308 80 2MB
Italian Pages 435 Year 1995
GIACOMO MARRAMAO
DOPO IL LEVIATANO INDIVIDUO E COMUNITÀ NELLA FILOSOFIA POLITICA
GIAPPICHELLI EDITORE TORINO
© Copyright 1995 G. GIAPPICHELLI EDITORE TORINO VIA PO, 21 TEL.: 011/81.27.623 FAX: 81.25.100
ISBN 8834841921
Composizione-. La Fotocomposizione Torino Stampa-. Stampatre s.a.s. Torino
NESSUNA PARTE DI QUESTO VOLUME PUÒ ESSERE RIPRODOTTA IN QUALSIASI FORMA A STAMPA, FOTOCOPIA, MICROFILM O ALTRI SISTEMI, SENZA IL PERMESSO SCRITTO DELL'EDITORE.
Nel ricordo di Anna Maria Battista
I
... the Multitude so united in one Versori, ìs called a COMMONWEALTH, in latine CIVITAS. This is the Generation of that great LEVIATHAN, or rather (to speake more reverently) of that Mortali God, to wich wee owe, under the Immortali God, our peace and defence. Thomas Hobbes
Staat heisst das kàlteste aller kalten Ungeheuer. Kalt lugt es auch; und diese Luge kriecht aus seinem Munde: "Ich, der Staat, bin das Volk". Friedrich Nietzsche
\
I
X
)
AVVERTENZA
AVVERTENZA
Questo libro raccoglie, in forma rielaborata e secondo un arti colazione tematica, alcuni saggi e interventi precedentemente apparsi in varie sedi italiane e straniere. Per quanto talora legati a occasioni e momenti diversi, essi gravitano tutti attorno a un unico nucleo: la metamorfosi dei "modelli di ordine" in età moderna e contemporanea. I testi erano apparsi, in precedente versione, nelle seguenti sedi: Parte introduttiva: Sezione B, in Filosofìa e democrazia, a cura di D. Fiorot, Torino 1992, e in "Revista Internacional de Filosofia Politica", a. I, n. 1, abril 1993; Parte prima: cap. I, in "Laboratorio politico", 1993, n. 1, e, in trad. castigliana, in X. PalaciosF. Jarauta (Eds.), Razón, Ètica y Politica, Barcelona 1988, e in Pensar la Politica, a cura di M. Rivero, Mexico 1990; cap. II, in Storia del marxismo, voi. IV, Torino 1982; cap. Ili, ivi, voi. III/l, Torino 1980; Parte seconda: cap. I, come saggio introduttivo all'ed. italiana di F. Borkenau, La transizione dall'immagine feudale all'immagine borghese del mondo, Bologna 1984; cap. II, in Lessico della politica, a cura di G. Zaccaria, Roma 1987, e, in trad. castigliana, in Illustración y Revolución ("Anales de la Catedra Francisco Suarez", n. 29/1989); cap. Ili, in Effetto Foucault, a cura di P.A. Rovatti, Milano 1986; cap. IV, come introduzione all'ed. italiana di V. Volkoff, II re, Napoli 1989; cap. V, in E. FanoS. RodotàG. Marramao (a cura di), Trasformazioni e crisi del Welfare State, Bari 1983; cap. VI, come introduzione all'ed. italiana di N. Luhmann, Come è possibile l'ordine sociale, RomaBari 1985; Parte terza: cap. I, in G. Vattimo (a cura di), Filosofia '87, RomaBari 1988 (e successivamente, con alcune modifiche, in trad. inglese, francese, castigliana e catalana); cap. II, in "Reli gioni e società", a. II (1987), n. 3; cap. Ili, in "Iride", a. I (1988),
n. 1; cap. IV, in Velocità. Tempo sociale e tempo umano, a cura di M. ManzoniS. Scalpelli, Milano 1988, e poi, con progressive integrazioni e modifiche, in "Paradigmi", a. VII (1990), n. 22, e in Figure dell'individualità nella Francia tra Otto e Novecento, a cura di M. DonzelliM.P. Fimiani, Genova 1993. La Sezione A della Parte introduttiva è inedita. Il volume documenta così una traccia di riflessione e di ricerca su questioni di etica, filosofia politica e "storia concettuale", da me portata avanti nell'arco di un quindicennio. E, in questo senso, rappresenta anche un approfondimento e uno sviluppo di due miei precedenti libri, ormai lontani nel tempo: II politico e le trasformazioni, Bari 1979, e Potere e secolarizzazione, Roma 1983, 19852 (ed. tedesca riveduta e bibliograficamente aggiornata: Macht und Sàkularisierung, Frankfurt am Main 1989). Proprio al fine di mantenere questo carattere di "documento" e di attestazione di un work in progress, ho resistito alla tentazione di modificare o integrare i testi, limitandomi a una semplice rielaborazione formale. Per dirla con il grande Montaigne: J'adjouste, mais je ne corrige pas. G.M.
ottobre 1994
X
AVVERTENZA
PARTE INTRODUTTIVA DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO SOMMARIO: Sezione A. Il Sovrano assente: la dottrina dello Stato come "triste scienza". Sezione B. La democrazia, la comunità e i paradossi dell universalismo.
SEZIONE A IL SOVRANO ASSENTE: LA DOTTRINA DELLO STATO COME "TRISTE SCIENZA" SOMMARIO: 1. Melancholia politica I. 2. Melancholia politica IL 3. "Morte di Dio" e 'nuovo politeismo".
1. Melancholia politica I C'era una volta la politica. Miracoloso frutto di quella sostan tivazione degli aggettivi che permise alla cultura greca di «porre il generale come un determinato» assieme alle nozioni di giusto, di bello e di buono essa sembra appartenere a una dimensione e a un tempo irrevocabilmente consunti. Rivive nell'Europa della christianitas, ma assorbita dentro un universalismo teologico morale che la sussume sotto di sé, trasvalutandone i signa. Nell'era cosiddetta moderna sembra "rinascere", irrompere a cielo aperto dalle crepe di quel plurisecolare edificio, ricostituirsi come autonoma ars: orgogliosamente sottratta all'etica, beffardamente svincolata dalla "scienza di Dio". Apparenza ingannevole. Poiché quell'arte nulla ha più da spartire con l'accezione originaria della politiké téchne, imperniata suìYareté: nulla ha più in comune con quel concetto di "generale" {koinés), che postulava un agire secondo giustizia nel cerchio della polis. In epoca moderna, la politica è costretta a rifugiarsi, raccogliersi e concentrarsi in quel mirabile ma draconiano congegno che, a partire da Machiavelli, prende in virtù di un'astrazione dal latino status reipublicae il nome di "Stato": «Tutti li stati, tutti e' dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini,» si legge nell'incipit del Principe, «sono stati e sono o republiche o principati». Durissime, oltremodo restrittive, tutte e tre le condizioni sopradette: rifugio, raccoglimento, concentrazione.
16
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
Ma non basta. Quando, nel secolo della rivoluzione scientifica, questa "astrazione" si sincronizzerà ai tempi e agli stili di un'indagine naturale che ha rotto definitivamente i ponti con l'universalismo e il giusnaturalismo teocratico, risolvendo Dio in mera "ipotesi di lavoro", verrà alla luce un'ulteriore, decisiva implicazione che quelle condizioni restrittive racchiudevano: la politica può darsi soltanto come funzione negativa, frontiera invalicabile tra la "razionalità" e la "vita". Nella costruzione hobbesiana, l'agire politico una volta trovato il suo punto di massimo coagulo simbolico nel Covenant viene a coincidere con un dispositivo tecnico teso a neutralizzare lo "stato di natura". Da quel momento, tutti gli attributi dellapolitiké téchne vengono legittimamente trasferiti al Leviatano, che diviene così l'esclusiva fons et origo di ogni auctoritas e, attraverso di essa, di ogni lex: «auctoritas, non veritas, facit legem». Questa stilizzazione in chiave negativa, «tecniconeutrale», del Leviatano situata sul delicato crinale della soglia tra giu snaturalismo e positivismo giuridico, e pertanto destinata a miglior sorte presso la tradizione "territoriale" del continente europeo che non presso l'immaginario "oceanico" dell'insula britannica sembrava rispondere, ad onta di ogni astrattezza razionalistica, a un'esigenza fin troppo reale e concreta: il sistema moderno degli Stati nato dalla pace di Westfalia (1648: esattamente tre anni prima della pubblicazione della classica opera hobbesiana) dovette definirsi in antitesi alle potestates indirectae (dalla Chiesa alle "potenze" socioeconomiche, dagli interessi alle corporazioni di "ceto") che, nella struttura in equi librio dello Stàndestaat, si "rappresentavano" al Principe, costi tuendo rispetto a quest'ultimo una polarità insopprimibile. Ed è appunto il ritorno delle potestates indirectae dia ingenerare, nella società contemporanea, l'entropia di quell'Artificial Man di cui lo stesso Hobbes aveva a chiare lettere denunciato il carattere pereunte: ad onta di ogni facies di onnipotenza, il nuovo Leviathan è, in quanto umano prodotto, un «Dio mortale» e, in quanto simbolo malefico, destinato a divenire oggetto di odio non meno che di culto. Gioiello dello jus publicum europaeum, zenit del «razionalismo occidentale», esso è una struttura solo in apparenza minacciosa e possente: in realtà è un congegno delicato e precario, un'utopia macchinale destinata ben presto ad incrinarsi e ad infrangersi sotto la pressione di corpi "alieni" rannicchiati nei suoi interstizi e protetti dai suoi dispositivi. Le ripercussioni delle spinte egualitarie indotte dalla temperie illu ministica e dalla rivoluzione francese hanno dapprima svuotato il
17
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
magnus homo della sua anima, espungendone (con Tantirito della decapitazione) la «persona rappresentativosovrana»; quindi trasformato il meccanismo vitale in inerte meccanica riproduttiva ed estensiva di «norme» (in mero apparato tecnico di calcolabilità e generalizzabilità della forma giuridica); infine invertito diametralmente la conversione razionale del simbolo, ripristinandone contro le originarie intenzioni di Hobbes il significato miticonegativo di Moloch onnidivorante. Questo, nelle sue linee generali, il racconto del Politico quale ci è offerto da alcuni suoi grandi "apologeti" (nel senso letterale di defensores) europei: a partire da Cari Schmitt e dagli storici e costituzionalisti che ne hanno, più o meno fedelmente, ricalcato le orme (Hintze, Brunner, Forsthoff, Bòckenfòrde, innanzitutto; e poi Schnur, Koselleck, Meier ...); ma anche con segno valutativo rovesciato da alcuni suoi critici e detrattori (da Leo Strauss a Eric Voegelin, da Karl Lowith a Hannah Arendt). Si è sottolineato "racconto": i loro discorsi, infatti, sono attraversati da un sotterraneo pathos mitopoietico, anche quando vorrebbero assumere le sembianze di fredda e distaccata "diagnosi". Ma per rendere completa la definizione si dovrebbe a rigore aggiungere "racconto melanconico": scegliendo, tra i vari significati moderni di "melanconia", quello di «un'inclinazione puramente soggettiva» attribuita per traslato al mondo oggettivo, per cui si può parlare di «malinconia dell'autunno», di «malinconia della sera» (o, come il principe Hai di Shakespeare, di «malinconia di Moorditch»). E sarebbe davvero istruttivo, a questo proposito, verificare fino a che punto i due (certo variegatissimi) fronti non si ritrovino, a dispetto di ogni antitesi assiologica, sul comune terreno di una percezione "melanconica" della modernità. Ma poiché una tale verifica percorre in lungo e in largo i confini tematici di questo libro, ci limiteremo a osservare per inciso che Schmitt, ogni qual volta pone in opera uno schema diagnostico, viene ad imbattersi in una sottile contraddizione, che conferisce al suo stile una tonalità ambigua, oscillante tra melanconia e ferocia. Le ragioni dell'ambiguità, tuttavia, si tro vano situate ben più in profondo di un piano meramente sin tomatologico: non dipendono, in altri termini, da uno "stato d'animo", ma sono piuttosto radicate in una caratteristica ambi valenza teorica. La propensione "melanconica" prevale infatti ogni qualvolta egli deve comunicarci che la malattia mortale del Leviatano è iscritta a chiare lettere nel suo codice genetico, essendo ad esso consustanziale e cooriginaria la funzione neu tralizzante e spoliticizzante: di qui ci viene suggerito con ama rezza l'inevitabile binomio secolarizzazioneindebolimento, con
18
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
l'evolversi dello Stato assoluto in Statodidiritto e il ribaltarsi della legge da contrassegno della decisione sovrana in strumento tecnico «to put a hook into the nose of the Leviathan». L'attitudine "feroce" prende invece il sopravvento, quando Schmitt in evidente contraddizione con le sue stesse premesse si accanisce contro fattori "esogeni" che, nelle sembianze di subdoli hostes, avrebbero tramato al fine di svuotare lo Stato delle sue prerogative sovrane. Accade così che quella stessa scissione fra interno ed esterno (coscienza e obbedienza, legge morale e legge positiva, convinzione e convenzione), individuata come vizio di nascita o difetto di fabbricazione della Machina machinarum, venga poi sussunta sotto una teoria della cospirazione e ascritta al perfido "complotto" giudaico espresso dalla «linea che va da Spinoza a Moses Mendelssohn». Più pacatamente, in Glossarium (testo postumo che raccoglie le annotazioni autografe redatte da Schmitt tra il 1947 e il 1951 ), la « separazione (Trennung) hobbesiana tra esterno e interno», con la conseguente enfatizzazione del primo termine, viene ricondotta al gusto barocco della «facciata» (nota del 12.11.1947). Ma questa facciata non è mera «parvenza» (Schein). È, piuttosto, paravento del nucleo arcano che salda insieme, in una trama invisibile, potere e morte : «La vita è la facciata della morte (Barocco). Il Leviatano stesso è una facciata: la facciata del dominio davanti al potere». Di qui l'incolmabile distanza tra Hobbes e Spinoza: «Il barocco Hobbes ha ancora una sfera pubblica (Óffentlichkeit) sostanziale (Spinoza non è barocco); ragion per cui il Barocco possiede ancora legittimità e non solo legalità; dominio (Herrschaft) e non solo potere (Macht)» (nota del 15.11.1947). D'altronde, anche nella sua produzione matura dalla quale si è estrapolato, e tanto enfatizzato, il tema della Entortung, dello sradicamento del «Nomos della terra», con l'inevitabile corollario del privilegiamento dell'antitesi mareterra come chiave di lettura cosmicostorica dell'egemonia angloamericana e dell'emarginazione del «Vecchio continente» Schmitt lascia intravedere la possibilità di un ritorno in grande del Politico, di un ripristino della coppia OrdnungOrtung (ordinamentolocalizzazione): di quella justissima tellus, o regolarità territoriale della Legge, che sarebbe stata violata da una hybris ebraica colpevole di aver trasmesso al mondo il suo spirito di avventura, marginalità, deriva (ma perché, allora, non anche hybris cristiana? non è forse agostiniana la matrice della distinzione tra "foro esterno" e "foro interno"? Sono queste le domande davvero decisive, dirimenti che il cattolico Schmitt ha sempre , accuratamente evitato di porsi).
19
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
In una importante discussione con Ernst Jùnger sulF«antitesi planetaria OrienteOccidente», Schmitt porta a compimento un'orbita di riflessione avviata con i lavori hobbesiani degli anni '30 (e la cui conclusione parrebbe già adombrata sia in Der Nomos der Erde, sia nell'articolo redatto per il tricentenario del Leviathan): l'enfasi sulla svolta in senso marittimo impressa dall'Inghilterra al corso della storia mondiale acquista qui connotati squisitamente descrittivi, del tutto scevri di connotazioni assiologiche positive. È in questa temperie "oceanica" e "nomade" che s'inseriscono movimenti e correnti nei cui confronti il giurista di Plettenberg non nutre simpatia alcuna: dalla rivoluzione industriale, all'economia politica classica (intesa come «una sovrastruttura sociologica e concettuale di questo primo stadio di una tecnica basata su un'esistenza marittima»), al marxismo (inteso come «una continuazione di questa economia politica classica»). Ma nell'odierna globale Zeit 10 scenario si presenta radicalmente mutato: l'attuale «duali smo mondiale» non costituisce più una tensione bipolare, ma una vera e propria antitesi «storicodialettica» tra terra e mare. Di qui la «nuova domanda» circa il significato simbolico dell'odierno «appello della storia». E l'inequivocabile risposta: questo appello non è certamente più «identico a quello dell'epoca in cui gli oceani si spalancarono». Vano sarebbe il tentativo di dare all'«appello odierno» la vecchia risposta con le sue prosecuzioni ulteriori: «le disperate, ulteriori spinte verso 11 cosmo di una tecnica inarrestabile, che hanno soltanto il signi ficato di fare dell'astro da noi abitato, la Terra, una nave spa ziale». Il pericolo, in altri termini, è che gli uomini evitino la nuova domanda, e il «nuovo rischio» che essa comporta, restando prigionieri della Storia: «ritenendo di essere storici e attenendosi a ciò che è stato vero in passato, gli uomini dimen ticano che una verità storica è vera una volta sola». Tutto bene. Salvo il fatto che la risposta prospettata da Sch mitt nel corso della sua riflessione appare non già "inattuale" nel senso nietzscheano dell'anticipazione di una verità che il "secolo" non è ancora in grado di afferrarecomprendere quanto piuttosto ancora più "vecchia" e superata dell'attualità stessa. Di qui il sapore nostalgico del suo richiamo al fondamento «terraneo» di ogni nomothesia, e il retrogusto minaccioso del suo rimando al triplice legame con cui la terra tiene avvinto a sé il diritto: celandolo dentro di sé, nella forma di ricompensa del lavoro; mostrandolo in sé, in quanto confine e «recinzione»; recandolo su
20
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
di sé, come justissima tellus segno pubblico dell'Ordinamento, frontiera invalicabile del binomio Ordnung Ortung.
2. Melancholia politica II Di segno valutativo opposto, ma non meno melanconica e "spaesata", la cartella diagnostica sulle condizioni del "politico" approntata dalle punte più avanzate della ricerca sociale con temporanea, che negli ultimi anni si sono venute sempre più concentrando sui fenomeni del pluralismo e del corporatismo. Minimo comun denominatore delle nuove indagini è un con vincimento radicato e diffuso dell'inservibilità delle «antiche mappe dello Stato, della società e dell'economia». Anche qui a dispetto, o forse proprio a cagione, della matrice liberalde mocratica affiora come elemento unificatore dell'analisi il sen timento di una condizione che, non diversamente dalla Kul turkritik europea, trova espressione nelle metafore nautiche del naufragio e della deriva in mare aperto. Ciò che fa da collettore alle diverse indagini è ancor prima di un'astratta piattaforma metodologica l'acuta sensazione che «le società industriali occidentali» hanno ormai intrapreso, «senza indicatori e senza bussola», un viaggio dalle tappe e dalla destinazione sconosciute. Nessuno dei vecchi parametri topografici può più esserci d'aiuto: «la natura del territorio è mutata e le mappe, che peraltro descrivevano l'antico stato delle cose solo in modo approssimativo e anche falso, non sono state aggiornate e non riportano la nuova fisionomia del paesaggio». Ma il dato più sorprendente e vistoso è che i fattori di scompaginamento delle coordinate spaziali tradizionali messi a fuoco dalla scienza politica d'oltreoceano sono esattamente identici a quelli indicati da Schmitt e dalla grande "dottrina dello Stato" fra le due guerre: il fenomeno dei gruppi di interesse intesi come nuove potestates indirectae sottratte all'orbita della sovranità statale e le teorie che li riflettono (cfr. S. Berger, Organizing Interests in Western Europa. Pluralism, Corporatism and the Transformation of Politics, Cambridge 1981; G. LehmbruchPh.C. Schmitter, Patterns of Corporatists Policy Making, London 1982). Queste teorie hanno svolto una funzione rilevante nello svi luppo della ricerca intorno alle nuove forme di intermediazione tra Stato e società: è stato proprio il dibattito sul pluralismo e la sovranità a segnare la nascita della politicai science. Ma ora la
21
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
moltiplicazione di queste insorgenze è tale da destabilizzare ogni centro e ogni Nomos: ogni «situazione di predominio stabile». Le voci di questa diagnosi sono ampiamente note a chiunque abbia una qualche dimestichezza con la discussione attuale sulla "crisi della politica": divisioni trasversali della società, sovrapporsi all'universalismo della cittadinanza dell'appartenenza a gruppi diversi, crescente mobilità sociale, proliferare di "politiche della differenza". Anche sotto questo profilo, la convergenza con l'attuale riflessione politica europea di ascendenza "schmittiana" appare sorprendente: mentre da un lato la politica in senso stretto (ossia: la logica del sistema e del ceto politico) tende a divenire sempre più "autoreferenziale" e svincolata dalla dinamica sociale, dall'altro «associazione e dissociazione stanno subendo una trasformazione tale che il politico risulta sempre più disperso, e ad una più ampia partecipazione, nonché ad una crescente estensione dello spazio di iniziativa politica, corrisponde un indebolimento di tutte le istanze politiche, almeno per quanto riguarda quelle protette». La conclusione che l'apologetica "continentale" del politico evita di trarre da questa interpretazione è che da essa dovrebbe risultare necessariamente incrinato non solo il "modello giuridico della sovranità", imperniato sull'equazione lineare (di matrice hobbesiana e di derivazione giuspubblicistica) tra diritto e Stato, ma la stessa definizione schmittiana del «criterio del politico» come «grado di intensità di un'associazione o di una dissociazione di uomini»: se è vero, infatti, che le «potestates indirectae diventano sempre più forti», che la trama delle loro connessioni si è infittita al punto che è impossibile venirne a capo con una decisione "gordiana", ne consegue che il politico non è solo il luogo in cui vengono prese decisioni, ma anche la dimensione simbolica in cui si verificano i "giochi di reciprocità" e gli effetti secondari e preterintenzionali dell'agire. Non a caso, le scienze sociali nel tentativo di venire a capo dei nuovi problemi si sono viste costrette ad approntare quella categoria del potereinfluenza che si presenta oggi come nuova sfida non solo alla progettazione moderna dello Statoapparato, ma allo stesso modello classico dellapolitiké téchne: «Non è difficile vedere», scriveva anni fa David Easton in una ricognizione sistemica della politica costretta (per sottrarsi alle secche del comportamentismo e del fattualismo) a ripartire proprio da Aristotele, «che la ricerca politica difetta nelle sue conoscenze sostanziali e nella formulazione delle intuizioni che pur essa possiede. A che cosa è dovuta questa mancanza di progresso? Si è tentati di rispondere, forse con qualche esagerazione: lo scienziato politico americano è nato
22
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
libero, ma dovunque è in catene, legato ad un passato di iperfattualismo. L'assenza di conoscenza più attendibile origina direttamente dall'aver trascurato senza alcun limite la teoria generale». "Disillusione" e "disagio" sono dunque le parolechiave di un'inchiesta sullo «stato della scienza politica in America» che pare soggiacere non meno della dottrina dello Stato "vete roeuropea" all'immagine della decadenza e del «declino della teoria politica moderna». La crisi di ogni Ortung, di ogni col locazionelocalizzazione del politico, si evidenzierebbe oggi in uno storico turning point in cui non si dà più soglia stabile, certezza nomotetica, in grado di decider e/dirimere associazione e dissociazione, dal momento che l'associazione politica viene a intrecciarsi con il suo contrario: la dissociazione politica. Per affrontare in maniera adeguata questo difficile tornante, per produrre una interpretazione efficace della crisi che investe la politica nelle "due metà dell'Occidente", sembra esservi solo una via: attivare una chiave di lettura simbolica, acquisendo al «con cetto del politico» elementi prima facie "alieni", o per così dire impuri, che contaminano giocoforza le pretese di nitore e autoe videnza del suo perimetro sacro. Un esempio eloquente di questa "impurità" è espresso dalla circostanza per cui, data la rilevanza simbolica dell'intreccio di associazione e dissociazione, ne risultano scissi non solo i gruppi e le associazioni, ma gli stessi individui che li "compongono". Salta così uno dei presupposti cardine dell'atomismo moderno, tradizionale sostegno dei modelli di razionalità del contrattualismo e dell'utilitarismo classici. Ed è proprio dall'irruzione del fenomeno dell'"io diviso", o del multiple self, che l'analisi sociale è inesorabilmente spinta a prendere in esame quel costante intrecciarsi di "interessi" e "valori", "ragioni" e "passioni", e quel circolo vizioso di "aspettative" crescenti e "delusioni", prescindendo dal quale sarebbe vana pretesa tentare di spiegare come ha dimostrato nelle sue ricerche Albert O. Hirschman la stessa dinamica economica. Premesso ciò, occorre tuttavia aggiungere che un tentativo di reagire alla melanconia diffusa che pervade i domini della social science, disegnando coraggiosamente una nuova mappa "post territoriale" del politico, esiste: ed è la teoria della poliarchia. Caratteristica fondamentale di questa teoria è quella di porsi su un piano rigorosamente descrittivo (e per questa sua "avalutatività" essa è stata illegittimamente assimilata al descrit tivismo comportamentista). In effetti, Robert A. Dahl cui si deve il conio del neologismo polyarchy vorrebbe con la sua tipizzazione non solo collocarsi, per dirla con espressione nietzscheana, "aldilà
23
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
del bene e del male", prescindendo da qualsivoglia assunto di valore prò o contro la poliarchia, ma anche situarsi a un livello di astrazione intermedio tra modello e realtà. A questo "regime di mezza luce" sarebbe costretta oggi ad adattarsi la teoria politica, intesa come una procedura di allestimento di tavole sinottiche improntata a un metodo tipologicocomparativo. Un'operazione siffatta s'intende come funzionale a un preciso obiettivo: saldare le classiche questioni dell'autorità e della legittimità (che, detto per inciso, già in Weber si trovavano riformulate in un impianto "idealtipico" ricavato da procedimenti comparativi) a una contestazione pubblica riconosciuta a soggetti fortemente differenziati. Competizione e incisività divengono, pertanto, i requisiti di un modello politico fisiologicamente aperto a una pluralità di «subculture» che si differenziano per religione, lingua, razza, gruppo etnico. Sta qui la forma specifica di inclusività (partecipazione) dellaipoliarchia competitiva: anche il sistema politico che si colloca agli antipodi di essa, quello dell'«egemonia chiusa», può divenire inclusivo, senza per questo aprirsi a un processo di liberalizzazione come quello che dà luogo all'«oligarchia competitiva». L'operazione di Dahl presenta un tale tasso di vigilanza meto dologica e di sorveglianza sulle proprie articolazioni interne, da apparire refrattaria a qualunque tentativo di appiattirla ridu cendola al rango di una mera descrittivistica apologetica del multiversum politico: se, d'altronde, l'immagine di un'interazione "pluriversale" come fattore costitutivo del processo politico reca senza ombra di dubbio l'impronta della temperie pragmatista che attraversa talora implicitamente o tacitamente l'area culturale angloamericana, ciò non autorizza in nessun caso a confondere pragmatismo con "behaviorismo". Il paradigma comportamentista ha bensì in comune con quello pragmatista l'esigenza di risolvere la compattezza di un universum di soggettisostanze nella dinamica flessibile di relazioni interattive da cui si generano le aggregazioni e disaggregazioni dei "gruppi sociali": ma, a differenza di questo, paga l'operazione al caro prezzo di sostituire al "meccanismo" classico un "organismo" concepito come intrinsecamente armonico, miracolosamente esente adi frizioni e conflitti. Per intendere il senso della concezione di Dahl, invece, è impossibile prescindere dalla natura tipicoideale (e non piattamente descrittiva) delle astrazioni da essa adottate: approccio metodico che trova il proprio significato e la propria funzione nel "decostruire" {ergo: desostanzializzare) le tradizionali categorie del politico fondate sull'antitesi polare di democrazia e totalitarismo. Se "poliarchia" figura adesso come
24
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
nuovo nome per democrazia, ne consegue a fortiori una frattura epistemologica con la tipologia classica delle forme di governo: e ciò non solo per la portata assiologia negativa che è bene non dimenticarlo il termine "democrazia" aveva in Aristotele, ma a causa piuttosto della rilevanza sostanziale che vi veniva ad assumere una differenziazione tra "forme" simmetricamente coordinata allo scarto qualitativo indotto dalla diversa latitudine (o portata quantitativa) dei "soggetti" del potere ("uno", pochi", "molti"). Il sistema politico democratico non si identifica per Dahl sic et simpliciter con l'ampiezza della sua base di consenso: di cui, come l'esperienza storica ci insegna, non difettano certo alcuni regimi "totalitari". E neppure con il mero sviluppo di un'opposizione: che può essere tanto radicale quanto scarsamente incidente sulla forma di governo. Ma piuttosto con la capacità dei governi di «soddisfare, in misura continuativa, le preferenze dei cittadini, in un quadro di eguaglianza politica»: ossia, di «"rispondere" completamente, o quasi, alle esigenze dei cittadini». Le curiosità lessicali della definizione su cui è bene riflettere sono sostanzialmente tre. In primo luogo, la "misura con tinuativa": essa segnala quell'aspetto temporale della durata che, per quanto ben nota e tradizionalmente presente alla riflessione sul "governo misto" a cavallo tra antico e moderno (si pensi alla rilettura machiavelliana del VI libro di Polibio), acquista qui una declinazione del tutto nuova. In secondo luogo, l'accento sulle "preferenze": indicatore di un'assunzione della terminologia economica nell'ambito della scienza sociale e politica che, almeno a partire da Weber (non solo, dunque, da Schumpeter 0 da Downs), non dovrebbe sorprendere più di tanto neanche 1più inguaribilmente nostalgici fra i teorici della politica "vete roeuropei". In terzo luogo, il "quasi": esso segnala il carattere ten denziale mai "perfetto", mai compiutamente realizzato della forma democratica, contrassegnata da una tensione costante tra ideale e realtà. Una sorta di «paragone ellittico», si sarebbe portati a dire adottando una celebre espressione crociana (adozione, del resto, tutt'altro che illegittima: in quanto Croce è un autore più volte citato da Dahl, anche se non esattamente a questo pro posito). La tematica dello scarto e dell'approssimazione tendenziale tra democrazia ideale e democrazia reale aveva tuttavia già trovato una formulazione rigorosa in un importante saggio teorico che Dahl stranamente non menziona: Vom Wesen und Wert der Demokratie (1920; 19292) di Hans Kelsen. Nel giurista praghese, e in altri cittadini di Cacania (di cui si tratterà ampiamente nel
25
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
corso del libro), il politicai scientist americano avrebbe potuto trovare ulteriore conforto alla sua tesi della persistente vitalità delle «subculture» oltre l'individuo e oltre la divisione di classe: «Lungi da me», scrive Dahl nel capitolo VII di Polyarchy (New Haven 1971), «il dire che le differenze di classe non abbiano importanza. Sostengo invece che la classe economica è soltanto un fattore, che spesso è meno importante, e che può essere specificato in termini diversi in riferimento a distinte sottoculture, a modi di vita, a norme, a prospettive, a identità, a lealtà, a organizzazioni, a strutture sociali differenti. Inoltre, le subculture hanno spesso una vitalità eccezionale e durano oltre la vita di un individuo. Questi può cambiare la sua identificazione di classe più facilmente della sua lingua materna o della religione. Nel corso di migliaia di anni sono sorte classi e imperi che si sono poi dissolti, mentre non sono mutati i confini linguistici entro i quali c'è oggi la Svizzera o il Belgio. L'identità etnica o religiosa è integrata così profondamente nella personalità degli individui che i conflitti fra le sottoculture etniche o religiose possono essere particolarmente pericolosi, soprattutto se hanno una localizzazione ben definita». Con lo stesso argomento Kelsen aveva, mezzo secolo prima, dissolto il concetto di popolo come una "illusione metapolitica": «Diviso da contrasti nazionali, religiosi ed economici, il popolo appare, agli occhi del sociologo, piuttosto come una molteplidi gruppi distinti che come una massa coerente di uno e di un medesimo stato di agglomerazione». E aveva aggiunto che «soltanto in senso normativo» si può parlare in democrazia di unità del popolo. Ma fino a che punto è possibile oggi tenere insieme universo della norma e multiverso delle culture, nel momento in cui identità culturali diverse basate sull'etnia, la razza, il sesso o la religione contestano la legittimità di un sistema di regole che si presume indifferente e neutrale? È questa (come vedremo nella prossima sezione introduttiva) la sfida cui sono chiamate società sempre più interdipendenti, dotate secondo un'acuta osservazione di Amy Gutmann di «un potere di creazione e distruzione senza precedenti» (cfr. Multiculturalism and «The Politics of Recognition», Princeton 1992). Ma torniamo per concludere su questo aspetto ad esaminare schematicamente alcune delle principali implicazioni della "teoria della poliarchia". Una di esse investe il carattere istituzionale delle poliarchie. In esse giocano un ruolo decisivo due specie di organizzazioni istituzionali: l'esecutivo, preso in esame nel suo nesso con le «forze principali di un paese», e il sistema dei partiti. Come si può notare, viene tagliato fuori il legislativo: il rapporto parlamento governo di weberiana memoria. Dahl muove infatti dall'assunto
26
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
che «tutti i regimi competitivi che sono riusciti a tenere in vita le poliarchie nel corso del XX secolo hanno sviluppato esecutivi forti, con un'accentuata capacità di agire». Constatazione di fatto cui fa riscontro un'altrettanto inoppugnabile rilevazione teorica su questo locus classicus dei sistemi rappresentativi: «Operando con una teoria della democrazia rappresentativa che metta in luce soprattutto la legittimità esclusiva dell'assemblea elettiva come il rappresentante supremo della volontà popolare, i costituzionalisti del XIX secolo incontrarono molte difficoltà al momento di fornire all'esecutivo un'autorità indipendente». Per questa ragione, la maggior parte delle poliarchie si è distaccata dal modello del governo assembleare, che forma, assieme al «sistema parlamentare bipartitico», uno dei «due modelli ideali della democrazia rappresentativa». Dahl propende a favore della tesi per cui sistemi pluripartitici fortemente frammentati (il pluralismo estremo o polarizzato di Sartori) danno ineluttabilmente luogo a coalizioni deboli e instabili: «Come il modello assembleare è stato respinto praticamente da tutte le poliarchie nel XX secolo, così il modello bipartitico classico non può essere adottato con successo da paesi caratterizzati da fratture subculturali, vale a dire dalla maggioranza di essi». Di là delle soluzioni istituzionali che restano aperte e pro blematiche ciò che importa qui sottolineare è il requisito di base che contraddistingue in linea di principio la poliarchia dal modello "egemonico": si dà propriamente "poliarchia" solo in presenza di un sistema politico compatibile non solo con una dimensione polimorfa di etnie, culture, religioni, ecc., ma anche con «un alto grado di variabilità nelle credenze sull'autorità». Di conseguenza, il modello poliarchico è in grado di contemplare sia il conflitto aperto, sia la cooperazione o il compromesso. O meglio: di assumere «il conflitto politico come elemento di cooperazione più articolato». E tuttavia precisa Dahl quasi giocando d'anticipo sulla prevedibile accusa di ottimismo non vi è alcuna garanzia né ineluttabilità naturale che assicuri il passaggio dal modello egemonico a quello poliarchico: «Non v'è dubbio che gli eventi di questo secolo abbiano confermato la tesi che la democrazia non è destinata a trionfare irresistibilmente su tutti gli ostacoli posti lungo il suo cammino». La sola indicazione che la realtà ci fornisce è che «la varietà delle circostanze in cui una poliarchia può emergere è proprio una delle caratteristiche più chiare della scena mondiale». Lasciamo ora da parte i complessi risvolti politicoistituzionali che una tale ibridazione di piano modellistico e piano pragmatico solleva, per rivolgerci alla temperie culturale di cui la teoria della
27
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
poliarchia partecipa: una temperie alla quale come vedremo tra poco sono tutt'altro che estranee le tematiche filosoficoteologiche di quest'ultimo scorcio di secolo. Lo scenario delineato da Dahl imperniato com'è sul distacco da tutti i modelli "monisti" e rigidamente "nomocratici" di government viene a convergere con altre diagnosi della civiltà contemporanea nel «minimo comune denominatore della sensibilità moderna», costituito dalla rappresentazione dell'Occidente come «sfera culturale esplosa» (D. Miller). L'adozione del termine polyarchy trova, infatti, un puntuale riscontro in altre analoghe tendenze del pensiero "postmetafisico": nel senso e nell'essere «polimorfici» di cui parlano, in ambito psicologico, Charles Baudouin e Norman O. Brown; nella conoscenza e nella comunicazione «plurisignifìcante» di Philip Wheelwright; nella «polisemia» del discorso immaginale che definirebbe, per Ray Hart, la dimensione profonda delle nostre espressioni culturali; nella irriducibile «plurietnia» che, secondo Michael Novak, segmenterebbe la comunità; e, infine, nel «multiverso» eticopolitico dei pragmatisti: per i quali la realtà non esiste come «universo unitario», e somiglia piuttosto a una repubblica federale che a una monarchia.
3. "Morte di Dio" e 'nuovo politeismo" Autori come Nietzsche e Weber avevano dato a tutto questo complesso di fenomeni un nome preciso: politeismo. A questa espressione essi avevano attribuito certo una radicalità e una drammaticità che invano tenteremmo di rintracciare negli autori sopra menzionati. E tuttavia è difficile sbarazzarsi della sensazione che, proprio in questo scorcio di fine secolo, la loro "inattualità" sia divenuta fin troppo "attuale". Non diversamente sembra pensarla, del resto, Alasdair Maclntyre, quando, in After Virtue (Notre Dame 1981 ; 1984 2), afferma con dichiarato disap punto che «la visione del mondo contemporanea è in misura predominante [...] una visione weberiana» e, di conseguenza, nietzscheana: in quanto «le categorie di pensiero fondamentali di Weber presupponevano la tesi fondamentale di Nietzsche». Si tratta, allora, di scoprire per quali vie la radicalità di quella tesi si sia potuta stemperare al punto di trasformarsi in topos dell'attualità e, per così dire, in moneta corrente. In cosa consiste, dunque, la radicalità e drammaticità di cui si parla? Essa sta, innanzitutto, nel prendere atto di una frattura, di
28
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
una "crisi", che richiede, nel senso più rigoroso e pregnante del termine, una decisione. Ma ecco il passaggio saliente tale decisione, benché venga fatta coincidere con l'assunzione piena del nichilismo, non è una decisione "qualsiasi", "occasionale", un romantico ludus globi fungibile a qualsivoglia contenuto. È, piuttosto, una decisione eticamente condizionata. È la conseguenza letteralmente radicale della percezione dell' « acquiescenza volgarizzata dell'espressione morale moderna»: maschera universalmente disponibile per «qualsiasi volto». In quanto "sovvertitore" che diametralmente rovescia la forma dell'enunciazione morale dell'Occidente, Nietzsche non è un filosofo morale fra gli altri, ma, per dirla ancora con Maclntyre, «il filosofo morale della nostra epoca». Ma la "decisione" non è solo rovesciamento e sovvertimento. È anche distacco. E distacco duplice. Distacco dall'uniformità razionalistica della connessione dicolpa, fondamento del bisogno (pratico) di rassicurazione che permea di sè lo stesso ideale (teoretico) di conoscenza: l'idea scientificonaturale di "causa" non è per Nietzsche che una proiezione ed estensione metaforica del suo originario significato giuridicopenale. E distacco dall'uniformità etica di una Norma impersonale e onniomologante: da una monocrazia, dunque, che coincide perfettamente con una nomocrazia. Di qui la superiorità e il "vantaggio" del politeismo rispetto non solo al monoteismo d'impronta ebraicocristiana, ma a tutta una persistente attitudine monoteistica che contrassegnerebbe Yepisteme occidentale sin dai suoi esordi, a partire dall'ideale platonico di stabilizzazione del linguaggio: «Che il singolo», si legge nell'aforisma 143 di Die fróhliche Wissenschaft, «si eriga il suo proprio ideale e derivi da esso la sua legge, le sue gioie e i suoi diritti questa fino a oggi è stata considerata come la più mostruosa di tutte le umane aberrazioni e come idolatria in sé: in realtà quei pochi che osarono ciò, hanno sempre sentito la necessità di una apologia davanti a se stessi, ed essa di solito s'esprimeva in questi termini: "Non io! non io! ma un Dio attraverso di me!" Fu nell'arte e nella forza mirabile di plasmare dèi il politeismo che questo istinto potè disgravarsi, purificarsi, giungere a perfezione, nobilitarsi [...] Il monoteismo, invece, questa rigida conseguenza della dottrina di un uomo normativo e unico la fede quindi in un dio normativo, accanto al quale non ci sono che dèi falsi e bugiardi costituì forse il pericolo più grande nel corso dell'umanità fino ad oggi [...] Nel politeismo era come preformata la libertà di spirito e la multiforme spiritualità dell'uomo: la forza di crearsi occhi nuovi e personali, sempre più
29
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
nuovi e personali: cosicché per l'uomo soltanto, in mezzo a tutti gli animali, non esistono orizzonti e prospettive eterne». Ovunque appare il prefisso "poli", siamo dunque per Nietzsche in presenza di qualcosa di estremamente reale e concreto, che incide nel profondo della nostra esistenza. Da quella frattura in poi, il passaggio dall'astrazione alla vita costituirà un cammino obbligato: nessun "astratto" potrà placidamente riposare nella sua autoconsistenza logica senza dovere incessantemente misurarsi con l'incolpevolezza del divenire (sulla natura "postistorica" di questo passaggio non è il caso, per il momento, di pronunciarsi). La multiformità della vita e la pluralità delle norme rappresentano la costante di una Uberwelt, di un "oltremondo", al cui volto è stata imposta la maschera di un'«unica e ultima norma»: l'Uomo. Attitudine monoteistica e umanismo appaiono qui saldate insieme in un vincolo indissolubile: essi formano, in scenso proprio, un'unica e medesima struttura di pensiero. Ma non è tutto. L'adozione del lemma "politeismo" allude anche ad altro: a una condizione culturale, a una "situazione spirituale del tempo", tale da esigere una motivazione di ordine rigorosamente teologico (ben poco radicale sarebbe infatti l'accezione del termine qualora si limitasse a suggerire blande metafore o pallide analogie). Più precisamente: una motivazione capace di delinearne i caratteri per rottura con la fisionomia della condizione antropoteologica rispetto alla quale essa si presenta come discontinua. Lungi dal configurare un presupposto, il monoteismo appare come «rigida conseguenza della dottrina di un uomo normativo e unico»: esso non è che il prodotto dell'umanismo come «legge di ogni eticità». È riposta qui la radice del nesso tra la dimensione metafisica (o ontoteologica) e quella culturale (o antropostorica) che verrà configurandosi nell'accezione nietzscheana di "nichilismo" (assimilabile non senza forzature al significato che il termine verrà poi ad assumere nella filosofia di Heidegger). Ed è precisamente tale nesso ad essere investito, nell'aforisma 125, dal celebre apoftegma della "morte di Dio". Il Dio di cui si parla in questo celeberrimo passo non è sic et simpliciter il Dio unico del monoteismo. È il DioUno in quanto deus otiosus che pigramente presiede all'Ordine immutabile del mondo: allo svolgersi inerziale degli automatismi logici, al reiterarsi delle astrazioni e dei progetti razionalicostruttivi che hanno fino ad oggi plasmato la vita e la cultura dell'Occidente. Proviamo, dunque, a rileggerlo per rivisualizzarne la scena alla luce delle considerazioni finora svolte: «Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più
30
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giuochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state le storie fino ad oggi!». Teniamo adesso ferme per un attimo le circostanze in cui Nietzsche colloca il suo dirompente "annuncio". Il momento, innanzitutto: intempestivo, "inattuale" («Vengo troppo presto», dichiarerà subito dopo «il folle»: «non è ancora il mio tempo», poiché «questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino»; poiché «il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate» mentre quest'azione è, per ora, astralmente lontana dalla vigile coscienza di coloro stessi «che l'hanno compiuta»). E, dopo il momento, il luogo, il luogo in cui il grido viene a cadere: orbene, questo luogo è il «mercato». Indizio illuminante. In tutti i sensi: poiché, in apparenza, nulla vi è al mondo di più trasparente delle relazioni di scambio, dei negotia che incessantemente si svolgono tra gli uomini. E infatti: il mercato è immerso nella «chiara luce del mattino». Eppure, il «folle uomo» sente il bisogno di recarvisi con una lanterna accesa: come ad indicare qualcosa che la translucida evidenza del giorno non consente di scorgere. In cosa consiste, allora, questo "qualcosa"? Ecco la domanda cruciale, senza porsi la quale non si afferra il senso dell'annuncio nietzscheano della "morte di Dio". E la risposta la ritroviamo leggendo fra le righe, frugando nelle pieghe dell'aforisma, là dove esse ci segnalano attraverso il paradosso di una lanterna accesa nella «chiara luce del mattino» la logica di un'"attualità", di una "moderna" conformitàaltempo, che fa tutt'uno con la connessionediaccecamento: ciò che proprio il «mercato», l'illuminata evidenza diurna delle relazioni sociali, non consente di scorgere è l'insostenibile gravità di un atto di cui gli stessi autori, così "ovviamente" miscredenti (la folla del mercato altro non era, infatti, che la moltitudine «di quelli che non credevano in Dio»), rifiutano di farsi carico. In questo aforisma troviamo così in nuce, come incapsulata, tutta la drammatica ambivalenza del nesso che stringe l'annuncio della "morte di Dio" e la nozione nietzscheana di politeismo. Ma riprendiamo, alla luce degli elementi appena acquisiti, le fila del ragionamento sopra avviato. Abbiamo dunque visto come
31
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
l'inattuale «Dio è morto» della Gaia scienza decreti il decesso di un modo monoteistico di pensare Dio che faceva tutt uno con uno stile monoteistico di comprensione e progettazione dell'essere umano. Si tratta ora di verificare fino a che punto questo nesso (eticamente condizionato) tra dimensione ontoteologica e dimensione antropo storica non finisca per coinvolgere la stessa dimensione politica: fino a che punto, cioè, sia lecito istituire un parallelismo tra morte di Dio e morte del Leviatano. Gli odierni teorici del "nuovo politeismo" non sembrano, al riguardo, sfiorati dal dubbio: «L'annuncio della morte di Dio», ha scritto ad esempio David Miller, «fu il necrologio di una norma inutile, unilaterale e unidimensionale, propria di una civiltà che è stata preminentemente monoteistica non solo nella sua religione, ma nella sua politica, nella sua storia, nell'ordine sociale, nella sua etica e nella sua psicologia». Ma vediamo, prima di passare al vaglio questi esiti, di esaminare intanto il ruolo giocato dal concetto di politeismo nella riflessione weberiana. Altrettanto radicale che in Nietzsche e, se il termine non fosse oggi ampiamente abusato, tragica l'assunzione in Weber del «politeismo dei valori». A differenza delle coeve teorizzazioni pragmatiste d'oltreoceano, la pluralità dei centri di valore non ha qui un'attitudine armonizzante o conciliativa, non possiede alcuna inclinazione naturale al compromesso e alla mediazione, non è spinta da alcuna innata socievolezza dell'uomo a far quadrare il cerchio con la formula magica dell'unitànelladiversità (dando luogo a un assoluto "vitale" e "dinamico" ben più onnicomprensivo dell'assoluto "meccanico" e "causale" del vecchio monismo). Gli «antichi dèi», per quanto anch'essi soggetti a radicale disincanto, per quanto «spogliati del loro fascino personale e perciò ridotti a potenze impersonali», non recedono affatto dal loro inconciliabile conflitto. E, in questa «eterna contesa», ciascuno di essi, lungi daLTadattarsi ad occupare una nicchia nell'armonica architettura di un Pantheon, pretende di essere elevato a unico centro normativo dell'ordine sociale: all'immagine del pantheon dovrebbe perciò a rigore subentrare quella, ben più congrua e legittima, del pandaemonium. Tanto meno il politeismo può per Weber significare, come in molte interpretazioni oggi correnti, qualcosa di prossimo o identico al relativismo dei valori (secondo l'equazione lineare: morte di Diofine delle ideologiepermutabilità di ogni valore). Ogni essere umano è, in fatto di valori, «enoteista»: non può venerare che un Dio alla volta. La compresenza di diversi imperativi di valore nella stessa comunità (o addirittura in uno stesso individuo) può bensì darsi: e, di fatto, spesso si dà. Ma sempre nella forma della lacerazione o del conflitto.
32
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
L'incommensurabilità delle opzioni di valore o delle Weltanschauungen significa soltanto che esse non possono essere né sinteticamente composte in una gerarchia stabile né bilanciate in un equilibrio "ottimale" e durevole. Ma in nessun caso adombra una loro generica scambiabilità o relativistica disseminazione: a meno che con quest'ultimo termine non s'intenda la diffusione molecolare del «demone interiore». Che il Valore (con la maiuscola) sia morto, che Dio sia morto, rappresenta per Weber non meno che per Nietzsche un dato inoppugnabile, da assumere in tutto il peso della sua irrevoca bilità: senza anacronistici rimpianti o ripiegamenti nostalgici. Ma questo dato rappresenta per entrambi anche un factum: non una mera insorgenza, ma il risultato di una Storia. Di qui l'impietosita della diagnosi: Dio è morto di una malattia chiamata monoteismo. E di qui anche tutto il dramma o, se si preferisce, tutta la tragedia che il politeismo dei valori reca con sé. Non sempre tuttavia si diceva all'inizio di questo paragrafo tale "drammaticità" e "tragicità" sono state intese alla stessa maniera di un Nietzsche o di un Weber. Rilevanti sono anzi i casi in cui i termini della diagnosi hanno subito un diametrale rovesciamento: al punto da ascrivere la causa di tutti i mali della civiltà contemporanea proprio all'avvento della temperie politeistica. Producendo una lacerazione profonda nel tessuto del monoteismo, tale temperie avrebbe determinato la perdita di ogni Centro, di ogni stabile coordinata di riferimento per l'etica come per la politica, per la scienza come per l'azione. Per illustrare tesi di questa natura si è soliti, com'è noto, attingere alla generosa fonte della critica mitteleuropea della Zivilisation, cui il neoilluminismo dei nostri giorni ama contrapporre il sobrio impianto della cultura anglosassone. Senonché, ciò che il razionalismo neoilluminista si rifiuta di vedere è: in primo luogo, che la cultura angloamericana è, a differenza del "laicismo" europeo, intrisa di elementi religiosi e teologici; e, in secondo luogo, che è proprio dall'interno di questa cultura che si è generata tanto la nuova temperie politeistica, quanto una delle più energiche e radicali offensive contro il politeismo contemporaneo. Basti pensare, tanto per fare un esempio, a un testo non molto considerato dalla riflessione europea innamorata dei prefissi "post" e "poli", come Radicai Monotheism and Western Culture (New York 1970) di Henry Richard Niebuhr. Per il teologo americano, la condizione contemporanea (che oggi si ama definire "postmoderna") è contrassegnata dal proliferare di contenuti etico culturali politeistici dentro una cornice istituzionale ancora
33
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
monoteistica. La moltiplicazione dei nuovi dèi «centri di valore», «nuclei di pregio», secondo le suggestive definizioni di Niebuhr insidia ormai da vicino T«anello d'oro» della religione monoteistica mettendone a dura prova la tenuta. L'analisi si caratterizza pertanto per un intimo nesso tra dimensione teologica e dimensione socioculturale: «Tutto quello che [Niebuhr] dice sugli "dèi"», ha osservato a questo proposito David Miller, «è interpretato come se fosse collegato con i comportamenti umani nell'ordine sociale. Gli "dèi" sono valori sociali, sono i principi dell'essere in un mondo la cui caratteristica principale è concepita in termini di gruppi umani impegnati in vari tipi di relazioni che variano di volta in volta». Benché inoppugnabilmente connoti l'epoca attuale, la temperie politeistica non costituisce tuttavia un problema peculiare del Moderno, ma è piuttosto latente in tutte le fasi della civiltà. Appoggiandosi alle tesi di Walter Lippmann, Niebuhr scorge nella «fede sociale» il contrassegno perenne della condizione umana: è proprio dell'uomo abbracciare un principio o un valore rendendolo supremo entro la propria sfera. Ciò vale non soltanto per le posizioni religiose, ma anche per quelle laiche e atee radicali (anche l'ateismo è, a suo modo, una "fede"). Ed è precisamente in questo senso, squisitamente weberiano, che i valori di ciascun individuo sono per Lippmann «incommensurabili»: crollati i fondamenti sostanziali su cui si reggeva la pretesa di assolutezza dell'Ordine morale, non vi è più «alcun punto di riferimento esterno in base al quale si possa determinare il valore relativo di ideali in conflitto tra loro». Anche se la cultura occidentale si è faticosamente modellata sul monoteismo giudaicocristiano, conclude pertanto Niebuhr, «la nostra religione naturale è politeistica». Ma, poiché l'odierno pluralismo dei valori è caratterizzato da un assetto irriducibilmente conflittuale (in cui «ogni dio [...] esige una devozione assoluta e un rifiuto delle esigenze degli altri dèi»), ne consegue che «la grande tragedia del politeismo» è quella di un pólemos che mette ineluttabilmente capo dapprima alla lacerazione interiore, poi all'isolamento, e infine al «vuoto dell'assenza di significato». La diagnosi del teologo americano si colloca così agli antipodi di quella di Nietzsche: non è il monoteismo, ma la sua dis soluzione politeistica, a condurre alla catastrofe del senso. Il solo rimedio ipotizzabile nella situazione di progressivo svuotamento in cui versa il nostro tempo potrebbe essere come Niebuhr era venuto precisando in una celebre controversia con Eric Voegelin un «monoteismo radicale» capace di rigenerare lo spirito del cristianesimo primitivo, della religiosità altomedioevale,
34
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
dell'umanesimo rinascimentale e dell'etica puritana della Nuova Inghilterra. Ed è curioso notare come una tale disposizione d'animo si muovesse in rotta di collisione con le tematiche politeistiche provenienti dal dibattito europeo entre les deux guerres, ma approdate sull'altra sponda dell'Atlantico addirittura al principio degli anni '70: è di questo periodo, infatti, l'edizione americana (parziale) di Les Dieux (1934) di Alain (uno dei maestri di Simone Weil) e di Le mauvais demiurge di Émile Cioran, che appare con il sintomatico titolo The New Gods. Se all'opera di Alain si deve la definizione degli dèi come «momenti dell'uomo» e l'idea che ha poi trovato uno sviluppo originale nella Weil di un «oltrepassamento» del cristianesimo attraverso il «sublime del paganesimo», adi pamphlet di Cioran scaturiva invece non solo una condanna di inequivocabile sapore nietzscheano del monoteismo come «regresso», non solo l'affermazione dell'anima come «naturalmente pagana», ma anche una contrapposizione del tutto scevra di elementi valutativi tra il «politeismo implicito (o inconscio)» della «democrazia liberale» e il «monoteismo mascherato» di «ogni regime autoritario». Che tali spunti, quantunque scorporati dal contesto di ori 2. G. MARRAMAO: Dopo il Leviatano.
gine, fossero destinati ad attecchire sul fertile terreno culturale angloamericano, è documentato da numerosi e significativi esempi. Approfondendo le tracce politeistiche presenti nelle ricerche psicologiche di un autore "junghiano" come James Hil lman e di un autore "freudiano" come Norman O. Brown, Vincent Vycinas ha reintrodotto nelle sue opere il tema degli «dèi nascosti» come chiave di accesso all'attuale epoca di «rivolgimenti culturali», giungendo a declinare in senso "polimitico", o pluralisticomitologico, la stessa filosofia heideggeriana (benché l'ultimo Heidegger avesse, viceversa, qualificato l'epoca presente come un interludio tra il tempo del nonpiù degli dèi fuggiti e il tempo del nonancora del Dio che sta per venire). Stando, dunque, alle attuali tendenze politeistiche, si tratterebbe in alternativa all'«ermeneutica monoteistica» di «combinare una teoria de centralizzata del Sé con una teoria decentralizzata della società», attivando un «pluralismo di parapolitiche». Nella stessa temperie si collocano tanto la tematica del «poli simbolico» di William C. Sheferd (che s'inserisce nella scia di Brown) quanto quella dell'«uomo pluridimensionale» di James A. Ogilvy (che intende proseguire il lavoro filosofico di Vycinas). È ad Ogilvy che può esser fatta risalire la fortuna di quella
35
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
contaminano tra temi teologici, filosofici, psicologici e politici, riscontrabile sia in un'opera come Changing of the Gods di Naomi Goldenberg sintomatico tentativo di saldatura tra la problematica politeistica e le questioni aperte dal movimento femminile sia in Gods and Games di David Miller, dove troviamo una vera e propria anticipazione in chiave mitologizzante della recente moda "narrativistica". Nella bancarotta generalizzata di un monoteismo ormai decaduto ad astrazione della vita, e pertanto primo fattore della morte di Dio, la sola theologia possibile sarebbe la «narrazione delle storie degli Dèi e delle Dee concretamente personificati». Per quanto abbia in seguito riveduto queste posizioni, giungendo alla conclusione che la narrazione non è da meno dei modelli nomologicoinferenziali d'imputazione quanto a funzioni di legittimazione ideologica e di rassicurazione dell'io, non per questo Miller ha ritenuto di dover abbandonare la prospettiva politeistica: ne ha anzi accentuato la curvatura mitologica tramite un'adozione surrettizia dell'"immaginale" corbiniano. È quanto mostra a chiare lettere un'opera come The New Polytheism (ZùrichNew York 1981). Il ruolo in precedenza svolto dalla "teologia narrativa" viene in questo libro saldamente occupato dalla theologia imaginalis. L'agognata "pluralità" non è più, adesso, quella della Narrazione, ma quella dischiusa da «un'immagine sconvolgente (un umore, una grande confusione, un uomo, una donna, un Angelo)» che «manda in frantumi la continuità narrativa della storia personale di una vita». I toni adottati per legittimare questa operazione sono quelli dei due autori cui in effetti si deve la definizione filosofica più rigorosa dell'"immaginale": Gaston Bachelard e, soprattutto, Henry Cor bin. I contenuti e i concetti risultano, però, radicalmente diversi. Richiamandosi a Bachelard (e, per il tramite di questi, a Schel ling), Miller batte sì l'accento sulla "verticalità" dell'immagine come cesura o "pausa" del movimento "orizzontale" della nar razione; ma solo per enfatizzare il complesso oniricoimmagi nifico, il «pleroma della ricchezza politeistica» che tale frattura dischiude, trascurando del tutto di approfondire la radice latente di quella verticalità. Un analogo trattamento subisce la nozione corbiniana di mundus imaginalis. Ma qui le conseguenze sono ancora più gravi, perdendosi della nozione il peculiare sfondo teologico, senza il quale essa è inevitabilmente condannata a restare incompresa o a venire come nel caso in questione equivocata. L'equivoco consiste nell'interpretare in senso "naturalmente" politeistico un complesso dispositivo di passaggi
36
DIMENSIONI DELL'OLTRESTATO
logici imperniato su un concetto di cesura radicale assai prossimo a quello heideggeriano di "differenza ontologica". A un tale risultato il grande iranista era pervenuto (cfr. Le paradoxe du monothéisme, Paris 1981) ripensando, sulla scorta di Mohyìddìn Ibn 'Arabi, la distinzione tra un tawhid teologico e un tawhid ontologico: tra la «professione di fede» del monoteismo essoterico (Non Deus nisi Deus, "Non c'è altro Dio all'infuori di Dio") e quella del monoteismo esoterico ("Non c'è altro Essere all'infuori di Dio"). La catastrofe originaria del monoteismo risale alla confusione tra piano dell'essere (arabo wojud, latino esse, greco elvai, tedesco das Sein) e piano dell'ente (mawjud, ens,