Elogio di Carmelo Bene. A dieci anni dalla scomparsa 8879375865, 9788879375863

"Avrei voluto amplificarti, registrarti e tenerlo tutto per me, quel filo di voce, sotto il cuscino. In quell'

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Elogio di Carmelo Bene. A dieci anni dalla scomparsa
 8879375865, 9788879375863

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GIANCARLO DOTTO

ELOGIO DI CARMELO BENE A dieci anni dalla scomparsa

Giancarlo Dotto

Elogio di Carmelo Bene A dieci anni dalla scomparsa

tullio pironti editore

© 2012 Casa Editrice Tullio Pironti srl

www.tulliopironti.it Prima edizione: gennaio 2012

Non te l'ho mai detto

Non l'hai mai saputo e ora voglio dirtelo. Quella notte sono stato sul punto di ucciderti. Era il 20 marzo del 1982. Tappa della tournée teatralmente più eccentrica e grandiosa del dopoguerra, Carmelo Bene e Eduardo De Filippo insieme, negli stessi teatri e negli stessi stadi, al cospetto di folle adoranti. Tu con il tuo Dante, lui con la sua poesia napoletana. Da Pisa

dovevamo arrivare ad Ancona. Quattrocento chilometri nella notte, io e te soli, sfiniti, tu più

sfinito di me. Io al volante dell'enorme Citroen Pallas beige, la più bella macchina mai concepita da mente umana.Ti eri da poco addormentato al mio fianco, la testa reclinata versoil fine-

strino. Anch'io vacillavo ma tenevo duro,stropicciandomi gli occhi con la saliva. Saranno state le tre di notte. Uscito dall'autostrada, avevo appenapresola provinciale, stretta, piena di curve e male illuminata. Vado veloce, sma-

nioso diarrivare. Il colpo di sonnoarriva secco,

improvviso. Il buio totale. Due, tre secondi, alla

guida non c'è più nessuno. Mi riprendo appena in tempo, a un millimetro dal baratro sotto di noi. Ho corretto lo sterzo in tempo, un secondo prima dell'irreparabile. L'auto ha sbandato, ma tiene. Tu non ti sei accorto di nulla, io terroriz-

zato e il cuore in gola. Ma salvi. Siamo stati intimi anchecosì. E ora voglio dirtelo. Dieci anni dopo Dieci anni dopo è lo stesso, smisurato capolavoro cheinsiste a passo di carica. Dimenticato e indimenticabile. Riproducibile ma non replicabile. Sfuggente alla presa. E ognuno dinoi, carmelitani più che maiscalzi, si prendeil suo. L'attore sublime, l’intellettuale aforistico, il

cineasta che brucia la pellicola, lo scrittore, il poeta, il performer televisivo. Lo scandalosoe il solitario, l’incantatoree il serpente, il vampiro e la ferita che butta sangue. L'orco impastato di tenerezza. Con lui era tutto e il contrario di tutto, era il lager ed eranole rose. La voce. Era, soprattutto, la voce. Dentro una

storia che più vietata ai minori non si può, ma

vietata soprattutto ai maggiori. Una vera e propria impresa di demolizione, questo era Carmelo Bene. Che non harisparmiatonientee nessuno, a partire dalla propria caricatura allo specchio. Storia di un barbaro e di un poeta. Storia di ebbrezze. La finissima trama di un ingegno che mette d'accordo la Beata Ludovica del Bernini e le arie di Rossini, l'abbandono dei

mistici e il XX seminario di Jacques Lacan, le

guitterie sublimi del cavalier Palmi con le per-

versioni vertiginose di von Masoch, suo

gemello elettivo della scena(e della vita) nell’umiliazione parodistica dell'Io. Nell'era dell'accesso, in cui tutti possono accedere a tutto, lui

rivendicava l'umiliazione estrema di essere recluso in un corpo,il terrorismo spietato delle ossa, delle carni, delle giunture, di tutto il

mondo in putrefazione cui consegnano ogni volta l'indispensabile prét-à-porter di un nome e un cognome. Spesso misconosciuto come artista, quasi sempre rimosso o “aggiustato” come intellettuale. Era diventato, già dalla trasudata miseria delle cantine negli anni Sessanta fino all'apice dei teatri lirici negli anni Ottanta, l'icona dei salotti snob romani, fiorentini e milanesi che

collezionavano al suo cospetto orgasmiplurimi,

puntualmente benedetti dall’equivoco e dall’incomprensione. Di cui Carmelo nonsi doleva più di tanto, consapevole che tanto rumore e tanti orgasmi aiutavano comunque ad alimentare il suo conto in banca e certi lussi indispensabili per l’anacoreta a pane e caffè nero che si avviava a diventare. Nessuno che, per mancanzadi fegato, ha mai

voluto fare i conti con le sassaiole più perturbanti del suo pensiero, una su tutte la più volte dichiarata ostilità verso il concetto di democrazia che lui, alla Hobbes, considerava sinonimo

di demagogia. Anatemi pubblici, ogni volta smagnetizzati nella rassicurante chiave della “provocazione”. Equivoco che non la smette di circolare con il suo rumorefesso dieci anni dopo e che anzi prospera nella divulgazione di chi pretende di ricordarlo al mondo congli arcinoti stralci dei suoi show da Maurizio Costanzo. Forse il Carmelo meno interessante. Quello

della sfida al pubblico. Il Carmeloelefante. Carmelo sapeva sempre essere un elefante tra le porcellane e una porcellanatra gli elefanti. Io mi sentivo intimo del secondo, anche se ero ipnotizzato dal primo. To che non mistancodiascoltarla la sua voce,

dieci anni dopo. Solo per chiedermi quanto mi

manca. E nonfinisci più di chiedertelo. perché sei tu che, senza di lui, manchia te stesso.

Trent'anni insieme

Era il 24 agosto del 1981. Bar del Teatro Quirino a Roma. Tu mifai con l'occhio corsaro e simpaticamente malandro del corruttore nato:

«Cosa fai nella vita?». «Comincio tra due giorni in Rai», dissi con malcelato orgoglio. Avevo vinto un concorso nazionale, terzo tra migliaia

di concorrenti. Era la svolta per uno del mio stampo, 29 anni, ex studente, disoccupato, padre precocissimo con unfiglio di nove anni. Miarrangiavo in tutti i modi possibili all’epoca. La tesi sul teatro shakespeariano di Carmelo Bene l'avevo scritta clandestinamente negli anfratti dei musei di Roma dove lavoravo come custode. «La Rai? Cazzate. Lascia stare, vai a

perdere il tuo tempo, parti con me e Lydia in tournée». Scambiasti il mio silenzio per consenso e lo era. Nel frattempo Carmelo Bene aveva trasformato la miatesi di laurea (Il principe dell'assenza) in un volume extralusso, rilegato in oro, edito da Giusti. «Adesso vai dentro in sala e continua al posto mio». Stavi provando

il tuo Pinocchio. Mi ritrovai attonito con un microfono in manoa impartire le indicazioni di regia a due sconosciuti più attoniti di me, i due mimi ingaggiati per lo spettacolo. In quell’esatto istante, la mia vita era cambiata, precipitata, non potevo sapere dove. Sono andato, sono

partito con te e non sono mai più tornato.

Non diventai giornalista Rai a causa tua. A causa tua diventai giornalista al «Messaggero», due anni dopo. Avevo promesso a Gianni Melidoni, carismatico capo dello sport di allora, un'intervista con Carmelo Bene. Il giorno dopo,

io e te litigammodi brutto. Si provavaal teatro dell’ Ateneo. Tu, Carmelo, dentro l'armatura di

Macbeth, io in platea a prendere appunti. Mi dicesti qualcosa di sgradevole. Ero debole in quel periodo e tu non perdonavi le debolezze troppo manifeste. Nessuno, uomo, donna, compagna, amico, attrice, poteva resistere al tuo fianco più di due, tre anni, senza ridursi a un

caso psichiatrico o a una larva da buttare. Carmelo era un fuoco sempre acceso, ustione allo stato puro. Io ero una larva da buttare. Carmelo Bene era troppo per chiunque, anche per se stesso. Ci riuscirono a stargli accanto Lydia Mancinelli e Luisa Viglietti, ma erano donne 10

forti, una guerriera indistruttibile la prima,

un'eroina della dedizione la seconda.

T'insultai a mia volta, ti lanciai contro le

chiavi della macchinae tu, per afferrarle, quasi

ti schiantasti a terra con tutta la corazza. Scrissi lo stesso l'intervista. Non avevo bisogno d’inventarla. Misi insieme frammenti delle nostre,

tante conversazioni notturne. Fu pubblicata con grande rilievo il giorno dopo. Esordii così da giornalista con un mezzo imbroglio. Andai a ringraziare Melidoniil giorno dopo. Midisse: «Mi ha appena chiamato Carmelo Bene, sosteneva di non aver mai rilasciato quell'intervista...». Mi sentii mancare. Desideraiche la terra si aprisse sotto di me per inghiottirmi. La mia storia di giornalista finita ancora prima di cominciare. «... Ma il tuo amico era chiaramente ubriaco...», sfumò allegro Melidoni. Una settimana dopo tu e io eravamo tornati più amici di prima. «Per colpa tua Antognoni mi ha sfidato a duello», mi dicesti al telefono.

Hopassato non so quante notti nella tua casa romana di via Aventina, il tuo Tibet dannun-

ziano, impregnato dei tuoi odori, che prima erano quelli aspri delle Gitanes e poi quelli dolciastri delle sigarette alle erbe medicinali e delle 11

bevande iperzuccherate, il riscaldamento a palla, nella semioscurità, perché la luce del giorno ti era odiosa, solo candele e lucerne

dipinte a mano, tanto Settecento tra specchi,

sofà e cornici, sugheri ancora sudati di Montel-

pulciano che galleggiavano sul marmo del tavolo, Avignonesi ‘90, il tuo preferito. Mania-

calmente lanciato nelle tue imprese o chiuso e farfugliante nel tuo “fuori di sé”, quello dei monaci di clausura. Quando avevi preso a dipingere in modo parossistico nella tua casa all’Aventino. Quadri che hai fatto vedere solo a

pochi intimi. Ti avevano operato da poco al cuore e tu, sprezzando le prescrizioni dei medici, tiravi cocaina e spalmavisu tela colori come un forsennato. Fino a quando midicesti, unasera: «Ho smesso, perché ho capito che non avrei mai potuto superare la grandezza di Francis Bacon». E quella volta che ti ho visto piangere perla morte del tuo “amico” gatto. Eri tornato da un seminario con gli studenti al Teatro Valle, dov'eri andato di malavoglia. Ti eri congedato con la tua solita, delicata brutalità. «Ora voi tornerete a casa e potrete raccontare di aver ascoltato Carmelo Bene, ma io che miracconto?». Ti

sei dovuto raccontare del tuo gatto, quello che 12

da sempre veniva a bussare alla tua finestra quando aveva fame, trovato tra il gazebo e un grande vaso panciuto, come un cencio dimenticato, gli occhi sbarrati, morto, forse avvelenato. Non volevo credere ai miei occhi, ai tuoi occhi bagnati. Ti avevo visto piangere solo in scena,

mai nella vita. Solo il pudore mi ha impedito di abbracciarti. L'ho sempre saputo: disumano per eccesso di umanità, combattenteirriducibile per quanto consapevole della sconfitta. Tutto era un ring per te. Come quella notte, nella tua camera a Otranto, insieme a guardare un film sulla vita di John Holmes,il divo dei pornoattori. Tu mollemente sdraiato su un fianco, il dormiveglia degli insonni, quando Holmes, rispondendo all’intervistatore, dice: «Quante donne ho

avuto? Almeno 14 mila!» e tu, Carmelo, alzan-

doti di scatto, indignato, come toccato da una

scossa a mille volts: «Ma come, se persino io non sono arrivato a 5 mila?!». La sepolcrale camera daletto, il Polifemo, un 37 pollici acceso giorno e notte, acceso e ignorato, sulla tua cro-

nica insonnia. Lo squarcio sul petto. Lo portavi con la solita eleganza. Cicatrice che avrebbe fatto invidia a Tamerlano, degna di una vittima dello Squartatore. Memoria del bisturi che ti aveva aperto per sistemarti quattro bypass a 13

sostegno di un cuore malandato. «... L'uomo non sopporta di vivere tanto a lungo. Due cose luomo non sa fare, lavorare e vivere». Mi

dicevi.

In tournée con Carmelo

Hopassatole ore a spiarti, dietro le quinte, tu

in scena a smaniare travestito da Pinocchio, i

nasi che andavano e venivano,io che ti passavo i risultati del Milan e le corde per impiccarti. E in camerino, prima e dopo lo spettacolo, nelle tante notti insonni e deliranti. Quella della

prova generale al Teatro Verdi di Pisa, quando hai preteso di riverniciare per l'ennesima volta quinte e fondali, aggiungendo il porpora al rosso, attorniato da attori e maestranze stre-

mate, più morte che vive. Le lezioniagliattori, a quello che restava di loro, cancellati nelle maschere e nel playback. «Dovete essermi riconoscenti. Se vi privo della voce, se vi nego l’'espressione, è per consentirvi di non essere più attori del basso genere umano». «Non essendo, l'attore è ovunque, il parco lampade,l’amplificazione, i suoi tecnici, un monitor o unarcoelet-

tronico. Non si dà attore se non è capacedigio14

care simultaneamente su più microfoni o intersezioni di luce. Mi spiego peggio: nel mio teatro gli attori non sono più che distrazioni della luce

o del suono». «Odiatevi in scena, non cavate-

vela con una gag. Tentate il suicidio almenocinque volte, prima di sparire per un gesto della fatina. Tu attore non sei che vittima nella mia scena, sbarazzati di te, fatti male. Tu attore, fatti

danno!». Agli spettatori violentati dal suono. «Io nonriferisco, ferisco. Userei la stessa amplificazione anche se recitassi in una stanza per una persona sola». Ai critici negati. «I signori macchinisti sono gli unici cui riconoscoil diritto di critica al mio spettacolo». Mi manchi. Mi manchi come di più non si può mancare. Dove c'eri tu, c'era la massima incandescenzae c'era il massimo delle tenebre. Quella volta che mi hai detto: «Per la prima volta ho trovato un altro me stesso». Era il 6

novembre del 1981, a cena a Pisa,io e te soli, il

ragazzo adorante e il vampiro gentile. Non era vero, eravamo tanto diversi, ma avevamo cose

intime da scambiarci, due bambinichesi dilet-

tavano e si disgustavano delle stesse cose. Cose che non ho maipiù condiviso con nessun altro. Matu eri l'eroe, il genio in debito eterno con se 15

stesso, io una delicata patologia dispersa nel mondo. Tu eri la sfida permanente. Ti spiavo

nelle notti estive a Forte dei Marmi, nelle inter-

minabili partite, io e te in coppia, tu che t'inventavi un ping pong tutto tuo, come avrebbe potuto giocarlo Pinocchio, legnoso e leggiadro allo stesso tempo, di aitanti smash e acrobazie improvvise alla Nijinskij. Davanti alla tivù a

tifare Brasile nei mondiali dell’82. Quando ti

convincemmo a fatica che non era il caso di diffondere l'inno tedesco a tutto volume peril Forte, dopo la finale vinta dagli azzurri, che ci avrebbero linciato. Carmelo ce l'aveva con l’Italia dei Rossi e dei Conti, perché aveva estromesso dal mondiale le divinità brasiliane del calcio, Zico, Falcao e compagni.

E poi quella notte, era il 19 settembre, che un barcollante Ruggero Orlandofiltrò dal cancello semichiuso di Villa Beatrice, la bottiglia di scotch in pugnoe, poggiandosi precarioaifusti indovinati al buio, accostandosi al tavolo da

gioco, disse: «Caro Carmelo... ho saputo chesei apparso alla Madonna!». Le ragazze che arrivavano a frotte da ogni dove, che si buttavano sotto le ruote della tua

macchinasolo per poter dire al mondodiessere state un giorno investite da te. Smaniose di 16

essere messe alla prova, di essere trattate o quanto meno maltrattate, tu a maltrattarle, io a

consolarle, a tirare cocaina con gli avventori dell'epoca e non si andava maia letto prima dell'alba, avendo speso tutto lo spendibile in conversazioni furiose dove i paradossi di Bene la facevano da padrone. Quella volta a Bologna della procace signora che sul grande letto a tre piazze, nuda, a quattro zampe, ci raccontava estasiata delle sue nozze imminenti, dell'abito

che avrebbeindossato per la cerimonia,deifigli che avrebbe voluto avere, mentre io e te, luci-

gnoli, ci baloccavamo con le sue curve, le facevamoditutto, felici, come si gioca con una bambola oscena. E quel che restava della notte, lei

nel frattempo svanita nel nulla dopo essersi rivestita e aver detto: «Io, voi due, proprio non vi capisco», noi a cantare Vorrei baciare i tuoi

capelli neri... Fammi provar l'ebbrezza dell'amor. Memorie sparse. Quella volta, a Campi Salentina, il sindaco che ti consegna le chiavi della città, tu con il tuo gilet nero Versace,i bot-

toni smerigliati strappati alla tutina di Pinocchio, i concittadini che ti lanciano pomodori marci, incazzati perché sono stati esclusi dalla festa e perché sono senza lavoro. Tu che esci da una porta secondaria, scortato dai carabinieri, la 17

testa verniciata di nero, le occhiatacce torve,

bistrate, il disoccupatocheti strepita a un centimetro: «Stronzo, dammi lavoro!», e tu che lo

centri in un occhio con uno sputo cheè una bellezza balistica. Ti spiavo quando andavamonei palazzi dello sport a recitare Dante o Dino Campana. Un'assurdità, a pensarci oggi, la poesia negli stadi, oggi che i teatri chiudono per mancanzadi poesia. Ti ascoltavo quando mi parlavi, impressionato, affascinato, qualche volta schiacciato e

messo all'angolo. Tu che ti trastullavi felice come un bambino con le tue “scatole sonore”,

firmando assegni per centinaia di milioni, i microfoni ipersensibili, i monitor da diecimila

watt, le console capaci di ogni magia, che a teatro non si erano maiviste prima di allora, ma solo nei concerti delle grandi rockstare l’ultima, la Midas, «era la stessa che usavano i Rolling Stones», dicevi compiaciuto misurando la meraviglia degli astanti. Quella volta, un tardo pomeriggio sotto la tenda del “Dalmazia”, il tuo Bagno preferito al Forte, dove andavamo nelle ore antelucane a

scrivere Sono apparso alla Madonna: «Te lo dico io che mi sento un tuo fratello maggiore.È il male che ti prende. Non sai reagire. Non hai volontà, 18

né concentrazione. Per riuscire ci vuole una

volontà di ferro. Sei una super-intelligenza che non produce prassi». Nessuno mi ha mai più parlato così. Carmeloe i miti sportivi Quando miaspettavi a casa tua e non vedevi l'ora di simularmi le volée di Edberg, la concentrazione feroce di Borg, i canestri di MichaelJordan, un montante al fegato di Sugar Ray Leo-

nard, i cross di David Beckham,un dribbling di

Ryan Giggs, i gol di van Basten,che tu chiamavi «il mio invulnerabile, vulnerabilissimo Achille».

Due fuoriclasse dell’acrobazia alata, tu e lui. Era

tristezza vera, la tua, quando van Basten fu costretto a lasciare il calcio. Lutto irreversibile. Ti ho sentire maledire gli arbitri che non avevano saputo proteggere i petali che aveva al posto delle caviglie. Tutti i cani arrabbiati che lo hanno sbranato per invidia, strapagati per umiliare al calcio. «I manovali della sfera condannati al ludibrio perpetuo della mutanda». Ti ho sentito dire con le mie orecchie sempre molto sporgenti quando stavo con te: «Quale Gassman, quale Strehler o Kandinskij! Rinuncerei a qualunque 19

artista di oggi e diieri, in cambio della vita in campodi van Basten. Se mi sento oggi molto più stanco, molto più vecchio, è al pensiero che che

uno come lui non ci sarà più. Me la sento addosso la mancanza,la sottrazione di stupore. Fino a questo punto si ama. L'amore non è per fare in culo tra gli uomini». I miti vanno custoditi nei templi, non maltrattati. Questo dicevi. Quella volta che cademmo insieme, simultanei, in ginocchio, al cospetto di Michel Platini,

quando lui, nazionale francese, disegnò una foglia morta che finì in fondo al sacco. La tua passione per Paulo Roberto Falcao e la “zona celeste” della Roma di Liedholm. Invitasti tutta la squadra alla prima romana del tuo Macbeth. Mi capita d’incontrare ogni tanto qualcuno di loro. A distanza di anni, lo ricordano ancora

come un incubo. Penso spessoalla felicità che ti avrebbe dato uno come Roger Federer, la grazia assoluta applicata al gesto tennistico. Arrivo a dire che avrebbe soppiantato l'amato Edberg nel tuo

cuore. Come David Foster Wallace, ti saresti esaltato e, come un bambino,in preda all'estasi,

mi avresti replicato i suoi colpi nel corridoio di casa o nel terrazzo di Otranto. E mi fa male sapere che questo non è accaduto e non accadrà. 20

Carmelo e Vittorio

Teatro Argentina a Roma.Folla traboccante.

Carmelo, io e Maurizio Grande, per un incontro

con gli studenti. Carmelo è svogliato, lascia a noi la parola, la gente non gradisce. A un certo

punto appare dal nulla Vittorio Gassman, che sfila e si siede in platea. Carmelo non se ne accorge. Lo informoio all'orecchio. È un attimo. Carmelo si scuote, si accende, cambia postura, drizza la schiena, afferra il microfono. Non lo

lascerà più. Vittorio è venuto in assetto da guerra. È il Vittorio padre offeso, quello più temibile. Il giorno prima, dice lui, Carmelo non era stato gentile in camerinocon suofiglio Alessandro. Vittorio si alza e lo provoca: «Parli,

parli, ma scommetto che non sai cos'è un anacoluto». Carmelo replica. Parte tra i due un duello rusticano di botte e risposte, tra lo stupore degli astanti e il giubilo dei giornalisti. Il giorno dopo, cronache enfatiche raccontanol'e-

vento. I due, Carmelo e Vittorio, avevano un modo

tutto loro di amarsi, molto pudico e spesso tra-

vestito da ostilità. Ma si amavano, eccome.

Anche e soprattutto quando s’incrociavano e s'incalzavanonelle osterie in giro per l'Italia. 21

Anni dopo, Teatro Olimpico a Roma.In scena l’Adelchi di Carmelo Bene. Lo spettacolo è appena finito. Davanti a me, una lunga ombra spiovente. Sembra un lampione curvo dentro un cappotto enorme, in piedi che applaude, al buio. Era Vittorio Gassman. Non la vedevo ma la sentivo, al buio, la sua commozione. L'ap-

plauso più esaltante e commovente che Carmelo avrebbe mai potuto desiderare. Pochi giorni a seguire Vittorio sarebbe morto, mangiato dalla depressione. Carmelo lo ha raggiunto due anni dopo. Non è bastato nessun teatro a contenerli. E non basterà nessuna bara. Avevano molte cose in comunei due. Il cuore scassato, gli abusi alcolici, la faccia mangiata dai tic, il corpo a corpo con la donna e quello più maniaco con la parola. Nel caso di Vittorio, scolpita e declamata alla luna, come fannoi giganti di Rabelais; dalle parti di Carmelo, smontata,

sezionata, ingoiata e poi risputata, lirica e grandiosa, ridotta alla gelatina dell'osso e trasformata in canto, come in qualunque lebbrosario di un Oriente stremato. I due avevano un concetto grandioso dello stare al mondo e non amavano gli attori. Avevano questo in comunee benaltro. Carmelo Bene era nato a Campi Salentina l’1 set22

tembre 1937, stesso giorno, stessa ora, stesso

minuto, quindici anni dopo,di Vittorio Gassman.

«Ne parlavamo quandocapitava d’incontrarci

e si beveva comepazzi, fino all'alba», mi raccontava Carmelo. «Aveva terrore della morte, Vitto-

rio. Ma non di quella che sarebbe stata. Vittorio era morto da almeno vent'anni. È morto alla sua prima ruga. Ognuno di noi si trascina un'esistenza di troppo. Lui anche due. Di Vittorio non hanno maicapito niente. Troppointelligente per essere un attore. Senza di lui non avrei maifatto teatro. M’interessava quel suo furioso darci dentro nel nulla. Scatenavai suoi mezzi straordinari per coltivare l’inattendibilità. Era un fuoriclasse dell’inautentico. Non ha maicreduto a quello che faceva. Da quiil dispiego immanedi energia. Lo hanno definito un attore proteiforme. Al contrario, il Gassman dell’Oreste era lo stesso del Sor-

passo. Né attore tragico, né comico, ma parodia consapevole del diverso. Era un uomo timidis-

simo. Che, declamando, chiedeva scusa di esistere. Glielo dissi una volta, al fondo di una delle

nostre bevute: “Non puoi accontentarti di essere il migliore dei peggiori, il meglio del peggio, cioè il pessimo” ». Questo il ritratto di Vittorio che la notte successiva alla sua morte, Carmelo mi

dettò.

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Lo spiava puntiglioso da ragazzo. Aveva capito che era lui il modello da smontaree fare a pezzi. Era il suo atto d'amore, demolirlo. I giornali hannno semprecercato di metterli l'uno contro l'altro, comefossero i Coppie i Bartali del teatro, e loro ogni tanto si prestavano di malavoglia, salvo poi non dichiararsi il loro amore tutte le volte che potevano. Lo sapevano. Nonc'era bisognodidirselo.

Il mio Carmelo

Nella tua casa di Otranto, la prima volta, dicembre 1997. Palazzo quattrocentesco a tre piani chesi affaccia sul canale di Otranto. Era la casa estivadiStarace,il gerarca, prima ancora la residenza del Governatore e la cannoneggiante vedetta contro il fantasma di sempre,i turchi invasori. Tu ne facesti il tuo eremo arredato di lusso con antiquariato veneziano, birmano e pezzi rari da Damasco. Belle donne che andavano e venivano dall'aeroporto di Brindisi a confortare la meditazione del Maestro. Tu chele misuravi dalla fessura della porta e, spesso, non le ricevevi neppure, lasciando, compiaciuto, che

si scannasserotra diloro.

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Teschi ovunque, dentro e fuori la Cattedrale. Carmelo pretese che il ristorante del cugino analfabeta e a lui somigliantissimo, stessa faccia levantina, si chiamasse «Acmet pascià», comeil nomedel suo verosimile antenato. Mi sonofratturato una gamba, la destra, pur di avere tre

mesi liberi tutti per noi e sistemarmi qui, nella stanzetta che mi avevi destinato al piano di sopra, a incidere e sbobinare la tua sterminata biografia. Su e giù per la casa di Otranto, saltabeccandoconle stampelle nel mondosottosopra di Carmelo Benee tu che ora vai solo ad acqua, tazze di caffè nero e pane duro. Come gli ergastolani. Lo sfregio peggiore per un palato che in tanti anni aveva gustato tutto il nettare alcolico possibile e anche tutte le schifezze impossibili. Tutta una vita a farsi frugare dai medici. Manipolato da cima a fondo, l'equivalente di quando camminavi e franavi sulle asperità mistiche di Nostra Signora, sui vetri del Don Chisciotte o inciampavi sugli spunzoni acuminati del Macbeth. «Il corpo implorail ritorno all’inorganico. Nel frattempo non si nega nulla» mi dicevi, ti dicevi. Nel frattempo passavi morboso

da D'Annunzio a Collodi, dallo sforzo subac-

queo, tutto in apnea della figlia di Jorio e del pastore Aligi al playback-incubo del tuo enne-

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simo Pinocchio,l'ultimo, in quanto delirio della

paternità. Tutte le sere a strapparti il naso all'Argentina. L'estate successiva. Le ore trascorse nel ter-

razzo dicasa, le tende che sbattonoal vento, tu,

con la tua tazza di caffè nero e il pane da bagnare. Ti vedo ancora come fosse ieri, che sbirci ogni tanto l'orizzonte, come uno che

aspetta rinforzi dal mare e, aspettando, midici, citando Nietzsche: «Noi siamotutti i nomi della Storia. lo sono Cesare Borgia, le mie stesse ini-

ziali. Per il resto, preferisco stare ai patti della fisica, vegliare sul mio corpo che si decompone». La tua insonnia insanabile, aggravata dallo iodio marino, combattuta tutta la vita dai

flunox e dai valium combinati e ingeriti a oltranza, notti diluite dentro interminabili deli-

qui, davanti alla tivù sempre accesa. Quella notte, era gennaio o forse luglio, che importa,

quando mi hai letto Leopardi, i Canti, io, unico spettatore esclusivo, sdraiato, a occhi chiusi, la

gamba spezzata e la schiena in fiamme. L'Inno

ad Arimane,Il Sogno, Consalvo, il Leopardi meno battuto. Un incanto durato un'eternità, un'ora,

poco più. Dal quale sono riemerso stordito e commosso,incapace di ammetterecheil privile-

26

gio fosse toccato proprio a me. E questo il

ricordo di cui non so, non voglio, liberarmi. Di

questo ti sono grato. Di questo mi manchi.

Gli incontri con il sindaco di Otranto,tu e lui,

seriosissimi, a pianificare il tuo funerale da

vivo, evento da te fortemente voluto, da cele-

brare nell’adiacente Castello, con pochissimi invitati scelti a farti le condoglianze, il sindaco in

abito

da

cerimonia,

eventualmente

il

vescovo, ma non indispensabile. L'abbiamo pensato insieme l’epitaffio. Avevi deciso. Un passaggio tratto da Sade: «Mi ostino a vivere perché anche da morto io continui a essere la causa di un disordine qualsiasi». Avevi appena detto in televisione che il Papa nonesiste e, sulla presenza del vescovo,il sindaco manifestò, prudente, il suo dubbio. Non ci fu mai quel funerale da vivo, perché tu nel frattempo sei morto e, da morto,il funerale non aveva più senso.

La morte più volte sfiorata Fra scampato più volte alla morte, Carmelo. Miracolato nell'estate del Novanta, dopo un intervento di otto ore e mezzoa cuore aperto. Ai 27

chirurghi che gli domandavano cosa desiderasse prima dell’anestesia, lui rispondeva: «non

svegliarmi mai più». Tornò a casa e si lasciò andare a qualunque eccesso, fisico, alcolico e olfattivo. A smanacciare mostri che solo lui vedeva. Ricoverato alla “Mater Dei” per allucinazioni, labirintite e stato confusionale, fu

curato con la terapia del sonno e dosi farmacologiche da elefante. Sparì per un bel po’. Lo persi di vista anch'io. Niente più spettacoli, niente televisione, niente giornali. Solo meditazioni e allucinazioni. Riapparve quattro anni dopo in una puntata del Costanzo Show su cui sono state scritte decine di tesi di laurea, replicato fino alla nausea, in cui Carmelo da “zom-

bie” sul palco si rivolgeva agli “zombie” in platea. Tenero e inguardabile per quanto gonfio di cortisone. Scandaloso nell’elogio dell'odio («sentimento auspicabile e unico a potersi definire umanoide»), a cominciare da se stesso

(«sono anni che mi prendoa calci, sono persino la moglie di me stesso: per questo mi sono rovinato»). Il secondoinfarto lo prende durantele repliche dell’Hamlet Suite. Dalla sala rianimazione del “Niguarda” finisce alla “Madonnina”, clinica per cardiopatici. Prendonoatto che i quat28

tro bypass si sono nel frattempo chiusi. Il sangue ha trovato vie misteriose per arrivare al cuore. Sogghignavi compiaciuto quando me lo raccontavi. Come Fred Buscaglione ti piaceva travestirti da gangster. E farti crivellare di colpi. Non importava se scenici o veri. Impossibile distinguere. Il Carmelo poeta nonostantetutto Da poetascrisse ‘/ mal de’ fiori tra una chemio e l’altra, tra dolori atroci e pensieri che non potevano che essere cupi. Per scriverlo, Carmelo Bene si è dato dieci mesi, un isolamento

assoluto e la dieta dell’ergastolano, pane secco e caffè nero. Autoarresti domiciliari nella sua casa cinquecentesca di Otranto. L'unica concessione mondana, la coronografia e le razioni settimanali di chemio. Dieci mesi di corpo a corpo con la parola. Le flebo e l'ora d’aria rossiniana, lui che gioca per la casa da tenore, i suoi svaghi preferiti. Per poi tornare al tavolo di contenzione e lasciarsi dire, incomprensibile a se medesimo: «L'hanno portata via l'hanno portata / ’meil tutto ch'è maistato e poifinì». Per dieci mesi ha mormorato, farfugliato e bofon29

chiato. Tra sé e sé. Capolavoro dell’incontinenza babelica. Una dozzina tra lingue e dialetti, dal toscano all'inglese, dal lombardo al bretone,il provenzalee il napoletano,il siciliano e il salentino delle sue origini. Virtuosismo? No, stoicismo. Raro casoin cui l’assediato e l’assediante sono la stessa cosa. La parola che si prende alla gola e non si dà pace. ‘L malde' fiori è anche, nel senso più céliniano possibile, lo sfacelo corporale del “quanto è difficile restare insieme”. L'ansimante affanno di qualunque slancio, erotico o cortese, trova pace

solo nella pornografia del freddo. «L'amorcortese è la scortesia somma. Tutto l'affanno ridicolo del parlare. Che esclude l’altro affanno non menoridicolo del fottere. L'orgasmo senza desiderio, ecco il mio marcito poema consacrato al porno. Laddovei corpi giocano da oggetti inanimati. Nel congelamento illimitato della specie». Il penultimo spettacolo «Vi si chiedesolo di lasciarvi violare / brutalizzare / macellare senza battere ciglio (la qual cosa già sarebbe considerata una reazione smodata, motivo sufficiente per fare sipario). L'at30

trazione-repulsione per quanto non accade in scena dovrà essere misurabile nel contegno della platea. Una discrezionecherasentil’inanimato oltre che l'anonimato.Il fair play del cadavere, per capirci. Fate che tra voi e il cadavere che è in voila differenzasia labile, quasi impercettibile. L'ideale sarebbe avervi, ognunoal suo posto, non deltutto estinti, ma in quello stato di

grazia che è il coma - nemmeno particolarmente vigile - che vi renda docili e abbandonati, disponibili a tutto e disposti a nulla, penetrabili e impenetrabili allo stesso tempo. Insomma, fate silenzio. La disfatta vi riguarda». Fra il programma di sala che Carmelo mi chiese di scrivere per il suo penultimo spettacolo, l’ultimo aperto al pubblico, l’Achilleide,

omaggio a Pentesilea, l’amazzone vulnerabile e radiosa. Il suo testamento in forma di teatro. Inutile cercarlo, Carmelo. Carmelo non c'è più. Ma non c'è davvero, appena indovinabile in un profilo di quinta o nella svitabile marionetta di scena, esasperazione macabra e definitiva del suo amatissimo Pinocchio, nella versione di

Achille. Non resta più nulla dell’istrionico, incontinente attore degli esordi, ma nemmeno del dicitore virtuoso che incendiava le folle come una rockstar, più nulla della voce che 31

incanta, dell’amplificazione che inventa anime sottili nella sottrazione dei corpi. Solo rantoli, balbuzie, suoni che proprio non ce la fanno a significare. Nell'epoca della riproducibilità tecnica e ora genetica, Carmelo si nega all'una e all'altra. Il suo capolavoro coincide con il suo addio diartista, assente giustificatissimo in una scena chesi ostina.

La malattia

Il calvario era cominciato tre mesi prima, a Otranto. Il singhiozzo, i dolori all'addome,l’i-

nappetenza. Lo accompagnai dal medico. Decine di ecografie non segnalavano nulla di particolare. Il giorno in cui lo operanodicistifellea, scoprono la metastasi. Bisognava operare d'urgenza. Era già in metastasi quando recitò

Dante nel castello di Otranto, l’ultima esibi-

zione davanti alla sua gente. Memorabile, raccontano i presenti. Si era concesso anche un divertimento d'altri tempi, da ex enfant terrible,

la polemicacon l'arcivescovo che non lo voleva nella cattedrale. Era stanco, Carmelo. Se neinfi-

schiava del mondo che lo adorava o lo detestava, del tempo che gli restava da vivere. «Ci

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penso spesso di buttarmi giù dal terrazzo», mi disse una sera. «Ma poi mifrena il pensiero che sarebbe una cosa cruenta, vistosa. Una volgare piazzata». Era deciso a conquistarsi una lucida follia. Cantava arie di Rossini con l’orrenda cicatrice sul petto, mentre cucinava alla brace per gli amici un trancio di pesce spada. Luisa, la sua ancella devota, manidifata, gli

aveva cucito addosso una vestaglia da camera con uno spacco vezzoso che ne esaltava le pose da Eliogabalo. «Io sottoscritto Carmelo Bene ricoverato presso l’European Hospital, dopo esauriente colloquio informativo con i sanitari sui benefici/rischi ed eventuali complicazioni, in piena capacità d'intendere e di volere, acconsento a essere sottoposto a intervento chirurgico con la relativa anestesia, autorizzandoi sanitari

a eseguire quanto programmato o quant'altro essi ritenessero necessario o utile al buon fine

dell'intervento». La stanza era la 416, il tumore

maligno, il paziente molto irritabile e però solvibile. Altre note dall’accettazione: «Soggetto cardiopatico, la transaminasi alta, stato civile

separato, professione pensionato». Scritto proprio così: «Pensionato». Lettura preferita Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer, aggiungo io. Di verosimili, seb33

bene non accertate, discendenze turche. Forse dello stesso Acmet Pascià,il feroce rais al servi-

zio di Maometto II che rase al suolo la città di Otranto e impalò 800 martiri cristiani, i cui teschi sono esposti nella cripta della cattedrale. Cristiano Huscher è il medico che esegue l’intervento. Nome di grande e morbosa suggestione per Carmelo, che lo associava alle rovine della sua casa prediletta di Edgar Allan Poe. Sosia di Bela Lugosi, molto noto nell'ambiente per la sua chirurgia estrema. La cartella clinica parla di resezione delperitoneo, di parte del colon, dell'intestino e del

diaframma. Poche ore dopo, lo ricordo bene, vispo come unpesce, seduto sul letto, che deli-

ziava gli amici accorsi al capezzale. Torna a casa tra Natale e Capodanno.Leferite che sembravano cicatrizzate si riaprono una a una. Tanto dolore, tanta morfina. Un incubo. Car-

melo nonsi nutre più.

L'ultimo spettacolo Ire mesi dopo, 21,10 del 16 marzo 2002,al terzo giorno di coma, Carmelo Bene moriva,

vegliato dal miagolio dei gatti e dal brusio delle 34

donne che lo amavano, Luisa tra tutte, la «fem-

minile disattenzione» che da sempre invocava a

scortare i suoi morenti eroi di scena, da Pinoc-

chio a Otello. No, non era la vista il dono più bello. Avevi fatto oscurare con le pagine rosa del tuo giornale sportivo lo specchio della camerae il tuo prediletto Sony 37 pollici, lasciando solo una luce fioca da tela fiamminga sul quadro di Amore e Psiche. Avevi urlato notti intere, spellato dall'orrore ancora prima che dal dolore. Avevi invocato la morfina,il cianuro, impartite lezioni in francese su Céline a Massimo,l’infer-

miere cheti assisteva la notte e non sapeva una parola di francese, ma non sapeva neppure chi fosse Céline, consultato febbrilmente il manuale

del perfetto suicida che l’amico francese ti aveva spedito da Parigi, maledetto i medicichesi ostinavano a tenerti in vita, dopo averti reciso un pezzo di diaframmae la tua voce che non era più la tua voce. L'ultimo Carmelo coltivava come un alchimista la sua pietra filosofale. Farsi fuori lungoi tracciati orfici della sua voce, amplificata negli anni a suon di miliardi. A furia di replicare, indovinareil concerto definitivo, quello in cui sarebbesparito,in fin di voce. Quella voce, chissà dove è andata quella voce, 35

quella voce che ci dava calma e forza, quella voce chesolo a sentirla ci spediva in paradiso. La voce di quella sera a Bologna, 31 luglio 1981, una sera di caldo scirocco, duecentomila

personestipate tra piazza Maggiore, via Rizzoli e le altre piazze,i viali e i vicoli attorno amplificati via radio da Salvatore Maenza, cieco dall’u-

dito scaltrissimo e tu, Carmelo Bene,in jeans e

camicia militare di cotone, che ti arrampichi scalzo sulla scaletta da pompiere che porta alla sommità della Torre. Il boato da stadio. La tua voce, tuoni e carezze da svenimento che precipitano e rimbalzano su quel tappeto umano, trasportate nel vento da migliaia di watts, neanche una moscache vola, tra un cantoe l’altro, le

ovazioni. Non tanto e non solo la tua voce che dice Dante, ma la tua voce che dice nel congedarsi, dopo aver strappato anche l’ultima pelle con l’ultimo sonetto, «Chiedo scusa per il vento...». E ancora. La voce furiosa e commossa dei tuoi Quattro modi di morire in versi, Majakovski, Blok, Esenin, Pasternak, forse, in assoluto,

la tua cosa più grandedi artista, le tue lacrime finte e vere allo stesso tempo, maitanto vere,il

primopianosu di te, Carmelo Bene, spaventoso e spaventato, risucchiato dalle fiamme che tu stesso alimentavi, dal magistrale rogo che ha 36

finalmente trovato il vento giusto, il verso e la

voce, per bruciare senza che nulla più lo potesse estinguere. «La mia voce... non ha più le armoniche»ti disperavi, a chi provava a consolarti, ai tuoi angeli di gesso in giardino, tu avvolto nella tua vestaglia da camera con lo spacco vezzoso,

prima di somigliare impeccabile ai comatosi che avevi tante volte spiato nelle foto di guerra di

David Harali, nelle liriche di Gozzano, nei Cri-

sti di Mantegna, negli incubi di Poe e nei manuali di Krafft-Ebing. L'avevi detto per tempo. Inciso su nastro. «Sono inconsolabile. Me lo sono guadagnato. Ho meritato quest'uscita dalla felicità infelice. Sono fuori. Questo

muovere incontro alla morte. Forse per vivere nonci vuole una dignità, ma per moriresì. Biso-

gna essere degni». Quandoti dissero che non c’era più nulla da

fare, io erolì, atterrito, tu disteso nella tua cuc-

cia che era diventata la tua prigione, io e il medicoin piedi davantia te. Ti sei disperato per un giorno, hai invocato l'eutanasia. Poi niente più. Hai smesso di fare domande,di lamentarti. Delle fitte atroci, dei cani che abbaiavanofuori,

delle gambe che non rispondevano più. Delle 37

allucinazioni. I bambini che cantavano Tu scendi dalle stelle in giardino, confusi agli angeli di gesso. Mihai chiesto di aggiustarti la coperta di lana sulle gambe.E di piegarei quattroorli, tutti allo stesso modo. Non mi sonochiesto perché, non me lo chiedevo mai in tua presenza, ho sempre saputo che c'era una ragione profonda in tutto quello che dicevi o facevi. Ricordo ancora comefosse ieri. Ti sei sistemato con le maniintrecciate sul petto, come fosse una specie di prova generale, tu che non hai maiprovato in Vita tua. «Adesso voglio dormire», dicesti a Luisa, quando non ne potevi più anche di non poterne più. La tua morte fu il tuo capolavoro. Non fidatevi ora di tutti quelli che dicono di averlo conosciuto, di sapere tutto di lui. Non fidatevi neppure di me. Non ne sapremo mai abbastanzadilui. Posso solo dire di averlo amato e ammirato. E il solo pensiero d'essere stato da lui ricambiato, anche un solo istante, è ogni volta

un pienodifelicità e un pieno di dolore. Se devo scegliere una sola immagine, no, non è quandoti ho incontrato la prima volta al Teatro Quirino o in viaggio insiemeconil tuo Pinocchio, o quando abbiamo giocato con le tante ragazze, o passato notti intere a parlare di tutto, o quando 38

hai recitato solo per mei canti di Leopardi. Ma quella volta che stavi morendo, tu nella tua cameradaletto e io, proprioio, incredibile, cheti

stringevo la mano scarna e tremante, sempre più flebile, appena rischiarati dalla luce fioca di un abat-jour. La mano stanca di un gigante. «Ti voglio bene», ti dissi finalmente sottovoce. Non ero mairiuscito a dirtelo prima. «Anch'io», mi dicesti tu con unfilo di voce. Avrei voluto amplificarti, registrarti e tenerlo tutto per me, quelfilo di voce,sotto il cuscino. In quell’esatto momento,

mi sono sentito tuo figlio, tuo padre, tua madre,

il tuo più fraterno amico. Siamostati intimi come di più non si può. Mille gradi Celsius sono bastati a ridurti in cenere. Ma nona riscaldarti. Avevi sempre freddo, Carmelo. «Delle mie ceneri fate quello che volete», ci dicesti una sera a cena,

davanti al camino,nella tua meravigliosa casa di Otranto. «... Magari una bella crostata per colazione».

Sai una cosa? Mi viene spesso, quando sto sovrappensiero, la tentazione di chiamarti. Avrei tanta voglia di farlo anche adesso. Ma non

risponderesti. È mezzogiorno. Tu, lo so, a que-

st'ora stai ancora dormendo.

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