aporia del divenire discussa nel XIII capitolo de La struttura originaria: è proprio in questa sede, infatti, che Severino guadagna l’alterità fra immutabile e di133. Oltre ai testi citati di Dal Sasso, rimandiamo pure a G. Brianese, Non ci sono poteri buoni: l’ontologia anarchica di Emanuele Severino, in «La filosofia futura», n. 3, 2014, pp. 9-32; Id., Per un’etica originaria, in G. Goggi I. Testoni (a cura di), All’alba dell’eternità. I primi 60 anni de La struttura originaria, Padova University Press, Padova 2018; F. Chiereghin, Il concetto di “prassi” in Severino: critica e riabilitazione, in A. Petterlini - G. Brianese - G. Goggi (a cura di), Le parole dell’essere. Per Emanuele Severino, Mondadori, Milano 2005, pp. 131-138. 134. Cfr. A. Dal Sasso, La ferita del fondamento, cit., pp. 69-95. Più estesamente, cfr. Id., Creatio ex nihilo. Le origini del pensiero di Emanuele Severino tra attualismo e metafisica, pref. di E. Severino, intr. di G. Brianese, postfaz. di L. Messinese, Mimesis, Milano-Udine 2015.
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veniente, mai abbandonata nella sua pur metamorfica guisa. Guadagnata la detta alterità, il concreto è consegnato a una dimensione destinata ad apparire solo astrattamente, “altrove” cui siamo destinati senza peraltro poterlo mai abbracciare nella sua costitutiva pienezza. Questa la radice che soffoca la libertà dell’astratto, anticipato in un concreto già da sempre compiuto: fotogramma e pellicola. È sempre Severino, però, a rilevare la contaminazione nichilista di quest’aporia: non si dà aporia del divenire, contra-dictio fra referto logico e fenomenologico, poiché quest’ultimo né in cielo né in terra attesta un divenire nichilisticamente inteso. È solo interpretazione, pura illusione. Ma allora, incede Dal Sasso, apparente l’aporia, apparente pure la necessità della sua soluzione, ossia dell’alterità che biforca divenire e immutabile: trascinata dalla maschera del Dio creatore a quella più terrena della Gioia che noi inconsciamente siamo, a esser posta intimamente in questione è la medesima funzione del concreto o del fondamento assoluto. Questa la pars destruens: ancora una volta, il dito viene puntato contro gli esiti della dialettica tesa tra astratto e concreto, così per come la medesima si apre alla luce della contraddizione C. La ferita del finito, è nientemeno che il residuo di una paradossale traccia nichilistica lasciata nella stessa testimonianza del destino. Riassumendo: se non di dà aporia del divenire, non si dà necessità dell’oltrepassamento dell’esperienza. L’esperienza non va quindi concepita secondo una strutturale inadeguatezza rispetto al suo oltrepassamento già da sempre compiuto: nessuna biforcazione dei piani, nessuna manchevolezza del finito quanto a un infinito già da sempre compiuto. Così, l’esperienza è pertanto liberata dallo scacco di quella differenza che piega gli enti all’assolutamente assoluto. Portata avanti la nostra incursione nella letteratura critica, l’ipotesi circa una strutturale finitezza dell’esperienza entro la filosofia severiniana appare suffragata, ove più ove meno. Prima di sollevare ulteriori questioni in sede di conclusione del pre-
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sente capitolo, occorre tuttavia muovere un passo indietro per tornare alla dichiarazione d’intenti con cui abbiamo dato i natali a quest’indagine circa la contraddizione C. Se infatti ci siamo così diffusamente soffermati sul tema, facendoci carico dei suoi sviluppi sin da La struttura originaria, era forti della convinzione che proprio questa “ferita dell’originario” potesse restituire vitalità e dinamicità a una filosofia che, incentrata su concetti come quelli dell’“essere”, dell’“eterno” e dell’“immutabile”, rischiava di lasciare in eredità al lettore un timbro monocromatico che al contrario non le appartiene. Crediamo di aver dimostrato come affibbiare tali letture alla filosofia severiniana sia del tutto superficiale: l’eterno vive, mostrandoci come lo sforzo del pensatore bresciano sia proprio quello di non separare astrattamente essere e divenire, e che la vita sia sempre e solamente vita dell’eterno. E tuttavia, a nostro parere, un problema permane: se il tutto assolutamente assoluto è l’anticipatore del sopraggiungente, che di ogni novum sancisce l’illusorietà rinfacciandogli il suo esser già da sempre, la vita non viene a sfumare così come una flebile parvenza? Riprendendo in mano la metafora cinematografica: il contenuto proiettato sullo schermo – id est: il sopraggiungente – non è forse fotogramma di una bobina già data nella sua interezza, a sé identica nella sua imperturbabile quanto costitutiva immutabilità? È lo statuto della totalità concreta in Severino ad accertare l’illusorietà del novum in quanto tale, bollandolo, peraltro, di una finitezza inemendabile e costitutiva. Ogni essente riconosce l’abisso incolmabile che lo separa dalla sua inconscia verità, oltrepassamento concreto di ogni contraddizione: vero volto del finito è altro da quello cui gli è concesso assistere, esperire e vivere. Quel che resterebbe allora da pensare, per riscattare il finito da questa pur presente deficienza ontologica, è proprio lo statuto della totalità concreta severiniana, fondamento assoluto rispetto a cui infinitamente tende il finito per raggiungere la sua
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autenticità. Potremmo pensare di “debordare” quegli «estremi confini del Tutto»135 a salvarne, da un lato l’infinitudine, dall’altro lo statuto del finito e dell’essente così per come ci appare136. Di conseguenza, la contraddizione C verrebbe a manifestare l’infinito e incessante differenziarsi dell’identico nel diverso, dell’indeterminato nel determinato, dell’infinito nel finito, senza che tuttavia tale processualità possa misurarsi rispetto a una totalità concreta che, in qualità di oltrepassamento già da sempre compiuto della contraddizione, verrebbe a costituire l’impossibile terminus ad quem da approssimare. Evitando di pensare all’infinito come all’assolutamente concreta totalità, è possibile salvaguardare in uno l’infinitudine dell’infinito e riscattare l’essente dalla sua anticipazione nonché dalla sua intrascendibile finitezza. Non si tratta allora di giungere all’infinito compiendo misteriosi tuffi nell’ineffabile, né tuttavia di pensarlo a mo’ di una totalità concreta già da sempre compiuta e dispiegata, ma piuttosto di afferrare nel manifesto e come manifesto l’infinito stesso, che mai essendo altro dal determinato tuttavia lo nega sancendone oltrepassamento e vitalità immanente. Come scrive Valagussa: Non tutto può esser detto, non nel senso che qualcosa si dia a prescindere dalla forma del logos, bensì che qualcosa proprio rimanendo indeterminato sollecita di continuo nuovi tentativi di “dicitura” che provano a dire l’indeterminato in altro, dicendolo. E questa dicitura ricompare in ogni grande gesto
135. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 74. 136. Per certi versi, mi pare che sia possibile individuare un’analogia con quanto proposto in un recente saggio da Vincenzo Vitiello, quando propone «un più rigoroso rispetto, richiesto dallo stesso concetto del Tutto concreto, definito da Severino l’“inconscio del mortale”. Inconscio: ciò che è al di là della coscienza, che è propria dei cerchi finiti dell’Infinito, non è riducibile all’Identità dell’“è” che de-finisce l’essere della conoscenza» (V. Vitiello, Emanuele Severino, un grande Maestro, in «Il Pensiero», LIX, n. 1, 2020, pp. 249-255).
158 filosofico. Chi volesse eliminare tale differirsi dell’identico nel diverso penserebbe sempre troppo corto.137
Oltre il λόγος: nulla. E tuttavia, proprio in esso si dà il non detto, l’in-determinato che, a testimonianza della propria infinitudine, purtuttavia mai si esaurisce nelle determinatezze che provano a dirlo, sollecitandosi ad infinitum nei nuovi tentativi di dicitura, senza peraltro che sia necessario imprigionarsi in misteriosi eremi. Nel non essere la determinatezza in cui, via via, esso si traduce, apre a continui tentativi di dicitura, incessante processualità che, scavatasi nel solco della differenza fra identico e diverso, mai si acquieta. Vita dell’eterno, appunto. Occorre a questo punto fugare un dubbio che potrebbe essere intrecciato alla nostra proposta. Fra infinito e finito v’è differenza di natura, senza che tuttavia l’infinito sia da ricacciare in un fondo misterioso di chissà quale statuto. Posta la differenza di natura, potrebbe esserci domandato: ma quale altra natura compete all’infinito? Tale domanda è tuttavia ab origine viziata, proprio in quanto pretenderebbe, ancora una volta, che s’indicasse una determinatezza propria dell’infinito, che si restituisse cioè l’infinito nella determinatezza propria dell’altro. Il punto decisivo è in realtà quello di agguantare nel detto e come detto il non detto, poiché è nel finito e come finito che si dà l’infinito. Il vero volto del finito non va ricercato in chissà quale altrove, ma si dà in esso stesso, e non potrebbe essere altrimenti: pensare l’infinito come altro dal finito è parzializzarlo, è pensare un altro finito. Non ci si può muovere che nella parte quindi, e tuttavia crux è cogliere nella parte e in quanto parte l’infinito. Esso, infatti, traducendosi nella parte si tradisce, senza che tuttavia tale tradurre e tradire possa dare il via a strambi e fasulle altre vie per il coglimento di un’autenticità
137. F. Valagussa, Differenza ontologica e contraddizione C, cit., p. 315.
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ormai perduta e posta chissà dove. È nel tradirsi che l’infinito mostra la propria autenticità, in quel medesimo tradimento che ne palesa l’infinitudine proprio in quanto è quel che è in quel che non è. Ancora una volta, il punto da afferrare è che in alcun modo l’infinito è altro dal finito, o meglio, lo è, ma in forma contraddittoria, dovendosi appunto dire che esso è quell’altro dal finito che avrebbe come caratteristica quella di non essere affatto un altro (ché altrimenti sarebbe anch’esso un semplice finito – e non l’infinito che invece dice di essere).138
Altro dal finito è solo un altro finito, ed è allora nel finito e solo in esso che va colto l’infinito, aprendo a una differenza che si fonda su una nozione non equipollente alla totalità compiuta di matrice severiniana. Nessuna inaccessibile compiutezza a quanto si manifesta nel cerchio finito dell’apparire dunque, così come nessuna bobina che assegnerebbe al novum nulla in più del flebile sfumare di una parvenza. In certo senso, la nostra proposta sembra in linea con un approfondimento di quanto suggerito da Rocco Ronchi a proposito della filosofia severiniana. Ravvedendo in quest’ultima la «volontà di riscattare l’ente dalla sua precarietà ontologica, dalla sua congenita deficienza rispetto a una verità presuppo138. M. Donà, Identità e totalità, cit., p. 205. Donà sostiene inoltre come sia plausibile, contrariamente a Severino, condurre a manifestazione l’assoluta concretezza dell’assoluto, e cioè avverrebbe nel linguaggio musicale. In merito, cfr. Id., Il respiro del destino, cit., p. 85: «Per questo l’eterno, che comunque lascia le proprie tracce in ogni espressione della terra isolata e in tutte le sue parole, non potrà che farsi suono, ritmo, ovvero libero svolgimento di più o meno complesse corrispondenze (come un vero e proprio “arabesco”, dunque) – quelle che nessuna parola potrà mai con-tenere e subordinare a sé. E che, purtuttavia, delle parole, di tutte le parole, si fa costante “negazione” – allo stesso modo in cui si fa negazione infinita di tutte le differenze destinate a svolgerne l’eterna e intramontabile struttura, l’identità in cui consiste propriamente l’eterno».
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sta trascendente e separata»139, Ronchi include Severino nel tracciato di quel filone del pensiero corrispondente all’immanenza assoluta. Lo “scandalo” severiniano di eternità e necessità accordata all’ente come tale, «una eternità ed una necessità che si deve supporre estesa perfino a quei capelli, a quel fango e a quel sudiciume ai quali, nel Parmenide platonico, il giovane Socrate rifiutava si assegnare una Idea corrispondente»140, provvederebbe a individuare un’ottima base per eliminare il gesto metafisico della relativizzazione dell’esperienza. Secondo Ronchi tuttavia, l’esperienza nella sua purezza è neutra rispetto alle canoniche categorie di contingenza e necessità, di modo che pure la caratterizzazione necessaria dell’esperienza sia insufficiente a render ragione della sua positività. A noi pare tuttavia che, piuttosto che nella natura necessaria o meno dell’essere, il vero problema consista nello statuto di quella differenza ontologica che abbiamo diffusamente indagato all’interno di questo capitolo, tanto più se teniamo conto di come questa fosse stata posta alla luce del nichilismo ancora imperante ne La struttura originaria. In questo senso, Dal Sasso ha tutte le ragioni nel sostenere come la stessa domanda circa un’ulteriorità rispetto all’esperienza «presupponga l’idea che questo essere sia caduco, effimero e, dunque, sia una domanda viziata ab origine dal credo nichilistico»141. A ogni modo, che si tratti di assoluta immanenza o meno, intento della nostra proposta era individuare una concezione della differenza tra finito e infinito che non si traducesse in alterità,
139. R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017, p. 93. 140. R. Ronchi, Emanuele Severino: un empirista radicale?, in «In-Circolo», n. 11, 2021, pp. 451-458: p. 451. 141. A. Dal Sasso, Pensare l’immanentismo assoluto. Gentile e Severino, in «Cum-Scientia. Per l’unità nel dialogo», n. 3, 2020, pp. 41-72: p. 63.
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provvedendo così a salvaguardare, in uno, tanto l’infinità del processo quanto quell’emendazione della deficienza ontologica del finito rispetto al trascendente tanto cogente per l’impostazione di Rocco Ronchi. Se la stessa domanda circa quanto oltrepassa l’esperienza è viziata dal nichilismo, in quanto erede dell’aporia del divenire che lascia le sue tracce nell’intera filosofia severiniana, non si dà necessità di oltrepassamento alcuno: il finito non va rapportato a nessun termine ultimo che ne costituirebbe la più profonda verità costringendolo, sub eodem, a una strutturale infelicità. Questa la via, crediamo, per indicare quell’appartenenza alla Gloria «nella crescita di questa vita»142, senza che tuttavia vi sia alcuna biforcazione e gerarchizzazione dei piani143. Come scrive bene Andrea Tagliapietra: «Si tratta di quell’eterna presenza dell’immanenza in cui la più irrilevante delle cose, come il più profondo degli errori, il dolore e la morte stessa, sono e soprattutto sono ciò senza di cui la totalità dell’essente non potrebbe mai darsi»144. Quanto a ciò, nostro parere è che sia tuttavia necessario un passo ulteriore rispetto all’assetto severiniano, passo che consiste nel mettere in questione – internamente, come abbiamo fatto nel resto di questo capitolo – lo statuto del concreto, totalità assolutamente assoluta che ci è parsa introdurre, ancora una volta, un termine ultimo tale da individuare la finitezza costitutiva di quell’hic et nunc che sempre ci è dato.
142. E. Severino, La Gloria, cit., p. 143. 143. Solo così ci paiono condivisibili le conclusioni di Illetterati e Tripaldi in merito alla filosofia severiniana: «philosophy should not claim to save the finite from itself, but rather attempt to recognize it for what it is; that is, to recognize that finitude is not what prevents existence from being truly and authentically itself, but rather what allows existence» (L. Illetterati - E. Tripaldi, The Philosophy of the Future, cit., p. 32). 144. A. Tagliapietra, Severino e l’apocalittica della filosofia, pref. a G. Gris, L’escatologia del destino, cit., pp. 11-18: p. 13.
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Compiuto questo passo allora le cose, finanche le più irrilevanti, sono riscattate ontologicamente. Nessuna biforcazione di piani: Gloria senza Gioia, infinita apocalisse senza eschaton.
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Capitolo III
Immediatezza e dialettica tra Hegel e Severino
1. Dialettica e contraddizione fra Hegel e Severino Emanuele Severino, scrive Vitiello, «ha fatto dell’identità il principio unico ed assoluto della sua filosofia, l’unico principio in grado di spiegare l’ente nella sua determinata determinatezza, respingendo il divenire come l’errore e la follia dell’Occidente»1. Pensiero del destino è quindi pensiero dell’identità, testimonianza radicale al punto da spingersi nelle profondità di quanto l’Occidente ha sempre tentato di agguantare, invero fallendo. Datone questo ragguaglio, tanto più interessanti diventano i riconoscimenti che il filosofo bresciano elargisce a proposito di quelli che sono i grandi pensatori affiliati alla compagine nichilistica. Così come tanto più rilevante diventa, per esempio, l’interpretazione hegeliana. E con Severino, vale la candela farlo notare, mai si tratta di mera interpretazione, bensì sempre di veri e propri tête à tête ingaggiati con i pensatori volta per volta chiamati all’appello. È questo il caso appunto di Hegel, che dall’interno dell’Occidente compie lo sforzo più radicale per giungere a quell’identità incarnata solo dal Destino nella sua autenticità. In Tautótēs Severino non si mostra avaro di riconoscimenti: 1. V. Vitiello, Hegel in Italia, cit., p. 157.
164 Nel suo significato più profondo, la dialettica hegeliana è la volontà di pensare lo ‘stesso’ – il tauton, l’idem, l’identità dunque – e di pensare il divenir altro come l’autoproduzione dello ‘stesso’, ossia come l’autoproduzione dell’identità. Nel pensiero di Hegel l’Occidente compie lo sforzo più potente per pensare lo ‘stesso’, l’identità.2
Avendo dedicato i due capitoli precedenti, rispettivamente, a dialettica e contraddizione C, meno arbitraria e casuale può apparire la scelta di centrare questo tratto conclusivo della nostra indagine proprio su Hegel, sotto traccia già emerso come un interlocutore del tutto privilegiato. Ma oltre a questo quasi insignificante rimando condotto a mo’ di introduzione, è sufficiente uno sguardo all’indice di questo lavoro per individuare un bagaglio concettuale che incrocia proprio nel filosofo di Stoccarda uno dei suoi più importanti frequentatori: identità, dialettica, immediatezza, contraddizione e isolamento sono solo alcuni dei nuclei su cui si consuma l’ideale dialogo con Severino. Del resto, il rimando a Hegel salta all’occhio esplicitamente sin da La struttura originaria, a testimonianza della consapevolezza severiniana di questo intreccio, nonché della prossimità degli orizzonti problematici in gioco. Un altro taglio è quello che si potrebbe ottenere indossando lenti forse più storiografiche, ma certo non meno teoretiche, a individuare quel filo rosso costituito dalla tanto fortunata recezione italiana del pensiero hegeliano: Bertrando Spaventa, Giovanni Gentile, Gustavo Bontadini e, per l’appunto, lo stesso Severino sono solamente alcuni dei pensatori che si collocano come tappe decisive di tale Denkweg3. Queste, sinteticamente, sono solo poche e brevi indicazioni su alcuni dei motivi che
2. E. Severino, Tautótēs, cit., p. 47. 3. Oltre al già citato Hegel in Italia di Vitiello, rimandiamo pure all’ampio lavoro di A. Dal Sasso, Creatio ex nihilo, cit.
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ci suggeriscono e spingono a condurre un affondo in merito a quanto stia in gioco tra Hegel e Severino. E tuttavia, occorre ora quantomeno specificare maggiormente, in positivo, l’indirizzo che intendiamo approfondire per condurre la nostra indagine. Mi piacerebbe dire che non è tanto questione dell’“assunzione” di un indirizzo in realtà, così come il problema non è certo quello che si può risolvere aprendo una cassetta per scegliere, fra i molti, quello che sarebbe poi lo strumento, l’attrezzo più adeguato allo scopo. In certo senso potremmo lasciarci guidare da un’idea, quella di aver già risieduto in quei luoghi del pensare (topoi), cellule concettuali che si tratterà poi, in questa sede conclusiva, di lasciare emergere. È portando a trasparenza nei propri scritti le figure fondamentali del pensare, infatti, che ogni grande filosofo entra in dialogo con gli altri spiriti magni; figure fondamentali che, se sono tali, non si tratta di prendere alle spalle o dirimpetto, come potrebbe risultare allo sguardo di una maniera del tutto esteriore di considerare le cose, ma che piuttosto incarnano le stesse forme viventi della nostra esperienza, le più quotidiane incluse. A questi grandi pensatori affiliamo pure Severino, abitante degli imperituri topoi del pensare occidentale, in dialogo con Hegel sì come con tutti gli altri grandi filosofi. È forse in questo senso che allora potrebbe essere definito topologico l’indirizzo da noi abitato, poiché invero è probabilmente la consapevolezza di un abitare, più che una scelta metodologica4. Topologico, dicevamo, l’indirizzo che ci guida e spinge a indi4. Ereditiamo questo approccio alla topologia da Vincenzo Vitiello, che ne ha offerto profilazione teoretica anzitutto nel suo Topologia del moderno, cit., pp. 104-105: «Il tracciato – o meglio: i tracciati – che la topologia descrive, formano la carta dei “luoghi” ideali dell’essere. I topoi non sono eventi o momenti, non sorgono né tramontano – sono forme, essenze, eide […]. Nello spazio della topologia, dove tutto già da sempre è, non c’è posto per il “nuovo”. Ciò che conta è il diverso. Le figure fondamentali del pensiero – identità, differenza, partecipazione, contraddizione, dialettica, giudi-
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viduare plessi, problemi e costellazioni teoriche rispetto a cui, Hegel e Severino, calibrano e commisurano la propria postura filosofica. E spesso, cercheremo di argomentare, medesima l’isola di partenza, differente quella d’approdo. Dedicheremo quindi questo capitolo conclusivo alla discussione dei luoghi ideali di tale binomio, delineando una fisionomia – parziale, ça va sans dire – del giro di concetti tanto caro a entrambi. Nostra tesi è che pur prendendo le mosse dallo stesso topos, il gesto filosofico messo all’opera dai due pensatori conduca tuttavia a una differente visione ontologica. A voler osare qualcosa in più, diremmo: stesso il punto di partenza, radicitus contrapposti gli approdi. Questo assetto ermeneutico viene inoltre a confortare pure l’ipotesi da cui avevamo preso le mosse. Con l’Occidente, oltre l’Occidente: cuore della testimonianza severiniana è il tentativo di indicare un contenuto inaudito al pensiero occidentale. E tuttavia, potremmo aggiungere noi, proprio in quanto abitatore dei medesimi luoghi della veneranda e terribile tradizione, vi è non meno vicino. E ciò non a sminuirne l’importanza, tutto il contrario: a indicare piuttosto la radicalità del tentativo severiniano, che così lo inscrive nell’eterno dialogo con gli altri spiriti magni. Prima di entrare a gamba tesa a discutere tali nuclei concettuali, ci pare necessario fornire quantomeno qualche sintetica pennellata della postura assunta da Hegel in merito ad alcuni dei problemi che discuteremo nel prosieguo del capitolo, vero punto d’arrivo della nostra discussione. Compiuta tale ricognizione – nulla più della nostra collocazione hegeliana nel dialogo ideale con Severino –, concluderemo discutendo gli elementi che ci paiono più rilevanti a proposito delle tematiche emerse. zio, sillogismo… – non mutano. Variano i nessi, i rapporti che si instaurano tra queste diverse figure».
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2. Riflessione, efficacia determinatrice e natura del pensare In Hegel pensare dice negazione, energia e vitalità proprie del No. Abito del pensatore è quello proprio di chi non è disposto ad accettare la pura immediatezza del Sì, assumendo piuttosto i panni dello scettico e dell’inquietudine, venendo così a inaugurare una pratica volta a riconoscere, in quel che prima facie si palesa nelle vesti di suo ostacolo o presupposto, ciò che è stato posto come tale. Filosofare nel solco dell’inquietudine del negativo è allora storcere il naso nei confronti di qualsiasi ingiustificata o naturalistica affermazione, provvedendo così piuttosto a indagare prassi, genesi e dinamiche che quel presupposto cela e condensa in se stesso. Da questo angolo prospettico, una delle inequivocabilmente più radicali istanziazioni del siffatto abito del pensare si ha proprio con la filosofia hegeliana, da sempre ai ferri corti con qualsiasi immediatezza, presupposto o dato che pretenda di ostacolare la libertà delle dinamiche del pensare5. Se questa assenza di presupposti (Voraussetzungslosigkeit) è il tratto connotativo più peculiare della filosofia hegeliana, in questa sede il nostro obiettivo è però preciso: occorre rivolgere particolare attenzione a quei luoghi del pensare che, proprio in relazione a Severino, possano fungere da cabine d’interlocuzione o quantomeno di comune residenza. Quanto a Hegel, questa è quindi l’ottica assunta: intendiamo indagare l’istanza del pensare richiamata nel precedente capoverso lasciando cadere la lente d’ingrandimento su un concetto evocato dal pensatore tedesco nel contesto della Prefazione alla seconda edizione della Scienza della logica. In quello che è una sorta di testamento filosofico redatto a pochi giorni dall’improvvisa morte, il filosofo di Stoccarda viene ad attribuire alle determinazioni del pensa-
5. In merito, cfr. L. Illetterati, Il sistema come forma di libertà nella filosofia di Hegel, in «Itinera», n. 10, 2015, pp. 41-63.
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re un’«efficacia determinatrice del contenuto»6, nucleo tematico sul quale cercheremo di insistere nell’argomentazione che segue. La logica della riflessione inoltre – come suggerito dal titolo del presente paragrafo –, fornisce perimetro e indirizzo che abbiamo individuato al fine di strutturare quantomeno la base d’appoggio per la nostra discussione. Più specificamente, verrà posta in luce l’efficacia determinatrice attribuita da Hegel alle categorie del pensare proprio in riferimento alla logica della riflessione, ossia ad alcuni snodi della prima sezione della Dottrina dell’essenza, i quali investono categorie da sempre adoperate non solamente in filosofia o nelle scienze ma, più o meno consapevolmente, nel linguaggio e nelle pratiche della vita di tutti i giorni.
3. Immanenza e oggettività del pensare Ravvedendo nelle determinazioni del pensare un’efficacia determinatrice del contenuto, intenzione hegeliana è anzitutto quella di prendere le debite distanze da una visione astratta della logica, come se questa corrispondesse a un bagaglio che custodisca al suo interno forme del pensare e principi ponentisi in un’esteriorità tale da planare su oggetti belli e fatti, già costituiti come tali di là da qualsiasi performatività o ruolo che il pensare possa in qualsiasi misura giocarvi. Al contrario, l’elemento che va messo in luce e sul quale insisteremo sarà proprio un facere, o forse ancora meglio una prassi, interpretando dunque le dinamiche riflessive del λόγος come il “luogo” stesso in cui l’oggetto si fa oggetto7. L’effica6. G.W.F. Hegel, WdL I, p. 24; tr. it. cit., vol. I, p. 14. 7. Così si esprime M. Adinolfi, Identità, in Aa. Vv., Nova Theoretica. Manifesto per una nuova filosofia, Castelvecchi, Roma 2021, pp. 56-67: p. 58.
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cia determinatrice che compete al pensare è anzitutto proprio quella di tale facere, di modo che essere e statuto della cosa non possano intendersi alla stregua di un’identità statica che a questa converrebbe di per sé, in maniera immediata e naturale; al contrario, si tratta di storcere lo sguardo per fissarlo sul movimento generativo del pensare che ha posto la cosa in essere, quest’ultima null’altro essendo se non il signi-ficato che di tale facere istanzia il precipitato. Allo stesso modo, per così dire, in cui la «sfrenata inquietudine» del divenire precipita in un risultato calmo8. In fondo, si tratta della corrispondenza a quel bisogno della filosofia cui lo Hegel di Jena rendeva testimonianza già nel 1801 tramite un celeberrimo passaggio della Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling: «questo bisogno […] è il necessario tentativo […] di comprendere l’essere-divenuto del mondo intellettuale e reale come un divenire e l’essere di questo mondo, in quanto prodotto, come un produrre»9. In questo preciso senso dunque, nella filosofia hegeliana la cosa è sempre un prodotto del pensare: non c’è niente di puramente immediato, e ciò che si presenta come tale è unicamente la maschera di una mediazione celata o quantomeno non saputa. Per avvalerci di un esempio emblematico utile a tradurre il tutto in lessico certo più colloquiale, potremmo far riferimento al resoconto di viaggio sulle alpi bernesi, ove il giovane Hegel prende nota dell’illusoria gentilezza dei mandriani locali: offrendo da bere a chi di volta in volta avrebbero incontrato,
8. Cfr. WdL I, p. 113; tr. it. cit., vol. I, p. 99. Questo “precipitare” corrisponde, in termini più strettamente logici, al risultato determinato del carattere autoreferenziale della negatività hegeliana; sul tema, cfr. M. Bordignon, L’autoriferimento della negazione nella logica hegeliana, in «Verifiche», XLVII, n. 2, 2017, pp. 117-137. 9. G.W.F. Hegel, Differenz des Fichteschen und Schellingschen Systems der Philosophie, cit., p. 22; tr. it. cit., p. 15.
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questi pastori lasciavano alla discrezione degli ospiti il prezzo da dare in cambio delle gentili concessioni. Questa abitudine, che trovammo abbastanza comune, non ha il suo fondamento nell’ospitalità o nel disinteresse, come credono molti buoni viaggiatori che della vita pastorale si sono fatti un’immagine di generale innocenza o bontà; questi mandriani, al contrario, col lasciare la determinazione del prezzo alla discrezione dei viaggiatori, sperano di ricevere più di quanto vale la loro merce.10
Anche in questo caso, non è affatto nelle corde del pensare il recupero di una pura immediatezza corrispondente all’innocenza o bontà della vita pastorale, quest’ultima nulla essendo in più di ciò che nasconde una mediazione smascherata dalla testimonianza hegeliana. Facendo in particolare riferimento alla logica della riflessione, nel presente tratto della nostra indagine cercheremo di porre in luce proprio tale cifra del pensare hegeliano, venendo così a concentrarci sul carattere di processualità negativa e immanente all’essere stesso che compete alla dinamica concettuale. Proprio a tal proposito è possibile introdurre alcuni snodi della Dottrina dell’essenza, ove a tenere banco – sin dalle pagine iniziali ad essa dedicate – è precisamente la diade concettuale di immanenza e negatività: il punto – come vedremo – è quello 10. G.W.F. Hegel, Bericht über eine Alpenwanderung, in Id., Frühe Schriften I, in Gesammelte Werke, vol. I, a cura di F. Nicolin e G. Schüler, Meiner, Hamburg 1989, pp. 381-398: p. 384; tr. it., Relazione di un viaggio sulle Alpi, in G.W.F. Hegel, Scritti giovanili, a cura di E. Mirri, Orthotes, Napoli-Salerno 2015, pp. 388-406: p. 391. Così continua il passo: «Ce se ne può accertare facilmente. Se si dà loro solo quello che la cosa realmente vale, non ringraziano affatto e non ricambiano nemmeno il saluto, anzi diventano muti e fanno una faccia indispettita; se poi si dà loro meno di quanto stimano il prezzo reale, si può esser sicuri che depongono subito l’ignoranza prima mostrata di quanto vale la loro merce ed esigono il valore che hanno stabilito» (ibidem).
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di pensare una negatività che neghi l’essere dall’interno, ossia di pensare il contraddirsi dell’essere stesso. L’essenza infatti, compare sulla scena logica in quanto negazione dell’essere, rectius: come «negatività assoluta dell’essere»11. E allora, se porre in risalto l’efficacia determinatrice del pensare è possibile, sub eodem, con la presa di distanza da una visione formalistica del sapere, come se questo consistesse in una riflessione che dall’esterno sorprenda l’essere immediato, le pagine iniziali della Wesenslehre sono a tal proposito paradigmatiche: L’essere è l’immediato. In quanto il sapere vuol conoscere il vero, quello che l’essere è in sé e per sé, esso non rimane all’immediato e alle sue determinazioni, ma penetra attraverso quello, nella supposizione che dietro a quell’essere vi sia ancora qualcos’altro che non l’essere stesso, e che questo fondo costituisca la verità dell’essere.12
Il problema posto da Hegel è una delle questioni che dà i natali alla pratica filosofica, quello consistente nella ricerca della verità di un determinato fenomeno immediato, laddove tale orizzonte problematico si palesa ben circoscritto mediante l’ausilio di tre termini: l’immediato (essere), la verità dell’immediato (essenza o fondo) e il sapere. Ciò da cui occorre prendere le distanze, sostiene Hegel, è l’orizzonte di esteriorità e mera giustapposizione per cui essere e sapere si posizionerebbero come l’uno accanto all’altro: laddove, cioè, tale movimento venga a
11. G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik II (d’ora in avanti, WdL II), in W 6, p. 19; tr. it. cit., vol. II, p. 439. Sul tema della negatività assoluta in quanto nucleo decisivo della filosofia hegeliana, ha più recentemente attirato l’attenzione B. Bowman, Hegel and the Metaphysics of Absolute Negativity, Cambridge University Press, Cambridge 2013. In particolare, cfr. ivi, p. 27: «what Hegel calls “the Concept” is identical to what he calls absolute negativity, and his entire philosophy is organized around this identity». 12. G.W.F. Hegel, WdL II, p. 13; tr. it. cit., vol. II, p. 433.
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raffigurarsi come il cammino di un sapere che sia estrinseco all’essere, allora quest’ultimo non verrebbe neppure sfiorato nella sua natura, pia illusione essendo quella di chiunque pretenda di raggiungerne l’essenza o verità una volta imprigionatosi in un siffatto (irreale) assetto logico. Il movimento del pensare non è infatti una riflessione che, dall’esterno, sorprenda un essere venerabile e santo, immobile e privo d’intelletto13; riflessiva, al contrario, è l’andatura dell’essere stesso, la dinamica negativa che innervando l’immediato medesimo mai da esso prende le distanze. Si tratta allora, prendendo in prestito una felice espressione da Herbert Marcuse, di «un nesso dinamico in se stesso chiuso»14, che procedendo da sé a sé istanzia compiutamente quel piano d’immanenza rispetto all’essere e al contenuto costitutivo, secondo Hegel, dell’andatura logica in quanto tale. Se pensare è negare, Hegel sta insomma dicendo che non si tratta affatto di una negazione estrinseca, che all’essere s’applicherebbe a conti fatti e giochi già giocati. In questione è piuttosto il negarsi stesso dell’essere, quel divenire oggettivo e fibra del reale corrispondente al suo stesso intrinseco mutamento. Tale autonormatività concettuale è quanto, entro più alto livello, si può individuare nella tematizzazione della Teleologia interna alla Dottrina del concetto: col movimento teleologico, e
13. Prendiamo in prestito la bella dicitura platonica del Sofista; cfr. Platone, Soph., 248e-249a; tr. it. cit., p. 155: «E allora, per Zeus! Davvero ci lasceremo così facilmente persuadere che movimento, vita, anima e pensiero intelligente non siano presenti in ciò che è compiutamente, che esso né viva né pensi e invece, solenne e sacro, privo di intelletto [νοῦν οὐχ ἔχον], se ne stia in una immobile quiete?». 14. H. Marcuse, Hegels Ontologie und die Grundlegung einer Theorie der Geschichtlichkeit, Klostermann, Frankfurt a.M. 1932; tr. it. di E. Arnaud, L’ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità, La Nuova Italia, Firenze 1969, p. 176.
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cioè in quelle dinamiche concettuali che codificano il processo di realizzazione di uno scopo – con il celebre esempio: arare il campo –, Hegel ha in mente anzitutto di illuminare una processualità logica integralmente immanente, per il coglimento della quale finanche le categorie rifluite nel corso dialettico della Dottrina dell’essenza risultano inadeguate e insufficienti. Di ciò è tanto indicativo quanto istruttivo il letale contraccolpo che queste subiscono una volta adoperate per esprimere la dinamica in questione: se la forza, con l’esempio hegeliano, ha concreta esistenza unicamente nella sua estrinsecazione, a differenziarla dallo scopo è proprio l’esteriorità dell’elemento necessario a sollecitarne la realizzazione. Nel caso della totale immanentizzazione dell’alterità che spetta invece allo scopo, occorrerebbe al contrario trattare di «una forza che si solleciti di per sé all’estrinsecazione, o come una causa che sia causa di se stessa o il cui effetto sia immediatamente la causa»15. E proprio soffermandoci sul movimento teleologico è allora possibile enucleare la cifra dinamica, il divenire oggettivo che per Hegel null’altro è che la logica riflessiva. È in essa, dunque, che va ricercato lo statuto reale e concreto dell’essente, l’errore consistendo – rileva Félix Duque – nella «pretesa […] di fissare qualcosa di mobile»16. Il passaggio dall’intelletto alla ragione, dall’alterità alla mediazione speculativa è proprio questo: il ca15. G.W.F. Hegel, WdL II, p. 445; tr. it. cit., vol. II, p. 841 (corsivo nostro). Sul ruolo giocato dalla sezione dell’Oggettività entro la Dottrina del concetto, e più in generale nell’economia dell’intera Logica, cfr. F. Duque, L’oggettività come atto logico di tra-duzione della teologia nelle scienze moderne, in V. Vitiello (a cura di), Hegel e la comprensione della modernità, Guerini e Associati, Milano 1991, pp. 59-81; V. Vitiello, Sulla costituzione logica dell’Oggettività. La quarta forma del sillogismo hegeliano, in «Il Pensiero», LV, n. 1, 2016, pp. 47-67. 16. F. Duque, Come dare ragione del Principio di ragione, in «Teoria», XXIII, n. 1, 2013, pp. 101-128: p. 125. Sulla logica hegeliana come dissoluzione della fissità del significato a favore della nozione del significato
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povolgimento dell’illusoria considerazione rigida e statica della cosa, come se questa detenesse di per sé un significato fisso e definito una volta per tutte, il capovolgimento, si diceva, nella considerazione della cosa solamente alla luce del processo in cui essa è ed esiste. E ciò non vuol dire altro che l’aratro lo si comprende solo ed esclusivamente in forza del movimento per il quale esso è ciò che è, e cioè nell’operatività, nella vitalità e nella prassi del suo concreto utilizzo quale mezzo per adempimento di scopi. Il concetto dell’aratro, insomma, è l’aratro nella sua vitalità, l’aratro nel suo arare, immerso nella concreta pratica di chi l’adopera. Compiuto questo tuffo nel movimento dialettico, possiamo riemergere tornando allo statuto delle categorie logiche che ha operato da trampolino di lancio, nonché da filo conduttore della presente indagine. Lo facciamo tuttavia avendo conseguito un guadagno essenziale, poiché tale piano di immanenza è un ulteriore segnale di come qui sia pienamente all’opera lo sforzo hegeliano di lasciar cadere ogni immagine soggettivistica del pensare a favore di un sapere oggettivo17, distanziandosi così da qualsiasi atteggiamento astratto per cui essere e pensare si disporrebbero l’uno di contro all’altro. Se l’essenza è la verità dell’essere, occorre rammentare però, ancora una volta, come la riflessione sia tuttavia l’internarsi dell’essere in se stesso, e come uso, e dunque in stretta analogia col secondo Wittgenstein, cfr. pure L.V. Tarca, Differenza e negazione, cit., pp. 361-402. 17. In merito alla questione dell’oggettività del pensiero, cfr. L. Illetterati (a cura di), L’oggettività del pensiero. La filosofia di Hegel tra idealismo, antiidealismo e realismo, «Verifiche», XXXVI, n. 1-4, 2007; W. Jaeschke, Objektives Denken. Philosophiehistorische Erwägungen zur Konzeption und zur Aktualität der spekulativen Logik, in «The Independent Journal of Philosophy», III, 1979, pp. 23-37; tr. it., Pensiero oggettivo. Considerazioni storicofilosofiche sulla concezione della logica speculativa e sulla sua attualità, in A. Nuzzo (a cura di), La logica e la metafisica di Hegel. Guida alla critica, Carocci, Roma 1993, pp. 27-52.
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non un cammino esteriore del sapere che sull’immediato sopraggiunga accidentalmente.
4. Riflessione e negazione Lo scenario or ora esposto tramite le pagine iniziali della Dottrina dell’essenza risemantizza a suo modo un giro di concetti da Hegel condensato in alcuni snodi della Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, nei quali è in gioco precisamente la tematizzazione della negatività a proposito del celebre quanto fondamentale principio di «intendere ed esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto decisamente come soggetto»18. In questa sede, scrive infatti Hegel, «l’ineguaglianza che nella coscienza ha luogo tra l’io e la sostanza che ne è l’oggetto, è la loro differenza, il negativo in generale», negativo da riguardarsi «come la manchevolezza di entrambi»19. Se si è introdotto questo luogo concettuale, lo si è fatto al fine di illuminare un’analogia – appurate le dovute differenze che intercorrono tra orizzonte logico e fenomenologico – con lo snodo prima esaminato a proposito della Dottrina dell’essenza20; in questa sede, infatti, la manchevolezza dell’io può essere intesa come lo stimolo che spinge il sapere alla ricerca della verità dell’essente, di quel sapere che intraprende cioè l’indagine dell’essenza della cosa come se questa fosse un suo fondo nascosto. Se si vuole: è proprio l’ignoran-
18. G.W.F. Hegel, PhäG, p. 23; tr. it. cit., vol. I, p. 13: «das Wahre nicht als Substanz, sondern ebensosehr als Subjekt aufzufassen und auszudrücken». 19. Ivi, p. 39; tr. it. cit., p. 29. 20. Su quest’analogia, cfr. pure F. Valagussa, Figure della coscienza. Hegel e la scienza dell’esperienza, in M. Donà - F. Valagussa (a cura di), Alterità e negazione, Inschibboleth, Roma 2019, pp. 259-277.
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za delle cose a fornire la molla che, stuzzicando, infastidendo, “facendo problema” al sapere, stimola quest’ultimo a cercarne il fondo veritativo. Figurata la tematica in questi termini, permarrebbe tuttavia l’impaccio per cui la sostanza ancora deterrebbe una propria positività innanzi al sapere, laddove l’intento hegeliano è al contrario ben esplicito nel procedere in senso contrario: la manchevolezza della sostanza si sperimenta piuttosto nell’«ineguaglianza della sostanza verso se stessa»21. L’ineguaglianza della sostanza è la sua stessa contraddittorietà, l’attestazione dell’impossibilità a stare in piedi come tale, e cioè in qualità e veste di semplice sostanza immediata. Qui appare allora probabilmente il nucleo più rilevante dell’analogia che stiamo avanzando con la Dottrina dell’essenza, soprattutto laddove si ponga in rilievo come l’autocontraddittorietà della sostanza sia equipollente proprio a quello statuto che Hegel identifica in sede logica alla parvenza (Schein); quest’ultima, per Hegel, è l’immediatezza in sé e per sé nulla: «è il di per sé insussistente, che è solo nella negazione»22. Chiave di volta dell’argomentazione – tanto a livello fenomenologico quanto logico – consiste però nella caduta dell’esteriorità tra le due manchevolezze, e dunque nella loro ricucitura: i due lati in gioco non vanno pensati astrattamente, bensì come momenti di un’unica dinamica costitutiva del loro concrescere23. La contraddittorietà della parvenza non è cioè altra dalla negatività riflessiva, di modo che, ancora una volta, a cadere sia proprio la disposizione soggettivistica delle catego-
21. G.W.F. Hegel, PhäG, p. 39; tr. it. cit., p. 29. 22. G.W.F. Hegel, WdL II, p. 20; tr. it. cit., vol. II, p. 439. 23. Cfr. G.W.F. Hegel, PhäG, p. 39; tr. it. cit., p. 29: «Ciò che sembra prodursi fuori di lei [= della sostanza], ed essere un’attività contro di lei, è il suo proprio operare, ed essa mostra di essere essenzialmente Soggetto».
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rie del pensare, le quali lungi dal planare sulla realtà discendono al contrario sulla terra per mettervi radice. Ricucire e identificare le due negatività, insomma, equivale a eliminare l’idea per cui il cammino del sapere rispetto alla sostanza sia una strada tale per cui quest’ultima non venga neppure sfiorata. In tal modo, la Logica depone i panni del semplice organon, assumendo quelli del movimento riflessivo privo di presupposti: le sue categorie vengono così a incarnare la riflessività immanente alle cose stesse, la modalità cioè tramite cui queste accedono alla forma logica e alla significanza che loro compete. L’immediatezza non sta mai in piedi di per sé, e questa sua intrinseca mancanza di stabilità è lo stesso dispositivo riflessivo ad essa immanente: «il sorpassare l’immediato, da cui comincia la riflessione, è anzi solo mediante questo sorpassare; e il sorpassare l’immediato è l’imbattersi in esso»24. L’immediatezza è tale solamente in quanto immediatezza posta dal pensare25, posta cioè da quella riflessione consistente nella sua stessa instabilità o immanente contraddittorietà. Caduta è la visione astratta – «l’illusione di cui è vittima la riflessione esteriore»26,
24. G.W.F. Hegel, WdL II, pp. 27-28; tr. it. cit., vol. II, p. 447. 25. Cfr. M. Adinolfi, Fra Hegel e Heidegger: l’identità e l’esperienza del pensiero, in «Il Pensiero», LV, n. 2, 2016, pp. 181-200: p. 183: «Qualunque cosa sia infatti presupposta al pensiero, è raggiunta proprio in quanto presupposta dal pensiero: è cioè un effetto della riflessione, un posto presupposto. L’essere presupposto è posto in quanto presupposto per via di riflessione». 26. J. Hyppolite, Logique et existence. Essai sur la logique de Hegel, Puf, Paris 1953, p. 109; tr. it., Logica ed esistenza. Saggio sulla logica di Hegel, con testo fr. a fronte, a cura di S. Palazzo, Bompiani, Milano 2017, p. 319. Sulla connessione del fare della riflessione esterna con quella ponente – i due momenti che, insieme alla riflessione determinante, scandiscono la cadenza triunitaria della riflessione hegeliana –, cfr. pure L. Lugarini, Orizzonti hegeliani di comprensione dell’essere. Rileggendo la «Scienza della logica», Guerini e Associati, Milano 1998, p. 263.
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scrive Hyppolite – per cui il sapere pareva prendere le mosse da un essere immediato, di modo che quest’ultimo si manifesti piuttosto come un nullo, e solo il ritorno da esso, il determinare della riflessione, vale come il porre l’immediato secondo il suo vero essere, epperò quello, che la riflessione opera in codesto immediato, e le determinazioni che da colei provengono, valgono non già come un che di estrinseco a lui, ma come il suo essere vero e proprio.27
In gioco è il superamento della riflessione esterna, corrispondente alla per altro già esaminata separatezza tra essere e pensare: la dinamica riflessiva istanzia così l’«assoluto contraccolpo in se stesso [absoluter Gegenstoß in sich selbst]»28, processualità assolutamente immanente – in cui consiste il “soggetto” del principio programmatico – che eleva la contradictio a regula veri. E tuttavia, tale contraddittorietà non è da intendersi semplicemente alla guisa di un delirio bacchico puramente inquieto, ma piuttosto come l’orizzonte generativo dell’essente, che viene così emblematicamente a incarnare quell’efficacia determinatrice del contenuto di cui si diceva: il luogo stesso in cui l’oggetto si fa oggetto. Riflessivo in senso hegeliano, insomma, non è l’abito del pensare semplicemente scettico che si accontenti e sia pago della distruzione tanto del presupposto quanto del piano dell’immediatezza, ma piuttosto quel gesto filosofico che di presupposti e immediatezze individui la concreta dinamica posizionale, sino al punto da accertarne lo statuto di precipitati posti dal movimento concettuale.
27. G.W.F. Hegel, WdL II, p. 31; tr. it. cit., vol. II, p. 450. 28. Ivi, p. 27; tr. it. cit., vol. II, p. 447. Per una prospettiva che accosti le dinamiche della riflessione hegeliana a quelle peculiari della proposizione speculativa, cfr. V. Vitiello, La proposizione speculativa: il linguaggio della filosofia, in Id., Hegel in Italia, cit., pp. 169-180.
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5. Il di più del movimento: pensare senza presupposti Più in particolare, presentando l’esigenza logico-dialettica corrispondente all’«occulta necessità di aggiungere all’identità astratta anche il di più di quel movimento»29, Hegel ha in mente trattando dell’identità – che delle determinazioni riflessive, come noto, è la prima – di condurre a coscienza l’operatività che nell’identi-ficazione dell’essente e del significato agisce. È in gioco quell’aspetto della riflessività su cui ha così tanto bene insistito Beatrice Longuenesse, scorgendo nelle dinamiche del pensare all’opera nella Dottrina dell’essenza un’attività integralmente negativa il cui esito posizionale è l’identità dell’essente con se stesso30. Attraversando il corso riflessivo dei principi del pensare, si potrebbe quasi dire che la Scienza della logica si sia occupata di mettere a fuoco il loro attivo principiare, e cioè di porre sotto la lente d’ingrandimento operatività e prassi che fanno sì che le determinazioni del pensare non vengano intese come qualità statiche possedute dagli enti, proprietà naturali ricevute o ereditate per vie ignote, ma piuttosto come l’esito della peculiare performatività conveniente all’attività riflessiva nel suo concreto operare. Entro il presente orizzonte, infatti, l’essente guadagna e accede al proprio significato in forza della processualità del pensare da cui esso stesso è posto, l’essente è cioè identi-ficato in virtù della dinamica riflessiva ad esso interna che così ne istanzia l’efficacia determinatrice.
29. G.W.F. Hegel, WdL II, p. 44; tr. it. cit., vol. II, p. 462. 30. Cfr. B. Longuenesse, Hegel’s Critique of Metaphysics, tr. ingl. di N.J. Simek, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pp. 43-46. In particolare, cfr. ivi, p. 45: «What is, is identical to itself only insofar as it is the “seeming of essence within itself”: it is identical to itself only as the result of the movement of reflection. This is what is masked by a proposition such as “everything is identical to itself”, which tends to make identity a quality on which to base the description and classification of perceived object».
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È l’analogo di quella risemantizzazione a livello più alto del movimento riflessivo che avviene nella Dottrina del concetto: qui, e nello specifico trattando del passaggio dal sillogismo disgiuntivo all’Oggettività, Hegel ha in mente precisamente la deposizione di una visione astratta e formale della logica, pervenendo dunque a togliere nel movimento speculativo «il formalismo del sillogizzare»31. Più che un sillogismo, è qui all’opera una prassi, un sillogizzare in atto che delle cose è ragione vivente, loro immanente e oggettivo divenire. In questo senso, tanto la ragione quanto il “dar ragione” che qui Hegel continua da tutti i lati a chiamare in causa, non si limitano affatto ai criteri della formalità logica, come se si trattasse semplicemente di comprendere delle presunte regole che insegnino modalità grazie alle quali sia poi concesso esprimere proposizioni esatte sull’essente. Entro questo orizzonte dare ragione significa piuttosto, come sostiene Carlo Sini, «oltrepassare le barriere formali dell’intelletto e comprendere che la ragione, nelle cose, riposa nella prassi stessa che le ha poste in opera»32. Così come la riflessione precipita nell’immediato in quanto da essa posto, nel sillogismo disgiuntivo si ha la compiuta deposizione dell’astrattezza dovuta all’esteriorità tra mediante e mediato. Il concetto si è realizzato e «ha acquistato una realtà tale, che è oggettività»33: cessando di chiudersi in un eremo per allontanarsi dalle cose, il pensare si palesa qual è sempre stato: prassi immanente all’essente, vita vivente in atto.
31. G.W.F. Hegel, WdL II, p. 400; tr. it. cit., vol. II, p. 798. Sul sillogismo disgiuntivo, cfr. pure M. Donà, «Sich selbst aufhebende Vermittlung». Il concetto come idea: ovvero la mediazione che toglie se stessa, nella Dottrina del concetto, in «Il Pensiero», LV, n. 2, 2016, pp. 97-110. 32. C. Sini, Teoria e pratica del foglio mondo. La scrittura filosofica, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 156. 33. G.W.F. Hegel, WdL II, p. 401; tr. it. cit., vol. II, p. 799.
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E se questa prassi del pensare è osservabile nell’identità, altrettanto bene il discorso può replicarsi per la seconda delle determinazioni assunta dalla riflessione nella sua immanente andatura: la differenza. Con la differenza, infatti, è palese lo sforzo hegeliano di condurre a integrale manifestazione il puro e assoluto – rileva opportunamente Franco Chiereghin – «alterizzare in atto»34 come tale. «È essenziale di afferrare la differenza assoluta come semplice. Nella differenza assoluta, l’uno dall’altro, di A e non-A è il semplice Non quello che come tale costituisce la differenza»35. Il “semplice Non” è null’altro che quel facere del pensare mediante cui, ciò che parrebbe l’astratto presupposto costituito dall’immediatezza – in questo caso: il semplice, muto e insignificante “A” – accede a guadagna la propria significanza in quanto prodotto del pensare che agisce in quanto differenziare, ossia facendosi carico della funzione di quell’unità negativa in forza della quale A e non-A vengono a contrapporsi guadagnando e accedendo al significato che è loro proprio36. Si tratta cioè di saper scorgere il differenziare che nel differenziato – e dunque: nell’essente come identico a sé e altro dal proprio altro – precipita, ravvedendo dunque in 34. Cfr. F. Chiereghin, Rileggere la Scienza della logica di Hegel, Carocci, Roma 2011, p. 111. 35. G.W.F. Hegel, WdL II, p. 46; tr. it. cit., vol. II, p. 464. 36. Su questo punto, cfr. pure G. Goria, La filosofia e l’immagine del metodo, Inschibboleth, Roma 2021, p. 146: «Due determinati sono così differenti sotto un unico riguardo ed entrano in una relazione di reciprocità attraverso la stessa base di determinazione, che ha la funzione di negazione del determinato nel determinato. Questa base – l’orizzonte relativamente a cui i determinati differiscono tra loro – è l’altro dall’ente, immanente però all’ente medesimo; in altre parole, questa base è ciò grazie a cui accedono al significato. Se l’“in quanto” dell’essenza è la relazionalità immanente all’ente, che dell’ente nega l’isolamento dagli altri enti, si capisce che senza di esso, senza cioè il rapporto verticale all’essenza, non vi sarebbe neppure quella relazionalità grazie a cui per il determinato A vi è modo di includere la relazione al proprio non-A».
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quest’ultimo non un elemento esteriore rispetto alla riflessione, ma piuttosto ciò che da essa è stato posto come tale37. Con la differenza si ha in luce, allora, un’ulteriore istanziazione di quella processualità in cui abbiamo visto consistere il facere del pensare riflessivo, proprio laddove la riflessione sorpassando la bruta immediatezza viene a manifestarla e porla come risultato della sua medesima operatività, non lasciandosi alle spalle nessun presupposto. Quest’ultimo infatti, dal quale la riflessione parrebbe prender le mosse – come è stato visto – è il nulla della parvenza, momento logico sussistente unicamente all’interno di quella sua negazione assoluta che è l’essenza: l’oscillazione dal nulla della parvenza all’altrettanto assoluta negatività del Wesen è quello che appunto Hegel ebbe a definire «movimento da nulla a nulla»38 (die Bewegung von Nichts zu Nichts), nesso dinamico che condensa e concentra in sé tanto l’immanenza – non v’è un positivamente altro – quanto quella negazione che s’è vista compenetrare lo statuto del pensare. Quel che dunque stiamo vedendo da tutti i lati è che, lungi dall’imbattersi in immediatezze belle e fatte, costituite alla
37. Laddove, beninteso, quella della differenza non è una determinazione applicata soggettivisticamente dal pensare a un essente immediato che, fermo e immobile, l’attenderebbe pazientemente, ma piuttosto l’esito della riflessività immanente, del differenziarsi dell’immediato medesimo. Nel “precipitare” della differenza assoluta nel differente, inoltre, si potrebbe scorgere una connessione con quell’importante dispositivo della Scienza della logica che è l’autoriferimento; posta la differenza così com’essa è in sé, essa non è nulla di statico, ma consiste piuttosto nell’espressione dell’attività del pensare: la differenza è infatti l’atto stesso del differenziare. E tuttavia, «tale atto sarebbe monco e parziale se esercitasse il proprio potere differenziante su tutto, ma non su se stesso. Per essere compiutamente tale, esso deve rivolgere il proprio potere anche su di sé ed essere così la differenza di sé da se stessa» (F. Chiereghin, Rileggere la Scienza della logica di Hegel, cit., p. 45). 38. G.W.F. Hegel, WdL II, p. 24; tr. it. cit., vol. II, p. 444.
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stregua di un ostacolo per il pensare, l’attività riflessiva vi riconosce precipitati di quell’operatività e di quella prassi in cui essa consiste, smascherando e disvelando quel che prima facie parrebbe un morto presupposto come un suo stesso prodotto, e cioè attestandone lo statuto di ciò che è stato posto come presupposto. Ciò è ulteriore indice e segnale di quell’assenza di presupposti che un importante interprete come Stephen Houlgate ha individuato in qualità di stella del firmamento del filosofare hegeliano: la processualità logica consiste in un movimento concettuale assolutamente libero e immanente, che in tal modo allontana dalla presente dinamica autonoma qualsiasi metodo estrinseco che sia volto a instradarla o coartarla entro direttive predeterminate39. Per limitarci alle categorie prese in esame: identità e differenza non sussistono allora come determinatezze che ristagnano nelle cose innanzi al pensare, ma incarnano bensì i precipitati delle modalità riflessive in cui si struttura l’operatività logico-riflessiva. Se decisivo risulta intendere le dinamiche riflessive nella loro intimità all’essente, la via ingaggiata dal corso logico entro la
39. Cfr. S. Houlgate, The Opening of Hegel’s Logic. From Being to Infinity, Purdue University Press, West Lafayette 2006, p. 51: «The aim of the presuppositionless philosopher is thus not to set out to demonstrate that the thought of being generates a more complex – dialectical or nondialectical – view of the world; it is simply to consider the indeterminate thought of being itself, to dwell with that category for its own sake, and to observe where, if anywhere, it takes us. In this sense, presuppositionless philosophy is radically nonteleological: it presupposes and aims at no particular result, pursues no projected goal, and follows no prescribed path». Oltre all’or ora menzionato testo di Houlgate, per un approfondimento del problema e delle interpretazioni “non-fondazionaliste” della filosofia hegeliana, cfr. W. Maker, Philosophy Without Foundations. Rethinking Hegel, State University Press, West Lafayette 1994; L. Corti, Hegel e il problema della fondazione: nonfondazionalismo, anti-fondazionalismo, o auto-fondazionalismo?, in «Verifiche», XLVI, n. 1, 2017, pp. 159-186; S. Houlgate, Hegel, Nietzsche and the Criticism of Metaphysics, Cambridge University Press, Cambridge 1986.
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Dottrina dell’essenza mira proprio a saldare tale istanza. E ciò equivale a lasciar cadere l’ipotesi per cui lo statuto logico dell’essente possa trovare residenza appunto in una riflessione estrinseca, ovverosia in un orizzonte nel quale la relazionalità logica del significato al proprio altro non sia più di una mera fantasia, tutt’al più un ambito limitato entro il quale essa possa valere. Poniamo che in questione sia la negatività dell’essente – che è poi precisamente il problema di Hegel –, ebbene: laddove tale negatività venga intesa estrinsecamente rispetto all’identità del significato con se stesso, essa non sfiorerebbe neppure il cuore delle cose. Se una necessità logica tale processo vuole stringere in pugno esibendo la patente del proprio valore, essa va dunque palesata rendendo interna la negatività all’essente determinato, di modo che questa risulti essenziale per la definizione del suo orizzonte semantico. Questo, dunque, l’obiettivo hegeliano. Per corrispondervi nel l’esposizione, o quantomeno per indicare quelli che sono i nuclei dell’operazione che Hegel intende conseguire, occorre scendere più a fondo rispetto a quanto sinora abbiamo guadagnato. Gettando uno sguardo sulle pagine dedicate al corso della riflessione, è possibile raccogliere e fare tesoro di un prezioso corredo di note che accompagna la trattazione tematica delle determinazioni riflessive. In particolare, un brano tratto dalla Nota III alla Contraddizione risulta decisivo per il nostro intento: La ragione pensante [die denkende Vernunft] poi acuisce, per così dire, l’ottusa differenza del diverso, la semplice molteplicità della rappresentazione fino a farne la differenza essenziale, l’opposizione. Solo quando sono stati spinti all’estremo della contraddizione, i molteplici diventano attivi e viventi l’uno di fronte all’altro, e nella contraddizione acquistano la negatività, che è la pulsazione immanente del muoversi e della vitalità.40 40. G.W.F. Hegel, WdL II, p. 78; tr. it. cit., vol. II, p. 493.
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Ottusa differenza del diverso, opposizione e contraddizione: in questo brano sono citate di seguito tre determinazioni riflessive che nell’economia generale della Logica realizzano l’approfondimento della differenza. E ben precisa è l’intenzione hegeliana: in gioco è l’accentuazione di quell’ottusa differenza dei diversi, che li rende indifferenti finanche «di fronte alla loro determinatezza»41, in opposizione prima e contraddizione poi. Facciamo ora questione della contraddittorietà che nell’opposizione si annida, proprio al fine di comprendere quell’interiorità della negazione, quella «pulsazione immanente» qui messa a tema. Focalizzandosi sul rapporto oppositivo, Hegel individua una dinamica per cui ciascuna determinatezza – positivo e negativo – è insieme parte e intero. Il positivo è positivo in quanto non è negativo, e parimenti il negativo. E tuttavia, negando il negativo, il positivo è negativo; così come, negando il positivo, il negativo è posto nella propria identità con sé. Il positivo è positivo e negativo, il negativo è negativo e positivo: a divampare è la contraddizione. Escludendo l’altra sotto quel medesimo riguardo sotto cui la contiene, ed è però indipendente, la determinazione riflessiva indipendente, nella sua stessa indipendenza [Selbstständigkeit], esclude da sé la propria indipendenza; […] Così la determinazione è la contraddizione.42
A ben vedere non occorre quindi procedere oltre la contraddizione per tenere in vista lo stadio logico successivo, a ben vedere, infatti, è sufficiente sollevare (aufheben) lo sguardo e saldare negazione escludente e includente abbassandole a momenti di un’unica dinamica, di modo che s’impari a guardare alla negatività non come a un sovrappiù rispetto all’identico, ma 41. Ivi, p. 48; tr. it. cit., vol. II, p. 466. 42. Ivi, p. 65; tr. it. cit., vol. II, pp. 481-482.
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piuttosto come a quanto v’è di più essenziale affinché il significato medesimo possa porsi come tale43. Nel porsi – e dunque nel differenziarsi dal proprio altro – del determinato, l’altro dal determinato assurge a momento fondamentale affinché il determinato stesso possa porsi. È quanto viene guadagnato compiutamente col fondamento (Grund), ultima stazione della riflessione dell’essenza in se stessa44, nonché unità negativa rispetto a cui positivo e negativo sono momenti. Del resto, il fondamento si può interpretare come l’orizzonte negativo-relazionale per cui determinante e determinato non possano che sorgere in virtù di un solo parto, senza possibilità di intercettare precedenza logica alcuna. Il determinante è tale in quanto determina il determinato, ma a sua volta questo condiziona il determinante determinandolo come tale45. Ogni individuazione di uno spazio di indifferenza fra i due, sotto questo punto di vista, sarebbe immediatamente contraddittorio ed escluso dal concreto atto posizionale dell’uno come dell’altro. L’esito ultimo dell’operazione hegeliana si realizza proprio nella compiuta immanenza dell’unità 43. Si tratta del «gran passo negativo» consistente nel concepire la contraddizione come «il sollevarsi della ragione sopra le limitazioni dell’intelletto» (Id., WdL I, p. 39; tr. it. cit., vol. I, p. 27). 44. Conseguentemente a questa collocazione per sua natura anfibolica – ultima determinazione riflessiva e, proprio per questo, non più determinazione riflessiva –, questione decisiva per la trattazione del fondamento è proprio il passaggio alla cosa esistente, alla cosa, cioè, in quanto posta dalla riflessione. In merito al fondamento hegeliano, e segnatamente per i capitoli dedicati a Il fondamento determinato e La condizione, si veda ancora B. Longuenesse, Hegel’s Critique of Metaphysics, cit., pp. 85-109. Si veda pure S. Rosen, The Idea of Hegel’s Science of Logic, The University of Chicago Press, ChicagoLondon 2014, pp. 307 e ss. 45. Sulla pregnanza teoretica di questo nucleo della filosofia hegeliana, cfr. M. Donà, Sull’Assoluto. Per una reinterpretazione dell’idealismo hegeliano, pref. di E. Severino, Einaudi, Torino 1992, pp. 47-104; si veda pure Id., Aporia del fondamento, cit., pp. 290-318.
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negli opposti, di modo che essa non si ponga come altra rispetto alle determinazioni – venendo così, dunque, essa medesima contraddittoriamente a rovinare nel regime opposizionale –, ma piuttosto come la loro negatività, reciproco riflettersi dei determinati, rimbalzo per nulla riconducibile all’ulteriorità di un fondamento che, rispetto al fondato, ritagli e serbi per se stesso uno spazio di esteriorità. Questo il concetto del vero infinito per Hegel: esso non è cioè altro dal finito, ma è lo stesso movimento del finito, circolazione negativa immanente al determinato che non si esprime se non nei significati di cui è battito vitale.
6. Dialettica tra Hegel e Severino Discutendo della dialettica severiniana, a più riprese siamo stati rinviati a movenze tipicamente hegeliane. Era il caso dell’originario oltrepassamento dell’astratto nel concreto, nodo concettuale così importante in Severino46. A voler tradurre il lessico dialettico in uno più colloquiale: toglimento dell’astratto è il guadagno del rimando della parte al contesto. La parte è tale in quanto interna a un contesto, quanto mai centrale quindi affinché la stessa parte sia compresa come tale, come parte. Del resto, è anzitutto come relazione fra astratto e concreto che viene a profilarsi la dialettica severiniana, dispositivo consistente nell’originario toglimento dell’astrattamente astratto. L’orizzonte dell’originario è posto, sub eodem, con la posizione del toglimento del concetto astratto dell’astratto. Non dissimile il gesto alla base della dialettica hegeliana, ove l’immediatezza – corrispondente, mutatis mutandis, al severiniano 46. Cfr. infra, cap. I, par. 5.
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«concetto astratto dell’astratto» – si mostra nella sua pura insussistenza, trattandosi unicamente di parvenza autocontraddittoria. È quello che emergeva con il nostro sintetico affondo nella logica della riflessione, spostando l’obiettivo sul venir meno della semplice immediatezza, incapace a mantenersi in piedi come tale. Tale incapacità – lo abbiamo visto – è lo stesso assoluto contraccolpo che, in quanto processualità immanente al dato immediato, consente di riguardare la determinatezza in quanto posta dal pensare. Probabilmente proprio a questo tratto distintivo della riflessione si riferiva Hegel attribuendo, nella seconda Prefazione alla Scienza della logica, un’«efficacia determinatrice del contenuto» alle forme del pensare. In quest’orizzonte l’essente viene a individuarsi sulla base della processualità del pensare da cui esso stesso è posto, l’essente è identi-ficato in quanto risultato della dinamica riflessiva che consente all’immediatezza di venire a se stessa. Questa, dunque, la via ingaggiata da Hegel nella Logica. Più specificamente, nella Dottrina dell’essenza: incarnando la vitalità dell’immediato, la contraddittorietà del contraccolpo assoluto di volta in volta viene a mostrare il toglimento dell’isolamento rigido e statico del puro dato, riconfigurandone lo statuto entro le dinamiche fluide del pensare. In quanto regula veri, la contraddizione hegeliana ravviva finanche le leggi del pensare, provvedendo così a toglierne il reciproco isolamento, e innestandole nella vitalità del corso riflessivo alla luce del quale solamente assumono il loro autentico significato. Questa succinta ripresa della costellazione concettuale in gioco per i due filosofi ci consente di evidenziare quello che, in prima battuta, ci pare essere un tratto comune ai due orizzonti: tanto in Hegel quanto in Severino, infatti, l’immediato – o: il concetto astratto dell’astratto – è costitutivamente contraddittorio. A ragione, allora, evidenza Vincenzo Vitiello: Qui, nell’estrema distanza di Severino da Hegel, si palesa l’innegabile affinità. Comune a entrambi è il rifiuto dell’intui-
189 zione e dell’immediato. Il pensiero filosofico è tale in quanto capace di logon didonai, di dar ragione di ciò che afferma, quindi di se stesso.47
Filosofare è tanto per Severino quanto per Hegel esercizio che dà ragione di quel che dice. In questo senso, il pensiero filosofico veste i panni di critica nei confronti di qualsiasi presupposto dogmatico che pretenda di accertare il proprio valore con patenti esibite per altra via rispetto a quella razionale. Tale prossimità, innegabile e appurata, custodisce però al suo cuore una non meno rilevante eterogeneità. Nostra tesi è che questa consista negli sviluppi della contraddittorietà e che, per anticipare, concerne la processualità o meno che la medesima viene a dischiudere. La contraddittorietà dell’immediato è dunque crocevia di differenti cammini di pensiero. Prima di procedere oltre, qualche precisazione. Contraddizione e immediatezza sono tematiche di ampiezza sterminata, che possono offrire i più diversi spunti di trattazione tanto in Hegel quanto in Severino. A nostro parere, e proprio per evitare il rischio di una trattazione generica quanto superficiale connaturato all’ampiezza del tema, risulta preferibile discutere alcuni precisi e specifici nuclei concettuali, forti ovviamente dei guadagni ottenuti trattando della filosofia severiniana e, più brevemente, di Hegel. Direttiva generale del nostro approccio, come dicevamo aprendo questo capitolo, è quindi sostare su alcuni topoi del pensare così per come questi sono emersi, con l’esplicita intenzione di porre in luce la diversa postura che Hegel e Severino assumono in merito ai medesimi.
47. V. Vitiello, Severino/Hegel: un confronto, cit., pp. 101-102.
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7. Isolamento e immediatezza Proprio Emanuele Severino, nella nuova introduzione a La struttura originaria, dedica notevoli pagine a un esplicito confronto con l’orizzonte teoretico-speculativo della dialettica hegeliana. Non solo: Severino batte l’accento sullo stesso punto di analogia da noi messo in luce nel precedente paragrafo, sostenendo come «il reale punto di contatto de La struttura originaria col pensiero hegeliano si riduce alla tesi astratta che l’isolamento è il fondamento della non verità»48. È quanto abbiamo ampiamente analizzato nel primo capitolo di questo scritto, per quanto riguarda Severino, nei precedenti paragrafi di questo tratto conclusivo, per quanto invece concerne Hegel. Alla radice di ambedue gli orizzonti dialettici sussiste l’accertamento dell’originaria autocontraddittorietà di isolamento e immediatezza. È tale accertamento, infatti, che nella filosofia del Destino corrisponde all’originaria autocontraddittorietà dell’astrattamente astratto, che così assume i connotati dell’assolutamente impossibile, nihil negativum cui è ricondotto il contenuto di ogni pretesa che in qualche modo intenderebbe negare la struttura originaria. Porre il fondamento, ossia: il concreto, è sub eodem porre il toglimento dell’astrattamente astratto. Diversa la messa in scena interna al teatro della filosofia hegeliana: contraddittorio l’immediato, suo toglimento è però la processualità del pensare – movimento da nulla a nulla – che dell’immediatezza istanzia la concreta posizione, elevando la contradictio del 48. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 57. Sempre sul medesimo plesso, nel confronto con la dialettica hegeliana, cfr. pure ivi, p. 55: «come teoria del significato consiste sostanzialmente nel principio che il significato (cioè la determinazione, l’astratto), isolato, è significante come altro da sé, e che questa contraddizione è tolta togliendo il significato dall’isolamento dal suo altro. È, questo, l’aspetto del metodo hegeliano al quale si riferisce costantemente La struttura originaria».
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contraccolpo a regula veri. È battendo l’accento sul piano della processualità logica che avremo modo di enucleare i lineamenti della distinzione tra filosofia hegeliana e severiniana. A ora abbiamo guadagnato un importante punto: in Severino il concreto è originaria negazione dell’astrattamente astratto; in Hegel, l’originario negarsi dell’immediato illumina la fluidità del pensare poi necessaria per individuare la stessa posizione dell’astratto, il precipitare della riflessione nell’essente quale risultato che, come tale, serba in sé il processo della sua gestazione. Ciò mette in luce, a proposito della filosofia hegeliana, una natura performativa del pensare, a nostro parere assente – e per motivi teoretici e strutturali – nella filosofia severiniana. Si tratta di quella performatività che consente di riguardare all’essente in quanto, per l’appunto, precipitato di una pratica, dinamica riflessiva che lo ha generato. In questo senso, concordiamo con la diagnosi di Aldo Stella a proposito del carattere che definisce «trascendentale» della mediazione hegeliana: tanto nell’intenderla come atto, quanto nell’attestarne l’assenza nella filosofia severiniana49. I pochi elementi guadagnati sono sufficienti per cominciare a mostrare un tratto che differenzia Hegel e Severino: se in Severino la contraddizione è il nulla o l’impossibile, in Hegel la contraddizione può essere interpretata, al contrario, come fonte di vitalità e dinamismo, cifra tipicamente inquieta del pensare che ne istituisce l’operatività dinamica. Non si tratta di un delirio bacchico puramente inquieto – che peraltro sarebbe del tutto sterile –, quanto piuttosto della dinamica riflessiva cui lo sguardo ha da sollevarsi per ricomprendere l’essente non come immediatezza bella e fatta, bensì quale esito di pratiche e intrecci entro i quali solamente guadagna il proprio statuto. È quanto 49. Il riferimento è a A. Stella, Struttura originaria in Severino e mediazione in Hegel: una riflessione sul concetto di relazione, in «Rivista di filosofia neoscolastica», CVI, n. 4, 2014, pp. 751-782.
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lo stesso Severino – sempre ne La struttura originaria – a suo modo evidenzia: pareggiare isolamento e fondamento della non verità è solo un lato della questione, in quanto «l’isolamento, in Hegel, è l’isolamento dal divenire […], ne La struttura originaria è invece l’isolamento dalla struttura originaria della Necessità dove l’ente appare nella Necessità del suo essere già da sempre e per sempre sottratto al niente»50. Il punto su cui batte l’accento Severino è decisivo, nonché un ulteriore segnale della differenza prospettica assunta dai due filosofi in merito alla contraddittorietà dell’immediato. Se tanto da Hegel quanto da Severino l’isolamento semantico è pareggiato alla contraddizione, ciò non riduce la differenza di natura quanto all’orizzonte da cui l’astratto pretenderebbe, in actu signato, d’isolarsi. Prima di procedere oltre, occorre tuttavia fornire qualche indicazione metodologica a proposito della postura che abbiamo assunto. Non è nostro interesse tracciare un percorso che intenda seguire da vicino le numerose riserve avanzate da Severino sulla prospettiva teoretica incarnata dalla filosofia hegeliana. Esse, come noto, consistono nell’individuare aporie e contraddizioni che germogliano una volta che il divenire hegeliano sia inteso alla luce della struttura della necessità, col conseguen50. E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 57-58. Ed è il modello concettuale che sta all’origine della lettura della dialettica hegeliana in termini di struttura o forma del divenire, teoria del significato come diveniente. Che la dialettica hegeliana lo sia è fuori dubbio, resta problematico che il divenire hegeliano possa essere assimilato alla strutturazione logica che ne dà Severino in quanto passaggio da un terminus a quo a un terminus ad quem. Del resto, discutendo delle prime tre categorie nella Scienza della logica: essere-nulla-divenire, obiettivo hegeliano è mostrare come un vero e proprio cominciamento – terminus a quo – del processo non vi sia, ma che il cominciamento sia già da sempre cominciante, diveniente divenire. Né l’essere passa nel nulla, né il nulla nell’essere, ma sono già da sempre passati l’uno nell’altro e l’altro nell’uno.
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te nichilismo in esso attestato. Per completezza, richiamiamo quantomeno la direttiva generale di questo prospetto critico51. Per Severino la dialettica hegeliana, in quanto accoglie il divenire, non può che implicare, da ultimo, un nullificarsi della determinatezza immediata o astratta equivalente al cominciamento del processo. È infatti necessario che qualcosa del cominciamento – la sua forma astratta, il modo unilaterale di comprenderlo – si annulli, altrimenti non vi sarebbe divenire, bensì il permanere del cominciamento come tale. Come scrive Severino in Tautótēs: Se non esistesse alcunché, del cominciamento, che diviene un niente assoluto, non vi sarebbe per Aristotele, e per l’intero pensiero dell’Occidente, alcun divenire: tutto sarebbe un permanente, tutto permarrebbe e sarebbe eterno.52
51. Per una trattazione più estesa di questa problematica, nonché per un confronto che mutui indirizzo ermeneutico e teoretico da una stretta connessione con l’impostazione severiniana, rimandiamo a U. Soncini, Il senso del fondamento in Hegel e Severino, pref. di E. Severino, Marietti 1820, Genova-Milano 2008; sempre sul rapporto tra Hegel e Severino, secondo un approccio diverso dal nostro, cfr. V. Rocco Lozano, Severino lettore di Hegel: una lettura hegeliana di Severino, in «Il Pensiero», LI, n. 2, 2012, pp. 169183. Per un tentativo di svincolare, invece, la dialettica hegeliana dall’astratta diatriba di difensori e avversari del principio di non contraddizione, rimandiamo all’originale interpretazione di M. Donà, Sull’Assoluto, cit. 52. E. Severino, Tautótēs, cit., p. 59. Andrebbe rilevato, tuttavia, che più di un movimento da un terminus a quo a un terminus ad quem, il divenire hegeliano si dovrebbe intendere come «movimento da nulla a nulla» – così come abbiamo visto trattando della Dottrina dell’essenza –, e dunque quest’orizzonte teoretico ed ermeneutico per cui il divenire è contraddizione in quanto passaggio dall’essere al non essere verrebbe posto intimamente in questione. Uno spunto di riflessione interessante, da approfondire in ulteriore sede, potrebbe corrispondere all’individuazione di un parallelo tra movimento concettuale hegeliano e senso non nichilistico della prassi messo in campo da Franco Chiereghin proprio contra Severino; in merito, cfr. F. Chiereghin, Il concetto di “prassi” in Severino: critica e riabilitazione, cit. In secondo luogo, inoltre, la dialettica hegeliana è contraddittoria, sempre per Severino,
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Non intendiamo, dicevamo, seguire questo tracciato come a voler mettere in salvo Hegel da queste condanne o, al contrario, sottoscriverle affiliandoci alla compagine severiniana. Nostro intento primario è infatti topologico, e mira quindi a stazionare su quei medesimi plessi innanzi ai quali tanto Hegel quanto Severino calibrano la loro postura filosofica. Del nichilismo o non-nichilismo hegeliano poco ci interessa allora, o meglio: quel che più conta, in questa sede, è il luogo concettuale con cui il pensiero di Severino, elaborando queste categorie, fa i conti. Più specificamente, l’esercizio che intendiamo operare intende fare emergere, di problema in problema, le differenze quanto a esiti e soluzioni, argomentando come dialettica severiniana e hegeliana si dispieghino quali due specifiche operatività del pensare, in dialogo – non necessariamente conciliante – tra loro.
8. Severino e Hegel: identità e identi-ficarsi A cercare di esplicitare più limpidamente gli elementi del nostro confronto, corre in soccorso la ripresa di una discussione svolta da Vincenzo Vitiello nella Topologia del moderno. Ponendo la questione nei termini della forma relazionale, l’autore fa notare come, se nella prospettiva hegeliana l’identità di A si coglie in quel suo stesso approfondimento relazionale che è A = A53, e l’identità di A = A in (A = A) = (A = A) e così via, anche in quanto dialettica delle cose finite, dell’empirico e dell’accidentale; tali determinazioni si annullano non solo in quanto astrattamente concepite come le categorie logiche, ma in esse ne va anche della determinatezza stessa, e del suo essere; su ciò cfr. ivi, p. 68. 53. Il semplice A, infatti, non è neppure identico a sé. L’identità viene guadagnata unicamente in quanto prodotto di quella riflessione testimoniata nella formula scritta “A=A”.
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sembrerebbe allora che l’identità dell’essente mai possa effettivamente afferrarsi, spalancandosi la più tipica delle cattive infinità. E tuttavia va compreso che «la cattiva infinità si supera piegando in circolo la retta»54: ciò significa che l’identità dell’essente non va affatto rincorsa, come se fosse eternamente altra da ciascun momento del processo che la insegue, al contrario: l’identità è presente in ogni momento del processo, ciascuna tappa o stazione della dinamica essendo l’identità in quel preciso momento logico, la quale è dunque da intendersi come il divenire in cui essa stessa si autoproduce. La sequenza delle formule: A, (A = A), (A = A) = (A = A), ecc., non indica affatto l’affanno del pensare che cercherebbe di acciuffare l’identità eternamente sfuggente, ma piuttosto il processuale e sempre più profondo impossessamento – meglio: impossessarsi, ché la riflessione è della cosa e la cosa è riflessione – dell’identità dell’essente. In questo senso, continua Vitiello, la formula è da modificare in «non-A = A. Questa formula sta a significare che l’identico non è ma si fa […]. Nonché non essere mai raggiunta, l’identità è sempre presente. E presente appunto come non-A = A, come divenire»55. È quel che si legge nella trasformazione del soggetto proposizionale in opera nelle pagine della Prefazione alla Fenomenologia dello spirito: autentico soggetto, sostiene Hegel, non è un termine quieto che, immobile, sostenga gli accidenti, ma piuttosto l’«automoventesi concetto che riprende in sé le sue determinazioni»56. Non più la sostanza a fondamento degli accidenti quindi, ma la processualità autonoma e libera della sostanza-soggetto. E se quindi il soggetto della proposizione va inteso come un movimento concettuale di auto-determinazione, i suoi predicati non sono più determinazioni ad esso connesse per via di una riflessione 54. V. Vitiello, Topologia del moderno, cit., p. 229. 55. Ivi, p. 230. 56. G.W.F. Hegel, Phäg, p. 57; tr. it. cit., vol. I, p. 50.
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estrinseca, ma prodotti essenziali che emergono dalla sua immanente processualità57. Potremmo riconfigurare questo discorso nelle cornici proprie della nostra trattazione, individuando come il farsi dell’identico qui messo in luce corrisponda al movimento per cui, nel suo stesso riflessivo superamento, l’immediato venga continuamente posto in quella che è la sua verità. Ed ecco allora che la processualità rimanda e accenna dunque, da tutti i lati, alla presenza di un facere: l’identità dell’essente non è infatti una proprietà che ad esso competa in maniera statica, come se gli convenisse, sic et simpliciter, di per sé. Identità dell’essente è piuttosto esito della prassi del pensare, di modo che anziché d’identità debba parlarsi di identi-ficazione, così come abbiamo cercato di chiarire nella pur breve trattazione delle essenzialità o determinazioni riflessive58. L’identità dialettica di essere e pensare nella filosofia hegeliana indica proprio l’immanente e autonoma dinamica del sapere che, approfondendo continuamente se stessa, determina sempre meglio l’essente, senza residui o alterità. 57. Sono, queste, le pagine dedicate da Hegel alla proposizione speculativa, tema sul quale si fonda un ormai corposo dibattito. È in questa sede, infatti, che s’intrecciano i più differenti problemi teorici per Hegel, tra i quali la necessità di esprimere questa interpretazione speculativa del soggetto, di dire lo speculativo. Sul punto, cfr. C.-F. Lau, Language and Metaphysics: The Dialectics of Hegel’s Speculative Proposition, in J. O’Neill Surber (a cura di), Hegel and Language, State University of New York Press, Albany 2006, pp. 55-74; J.P. Surber, Hegel’s Speculative Sentence, in «Hegel-Studien», n. 10, 1975, pp. 211-230; G. Rametta, La «proposizione speculativa» nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, in «Fenomenologia e società», XXXII, n. 2, 2009, pp. 105-116. 58. Ovviamente il discorso non vale esclusivamente per l’identità, ma anche per le altre determinazioni del pensare. Su questo aspetto avremo comunque modo d’insistere in quanto segue, discutendo la critica severiniana alla posizione hegeliana dei principi logici come esito e risultato della processualità.
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Grazie a questo punto, possiamo battere l’accento su un importante connotato proprio del perimetro ritagliato per la filosofia hegeliana: lungi dall’individuare statuti immediati dell’essente, dati o ereditati per chissà quale misteriosa fonte, nell’orizzonte hegeliano l’essente è sempre un risultato pensato, prodotto che sorge in virtù della (ad esso) intrinseca dinamicità del pensare. E così, dicevamo, potrebbe altrettanto bene leggersi il precipitare della «sfrenata inquietudine» del divenire in un risultato calmo che, come tale, tuttavia serba in sé il processo che vi precipita59. Trattando della filosofia hegeliana, continuamente abbiamo insistito su tale dinamicità del pensare: proprio questo ha dimostrato la negatività peculiare del movimento riflessivo, ossia la natura processuale delle dinamiche in cui, via via, il λόγος si dispiega. Posta la questione nei presenti termini, potremmo pensare al punto di vista del discorso severiniano come a un radicale “capovolgimento” della prospettiva hegeliana ora discussa60. È il punto decisivo su cui occorre fare maggiore chiarezza, già indicato sopra, quando si mostrava come la contraddittorietà dell’astratto, al crocevia dei due cammini di pensiero, tendesse poi a svilupparsi entro direttive radicalmente differenti. 59. Su questo punto si veda il passo seguente, già citato: «Bisogna, in altre parole, saper conoscere che nel risultato è essenzialmente contenuto quello da cui esso risulta; – il che è propriamente una tautologia, perché, se no, sarebbe un immediato, e non un resultato» (G.W.F. Hegel, WdL I, p. 49; tr. it. cit., vol. I, p. 36). 60. Su questo capovolgimento, cfr. pure F. Berto, La dialettica della struttura originaria, Il Poligrafo, Padova 2003, pp. 231-238. In merito alla riabilitazione semantica della filosofia hegeliana, nel contesto più generale di una tendenza al passaggio dall’atomismo all’olismo, il riferimento è a R. Brandom, Making It Explicit, Harvard University Press, Cambridge 1994, e Id., Articulating Reasons, Harvard University Press, Cambridge 2000; tr. it. di C. Nizzo, Articolare le ragioni, il Saggiatore, Milano 2002. Importante, per l’indagine di Berto, è pure D. Marconi, La formalizzazione della dialettica, Ronsenberg & Sellier, Torino 1978.
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Può essere utile riprendere la discussione severiniana della forma predicazionale, così come questa viene svolta ne La struttura originaria: abbiamo visto come, al fine di accertare l’originario toglimento dell’isolamento semantico, la strutturazione del concreto si ponesse come “(A = B) = (B = A)”61. L’identità originaria attesta come mai il predicato sia in relazione, sic et simpliciter, al soggetto, poiché altrimenti avremmo ancora l’esito posizionale contraddittorio che corrisponde all’identificazione di due essenti distinti. Il predicato del soggetto, piuttosto, conviene a un soggetto già in relazione al predicato, al soggetto aperto al predicato, originaria essendo quella che è la loro stessa identità. Il dire non è quindi sintesi fra soggetto e predicato, ma è identità della relazione fra soggetto e predicato e predicato e soggetto. Tale struttura proposizionale esprime e testimonia quel che potremmo definire un «risultato senza processo», meglio: una strutturazione originaria che pone se stessa unicamente in quanto accerta il toglimento dell’astrattezza dovuta all’isolamento reciproco di soggetto e predicato. Fare luce sulla differenza con Hegel è anzitutto focalizzare l’attenzione su senso e modalità propri di questa posizione. Differentemente da Hegel, infatti, la contraddittorietà dell’astratto per Severino non fa venire in luce alcun carattere performativo del pensare, il pensatore bresciano essendo pago della testimonianza di una struttura che accerta l’autonegatività elenctica del proprio altro. Astrattamente astratto non è il nulla dell’oscillazione riflessiva da nulla a nulla, bensì il nulla incontraddittorio e fermamente distinto dall’essere, così come pretende e legifera la legge del Destino in quanto radicalizzazione del principio di identità e non contraddizione. Sulla medesima forma predicazionale esposta ne La struttura originaria si è soffermato ancora una volta Vitiello, che così ha
61. Cfr. infra, cap. I, par. 7.
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impostato il confronto con Hegel: «La formula [relativa a Severino] è dunque questa: (A = A) = A. Esattamente il contrario di Hegel […]. E cioè non movimento ma stasi. Non-A = A indica il farsi dell’identico, il divenire. (A = A) = A dice che tutto è già fatto, compiuto»62. In Severino l’identità dell’essente è risultato originario e, proprio per questo, risultato senza processo: tutto è già fatto e compiuto, l’identità dell’esser sé dell’essente non è affatto esito della riflessività del pensare e del divenire, ma piuttosto quanto la determinatezza custodisce in sé nella misura in cui si pone – e sarebbe contraddittorio il contrario – originariamente come ascoltatrice del destino della necessità. Nessuna immediatezza, ma pure nessuna mediazione ancora da conseguire63. Leggiamo una formulazione icastica di ciò proprio in Tautótēs: «l’esser sé dell’essente, nella sua unità al non esser l’altro da sé, non è il prodotto del suo divenir altro da sé»64. Legge del Destino non è un prodotto, esito di un divenire. Identità non è il farsi dell’identico, ma il suo essere già da sempre. Abbiamo quindi precisato la differente concezione cui apre la contraddittorietà dell’astratto nei due orizzonti: in Hegel, essa funge da dispositivo che conduce alla posizione dell’identico, di modo che l’essente sia da riguardarsi come preci62. V. Vitiello, Topologia del moderno, cit., p. 231. 63. Cfr. pure V. Vitiello, Severino/Hegel: un confronto, cit., pp. 95-96: «Per Severino vero è solo il giudizio tautologico […]. Ma questa identità […] si dà solo nel giudizio che, distinguendo, unifica soggetto e predicato. Soggetto e predicato che non sono “prima” dell’unificazione predicativa, “prima” della copula del giudizio. Prima semplicemente non sono. Diciamo allora meglio: “A” non è “A” “fuori” dalla predicazione “=A” […]. È solo nel giudizio “A” è “A”; ed è, non diviene. “A” è “A” ab aeterno: en archè en he tautótes. Ma arché è il giudizio. Per cui dire “A” è dire “A = A”. Nessuna immediatezza, ma anche nessuna mediazione da conseguire ancora. Mediazione non dell’immediato, dunque, ma di sé: automediazione». 64. E. Severino, Tautótēs, cit., p. 93.
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pitato della processualità del pensare, prassi operativa in cui consiste lo stesso λόγος. Con Severino, al contrario, la contraddittorietà che compete all’astrattamente astratto si allaccia all’originaria posizione di un concreto che non è affatto risultato di una processualità. La legge del Destino è, invece, quello statuto dell’identità dell’esser sé dell’essente che anzi di ogni processualità attesta l’originario toglimento. Filosofia del De-stino è testimonianza dello stare dell’essente come esser sé, risultato senza processo, orizzonte non da guadagnare in forza di una processualità, bensì già da sempre guadagnato. In Hegel l’identico non è, ma si fa, ed è in quanto fatto dal pensare; in Severino l’identico non si fa, ma è già da sempre65.
9. Relazioni e leggi del pensare Isolamento è quindi spia del falso, tanto per Severino quanto per Hegel. Crocevia al bivio tra due differenti itinerari del pensare, la contraddittorietà dell’isolamento apre a due diversi orizzonti: per Severino essa è prova dell’incontrovertibilità del destino, mentre per Hegel, la detta contraddittorietà, è la stessa dinamica riflessiva che incarna il motivo genetico del significato. Isolamento, in Hegel, è isolamento rispetto al divenire riflessivo; in Severino, invece, la pretesa refrattarietà quanto
65. Con questa formulazione intendiamo in certa misura comprimere i risultati raggiunti nella nostra indagine, esponendoci così al rischio di un’obiezione che potrebbe provenire da quanto emerge estendendo la considerazione della filosofia severiniana dai principi logici – come ora noi stiamo facendo – al tema della contraddizione C. È infatti anzitutto la contraddizione dell’originario a mostrare il non esser quel che è dell’essente e quindi, in questo senso, il suo diventare – impossibile, peraltro – quel che è. A tal proposito, ci pronunceremo nel paragrafo 10 del presente capitolo.
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all’intramontabile componente persintattica in cui consiste la struttura originaria. A voler figurare questa complessa tematica, potremmo aiutarci col ricorso a una celebre e non meno meravigliosa immagine adoperata dallo stesso Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito. Trattando dello speculativo, il pensatore di Stoccarda viene a interpretarlo come il delirio bacchico «dove non c’è membro che non sia ebbro; e poiché ogni membro nel mentre si isola altrettanto immediatamente si risolve, – il trionfo è altrettanto la quiete trasparente e semplice»66. Complice il piano ermeneutico da noi costruito, la contraddizione hegeliana assume le sembianze del delirio bacchico in cui consiste la dinamicità propria dello speculativo, dionisiaco contraccolpo che scuote le determinazioni logiche dal loro statuto intellettualistico e rigido, facendosi carico del rischio di annichilirle in una danza dissolutrice. E però tale rischio non si concretizza, poiché la contraddittorietà hegeliana è toglimento dell’astratta immediatezza: il momento “apollineo” dello speculativo emerge sul piano logico nella misura in cui la danza dionisiaca della negatività precipita nel risultato calmo che compete alla semplice quiete, il configurarsi della determinatezza in quanto posta dalla riflessione. È interessante come in Severino l’originaria posizione del concreto, per restare a quest’immagine, implichi necessariamente l’accertamento dell’originaria nullità del delirio bacchico in cui consiste l’intera follia dell’occidente. Mai v’è stata quell’ebrezza, quella danza in cui consisterebbe il divenire nichilisticamente inteso, ché se esiste il folle non esiste ciò di cui il folle è convinto, se esiste l’ebbro non esiste il contenuto delle sue credenze. Scrive Vitiello:
66. G.W.F. Hegel, Phäg, p. 46; tr. it. cit., vol. I, p. 38.
202 Limite di Hegel è però l’aver comunque attribuito “realtà” alla contraddizione, assumendo che, per essere superata, essa deve in qualche modo “essere”, o meglio: essere stata. Ma la contraddizione, oppone Severino, si toglie – toglie se stessa – ab origine: mai la legna è stata, è, sarà cenere, mai la cenere legna.67
Per Severino la contraddizione è un delirio dionisiaco, e parimenti contraddittorio sarebbe il tentativo di porre la quiete come arresto, risultato del processo. Ancora una volta: accertando il toglimento dell’isolamento – ossia della dionisiaca follia dell’Occidente –, la filosofia del destino prende le distanze rispetto a qualsiasi posizione processuale della propria legge. Deponendo la metafora da noi introdotta, e riprendendo in mano le più aride categorie logiche, giungiamo al cuore della nostra trattazione rivolgendo attenzione alla modalità posizionale – processuale o meno – dei principi logici o, più in generale, alla posizione della relazione tra i significati. Se nella filosofia del destino tale relazione detiene lo statuto peculiare del piano dell’originarietà, entro l’orizzonte speculativo hegeliano relazione e principi logici vanno invece anzitutto illuminati e riguardati per quella che è la processualità in cui consiste la loro operatività riflessiva, di modo che, ancora una volta, ciò che occorre porre in rilievo sia il palesarsi del facere proprio del pensare che così pone l’essente in quanto a sé identico. È l’esito ermeneutico cui è giunto, per altra via, lo stesso Severino nel confronto ingaggiato con Hegel: «nel pensiero hegeliano, […] il divenir altro è il prodursi stesso della relazione (sì che ogni relazione è il risultato di un divenire)»68. Se isola-
67. V. Vitiello, Severino/Hegel: un confronto, cit., pp. 93-94. 68. E. Severino, Tautótēs, cit., p. 95. Il punto da rimarcare, quanto all’analisi severiniana, è sempre il medesimo: se il filosofo bresciano coglie il carat-
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mento della determinatezza è contraddizione, questa assume nel pensiero hegeliano la direttiva della processualità volta al toglimento dell’isolamento e dell’immediatezza, così che esito della dinamica sia la necessaria relazione della determinatezza al proprio altro. Dall’astratto al concreto, dall’isolamento alla relazione: la contraddizione dell’immediato è molla che rinvia alla posizione della mediazione logica. Prima di procedere oltre, è tuttavia bene precisare lo sfondo teoretico entro cui si colloca la lettura severiniana del pensiero di Hegel: lungi dall’affiliare il filosofo di Stoccarda alla compagine di coloro che intenderebbero negare il principio di non contraddizione, il ruolo del toglimento dell’isolamento dal proprio altro consisterebbe piuttosto nella sua posizione concreta69, che incarna il senso ultimo del momento speculativo o tere processuale peculiare della dialettica hegeliana, subito però ne ricerca aporie e contraddizioni che violerebbero quanto è implicato dalla struttura originaria della necessità. Il fatto che, per esempio, la relazione venga posta come risultato del processo, cela per Severino una contraddizione in forza della quale il metodo dialettico hegeliano non può guadagnare a pieno titolo la pretesa della necessità logica. La strada intrapresa in questa trattazione, lo ricordiamo ancora, non mira però a questo aspetto: piuttosto che spostare il discorso sulla linea severiniana – sulla quale, tra l’altro, già tanti hanno insistito – intendiamo marcare la differenza tra le due prospettive filosofiche ponendo in rilievo il carattere di processualità presente nella dialettica hegeliana, e assente in quella severiniana, sulla base degli sviluppi della contraddittorietà. Si tratta, in fondo, di mettere in luce il carattere performativo che in tale processualità è possibile scorgere ai fini della costituzione del significato. 69. La polemica sul rapporto tra dialettica hegeliana e principio di non contraddizione matura ne Gli abitatori del tempo, raccolta di saggi che, nel suo nucleo, è dedicata al dibattito con l’interpretazione di Lucio Colletti, autore che interpreta la dialettica hegeliana come una negazione del principio di non contraddizione; su ciò cfr. L. Colletti, Intervista politico-filosofica, Laterza, Roma-Bari 1974. Per l’estesa risposta severiniana, cfr. anzitutto E. Severino, Gli abitatori del tempo, cit., pp. 36115.
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positivo-razionale realizzantesi nella concezione dell’unità delle determinazioni nella loro opposizione70. Esito positivo della processualità hegeliana è quindi la relazione concreta dell’immediatezza al proprio altro, da intendersi come negazione o reciproca distinzione della determinatezza e del proprio contraddittorio. Scrive Severino: è nel divenir altro che si costituisce il «principio di non contraddizione» concretamente inteso […], è il processo stesso in cui viene a costituirsi la non contraddizione nel suo significato concreto (ossia in cui viene a costituirsi il significato concreto del «principio di non contraddizione»), giacché «l’unità delle determinazioni nella loro opposizione» (il loro tenersi ferme l’una nell’altra) è appunto il non-esser non-A da parte di A (è appunto l’esser altro dell’altro).71
Facile intuire da questi passaggi come Severino insista a più riprese sullo svolgimento processuale della contraddizione, e ciò proprio a mettere in luce come per relazione concreta nella dialettica hegeliana debba intendersi l’esito della processualità, risultato del divenire in cui consiste l’autoproduzione della relazione72. E l’insistenza severiniana non è affatto secondaria: la dialettica della struttura originaria, sostiene lo stesso Berto, rifiuta che la posizione della relazione e dei principi logici sia
70. Cfr. G.W.F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (d’ora in avanti, Enz), in W 8, parr. 79-82, pp. 168-170; tr. it. di V. Cicero, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Bompiani, Milano 2015, pp. 226-229. 71. E. Severino, Tautótēs, cit., p. 46. Cfr. pure Id., La struttura originaria, cit., p. 39: «L’opposizione non è una violazione del principio di non contraddizione, ma è la stessa non-contraddizione». 72. Su ciò, cfr. E. Severino, Tautótēs, cit., p. 95. Si tenga sempre presente che dall’osservatorio della struttura originaria della necessità il disporsi della posizione concreta del principio di identità e non contraddizione come risultato di un divenire è null’altro che l’occultamento della sua impossibilità, istanziata dall’identificazione dei non identici.
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risultato di un divenire, e in generale «rifiuta che vi siano risultati perché rifiuta che vi sia divenire»73. Il punto è decisivo e centrale per l’indagine, nonché per la tesi che stiamo sostenendo in questo capitolo conclusivo: la posizione del destino implica il toglimento del concetto astratto dell’astratto, id est: dell’isolamento semantico. Che il toglimento dell’astrattezza peculiare della determinazione immediata allora sia presentato come risultato di un processo è contraddittorio, perché nella prospettiva severiniana implicherebbe comunque l’identificazione dell’essente al nulla, elemento centrale di ogni teoria del divenire. Questa linea critica, in Tautótēs esplicitata forse ancora meglio che in altri luoghi, è ciò che sta alla base pure delle riserve e dei rilievi mossi da Severino a proposito del metodo dialettico hegeliano nella nuova Introduzione a La struttura originaria. Nucleo dell’argomentazione è, in fondo, mostrare che laddove s’intenda porre il concreto quale esito o risultato di un processo, non si riuscirebbe tuttavia a palesare la necessità della contraddittorietà dell’immediato o dell’elemento astratto74, e di conseguenza l’innegabilità della posizione del 73. F. Berto, La dialettica della struttura originaria, cit., p. 228. 74. Più nello specifico Severino individua due piani o livelli del metodo dialettico hegeliano. Il primo è quello per cui, presupposto fondamentale dello svolgimento, è il divenire stesso: si dà il contraddirsi dell’astratto in quanto l’astratto è cominciamento del divenire ma, appunto, ciò che si presuppone come evidenza originaria è proprio il divenire. Il secondo, invece, è quel livello ove Hegel tenterebbe di dedurre il divenire dall’astratto o dal significato, sostenendo che il finito o il significato è un sopprimersi e un divenir altro «non in quanto il finito è appunto il cominciamento del sopprimersi, ma in quanto il finito è finito» (E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 53). Il rimando è a quei passi in cui il filosofo di Stoccarda sostiene esplicitamente che il significato immediato è «in lui stesso il manchevole» (G.W.F. Hegel, WdL II, p. 555; tr. it. cit., vol. II, p. 940). È il punto sul quale anche noi abbiamo insistito, nello specifico trattando della logica della riflessione: l’immediata identificazione di positivo e negativo è quel che risemantizza, infatti, il disporsi dell’immediatezza come parvenza autocontrad-
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concreto. Bene che la dialettica hegeliana si sforzi d’individuare la posizione concreta del principio di non contraddizione, ma se poi lo si pone come risultato va mostrato il motivo del suo risultare dal contraddirsi dell’astratto. E in questo, secondo Severino, Hegel non riesce se non mediante petizione di principio. Questo giro di concetti può ben essere considerato come una sorta di filo conduttore, in grado di raccoglie le critiche rivolte da Severino alla dialettica hegeliana in tanti testi: se la filosofia hegeliana non pretende affatto di negare il principio di non contraddizione, ma anzi intende porlo concretamente in qualità di risultato del processo, ciò non toglie che la medesima strutturazione dialettica fallisca proprio laddove questa intenda riconoscersi come necessaria e dunque innegabile. Nella Risposta alla Chiesa, per esempio, leggiamo che la dialettica hegeliana non è in grado di rendere ragione del «perché “la determinazione isolata” (ossia concepita come indifferente all’apparire del suo opposto) debba “sopprimersi da sé”, cioè “contraddirsi”, “passare nel suo opposto”. E l’implicita indicazione del ‘perché’ si risolve, nella dialettica, in una petitio principii»75. Che la contraddittorietà dell’astratto assuma lo sta-
dittoria, il cui divenire o svolgimento assume la valenza del moto riflessivo su cui ci siamo soffermati nella discussione della filosofia hegeliana. Non si dà mai, insomma, una positività sulla quale opererebbe, ab alio, il negativo; originario è piuttosto il negarsi dello stesso negativo che quindi si configura come un «movimento da nulla a nulla», elemento che problematizza, come abbiamo già evidenziato, la lettura severiniana della dialettica hegeliana in quanto teoria del divenire nei termini di passaggio da un terminus a quo (astratto, immediato, isolamento) a un terminus ad quem (concreto, risultato, non isolamento) e della conseguente contraddittorietà nichilistica. Per la trattazione critica dei “due livelli” presenti nella dialettica hegeliana, come per il fallimento della “deduzione” del divenire, cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 47-61. 75. E. Severino, Risposta alla Chiesa, in Id., Essenza del nichilismo, cit., pp. 317-387: p. 356. Cfr. pure ibidem: «Se non si presuppone sin dall’ini-
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tuto di necessità logica in Hegel, secondo Severino, presuppone da ultimo una celata operatività del concreto, che dunque agirebbe sotto banco sin da quello che invece dovrebbe essere solo il cominciamento dell’andatura logica76. Occorre allora capovolgere la dialettica: se posizione concreta del significato è risultato di un processo, questa posizione non può essere necessaria e presta quindi il fianco alla possibilità della sua negazione. La concreta posizione del principio di identità e non contraddizione, allora, è posizione originaria, la quale si realizza, sub eodem, con l’accertamento dell’immediato toglimento dell’astrattamente astratto. È sui binari della Dottrina dell’essenza che corre la trattazione dei principi logici nell’orizzonte proprio della filosofia hegeliana. In essa, infatti, viene passata in rassegna la risemantizzazione delle categorie da sempre adoperate nella storia della metafisica entro il corso riflessivo in cui consiste il movimento
zio che il finito è necessariamente unito al suo contesto, non si vede perché, separato dal contesto – cioè pensato come indifferente all’apparire del suo opposto –, il finito debba “avere questo di proprio, di sopprimere se medesimo”». 76. Cfr. E. Severino, La struttura originaria, cit., pp. 47-48: «il nesso necessario che compare come toglimento della contraddizione dialettica, ed è pertanto risultato, è insieme l’originario, la cui violazione da parte dell’intelletto isolante e separante provoca tale contraddizione, sì che il costituirsi di quest’ultima rimane da ultimo senza fondamento». La contraddizione dell’isolamento è violazione del nesso in cui consiste il risultato, ma dunque il risultato è, insieme, risultato e non risultato, esito processuale e presupposto originario della contraddittorietà: petitio principii. Su questo preciso punto, cfr. pure Id., Gli abitatori del tempo, cit., pp. 66-67: «Nella struttura del metodo dialettico l’unità necessaria […] appare esplicitamente soltanto come risultato del movimento dialettico, cioè come toglimento della contraddizione, e quindi essa non può valere come l’immediato, l’originario che viene scisso dall’intelletto […]. Se la determinazione isolata è posta come un contraddirsi, è perché implicitamente è stata presupposta l’unità necessaria da cui la determinazione è stata isolata».
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del Wesen77. In linea generale, possiamo dire che tale movimento provveda a togliere il reciproco e vicendevole isolamento delle determinazioni – su tutte: identità e differenza –, di modo che loro verità si palesi quella dell’«intiero del movimento pensante», rispetto al quale le essenzialità consistono in «semplici momenti dileguanti»78. E tale sequenza riflessiva è mossa nonché ravvivata dall’intrinseca negatività che, di stazione in stazione, viene a scogliere esteriorità e isolamento in cui la determinatezza astrattamente intesa pareva imprigionata. Presentando l’esigenza dell’«occulta necessità di aggiungere all’identità astratta anche il di più di quel movimento»79, la filosofia hegeliana esprime lo sforzo di condurre a coscienza l’operatività che nell’identi-ficazione dell’essente agisce. In gioco è quella riflessività che consente di riguardare alle dinamiche del pensare come a un’attività tutta negativa il cui esito posizionale è l’identità dell’essente con se stesso. Riferendosi al concetto hegeliano col verbo «concepire» (das Begreifen) – piuttosto che col sostantivo «concetto» (Begriff) –, Alfredo Ferrarin intende evidenziare la cifra per cui, quella della dinamica concettuale, è anzitutto un’attività produttiva di categorie e forme che incarnano la determinatezza che lo stesso pensiero dà a se stesso80. I concetti finiti, insomma, non sono che tappe dell’immanente determinarsi dell’attività in cui consiste il pensare. Facendo nostro questo prezioso suggerimento, 77. Cfr. G.W.F. Hegel, Enz, par. 114, p. 236; tr. it. cit., p. 271: «Questa parte della Logica [: la Dottrina dell’essenza], contiene prevalentemente le categorie della metafisica e delle scienze in generale». 78. Cfr. G.W.F. Hegel, Phäg, p. 228; tr. it. cit., vol. I, p. 251. Per una disamina più esaustiva rimandiamo a L. Lugarini, Orizzonti hegeliani di comprensione dell’essere. Rileggendo la «Scienza della logica», cit., pp. 271-276. 79. Cfr. infra, cap. III, par. 5. 80. Cfr. A. Ferrarin, Il pensare e l’io. Hegel e la critica a Kant, Carocci, Roma 2016, pp. 79-80.
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potremmo sostenere come analogamente, attraversando i principi del pensare, la Scienza della logica si occupi di metterne a fuoco il loro attivo principiare, ossia di porre sotto la lente d’ingrandimento operatività e prassi che consentono di riguardare alle determinazioni del pensare non come a qualità ereditate dagli enti per via ignota e misteriosa, bensì come l’esito della peculiare performatività conveniente all’attività riflessiva nel suo concreto operare. Ed è un punto decisivo, proprio in quanto viene a scavare una netta differenziazione rispetto alla filosofia severiniana: in Hegel l’identità dell’essente non è, sic et simpliciter, ma è prodotta dall’intrinseca dinamica del pensare che così l’ha posta. Il punto è sempre quello della Differenzschrift: comprendere il divenuto del mondo intellettuale come un divenire, il prodotto come un produrre. E secondo la nostra lettura, proprio questo è il senso più rilevante della processualità hegeliana: intendere ed esprimere il divenire del divenuto, il produrre di cui il prodotto istanzia il precipitato risultato calmo. È quanto avviene pure a proposito della differenza, la seconda delle determinazioni riflessive. Il tentativo è quello di condurre a integrale manifestazione il puro e assoluto differenziare in atto come tale. Nella differenza tra A e non-A, Hegel rivolge l’invito a mirare al «semplice non», ove ciò che va messo in luce è appunto quel fare del pensare mediante cui, ciò che sembrerebbe l’astratto presupposto costituito dall’immediatezza – in questo caso: il semplice, muto e insignificante «A» –, accede e guadagna la propria significanza in quanto prodotto del pensare che agisce differenziando, ossia come unità negativa all’interno della quale A e non-A vengono a contrapporsi guadagnando e accedendo al loro proprio significato. Osserviamo allora un’ulteriore istanziazione di quella processualità in cui abbiamo visto consistere il facere del pensare riflessivo, per cui la riflessione sorpassando la bruta immediatezza viene a manifestarla e porla come risultato della sua medesima ope-
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ratività, non lasciandosi alle spalle nessun presupposto. È emblematico per il nostro tracciato come Hegel, in questo punto della Scienza della logica, adoperi proprio una formulazione che riduce all’osso la negatività espressa dal principio di non contraddizione (A non è non-A); e forse, ancora più interessante, è notare ciò su cui viene a cadere la lente d’ingrandimento del filosofo di Stoccarda: non si tratta tanto di tenere fermo o meno il principio di non contraddizione, ma semmai di attestarne l’operatività, la prassi che fa sì che tale principio possa esser riguardato secondo la performatività del pensare nella sua capacità di far sorgere da se stesso i significati. Secondo questa linea ermeneutica, il principio di identità e non contraddizione verrebbe a istanziare in Hegel quella dinamica del pensare tramite cui gli essenti accedono alla loro propria significanza. Questo è quindi il senso entro cui l’esser sé dell’essente e il non esser l’altro da sé verrebbe riguardato dalla prospettiva hegeliana, di modo che se di principio di non contraddizione deve parlarsi, allora occorre rivolgersi a quell’attivo principiare riflessivo in forza del quale l’immediatezza data o presupposta viene negata e posta in quanto risultato del lavorio del pensare. Notiamo, per inciso, come questa esigenza o prospettiva sia del tutto assente entro la filosofia severiniana, proprio in quanto l’ontologia del destino traduce una processualità del genere in una contraddizione già da sempre bandita, interpretando conseguentemente come contraddittoria la stessa possibilità che l’essente si qualifichi come suo esito. Riformulata in termini di passaggio da terminus a quo a terminus ad quem, la dialettica hegeliana è divenire nichilisticamente inteso, contraddizione logica: ovunque e a più livelli, la dialettica è contaminata da aporie. Questo movimento è tuttavia un ulteriore indice o segnale che consente di riguardare alla prospettiva hegeliana come a una filosofia che faccia dell’assenza di presupposti la stella del proprio firmamento: lungi dall’imbattersi in immediatezze
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belle e fatte, costituite alla guisa di un ostacolo per il pensare, l’attività riflessiva riconosce in esse quelli che sono precipitati del suo stesso fare, attestando e disvelando quel che sulle prime parrebbe un morto presupposto come un suo stesso prodotto, ciò che è stato posto come presupposto. Identità e differenza non sussistono allora come categorie logiche che ristagnano nelle cose innanzi al pensare, ma incarnano bensì i precipitati delle modalità riflessive in cui si struttura l’operatività del pensare. Chi si è diffusamente soffermato proprio su questa cifra dell’assenza di presupposti, entro quel movimento concettuale assolutamente libero e immanente che è la processualità logica hegeliana, è stato sicuramente Stephen Houlgate, la cui linea ermeneutica mira ad allontanare da tale dinamica autonoma e ateleologica qualsiasi metodo estrinseco volto a instradarla o coartarla entro direttive predeterminate81. Probabilmente l’orizzonte teoretico da cui muove il confronto severiniano con Hegel, tutto indirizzato a scorgere nel metodo hegeliano il tentativo di porre concretamente il principio di non contraddizione sin dal suo cominciamento, andrebbe a inserirsi nella lunga sequela di interpreti – tra cui Schelling e Heidegger – che si sono smarcati da questa cifra del pensare hegeliano e sui quali è quindi caduta la scure di Houlgate. E ciò proprio se si pensa all’accusa di petizione di principio mossa al metodo hegeliano, ché esigenza della logica di Hegel non è affatto quella di porre il nesso necessario delle determinazioni – o, beninteso, la sua negazione – come risultato, bensì piuttosto quella di rendere testimonianza dell’intrinseco e immanente sviluppo ateleologico del contenuto logico nella sua pura libertà82. 81. Cfr. S. Houlgate, The Opening of Hegel’s Logic, cit. pp. 54-59. 82. E forse è proprio la mancanza di questa processualità nella filosofia severiniana a giustificare l’assenza di un analogo della Fenomenologia dello spirito. Se infatti pensiamo a La struttura originaria, in essa l’immediatezza
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10. Contraddizione C e processualità Questo terzo capitolo è stato sinora dedicato alla messa in luce di un’importante differenza quanto allo statuto del pensare proprio delle filosofie di Hegel e Severino. Discutendo di relazioni logiche e principi del pensare, il tentativo è stato quello di mostrare come nel divenire della filosofia hegeliana fosse in gioco, anzitutto, quell’efficacia determinatrice del concetto che consente di riguardare ai significati come precipitati di un facere. Identità va letta anzitutto come identi-ficazione, dicevamo. In certa misura, proprio a questa performatività del pensare la filosofia severiniana si è mostrata cieca. E a ragione, dal suo punto di vista: che identità e differenza siano l’esito della processualità, comunque poi si intenda quest’ultima, è concedere fin troppo al divenire e alla contraddizione. All’esser sé dell’essente, che incarna la legge propria del Destino, compete l’immediatezza propria del fondamento. Questa, in sintesi, la radice delle aporie via via enucleate nell’interpretazione severiniana della dialettica di Hegel.
fenomenologica consiste anzitutto nell’accertare l’automanifestatività dell’essere, di modo che si dia l’originario toglimento del presupposto naturalistico, atteggiamento imprigionato nell’alterità tra essere e pensare. Da questo angolo prospettico, l’ipotesi di una disgiunzione tra certezza e verità – all’opera nell’itinerario fenomenologico hegeliano – è originariamente caduta: essere e pensare sono lo stesso, poiché ogni ulteriorità rispetto al pensare è posta dal pensare. Pensando allo svolgimento della Fenomenologia dello spirito, potremmo dire che l’operazione severiniana consista nel condensare l’intera «storia della civiltà» (G.W.F. Hegel, Phäg, p. 32; tr. it. cit., vol. I, p. 23) in un simile dispositivo elenctico; è chiara l’influenza della nozione bontadiniana – peraltro fatta propria da Severino già in Heidegger e la metafisica – di «fondamento metodologico», corrisponde alla detta unità di essere e pensare. A monte, ci pare possibile individuare nell’obiezione gentiliana della Riforma della dialettica hegeliana alla distinzione fra Fenomenologia e Logica un ulteriore precedente di tale filone genealogico. Per un’esposizione sintetica ma limpida della tematica, cfr. L. Messinese, Nel castello di Emanuele Severino, cit., pp. 94-98.
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Quel che ci resta da fare in questo paragrafo, allora, è tornare sul tema della contraddizione C, cui abbiamo dedicato l’intero secondo capitolo del presente scritto. E vi ritorniamo con uno scopo ben preciso: che vi sia condanna del divenire nichilisticamente inteso, come per Severino è pure quello hegeliano, che vi sia condanna del divenire nichilisticamente inteso, dicevamo, non toglie che concezione autentica del divenire debba pur darsi. Ciò in qualche misura scuote l’idea di una pacifica posizione del destino, come se, accertatane l’originarietà, i giochi siano già terminati. Tutto il contrario: è proprio il tema della contraddizione C, che chiamando in causa quello della processualità, viene a istanziare la molla dialettica che, dall’interno, fa cenno ai limiti dello stesso originario83. Contraddizione C dice infatti anzitutto la ferita dell’originario medesimo, il differire del finito dall’infinito. Trattandosi dell’originario, grammatica trascendentale dell’ente in quanto ente, la malattia contagia a cascata la totalità degli essenti, già sopraggiunti e non. Abbiamo visto, inoltre, come contraddizione C sia qualcosa di ben diverso dalle normali contraddizioni: essa, infatti, non nega la verità dell’essere, bensì la tace, la manifesta parzialmente. L’esser sé dell’essente implica l’epifania della totalità concreta, costante persintattica, ossia determinatezza il cui apparire è necessariamente chiamato in causa
83. Inseriamo in nota qualche precisazione di carattere metodologico. Per evitare di appesantire l’esposizione, il richiamo della contraddizione C sarà effettuato sinteticamente, in quanto vi abbiamo dedicato un intero capitolo cui rimandiamo per una maggiore esaustività. Inoltre, al termine del secondo capitolo, abbiamo assunto una sorta di postura critica in merito agli esiti ontologici implicati dalla contraddizione C, nonché dalla sua evoluzione entro l’intera arcata della filosofia severiniana. E tuttavia, dall’interno della finalità di questo capitolo – sinteticamente: individuare alcuni luoghi del dialogo ideale tra Hegel e Severino –, possiamo lasciar cadere in secondo piano la nostra problematizzazione della differenza ontologica che invece, in quella sede, era così centrale.
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da ogni essente. Che la totalità concreta non appaia in quella che è la sua costitutiva pienezza, determina quindi la steresi posizionale quanto a una di quelle determinazioni necessarie affinché qualsiasi essente possa darsi secondo il suo autentico volto. Niente totalità concreta, niente autentico volto dell’essente: manifestazione solo astratta della prima, manifestazione solo astratta o formale del secondo. Quel che hic et nunc ci è dato, di più: quel che ci sarebbe dato all’indomani del tramonto dell’isolamento della terra e del tremendum, non è quel che si manifesta alla luce dell’abbraccio dell’Immenso. Sarà pure Gloria della Gioia l’infinito incedere del destino all’indomani dell’evento che in sé concentra venerdì santo e pasqua, ma tal glorioso cammino è chiaroscuro dell’infinita luminosità propria della Gioia, inarrivabile inconscio. Il massimo splendore della Gioia è altrettanto bene l’oscurità mai esaustivamente illuminabile. Luce e ombra coincidono in Severino. Compiamo ora un passo ulteriore, riprendendo la concezione della temporalità autentica84, ossia la riconfigurazione del divenire entro la filosofia di Severino. Scrive il pensatore bresciano: «L’originario può apparire solo se appare il Tutto; e tuttavia il Tutto non appare, si nasconde all’originario, e insieme progressivamente si svela»85. Decisiva la funzione della processuali-
84. Sul tema dell’autenticità nella filosofia di Severino, cfr. A. Tagliapietra, Autenticità e verità nella filosofia di Emanuele Severino, in A. Petterlini G. Brianese - G. Goggi (a cura di), Le parole dell’essere, cit., pp. 567-580. In particolare, cfr. ivi, p. 577: «Infatti, se la fede nel divenir altro è l’essenza del nichilismo, la caratteristica che congiunge e tiene assieme tutta l’ostinata e tenace riflessione severiniana sulla verità dell’essere, da La struttura originaria fino a La Gloria, è, in ultima analisi, il tentativo di pensare e, dunque, abitare un senso non alienato dell’identità. Se per ogni essente l’impossibilità assoluta è il divenir altro, ogni essente è se stesso e, inoltre, la totalità degli essenti è la totalità dell’esser se stesso in cui l’esser sé di ogni ente è legato con necessità all’esser sé di ogni altro essente». 85. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 73.
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tà nella filosofia severiniana. Essa costituisce nientemeno che la stessa progressiva epifania della totalità concreta, dinamica equipollente al processuale toglimento della contraddizione C. E una volta accertata l’originarietà della differenza tra finito e infinito, tale toglimento fa propria la cifra dell’infinità processuale: indefinito e mai compiuto crescendo che via via disvela la totalità concreta. Rispetto a quanto ravvisato nel resto del presente capitolo, ci pare che proprio la dinamica in cui consiste il toglimento della contraddizione C avvicini maggiormente la prospettiva severiniana a quella hegeliana. Come abbiamo visto a proposito del pensatore di Stoccarda, la logica della riflessione ci dice che verità dell’immediato è quella del suo superamento. Per tentare di esemplificare sinteticamente la questione, ci avvaliamo di una bella illustrazione di Bertrando Spaventa. Nel suo importante Logica e metafisica leggiamo: Ma, se l’oggetto come questo è negato, non perciò è annullato; anzi, è saputo meglio di prima; solo negato così è saputo nella sua verità. Sarà una disgrazia che l’oggetto, perché sia saputo davvero, non rimanga com’è in quanto nudo questo; ma non ci è che fare: è la disgrazia del sapere. Per sottrarsi a tal disgrazia non c’è altra via che non sapere […]. Questo cappello non vuol saperne del cappello; si ribella, gridando all’usurpazione, alla tirannia: all’idealismo. In verità è una ribellione contro se stesso perché il cappello è la stessa essenza sua: la sua verità (Io non posso dire questo cappello, non posso parlare, se non dico: cappello).86
La negazione dell’oggetto operata dal pensare viene a porlo nella sua verità, questa la disgrazia del sapere spaventiana. Lo sforzo, dicevamo, consiste nel pensare il negativo come immanente all’essere, di modo che in gioco sia anzitutto il negarsi 86. B. Spaventa, Logica e metafisica, in Id., Opere, a cura di F. Valagussa, postfaz. di V. Vitiello, Bompiani, Milano 2008, pp. pp. 1757-2185: p. 1839.
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dell’essere stesso. A dire: che il cappello sia cappello, è la dialettica intrinseca al «nudo questo» che lo esige, anzi, è proprio il nudo questo che si nega come tale venendo conseguentemente a porsi come «cappello» secondo la sua stessa essenza. E questo sottofondo ci pare in profonda sintonia con il tema della contraddizione C nella filosofia severiniana: verità dell’originario, verità del fondamento, è quella del suo stesso disvelarsi, processualità grazie a cui può diventare quel che è e guadagnare il suo autentico volto. In realtà è sufficiente restare in La struttura originaria per annotare la detta prossimità, in quanto la medesima è pienamente dichiarata dal pensatore bresciano. Nel capitolo VIII, che titola emblematicamente Fondamento come contraddizione, Severino discute i rapporti tra immediato e mediazione, totalità dell’immediato e totalità del mediare. Totalità dell’immediato è piano base della struttura originaria, ossia posizione assoluta della contraddizione C in quanto affetta dalla massima steresi iposintattica. Totalità del mediare, al contrario, è l’assoluto toglimento della contraddizione C, la totalità concreta su cui ci siamo diffusamente soffermati. A essere in gioco, è il medesimo giro di concetti che si palesa in un nodo delle importanti pagine della Prefazione alla Fenomenologia dello spirito. Qui Hegel tratta della contraddittorietà che compete al principio, in quanto esso è soltanto principio e non ha ancora dispiegato la propria operatività nel suo sviluppo. In tal senso, il principio è solo un’universalità astratta, è solo cominciamento la cui realizzazione è né più né meno della sua confutazione. Scrive Hegel: «La realizzazione può quindi venire anche presa come confutazione di ciò che costituisce il fondamento del sistema; meglio però essa è da riguardarsi come un indice che il fondamento o il principio del sistema sono, nel fatto, soltanto il suo cominciamento»87. Il fondamento, in quanto astratto cominciamento, è contraddittorio. Lo sviluppo è la 87. G.W.F. Hegel, Phäg, p. 28; tr. it. cit., vol. I, p. 19.
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confutazione del fondamento, ossia toglimento della sua contraddittorietà. Sono movenze in notevole sintonia con quelle che Severino indica a costituire il processuale toglimento della contraddizione C. Ne è una spia il fatto che, discussi questi passi proprio nel detto capitolo de La struttura originaria, il pensatore bresciano li sottoscriva in pieno: «è notevole rilevare come tutte queste considerazioni dello Hegel siano pienamente valide, o, forse meglio, si possano integralmente riferire o adattare al rapporto sopra indicato tra totalità dell’immediato e totalità del mediare»88. Totalità dell’immediato è assoluta posizione della contraddizione C; processuale realizzazione della totalità del mediare ne è progressivo e graduale toglimento. Il realizzarsi della totalità del mediare si avrebbe, quindi, con l’impossibile sviluppo totale del fondamento. Chiosa Severino: Il processo che conduce alla realizzazione assoluta del fondamento è quindi il processo che conduce a porre il fondamento come ciò che esso è: soltanto al termine di questo processo il fondamento è posto come ciò che esso è. La linea dell’avanzamento si manifesta così come un circolo: l’inizio è lo scopo, o l’inizio è il risultato: ciò che si intende porre allorché si pone la totalità dell’immediato, è ciò che è realmente posto al termine del processo della mediazione; sì che il fondamento della mediazione – l’inizio del processo – è lo scopo o il risultato del processo stesso. Pur essendo immediatamente in vista come posizione formale dell’immediato, lo scopo è realizzato soltanto da ultimo. Come totalità dell’immediato, il fondamento è il primum in intentione: è ciò che si deve pensare per primo; ma è l’ultimum in executione: ciò che soltanto da ultimo si manifesta89.
Sorpassare l’immediato è l’imbattersi in esso: autenticità del l’immediatezza propria dell’originario l’avremmo solo all’indo-
88. E. Severino, La struttura originaria, cit., p. 357. 89. Ivi, p. 360.
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mani del processo in cui, via via, sempre più esso si concreta e realizza in quel che è il suo immanente sviluppo. In questo senso guadagna piena cogenza la processualità entro la filosofia severiniana, assumendo tra l’altro cadenze tipicamente hegeliane. Se questa è l’ossatura teoretica della processualità del destino, non va tuttavia dimenticato lo statuto della differenza che abbiamo passato in rassegna da La struttura originaria sino a Oltrepassare. Si tratta di quell’aspetto, dicevamo, per cui finito e infinito non possono assolutamente identificarsi, pena la violazione dell’inscalfibile legge dell’esser sé dell’essente90. Forse è proprio questo il tratto su cui occorre battere l’accento per indicare un’importante differenza rispetto alla processualità hegeliana, poiché in Severino l’ineliminabile biforcazione dei piani che s’inscrive tra finito e infinito, parte e tutto, assume un ruolo decisivo. Non tanto con la finalità di rilevare, tuttavia, l’assenza di una differenza del genere nella filosofia hegeliana: a tal proposito, infatti, Gaetano Rametta ha individuato nel tema dell’esposizione speculativa (spekulative Darstellung) la fonte di un’inesauribile traduzione dell’infinito nel finito, a testimonianza della vitalità propria della dialettica hegeliana. Scrive Rametta: Al “circolo di circoli” descritto dal sistema, i conti tornano, per così dire, solo nella misura in cui ne avanza un resto, che sfasa di continuo la coincidenza di questo pensiero con se stesso,
90. In sintonia col secondo capitolo del presente scritto, ricordiamo come ciò valga dal punto di vista dell’apparire finito, poiché per altro verso – che non è comunque quello che ci è dato esperire – l’infinito già tutto dato e dispiegato è, per l’appunto, l’originario toglimento di ogni contraddizione. In merito, cfr. E. Severino, Risposta alla Chiesa, cit., pp. 372-373: «La totale manifestazione dell’ente è già da sempre compiuta. Questo compimento non è un poi rispetto al prima dell’incompiutezza. Quindi, ogni poi raggiunto dall’interazione dell’apparire – ogni più abbondante semina degli enti –, non colma la differenza tra il già da sempre compiuto e ciò che è ed è destinato a rimanere in via di compimento».
219 e che proprio così, per l’eccedenza che dall’interno scuote e vanifica la dialettica, la mette in moto.91
Se dunque la funzione della differenza viene conservata pure nella filosofia hegeliana, tuttavia nostra tesi è che sussista comunque una cesura quanto alla modalità in cui la medesima si configura entro la filosofia severiniana, ossia quella di un costitutivo scarto del processo rispetto a una totalità concreta già da sempre data. Si tratta dell’infinita e incessante processualità peculiare dello svolgimento dell’essente in cui consiste la Gloria della Gioia, iuxta propria principia destinata a non poter mai abbracciare il gioioso inconscio della sua più autentica verità. Probabilmente Hegel guarderebbe a tale processualità che mai riesce a raggiungere l’infinito come a un acritico tentativo di pensare infinito e finito in vicendevole separatezza, contraddittorio quanto alla parzializzazione della totalità che, così, opererebbe sotto banco. Del resto, quella della cattiva infinità (schlechte Unendlichkeit) è una critica rivolta dal pensatore di Stoccarda proprio a Fichte, quello stesso Fichte così vicino a Severino, tanto dal venire richiamato nella chiosa a La struttura originaria. Mutuata nel capitolo VIII la figura hegeliana del circolo, il compimento ne è tuttavia differito ad infinitum. Il circolo si trasmuta in retta, linea che, asintoticamente, si approssima alla sua già da sempre realizzata verità92. Dal punto di vista hegeliano, una simile operazione equivarrebbe proba-
91. G. Rametta, Il problema dell’esposizione speculativa nel pensiero di Hegel, nuova ed., Inschibboleth, Roma 2020, pp. 206-207. Per l’argomentazione concreta a sostegno della tesi qui solamente enunciata, rimandiamo direttamente al volume di Rametta. 92. Cfr. G.W.F. Hegel, WdL I, p. 164; tr. it. cit., vol. I, p. 153: «L’immagine del progresso all’infinito è la linea retta. Solo ai due limiti di questa l’infinito è e continua sempre ad essere, là dove la linea, che è esserci, non è […]. Come vera infinità, ripiegata in sé, la sua immagine diventa il circolo, la linea che ha raggiunto se stessa, che è chiusa e intieramente presente».
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bilmente all’ipostatizzazione di un’ulteriorità rispetto all’assoluto contraccolpo in se stesso proprio della dinamica riflessivoconcettuale. Il controcanto severiniano, da par suo, potrebbe mostrare come non si tratti affatto di un presupposto, né tantomeno dell’ipostatizzazione di un astratto infinito, come se in gioco fosse semplicemente un oltremondo separato dal finito. La differenza dei piani, in Severino, è posta secondo necessità, sua negazione è violazione della necessità del destino, violazione dell’inviolabile. In una parola: l’impossibile93. Infinito, per Severino, non è semplicemente l’altro dal finito. La Gioia, infatti, è bensì lo stesso finito alla luce dello sguardo – non umano – che lo mira nella verità propria della totalità delle sue relazioni. Scrive Severino: «l’apparire infinito è l’apparire infinito del destino, e pertanto non è il cerchio finito del destino; e tuttavia esso è assolutamente questo cerchio finito»94. Sollecitando un’ulteriore linea di approfondimento, potremmo dire: fenomeno e noumeno. Disponendo la tematica sul tappeto in questi termini, abbiamo dunque buon gioco a render conto dei contorni propri della differenza tra processualità hegeliana e severiniana. Riflessione hegeliana dice anzitutto un’infinitudine o negatività immanente al finito stesso, sì da costituirne l’intima e aderente motilità. Ciò non equivale a eliminare la differenza, che anzi permane a inquietare e ravvivare immanentemente la dialettica. In Severino quest’ultimo concetto della processualità non è certo assente, e tuttavia resta nondimeno centrale la differenza nei termini della distanza che separa l’infinito svolgimento del finito – la Gloria della Gioia – dall’infinito in quanto totalità concreta, il «Tutto assolutamente assoluto», per usare l’espressione 93. Ciò rimanda all’aporetica del divenire, tanto quanto alla sua risoluzione operata nel capitolo XIII de La struttura originaria. In merito, rimandiamo al secondo capitolo del nostro scritto. 94. E. Severino, Oltrepassare, cit., p. 175.
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di Oltrepassare. Il primo senso dell’infinito, quello più vicino a Hegel, ha la sua più autentica e profonda verità nel secondo, totalità concreta già da sempre compiuta. A voler tradurre tutto ciò in lessico più colloquiale, cercando parimenti di evitare il rischio della superficialità, potremmo dire: legge del destino vuole che mai, quel che hic et nunc si manifesta, possa dire di essere quel che è autenticamente; al contrario, la dialettica hegeliana, ci dice che la verità di quel cui assistiamo è, in ogni momento, lì presente, proprio in quel che qui e ora si manifesta come esito dell’«operare di tutti e di ciascuno»95. Lo spirito nuovamente tornerà a riflettere su se stesso, e così se ne daranno nuove configurazioni, nuove epoche storiche a mo’ di fermo immagine della sua vitalità. Ma il cammino dello spirito non va commisurato a nessuna totalità concreta, a nessun inconscio. Mai si riduce il pensiero alla figura attuale, poiché mai in essa si pacifica pienamente, e quindi ne sorgeranno di nuove – qui, dicevamo, il senso della differenza, la radice dell’immanente trascendersi dello spirito. E tuttavia non è necessario differirne il compimento, tematica al contrario tanto centrale per Severino: la ferita che condanna ogni cosa a mostrarci un volto unicamente parziale di sé, si toglierebbe solo con la piena manifestazione della totalità concreta. Prendendo in prestito le parole chiare di Sentiero del giorno: la ferita sarebbe rimarginata solo se il nostro sguardo si trasfigurasse in onniscienza96. Nel racconto Funes, l’uomo della memoria, Jorge Luis Borges conia il personaggio di Ireneo, che travolto da un cavallo nella tenuta di San Francisco paga al prezzo della paralisi – dell’immobilità – una memoria e uno sguardo sì profondi da risultare impareggiabili rispetto a visione e ricordi umani: 95. G.W.F. Hegel, Phäg, p. 310; tr. it. cit., vol. I, p. 347. 96. Cfr. E. Severino, Sentiero del giorno, cit., p. 173.
222 Sapeva le forme delle nuvole astrali dell’alba del 30 aprile 1882 e poteva paragonarle nel ricordo con le venature di un libro rilegato in pelle che aveva visto una sola volta e con il tracciato della schiuma che un remo sollevò nel Río Negro alla vigilia dell’impresa del Quebracho.97
La memoria di Ireneo Funes è tale da non aver neppure bisogno di scrivere, poiché il pensiero una volta che gli passa per la testa lì rimane, indelebile, senza mai cancellarsi. Ebbene, se una siffatta profondità di veduta è per noi inarrivabile, a maggior ragione lo è quella dell’apparire infinito per la contradizion che nol consente. Impossibile il sapere totale, merito della filosofia severiniana è l’inequiparabile rigore logico con cui viene a porre la finitezza della ragione umana. Ragione umana in senso stretto e preciso, e cioè secondo quella che, dell’umano, è l’essenza più autentica: il destino della verità. L’«uomo», lungo tutto il suo cammino sulla terra, è stato inteso come volontà e come potenza. Nello sguardo del destino della verità, l’essenza autentica dell’uomo è lo stesso destino della verità. Nella sua autentica essenza l’uomo non è dunque «originariamente divino», bensì è al di sopra del divino e della «creatività demiurgica» perché è al di sopra della fede nella potenza, è al di sopra della volontà, cioè della fede nella propria capacità di far diventare altro le cose della terra. Nella sua essenza autentica l’uomo è oltre l’«uomo» e oltre ogni «Dio».98
Oltre ogni uomo e oltre ogni Dio, l’essenza autentica dell’uomo non è tuttavia tale da pervenire alla Gioia, la più luminosa – e perciò oscura – delle visioni. 97. J.L. Borges, Funes, l’uomo della memoria, in Id., Finzioni, tr. it. di F. Lucentini, Adelphi, Milano 2003, pp. 95-104: p. 100. Mutuiamo lo spunto da V. Vitiello, Severino/Hegel: un confronto, cit., p. 98. 98. E. Severino, Oltre l’uomo e oltre Dio, a cura di A. Di Chiara, intr. e interventi di C. Angelino, Il melangolo, Genova 2002, p. 108.
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11. Congedo. Lo statuto della logica dialettica: astratto e insignificanza Una volta giunti alla conclusione del nostro tracciato, e dopo aver detto tanto delle “manovre” dialettiche operanti in Hegel e Severino, decidiamo di dedicare questo paragrafo finale della nostra indagine ad avanzare quella che non è niente più di una suggestione, o quantomeno una linea che, dopo aver tanto discusso di immediatezza e isolamento, potrebbe in certa misura aprire a una via in grado di mettere in questione, dall’interno, la patente di assolutezza pretesa da ambedue le posizioni filosofiche99. Forti di questo intento, potremmo lasciar cadere la lente d’ingrandimento sul tratto comune a dialettica hegeliana e severiniana, tratto in qualche modo già messo in luce: sebbene in modo diverso, nucleo di ambedue gli orizzonti speculativi è il toglimento dell’immediatezza, ossia la possibilità che l’astratto risulti significante di là dall’ambito logico-dialettico di cui è sancita l’apertura. È quanto abbiamo accertato rilevando come ambedue le prospettive dialettiche si ponessero con un unico e medesimo gesto: il toglimento dell’astrattamente astratto, o dell’immediatezza hegeliana. È a partire da questo toglimento che l’immediatezza si è palesata nel suo originario collocamento, da un lato, entro l’apertura della struttura originaria della necessità e, dall’altro, nelle dinamiche riflessive che incarnano l’efficacia determinatrice del pensare. Oltre ciò nulla, o quantomeno niente di effettuale100. Pareggiata al nulla è tanto la ne-
99. Riprendiamo e ampliamo alcuni degli spunti già discussi in infra, cap. I, par. 9.2. 100. Rispetto all’idea assoluta, infatti Hegel riconosce un resto, che però «è errore, torbidezza, opinione, tendere, arbitrio e caducità; soltanto l’idea assoluta è essere, vita che non passa, verità di sé conscia, ed è tutta la verità» (G.W.F. Hegel, WdL II, p. 549; tr. it. cit., vol. II, p. 935).
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gazione autocontraddittoria dell’esser sé dell’essente, quanto l’immediatezza – altrettanto autocontraddittoria – da cui la riflessione avrebbe preso le mosse. Questa la pretesa assolutizzante della logica dialettica. In conclusione, quel che resta da chiederci è se effettivamente la logica vi corrisponda, o se piuttosto non celi al suo stesso interno tracce, punti ciechi e indizi della propria parzialità. Mettiamo da parte, sul nascere, una via troppo facile: concediamo alla logica che sarebbe puerile e inopportuno continuare a domandarsi quanto resti di là e oltre l’orizzonte logico, in quanto proprio l’operatività dialettica, nell’intero percorso che abbiamo rivisitato, pone se stessa insieme all’accertamento della contraddittorietà di tale opzione. Altro dall’orizzonte logico, è solamente un ulteriore contenuto logico, sì come l’altro dal dicibile è detto. È proprio interrogandosi sulla dialettica hegeliana che Bertrando Spaventa è pervenuto a figurare, meravigliosamente, una questione molto simile a quella da noi sollevata: Il non essere, il no, è dopo l’essere, e solo dopo l’essere, il sì e non ostante l’essere, il sì, l’affermazione. Perché tutto non è essere? Essere semplicemente? Questo è lo stesso problema del mondo, lo stesso enimma della vita, nella sua massima semplicità logica101.
In tale figurazione – iuxta propria principia, per così dire, ambigua – Hegel vi avrebbe scorto ancora l’idea di un’astratta presupposizione del sì al no, sfondo sul quale poi, il «gran prevaricatore»102 del pensare avrebbe agito ex post, corrobo-
101. B. Spaventa, Logica e metafisica, cit., pp. 1927-1928. 102. B. Spaventa, Le prime categorie della Logica di Hegel, in Id., Opere, cit., pp. 327-397: p. 359: «quegli che turba la tranquilla immobilità, l’oscuro impenetrabile sonno dell’assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è il Pensare».
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rando l’idea di una riflessione esterna alle cose. Come puro sì e non no, il sì si contraddice: ecco il movimento dal no al no – dal nulla al nulla – in cui consiste la riflessione: la prevaricazione del pensare è il prevaricarsi stesso dell’essere. A scattare è quella determinatezza del significato che, permeando tutta la logica occidentale, consente tanto ad Aristotele di confutare l’avversario del principio di non contraddizione, quanto a Hegel di elevare la contradictio a regula veri103. Del resto, intento hegeliano era proprio quello di provvedere ad accentuare l’ottusa differenza delle determinatezze, ottusità che le rendeva indifferenti addirittura «di fronte alla loro determinatezza»104. Senso dell’operazione hegeliana era portare l’ottusità a differenza determinata, di modo che ciascuna determinatezza, significando ciò che significa e non altro, significando quell’indifferente che è e non altro, istanzia l’equivalenza di indifferenza e autocontraddittorietà, così palesando il cominciamento già da sempre avvenuto – e dunque: il cominciamento tolto – dell’operatività dialettica. Indifferente all’altro, l’indifferente presuppone la relazione all’altro rispetto a cui è tale, e dunque rovina in concetto autocontraddittorio. Questo, quindi, l’atto o il gesto elenctico che in prima linea occorre illuminare. Un originario passaggio dell’indifferenza – e con lei: immediatezza, insignificanza – in autocontraddittorietà. Atto che, insistiamo, sta alla base del necessario costituirsi dell’operatività logico-dialettica. Passo ulteriore, crediamo, è quello che si potrebbe compiere mostrando come, a ben vedere, di tale piano ottuso, immediato e insignificante sia concepibile ben altro senso rispetto alla con103. Su questo plesso, cfr. M. Adinolfi, Hegel e la costituzione dell’inizio, in «Teoria», XXIII, n. 1, 2013, pp. 283-296. In forma più estesa, si veda pure Id., Qui, accanto, cit. 104. G.W.F. Hegel, WdL II, p. 48; tr. it. cit., vol. II, p. 466.
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traddittorietà che si affaccia una volta indossate le lenti della logica. O meglio: è possibile mostrare come, proprio indossando le lenti logiche, se ne avverta il loro esser tali, ossia un modo di intendere e dire l’essere. Non si tratta quindi di impugnare la pretesa ingenua di ritagliare, circoscrivere e individuare l’orizzonte di quanto, rispetto all’orizzonte logico, resti sempre di là e oltre. Quel che si tratta di tentare è piuttosto di ficcar lo viso in quello stesso elemento – l’astratto – che la logica non può che interpretare come contraddittorio. Questa è poi la direzione che abbiamo assunto quando, trattando della dialettica concreto-astratto in Severino, cercavamo di sollevare le problematiche istanziate dall’impossibilità, da parte dell’orizzonte logico, di attingere a un’immediatezza che in qualche modo potesse resisterle. Problema, dicevamo, non era tanto quello di ricercare tale piano al di fuori, ma al suo stesso interno, in quanto l’indeterminato non è l’altro dal determinato che, in tal modo, risulterebbe esso stesso determinato, ma il determinato medesimo. L’indeterminato si dà proprio nel darsi determinatamente del determinato, non come separato da esso, bensì come l’indicibile che nell’epifania del determinato, e non oltre, si manifesta. In-dicibile proprio in quanto nel dicibile e non altro da esso, ché in quanto tale dovrebbe pur esser detto, e dunque rovinare, in actu exercito, a contenuto contraddittorio. È all’apice della dicitura logica della cosa che, a sperimentarsi, è la sua incapacità a totalizzarla. Per dirla con La filosofia dell’assurdo di Giuseppe Rensi: «ogni filosofia che vuol essere soluzione lo è solo nascondendo a se medesima le obbiezioni mortali che dal seno stesso della soluzione affacciata si levano a colpirla»105. La logica dialettica, quindi, pareggia astrattamente astratto e insignificanza al nulla dell’autocontraddittorietà. Senza pensare 105. G. Rensi, La filosofia dell’assurdo, Adelphi, Milano 20094, p. 16.
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di esaurire le plurime vie che potrebbero aprirsi una volta spalancata questa porta, scegliamo di indicare due suggestioni in grado di dare corpo a quanto stiamo sostenendo in sede esclusivamente teorica. La prima, più esterna al percorso tracciato, quasi a indicarne una possibile e alternativa linea di sviluppo; la seconda, maggiormente aderente alla stessa filosofia severiniana, e che riguarda il tema sollevato con la contraddizione C. Possiamo allora mostrare come l’indifferenza di fronte alla propria determinatezza del diverso sia avvicinabile al dubbio o incertezza che parole, significati ed essenti sempre detengono e serbano. Di tutto ciò, esempio paradigmatico potrebbe essere quello dei forse così poetici di cui ebbe a dire Francesco De Sanctis soffermandosi su uno dei versi più discussi della Divina Commedia106. La scena è quella del conte Ugolino rinchiuso nella Torre della fame coi suoi amati fanciulli, e il forse qui si dà nell’indeterminazione della parafrasi: forse il conte Ugolino è stato ucciso dalla fame? O forse è trascinato al cannibalismo dall’impulso naturale, e quindi a spingere i denti nelle misere carni dei fanciulli? È la stessa incertezza al centro dell’ottusità delle genti che, incapaci a scioglierne il nodo, meditavano sulla vicenda arrovellandosi. Nell’Ugolino che insieme divora e non divora gli amati cadaveri (J.L. Borges) viene qui intercettata una dimensione tipicamente polisemica del determinato verso poetico, ma si potrebbe appunto estendere il discorso a parole e significati in generale, donando così consistenza al problema da noi sollevato in sede
106. Dante Alighieri, Divina Commedia, in Id., Tutte le opere, a cura di L. Blasucci, Sansoni, Firenze 1965, Inferno, XXXIII, 75, p. 494: «Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno». Cfr. F. De Sanctis, L’Ugolino di Dante, in Id., Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, Einaudi, Torino 1967, pp. 679-702: p. 697: «è verso fitto di tenebre e pieno di sottintesi, per la folla de’ sentimenti e delle immagini che suscita, pei tanti “forse” che ne pullulano, e che sono così poetici».
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logica107. È in quest’ottusa differenza ove il significato è indifferente persino rispetto alla propria determinatezza – riprendendo l’adagio della Logica hegeliana – che è concesso allora recuperare quella porzione della realtà della quale la logica, propriamente, non se ne fa nulla. L’indicibile è qui sperimentato proprio nel dicibile e nel detto, nella forma che sente di non aver esaurito l’indicibile in questione, e sente di non averlo esaurito proprio dicendolo. E se compiamo questa manovra non è tanto, dicevamo, per il gusto di alludere a misteri e oscurità confinati in chissà quale regione, ma piuttosto per mostrare quella che potremmo senza indugi definire la necessaria miopia del plesso logico-metafisico. Miopia che in questo caso è possibile sperimentare proprio nell’incapacità a metabolizzare le “forme ottuse” d’esperienza, sguardi astratti che non sono più della comprensione inadeguata di una dialettica già da sempre operante. Sguardo che è opinione (Meinung), direbbe Hegel: vuota astrazione identica al nulla di chi separa ciò che è congiunto. Rimescolate le carte in questo modo, potremmo concludere tornando al ruolo giocato dalla contraddizione C nella filosofia severiniana, cercando di estrarne una suggestione. Al termine del secondo capitolo di questo scritto, abbiamo cercato di prendere le distanze dall’idea di un eterno differimento del compimento, ossia di un infinito da pensare come impossibile termine ultimo del processo. Da questo punto di vista, abbia107. Cfr. J.L. Borges, Nove saggi danteschi, tr. it., a cura di T. Scarano, Adelphi, Milano 20019, p. 40: «nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa oscillante imprecisione, questa incertezza è la strana materia di cui è fatto. Così, con due possibili agonie, lo ha sognato Dante e così lo sogneranno le generazioni future». L’Ugolino che insieme divora e non divora gli amati cadaveri è proprio l’adynaton del Libro IV della Metafisica di Aristotele, lo stesso cui è impossibile che assieme convenga e insieme non convenga lo stesso. Ecco il nulla o l’impossibile della logica presentarsi nella logica.
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mo detto di come la processualità implicata dalla contraddizione C potrebbe esser indice, al contrario, del darsi (hic et nunc) dell’infinito nel finito, quel finito che pure da esso differisce per natura. Intesa in questo modo, la presente contraddittorietà potrebbe allora realizzare un rimando, sul livello più alto, al punto cieco che sempre la logica è a se stessa. Non certamente perché al finito manchi qualcosa, o perché dell’essente non sia detta una parte da dislocare, conseguentemente, in misteriosi altrove. Ma piuttosto perché è proprio e solo nella sua totalizzazione in atto che la logica sente di non esser tutto. Quell’infinita processualità su cui ci siamo tanto soffermati con la filosofia severiniana, potrebbe quindi segnalare il continuo auto-trascendimento in cui è immerso il sistema filosofico: mai pago, neppure ai suoi vertici, esso si oltrepassa. Quale che sia il circolo dei circoli, ad esso i conti tornano sempre e solo nella misura in cui ad avanzarne è un resto. Resto – steresi iposintattica? – che sono stupidità, ottusità e insignificanza interne al sistema, da cui si sarà mossi a elaborarne altri. Resto che nel dire determinante – e proprio e solo in esso – è sentito da ogni grande pensatore, e che si dà in quella incessante pratica contraddicentesi che è la filosofia.
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Indice
Note e ringraziamenti Introduzione I Struttura originaria e dialettica 1. La struttura originaria come nucleo dell’indagine 2. La struttura originaria come fondamento 3. Il giudizio originario: L-immediatezza e F-immediatezza 4. Concetto concreto e concetto astratto dell’astratto 5. Analisi e sintesi. Oltrepassamento originario e toglimento dell’astrattamente astratto 6. La posizione dell’astratto come posizione dell’impossibile 7. Struttura originaria e forma della predicazione 8. Sul contenuto del concetto astratto dell’astratto 9. L’aporetica del nulla 9.1. Nulla e significati autocontraddittori 9.2. Autocontraddittorietà e distinzione
p. 9 p. 11 p. 23 p. 23 p. 26 p. 30 p. 35 p. 42 p. 48 p. 53 p. 65 p. 71 p. 79 p. 81
II Contraddizione C. Processualità e temporalità nella filosofia del destino 1. La contraddizione originaria 2. Negazione, principio di non contraddizione e intero semantico 3. Contraddizione C e temporalità: la vita dell’eterno 4. Contraddizione C e contraddizione 5. Costanti: persintassi, sintassi e ipostintassi 6. Contraddizione C e contraddizione, posizione e intenzione 7. Divenire, temporalità e toglimento della contraddizione 8. L’oltrepassamento del piano fenomenologico: aporia del divenire e toglimento dell’originario 9. Passaggio alla seconda fase della filosofia severiniana: rigorizzazione della fenomenologia 10. Destino della necessità, La Gloria e Oltrepassare: l’evoluzione della contraddizione C 11. Severino e la differenza: dal creatore all’assolutamente assoluto III Immediatezza e dialettica tra Hegel e Severino 1. Dialettica e contraddizione fra Hegel e Severino 2. Riflessione, efficacia determinatrice e natura del pensare 3. Immanenza e oggettività del pensare 4. Riflessione e negazione 5. Il di più del movimento: pensare senza presupposti 6. Dialettica tra Hegel e Severino 7. Isolamento e immediatezza 8. Severino e Hegel: identità e identi-ficarsi 9. Relazioni e leggi del pensare
p. 89 p. 89 p. 92 p. 97 p. 101 p. 106 p. 111 p. 118 p. 120 p. 132 p. 137 p. 149 p. 163 p. 163 p. 167 p. 168 p. 175 p. 179 p. 187 p. 190 p. 194 p. 200
10. Contraddizione C e processualità 11. Congedo. Lo statuto della logica dialettica: astratto e insignificanza
p. 212
Bibliografia
p. 231
p. 223
Zeugma
Lineamenti di Filosofia italiana | Proposte Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ
1. Francesco Valagussa, La scienza incerta. Vico nel Novecento. 2. Alfredo Gatto, René Descartes e il teatro della modernità. 3. Fabio Vander, Ortologia della contraddizione. Critica di Heidegger interprete di Aristotele. 4. Ernesto Forcellino (a cura di), Verità dell’Europa. 5. Lucilla Guidi, Il rovescio del performativo. Studio sulla fenomenologia di Heidegger. 6. Armando d’Ippolito, Arte e metafisica delle forme. Creazione. Crisi. Destino. 7. Guido Bianchini, L’inquietudine dell’Altro. Ebraismo e cristianesimo. 8. Pedro Manuel Bortoluzzi, Carlo Michelstaedter e la testimonianza della verità dell’essere. 9. Antonio Branca (a cura di), Possibilità. Dell’uomo e delle cose. 10. Federico Croci, Deus Terribilis. Quattro studi su onnipotenza e me-ontologia nel Medioevo.
11. Federica Buongiorno, La linea del tempo. Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl. 12. Giuseppe Pintus (a cura di), Figure dell’alterità. 13. Marco Martino, Il sistema dei bisogni di Hegel. Un possibile itinerario. 14. Maria Teresa Pansera, La specificità dell’umano. Percorsi di antropologia filosofica. 15. Massimo Donà - Francesco Valagussa (a cura di), Alterità e negazione. 16. Giuseppe Pintus (a cura di), Relazione e alterità. 17. Maurizio Maria Malimpensa, La scienza inquieta. Sistema e nichilismo nella Wissenschaftslehre di Fichte. 18. Marco Bruni, La natura divisa. Hans Jonas e la questione del dualismo. 19. Nazareno Pastorino, Destino ed eternità di tutti gli enti. L’opera di Emanuele Severino. 20. Massimo Adinolfi, Qui, accanto. Movimenti del pensiero. 21. Giuseppe Gris, L’escatologia del destino. L’apocalisse del linguaggio nell’opera di Emanuele Severino. 22. Michele Ricciotti, Provare l’Io. Julius Evola e la filosofia. 23. Valentina Gaudiano, La filosofia dell’amore in Dietrich von Hildebrand. Spunti per una ontologia dell’amore. 24. Silvia Dadà, Il paradosso della giustizia. Levinas e Derrida. 25. Giulio Goria, La filosofia e l’immagine del metodo. 26. Carmelo Marcianò, Essere epicurei. Divagazioni su Epicuro e noi. 27. Fabio Vander, Genesi e destino. Filosofia e onto-teologia del mysterium iniquitatis.
28. Massimo Villani, Time and History. Researches on the Ontology of the Present.
29. Massimo Villani, On Extension. Jean-Luc Nancy in the Wake of Hannah Arendt. 30. Raul Buffo, Pensare dal riconoscimento. Paul Ricoeur e il sapere come evento intersoggettivo. 31. Enrico Arduin, K. Bucefalo e i Cavalli del Dottore. 32. Davide Monaco, L’Uno senza fondamento. Cusano tra neoplatonismo ed ermeneutica. 33. Andrea Munforte, Dynergis. Lineamenti di fondazione dell’etica. 34. Marco Rienzi, Emanuele Severino. Con l’Occidente, oltre l’Occidente.
Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 34 - Proposte
Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:
Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.
Un corpo a corpo degno dell’autore con cui viene ingaggiato; un corpo a corpo con il pensiero di Emanuele Severino sicuramente all’altezza del rigore speculativo di quella che è senz’altro, anche per Marco, una delle massime espressioni del pensiero contemporaneo. Marco Rienzi, comunque, interroga Severino, ma attraverso questo esercizio ermeneutico-teoretico, fa anche i conti con alcune delle grandi questioni che ossessionano la filosofia sin dalle sue prime testimonianze, e in particolare con uno degli autori con cui lo stesso pensiero di Severino è in costante dialogo: Hegel. Ma quel che più conta è che il giovane studioso, dottorando dell’Università San Raffaele, riesce in queste pagine a far toccare con mano, al lettore, cosa significhi ‘filosofare’, senza perdersi in superflue valutazioni di questo o quel contenuto del pensiero severiniano, ma ripercorrendone con piglio da studioso di grande raffinatezza gli snodi essenziali, con una consapevolezza ‘critica’ che gli consente di non farsi mai fagocitare (come sarebbe peraltro potuto facilmente accadere) dalla fascinazione connessa ad ogni grande testimonianza filosofica. Marco Rienzi è dottorando di ricerca presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Nel medesimo ateneo ha conseguito dapprima, con lode, la laurea triennale in Filosofia sotto la guida del prof. Donà, discutendo una tesi sulla riflessione hegeliana. In sede di tesi magistrale, ha poi approfondito sotto la guida del prof. Donà e del dott. Goria il rapporto tra filosofia hegeliana e severiniana. Il suo progetto di dottorato si concentra sul concetto dell’immanenza tra Hegel e Deleuze.
ISBN ebook 9788855294546 € 13,00