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Italian Pages 53 [45] Year 2014
DITTATURE DELL’ISTANTANEO BLACK MIRROR E LA NOSTRA SOCIETÀ IPERCONNESSA FABIO CHIUSI
Fabio Chiusi
Dittature dell’istantaneo Black Mirror e la nostra società iperconnessa
Progetto grafico copertina: Limiteazero + Cristina Chiappini Redazione: Cristina Gallotti
© 2014 Codice edizioni, Torino Tutti i diritti sono riservati Isbn 978-88-7578-450-8
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Dittature dell'istantaneo
Lo specchio nero del presente
Ogni giorno controlliamo il nostro smartphone in media 150 volte, dice uno studio del centro statunitense Kleiner Perkins Caufield & Byer’s1: una volta ogni sei minuti, contando solo le ore di veglia. In totale inviamo circa 500 milioni di foto al giorno scattate con il cellulare, device che ormai abbiamo sempre in mano, tanto che il tempo passato da una persona adulta a guardare negli occhi un interlocutore, scrive il “Wall Street Journal” riportando uno studio della texana Quantified Impressions, è sceso del 30-60 per cento. Twitter, Facebook e la mail hanno la priorità. L’istantaneo viene prima, sempre. Il resto, compreso ciò che accade dal vivo, può aspettare. È la prima regola della società iperconnessa: restare iperconnessi. Ad ogni costo: a ottobre 2013 alcuni pendolari distratti dagli smartphone, a San Francisco, non si sono accorti che un aggressore aveva sventolato sotto il loro naso una calibro 45 più volte prima di uccidere uno studente di vent’anni con un colpo alla nuca. Veniamo all’Italia: secondo il Rapporto Coop 2013, Consumi e distribuzione, scende il consumo di generi alimentari, ma cresce quello di smartphone. Controllare il cellulare è solo parte del gioco. Scrive il “New York Times” che se entriamo in un negozio della catena Nordstrom i nostri passi sono – e saranno sempre più, visto che gli esperimenti si diffondono a macchia d’olio e i software per condurli pure – monitorati tramite tecnologie di riconoscimento facciale e programmi in grado di carpire, dai segnali inviati dal cellulare, quanto abbiamo sostato nel reparto biancheria intima, per esempio, o quanto tempo abbiamo soppesato un maglione di lana prima di comprarlo. Ma anche di valutare la nostra soddisfazione, una volta giunti in cassa, o capire se le nostre abitudini di consumo sono variate rispetto all’ultima visita. Che, naturalmente, è anch’essa memorizzata. Sì, perché tutto va memorizzato: ecco un altro imperativo. Memorizzato e personalizzato, fino al minimo dettaglio. La privacy muore nello scambio, ma i cittadini sembrano ben lieti di accettarlo. Questo significa, del resto, pubblicità più interessanti per il cliente, sconti e promozioni basati esattamente sui nostri gusti, consigli e suggerimenti su misura per prodotti e amici: categorie sempre più difficilmente distinguibili. E, perché no, la possibilità di sbirciare sempre un po’ di più nelle vite altrui. Ma significa anche accettare programmi di sorveglianza di massa da parte dei colossi privati cui affidiamo ogni giorno i nostri dati personali, dei governi e delle agenzie di intelligence che
possono usarli come e per quanto desiderano, dopo averli raccolti come e per quanto desiderano, come dimostrato dallo scandalo Datagate. La fame di dati personali, l’ennesimo comandamento dell’iperconnesso, non si sazia mai. Per questo c’è Microsoft, che tramite Kinect, l’occhio della console Xbox, progetta di guardarci mentre guardiamo la televisione per capire come la guardiamo. Per la prima volta nella storia e dopo decenni di fissità, lo schermo risponde al nostro sguardo, ma non è più quello, distratto, di uno spettatore: somiglia piuttosto a quello di un agente pubblicitario, inquisitorio e maniacale. Online le cose non vanno molto diversamente. Spotify, il servizio di streaming legale con milioni e milioni di dischi, nella sua versione gratuita intramezza la musica con jingle e pubblicità. Niente di strano, se non fosse che ad abbassare il volume oltre la soglia dell’udibile gli slogan si interrompono, per riprendere solo una volta che lo si sia rialzato. Volkswagen ha lanciato a maggio 2013 un plug in per il browser Chrome che mette in pausa un video quando distogliamo gli occhi dal monitor. È solo una trovata di marketing per promuovere la propria tecnologia stop-start, ma è anche un segno dei tempi, nonché un inquietante paragone con la realtà che andremo a descrivere: tra finzione e profezia, tra satira e cronaca2. Così perfino il life logging, la registrazione integrale della propria vita – meglio se mandata in diretta su qualche sito, in una sorta di Grande Fratello (il reality, non certo il romanzo) senza spettacolo ma anche senza interruzioni o censure – diventa accessibile, di massa, normalizzato, cool. Ed economico. Con Memoto, per esempio: grande come un francobollo (36 millimetri per 9), la microcamera scatta un’istantanea della nostra esistenza ogni trenta secondi, compilando inoltre un resoconto automatico per immagini – che nessuno, se non un algoritmo, ha scattato – della giornata appena trascorsa. Ogni giorno. L’idea del produttore è che in questo modo i contenuti diventano immediatamente un racconto di sé: narrative clip, così viene chiamato. Il punto è capire per chi: a sentire l’azienda per tutti, ovviamente, dato che la definisce «una minuscola fotocamera automatica in grado di fornirti una memoria fotografica navigabile e condivisibile». Ecco: condivisibile. L’imperativo ritorna, la dittatura anche, e, nel solco tracciato dalle macrotendenze della nostra era, volontaria: i 550.000 dollari raccolti su Kickstarter per lanciare il prodotto lo confermano (l’obiettivo era una cifra dieci volte inferiore). Così come il fatto che altri prodotti – Autographer3, Narrative4 (motto: «Un nuovo tipo di memoria fotografica») e Looxcie5 – si pongano già in concorrenza per quello che potrebbe diventare il mercato della documentazione automatica delle nostre vite. Tutto infatti deve diventare intelligente, smart, ma soprattutto automatico. Le macchine, per
esempio, dovranno guidarsi da sole. Google ci sta già provando, ed entro qualche lustro usciranno dalla fase di sperimentazione per trovare diffusione di massa. Secondo uno studio di IHS Automotive6 le persone alla guida saranno presto obsolete: nel 2025 le auto che guidano i passeggeri alla destinazione desiderata saranno 230.000 in tutto il mondo, e dieci anni più tardi sfioreranno quota 12 milioni. Certo, gli umani potranno ancora intervenire se necessario – grazie, sovrano algoritmico! – ma il pensionamento definitivo delle nostre capacità di guida non tarderà poi molto, dato che secondo la ricerca in questione entro la metà del nostro secolo quasi ogni veicolo sulle strade sarà autonomo. Dovremmo gioirne, visto che il 90 per cento delle morti su strada sono attribuibili a errori umani, e già ora le auto di Google percorrono tragitti sempre più complessi senza causare incidenti. Ma è un altro, ennesimo campo della competenza umana esautorato dalla macchina, questa volta in senso più ampio: fabbriche automatizzate, lavori automatizzati, suggerimenti musicali e di lettura automatizzati, consigli di acquisti automatizzati. E non è detto che la civiltà avanzi davvero, come scriveva il matematico Alfred North Whitehead un secolo fa, «estendendo il numero di operazioni significative compiute senza pensarci». Come si è visto in svariate realtà sul posto di lavoro, ciò ha significato e significa il riproporsi di nuove forme di alienazione, al punto che è lecito parlare di un vero e proprio taylorismo digitale7 con conseguenze ben più vaste che impattano su ogni aspetto delle nostre vite quotidiane. Già oggi è disponibile un’app per smartphone, IFTTT, che può automaticamente accendere le luci di casa quando sa – grazie ai dati di geolocalizzazione prodotti dal telefono – che siete nei paraggi, o inviare da sola un sms al vostro coinquilino per avvisare che state tornando. La startup One Llama, scrive “Technology Review” del MIT, sta sviluppandone una chiamata Audio Aware, che allerta gli utenti distratti mentre camminano con gli occhi fissi sul telefonino riconoscendo possibili segnali di pericoli imminenti, dallo stridere di pneumatici al suono di una sirena. Il fatto è che delegando sempre più compiti alla macchina rischiamo di perdere competenze utili e di finire per credere che automatico sia sinonimo di infallibile, ammonisce Nicholas Carr8 presentando su “The Atlantic” il cuore del suo prossimo libro, The Glass Cage. Impareremo ad affrontare questi cambiamenti? Forse. La storia dice che di norma, dopo un periodo di adattamento, una nuova tecnologia perde il suo alone di mistero e terrore e diventa quotidianità, norma (sociale e non) e i suoi effetti collaterali – qualora ci siano davvero – vengono appianati, assimilati e compresi. Sempre che non si sia davvero, come ritengono gli esponenti del transumanismo, al limitare di una singolarità tecnologica, ossia a un punto di non ritorno nello sviluppo delle intelligenze artificiali, un
istante nella storia in cui il loro progresso supera la comprensione umana. Che sia così o meno – al momento non c’è sostanza scientifica alla base dell’affermazione di una autocoscienza digitale – c’è tuttavia da considerare che la questione della “datizzazione” crescente e inedita delle nostre esistenze si lega al potere di controllo che quei dati forniscono a colossi come Facebook e Google, ma anche alle agenzie di intelligence e ai governi democratici (e non) di tutto il pianeta. Lo scandalo NSA, a partire dalle rivelazioni dell’ex contractor Edward Snowden, non ha fatto altro che gettare uno sguardo finalmente documentato su quanto sia pervasiva la sorveglianza digitale perfino in paesi che si vorrebbero al vertice delle democrazie avanzate, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna. Gli ebook che cominciano a leggere il lettore (analisi dei tempi, dei gusti e delle abitudini dei lettori di Scribd e Oyster) sono solo l’inizio; la televisione, come detto, inizia a guardarci a sua volta, e per il futuro, racconta “Ars Technica”, Google ha già pensato (e tradotto in brevetto) la possibilità di sfruttare le informazioni raccolte sui propri utenti tramite servizi mail, social network e messaggistica «per generare reazioni personalizzate al posto tuo». Se tutto questo, e molto altro, è già realtà, non possiamo non porci le domande e i dubbi sugli effetti potenzialmente devastanti per una società libera e un pensiero libero; soprattutto in un ecosistema, la rete, in cui già oggi il 60 per cento delle comunicazioni avviene tra macchine, non tra esseri umani. Tra i diversi aspetti problematici, uno sta al cuore di ciò che andremo a esplorare: i tanti modi in cui si coniuga quella che chiameremo – con un termine forse improprio, dato che non c’è imposizione, se non in parte – dittatura dell’istantaneo. Perché la conseguenza delle tendenze sopra descritte è che l’istantaneo, il massimamente inafferrabile, lo sfuggente, diviene l’essenza della misurazione, e quella misurazione il senso delle nostre vite. John Havens, nel suo volume di prossima uscita Hacking Happiness, lo dice chiaramente: «Misuriamo il significato delle nostre esistenze!». È una riedizione aggiornata all’era iperconnessa del cogito cartesiano: I sync therefore I am. E come ci si sincronizza, nell’epoca del sé quantificato, senza essere sempre misurati? Come vedremo è tuttavia solo uno dei modi in cui si esplica la nostra strana, affascinante servitù verso i gadget. Che è, in ultima analisi, una servitù a pubblici istantanei, ai loro capricci e voleri. Ammesso siano genuini, e non indotti proprio da quelle costanti misurazioni. Perché tutto deve essere raccolto, certo, ma è soprattutto il suo essere raccolto attimo dopo attimo a definirne l’utilità e la cifra caratteristica. Questa ossessione del tempo reale, questo stare con il fiato sul collo della cronaca pensando di stare sul collo della storia, è evidente nel travisamento mediatico che scambia ogni innovazione sui social media per una conquista, un progresso dell’umanità. Obama ha “fatto la storia” rispondendo in tempo reale agli utenti della community di
social news Reddit, oppure basando la sua ultima campagna elettorale sulla misurazione e l’interpolazione di centinaia di indicatori per ogni elettore tramite il suo – modernissimo, invidiabilissimo – team di hacker al servizio dei Big Data presidenziali. A pensarci a mesi di distanza, è rimasta nella memoria collettiva più questa perversione per i dati che i contenuti della campagna. Di certo è quella perversione a ingolosire la politica: del progressismo non interessa più molto. Specie ai progressisti, come argomenta con chiarezza Steven Johnson in Un futuro perfetto9. L’Italia non fa eccezione a questa retorica della velocità tutta incentrata sulla mistificazione di Twitter per il luogo della nuova politica: l’ascesa a Palazzo Chigi di Matteo Renzi, il suo twittare alle sette del mattino, il suo rispondere in un rapido cinguettio agli influencer, il suo annunciare (vaghissime) misure in 140 caratteri è diventata la cifra stessa della sua azione politica. «La natura della sua azione politica è la velocità» ha scritto Cesare Martinetti su “La Stampa”, esplicitando una intera vulgata giornalistica che ne ha fatto un uomo “che corre”, addirittura sprecando l’appellativo piè veloce. Prima che ai molteplici, rapidissimi annunci avesse fatto seguito alcun risultato, sia chiaro; del resto il fare renziano va «al di là dei contenuti» (Ilvo Diamanti), ne prescinde: «Il premier è il programma» ha perfettamente sintetizzato Massimo Giannini su “Repubblica”. L’azione di Renzi è veloce, istantanea e dunque buona. Questa è la radice dell’inganno, che si salda come detto allo spirito di un tempo in cui ogni procedura e ogni formalità diventano intralcio, lentezza e quindi male in sé. Perché questa somma di scenari apocalittici? E, una volta che vengono messi a fuoco, possiamo concludere che è giusto il luddismo e che di conseguenza – e in reazione – la tecnologia è il problema, il nemico? Niente affatto. Le tecnologie producono effetti diversi a seconda dei contesti e degli usi, pur mantenendo specificità che favoriscono alcuni processi a discapito di altri. Tuttavia, qui non si sta facendo un bilancio di come le nuove tecnologie potranno portare il mondo sull’orlo di una catastrofe: lo scopo è cercare di capire quanti danni potrebbero arrecare alla civiltà umana se finissimo per sottometterci, acriticamente, ai loro dettami. O meglio ancora: quanti danni la civiltà umana potrà fare a se stessa se abbraccerà ogni innovazione definendola indubitabilmente buona, legittima, giusta e immodificabile (e più buona, legittima, giusta e immodificabile è, maggiore è il suo effetto istantaneo sulle nostre vite). Tra i tanti modi possibili per affrontare questa spinosissima questione ho scelto di farlo analizzando Black Mirror, una serie tv britannica – trasmessa da Channel 4 e prodotta da Zeppotron per Endemol – che si è proposta di mostrare proprio cosa c’è oltre lo “specchio nero” dei nostri monitor una volta che dovessimo finire per confonderlo con un’utopia. Certo, guardare la realtà
attraverso un’opera di finzione è un’operazione metodologicamente azzardata, e non si vuole qui sostenere che quanto mostrato in un telefilm – per quanto accurato e affascinante – sia necessariamente ciò che si verificherebbe nel caso i piccoli spostamenti tecnologici lì ipotizzati si dovessero realizzare. Piuttosto è una sorta di esperimento mentale contaminato con il genio di chi l’ha creato (l’autore satirico Charlie Brooker), ripetendolo in sei episodi autoconclusivi divisi in due serie. «Lo “schermo nero” del titolo» spiega Brooker10 «è quello che troverete su ogni parete, su ogni scrivania, nel palmo di ogni mano. Lo schermo freddo e luminoso di una televisione, di un monitor, di uno smartphone». Perché osservarlo? Be’, non solo per svolgere le miriadi di attività che compiamo ogni giorno. L’idea, di nuovo, è quella di un esperimento mentale, di fantasia ma concretissimo: «Se la tecnologia è una droga» chiede l’autore «e lo sembra proprio, quali sono esattamente i suoi effetti collaterali?». L’assunto, insomma, è tecno-scettico, ma a fini didattici. Brooker vuole mostrare ciò che altrimenti è destinato a restare entro i confini della trattazione accademica, quando non di quella – spesso terribilmente scorretta – dei media. Quella che segue è la spiegazione più chiara, da parte di Brooker, della sua opera: «Ecco l’obiettivo di Black Mirror: ogni episodio ha un cast diverso, un’ambientazione diversa, perfino una realtà diversa» dice, esplicitando che la fonte di ispirazione è Ai confini della realtà (The Twilight Zone), che ne anticipa svariati temi. «Ma tutti riguardano il modo in cui viviamo ora e in cui potremmo vivere nel lasso di dieci minuti se fossimo goffi e impacciati. E se c’è una cosa che so del genere umano è questa: di norma lo siamo. E non serve implorare l’aiuto di Siri» l’assistente vocale di iPhone. «Non comprende le suppliche in lacrime. Credetemi, ci ho provato». Nel lasso di dieci minuti: è questa l’espressione chiave. Perché il mondo di Black Mirror, come vedremo, non è il nostro. Ma ci somiglia terribilmente, lo riconosciamo: è quello che abitiamo, aumentato di una piccola innovazione, di una deviazione appena percettibile dalle norme sociali e dalle leggi attuali che è sufficiente tuttavia per farci piombare in un incubo tecnologico, una distopia nel senso proprio del termine. Anti-utopia, l’indesiderabile. Anzi: il perfettamente indesiderabile. Un esempio? Ad agosto 2013 si apprende che British Telecom finanzia con 25 milioni di sterline la ricerca per un soul catcher, un “prendianime”: un chip che impiantato in un occhio sarà in grado di registrare qualunque cosa osserviamo. Data prevista di commercializzazione, 2025. Ecco, in Black Mirror il prendianime è realtà. E in Ricordi pericolosi ne vediamo anche le possibili conseguenze nefaste. Brooker da qualche tempo si è rifugiato in un confortevole silenzio, scrivendo sul “Guardian” – da
cui era solito stendere affascinanti commenti – di «non comprendere più il senso di circa il 98 per cento delle comunicazioni umane». Troppo chiacchiericcio, troppe persone continuamente intente a esternare prima di pensare e confermare il principio indiscutibile e primo del pubblico istantaneo: esserci, sempre e subito. Ha continuato a lavorare, tuttavia, e a gennaio 2014 ha annunciato almeno altri due episodi di Black Mirror, che giungerà così alla terza serie. Nel frattempo la riflessione sulla sua opera è un modo per fermarsi e ribadire la virtù del dubbio, della critica rispetto a questa priorità assoluta della nostra epoca, che è illusoria e conduce a diverse forme di schiavitù. Tutte o quasi volontarie, e dunque più seducenti, misteriose e difficili da riconoscere: ma non per questo meno tremende in termini di risultati, della destinazione cui ci conduce. Non c’è solo lo schermo acceso, sempre pronto a veicolare nuovi contenuti e nuove risposte istantanee, sembra dire Brooker: c’è anche lo schermo spento, nero, che non guardiamo nemmeno più – e del resto, chi spegne un computer Apple, per esempio? – ma che così tanto ha da dirci, a fissarlo a fondo. A perdersi nel Black Mirror.
1 Sul sito del “Corriere della Sera”, all’indirizzo http://tinyurl.com/oedpgxw. 2 Lo stesso avviene nell’episodio di Black Mirror intitolato 15 milioni di celebrità e di cui diremo in seguito. 3 http://tinyurl.com/netltnh. 4 http://getnarrative.com. 5 http://www.looxcie.com. 6 http://tinyurl.com/pqjfgb4. 7 Si veda Fabio Chiusi, Un lavoratore che lotti contro l’alienazione, in “La Lettura del Corriere della Sera”, http://tinyurl.com/pgccftf. 8 http://tinyurl.com/qc9gqbx. 9 Steven Johnson, Un futuro perfetto. Il progresso ai tempi di internet, Codice edizioni, Torino 2013 (ed. orig. Future Perfect, 2012). 10 http://tinyurl.com/pzuqwts.
Contro la dittatura del pubblico istantaneo
La dittatura istantanea dell’opinione pubblica ha mille volti, tutti anti-utopici. Se i sei episodi autoconclusivi di Black Mirror sono legati da un filo rosso, è proprio questo messaggio di sfiducia nei confronti delle ragioni del volere collettivo, nei confronti dell’idea che siano buone, intelligenti a prescindere come vorrebbe chi nella tecnologia vede l’occasione per realizzare l’ideale millenario di un autogoverno di tutti, perché tutti sono collettivamente nel giusto. È il mito della società civile aggiornato all’era iperconnessa, ma per distruggerlo; è l’idea che l’intelligenza collettiva, fuori e dentro la rete, non produca che debolezza, dipendenza, derisione, asservimento. In cosa consiste quel mito, e in cosa la sua distruzione attuale? Una tra le migliori e più sintetiche descrizioni si trova in un editoriale di Barbara Spinelli pubblicato da “La Stampa” il 5 aprile 1994 con il titolo La Gente ora è brutta: parole che provengono da un’epoca che somiglia alla nostra non solo perché è al crinale tra la fine di una repubblica e l’inizio della successiva, e che dunque sono attualissime. Ne riporto il passaggio citato ne Il paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi dello storico Guido Crainz: «Di punto in bianco si sta scoprendo che la Gente in Italia non è il cosmo rotondo e perfetto che fu vagheggiato all’inizio di Tangentopoli. Non incarna il bene né il vero né il bello. Non è il popolo buono che si oppone ai politicanti malvagi […]. Ecco che d’un tratto la Gente appare diversa, come smascherata dopo il successo di Berlusconi, della Lega e dei neofascisti: da bella è diventata bruttissima; da civile è diventata massimamente incivile. E non solo incivile ma idiota: improvvisamente gli italiani sono descritti come un popolo di pecore che si fa suggestionare dagli spot televisivi […]. Sembra una fiaba con fine infelice: c’era il principe, e nelle ultime righe si apprende invece che era un rospo». Non solo: sembra una fiaba senza fine, dato che tutti questi elementi si ritrovano nell’Italia odierna, spaccata tra il grillismo e il suo contrario, tra una “Gente” che (in totale opposizione alla casta) incarna “il bene”, “il vero”, “il bello” grazie a piattaforme informatiche che permettono di produrre necessariamente intelligenza collettiva e partiti che pretendono di avere sempre qualche profonda ragione politica per giustificare la loro incapacità di ascoltare gli elettori, quando non la loro incapacità e basta. In Black Mirror quel mito si ripropone sullo sfondo di quello che nella metà dei casi è un mondo
identico al nostro, tranne che per un preciso aspetto tecnologico. Un mondo aumentato, ma in un solo addendo. Vale per Ricordi pericolosi, in cui la società deve imparare a convivere come detto con un chip che consente di registrare – e riprodurre in qualunque momento, a sé o agli altri – i propri ricordi. O per Orso bianco, in cui viene inventato il suo contrario: un dispositivo che cancella la memoria. Anche in Torna da me c’è un’unica aggiunta, un algoritmo che riesce a riprodurre i modi di esprimersi e i comportamenti di un caro scomparso. Nell’altra metà, è un mondo in cui l’opinione pubblica istantanea – quella costantemente prodotta e misurata secondo per secondo sui social media – ha preso il sopravvento. Al punto di costringere un primo ministro ad avere un rapporto sessuale con un maiale in diretta e a reti unificate (Messaggio al primo ministro), portare un pupazzo digitale al potere (Vota Waldo!) o condizionare l’intera organizzazione sociale con una promessa – l’unica – di salvezza da un incubo di schiavitù pubblicitaria cui si può scampare solo partecipando a un assurdo talent show, e vincendolo (15 milioni di celebrità). Nessuno dei due tipi di mondi descritti è lontano dal nostro. Anzi, se ogni distopia non è una visione del futuro ma una satira del presente, è proprio questa prossimità a incutere il tremendo senso di angoscia provocato dalla visione degli episodi. Quando vediamo uomini intenti a pedalare per produrre l’energia necessaria a illuminare un talent show, quello di 15 milioni di celebrità; quando capiamo che questi uomini oberati di statistiche sono ridotti ad avatar di se stessi e dell’ambiente circostante; quando comprendiamo che sono i punteggi che producono in quella gara insensata con loro stessi e la loro umanità a definirne il valore esistenziale; quando infine riconosciamo Facebook o Spotify nei distributori automatici quando si sceglie una mela suggeriscono che «a chi piace una mela piacciono le banane», non può non assalirci un senso di terrore per i fanatici della gamification e del movimento del Quantified Self1, o per i tanti che in un modo o nell’altro comprano l’idea, riduzionista, che misurarci e darci i numeri – per così dire – renda migliori. Quando poi la minaccia dei presunti terroristi al primo ministro, nel primo episodio della prima serie, si compie perché su YouTube il video del loro ostaggio (la principessa del Regno Unito) è diventato virale; quando il governo comprende che, per quanti divieti (e quanto assurdi) apponga alla rete e alla stampa, non ci sarà modo di impedirne la diffusione di massa, specie attraverso i media mainstream (costretti molto spesso a inseguire, proprio come accade nell’era in cui chi scrive si fonde con chi legge2); quando sono i sondaggi realizzati di ora in ora a segnalare il mutare dell’opinione pubblica, e il primo ministro decide cosa fare a seconda delle percentuali che riproducono; quando assistiamo a tutto questo, non può non venire alla mente una deriva possibile (o
già in atto?) del nostro ecosistema dell’informazione. Un’altra forma di asservimento al volere collettivo ma senza pensiero, alle folate del vento che il pubblico costantemente produce: “la rete” che si indigna, si rivolta, imbroglia e a volte perfino uccide. Ma gli spunti di riflessione per problematizzare un progresso troppo spesso considerato necessario o immutabile sono anche di natura sociale. Un algoritmo in grado di riprodurre perfettamente un morto è allo stato attuale delle nostre conoscenze impossibile, ma algoritmi che imparano a comprenderci dettagliatamente – meglio di noi stessi, direbbero gli entusiasti del sé quantificato e del Big Data come paradigma descrittivo di quasi tutto –, in ogni sfumatura dei nostri gusti grazie a ciò che pubblichiamo su Facebook e disseminiamo su Google, esistono eccome. I software di riconoscimento vocale e facciale fanno passi da gigante, i tessuti sintetici pure. E cosa accadrebbe se ci trovassimo un giorno a dire a un manichino, come la protagonista di Torna da me, «Sei l’interpretazione di cose che [l’individuo replicato, N.d.A.] ha fatto senza pensare, e non è abbastanza»? Capiremmo forse, solo allora, che una persona non si può ridurre alla somma dei dati che la riguardano? O forse, come lei, protrarremmo il dubbio per tutta la vita, tenendo al fianco un simulacro – ma immortale – di chi abbiamo perso? Sono domande complesse, quelle sollevate da Black Mirror. Si prenda l’unicum storico prodotto dall’era di internet per cui, come dice Viktor Mayer-Schönberger3, dimenticare è l’eccezione, non la regola. Se questo significasse davvero riviversi all’occorrenza, in ogni momento, ci abitueremmo al pensiero di poter rivedere una moglie che ci tradisce, mentre lo fa? Riusciremmo a non vivere perennemente nel ricordo – costantemente rivissuto – di quando un rapporto affettivo poi terminato pareva non poter terminare mai? «Sai quando sospetti qualcosa?» dice il protagonista di Ricordi Pericolosi alla moglie. «È molto meglio scoprire che è vero». Può darsi, ma forse la possibilità di deciderlo è ancora più importante: poter ancora scegliere di rimanere nel dubbio, piuttosto che sapere necessariamente (e vedere) come sono andate le cose, quando sono andate per il verso sbagliato. Anche sul rapporto tra sé e avatar, tutto si gioca sul filo di un dualismo tra reale e virtuale che nella serie è riconciliato (non più il virtuale come radicalmente altro dal reale, come nel cyberspazio4) ma comunque problematico. In Black Mirror si è preso atto che il futuro sarà aumentato, e non sostituito, dal digitale5. Il confine tra sé e replica a volte sfuma, come in Torna da me, dove il protagonista che muore e rivive come algoritmo dice: «Sono nel cloud». Non qui, ma qui e in tutti i luoghi che raggiunge quella che i filosofi chiamano mente distribuita6: nei device che usiamo e nei dati che producono, per esempio.
Altrove invece il discrimine è più netto, viene vissuto come contrapposizione decisiva per ribadire la propria umanità. Quando in 15 milioni di celebrità la donna di cui il protagonista è innamorato gli chiede se desideri regalargli davvero tutti i suoi punti (cioè la sua esistenza stessa) per partecipare al talent show che potrebbe emanciparla dalla schiavitù in cui entrambi si trovano, lei stessa obietta che con quella somma lui potrebbe comprarsi un avatar da compagnia, o scarpe per il suo stesso avatar. Lui ribatte: «Sono solamente degli oggetti, capisci? Che ci danno l’illusione di vivere». Lei, che canta come una dea, no: «La tua voce è reale, invece. Merita di essere ascoltata». E ancora: «A volte, quando mi guardo attorno, vorrei solo avere la possibilità di assistere a qualcosa di reale, almeno una volta». Non accadrà. Ma noi, che non viviamo quell’incubo, quanto del nostro tempo impieghiamo alla caccia di «stronzate che neanche esistono», nel senso in cui non esiste il virtuale? La domanda, a fine episodio, è un pugno nello stomaco. Nel mezzo, un’umanità disposta a violentarsi nel nome del gadget all’ultima moda, del voyeurismo sfrenato che rende – in Orso Bianco – perfino la giustizia un reality, raggiungendo la perfetta equazione distopica: quella tra spettacolo e punizione, tra distrazione e repressione, tra la privata redenzione e il pubblico ludibrio. La realizzazione estrema del Panopticon benthamiano7, senza nemmeno la necessità di erigere mura. Nelle parole del sociologo Zygmunt Bauman: «Viviamo in una società-confessionale che ha promosso l’auto-esposizione al rango di prova prima e più facilmente disponibile dell’esistenza sociale. I social network, registrando pubblicamente gli aspetti più intimi e altrimenti inaccessibili delle nostre vite private, sono il territorio di una forma di sorveglianza volontaria, DIY, che sconfigge a mani basse le agenzie specializzate dei professionisti dello spionaggio e della detenzione. E che si ripete, giorno dopo giorno, grazie alla nostra attiva e gioiosa partecipazione»8. La sousveillance, la sorveglianza dal basso, diventa il synopticon: la sorveglianza di molti su molti. Ora intenta a registrare e fotografare, ora a guardare e in massa deridere, ora a elevarsi a tribunale speciale o tradire, aggrapparsi a un fantasma digitale, votarlo presidente del Consiglio, è una civiltà libera e al contempo completamente asservita alla tecnologia e a chi è stato in grado di sfruttarne il potere: la tecnologia di Black Mirror. Non sorprende che il prodotto del suo comportamento collettivo sia il linciaggio, il giacobinismo, la sopraffazione. E non è colpa della tecnologia, né dell’inedita esposizione pubblica che produce nel corpo sociale. Orso bianco lo spiega bene: «Ora hanno un pubblico» dice uno degli inseguiti dal branco grottesco di persone che li ritrae a ogni passo. «È quello che li fa agire in questo modo?» chiede l’altro. «Credo che fosse già insito in loro» è la risposta. «Dovevano solo cambiare le
regole». Doveva solo essere normalizzato lo sbranarsi. Il risultato, l’apice della serie, è Vota Waldo!, satira della retorica tecno-utopista9 che trasforma il manifestante senza volto messo nel dicembre 2011 sulla copertina del “Time” in quanto personaggio dell’anno in un pupazzo digitale: Waldo, appunto, che incarna il peggio del populismo contemporaneo, imbevuto dei “vaffanculo” alla classe politica che in Italia abbiamo imparato a considerare parte del gioco. È la versione autoritaria della separazione tra identità e agire politico messa in atto da Anonymous: si vede la maschera ma non chi ci sta dietro. Nell’episodio non siamo testimoni della presa del potere di Waldo (ne vediamo gli effetti, nel finale), ma se fosse avvenuta tramite schiere di persone che, come in V per vendetta (V for Vendetta), invadono le strade con indosso una maschera del pupazzo (come, nella graphic novel, quella di Guy Fawkes), non ci sarebbe nulla di strano. E sarebbe la realizzazione di un altro dettato anti-utopico: la rivoluzione popolare che si fa contro se stessa, il popolo che si ribella al sistema politico vigente convinto di stare lottando per la propria libertà, mentre invece sta combattendo per finire in catene. Nel piano distopico internet gioca un ruolo fondamentale: “la rete” comanda. La decisione di candidare il pupazzo fatto di bit alle elezioni procede, per esempio, dalla constatazione che «su Twitter non si fa che parlare di Waldo»; come fosse lì che si giocano le battaglie elettorali, il successo dei movimenti politici e sociali e perfino, sotto la dittatura del pubblico istantaneo, le scelte istituzionali10. Falso (ancora), ma è una bugia che piace ai media e che deriva da una precisa storia intellettuale: la storia della trafugazione di internet con “internet”, come scrive Evgeny Morozov11, della rete fatta di cavi, fibra ottica e compromessi umani e politici con una sua versione idealizzata che funge da panacea di ogni male. Soprattutto, utopista è la visione di fondo del rapporto tra democrazia e tecnologia secondo gli ideologi di Waldo: «Noi non abbiamo bisogno dei politici. Abbiamo tutti un iPhone e un computer, no? E allora» argomentano «per decisioni da prendere o scelte da approvare faremo tutto online. Sarà la gente a decidere: pollice su, pollice giù. La maggioranza vince. Questa è democrazia, questa sì che è vera democrazia». Più che altro un vicino parente dell’iperdemocrazia di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio12, dove i politici vanno pensionati e sostituiti con terminali di una rete necessariamente produttrice di intelligenza collettiva grazie a referendum e deliberazioni continue su forum e presunte (ancora) piattaforme liquide. Nelle parole di Grillo: «A cosa ti serve un politico che ti rappresenta? Io con un click, semplicissimo, […] io decido se fare la guerra o non fare la guerra, se uscire dalla Nato, se essere padroni in casa nostra, se avere una sovranità monetaria, una
sovranità economica»13. A nulla vale, verso i fedeli della democrazia digitale diretta, porre la ribattuta del protagonista, la voce di Waldo: questa nuova democrazia funziona «come su YouTube», dice preoccupato. «Io non so se l’hai visto, ma il video più popolare è quello di un cane che esegue il motivetto di Happy Days a scorregge». La replica è uno dei quesiti cui è appesa l’Italia contemporanea: «Riesci a immaginare quello che potremmo fare se levassimo di mezzo i politici?». A un cittadino su quattro la domanda suona inebriante, non inquietante. Black Mirror dipinge caricature che poi, a guardarle bene, somigliano a ritratti. È la religione di internet che concepisce l’idea che Waldo possa dotarsi solo tramite il web di una arte retorica e di competenze sufficienti a sconfiggere gli avversari in pubblico: «Durante i dibattiti» spiega la mente dietro all’operazione «basterebbe cercare in rete qualunque cosa dica l’avversario per permettere a Waldo di controbattere e poi di umiliarlo con una splendida battuta a effetto». I “Dostoevskij del digitale” profetizzati da Casaleggio14 in Black Mirror esistono davvero; ma sono al servizio di una mente il cui progetto è totalitario, come si capisce poi. Alle domande in politichese Waldo non risponde: chiede il traduttore. Come Grillo, che con i giornalisti italiani non parla e quando parla di politica o denigra il linguaggio di questa politica o dice di parlare il linguaggio (diverso) della nuova politica. Insultando i media, come Grillo il pupazzo aggiunge lo sberleffo: «Sai benissimo che i tuoi ascolti andranno alle stelle grazie a me». Come Grillo, Waldo ha «l’attenzione dei giovani» (uno su due o quasi vota il Movimento 5 Stelle, in Italia). Sempre come Grillo, Waldo è post-ideologico, oltre i concetti di destra e sinistra: «Al momento si è eletto a baluardo dell’anti-politica, ma potrebbe appoggiare qualunque idea di qualunque natura» (nel lessico dell’ex comico, abolire i sindacati e avere uno Stato «con le palle», più decrescita per lavorare tutti… ma gli esempi si sprecano). Il tutto «senza per questo vedersi aggredito a ogni intervento»: i fedeli raramente discutono l’oggetto della loro fede. E chi lo fa viene espulso. Ancora più importante è che Waldo non sia un comico e neanche una persona: eppure «potrebbe raffigurare il perfetto leader politico». Perché lui è ontologicamente diverso da loro. È un’altra cosa, radicalmente altra dall’esistenza di carne e ossa, ma in particolare dalla politica. Sono i leader politici a non esistere, non Waldo: «Lui non è reale, ma è più reale di tutti gli altri» dice chi l’ha concepito. Lo stesso che ribadisce da sempre Grillo: o noi o loro, noi non siamo loro, perché noi siamo gli onesti, e faremo «andare l’onestà di moda». Una rivolta culturale, nelle intenzioni, ma anche e soprattutto costitutiva del proprio essere uomini sociali: ridiventare cittadini, riappropriarsi
del senso di una parola che l’ha perso. Una rivolta ontologica, appunto. I grillini sono reali, si potrebbe dire nei termini di Black Mirror, ma sono anche più reali di tutti gli altri. Del resto la contrapposizione tra politica e Waldo si pone negli stessi termini di quella tra la politica italiana e il Movimento 5 Stelle: «Chi è lei?» dice Waldo a un avversario. «È solo un vecchio modo di pensare con un nuovo taglio di capelli». Una modalità descrittiva che suona familiare, come d’altronde l’atto d’accusa: «Lei prova a sovrastarmi soltanto perché non la prendo sul serio. Nessuno la prende sul serio, perciò la gente non vota». Il corollario: «Qualcosa deve cambiare. Nessuno si fida di voi. Tutti sanno che non vi frega un cazzo del bene comune». Infine la conclusione: «Siete falsi, bugiardi e in questo senso tutti uguali». Frasi che sembrano rubate a un comizio di Grillo, con una differenza: lui manda a quel paese con il gesto dell’ombrello, Waldo alza il dito medio. Ma è tutto il modo in cui il sistema vigente, mediatico e politico, reagisce a Waldo a portare il pensiero non a un ipotetico futuro di catastrofe demagogica ma alla cronaca politica attuale. I giornali inseguono Waldo e lo ritraggono ovunque, perché fa click e share (quello catodico, prima che di Facebook: è solo dopo essere diventato una star tv che Waldo diventa virale su YouTube). I politici tradizionali lo accusano di non proporre niente, di voler seppellire tutto sotto un vaffanculo, di non poter fare legittimamente parte del gioco. E quando Waldo viola le regole del normale dibattito politico, reagiscono con il misto di arroganza e boria che si dipinge in volto a buona parte dei politici italiani quando parlano dei Cinque Stelle. Solo a microfoni spenti, come la candidata laburista dell’episodio di Black Mirror, confesserebbero: «Se quell’affare andrà all’opposizione vorrà dire che il sistema è davvero finito. Forse lo è da tempo, ma è l’unico possibile». La retorica della responsabilità, dell’unica scelta possibile accompagna l’Italia almeno da novembre 2011, quando i partiti si sono fatti prima commissariare dai “tecnici” con l’insediamento del governo Monti e poi si sono autocommissariati chiedendo a Giorgio Napolitano – nonostante avesse definito l’idea una «non soluzione ai limiti del ridicolo» solo una settimana prima – di rivestire per la seconda volta (e per la prima nella storia del paese) il ruolo di capo dello Stato dopo una estenuante (e fallita) trattativa politica. Lo stesso Renzi, a febbraio 2014, ha giustificato il passaggio di testimone con Enrico Letta con l’idea che non c’erano alternative, se l’obiettivo è la governabilità. L’unica scelta nell’unico sistema possibile, insomma. Eppure la serie suggerisce altrimenti, a partire dal finale dell’episodio in questione, che smentirà la (sconfitta) laburista e ci lascerà a chiederci se non sia possibile invece che tutta questa sudditanza nei confronti della tecnologia e di un certo pensiero subordinato alla tecnologia non finisca per renderci davvero e più propriamente
sudditi; se quella ipotetica democrazia digitale non si rovesci in una realissima forma di governo autoritaria; se non siano i gadget che oggi associamo al nostro stare sempre insieme online e offline gli strumenti attraverso cui esercitarla; e se non sia questo essere connessi a renderci più vulnerabili. Il nodo, sembra suggerire Black Mirror dalla lente deformante dell’anti-utopia, è nel consegnarci o meno nelle braccia dell’opinione pubblica istantanea e dell’istantaneo. Soprattutto, il nodo sta nella rappresentazione che ne danno strumenti (il web, e i social network in particolare) considerati, da una certa retorica ingenua o utopista, incapaci di manipolazione e perfettamente paritari per natura e necessità. Strumenti che invece, come testimonia ogni episodio di questo magnifico viaggio nell’inconscio delle nostre manie e ossessioni, anche e soprattutto grazie a questo pregiudizio riescono a tramutarsi con troppa facilità nel loro rovescio.
1 Si tratta di un movimento, ma soprattutto di una community, raccolta intorno all’idea di utilizzare strumenti digitali per misurare ogni aspetto della propria vita: dal battito cardiaco e l’apporto calorico giornaliero ad aspetti usualmente ritenuti ben più qualitativi, come l’umore o la felicità (come si legge sul blog del movimento, per esempio qui: http://tinyurl.com/ncvtexf ). Qui, tuttavia, ne intendiamo il sottotesto individuato da Evgeny Morozov in Internet non salverà il mondo, Mondadori, Milano 2014 (ed. orig. To Save Everything, Click Here: The Folly of Technological Solutionism, 2013), a p. 232: «I membri del movimento per il Quantified Self (il sé quantificato) potranno anche non affermarlo esplicitamente, ma la speranza nascosta dietro al self-tracking è che i numeri possano infine rivelare una qualche più profonda verità interiore su chi siamo davvero, cosa realmente vogliamo e dove dovremmo realmente essere» (traduzione dell’autore). 2 Si legga in proposito Andrea Iannuzzi, L’attentato a Boston e il giornalismo disordinato (come la vita), in http://tinyurl.com/ozyhtq9. 3 Viktor Mayer-Schönberger, Delete: The Virtue of Forgetting in the Digital Age, Princeton University Press, Princeton 2010. 4 Concetto che, in quanto superato, andrebbe eliminato secondo PJ Rey che ne scrive su Cyborgology (http://tinyurl.com/pmlw8wg) e in The Myth of Cyberspace, uscito su “The New Inquiry”, 3, aprile 2012 e consultabile all’indirizzo http://tinyurl.com/osveku9). 5 Fabio Chiusi, Siamo uomini o gadget?, in “La Lettura del Corriere della Sera”, http://tinyurl.com/chd5jc8. 6 Michele Di Francesco, «Mi ritorni in mente». Mente distribuita e unità del soggetto, in “Networks”, 3-4, 2004, pp. 115-139. 7 L’applicazione del concetto di panopticon, la casa d’ispezione in cui i prigionieri sono sempre visibili da un guardiano che invece non lo è, alla contemporaneità iperconnessa è esplicita in Zygmunt Bauman e David Lyon, Liquid Surveillance, Polity Press, Cambridge 2013. 8 Fabio Chiusi, Il Grande Fratello siamo noi, “Il Foglio” http://tinyurl.com/qas4xxo. 9 Evgeny Morozov, L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet, Codice edizioni, Torino 2011. 10 È quanto si è letto, per esempio, in Italia per le elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013, nelle spiegazioni del successo del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo e perfino per l’elezione del successore di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica. Costante è l’assunto per cui Twitter equivalga all’opinione pubblica. E che di conseguenza, da un lato basti osservare Twitter per osservare il mondo, e dall’altro basti capire i meccanismi di influenza su Twitter per capire le reali decisioni politiche. Si vedano in proposito Fabio Chiusi, Elezioni 2013: non ha vinto Internet, abbiamo perso noi (http://tinyurl.com/d5evp96) e Twitter, il Colle e i tecnoschiavi (http://tinyurl.com/oj9csq6), entrambi su Valigia Blu. 11 Morozov, Internet non salverà il mondo, cit. 12 Per una trattazione critica si veda Fabio Chiusi, La rete di Grillo non esiste, in “Limes”, 4, 2013, pp. 109-115. 13 Intervento di Beppe Grillo a Servizio Pubblico del 25 gennaio 2012, reperibile all’indirizzo http://tinyurl.com/pjdxqct. Per una riflessione sul loro significato rispetto al rapporto tra democrazia rappresentativa e iperdemocrazia si veda Fabio Chiusi, In difesa dei partiti, http://tinyurl.com/peg76db. 14 Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo, Siamo in guerra, Chiarelettere, Milano 2011.
STAGIONE 1
Dopo il quarto potere (Episodio 1 – Messaggio al primo ministro)
Il primo ministro britannico Michael Callow è sotto ricatto; la principessa Susannah, rapita, è in pericolo di vita. Nella parte iniziale del primo episodio di Black Mirror il tema dominante è l’ecosistema dei media, con le sue ossessioni, i suoi vizi contemporanei e i suoi problemi strutturali. I giornali e i canali tv tradizionali sono per esempio gli ultimi ad arrivare sulla notizia, a rilanciare quello che sui social media tutti sanno, perché nato sui social media: una dinamica perfettamente descritta per la protesta di Gezy Park, in Turchia, dalla sociologa Zeynep Tufekci nel suo saggio sulla piattaforma Medium, Is the Internet Good or Bad? Yes. Tornando all’episodio, è su YouTube che i presunti rapitori pubblicano il video con l’ostaggio, che diventa virale. Il quarto potere è superato dal quinto, il network1. Ma sono sempre i media “tradizionali” a inseguire lo scoop sul campo, con la giornalista che usa immagini del suo corpo seminudo via smartphone per convincere una fonte a rivelare ciò che sanno gli investigatori, e cercare di riprendere e mandare in diretta l’irruzione della polizia nel presunto covo dei rapitori. A complicare il senso di ambiguità in cui i media si muovono quotidianamente, la sensazione costante – e familiare per chi faccia il giornalista nell’era dei social media di massa – di stare prendendo un granchio, di non avere alcuna conferma (se non l’enorme, rapidissima popolarità dei video dei rapitori) che ciò che sta accadendo sia reale, e non una montatura creata ad arte. Come infatti si scoprirà essere. Verità e menzogna nell’istantaneo Perché è così importante il rapporto tra verità e menzogna in rete? Perché si lega alla dittatura dell’opinione pubblica di cui si è detto. La bugia (il taglio del dito della principessa, mai avvenuto dato che il dito non era il suo) è funzionale al mutamento dei sondaggi riportati dai media: prima con risultati favorevoli alla linea della non collaborazione del primo ministro, poi fortemente avversi. Così il primo ministro, mutando le decisioni di intervento a seconda del parere di masse disinformate da media che – pur in buona fede e in condizioni estreme – disinformano, finisce per fare il gioco dei “rapitori”. Che, a loro volta, si scopriranno essere non dei rapitori, ma il prodotto di una provocazione artistica vista in diretta da 1,3 miliardi di persone. A un anno dall’evento, un critico
d’arte dirà che questo finto ricatto in mondovisione è «il primo capolavoro del ventunesimo secolo». Nel frattempo, «gli intellettuali discutono in merito al suo significato». C’è anche, in questo primo episodio di Black Mirror, una parodia o una forma estrema di provocazione rispetto al rapporto tra arti, nuovi media e società iperconnessa. Ancora: il comportamento del primo ministro non è solo eterodiretto da una bugia, ma anche perfettamente inutile – dato che la principessa era stata liberata trenta minuti prima dello scadere dell’ultimatum («fai sesso con un maiale in diretta a reti unificate, o la uccidiamo»). Non sono solo i mezzi di informazione, insomma, a rischiare di uscire delegittimati dallo scontro con la dittatura del tempo reale, ma anche l’agire politico; lo si vede in Vota Waldo!, dove la democrazia istantanea diventa la retorica da vendere al pubblico stesso per giustificare la trasformazione di ogni decisione – anche le più complesse, o le più foriere di conseguenze in termini diacronici – in un referendum online, in un click, in un like. E dunque, suggerisce il finale, nella disintegrazione della deliberazione democratica. Che poi è esattamente quanto si osserva nei reali esperimenti di democrazia digitale, quando sono ridotti a click-democracy2. Demenza collettiva Che la massa, del resto, sia incapace di empatia, intelligenza, distacco e riflessione si comprende dalle reazioni tra il divertito, l’indifferente e il cinico del pubblico che osserva il proprio primo ministro umiliarsi in diretta e a reti unificate copulando con una scrofa. C’è il carico di odio della cosiddetta antipolitica verso la politica, ma anche e soprattutto l’esasperazione del nostro atteggiarci intransigente e derisorio sui social media, con quell’atteggiamento troll che tramuta ogni atto pubblico in spettacolo, reality, social tv. Così che, per arginare la viralità del video su YouTube che riprodurrà all’infinito l’umiliazione del primo ministro Callow, il governo immagina assurde (ma non poi molto, visto quanto ha proposto il vero primo ministro, David Cameron, dopo gli August riots) misure censorie, come quella di renderne illegale la fruizione dopo la mezzanotte. Da ultimo, la morbosità del pubblico è tale che le autorità devono ricorrere a un segnale acustico che provochi nausea in chi lo ascolta. «Ma questa è storia», dice uno spettatore cui era stato chiesto di smetterla con quell’osceno atto di umiliazione e spegnere la televisione. «Ma è quasi un’ora che va avanti», la replica, inutile. Demenza censoria e collettiva si mischiano insomma in quella che è una paradossale raffigurazione del nostro dipendere sociale dalle labbra di verità effimere, istantanee, che poi nemmeno si rivelano tali.
1 Non a caso è proprio il film diretto da Sidney Lumet Quinto potere (Network, 1976) a costituire una delle principali fonti di ispirazione per Black Mirror, come sostiene lo stesso ideatore, Charlie Brooker. 2 Si veda Fabio Chiusi, Critica della democrazia digitale, Codice edizioni, Torino 2014.
L’avatar e l’indignato (Episodio 2 – 15 milioni di celebrità)
Di 15 milioni di celebrità, Charlie Brooker ha scritto: «Nel 1984 Apple fece una famosa pubblicità che implicava che il Mac avrebbe potuto salvare l’umanità da un futuro da incubo orwelliano. Ma a cosa somiglierebbe un futuro orwelliano che gira su un software Apple? Probabilmente», risponde, «un po’ al secondo episodio di Black Mirror», satira feroce del movimento del Quantified Self e dei datasexual, gli individui che tramutano la loro personalità nei loro dati, e che legano le loro sorti a quelle dei numeri prodotti dai device cui sono dipendenti per ogni attività quotidiana. L’assunto dell’antiutopia di questo secondo episodio della serie tv è riduzionista: deriva dall’accettare uno strato sociale per cui i diritti fondamentali dipendono dal punteggio prodotto dalle sue azioni. Un pericolo reale, certificato dagli studiosi di disuguaglianze sociali, che vedono nella possibilità di nuove discriminazioni basate sui dati – a volte, già concrete – il vero e proprio lato oscuro del Big Data. Io sono i miei dati In questo modo, la satira colpisce anche il concetto di gamification, l’idea di tramutare le proprie azioni di ogni giorno – perfino quelle socialmente utili, perfino gli obblighi – in missioni e compiti da svolgere in un videogioco, o comunque in una competizione basata su una misurazione competitiva delle proprie performance. Tutto il male che viene, l’accettazione della violenza, dell’odio verso i sottoposti, della prostituzione pubblica che si sostituisce all’espressione artistica (la ragazza coprotagonista, Abi, canta nel talent show – Hot Shot – che regge il regime distopico, eppure i giudici le offrono un ruolo non da cantante, ma da pornodiva); tutto questo male discende dall’accettazione dell’identità tra io e dati, e anzi dell’essere i dati perfino superiori all’io (è il punteggio che stabilisce se gli schiavi, tenuti in gabbie a pedalare per accumulare punti, possano partecipare al talent). Il futuro dell’iper-personalizzazione Da questa identità distopica discende poi anche l’idea che la pubblicità commerciale si possa
evitare solamente spendendo una parte dei propri punti-vita; che evitare il marketing costi ore alla “bicicletta”, a produrre energia insensata per una massa sociale insensata. L’intrusione è totale, nonché inevitabile, se non si paga: se si chiudono gli occhi, lo spot si interrompe e una voce digitalizzata e petulante impone di riaprirli; se li si gira altrove, lo schermo ti insegue. Tutto è tarato esattamente per il fruitore, e intervallato da un costante bombardamento di stimoli sessuali; per tenere a freno istinti di violenza, forse – con il talent nella parte degli orwelliani «due minuti d’odio». La conseguenza di questa accelerazione catastrofista dei pericoli evidenziati da Eli Pariser ne Il filtro1, riassumibili in sostanza nella domanda su cosa accade quando le aziende pubblicitarie sanno di te più di un tuo caro o di te stesso, è una sensazione di smarrimento ontologico, come se la costante immersione nel mondo degli slogan comportasse il distacco dal senso di essere qui e ora, e dunque il sopravvivere della percezione del tempo dipendesse da un corretto rapporto tra propaganda e verità. «A volte, quando mi guardo attorno, vorrei solo avere la possibilità di assistere a qualcosa di reale, almeno una volta», dice il protagonista. Ma non è solo per via del talent show: tutto lo è diventato. E cosa è un programma del genere se non la più perfetta congiunzione di commercio e distrazione, da un lato, con emotività e ambizione personale, dall’altro? La sensazione di irrealtà è poi incentivata dall’uso costante e pervasivo dell’avatar che sostituisce l’individuo in carne e ossa: altra conseguenza della gamification applicata alla propria sfera personale e civile. L’avatar e l’indignato Il fulcro della distopia dell’episodio sta nella vicenda del protagonista, Bingham “Bing” Madsen. Possessore di un’eredità di ben 15 milioni di punti-vita prima li cede tutti per consentire alla donna di cui si innamora, Abi, di andare al talent che potrebbe emanciparla dalla schiavitù (chi passa la selezione ha una vita apparentemente più normale), poi la vede trionfare, ma – come detto – da pornostar, non da cantante ed è costretto a vederne il film a luci rosse d’esordio non avendo più punti per evitare di guardarlo. A quel punto decide di riguadagnare i 15 milioni di punti necessari alla partecipazione allo show; ci riesce, e si presenta di fronte ai tre terribili giudici per dire tutta la verità, la sua verità, ovvero, le cose come stanno, viste da un uomo che oggi definiremmo sano di mente, come noi. Iniziata l’esibizione, Madsen estrae un pezzo di vetro affilato, spezzato tempo addietro e gelosamente custodito per l’atto dimostrativo di indignazione. Se lo punta al collo minacciando di uccidersi da un momento all’altro, poi attacca con un discorso che rappresenta la tradizionale
requisitoria del normale al distopico. Lo schiavo, momentaneamente liberato della sua schiavitù, dice che compriamo solo “cazzate”, che siamo immersi nella falsità, che i giudici considerano le persone merci. «Sapete qual è il mio sogno? Il mio sogno più grande è comprare un cappello per il mio avatar, una cosa che neanche esiste. Desideriamo stronzate che neanche esistono», dice. E ancora: «Dovreste darci voi qualcosa di reale ma non potete. Perché ci ucciderebbe. Siamo talmente apatici che potremmo impazzire». Lo schiavo, all’apice della liberazione, dice «fanculo a tutto», completamente stravolto e sul punto di suicidarsi, e il giudice risponde come se fosse ancora finzione: «È stato senza alcun dubbio il più bel discorso che abbia mai sentito su questo palco da quando Hot Shot è iniziato». Applausi dagli avatar-spettatori. «Mi piace il tuo numero», dice il giudice al protagonista. «Non era un numero, dicevo solo…», replica invano “Bing”; «La verità. Dico bene? La tua verità, a essere onesti», precisa il suo cinico, terribile giudice, «ma pur sempre la verità». Poi è il giudice stesso a offrirgli «uno spazio nei miei programmi, in cui potrai parlare come hai fatto ora». Lui accetta, ancora la lama sul collo per il suicidio in diretta, e trasforma la sua verità – la verità su quel mondo distopico – in un “numero”, un programma due volte la settimana. Sarà per sempre l’indignato, l’avatar di se stesso, ossia una versione caricaturale, misurabile, replicabile di sé. Avrà detto il vero, ma così facendo l’avrà tramutato in falso. E per sopravvivere dovrà ripetere continuamente questo terribile tradimento esistenziale, ontologico, morale e soprattutto sociale. Così i 15 milioni di celebrità diventano davvero l’unico motivo per aggrapparsi alla vita. E la distopia, inglobando il vero, si compie.
1 Eli Pariser, Il filtro. Quello che internet ci nasconde, Il Saggiatore, Milano 2012.
Ti ho rivisto tradirmi (Episodio 3 – Ricordi pericolosi)
La storia è tutta privata, di una coppia che si scopre finita attraverso i ricordi registrati in un chip applicato al cervello. La società è perfettamente identica a quella attuale; è un mondo uguale al nostro, in cui il confine tra pubblico e privato è sostanzialmente sparito, e le nostre memorie condivise non sono solamente le immagini e i video condivisi sui social media, ma il vivo ricordo delle nostre esperienze, registrato e pronto a essere proiettato su schermo perché tutti lo vedano e lo rivivano. Il chip è diffuso («A metà della popolazione si possono impiantare ricordi»); chi non lo possiede è un diverso, come chi non ha uno smartphone oggi. Un commensale, alla cena con cui inizia l’episodio, chiede a una ragazza che non l’ha applicato: «Una scelta politica?». La società che si rivede Il resto dell’episodio è sostanzialmente il dipanarsi dell’intricata trama di indizi che porta il protagonista, l’avvocato Liam Foxwell, a scoprire una scomoda verità sulla moglie, Ffion. Il punto sono le domande che si impongono durante la visione: una società che vive riguardandosi, che società è? Sarebbe ancora in grado di distinguere pubblico e privato, ma anche più fondamentalmente presente e passato? Quanto è più manipolabile? Per esempio, tramite un hackeraggio del chip si potrebbero ricordare cose mai avvenute; quei ricordi manipolati sarebbero esattamente quelli che desidera il governo o un’azienda, a scopi repressivi e pubblicitari. Ancora, quanto è più controllabile? E se un passeggero fosse ispezionato in aeroporto con la richiesta, da parte delle autorità, di mostrare la registrazione dei propri ultimi giorni di vita? Nell’era di Facebook, del tutto tracciabile e del quasi tutto tracciato, si chiede insomma Brooker spiegando il senso dell’episodio, «quanto vogliamo sapere davvero l’uno dell’altro?». Rivivere la fine Per non parlare delle conseguenze nei rapporti affettivi: i protagonisti fanno sesso entrambi rivivendo ricordi passati (i rapporti con un’altra persona?); Liam scopre il tradimento di Ffion e, se anche volesse perdonarla, dovrebbe imparare a convivere con la possibilità di riguardare per sempre
il tradimento, e con gli occhi di sua moglie. Cancellare il ricordo registrato, e dunque sempre replicabile, sarebbe in sé un gesto significativo, motivo di litigio, come infatti avviene nell’episodio. Sarebbe un peso sopportabile da un essere umano, rivivere i momenti passati con una compagna o un compagno che non ci sono più? Black Mirror solleva le questioni, ma non fornisce risposte. L’unica certezza è il messaggio di fondo: le conseguenze dell’accettazione acritica di una singola innovazione tecnologica possono essere a tal punto profonde.
STAGIONE 2
L’algoritmo per non morire (Episodio 1 – Torna da me)
Ash è un ragazzo iperconnesso, di quelli che con lo smartphone hanno quasi un problema. Lo usa in continuazione, ne è sempre distratto, in un modo che lo rende assente anche alla sua donna, Martha, che, per capire se l’ascolta, gli dice cose insensate cui lui annuisce, come se un senso l’avessero. Lei capisce e glielo fa notare. Lui non comprende. «Controllavo fossi ancora solido» dice Martha. «Continui a sparirci, là dentro. È un ladro, quel coso». Poi Ash muore, e Martha – in attesa di un figlio da lui – scopre che per aiutarla a superare il dolore della perdita esiste un algoritmo che replica il morto. Glielo rivela un’amica, dicendo che si tratta di un programma che le permetterebbe di chattare con Ash. «Clicchi quel link e gli parli», dice l’amica. «Ti risponde come farebbe lui». «È morto!», obietta la protagonista. Al che l’amica spiega come funzionano le cose più nel dettaglio: «È un software, lo imita. Gli si dà il nome di qualcuno. Lui ripercorre la rete alla ricerca di tutto quello che ha detto online: i post su Facebook, i tweet, tutto quel che è pubblico. Io ho solo messo il nome di Ash, il sistema ha fatto tutto il resto». Ultima cosa: «Se ti piace dagli accesso alle sue mail private: più dati ha, più diventa lui». Ritorna, insomma, la satira – feroce, perché a fondamento della più terribile delle confusioni, quella tra vita e morte – del Quantified Self e del riduzionismo della persona a insieme di dati. Ma il tema è quello della possibilità del rapporto affettivo tra una persona e un algoritmo, che compare prepotentemente anche nel recente film Lei (Her) di Spike Jonze. Qui il protagonista scomparso e rivissuto tramite un’intelligenza artificiale riassume anche la sua corporeità, per quanto surrogata; lì ciò non avviene, e tutto il film gioca sulla tolleranza dell’incorporeo nella relazione amorosa – oltre che sulle similitudini tra un amore umano e quello tra uomo e macchina. Morte digitale Gli esiti sono devastanti; l’episodio una discesa nell’inferno di un dolore che cresce man mano che la replica di Ash diventa sempre più perfetta: prima nei messaggi scritti poi, tramite un sintetizzatore vocale, a voce, infine con un corpo in tutto e per tutto identico a quello del ragazzo scomparso. Insieme all’incapacità di affrontare la perdita, cresce la dipendenza della donna dall’algoritmo. Lei scopre di essere incinta di lui e glielo scrive (all’algoritmo). Chattano. L’algoritmo apprende.
Guarda i video di Ash, impara a replicarne le movenze, il modo di incrinare la bocca, di camminare. Per parlare con l’algoritmo Martha inizia a rifiutare il contatto e la conversazione con le persone in carne e ossa, con quei vivi che potrebbero starle accanto per farle superare il lutto. Registra il cuore del bambino che porta in grembo e chiama l’algoritmo per farglielo sentire. Dà di matto quando il telefono le cade, si rompe e Ash, questa volta in digitale, sembra morire di nuovo. Il dialogo è significativo: Martha, nel panico, riesce a chiamarlo ugualmente. Si scusa: «Ti ho fatto cadere». L’algoritmo-Ash: «Non sono lì dentro, sono in remoto. Sono nel cloud. Non devi aver paura di rompermi». Forse è a questo punto che la donna realizza di avere stipulato un patto che comporta l’immortalità dell’altro e al contempo la sua perenne immobilità, il non poter cambiare, crescere, evolvere se non attraverso i parametri di un morto. Poi giunge il manichino, che replica il corpo di Ash. Martha gli dice che ha un bell’aspetto. Lui risponde che si conservano solo le foto di quando si è contenti e si sta bene: è su quelle che l’algoritmo si basa per replicare l’aspetto. L’algoritmo, insomma, è Ash in perfetta salute. Nel sesso l’algoritmo incarnato è pure meglio: ha una configurazione di base costruita su un’infinità di video pornografici, per i trucchi del mestiere. Lei apprezza. Contro il cervello binario Ma lentamente emerge tutto ciò che l’algoritmo non può replicare: il modo in cui Ash respirava nel sonno, il modo in cui avrebbe ribattuto e litigato dopo essere stato cacciato dal proprio letto, l’insistenza con cui diceva sempre “ok” e cercava di assecondare qualunque cosa lei gli dicesse. «Non sei abbastanza come lui, non sei niente, non sei niente», urla Martha all’apice del dolore, dopo una rapida presa di coscienza dei limiti dell’algoritmo. «Litiga con me», lo sfida, come a non voler nuovamente affrontare la perdita né dell’Ash originale né della sua replica. «Non lo faccio», la risposta del manichino che non riesce mai, per quanto sviluppata, ad essere un’intelligenza artificiale che si emancipa dal suo essere artificiale: nella singolarità, nell’oltreumano che per esempio è l’approdo dell’algoritmo di cui si innamora il protagonista di Lei. Quello che esce dalle equazioni In Black Mirror, molto più evidenti dei lati sognanti sul futuro radicalmente incomprensibile delle coscienze digitali sono i limiti della replica algoritmica dell’umano. L’AI di Black Mirror è in
sostanza il lato oscuro di quella di Lei. Perché, nell’episodio, l’algoritmo può replicare i comportamenti e le situazioni di cui Ash ha avuto esperienza, ma non quelle di cui Ash non ha avuto esperienza. Non può diventare una persona litigiosa: il suo carattere è fisso, immutabile, come i passi che compongono un algoritmo. La critica è spietata, ed è agli entusiasti dell’intelligenza artificiale, ai transumanisti come Ray Kurzweil, ora capo ingegnere di Google, che vendono migliaia e migliaia di libri sostenendo si possa creare un “cervello digitale”, che sia tutto già fatto o quasi e che ciò significhi che in futuro saremo tutti talmente intelligenti da divenire noi stessi pura intelligenza, possibilmente una sola e la stessa. Ma è anche una presa d’atto straziante dell’umanità dell’umano, in un contesto dove di umano non è rimasto nulla: nel manichino, certo, ma anche e soprattutto in Martha. Lei, invece di affrontare il suo dolore con la consapevolezza che unica è della nostra specie, preferisce evitarlo accompagnandosi a un grottesco simulacro digitale dell’uomo che ha perso. La domanda diventa, dice Brooker in un’intervista a Channel 4: quel simulacro è abbastanza? E se non lo è, riuscirà a sopportare l’idea di cancellarlo?1. Per la protagonista la risposta, ora lo sappiamo, è no. Torna anche il tema della critica al Quantified Self e al riduzionismo, anche più esplicita, nel finale: «Sei l’interpretazione di cose che Ash ha fatto senza pensare», dice al manichino, «e non è abbastanza». E qui siamo al cuore della critica antiriduzionista: come si simula, o anche solo registra, ciò che non pensiamo? O meglio, ciò che non esplicitiamo in gesti, comportamenti, parole, tweet, status, risultati: in quale algoritmo finisce tutto questo nostro non esserci? Queste assenze che, come l’antimateria per la materia, sono in realtà presenze, e le più forti e numerose. Dati che non si raccolgono, insomma, ma che ci costituiscono. Quello che esce dalle equazioni: e ci rende insostituibili, suggerisce Black Mirror.
1 http://tinyurl.com/ow768rk.
Prigioniera in streaming (Episodio 2 – Orso bianco)
Una ragazza si sveglia e non si ricorda chi sia; è tormentata da frammenti di ricordi confusi. Qualcuno la sta filmando con uno smarthpone. Esce dalla casa in cui si trova, e alle finestre altra gente la guarda e filma con gli smartphone. Un uomo cerca di fotografarla, un altro entra improvvisamente in scena e, mentre tutti riprendono indifferenti, cerca di ucciderla con un fucile. L’uomo indossa una maschera con uno strano simbolo, lo stesso che la ragazza – il cui nome, di nessuna importanza, è Victoria Skillane – ha visto su tutti gli schermi che ha incontrato e che incontrerà in quella casa, e non solo. Gli schermi emettono un ronzio sinistro, lei li spegne, ma nessuno muove un dito. Subito Black Mirror, in un episodio altamente simbolico, offre un aggiornamento al contemporaneo della metafora che racchiude l’indifferenza degli spettatori e dei cittadini rispetto a ciò che di terribile accade sui teleschermi, i monitor o semplicemente intorno a loro. La sorveglianza di tutti su tutti La ragazza, Victoria, trova altri che come lei sono minacciati, ma al contrario sembrano sapere perché o comunque esserne più coscienti di lei. Uccide uno di loro. Le persone filmano. Ancora, e ancora, beffarde. Arriva una donna, anche lei mascherata come in un film horror, ma con un seghetto. «Spesso restano davanti alla finestra a spiarci» dice una compagna a Victoria, riferendosi agli uomini che inspiegabilmente filmano. «Sono sicura che è così che ci trovano. O anche con quelle telecamere. Ti individuano e in un attimo appaiono gli altri bastardi armati» le dice ancora. Al netto della finzione narrativa che trasforma il segnale dagli schermi in una sorta di incantesimo che manipola le menti («Ha fatto qualcosa alle persone, hanno cominciato tutti a fissare gli altri, anche a riprenderli [mentre lo fanno, ridono; N.d.A.]. A filmare continuamente spettatori a cui non interessa quello che accade»; «Non ha avuto effetto su tutti, non so perché»), e dell’essere a sua volta finzione la finzione (lo si scopre nel proseguo dell’episodio), un aspetto emerge chiaramente. È il lato oscuro della società della sorveglianza di tutti su tutti, del controllo reciproco tra potere e cittadini: il primo onnipresente, i secondi altrettanto onnipresenti, occhi che scrutano gli occhi dei controllori. È la sousveillance, la sorveglianza invertita o “dal basso”, del pioniere della realtà
aumentata Steve Mann; un visionario che ha ideato device indossabili (il cosiddetto wearable computing) e occhiali perennemente connessi alla rete e in grado di alterare con informazioni personalizzate la realtà vent’anni prima dei Project Glass di Google, uno strumento che, se dovesse diventare di massa, potrebbe rendere improvvisamente risibili le angosce di Black Mirror, e il cui lato buono è la documentabilità degli abusi dei controllori (quello cattivo è divenire tutti, e sempre, controllati). Ed ecco apparire il synopticon, il controllo di molti su molti, come volto scuro di quel progetto di democratizzazione della sorveglianza. Il legame è forte, le cause e le conseguenze ancora tutte da scoprire. La giustizia è un reality Ma nell’episodio non se ne indaga tanto il lato delatorio, come in 1984: quello che più interessa agli autori sembra essere un’apocalisse di indifferenza e voyeurismo. Lo spiega perfettamente Brooker nella già menzionata intervista a Channel 4, in un passaggio che riporto integralmente con mia traduzione: «Qui stavo pensando all’ubiquità delle videocamere per smartphone. Il pubblico a ogni concerto è un mare di piccole luci blu. Durante le rivolte per le tasse studentesche, ci sono state nei notiziari scene in cui c’era una persona intenta a spaccare la vetrina di una banca mentre 50 la stavano filmando con i loro telefoni. Durante la rivoluzione in Libia si potevano vedere persone aggirarsi filmando dopo gli attacchi, come turisti. Quando il corpo di Gheddafi è stato messo in mostra per un paio di giorni, le persone lo hanno attorniato col telefonino in mano. Sembrava un incubo. Quasi come un film di zombie, ho pensato. E poi ho pensato: e se invece di un film di zombie, ci fosse una storia in cui il 90 per cento della popolazione diventa semplicemente un voyeur senza emozioni? Filmerebbero qualunque cosa stia accadendo davanti ai loro occhi, specialmente se orribile. Cosa ne sarebbe del rimanente 10 per cento? Alcuni impazzirebbero, e comincerebbero a fare cose terribili per divertire il “pubblico”. Orso bianco esplora quell’incubo, e poi cerca di crearne uno nuovo». E quale sarebbe, questo nuovo incubo? Si scoprirà più avanti: che quel voyeurismo è in realtà l’ingrediente essenziale di uno spettacolo che fa della punizione di un crimine un reality. Che trasforma la giustizia stessa, che dovrebbe redimere e reintegrare il colpevole nella società, in un atto di barbarie. Una barbarie fondamentale, dato che sottrae l’idea stessa di giustizia alla società. Per farlo, l’antiutopia voyeurista di Orso bianco si sostanzia in una messa in scena in cui la protagonista rivive – sempre come la prima volta, perché la sua memoria è cancellata a ogni
ripetizione – un incubo in cui la sua vita sembra costantemente a repentaglio, ma è in realtà nient’altro che un assemblaggio creativo degli elementi caratteristici del delitto che ha commesso nella vita reale. E cioè aver rapito insieme al fidanzato, morto in carcere, una bambina di sei anni che Victoria filmava, con lo smartphone, mentre la torturava e uccideva. Unico indizio, appunto, un orso bianco di peluche, simbolo del dolore della nazione durante le indagini. Nell’incubo della carcerata in streaming, l’Orso bianco è la zona in cui si trova il ripetitore che consente agli smartphone di avere campo, e dunque alla caccia all’uomo di proseguire. Quanto al simbolo visto negli schermi, è il tatuaggio sul collo del suo ragazzo, l’omicida vero e proprio. Il reality del terrore, e la realtà Osservando gli spettatori dell’incubo di Black Mirror immortalare ogni attimo del percorso della vittima, e del compiersi del delitto nei suoi confronti, con i loro smartphone, non può non venire in mente ciò che è realmente accaduto il 22 maggio 2013 a Woolwich, Londra, nell’omicidio a sfondo terroristico di un soldato in servizio nella caserma locale brutalmente assassinato – e decapitato – in mezzo alla strada, a colpi di machete, da due aggressori. Gli assassini hanno chiesto ai passanti di riprendere tutto, ha detto un testimone alla BBC. «Volevano finire in tv. Erano più preoccupati di doversi far fotografare che di fuggire». Altri giornali inglesi forniscono ulteriori dettagli: l’assassino «ha cercato di filmare l’aggressione» (“Daily Mail”), «poi ha trascinato il corpo fino al centro della strada, in posa per le fotografie» (“Independent”). «Mentre trascinavano la vittima per strada, dozzine di passanti scattavano fotografie e registravano video» (ancora il “Daily Mail”). Alla brutalità dell’assassinio si aggiunge negli esecutori un’ossessione mediatica che disturba, al fine di massimizzare l’impatto del proprio gesto – come ipotizza un testimone: «Lui», l’assassino, «lo sa: se noi lo filmiamo magari finisce in tv, o su YouTube. E il suo messaggio passerà». Il “Washington Post” è sulla stessa linea: «Il fatto che desiderassero essere filmati indica che erano a caccia dell’attenzione del pubblico». Cosa che, sostiene Frank Furedi, è parte del gioco. «Due ricordi di Woolwich mi perseguitano», ha scritto sull’“Independent”: «Uno è l’omicidio, crudele. L’altro è il modo disinvolto con cui i passanti hanno assunto il ruolo di partecipanti al dramma». Zombie, direbbe Brooker. L’ossessione, quella che disturba, è anche nel pubblico stesso. «Fortunatamente alcuni hanno cercato di fornire assistenza alla vittima. Ma altri hanno estratto le loro videocamere per registrare lo spettacolo e adottato il ruolo del “ci sono anch’io”».
Una tentazione forte al punto da far dimenticare il rischio per la propria incolumità che comporta trovarsi di fronte a un terrorista, per giunta con mani e lame in pugno completamente ricoperte di sangue per l’omicidio che ha appena commesso. Tanto che l’osservazione dell’hacker Claudio Agosti, su Twitter, è pertinente: e se filmare stesse diventando parte, o lo sia già, del nostro armamentario di reazioni istintuali di fronte a una situazione simile? Così, mentre siamo costretti a immaginare cosa sarà di tutta questa spettacolarizzazione del reale a fini di manipolazione del discorso pubblico quando i Google Glass saranno un prodotto di massa, resta da venire a patti con l’idea di Furedi che quello di Woolwich sia reality terrorism, terrorismo da reality. L’internalizzazione di una trama, argomenta, vista e rivista in televisione, tra un passo di danza e una competizione canora tra perfetti sconosciuti che – grazie al tubo catodico o alla rete – cercano di vincere la propria mediocrità e il proprio anonimato per ottenere una fama salvifica, per quanto effimera. «L’intero episodio ruotava intorno alla performance», scrive l’editorialista dell’“Independent”, e nel leggerlo viene alla mente la trasformazione del sistema carcerario in show televisivo di Orso bianco. Perché quella della protagonista dell’episodio di Black Mirror non è altro che performance, appunto: spettacolo. È in questo sfumare del confine tra realtà e finzione, tra il qui e ora e l’attenzione ipotetica di miliardi di sconosciuti, che si consuma lo smarrimento di chi si trova a cercare di interpretare la volontà – realissima – dell’omicida di Woolwich di farsi immortalare, e quella dei passanti di accontentarlo. Entrambi i gesti trovano una spiegazione per il loro essere immediatamente mediatici. Eppure le spiegazioni, questa volta, non convincono. Come in Black Mirror, qualcosa di altro e di più resta in chi osserva; forse il saperci partecipi, scrive Furedi, del meccanismo che legittima il ripetersi di quell’ossessione mediatica, e che la nutre. Perché se non guardassimo, crollerebbe tutto: il messaggio non giungerebbe, lo sconosciuto rimarrebbe tale, come le sue frustrazioni. Dittatori e indifferenti Eppure, forse, l’incubo vero è ancora un altro. Perché più realistico e aderente ai propositi del creatore. E di nuovo, non sta nella tecnologia né negli uomini che la utilizzano, ma nella natura umana: cinica, indifferente, violenta. Lo si capisce dai dialoghi tra i fuggiaschi, dalle loro considerazioni su chi li riprende senza che nemmeno a qualcuno realmente interessi. «Ora hanno un pubblico», dice una presunta preda (in realtà, è tra i carnefici). «È quello che li fa agire in questo
modo?», chiede la protagonista, la criminale immemore. «Credo che fosse già insito in loro», la risposta, terribile. «Dovevano solo cambiare le regole perché nessuno intervenisse». Come per dire che, se fosse stato loro possibile, avrebbero preso a considerare la morte in tempo reale con indifferenza molto tempo prima della diffusione capillare di tecnologie per renderla ubiqua. Le masse, è il messaggio, si sbranerebbero per un briciolo di visibilità, o anche, ed è perfino peggio, per il solo sbranare. Così, mentre Victoria scopre di essere incastrata in una punizione dantesca, infinita e sempre vissuta per la prima volta, e piange, chiedendo di essere uccisa piuttosto, il pubblico continua a deriderla, insultarla (“assassina!”). È una satira feroce del giacobinismo della società dello spettacolo, del diventare noi tutti parte di un tribunale popolare perpetuo che emette sentenze istantanee e dunque ponderate con la pancia, più che con la testa. Così non stupisce che la criminale, per essere riportata al punto di partenza dell’incubo («E ora come ti senti?», la domanda agghiacciante del conduttore di quello spettacolo inumano eppure, secondo Black Mirror, umanissimo) sia trasportata all’interno di una vettura trasparente ai quattro lati: perfetta per l’esposizione al pubblico ludibrio. Il tutto mentre Victoria, per l’intera durata della punizione, è anche torturata dai barlumi di memoria del passato che di tanto in tanto emergono. Un unico dubbio: se siamo davvero tanto indifferenti, stupisce anche l’accanimento nei confronti della donna. Se è tutto insensato spettacolo, dovrebbe essere la noia – più che la rabbia o il furore giustizialista – a reggere come un dittatore quell’oscena società che tanto somiglia all’esasperazione della nostra. Manca insomma la repressione, il contraltare allo stimolo che forza la reazione emotiva e incanala l’energia erotica e la violenza nello sfogo rabbioso contro il nemico oggettivo, nella terminologia di Hannah Arendt. In questo caso, il serbatoio infinito di coloro che sbagliano.
Totalitarismo istantaneo (Episodio 3 – Vota Waldo!)
La perfezione e il compimento della denuncia della dittatura del pubblico istantaneo in Black Mirror si compie nell’ultimo episodio della seconda serie, Vota Waldo!. Come già detto si tratta di una satira terribile, ma anche una lucida critica degli entusiasmi di chi pensa che per rinnovare la democrazia basti trasportarla sulla “rete”, adottandone i presunti principi immutabili di funzionamento: assenza di leadership, produzione (inevitabile) di “intelligenza collettiva” e “dal basso”, struttura reticolare e distribuita (e dunque non gerarchica) dell’organizzazione politica e sociale. E, soprattutto, rivoluzione nell’ecosistema dell’informazione. Non più il blocco centralizzato e oligarchico (perché controllato da pochi) che abbiamo conosciuto nella democrazia dei partiti e che con questi ultimi troppo spesso si è confuso. Piuttosto, un proliferare di fact-checking in tempo reale, controinformazione più o meno artigianale (ma che dovrebbe sbugiardare, sempre e comunque e per sempre, la disinformazione dei mezzi tradizionali) e canali di partecipazione e costruzione collettiva della notizia che finiscono per identificare giornalista e cittadino, professionista e amatore, esperto e ignorante senza che tutto questo comporti criticità alcuna. Perché per ogni problema c’è “la rete”, la panacea di ogni male, il luogo dove le bugie hanno le gambe corte e la verità trionfa, il luogo della reale uguaglianza e redistribuzione del potere. Potenzialmente, perfino adatta a realizzare il secolare mito della fine del lavoro e della riappropriazione del tempo libero. E poco importa che la storia abbia testimoniato una realtà e dinamiche ben più complesse: quella di Black Mirror è una sorta di riedizione di tutti i miti collettivisti di ogni epoca che, pur se fallimentari, dovrebbero ora magicamente funzionare grazie al nuovo – e sempre rivoluzionario – supporto tecnologico. Se lo vuole Twitter, lo vogliono tutti Waldo, il candidato digitale, emerge da questo contro-ecosistema, e da questa sua vulgata assolutoria e al contempo accusatoria. Assolutoria nei confronti, appunto, del mezzo che lo rende possibile (internet) e del cittadino, parte di quella società civile che è sempre migliore della politica; accusatoria verso tutto il resto. Così da essere in grado, allo stesso tempo, di raccogliere la protesta e la proposta, di soddisfare la rabbia per l’esistente che non funziona e la speranza per un non
ancora esistente che – indubitabilmente – è alle porte e funzionerà. A rendere possibile Waldo è, oltre all’indignazione e alla disillusione dei cittadini rispetto alla politica, la perdita di autorevolezza dei media e la loro ossessione bipolare verso internet, oggetto alternativamente da demonizzare o idolatrare, ma raramente da osservare e comprendere. Waldo, infatti, non sarebbe che un pupazzo nato per deridere la politica – in questo caso, definibile più propriamente con il celebre appellativo di casta. La decisione di farne un candidato per le elezioni per la città di Stentonford nasce, nell’episodio, con un’epifania che suona terribilmente familiare a chi osservi il sistema mediatico italiano di oggi: «Su Twitter non si fa che parlare di Waldo, lo adorano». La dittatura del pubblico istantaneo inizia, in altre parole, confondendo la somma dei tweet cui siamo esposti con il totale delle reazioni dei cittadini, divenuti, in tutto e per tutto, il pubblico. Così non importa che Waldo non sia una persona; non conta che non abbia nulla di concreto da proporre, ma che il pubblico istantaneo lo voglia. E allora bisogna darglielo. A questo modo, dice l’ideologo della discesa in campo all’uomo che dà la voce a Waldo, il comico Jamie Salter, «controlleremo le cose». È un’altra illusione: che basti controllare l’opinione pubblica istantanea per controllare i cittadini (nell’episodio, come era necessario, il fraintendimento funziona). O che basti controllare internet per controllare uno Stato, quando piuttosto è vero il contrario: è negli Stati autoritari che anche internet è parte del sistema di repressione. In fuga dal cartone animato La modalità poi con cui Waldo incalza la casta è la stessa che abbiamo visto e vediamo all’opera ogni volta che il giornalismo diventa attivismo da webcam, strillo più che notizia o commento. È evidente, per esempio, quando Waldo inizia a torturare il candidato rivale del partito conservatore Liam Monroe incalzandolo, in stile Iene, con un inseguimento per strada, trasportato da un monitor su un camion mentre il politico – quello in carne e ossa – si trova nell’imbarazzante posizione di esporsi ai suoi insulti se risponde e di venire accusato di fuggire davanti alle domande se non lo fa. «Non intendo fuggire davanti a un cartone animato», dice Monroe. E ancora: «Io non posso ignorare chi palesemente non esiste. Tu sei solo un’immagine doppiata da un comico, un presunto comico a dire il vero». Waldo replica con una serie di sfottò, poi gioca con il suo pene digitale. Ma il pupazzo non risparmia nemmeno l’avversario, la giovane candidata laburista, Gwendolyn Harris, con cui l’uomo che gli presta la voce, Salter, era finito a letto. «Quello è un comico, sarai tu la prossima», viene ammonita la ragazza. Perché Waldo è contro tutto il sistema. E loro sono tutti uguali. Del
parallelo con il grillismo si è già detto, ma è bene tenere a mente le somiglianze, che del resto si manifestano, nonostante Grillo non vi prenda parte, anche nelle tribune elettorali. Waldo vi partecipa attraverso un monitor, esperienza che non risulta straniante, dato che a ogni talk show politico ci sono collegamenti in video. Il candidato conservatore attacca, chiedendo chi si nasconda dietro il pupazzo. «È facile quello che fa: lui provoca», dice. «E quando non riesce a fare battute divertenti, come succede il più delle volte, ricorre alle parolacce». Poi l’affondo: «A cosa serve tutto questo? Lui non ha un bel niente da dire». La più classica delle accuse di antipolitica e populismo da parte di un esponente della classe politica “tradizionale”. L’argomento della purezza La replica è la stessa che ci si attenderebbe da chi quella classe politica vorrebbe pensionarla per sempre, mandando “tutti a casa”: «Chi è lei?», replica Waldo, ma soprattutto Salter, il giovane che lo muove e lo fa parlare. «È solo un vecchio modo di pensare con un nuovo taglio di capelli», dice, mischiando la denuncia politica a quella personale, come è caratteristico del linguaggio di Grillo. «Lei prova a sovrastarmi soltanto perché non la prendo sul serio», aggiunge poi, trasformando l’invettiva in una critica sostanziale. «Nessuno la prende sul serio, perciò la gente non vota». E ancora: «Qualcosa deve cambiare. Nessuno si fida di voi. Tutti sanno che non vi frega un cazzo del bene comune». Poi fa riferimento a un collega di partito finito nel tritacarne mediatico per una foto hard diffusa via Twitter (anche qui, Black Mirror non inventa nulla1): «Che ne dice di Gladwell?», questo il nome del politico. «Il suo amico depravato. Lo conosce da tanto, non sapeva che razza d’uomo è?». La tattica è quella, sempre nota agli osservatori della cronaca politica italiana, di attaccare x dicendo che “è amico di” y: poca cosa, dal punto di vista prettamente logico, ma buona abbastanza da riempirci le pagine dei giornali, e rovinare carriere ed esistenze. Infine la sentenza: «Siete falsi, bugiardi e in questo senso tutti uguali». Il teorema principe dei Cinque Stelle, e il modo per bollare ogni impurità morale e ogni tentativo di mediazione politica come crimine insanabile, si realizzano nelle parole di Waldo. Ma è con l’attacco alla ragazza di cui si era invaghito, la candidata laburista Gwendolyn, che l’uomo dietro alla maschera digitale stende il più radicale degli atti di accusa alla politica. Lei vuole solo la fama, dice Waldo, «se ne frega altamente di tutti voi. È uguale a lui», il candidato conservatore, Monroe. «Perché alla fine vi rappresenterà comunque, sbaglio? Un politico di
professione, uno che è meno reale di me. Ma io so fare questo», dice, palleggiando con la sua testa. «A che serve? Vuole saperlo? Ebbene la verità è che non lo sa più nessuno, grazie a voi. A che servite? A che servite voi? Grazie a tutti e buonanotte». Il nichilismo è viral Con un dito medio, l’equivalente del vaffanculo grillino, Waldo scompare lasciando al suo posto la critica ontologica di cui si è detto (io, irreale, sono più reale di voi reali), ma anche la sensazione di impotenza e insensatezza – tutt’altro che virtuale – cui è abbandonata buona parte dell’elettorato nelle democrazie rappresentative in crisi. La risposta, nella realtà, non si intravede, ma nell’episodio è chiara, e passa nuovamente per la dittatura del pubblico istantaneo. Perché dopo la tribuna elettorale (si tratta, si noti bene, di elezioni locali), in tre giorni Waldo diventa un fenomeno di massa. «Il video del suo scontro ha avuto più di un milione di visualizzazioni su YouTube», e nascono gruppi su Facebook che chiedono a Waldo di fondare un partito nazionale. Nei sondaggi, improvvisamente, è terzo. È il potere della politica virale, che troppo spesso coincide con l’insulto e la banalizzazione. Ma del resto, «la gente ne ha le palle piene di come vanno le cose, e Waldo dà voce a tutto questo», dice il creatore del Waldo-politico, il produttore Jack Napier; il pupazzo virtuale è il «principale ambasciatore del malcontento sociale», rilancia un presentatore televisivo: «il dichiarato disprezzo di Waldo per i suoi rivali è andato a toccare un nervo scoperto». E questo basta per ottenere consensi. Il nichilismo genera click, contatti, memi, altri contatti e, da ultimo, voti veri e propri. Poco importa che nella realtà il passaggio tra fenomeno internettiano e fenomeno politico sia molto più sfumato: nella satira è tutto immediato, istantaneo. Anche la presa del potere tramite un mezzo che non dovrebbe consentire – per sua stessa natura – alcuna concentrazione di potere. Come scrivono Grillo e Casaleggio nel già citato Siamo in guerra, «il web è francescano» e «anticapitalista». Soprattutto, è radicalmente contrapposto al sistema politico vigente proprio per queste ragioni. La stanza è intelligente, gli elettori meno Waldo «ha l’attenzione dei giovani» (tutti) perché ha successo su YouTube. Quanto alla competenza sui diversi temi della campagna elettorale, nessun problema: «Ti dirò io cosa dire. Cercherò notizie su Google…», dice l’assistente a Salter. Tanto, come sostiene David Weinberger in
La stanza intelligente2, la conoscenza è divenuta una proprietà della rete. E il più intelligente nella stanza, prosegue, è la stanza stessa. Quanto al pubblico degli elettori, è talmente idiota da recarsi al seggio e votare Waldo per poter sentire le sue “cazzate” e il personale ringraziamento («Grazie del voto, coglione») tramite un’apposita applicazione per smartphone (di nuovo, torna il tema della gamification come fonte di manipolazione e controllo). Insomma, «avete la macchina perfetta», come dice ai creatori un agente CIA finito per interessarsi al fenomeno. Si può «avviare il più grande progetto politico che il mondo abbia mai visto. Potreste anche esportarlo, volendo». È l’agente CIA a manipolare la futura ascesa del modello Waldo a partire dal Sudamerica, dunque. Dietro l’ascesa di questo totalitarismo istantaneo c’è lo zampino dell’intelligence, come ripetutamente avvenuto nel corso della storia per forme più e meno democratiche di potere. Waldo è legione In questa replicabilità dell’esperimento c’è un ultimo monito per i capipopolo della democrazia digitale. È la vicenda del ragazzo che muove Waldo e parla per lui: la vicenda di Jamie Salter, cioè la nostra, più che quella del candidato-pupazzo fatto di bit. I suoi dubbi, per tutto l’episodio, si erano moltiplicati. Ma è nel finale che l’attore si rende conto che la trasformazione della satira corrosiva di Waldo in un progetto politico vero e proprio è l’anticamera di un’involuzione autoritaria, e non di un reale progresso democratico. «Non votate per me, sono un idiota», fa dire al pupazzo dallo schermo. I passanti, sul momento, credono che sia l’ennesima provocazione, la costruzione di un altro paradosso con la funzione – tipica del trolling – di rivelare un’ipocrisia di fondo nel sistema che lo denuncia. Ma Salter non sta trollando: è sincero. E quando il tono nella voce inizia a rivelarlo, e giunge alla minaccia definitiva per il progetto Waldo decidendo di dimettersi, l’ideologo che ha orchestrato l’operazione prende le redini e impersonifica il pupazzo. Si rende così finalmente manifesta l’indipendenza dell’avatar dalla persona: la natura profondamente anonima di Waldo emerge in tutto il suo nitore. Ed è questo a renderlo pericoloso: non c’è pentimento individuale che lo possa distruggere, e non c’è responsabilità. Waldo, oramai, èlegione3. E ha suscitato una confusione tale nei valori di chi lo idolatra da rendere identica la punizione violenta, il pestaggio, con la derisione e l’oltraggio satirico-trollesco. La dittatura del pubblico istantaneo si rovescia nella dittatura istantanea verso il pubblico. Ed è questo lo specchio nero in cui guardiamo: il guardarci tutti in ogni momento attraverso gli occhi di una collettività che sa solo giudicare (e lo fa in ogni istante), e il vederci tutti e in ogni momento obbedire a quel giudizio,
senza capire che lo specchio non restituisce davvero ciò che vediamo, ma ciò che qualcuno – chi ne determina le immagini che crediamo riflesse – decide che si veda. Così quando agiamo, crediamo di farlo per nostra stessa volontà, o per soddisfazione di una volontà collettiva. E invece è l’agire diretto dall’alto di sempre, solo mascherato (al solito) nel nome del popolo in modi inediti. Per questo quando il nuovo, e perfino più perfido, Waldo – controllato dal produttore, Napier, che ne detiene i diritti – dice: «Uccidiamolo» riferendosi al vecchio, ovvero Salter, la folla obbedisce. E per questo Waldo, sadicamente, gongola: «Sì, sì, sì». Così che quando il candidato repubblicano, Monroe, vince le elezioni, il pupazzo è già in versione squadrista: «Un bel centone al primo che gli tira una scarpa». Inutile dire che il pubblico, soggiogato dagli ordini di chi da tempo ne nutre gli istinti più bassi in tempo reale, esegue. Un dittatore che non muore L’esito è un totalitarismo fatto di repressione e marketing ultrapersonalizzato per ogni suddito e al contempo standardizzato sull’icona immortale di Waldo. Che non ha nemmeno più il problema di occultare la propria età o lo scorrere degli anni come Benito Mussolini, che ordinava agli organi di stampa di evitare qualunque menzione a ogni ricorrenza del suo compleanno. O di presentare un volto ieratico e fasullo perché sia sempre identico a se stesso, come il Grande Fratello orwelliano. Il suo sorriso cinico è sempre giovane e sempre uguale, sempre in movimento e sempre capace di anticipare le volontà del pubblico (non è difficile, in uno scenario in cui si accetta l’identità tra rete e opinione pubblica, immaginare un governo totalitario che studi il dipanarsi delle preferenze in tempo reale sui social media, ne computi i dati aggregati e individuali e vi moduli di conseguenza bisogni, percezione dei bisogni e soddisfazioni di quei bisogni all’occorrenza – risultando così massimamente popolare). Il problema principale di ogni regime totalitario, la successione del capo, è rimosso. La repressione, inizialmente necessaria come si vede nell’episodio, potrà lentamente cedere il passo a una società di ebeti perfettamente schiavi e perfettamente felici, riproducendo così, per l’ennesima volta, il giudizio del Grande Inquisitore di fronte al Cristo che ritorna: troppo è il peso della libertà, gli uomini – in fondo – nemmeno la vogliono. Le utopie democratiche del digitale, tutto sommato, non ne sono che l’ennesima presa d’atto.
1 È accaduto, per esempio, al deputato democratico statunitense Anthony Weiner.
2 David Weinberger, La stanza intelligente. La conoscenza come proprietà della rete, Codice edizioni, Torino 2012 (ed. orig. Too Big to Know, 2012). 3 Nel senso del motto del collettivo di hacktivisti Anonymous: “We Are Legion”, siamo legione. In quanto identici e molteplici, massa di indistinguibili (e inarrestabili) cui è impossibile attribuire responsabilità individuali. In teoria, perché poi – nella pratica – singoli membri di Anonymous sono stati più volte individuati e (troppo duramente) puniti.