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Italian Pages 256 Year 2019
DISCIPLINE FILOSOFICHE Anno XXIX, numero 1, 2019
Quodlibet
DISCIPLINE FILOSOFICHE Anno XXIX, numero 1, 2019 Rivista fondata da Enzo Melandri. Periodicità semestrale. Aut. Tribunale di Macerata, n. 527/ stampa del 16. 12. 2005 ISSN: 1591-9625 Direttore
Stefano Besoli
Direttore responsabile
Barnaba Maj
Dipartimento di Filosofia e Comunicazione
Comitato scientifico Massimo Barale (Università di Pisa) †, Jocelyn Benoist (Université Paris-I PanthéonSorbonne), Giuseppe Cantillo (Università Federico II di Napoli), Vincenzo Costa (Università degli Studi del Molise), Jean-François Courtine (Université Paris-IV Sorbonne), Françoise Dastur (Université de Nice Sophia Antipolis), Roberta De Monticelli (Università Vita-Salute San Raffaele di Milano), Bianca Maria d’Ippolito (Università di Salerno) †, Massimo Ferrari (Università di Torino), Gottfried Gabriel (Friedrich Schiller Universität Jena), Gianna Gigliotti (Università Tor Vergata di Roma), Wolfhart Henckmann (Ludwig-MaximiliansUniversität München), Douglas Hofstadter (Indiana University), John Lachs (Vanderbilt University), Claudio La Rocca (Università di Genova), Eugenio Mazzarella (Università Federico II di Napoli), Ernst Wolfgang Orth (Universität Trier), Luigi Perissinotto (Università Ca’ Foscari Venezia), Manfred Sommer (Christian-Albrechts-Universität Kiel), Jürgen Stolzenberg (Martin-Luther-Universität Halle-Wittenberg), Francesco Saverio Trincia (Università La Sapienza di Roma), Frédéric Worms (École normale supérieure – ENS, Paris) Comitato di redazione Simona Bertolini, Francesco Bianchini, Roberto Brigati, Sebastiano Galanti Grollo, Luca Guidetti, Giuliana Mancuso, Emanuele Mariani, Riccardo Martinelli, Giovanni Matteucci, Venanzio Raspa, Alessandro Salice, Luca Vanzago, Giorgio Volpe Direzione e redazione Dipartimento di Filosofia e Comunicazione, via Zamboni 38 - 40126 Bologna. Tel 051-2098344. Fax 051-2098355 E-mail Redazione: [email protected] Sito web: www.disciplinefilosofiche.it Copertina: Augusto Wirbel
© Copyright 2019 Quodlibet ISBN: 978-88-229-0379-2 | e-ISBN 978-88-229-1028-8 Quodlibet edizioni, via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi 23, 62100 Macerata tel. 0733-264965 fax 0733-267358 www.quodlibet.it; e-mail: [email protected] Finito di stampare nel mese di maggio 2019. Questa Rivista è stata pubblicata con un contributo di fondi R.F.O. dell’Ateneo di Bologna. I saggi che compaiono in questa rivista sono sottoposti a double-blind peer-review.
Indice
Salomon Maimon: alle origini dell’idealismo tedesco a cura di Luigi Azzariti-Fumaroli e Lidia Gasperoni 5
Luigi Azzariti-Fumaroli, Lidia Gasperoni Presentazione
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Paul Franks From Quine to Hegel: Naturalism, Anti-Realism and Maimon’s Question Quid Facti Christoph Asmuth Salomon Maimon und die Transzendentalphilosophie ganz grundsätzlich
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Gideon Freudenthal Overturning the Narrative: Maimon vs. Kant
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Luigi Azzariti-Fumaroli Uno schlemiel trascendentale. Salomon Maimon fra momenti di vita e movimenti di pensiero
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Daniel Elon Skepsis und System. Salomon Maimons Versuch über die Transzendentalphilosophie und Gottlob E. Schulzes Aenesidemus in chiastischer Gegenüberstellung
113 Meir Buzaglo Salomon Maimon and the Regular Decahedron 125 Gualtiero Lorini Verità, linguaggio e coscienza in Salomon Maimon 151 Luca Guidetti Kant e Maimon: prolegomeni a una topologia del tempo 177 Gaetano Rametta Filosofia trascendentale e ontologia della differenza in Salomon Maimon 201 Lidia Gasperoni Immaginare approssimando. L’(im)possibilità di un’estetica nella filosofia di Salomon Maimon 223 Maria Caterina Marinelli Maimon’s Implicit Influence in the Eigne Meditationen über ElementarPhilosophie of Fichte 231 David Hereza Modrego Die Transformation der Frage “quid juris?” bei Kant zu Maimons “Satz der Bestimmbarkeit”
Luigi Azzariti-Fumaroli, Lidia Gasperoni
Presentazione
“Salomon Maimon, uomo dalla vita bizzarra, fatta di alti e bassi, grandiosa e miserabile. Era rabino, con un certo gusto per le fughe, morì in grande miseria”. Nel 1956 Gilles Deleuze presentò con perfetto stile tacitiano agli studenti del liceo Henri IV di Parigi colui che Marcus Herz, rivolgendosi a Kant nell’aprile del 1789, aveva sì annoverato “fra i più rozzi ebrei polacchi”, ma che al tempo si era affrettato a definire fra i pochissimi che avessero con acutezza e sagacia letto la prima Critica, apportando, col suo Versuch über die Transzendentalphilosophie, un contributo di grande rilievo alla discussione di alcune delle principali questioni lì messe a tema. Incoraggiato dallo stesso Kant, Maimon (pseudonimo di Shlomo ben Yehoshua assunto in omaggio a Maimonide, la cui opera lo influenzò in misura decisiva) fu già presso i suoi contemporanei considerato un Außenseiter, che, penetrato come di soppiatto nell’architettura argomentativa kantiana, ne ribaltava alcuni dei principi cardine, anzitutto ponendo in evidenza la impossibilità di realizzare il passaggio dai concetti e dalle proposizioni trascendentali universali che si riferiscono all’esperienza in generale a quelli che invece si riferiscono ad esperienze particolari. Ancor maggiore sorpresa suscitò il tentativo compiuto da Maimon di superare la dicotomia kantiana fra intelletto e sensibilità, chiamando in causa un “intelletto infinito” quale principio reale su cui fondare la conoscenza. Basti a testimoniarlo la lettera che Fichte inviò a Reinhold nella primavera del 1795, e nella quale egli sostenne che grazie al Versuch il criticismo kantiano sarebbe stato “completamente rovesciato”, sebbene la cosa non risultasse ancora manifesta a quanti si ostinavano a giudicare il pensiero di Maimon con malcelata sufficienza o con beffardo sospetto; e tuttavia – egli ne era sicuro – “i secoli futuri” gli avrebbero reso giustizia. Invero, a causa di una forma di scrittura che suole procedere – lo notò Ernst Cassirer, fra i primi a recuperare Maimon all’attenzione della storiografia – per giustapposizione ed enumerazione dei più disparati concetti, la fortuna ha poco arriso al pensiero di Maimon, almeno fino al Novecento, quando, complice anche il suo promuovere tanto un’ibridazione di Kant con scoperti elementi spinoziani quanto un costruttivo scetticismo, esso è stato assunto fra le fonti di quel pensiero della differenza e della ripetizione che è sorto da un messa in discussione della tendenza, impostasi a partire
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LUIGI AZZARITI-FUMAROLI, LIDIA GASPERONI
da Kant, di fare delle “idee” trascendenti (lo spazio, il tempo) l’orizzonte del campo immanente al soggetto. Fin dal fondamentale studio del 1929 di Martial Gueroult – al quale diversi dei contributi raccolti in questo fascicolo non a caso si richiamano – si tende a guardare alla riflessione di Maimon come quella che, forse più di ogni altra in età postkantiana, ha cercato di chiarire come l’idea appaia un sistema di nessi, di rapporti differenziali. La nozione di “differenziale di coscienza” attesta, in particolare, il fondamentale ruolo che lo scetticismo empirico di Maimon gioca nell’eziologia di una drammatizzazione concettuale, che ha quale esito – ha scritto Alexis Philonenko – un principio che ci porta a giudicare illusorio il reale, nella misura in cui, con la messa in crisi dell’idealismo non soltanto di matrice kantiana, non è dato più discernere ciò che è prodotto (logicamente) da noi e ciò è prodotto dall’oggetto. Da questo punto di vista tornare a riflettere sull’opera di Maimon, con acribia filologica e storiografica, ma anche con l’intento di approfondirne alcuni snodi teorici, sembra ubbidire in primo luogo alla necessità di approfondire la portata di un pensiero senza più l’attrito che la realtà esercita. Al contempo, l’“immergersi à corps perdu, se corpo esprime la somma delle peculiarità”, nel pensiero di Maimon, prendendone in esame alcuni degli aspetti più salienti, non può trascurarne le intersezioni con altre esperienze filosofiche; e ciò d’accordo pure con la vocazione propria della filosofia di Maimon di essere un Koalitionssystem: una teoria che si compone di elementi eterogenei. L’eclettismo è del resto una delle cifre dominanti del suo pensiero e corrisponde – com’egli stesso osserva – dall’aver constatato che tutti i sistemi filosofici contengono qualcosa di vero e, per certi versi, sono egualmente applicabili. L’affermazione della illusorietà del reale, legata alla nozione di differenziale e a sua volta connessa alla centralità che in Maimon assume l’immaginazione trascendentale, non può peraltro che condurre a un’assoluta esuberanza teoretica, sostenuta da una decisa inclinazione al commento. La sua potrebbe definirsi un’attitudine alla “Geistesabwesenheit”, intesa sia, letteralmente, come assenza del pensiero dalla realtà oggettiva, sia come quella peculiare stavaganza che – secondo Feurbach – sembra connotare l’idealismo come maniera di vivere: fra il rischio del disprezzo per la realtà e la comicità della sua involontaria distanza dalla vita. Ma forse si tratta solo di ciò che si addice alla teoria: l’invisibilità, il non avere spazi identificabili e orizzonti circoscritti, né sicuri contorni. Il movimento delle idee mima, in Maimon, l’erranza di un pensiero il cui compimento sembra essere la dislocazione. Questa non è però da far risalire soltanto alla impossibilità per il concetto di determinare attraverso se stesso il suo oggetto e quindi alla funzione svolta dall’immaginazione produttiva; e neppure sembra possibile risolvere tutto in uno scetticismo che – come ha scritto Hegel alludendo for-
PRESENTAZIONE
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se, secondo l’autorevole suggerimento di Valerio Verra, proprio all’opera di Maimon – “non costituisce un oggetto particolare di un sistema, bensì è esso stesso il lato negativo della conoscenza dell’assoluto e presuppone immediatamente la ragione come il lato positivo”. Piuttosto, la dislocazione che percorre gli scritti di Maimon pare corrispondere ad una forma di “deissi fantasmatica” che allude soltanto a immagini e a pensieri che non forniscono alcun ausilio indicativo, in quanto tutti dislocati in un universo di finzioni. Maimon sviluppa un “metodo delle finzioni” per mezzo del quale un oggetto mutevole viene esaminato secondo una regola, come se pervenisse al più alto grado del proprio mutamento, come cioè se, a un tempo, fosse e non fosse il medesimo oggetto. Lo sviluppo del concetto di finzione – appena accennato da Deleuze quando pone sullo stesso piano Maimon e Novalis – tiene quindi conto delle implicazioni proprie della immaginazione come Einbildungskraft. Il “metodo delle finzioni” parrebbe infatti rispondere alle esigenze proprie di una capacità immaginativa che, in segreto accordo con lo “Spiritus phantasticus” di Bruno, oltre a fungere da strumento di conoscenza sia un repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà, ma che avrebbe potuto essere. Sicché il gesto dell’interprete può accordarsi unicamente alla variabilità del possibile: solo il presupporre la verità sotto il segno dell’ipotesi fa infatti sorgere “l’atto di pensare nel pensiero”, come ciò che nasce, quasi per effrazione, dal fortuito.
Paul Franks
From Quine to Hegel: Naturalism, Anti-Realism and Maimon’s Question Quid Facti1
Abstract: From Quine to Hegel: Naturalism, Anti-Realism and Maimon’s Question Quid Facti Maimon understood the power of Hume’s methodological naturalism better than Kant himself. Accordingly, he saw that Kant had not, as he thought, defeated Hume by showing that Hume could not do what Kant could do with his nonnaturalistic method: namely, vindicate natural science and its transcendental conditions. For Maimon saw, not only that a consistent naturalist would reject Kant’s method, but also that Kant’s putatively necessary conditions of possibility could themselves be naturalised by means of a Humean psychological explanation. Much of post-Kantian idealism may be seen as motivated by the need to respond, not to Kant’s conception of the naturalistic threat, but to Maimon’s. Two centuries later, a similar dialectic played itself out in analytic philosophy, when Carnap’s vestigially transcendental account of the possibility, not of synthetic a priori, but of analytic propositions was naturalised by Quine. The development of neo-Fichtean, neoSchellingian and neo-Hegelian responses to Quine in contemporary analytic philosophy is thus illuminated by the comparison of Quine and Maimonabstract. Keywords: Naturalism, Transcendental Philosophy, Indeterminacy of Translation, Supervenience, Anti-realism.
Why, roughly a century after analytic philosophy’s triumph over various post-Kantian traditions, does German idealism seem – at least to some philosophers who have inherited the analytic tradition – of contemporary significance once again?2 An illuminating answer, so it seems to me, would focus, not initially on theses or themes, but rather on problems. It would begin by tracing detailed analogies between the problems confronted within analytic philosophy 1 A first version of this article was published in E. Hammer (ed.), German Idealism: Contemporary Perspectives, London-New York, Routledge 2007, pp. 50-69. 2 I dedicate this paper to the memory of Burton Dreben, who suggested to me – some two decades ago, before the analytic resurgence of German idealism made its public appearance – that Quine was the Hegel of contemporary philosophy. I did not know – sitting in his office in Emerson Hall – exactly what Dreben meant, and I do not know how he would respond to the argument developed here. But I took what Dreben said as an encouragement of my graduate student ambitions, and I am still responding to his – ever provocative – pedagogy.
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PAUL FRANKS
today and the problems motivating German idealism. These analogies would then serve to explain the parallels between the strategies available for addressing contemporary problems and the strategies available to the first post-Kantian generation. My goal here is to contribute to an account of this sort. I will focus on one of the two major problems to which German idealism may be seen as responding – namely, naturalism – leaving the other – nihilism – for discussion elsewhere.3 Maimon and the contested matter of fact I will start by discussing the naturalistic challenge to Kantianism, a challenge issued in its most interesting version by Salomon Maimon – a Lithuanian Talmudist, kabbalist and sometime wandering beggar who wrote some of the most provocative, profound and seminal works of the 1790s before his untimely death in 1800.4 Maimon’s challenge arises in the first place from consideration of the success of transcendental philosophy in responding to Humean skepticism, a skepticism that presupposes what I shall call methodological naturalism. So we need to understand the skeptical doubt that arises from this naturalism, as well as the transcendental response to that doubt, before we can adequately characterize Maimon’s challenge. Methodological naturalism is the view that the methods of natural science are the only methods appropriate for understanding anything, including epistemic practices such as natural science itself. Notice that both rationalism and empiricism may be seen as methodologically naturalist in this sense, differing primarily in what they take the methods of natural science to be. Notice also that, while a methodological naturalist is likely to be a substantive naturalist – someone who is committed to the existence only of natural entities – a substantive naturalist need not be a methodological naturalist. From methodological naturalism, Humean skepticism may be said to arise as follows. (I am concerned here with Maimon’s account of the skeptical upshot of Hume’s arguments. Whether he is right about the interpretation of Hume is a question I set aside for the purposes of this paper.) When asked to justify a belief in some empirical yet unobserved matter of fact, we soon find ourselves attempting to justify an inference from observed matters of fact by appealing to some principle supposed to express a metaphysical necessity or strict universality, such as the principle that every event has some cause from which it follows according to a law. Now it is 3 4
For the problems motivating German idealism, see Franks 2005. For further discussion, see Franks 2003.
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possible, using the methods of natural science, to explain how we come to formulate such a principle, through mechanisms such as habituation and imaginative projection. But it is impossible, using these methods, to justify such a principle. In short, a naturalistic explanation of our epistemic practices is available, but this explanation will involve no naturalistic reduction of epistemic justification. Consequently, if epistemic warrant consists in being able to give a justificatory account of reasons for holding a belief – that is, if we take what is now called an internalist view of knowledge – then it follows that, not only do we not know anything about empirical yet unobserved matters of fact, but also that we do not have any warranted beliefs about them. This conclusion threatens to undermine our philosophical sense of the worth both of our everyday epistemic practices and of natural science itself. To this skeptical conclusion, transcendental philosophy of the kind in question may be said to respond as follows. It is quite true that the principles in question cannot be justified by the methods of natural science. But this is because the principles play a special epistemic role, and when this role is understood it will be seen that the principles can be justified in another way, employing uniquely philosophical methods not available to natural science. What the principles do is constitute the very possibility of epistemic practices, including natural science. Without presupposing the principles, there would be no epistemic practices at all, and of course there would be no natural science.5 It is important to note the reciprocal relationship, emphasized by Kant, between constitutive principles and what they constitute. On the one hand, the principles in question constitute the possibility of experience. That is, they underwrite the justifications we can give for beliefs about the empirical world – as, for example, the principle of causality underwrites inferences from observations to beliefs about unobserved matters of fact. On the other hand, experience returns the favor. For these principles cannot be derived from concepts alone or from observations. So they stand in need of justification. And this justification is provided by experience, the actuality of which shows that the principles constitutive of its possibility must also be actual. I will call this the reciprocity claim of transcendental philosophy.
5 See Kant 1998, A737/B765: “no one can have fundamental insight into the proposition ‘Everything that happens has its cause’ from these given concepts alone. Hence it is not a dogma, although from another point of view, namely that of the sole field of its possible use, i.e., experience, it can very well be proved apodictically. But although it must be proved, it is called a principle and not a theorem because it has the special property that it first makes possible its ground of proof, namely experience, and must always be presupposed in this”.
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PAUL FRANKS
Hume is correct, then, to demand justification for what we may now call constitutive principles. He is also correct to see that no such justification can be given by means of the methods of natural science. Where then, if anywhere, does Hume’s error lie? Only in his failure to see that another – non-naturalistic or transcendental – method is available for the philosophical justification of constitutive principles, hence for an explanation of the possibility of our epistemic practices, including natural science itself, and that this method does not undermine our understanding of these practices as involving genuine justification. Once we have found such a method, we need no longer be troubled by Humean skepticism, and we need no longer take seriously Hume’s own naturalistic proposal. In Kant’s words: to the synthesis of cause and effect there attaches a dignity that can never be expressed empirically, namely, that the effect does not merely come along with the cause, but is posited through it and follows from it. The strict universality of the rule is therefore not any property of empirical rules, which cannot acquire anything more through induction than comparative universality, i.e., widespread usefulness. But now the use of the pure concepts of the understanding would be entirely altered if one were to treat them only as empirical products (Kant 1998, A9192/B124). The empirical derivation [of the categories] […] to which both of them [i.e. Locke and Hume] resorted, cannot be reconciled with the reality of the scientific cognition a priori that we possess, namely that of pure mathematics and general natural science, and is therefore refuted by the fact [durch das Faktum] (Kant 1998, B127-128).
The first passage says, in effect, that, because of the strictly universal character of constitutive principles, for which there can be no naturalistic reduction, it follows that to adopt naturalism would be to propose a revision in our use of the concepts defined by these principles. To this point the second passage adds, in effect, that if we are confronted with a choice between, on the one hand, a naturalistic view that cannot account for the reality of the knowledge we claim of mathematics and the foundations of physics – a view that instead of accounting for our epistemic practices, proposes to revise them – and, on the other hand, a non-naturalistic view that succeeds in accounting for the reality of the knowledge we claim – a view that is not revisionist – then it is obvious that we should prefer the latter, transcendental epistemology. Methodological naturalism, we might say, is ruled out by a principle of conservatism that should be uncontroversial: “if it ain’t broke, don’t fix it”. However, Maimon believes that Kant misinterprets Hume and consequently underestimates the challenge of methodological naturalism. As
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we have seen, Kant thinks that, because Hume cannot offer a naturalistic reduction of the reality of our cognition, Hume must propose a revision of our epistemic practices. Here is Maimon’s direct reply: One cannot build with certainty upon the commonest use of the understanding. The [commonest usage] distinguishes itself excellently from the scientific use of the understanding insofar as the latter seeks the ground and the mode of origination of some given knowledge; [while] the former satisfies itself with this knowledge in itself and its application in common life; thus the common human understanding can deceive itself and believe itself to be in possession of a cognition which has no objective ground. As an example, you bring forth the proposition that all alterations must have a cause, and you say that the concept of cause would be wholly lost if one were to [explain] it as Hume did, etc., because it contains necessity and strict universality. But friend! Here you are doing the honorable Hume a great injustice. He derives from association of ideas and custom, not the concept of cause, but only its supposed use. Thus he doubts only its objective reality, since he shows that the common human understanding could have arrived at belief in the use of this concept through the confusion of the merely subjective and comparatively universal with the objectively and absolutely universal.6
In other words, Hume proposes no significant revision of our epistemic practices. He regards our practice of causal inference – our use of the concept of cause – as natural and ineliminable. However, on Maimon’s interpretation, Hume proposes what we should nowadays call an anti-realist account of some beliefs involved in that practice. In particular, he proposes an error theory of justification: we cannot help engaging in causal inferences from observations to beliefs about unobserved matters of fact, and we cannot help believing that these inferences are justified by the strictly universal principle of causality. But this unavoidable belief in the justified status of our inferences is false. A methodologically naturalist explanation of the use of a concept may therefore be adequate even though it falls short of justifying the conceptualization itself. On this view, Kant has underestimated the viability of methodological naturalism. For Kant thinks that there are only three epistemological options worth considering: 1) methodologically naturalistic reductionism, which is ascribed to Lockean empiricists and Leibnizian rationalists, who seek to account for the reality of our cognition by employing only the empirical and conceptual methods of natural science; 2) methodologically naturalistic revisionism, which Kant ascribes to Hume, and which is motivated by the failure of the reductionist program; and
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Maimon 1970, vol. 7, p. 58. Translations from Maimon are mine.
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3) Kant’s own program, which seeks to account for the reality of our cognition by employing a transcendental method suitable for the justification of constitutive principles within philosophy, but not for the justification of either the empirical or conceptual beliefs with which we are concerned in ordinary cognition or in natural science. However, Kant has missed a fourth alternative. Namely, the methodological naturalist can happily concede Kant’s transcendental argument that constitutive principles constitute the possibility of experience and that these principles are consequently ineliminable and unrevisable. But the naturalist can then proceed to take what we should nowadays call an antirealist attitude towards the constitutive function of these principles – for example, by adopting an error theory of the belief in the principles’ justificatory role, as described above. But there are also other ways to be anti-realist. One could view supposedly constitutive principles, for example, as merely instrumental rules of inference, whose use involves no doxastic commitment to their objective validity. In short, the Humean naturalism envisaged by Maimon accepts the first half of the transcendental philosopher’s reciprocity claim – the argument that constitutive principles underwrite the justifications without which experience would be impossible, and indeed that they are indispensable to our current epistemic practices – but rejects the second half – the argument that our current epistemic practices actually amount to experience, and that the actuality of experience justifies the principles that constitute its possibility. For the Humean naturalist proposes to explain in fully naturalistic terms the very epistemic practices which the transcendental philosopher describes in supposedly non-naturalizable terms such as “justification”. Thus the Humean naturalist denies the actuality of what the transcendental philosopher calls “experience”, which is not merely perceptual experience, but a body of knowledge that integrates perceptions into a view of the world.7 The existence of this fourth alternative dramatically alters the dialectical context in which Kant assesses his own transcendental program. For the naturalist who adopts anti-realism with respect to the constitutive function of the principles is not proposing any revision of our epistemic practices. Consequently, the principle of conservatism does not obviously count against such a naturalist and for the transcendental philosopher who seeks to be a realist about our putative cognition. Indeed, Maimon argues in effect that the principle of conservatism could be seen to favor anti-realist 7 Maimon sometimes refers to experience “in Kant’s sense”. Following Kant’s Prolegomena, Maimon believes that the “empirical propositions” discussed by Kant in the Critique are judgments of experience claiming necessary connections among sensuously given objects. See Franks 2003.
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naturalism, because it makes use only of methods already used successfully in natural science.8 If the transcendental philosopher can claim to be a cognitive content conservative, then the anti-realist naturalist can claim to be a methodological conservative. So Kant is mistaken: there is no “fact” by which naturalism is refuted. Indeed, this is one way to understand Maimon’s famous objection that Kant begs the question quid facti: Kant’s transcendental deduction proceeds on the assumption that we are actually in possession of sciences founded on synthetic a priori principles for which methodological naturalism cannot account, but this is an assumption that the methodological naturalist need not and should not grant.9 Now, this does not mean that, in Maimon’s view, methodological naturalism vanquishes transcendental philosophy. For Maimon agrees with Kant that we are in possession of a science of pure mathematics for which methodological naturalism cannot account.10 With respect to physics, however, the situation is at best a philosophical standoff. Both a methodologically naturalist but anti-realist account and a transcendental yet empirically realist account remain unrefuted options. Accordingly, both should be pursued. Transcendental philosophy – which, for Maimon, becomes the transcendental logic of mathematics – should continue to investigate the necessary conditions for the possibility of general natural science – that is, of a thoroughgoing mathematization of sensibly given objects.11 On the 8 See Maimon 1970, vol. 4, p. 239n: “It is a well-known proposition, which Newton lays at the foundation of his philosophy of nature, that one should assume no new principle for the explanation of a phenomenon, which may be explained from other, long since known principles”. 9 See Kant 1998, A84/B116-117. Kant explicitly draws on Roman law as practiced in Germany, but Maimon perhaps draws, and Quine certainly draws, on the distinct British common law tradition, on the basis of which Bacon and Boyle had built an epistemology of experimentation. For Kant’s usage, see Henrich 1989. On Bacon and Boyle, see Sargent 1995. 10 See, e.g. Maimon 1970, vol. 4, pp. 214-215n: “Hume doubts, not perception as a fact in itself, but merely its objective necessity and universal validity, and he explains the appearance of necessity on a subjective basis in accordance with a law of association of ideas […]. My skepticism concedes the concept of objective necessity and doubts only its actual use with respect to objects of perception. If I am asked whence I have the concept of objective necessity, then I answer that I find objective necessity in the objects of mathematics and their relations. If I am asked further what is the criterion of this objective necessity which I attribute only to the objects of mathematics, but not to the objects of perception, then I answer that this criterion is completely obvious. The objects of perception presuppose a condition in the subject if their relations are to be known as necessary. In contrast, the objects of mathematics presuppose no such condition in the subject. When I think the straight line necessarily as the shortest, I may represent it for the first time, or I may already have repeated its representation often. In contrast, the judgment, ‘Fire melts wax necessarily’, is available to me for the first time only after a frequent repetition – dependent either on chance or on my will – of this perception, and it is therefore here only a subjective necessitation, but no objective necessity”. 11 See Maimon 1970, vol. 5, p. 19: “Without the Godhead the world cannot be thought
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other hand, methodological naturalism should continue to develop methodologically conservative accounts of our cognitive practices, and should remind transcendental philosophy of the extent to which general natural science is not a “matter of fact” but remains an unrealized hypothesis. In Maimon’s memorable exegesis of the adversarial relationship between humanity and the serpent in Genesis 3:15: The critical and skeptical philosoph[ies] stand approximately in just the same relationship as man and the serpent after the fall, where it says: He (that is, man) will tread on your head (that is, the critical philosopher will always disturb the skeptical philosopher with the necessity and universality of principles required for scientific knowledge); but you (serpent) will bite him on the heel (that is, the skeptic will always tease the critical philosopher with the fact that his necessary and universal principles have no use) (Maimon 1970, vol. 4, p. 80).
German idealism is, in significant part, an attempt, often with the help of resources adopted and adapted from Maimon, to respond to this standoff – if not to resolve it in transcendental philosophy’s favor, then at least to find a way for transcendental philosophy to stand its ground without compromising itself. To understand the contemporary appeal of German idealism, it will help to understand the analogy between the situation characterized by Maimon and the state of analytic philosophy in the wake of Quine. Quine and the contested fact of the matter Quine begins one of his major essays on Carnap by noting that despite his self-proclaimed empiricism, Carnap is in a crucial sense post-Kantian: Kant’s question “How are synthetic judgments a priori possible?” precipitated the Critique of Pure Reason. Question and answer notwithstanding, Mill and others persisted in doubting that such judgments were possible at all. At length some of Kant’s own clearest purported instances, drawn from arithmetic, were sweepingly disqualified (or so it seemed […]) by Frege’s reduction of arithmetic of logic. Attention was thus forced upon the less tendentious and indeed logically prior question, “How is logical certainty possible?” It was largely this latter question that precipitated the form of empiricism which we associate with between-war Vienna – a movement that began with Wittgenstein’s Tractatus and reached its maturity in the work of Carnap (Quine 1966, p. 107).
Indeed, Kant also seems to regard the question of the possibility of logical certainty as prior and even as exemplary. In the preface to the B but, without the world, the Godhead cannot be known. Without philosophy, no science in general is possible, because it determines a priori the form of a science in general. Without presupposing some other science, philosophy can have no significance whatsoever for us”.
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edition of the Critique, he notes that logic attained its scientific status and, as he notoriously adds, its completeness, because in matters of logic the understanding must deal only with its own form, which it can know a priori. This explanation of certainty with respect to a priori judgments is the model for Kant’s explanations of the possibility of knowing the synthetic a priori principles of mathematics, experience and morality. In every case, knowledge of the a priori is knowledge of the forms of our own faculties. Logic is the easiest case because it is unconditionally general and applies to every possible judgment just in virtue of its being a judgment, so that no further account of the applicability of logical form is required. The challenge, as Kant sees it, lies in the extension of the model to sciences that involve the a priori applicability of form to sensibly given objects. Members of the Vienna Circle – several of whom, including Carnap, had begun their careers in proximity to some version of Neo-Kantianism – call themselves empiricists, not because they are attracted by the empiricism of Locke, Berkeley and Hume, but rather because they reject this extension and the concomitant notion of synthetic a priori judgment. This is, to be sure, a significant departure from Kant, whose transcendental idealism is intended to explain the possibility of synthetic a priori judgment and merits little consideration if there is no such possibility. But it can coexist within a framework that remains crucially post-Kantian insofar as it regards science as possible only with the contribution of logical form, which is neither empirically given nor reducible to mere “relations of ideas”.12 Carnap himself develops several post-Fregean versions of Kant’s account of the possibility of logical certainty. Moving away from Frege and, with the help of Wittgenstein’s tractarian notion of tautology, closer to Kant, Carnap regards logic as entirely formal. Adopting what he takes to be the truth in Poincaré’s conventionalism, he departs from both Frege and Kant, proclaiming that there is not one logic, but many – a plurality over which reigns a Principle of Tolerance (see Carnap 2002, p. 51). In each case, however, logical form will be, so to speak, constituted by those propositions that are entirely formal – that is, by the analytic propositions, which now take over what remains of the constitutive function formerly ascribed to Kant’s synthetic a priori principles. After Carnap’s semantic turn, we may say that a set of analytic propositions express the meanings of terms, and constitute truths in virtue of meaning, hence objects of a priori knowledge – all relative to a given language (see, e.g., Carnap 1956). Since philosophy deals with the plurality of logical forms, it lacks substantive commitment. Thus it is distinct both from natural science and 12 There has been much recent scholarship on Kantian and Neo-Kantian aspects of Carnap’s thinking. See, e.g., Friedman 1999.
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from every sort of metaphysics – whether pre-Kantian or Kantian – that commits the amphiboly of confusing logical form with ontology. Thus Carnap’s project remains opposed to methodological naturalism, although it does not serve as his explicit target in the way that Hume is Kant’s target or in the way that psychologism – of which more will be said later – is the target of Neo-Kantians such as Cohen and Windelband, and of logicists such as Frege. It is possible, then, to formulate a Carnapian version of transcendental philosophy’s reciprocity claim: a specific set of analytic propositions constitutes the possibility of those epistemic practices possible with the use of the relevant set of meanings, while the value of the epistemic practices can alone validate the choice of just these analytic propositions. It is also possible to formulate an analogue of Maimon’s methodologically naturalist response to such reciprocity claims: appropriate the first half of the claim, by giving a methodologically naturalistic account of linguistic use that treats as a merely practical necessity what non-naturalistic philosophy treats as a constitutive necessity, while rejecting the second half by treating as a merely practical necessity what non-naturalistic philosophy treats as a constitutive necessity which grounds epistemic practice and is thereby justified. One strand of Quine’s critique of Carnap – the indeterminacy of translation thesis13 – may be seen as just such a response. Indeed, it is a striking radicalization of Maimon’s response: whereas Maimon limits his combination of naturalism and anti-realism to categorial concepts such as the concept of causation, Quine gives a naturalistic account of the usage and an anti-realist account of the constitutive functions of all concepts.14 Quine’s thesis is best divided into two. First, there is the Non-Supervenience Thesis: the thesis that translation – hence synonymy, hence meaning, and hence intentionality in general – does not so much as supervene on and is therefore not determined by facts determinable with the help of naturalistic methods. Intuitively speaking, and setting aside for current purposes a proliferation of distinct formulations, X supervenes on Y if and only if there can be no change or variety in X without some change or variety in Y. According to Quine, “manuals for translating one language into another can be set up in divergent ways, all compatible with the totality of speech dispositions, yet incompatible with one another” (Quine 1960, p. 27). Indeed, “Two such translations might even be patently contrary in truth value” (Quine 1960, pp. 73-74). Yet facts about speech 13 I am leaving out of consideration here those arguments for indeterminacy that depend on the inextricability of meaning and belief, or on the role of normative principles in translation or interpretation. These arguments can be rendered independent of methodological naturalism, and I will consider them elsewhere. 14 There is of course no suggestion here that Quine ever read Maimon, or even heard of him.
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dispositions – about verbal behavior – are the only naturalistically discernible facts relevant to the learning and study of language: “In psychology, one may or may not be a behaviorist, but in linguistics” – and of course Quine means: in scientifically respectable linguistics – “one has no choice” (Quine 1987, p. 5). Thus there can be translational variety where there is no naturalistically discernible variety, and so translation does not supervene on naturalistic facts. Since there can be incompatible homophonic translation manuals that are equally compatible with all naturalistically discernible facts just as easily as there can be such manuals in the case of distinct languages, it follows that synonymy in general – hence meaning or intentionality in general – does not supervene on naturalistic facts. As Quine notes, this is of a piece with “Brentano’s thesis of the irreducibility of intentional idioms” (Quine 1960, p. 221). But here the road forks: “One may accept the Brentano thesis as either showing the indispensability of intentional idioms and the importance of an autonomous science of intention, or as showing the baselessness of intentional idioms and the emptiness of a science of intention” (Quine 1960, p. 221). Quine takes the second option, and it is this that leads him to speak of indeterminacy: there is no “objective matter” – no “matter of fact” – for two empirically equivalent yet incompatible translation manuals to be right or wrong about (Quine 1960, p. 73).15 Thus Quine supplements the NonSupervenience Thesis with what may be called the Anti-Realist Thesis. He hastens to add that translation nevertheless goes on and should go on, and that intentional idioms are practically indispensable. What he proposes is not a thoroughgoing revision of our daily practice, but rather the adoption of a “double standard”: If we are limning the true and ultimate structure of reality, the canonical scheme for us is the austere scheme that knows no quotation but direct quotation and no propositional attitudes but only the physical behavior and constitution of organisms […]. But if our use of canonical notation is meant only to dissolve verbal perplexities or facilitate logical deductions, we are often well advised to tolerate the idioms of propositional attitudes (Quine 1960, p. 221).
In other words, we should tolerate talk of meaning and intentionality where it is useful, as it is in everyday life and sometimes in a philosophically more sophisticated version of everyday life. From ontology, however, 15 While Maimon is anti-realist about the justificatory role and hence the justified status of Kant’s transcendental principles, leaving open the possibility that they are true, Quine seems to foreclose the analogous possibility that meanings truly exist, and is accordingly closer to revisionism than Maimon. The underlying difference is that Quine believes that we have a natural science uncommitted to meanings, whereas Maimon does not believe that we have a natural science uncommitted to causes, though he believes that if we had a natural science, it would be non-causal.
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understood as the theory of the real, this sort of talk should be rigorously excluded. Thus Quine’s methodological naturalism about use is accompanied by anti-realism about meaning, and the radicalization of Maimon’s skepticism is complete. The Kantian distinction between the empirical and the transcendental, both of which are to be taken seriously in their own terms and from the proper standpoint, is replaced by the adoption of a “double standard” that treats only the methodologically naturalistic with genuine seriousness. Why draw Quine’s lesson rather than Brentano’s? Or some Kantian or German Idealist version of the moral that the study of intentionality must employ methods other than those of the natural sciences? For that matter, why not, like Maimon, pursue both the naturalistic and non-naturalistic lines of inquiry, letting each moderate the pretensions of the other? Quine’s reasons for promoting the Anti-Realist Thesis may be discerned from his various, much-discussed arguments for the Non-Supervenience Thesis. What I want to argue is that these reasons support a Maimonian approach as much as they support a Quinean one. This is not because, as Quine acknowledges, his reasons cannot be expected to amount to logically compelling proofs. Rather, it is because, just as, according to Maimon, transcendental philosophy cannot avoid begging the question against methodological naturalism, so do Quine’s considerations beg the question in favor of methodological naturalism, and indeed of Quine’s physicalist brand of methodological naturalism. Quine’s earlier discussions focus on what has come to be called “the argument from below” (see Quine 1970, p. 173). He employs the expository device of a radical translation situation, in which the linguist must construct a translation manual without the help of either established tradition or helpful interpreter, in order to focus our attention on what he takes to be the naturalistically discernible facts of the matter. These facts may be said to determine translations of observation sentences, taken as wholes with respect to which speakers’ dispositions to assent and dissent do not vary significantly with collateral information. However, as soon as the linguist begins to segment observation sentences into terms – thus, as soon as she begins to assign to speakers intentions to refer to determinate objects – it is necessary to formulate “analytical hypotheses” linking terms in the speaker’s language to terms in the linguist’s language. It is here, with what Quine later calls the inscrutability of reference, that the Non-Supervenience Thesis enters the story, and the extent of translational variability increases inversely with the degree of observationality. The problem is that this argument is formulated in a way that presupposes the Anti-Realist Thesis. That it does so is evident from Quine’s attitude towards holistic interconnections within the totality of the
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speaker’s linguistic dispositions. Far from ignoring such connections, Quine emphasizes them, and philosophers who have developed our understanding of them may rightly be said to build on Quinean insights. But the more the linguist is allowed to exploit the holistic structure of language, the more determinate translation becomes: Even highly observational sentences do not derive what we ordinarily think of as their meanings only from the links between patterns of sensory stimulation and our dispositions to assent to and dissent from them. Their links with other expressions in the language, hence with the speaker’s theory of the world, are also relevant (Kirk 2004, p. 167).16
Surely it is question-begging to assume that any considerations relevant to the determination of inner-linguistic links are not objective matters of fact.17 In his later discussions, Quine shifts the weight onto what has come to be known as the “argument from above”, an argument that was always present but was not at first given the same emphasis (see Quine 1960, pp. 75-76). To bring out the difference between the indeterminacy of translation and the under-determination that pertains to any theory, including the physical theories that he privileges, Quine focuses on “the radical translation of a radically foreign physicist’s theory” (Quine 1970, p. 179). In other words, he turns directly to the consideration of highly non-observational sentences. Here the linguist has two choices to make. The first is the physicist’s choice: she must herself make an observationally underdetermined choice between empirically equivalent physical theories. Then she must make an additional choice about which of the empirically equivalent theories to attribute to the scientifically minded foreigner. Consequently there is a lack of determinacy in translation that goes beyond the underdetermination of physical theory by observation. This argument has the advantage of bringing out the importance of Quine’s physicalist brand of methodological naturalism. But it has the same defect as the “argument from below”. Namely, it begs the question of antirealism by assuming that only the links between stimulation patterns and dispositions with respect to observation sentences, and not links betweens items within the speaker’s language, count as objective matters of fact. Indeed, as Kirk points out, the exclusion of inner-linguistic connections is particularly striking here, since nobody could hope to tell which sentences belong to the theory, or what the theory is, without paying attention, not only to dispositions to assent or dissent to observation sentences, but also 16
For a seminal discussion of the point, see Evans 1985. Kirk draws a slightly different moral: “It is question-begging to assume that the totality of behavioral dispositions falls short of fixing what those links are”. My formulation avoids Quinean talk of “behavioral dispositions”. 17
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to higher-order dispositions, such as dispositions to revise first-order dispositions under certain circumstances (Kirk 2004, p. 170). No surprise, then, that the Non-Supervenience Thesis has been more attractive than the Anti-Realist Thesis. For the former can be liberated from the latter, and can be supported by a far shorter argument emerging from Quine’s discussion. As McDowell points out, even the identification of assenting and dissenting behavior requires the formulation of analytical hypotheses, so translation is under-determined even in the case of observation sentences (McDowell 1998, pp. 338-340). This can be taken to show something about Quine’s methodological naturalism: That meaning is indeterminate with respect to “empirical significance” has no tendency to show, what would indeed be interesting, that meaning is indeterminate, period. That would require that we have an ineliminable freedom of play when we look for a kind of understanding that takes us outside the ambit of “empirical significance”: a kind of understanding that involves seeing how the phenomena of our subjects’ lives can be organized in the order of justification, the space of reasons. If meaning is indeterminate in this interesting sense, that is not something one could learn at Quine’s feet (McDowell 1994, pp. 156-157).
But here Maimon’s line seems just right. The methodological naturalist and the methodological non-naturalist cannot avoid begging the question against each other. The former will claim the advantage of methodological conservatism, the latter that of content conservatism. No end is in sight to the old enmity between human heels and serpentine fangs. Some available options If the analogy developed so far has been sufficiently illuminating, then it should pay off in the form of further detailed analogies between postKantian responses to Maimon’s reinvigoration of methodological naturalism and contemporary analytic responses to Quine’s parallel move. Here I want to introduce a few such payoffs, without claiming that these exhaust the range of options. One early post-Kantian response to the standoff between transcendental philosophy and methodological naturalism was to revise both Hume’s and Kant’s conceptions of naturalistic methodology. What we need, in this view, is a discipline of anthropology or psychology that is methodologically distinct from physics, but which nevertheless counts as an equally legitimate science. Such responses were developed by the contemporaneous figures for whom the German Idealists have the most contempt: figures such as Carl Christian Erhard Schmid, Jakob Friedrich Fries and Friedrich
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Ernst Beneke, for whom the term “psychologism” seems to have been coined (see Erdmann 1870, vol. 1, p. 636).18 Thus, according to Fries, Kant correctly identifies the transcendental subject matter of philosophy, which aspires to “cognition of the possibility and applicability of a priori cognitions”.19 But Kant errs in thinking that the achievement of transcendental cognition also involves a method that is distinctively transcendental and a priori. Fries calls this error “the transcendental prejudice”, which consists in the assumption that deduction must consist in inferential proof (Beweis). This leads Kant to develop inferential deductions of synthetic a priori principles from the actuality of the experience they enable, which cannot escape from a “logical circle in the proofs” (Fries 1967, vol. 1, p. 25). Kant’s error is in fact an instance of a still more widespread confusion that Fries calls “the rationalist prejudice”: the assumption that all justification is inferential. This has misled philosophers into thinking that every science must take the form of Euclidean geometry, and that all the sciences must form a hierarchy, in which the basic principle of each lower science is provable within a higher science, and in which philosophy must be the highest science of all (Fries 1967, vol. 1, pp. 21-25). Indeed, Humean skepticism arises, in Fries’s view, from the very same prejudice, plus the insight that the principle of causality cannot be inferentially proven. Instead of seeking a novel, non-naturalistic method for the inferential proof of synthetic a priori principles, the transcendental philosopher should abandon the underlying prejudice (Fries 1967, vol. 1, p. 27). Fries intends to reconstruct Kant’s philosophy, by acknowledging that what Kant calls transcendental cognition is “really psychological or, better, anthropological cognition”, and by developing an appropriate method that makes no pretension whatsoever to justificatory force (Fries 1967, vol. 1, p. 29). This is analogous to the method of the existing natural sciences. Thus Fries writes: one has also cast on my philosophical deductions the aspersion of circular proof, but they are not circular, for they are not proof at all. They belong rather to a theory of these cognitions, and the analogous situation is manifest without any difficulty in all inductions in physics. For example, from individual facts I discern the phenomena of electricity, and lead them back to their universal laws; then I assume these laws as principles of a theory of electricity, and explain from them once again those facts with which I began. Only once my reasoning goes, in preparatory fashion, along the regressive path, does it subsequently go along the progressive 18 See Windelband 1880, pp. 386-397, for criticism of Fries as psychologistic. For earlier criticism of “psychological idealism” in Kant and Fichte, see Hegel 1970, vol. 1, pp. 303, 305, 307. 19 Fries 1967, vol. 1, p. 28. Translations from Fries are mine.
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path of the system. In an entirely analogous way, we proceed from the observation of our cognition, showing thereby how human cognition is created, elevating ourselves to a theory of the same, showing which principles, according to this theory, must lie in our cognition, and now deriving once again the individual cognitions and judgments from these principles (Fries 1967, vol. 1, p. 26). The “individual facts” with which Fries begins are what he and others call “facts of consciousness” (Tatsachen der Bewusstsein), such as its unity. These are doubly universal: first, they concern the content or structure of any state of consciousness whatsoever; second, they are recognizable as true by anybody who merely reflects on her own conscious states and acts. We may say, then, that Fries replaces Kant’s metaphysical expositions and deductions with inductive identifications of the facts of consciousness, and he replaces Kant’s transcendental expositions and deductions with explanations of these facts in terms of a priori principles. It is impossible not to recognize here a forerunner of a currently prominent post-Quinean strategy: retain Quine’s methodological naturalism while rejecting his physicalism, thus insisting on the irreducible plurality of natural sciences, and hence on the variety of naturalistic methods. Of course there are crucial differences, both in the general conception of science and in the specific, foundational concepts of the projected science of mind. Still, the hopes for cognitive psychology expressed by, say, Fodor, surely echo Fries’s ambitions for a post-Kantian psychology that would naturalize what was worth preserving in transcendental philosophy without incurring any skeptical consequences.20 Of course, the facts of consciousness approach developed by Fries is anathema to the German Idealists. Though their alternatives have significant commonalities, they are also significantly different. For present purposes, the most important differences concern the possibility and status of a philosophy of nature, the issue over which Fichte and Schelling, abetted by Hegel, had a sharp disagreement in the early 1800s. Let us start with Fichte, who appreciates not only the force of Maimon’s anti-realist challenge but also the power of the resources made available by Maimon’s contributions to transcendental philosophy. Recall that the methodological naturalist may appropriate what the transcendental philosopher treats as categorial necessities by redescribing them as no more than practically indispensable. We may think of Fichte as taking them back again: if we press hard enough on the idea of the primacy of the practical, then these practical indispensabilities may be just what transcendental 20 For a classic argument, see Fodor 1981. For more recent reflections, see Fodor 2001 and 2003.
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philosophy needs! In his Jena Wissenschaftslehre, Fichte proceeds to rethink the theoretical in terms of the practical, so that the fundamental conditions of the possibility of experience are reconceived as anticipatory versions of normative principles that play an essential role in the moral life. At the deepest level lie anticipatory versions of what Kant calls Wille and Willkür: the inescapability of responsiveness to the summons of another, and the freedom to choose how to respond.21 At the same time, Fichte reconfigures transcendental idealism so that it is surprisingly close to the anti-realism of Maimon’s naturalistic challenger. For Fichte, there are necessary conditions of the possibility of experience that are ideal in the sense that, like Kantian ideas of reason, they cannot be empirically realized. Yet, like Kant’s idea of freedom, Fichtean ideas can have effects within the empirical world. Thus the absolute I and God are efficacious ideas, but not in any sense realities. Indeed, the only realities are natural objects of empirical knowledge: “all objects necessarily occupy space, that is, they are material”.22 There can be no transcendental realities, no things in themselves. What, then, distinguishes Fichte’s idealism from naturalistic antirealism? Fichte is prepared to agree with Maimon and hence with Hume that the imagination plays an essential role in experience. It is involved, not merely in the schematization of the categories, but also in the generation of the categorial form and, indeed, even of the sensible matter of cognition. Its activity is regulated by the aforementioned ideas. However, Fichte rejects the anti-realist characterization of the imagination as generating “deception”. Every deception must contrast with the possibility of truth. If the imagination is practically indispensable in the sense that rational agency is impossible without it, then there is no alternative, and so there is no deception.23 Instead, the imagination should be understood in transcendental terms, as constituting the possibility of experience, both formally and materially. 21
Fichte’s second Jena presentation illustrates this line of thought better than his first. See Franks 2005, pp. 313-325. 22 Fichte 1971, vol. 1, p. 247. Translations from Fichte are mine. 23 Fichte 1971, vol. 1, p. 227: “It is accordingly taught here that all reality – self-evidently for us, for it cannot be understood otherwise in transcendental philosophy – is merely brought forth by the imagination. One of the greatest thinkers of our age, who – so far as I understand – teaches the same doctrine – calls this a deception of the imagination. But every deception must contrast itself with truth, every deception must let itself be avoided. So if it is proven, then, as it should have been proven in the present system, that on that act of the imagination is grounded the possibility of our consciousness, our life, our being for ourselves, i.e., our being an I – then that act cannot be removed if we should not abstract from the I, which is an abstraction, insofar as it is impossible for that which does the abstracting to abstract from itself. Therefore it does not deceive, rather it gives truth, and the only possible truth”.
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Of course, this is hardly a refutation of naturalistic anti-realism. For it is not true that there is no alternative. It would be more accurate to say that there is no alternative that preserves the content of our self-understanding as rational agents. In short, the transcendental philosopher still claims content conservatism, to which the methodological naturalist will oppose methodological conservatism, and the standoff continues. Fichte is well aware of this. He hopes, however, to have made fully explicit what was implicit in Kant’s philosophy: that it is not only science but also rational agency that is at stake. Brandom is a contemporary proponent of an analogous strategy. Though he typically appeals to Hegel rather than to Fichte, much of what he appreciates in Hegel is in fact Fichtean,24 and the lesson he learns from Quine’s Non-Supervenience Thesis is a Fichtean overcoming of the dualism of theory and practice: Carnap and the other logical positivists affirmed their neo-Kantian roots by taking over Kant’s two-phase structure: first one stipulates meanings, then experience dictates which deployments of them yield true theories […]. Quine rejects Carnap’s sharp separation of the process of deciding what concepts (meanings, language) to use from the process of deciding what judgments (beliefs, theory) to endorse […]. There is only one practice – the practice of actually making determinate judgments. Engaging in that practice involves settling all at once both what we mean and what we believe […]. The actual use of the language settles – and is all that could settle – the meanings of the expressions used. Hegel is a pragmatist also in this monistic sense. He aims at a conception of experience that does not distinguish two different kinds of activity, one of which is the application of concepts in (determinate) judgment and action, and the other of which is the institution or discovery of those concepts (by “judgments of reflection”) (Brandom 2002, pp. 214-215).
In other words, if use is all that could determine meaning – if there is no alternative, or at least no alternative that preserves meaning – then meaning is just as determinate as use enables it to be, and there is no “meaning in itself” of which use falls short. Meaning may not be a natural reality, susceptible to investigation with the help of naturalistic methods, but it can be accounted for by non-naturalistic methods, and there is consequently no need to adopt Quine’s disparaging “double standard”. Neither Fichte nor Brandom says much about nature. They accept the dichotomy of nature and rational agency or meaning, and seek to develop the only – or, at least, the optimal – account of the conditions and structure of rational agency of meaning, leaving nature to its own devices. But this is 24 This is not to deny that there are distinctively Hegelian features of Brandom’s thinking. I hope to discuss these in an essay on holism and nihilism in German Idealism and in postQuinean analytic philosophy.
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just the bone of contention between, on the one hand, Fichte and, on the other hand, Schelling and Hegel, who insist that the transcendental account of rational agency must be accompanied by an account of nature that explains how it is possible for natural beings to be rational agents. After all, despite all Fichte’s efforts, the success of his ambitious project would still leave methodological naturalism, radicalized by Maimon, intact and unfriendly to rational agency. As long as natural psychology or anthropology are obliged to account for acknowledgments of normative principles and of inferences in terms of mechanisms whose explanation involves no notion of validity whatsoever, the naturalistic serpent can still bite the transcendental philosopher’s heel. And this remains the case: while Fichte derives some principles constitutive of organic and inorganic nature, he does so only insofar as the natural world is assumed to provide the background and the instruments for rational action. Only the human world, not the natural world, can be said to incarnate reason. Consequently, naturalistic thinking remains unaccommodating to rational agency. One can see the attraction of a more direct approach, in which one seeks to understand nature in general as the incarnation of reason – so that even inorganic nature is, in a phrase drawn by Hegel from Schelling, “petrified intelligence” – with the consequence that no natural scientific explanation is adequate unless it can be placed within a framework that renders rational agency intelligible (Hegel 1970, vol. 9, p. 24). Idealisms of this sort, unlike those of the Fichtean variety, are aptly characterized as forms of realism about ideas. McDowell’s naturalism of second nature adopts a more modest analogue of this strategy. Its goal is not to give a positive account of the possibility that natural beings can be rational agents, but rather to dissolve the sense that this is an impossibility: Given the notion of second nature, we can say that the way our lives are shaped by reason is natural, even while we deny that the structure of the space of reasons can be integrated into the layout of the realm of law (McDowell 1994, pp. 87-88).
Of course, it is far from clear that the methodological naturalist is obliged to think in terms of second nature at all. But McDowell’s aim is not, I think, to resolve the standoff. It is, rather, to enable the transcendental philosopher to sleep with an easy conscience. Could anything resolve the standoff? Maimon’s view is that pure mathematics is not susceptible to naturalistic methods. Certainly mathematics is a hard case for methodological naturalism, and it deserves closer consideration than it has so far received from the contemporary proponents of analogues of German idealism.
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Another alternative is to develop a closer analogue to the naturephilosophies of Schelling and Hegel. The maximally ambitious Schellingian program is to reform natural science itself, showing that it does a better job by its own lights if it employs concepts of proto-rationality to explain how first nature gives rise to second nature. The more modest – but still ambitious – Hegelian program aims to employ distinctively philosophical methods to interpret the results of natural science as contributions to an account of the proto-rationality of nature, and hence of the naturalness of reason.25 In both cases, of course, it would have to be shown that it is impossible to take an anti-realist attitude to proto-rationality. And it is unclear what would show this. Schelling’s program has the advantage of downplaying the distinction between the methods of natural science and the methods of philosophy, making the former more like the latter in a way that would seem to render an anti-realist attitude towards some methods and not others arbitrary. But this maximalist program is unattractive in an age of specialization, when philosophers are highly unlikely to contribute to physics and vice-versa. The merits of these options require discussion elsewhere. Meanwhile, Maimon continues to be a helpful guide, not only to post-Kantian philosophy, but also to its post-Quinean descendant. If you cannot defang the serpent, you must learn how to treat snakebites, and how to walk with swollen heels. Department of Philosophy Yale University, U.S.A. E-mail: [email protected]
References Brandom, R. 2002: Tales of the Mighty Dead, Cambridge, Mass., Harvard University Press. Carnap, R. 1956: Meaning and Necessity, Chicago, Ill., University of Chicago Press. Carnap, R. 2002: The Logical Syntax of Language, Chicago, Ill., Open Court. Erdmann, J.E. 1870: Grundriss der Geschichte der Philosophie, Berlin, W. Hertz. Evans, G. 1985: “Identity and Predication”, in Id., Collected Papers, Oxford, Oxford University Press, pp. 25-48. Fichte, J.G. 1971: Sämmtliche Werke, Berlin, Walter de Gruyter. 25
For the distinction, see Stone 2005, pp. 86-89.
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Christoph Asmuth
Salomon Maimon und die Transzendentalphilosophie ganz grundsätzlich
Abstract: Salomon Maimon and the Transcendental Philosophy Fundamentally Salomon Maimon develops a new theory of reason (ground) and cause in the principle of determinability. Fichte uses Maimon’s concept in his Wissenschaftslehre and influences the philosophy of German idealism. Johann Baptist Schad, an almost unknown philosopher at the beginning of the 19th century, is an example of the development of this concept. Hegel’s Logic of Essence deals with this theory of reason in the transition from reflection to appearance. Keywords: Reason (Ground), Cause, Concept, German Idealism, Transcendental Philosophy.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel erwähnt Salomon Maimon mit keiner Silbe.1 Das ist schon als bloßes Faktum interessant; denn Hegel schreibt ansonsten über alle und jeden, von deren Philosophie er Kenntnis hatte. Und das waren bekanntlich nicht wenige. Seine Rekonstruktion der Philosophiegeschichte im Ganzen wie auch die Analysen seiner eigenen Zeit samt deren Vorgeschichte nehmen in seinen Überlegungen einen großen Raum ein. Sie rechtfertigen durch die gleichzeitige Ablehnung und Anverwandlung den systematischen Fortschritt, den sich Hegel selbst zugute hielt (vgl. Asmuth 2010). – Für Richard Kroner indessen ist es offenkundig, dass Salomon Maimon unbestritten eine wichtige Rolle für die Entwicklung der klassischen deutschen Philosophie zugewiesen werden muss (vgl. Kroner 1921/1924, S. 326-361). In seiner Darstellung wächst die Philosophie zwischen Kant und Hegel mit der Kontinuität eines Lebewesens. Wie eine Pflanze entwickelt sich der kräftige gewachsene Baum der klassischen deut-
1 Das gleiche Schicksal erleidet Maimon auch in der Forschungsliteratur. Thematisch hätte der Beitrag Maimons zum Problem des Grundes in dem umfangreichen Werke Dieter Henrichs (1992) gewürdigt werden müssen. Die Konzentration auf historische Richtigkeit – Hölderlin hat die Schriften Maimons möglicherweise nicht zur Kenntnis genommen – kann den Ertrag, den eine Beschäftigung mit Maimon in systematischer Hinsicht gebracht hätte, nicht ganz ersetzen.
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schen Philosophie in ganz natürlicher Weise. Aber vielleicht hängen die Früchte am falschen Baum? Oder die falschen Früchte am richtigen Baum?2 Die folgende Untersuchung widmet sich dieser Frage, allerdings nur in einem kleinen Ausschnitt. Die Frage, ob Hegel nun Salomon Maimon kannte und seine Bedeutung für die klassische Philosophie durch konstante Nichterwähnung schmälerte oder ob ihm die Position Maimons unbekannt blieb, werde ich nicht beantworten können. Ich konzentriere mich darauf, einen besonderen Aspekt hervorzuheben und das Konzept des Grundes, wie es bei Maimon vorliegt und insbesonder durch den Satz der Bestimmbarkeit grundsätzliche Bedeutung erlangt, in seiner Fruchtbarkeit darzustellen und zu prüfen (vgl. Buzaglo 2002; Engstler 1990; Freundenthal 2003; Gueroult 1929; Kuntze 1912). Am Anfang der Philosophie sind Grund, Ursache und Anfang konfundiert. Die vorsokratische Suche nach einem Prinzip (arché) unterscheidet noch nicht deutlich zwischen Grund und Ursache. Erst bei Aristoteles kommt es – wie in vielen anderen begrifflichen Entwicklungen auch – zu einer Konsolidierung des philosophischen Sprachgebrauchs. Er unterscheidet zwischen arché (Prinzip) und aitía (Ursache). Natürlich kennt Maimon seinen Aristoteles – allerdings sieht er ihn durch die Brille der LeibnizWolffschen-Schule. Das zeigt Maimons Philosophisches Wörterbuch in aller Deutlichkeit. Maimon zählt dort nicht nur die vier Arten von Ursachen nach Aristoteles auf, sondern unterscheidet auch zwischen der Ursache und dem Grund: “Ursache ist dasjenige, was den Grund vom Wirklichwerden eines bloß möglichen Dinges, enthält” (Maimon 1791, 143). Der Grund erscheint hier als das Allgemeine, die Ursache als das Besondere. Ursache ist ein genauer bestimmter Grund, nämlich derjenige, der den nur möglichen Gegenstand zu einem wirklichen macht. Gründe gibt es folglich auch von möglichen Dingen, von wirklichen Dingen heißen die Gründe besser Ursachen. Zu diesem eher unspezifischen Gebrauch des Grund-Begriffs gesellt sich bei Maimon der ganz terminologisch gebrauchte Ausdruck “Grundsatz”. Grund hat im deutschen eine ambivalente Bedeutung. Anders als im Lateinischen ratio, im Englischen Reason oder im Italienischen ragione bedeutet Grund im Deutschen auch Basis oder Fundament, Gründung. Außerdem gibt es Redewendungen wie die, einer Sache auf den Grund zu gehen oder, worauf Hegel besonders hinweist, zugrunde zu gehen, d.h. aufgelöst und vernichtet zu werden, unterzugehen. Mit Grundsatz übersetzt die Leibniz-Wolffsche Schule den Terminus Axiom, wie er bei Euklid in den Elementen vorkommt. Der Grundsatz bildet das Fundament und gibt Prin2 Diese Fragen liegen außerhalb des Ansatzes von Beiser (2002), der sich ganz auf die Rolle beschränkt, die Maimon für Fichte gespielt hat.
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zipien und Axiome. In diesem Sinne kann Maimon den Satz vom zu vermeidenden Widerspruch als Grundsatz der Logik bezeichnen. Analog ist der Satz der Bestimmbarkeit der Grundsatz der Transzendentalphilosophie. “Der erste Grundsatz alles reellen, Objekt bestimmenden Denkens ist der von mir sogenannte Satz der Bestimmbarkeit” (Maimon 1794, S. 20).3 Dieser Grundsatz drückt den “allgemeinen Grund des reellen, Objekt bestimmenden Denkens” aus. Der Grundsatz drückt also selbst einen Grund aus. Der Grundsatz ist selbst Ausdruck eines Grundes. Dabei ist zu beachten, dass Maimon einen strengen transzendentalphilosophischen Zugang wählt. Die oberste Funktion des Erkenntnisvermögens sei das Bewusstsein. Was nicht wenigstens der Möglichkeit nach Gegenstand des Bewusstseins sein könne, kann auch nicht erkannt werden. Maimons Überlegungen verlängern und radikalisieren das Projekt der Transzendentalphilosophie. Die transzendentalphilosophische Methode stützt sich dabei erstens auf den Terminus “Bewusstsein”.4 Das Schlagwort “Bewusstsein” gehört, obwohl es bereits beim kritischen Kant prominent ist, in die Geschichte der Ausweitung und Entgrenzung der transzendentalphilosophischen Theoriebildung nach Kant (vgl. Asmuth 2009, S. 221249). Während Kant in der Kritik der reinen Vernunft noch das Ziel einer unterscheidenden Prüfung der Möglichkeit synthetischer Urteile apriori verfolgte, setzen die produktiven Weiterdenker Kants auf das Bewusstsein überhaupt. Der abgegrenzte Bereich der metaphysischen Urteile wird entgrenzt und durch den Grundbegriff “Bewusstsein” substituiert. Interessanterweise ersetzt bei Maimon der Begriff Bewusstsein zugleich jene Stelle, die bei Kant die transzendentale Apperzeption einnimmt, das transzendentale Ich als höchsten Punkt des Verstandesgebrauchs. Bewusstsein bei Maimon vermeidet damit jenen – für die Kant folgenden Selbstdenker – unangenehmen Vermögensdualismus von intuitiven und diskursiven Erkenntnisvermögen. Damit beerbt der Begriff des Bewusstseins zugleich die Funktion, welche die Vorstellung bei Kant einnimmt, bei dem bekanntlich die “Vorstellung” (repraesentatio) den Oberbegriff bildet, dem Sinnlichkeit, Verstand und Vernunft gleichermaßen subsumiert sind (vgl. Kant AA, 3, A329, B376f.). Damit bildet die Vorstellung bei Kant die von den Nachkantianern kaum beachtete Verbindung zwischen den gegeneinander gerichteten Erkenntnisvermögen. 3 Vgl. zum Prinzip: Breazeale 2003, S. 115-140; Lee 2008, S. 241-264; Schechter 2003, S. 18-53. 4 Vgl. Maimon 1794, S. 15: “Die allgemeinste (und daher unbestimmteste) Funktion des Erkenntnißvermögens, die allen seinen Aeußerungen zum Grunde liegt, ist das Bewußtseyn überhaupt”.
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Zweitens verlängert Maimon die Transzendentalphilosophie Kants, indem er einen begrifflich radikalisierten Gebrauch der Möglichkeitsbedingung ins Spiel bringt. Während Kant sich damit zufrieden gab, Möglichkeitsbedingungen anzugeben, entdeckt Maimon das offensive Potential, das in den Möglichkeitsbedingungen schlummert: “Das Bewußtseyn überhaupt, als das absolute Bestimmbare in unserm Erkenntnißvermögen, kann zwar nicht abstrahirt von allen möglichen Bestimmungen des Bewußtseyns dargestellt, es kann aber abstrahirt von allen möglichen Bestimmungen gedacht werden” (Maimon 1794, S. 15f.). Die Idee der Bestimmbarkeit hängt von dem abstrakten Gedanken ab, dass das Bewusstsein überhaupt die erste Möglichkeitsbedingung aller objektiven Erkenntnis ist. So lässt sich zwar das Bewusstsein überhaupt ohne Bestimmungen denken, die Bestimmungen des Bewusstseins aber nicht unabhängig von einem Bewusstsein, welches die Bestimmungen bestimmt. Maimon schwebt hier bereits die Idee eines absoluten Subjekts vor, das Garant ist für die Objektivität aller realen Objekte. Möglichkeit und Wirklichkeit werden als ein Verhältnis gedacht, das es erlaubt die bedingende Funktion der Möglichkeitsbedingungen in einer bloß möglichen Konstruktion zu verankern, um die Frage der Zulässigkeit von Geltungsansprüchen zu beantworten (quid juris). Ist das bloß Mögliche auch wirklich, sind Möglichkeitsbedingungen, zugleich Bedingungen der Wirklichkeit. Möglichkeitsbedingungen können einen Geltungsanspruch begründen, obwohl sie als Möglichkeitsbedingungen ohne wirkliches Substrat auskommen – sei dies Gott, Natur, Geschichte oder Materie. Der Satz der Bestimmbarkeit fußt auf der grundsätzlichen Einsicht Maimons in die abstrakte erste Möglichkeitsbedingung alles Objekterkennens, nämlich des völlig unbestimmten Bewusstseins überhaupt. So kann Maimon, einerseits, folgern, dass das Bewusstsein überhaupt sich in keinem konkreten Bewusstsein darstellt, aber dennoch durch Abstraktion und Reflexion gedacht werden kann (vgl. Fichte GA, I, 2, S. 255). Andererseits – und das verbindet Maimon mit der nachkantischen Generation der “jungen Wilden” – kann er durch diese Grundoperation ein undingliches, nicht substrathaftes Subjekt denken. Das bestätigt Maimon selbst: “Der Satz der Bestimmbarkeit also, der das Verhältniß der in einer Einheit des Bewußtseyns zu verbindenden Glieder des Mannigfaltigen in Ansehung des Bewußtseyns überhaupt ausdrückt, ist der Grund aller dadurch gedachten reellen Objekte” (Maimon 1794, S. 372f.). Maimon ist sich darüber im Klaren, dass der Satz ein Ausdrucksgeschehen ist. Das, was der Satz der Bestimmbarkeit ausdrückt, ist eine Verbindung. Damit greift er Kants Kritik der reinen Vernunft auf, die nicht nur Erkenntnis als Synthesis begreift, sondern die Synthesis prinzipiell der Analysis voraussetzt (vgl. Kant AA, 3, B134 Anm.). Ferner sieht er – auch hierin Kant folgend –, dass Synthesis – als Handlung des Bewusstseins – die Ein-
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heit des Bewusstseins voraussetzt. Damit rückt Maimon den Grundsatz der Bestimmbarkeit ganz in die Nähe der transzendentalen Apperzeption Kants. Maimons Grundsatz konzentriert sich allerdings auf die Bestimmung der reellen Objekte. Das spricht schon aus der Benennung als Grundsatz der Bestimmbarkeit. Es geht ihm nämlich, anders als Kant, nicht um die prüfende Untersuchung synthetischer Urteile a priori, sondern um die Konstruktion der Objekterkenntnis. Dass damit in letzter Hinsicht die Unterscheidung synthetischer von apriorischen Urteilen fällt, wie Maimon und Fichte bereits 150 Jahre vor Quine und mit anderer Begründung als jener erkannten, sei hier nur ganz am Rande erwähnt (vgl. Quine 1953; Putnam 2001). Für Maimon jedenfalls fällt die Entgegensetzung von Sinnlichkeit und Verstand fort. Dadurch erübrigt sich die transzendentale Reduktion der Dinge an sich auf Erscheinungen. Getilgt ist damit zugleich die methodische Notwendigkeit, das Ding an sich als Grenzbegriff zu denken. Für die Perspektive des transzendentalen Idealismus wird nach Maimon das missverständliche Ding an sich, das seine Legitimität aus der methodischen Anlage der Kritik der reinen Vernunft bezog, aufgegeben. Bis heute provoziert das Ding an sich Kants verhängnisvolle Missverständnisse, die aus Kants kritischem Anliegen die Karikatur philosophischen Denkens machen. Bisweilen erstaunt der Mangel an Benevolenz Kant gegenüber gerade bei Autoren, die offensichtlich ihre wissenschaftliche Existenz der Transzendentalphilosophie Kants verpfändet haben. Anders Maimon! Seine respektvollen Worte Kant gegenüber zeigen, dass er sich dessen Projekt gegenüber verpflichtet weiß. Er liest Kant nicht durch die Brille der Garve-Feder-Rezension.5 Sein Interesse speist sich aus rationalistischen Quellen und erinnert stark an Leibniz (vgl. Yakira 2003). Dazu verhilft ihm seine große mathematische und logische Begabung, die sich in seinen philosophischen Schriften als paradigmatisch erweist. Dies betrifft nicht zuletzt die Begriffe “Konstruktion” und “Darstellung”, die bei Maimon ihren mathematischen Klang behalten. In gewisser Hinsicht ist Kants Kritik der reinen Vernunft für Maimon noch zu sehr dem Empirismus verhaftet. Von großer terminologischer Bedeutung und signifikant für Maimons positive Anknüpfung an Kant ist die Wendung, die für Maimon 5 Die Rezension war 1782 anonym erschienen (in: Zugabe zu den Göttinger Gelehrten Anzeigen, 19. Januar 1782, 3. Stück, S. 40-48). Sie stammte ursprünglich von Christian Garve, wurde aber von Johann Georg Heinrich Feder in Ton und Inhalt verschärft. Die Rezension unterstellt Kant eine Position, die etwa George Berkeley vertreten hat. Diese Rezension steht prototypisch und richtungsweisend für eine Interpretation der Philosophie Kants, welche die transzendentale und damit methodische Wendung bei Kant nicht berücksichtigt und den Transzendentalen Idealismus, der für Kant zugleich empirischer Realismus ist, für einen subjektiven Idealismus ausgibt.
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der Begriff des “Denkens” nimmt. Während Kant den Begriff der Erkenntnis vorzieht, der immer auf synthetische Urteile, als Erkenntniserweiterung, zielt, betont Maimon die systematische Funktion des Denkens. Während für Kant bloßes Denken noch viel zu unbestimmt bleibt – denken lässt sich schließlich alles Mögliche – fällt bei Maimon letztlich jede reale Bestimmung des Objekts unter die Bedingungen des Denkens. In diesem Sinne könnte man sagen, dass das Denken für Maimon gerade unbestimmt genug ist, um funktional den Grund für jedwedes bestimmte Objekt abzugeben. Offenkundig ist hier nicht von Grund im Sinne der antiken Tradition die Rede. “Grund überhaupt ist eine Bedingung, unter welcher etwas als nothwendig, wirklich, oder möglich, gedacht wird, oder, an sich ist. Das erste ist Erkenntnißgrund, das zweite Realgrund” (Maimon 1794, S. 20). Die Unterscheidung Erkenntnis- und Realgrund kann seine Herkunft aus der Leibniz-Wolffschen-Schule nicht verleugnen (vgl. Leibniz 1954, § 32f.). Interessant ist allerdings, dass Maimon den Grund als Bedingung fasst. Das unterstreicht zunächst seine Auffassung, dass es beim Grund um ein Element des Denkens geht. Gründe, auch die Realgründe, müssen in letzter Instanz gedanklicher Natur sein. “Die allgemeine Erkenntniß ist der Grund oder die Bedingung der darunter begriffenen besonderen” (Maimon 1794, S. 21). Insofern muss die allgemeinste Erkenntnis allen Erkenntnissen zugrunde liegen und der Satz der Bestimmbarkeit der Grund aller objektiven Erkenntnis sein. So heiß es schon im Versuch: “Grund eines Objektes: ist eine Regel oder Bedingung, wonach ein Objekt vorgestellet werden kann. Das Objekt ist das darin Gegründete” (Maimon 2004, S. 63). Das folgt Kants Kritik der reinen Vernunft, die den Satz vom zureichenden Grunde als Grund der Erfahrung auffasst (Kant AA, 3, B245f.). Für Kant besteht der Satz vom Grunde in der “Regel, etwas der Zeitfolge nach zu bestimmen […]: daß in dem, was vorhergeht, die Bedingung anzutreffen sei, unter welcher die Begebenheit jederzeit […] folgt” (Kant AA, 3, B245). Der Grund ist in der Transzendentalphilosophie Kants ebenfalls Bedingung, nämlich Bedingung der Erfahrung. Maimon verallgemeinert diese Auffassung des Grundes als Bedingung und bezieht sie auf das Denken überhaupt, nicht nur auf die Logik, sondern auch auf das reelle Denken. Im Jahr 1792 veröffentlichte Gottlob Ernst Schulze anonym die gegen die Fundamentalphilosophie Reinholds gerichtete Schrift Aenesidemus, oder Ueber die Fundamente von Herrn Prof. Reinhold in Jena gelieferte Elementar-Philosophie. Nebst einer Vertheidigung des Skepticismus gegen die Anmaaßungen der Vernunftkritik. Das Publikum sah verwundert zu, wie eine neue Generation von Philosophen mit neuen Argumenten gegen die Transzendentalphilosophie auftrat. Natürlich konnte dieser Angriff nicht unbeantwortet bleiben. Neben Johann Gottlieb Fichte, der in einer Rezension
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bereits 1793 auf den sog. Aenesidemus-Schulze,6 antwortete, setzt sich auch Maimon mit dem skeptischen Kritiker auseinander. Tatsächlich hat die durch Schulze vorgebrachte Kritik ein viel größeres argumentatives Potential als die Garve-Feder-Rezension oder die plumpen Attacken eines Friedrich Heinrich Jacobi,7 weshalb der Aenesidemus-Schulze unter allen frühen Kritikern der philosophisch weitaus produktivste gewesen ist. Natürlich geht es auch bei Aenesidemus-Schulze um die transzendentale Reduktion der Dinge an sich auf Erscheinungen. Seine Skepsis richtet sich vor allem auf die Frage, ob die kritische Philosophie Kants und in dessen Nachfolge Reinholds tatsächlich das Problem der Begründung der Kausalität, wie Hume es aufgestellt hatte, auflösen können. Damit läuft Aenesidemus-Schulze genau in das Fahrwasser der Überlegungen Maimons, der Kausalität, das Verhältnis von Ursache und Wirkung, ganz im Sinne Kants als Bedingungsverhältnis denkt (vgl. Baum 1979; Klapp 1968). Aus diesem Grund opponiert Maimon auch gegen die Philosophie eines natürlichen Realismus, der die Verursachung an ein Verhältnis der Dinge an sich untereinander und zum Vorstellungsvermögen knüpft. Maimons Kritik der Kritik darf als ein Glanzstück transzendentaler Argumentation gelten, denn er spießt die These des Aenesidemus-Schulze an einer entscheidenden Stelle auf. “Aber was wird durch die Voraussetzung der Dinge an sich außer der Vorstellung in Ansehung dieser erklärt? und wird hier nicht selbst der arme Indianer seine Frage erneuern: und worauf endlich die Schildkröte? Die Frage ist: warum habe ich eben jetzt die Vorstellung des Hauses und nicht die Vorstellung des Baumes z.B. die ich ebenfalls jetzt hätte haben können […]? und die Antwort ist: weil das Haus als Ding an sich jetzt in der Ordnung und Verbindung wirklich existirt. Sollte man nicht weiter fragen: warum existirt das Haus an sich eben jetzt und und in der Ordnung und Verbindung, da an seiner Stelle auch etwas anders existiren könnte? Hier ist abermals eine Täuschung, die auf dem
6 Für Fichte scheint jedenfalls lange – ob vielleicht sogar für immer, das entzieht sich meiner Kenntnis – in Unwissenheit darüber geblieben zu sein, wer der Autor dieser Kritik der kritischen Philosophie gewesen ist. Dabei ist dieses Detail durchaus pikant. Fichte und Schulze kannten sich nämlich gut, denn sie hatten gemeinsam von 1774-1780 die gleiche Schulbank gedrückt. Es gibt sogar Berichte, dass beide gemeinsam Vorlesungen in Wittenberg besucht hätten. (Fuchs 1991, S. 114). – Auch die Bücher von Stefano Bacin (2007, S. 24) und Armin Wildfeuer (1999, S. 267f.) vermögen hier kaum weitere Auskünfte zu geben. Dabei ist die Geschichte in mehrfacher Hinsicht interessant; spannend, natürlich, wäre es zu erfahren, ob und welche Reaktion von Fichte gekommen wäre. Mindestens ebenso spannend ist die Situation, weil später Arthur Schopenhauer angibt, sowohl bei Fichte als auch bei Schulze studiert zu haben. 7 Attacken, die nicht frei sind von anti-judaistischem Ressentiment, wie Hartmut Traub (2003, S. 131-150) zeigte.
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Begriff von Grund beruht” (Maimon 1794, S. 429).8 Maimon beantwortet die Einwürfe des Aenesidemus-Schulze auf einem neuen Niveau: Die Dinge an sich sind selbst eine Voraussetzung, sie setzen einen Akt des Denkens bereits voraus, der gerade die Nachfrage nach einem weiteren Warum motiviert. Maimon wirft Aenesidemus-Schulze nicht vor, diese Frage nicht beantworten zu können, sondern weist darauf hin, dass das Warum in die falsche Richtung zielt, nämlich auf die Dinge. Der Grund der Erkenntnis der Dinge liegt nicht in den Dingen, sondern im Denken. Lapidar formuliert Maimon deshalb: “Grund bezieht sich niemals aufs Daseyn, sondern auf die Erkenntniß” (Maimon 1794, S. 430). Maimon bietet die ganze Kraft des transzendentalen Ansatzes auf, um Aenesidemus-Schulze zu überzeugen, dass die kritische Philosophie mit dem natürlichen Realismus insofern verträglich ist, dass sie die Welt nicht in eine bloß subjektive Einbildung verwandelt. Sie unterscheidet sich vom natürlichen Realismus, der für Kant noch Empirismus ist, nur durch ihre methodische Wendung der Frage: quid juris? Es geht in der transzendentalen Deduktion um die Prüfung der Befugnis zum Gebrauch kategorialer Begriffe. Deshalb spielt die Frage nach dem Grund eine so bedeutende Rolle. Der Grund ist nämlich nach Maimon nichts anderes als die Einheit, “wodurch das Mannigfaltige in unserer Erkenntniß, nach Gesetzen des Erkenntnißvermögens verbunden wird” (Maimon 1794, S. 430). Er ist insofern der Rechtsgrund zur Verbindung des Mannigfaltigen in einer objektiven Erkenntnis. Um es paradox zu formulieren: Die Einheitsbildungen des Subjekts und die durch es gestifteten Verbindungen, also die Subjektivität des Subjekts, garantieren die Objektivität des Objekts. Maimon fasst seine Überlegung kurz allgemein zusammen: “Das Allgemeine ist Grund von dem Besondern in unserer Erkenntnis” (Maimon 1794, S. 430). Der Begriff ist der Grund der Erkenntnis auch des Konkreten. Selten ist so klar ausgedrückt worden, dass die Frage danach, wie die Bedeutung in die Welt kommt, falsch gestellt ist. In einer naturalistischen Perspektive müsste die Welt untersucht werden, wie sie Bedeutung hervorbringt. Aber vor der konkreten Welt, ist der Begriff bereits gesetzt. Der Grund der Bedeutung liegt – wie Maimon beweist – im Begriff, nicht in der Welt. Es ließe sich leicht aufweisen, wie gerade Johann Gottlieb Fichte die Anregungen Maimons aufnahm und systematisch verwertete (vgl. Beiser 8 Maimon bezieht sich mit dem “armen Indianer” auf John Locke (1961, II, 13, § 19) – Maimon geht es weniger um den Hinweis auf einen entstehenden Regress als – mit Locke – um die offenkundige Unwissenheit des Inders (was freilich heute als nicht wirklich politisch korrekt bezeichnet werden könnte), der bekennt, das die Schildkröte auf irgend etwas steht. Vgl. ferner Henrich 1963, S. 281-291.
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2003). Das zeigt die erste und einzig gedruckte Fassung der Wissenschaftslehre (1794/95) eindrücklich. Schon die Titelgebung erhebt den Anspruch einer Grundlage (Fichte GA, I, 2, S. 249ff.) die ersten Paragraphen bieten Grundsätze. Der erste Grundsatz möchte den Grund allen Bewusstseins aufsuchen. Am Ende des §1 kommt Fichte namentlich auf Maimon zu sprechen (Fichte GA, I, 2, S. 261). Insbesondere jedoch Fichtes Bemerkungen zum dritten Grundsatz stellen das Thema des Grundes vollends in den Mittelpunkt. Dort spricht er von einem “Merkmal”, das den Grund abgibt für Gleichheit und Entgegensetzung und dem entsprechend Beziehungsoder Unterscheidungsgrund genannt werden müsse. Ich möchte hier jetzt aber einen anderen Autor zu Wort kommen lassen, nämlich Johann Baptist Schad, ein Philosoph der seine Wurzeln im Umfeld der Jenaer Philosophie Fichtes hatte und – wie Maimon – zu Unrecht vergessen ist und – ebenfalls wie Maimon – seine äußerst windungsreiche Lebensgeschichte aufschrieb. Schad fühlte sich dazu berufen, die neue Philosophie Fichtes populär zu machen. Eine Gemeinfaßliche Darstellung des Fichteschen Systems (1800) sollte der bereits von Fichte in der Vorrede zur Grundlage zugestandenen Dunkelheit abhelfen. Dabei versucht er eine offensichtliche Schwäche der ersten Wissenschaftslehre Fichtes zu reparieren. Fichte hatte sich nämlich die Schwierigkeit eingehandelt, wie das tathandelnde Ich als Grund allen Bewusstseins überhaupt Gegenstand einer philosophischen Reflexion werden könne. Er behauptet mit Maimon, dass der Grund allen Bestimmens in einem unbestimmten, aber bestimmbaren Prinzip bestehen müsse. Dieses Prinzip konfundiert er mit der transzendentalen Apperzeption Kants und nennt es absolutes Ich. Ein Ich, dessen Handlung in dem Setzen seiner selbst besteht. Allerdings argumentiert Fichte, dass diese Tathandlung zwar allem empirischen Bewusstsein zugrunde liege, selbst aber kein möglicher Inhalt des empirischen Bewusstseins sein könne (vgl. Fichte GA, I, 2, S. 255). Das Argument liegt auf der Hand: Was über keinerlei Bestimmungen verfügt, besitzt keine Merkmale, um im empirischen Bewusstsein überhaupt identifiziert zu werden. Fichte spricht zwar davon, die Thathandlung könne gedacht werden, gibt aber zunächst keine weiteren Erläuterungen zu diesem Denken. Fichte selbst schlägt später einen Ausweg vor, indem er sich auf die intellektuelle Anschauung beruft. Schad geht zunächst einen anderen Weg, bevor er zur intellektuellen Anschauung kommt, einen Weg, der ihn in die Spur Maimons bringt: “Wenn von dem letzten Grunde des menschlichen Wissens die Rede ist, so ist es wohl möglich, daß derselbe an und für sich nicht selbst ein Wissen sei, sondern nur etwas sey, wodurch das Wissen überhaupt möglich wird. Alles Wissen ist ein Vorstellen; jedes Vorstellen ist bestimmt, also ist auch jedes Wissen bestimmt: folglich ist es nicht bloß möglich, daß dasjenige, was allem Wissen zum Grunde liegt, ursprünglich nicht selbst ein Wissen
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sey; sondern es muß sogar etwas anderes seyn. Wird nun der letzte Grund alles Wissens gedacht, so fällt er als etwas Gedachtes als ein Satz, in die Sphäre des Denkens […]” (Schad 1800, S. 34). Schad etabliert durch die Trennung von Wissen und Denken eine neue Ebene, auf der er den Grund des Wissens ansiedeln kann. Schad erkauft diese Ebene durch die Zurückstufung des Wissens auf die Vorstellung. Das Denken übernimmt nun die Aufgabe, den Grund des Wissens, d.h. den Grund des Vorstellens, zu denken, aber nicht als Denken, wie Schad betont, sondern als Anschauung, die insofern intellektuell ist. Stärker als Fichte sieht Schad, dass es zu unüberwindlichen systematischen Problemen kommen kann, wenn der Wissensbegriff monistisch aufgefasst wird. Denn ist alles dies Wissen, von der Empfindung bis zur Vorstellung, von der dumpfesten Perzeption bis zur hehrsten Idee, dann fällt auch die philosophische Reflexion in die Sphäre dieses Wissens, und es gibt keinen Ort mehr und kann auch keinen geben, von dem her der Grund des Wissens selbst thematisch werden kann. Der Begriff des Denkens dürfte prädestiniert gewesen sein, um diese Aufgabe zu erfüllen. In der Rekonstruktion Schads scheint die Auffassung Maimons durch, dass es nicht der Wissensbegriff ist, der in der Lage ist, den Grund des Denkens zu fassen, sondern das Denken selbst. Für Maimon ist damit ein dominierender Akzent auf das mathematische Wissen verbunden (vgl. Freudenthal 2010; 2012). Immer wieder kehrt Maimon in seinen Schriften zu den Beispielen der Mathematik zurück, vor allem dann, wenn es ihm um das Verhältnis von Vorstellung und Denken, wenn es um die transzendentalphilosophische Konstruktion geht. Die prädominierende Rolle des Denkens bei Maimon zielt auf die Begründung der Transzendentalphilosophie als konstruktiver Philosophie. Er akzentuiert damit jene Seite der kritischen Philosophie, die der Frage quid juris größte Bedeutung beimisst. Fichte ergänzt dieses Projekt vor allem durch seine auf die Sittlichkeit, auf Moral und Politik, gerichtete Wissenschaftslehre. Sein absolutes Ich löst dabei zahlreiche Probleme der nachkantischen Philosophie und geht dem Skeptizismus Maimons aus dem Weg. Aber er handelt sich ein Problem mit dem Grund ein. Schad hat diese Schwäche der ersten Wissenschaftslehre in aller Deutlichkeit erkannt. Er findet einen Weg, der sich – ob bewusst oder unbewusst – an Maimons Auffassung der Transzendentalphilosophie anlehnt. Hegel hat das Problem früh entdeckt. Seinen bündigsten Ausdruck findet diese Erkenntnis in der Wesenslogik. Thematisch ist die Logik der Reflexion der angemessene Ort. Und tatsächlich findet sich dort Hegels Beitrag zur Frage des Grundes. Die Auseinandersetzung Hegels mit der Transzendentalphilosophie ist immer mit dem Schlagwort Reflexionsphilosopie verbunden – dies noch in kordialer Nähe zu Schelling (vgl. Asmuth 2018, S. 141-149). Die Ausführungen Hegels über die Reflexion in der Wis-
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senschaft der Logik zeigen deutlich, in welcher Weise Hegel die Transzendentalphilosophie einschließlich der Leibnizischen Monadenlehre deutet. Die vollständige Eliminierung des Außen, als reales oder perspektivisches oder auch nur als gedachtes Außen, charakterisiert die Reflexion in grundlegender Weise. So lassen sich nach Hegel zwar verschiedene Typen des Setzens und Voraussetzens unterscheiden, sie entkommen aber nicht jener inneren Dynamik der Reflexion, die sich nur von Nichts zu Nichts und dadurch zu sich selbst zurück (vgl. Hegel GW, 11, S. 250) bewegt – eine bloß scheinbare Bewegung. Das Denken ist allein mit sich selbst beschäftigt: Es bestimmt sich in völliger Unbestimmtheit. In dieser Beschäftigung prägt die Reflexion die ihr eigentümliche Reflexionsbestimmungen aus: Identität, Unterschied, Verschiedenheit, Widerspruch, Form und Materie (Hegel GW, 11, S. 260-302). Damit bezieht sich Hegel offenkundig auf die Amphibolie der Reflexionsbegriffe aus Kants Kritik der reinen Vernunft (vgl. Kant AA, 3, B316ff.; vgl. Nerurkar 2012). Aber er trifft natürlich auch Maimon, der im Versuch über die Transzendentalphilosophie schreibt: “Ein Begriff ist a priori, wenn er die Bedingungen des Denkens aller Objekte überhaupt, kein besonderes Objekt aber eine Bedingung desselben ist. Z.B. Einerleiheit, Verschiedenheit, Gegensetzung” (Maimon 2004, S. 36). Hegel stellt die Reflexionsbegriffe nicht nur dar, er kritisiert zugleich auch Positionen, die die Form der Reflexion absolut setzen und damit ganz in der Immanenz der Reflexion und ihrer absoluten Negativität verharren. Bleibt es bei der Reflexion in sich, in der selbst die äußere Reflexion als eine Setzung der bestimmenden und voraussetzenden Reflexion entlarvt wird, bleibt es bei der Nichtigkeit des Scheins. Die Reflexionsbestimmungen erweisen sich bei Hegel als Reflexe des Nichts. Dabei charakterisiert er sie ganz ähnlich wie Maimon: “Den Reflexionsbestimmungen […] als in sich reflektiertem Gesetztsein liegt die Form des Satzes selbst nahe. – Allein indem sie als allgemeine Denkgesetze ausgesprochen werden, so bedürfen sie noch eines Subjektes ihrer Beziehung, und dieses Subjekt ist: Alles, oder ein A, was ebensoviel Alles und Jedes Sein bedeutet” (Hegel GW, 11, S. 259). Er weiß sich darin mit der Transzendentalphilosophie einig, dass die Beziehung der Reflexionsbestimmungen auf Gegenstände an sich – trügerisch ist. Hegel meint, wie Kant (Amphibolie), dass die Reflexionsbestimmungen – insbesondere dann, wenn sie in der Form des Satzes auftreten – suggerieren, es werde etwas wie eine Qualität von einem Ding ausgesagt. Dabei bezeugt bereits deren unterschiedslose Allgemeinheit, dass diese Bestimmungen inhaltsleer bleiben, denn sie können unterschiedslos auf alles und jedes angewandt werden. Für Hegel sind die Reflexionsbestimmungen aber keine Begriffe, wie bei Kant und Maimon. Sie sind “reflektiertes Gesetztsein”, das sich nachträglich erst in einem Satz aussprechen lässt. Die leere Negativität, die sich in allen Reflexionsbestimmung in unterschiedslosen Unterschieden
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ausspricht, macht sich auch in ihren ephemeren Resultaten, den Sätzen, bemerkbar. Dass Hegel, das “Gesetztsein” mit dem “Satz” kurzschließt, sind deutliche Anzeichen seiner Kritik an der vor allem durch Fichte fortgeführten Transzendentalphilosophie. Es ist eine in der zeitgenössischen Diskussion vor allem durch Schelling und Hegel, aber auch durch Hölderlin und die Romantiker fortgesetzte Kritik an der Satzhaftigkeit des Grundsatzes, der Ausdruck einer Handlung sein soll. Der Vollzugscharakter der Handlung kommt dabei in einen Gegensatz zur statischen Satzhaftigkeit der sog. Grundsatzphilosophie.9 Vollends kommt aber die Auseinandersetzung mit Fichte – und mit ihm mit Maimon – in den Ausführungen Hegels über den Grund und die Bedingung zum Ausdruck. Der Grund ist in Kants Kritik der reinen Vernunft nicht als Reflexionsbegriff thematisch. Aus der Leibnizischen Tradition kommend, diskutiert Hegel den Satz vom Grunde – nihil sine ratione, allerdings in der Logik nicht als Grundsatz der Metaphysik, sondern als letzte der Reflexionsbestimmungen. Hegel bezieht sich auf den Grund, insofern er in Fichtes Transzendentalphilosophie vorkommt, und damit mindestens indirekt auf Salomon Maimon. Die Einleitung in das Grundkapitel zeigt, dass es Hegel nicht in erster Linie um eine Kritik Leibniz zu tun ist: “Der Grund ist daher selbst eine der Reflexionsbestimmungen des Wesens, aber die letzte, vielmehr nur die Bestimmung, daß sie aufgehobene Bestimmung ist. Die Reflexionsbestimmung, indem sie zugrunde geht, erhält ihre wahrhafte Bedeutung, der absolute Gegenstoß ihrer in sich selbst zu sein” (Hegel GW, 11, S. 391). Zweierlei lässt Hegels Bemerkung entnehmen, erstens, dass er den Grund als Reflexionsbestimmung und gerade nicht als Grundbegriff der Metaphysik konstruieren will, zweitens, dass neben Leibniz Fichte im Fadenkreuz steht. Der absolute Gegenstoß markiert den Übergang von der Reflexion zur Erscheinung. Hegel zeigt damit, dass der Schein der Reflexion in “das wesentliche Sein, die Existenz” (Hegel GW, 11, S. 323) heraustritt. Hegels Grundkapitel zielt auf die transzendentale Deduktion der Vorstellung, die für Fichte gerade durch einen unerklärlichen Anstoß erklärt werden soll, der gerade nicht von Außen kommt. Der Sache nach passt das von Hegel begrifflich gefasste Heraustreten der Sache in die Existenz aber auch auf das Konzept Maimons. Der Grund bestimmt sich vom formellen, unbestimmten Grund zum bestimmten. Der Weg geht von der Bestimmbarkeit durch 9 Ein Unbehagen, das sich auf dieses Problem bezieht, ist bereits der ersten Wissenschaftslehre Fichtes anzumerken. Der Konflikt von Satzform und genetischer Grundhandlung wird von Fichte zwar festgestellt und zugegeben, aber wie ein leicht lösbares Problem dargestellt. Erst seine späteren Wissenschaftslehren werden dieses Problem entfalten und unter dem Stichwort “Tun und Sagen” in eine eigene Vollzugsdialektik überführen.
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die denkerische Bestimmung zur Sache fort. Allerdings fordert der Grund in seinem Unvermögen, sich selbst zu gründen, eine Bedingung, die wiederum zum Unbedingten führt. Das absolut Unbedingte ist es nach Hegel, das die Einheit von Grund und Bedingung ausmacht, die unmittelbare Sache. “Wenn alle Bedingungen einer Sache vorhanden sind, so tritt sie in die Existenz” (Hegel GW, 11, S. 320). Dieses Heraustreten in die Existenz – absolute Entäußerung (vgl. Hegel GW, 11, S. 326) – ist sicher ein ebenso schwieriger Schritt wie die Selbstentäußerung der Idee in die Natur. Beide gedanklichen Prozesse stehen an vergleichbaren Systemstellen. In der Logik und in der Logik verbleibend, vollzieht Hegel diesen Schritt eines Herausgehens in die Existenz im methodologischen Gewandt Kants und Maimons. Der Grund als Bedingung konstituiert die reale Sache – das ist der Gegenstoß der Reflexion in sich selbst. Die Vollständigkeit der Bedingungen ist dabei verwandt mit Maimons “Differential”: Die “Differentiale der Objekte sind die Noumena” (Maimon 2004, S. 23). Die transzendentale Konstruktion des Wissens durch einen Akt des Begriffs, wie Maimon sie am Ende des 18. Jahrhunderts vorgezeichnet hat (vgl. Gasperoni 2015), wird von Hegel ihres skeptischen und damit ihres endlichen Vorbehalts entkleidet. Es geht ihm nicht um unendliche Annäherung, sondern um vollgültigen begrifflichen Besitz. Die Rolle des Begriffs spielt dabei eine entscheidende Rolle. In dem Maße, in dem der Unterschied von Sache und Begriff regionalisiert wird, werden die “Differentiale” zur Sache des Begriffs und der Begriff zur Sache des Denkens. Ob Hegel es wollte oder nicht, ob Hegel es wusste oder nicht – er baute mit dem Grundkapitel der Philosophie Maimons ein Denkmal: Der Satz der Bestimmbarkeit als Grund im Bewusstsein hat ein klandestines Weiterleben. Freilich wird man Richard Kroners These eines gedeihlichen Wachstums nicht einfach zustimmen können. Hegels Denkmal für den unbekannten Denker der Transzendentalphilosophie ist nicht ohne grundlegende Kritik errichtet. Sie ist bereits auf das Fundament gemünzt, auf das die Transzendentalphilosophie baut. Außerdem mischt Hegel in seine Betrachtungen zum Grundkapitel ebenso kritische Töne gegen Schelling mit ein, der in ganz anderer Weise über den Grund nachdachte. Die ganze Entwicklung von Kant und Maimon bis zu Hegel erweist sich daher als äußerst brüchig. Um so entscheidender, dass sich einige Bruchstücke Maimons in der Wissenschaft der Logik konserviert und manifestiert haben. Institut für Philosophie, Literatur-, Wissenschaftsund Technikgeschichte Technische Universität Berlin, Deutschland E-mail: [email protected]
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Overturning the Narrative: Maimon vs. Kant
Abstract: Overturning the Narrative: Maimon vs. Kant In this paper, I sketch a reading of Salomon Maimon’s philosophy that frees him from the shadow of Kant. As a rule, Kant’s philosophy is considered the culmination of philosophy in the eighteenth century. The common periodization: PreKantian, Kantian and Post-Kantian philosophy conveys this message and defines the possible roles other philosophies of this period may play: they may either contribute to Kant’s philosophy or originate in it and contribute to German Idealism. Whatever does not fit into the line “From Kant to Hegel” is marginalized or forgotten. This was the fate of Fries, Beneke, Herbart, or: Bolzano and Brentano. I argue that the philosophy of Salomon Maimon was another such alternative that was lost from sight. The view from other philosophical positions opens new vistas. Logical Empiricism (The Vienna Circle) marks such a position. The basic provocative thesis of this school was that there are no synthetic judgments a priori. Maimon argued for the same position a century and a half earlier and refuted Kant’s arguments to the contrary. From the vantage point of the Vienna Circle, Kant and German Idealism were merely an “intermezzo” between Leibniz and Hume on the one hand, Frege and Mach on the other. Philosophers of this persuasion would have found Maimon’s philosophy of great interest – had they only known of it. In this paper, I review Maimon’s arguments that there are no synthetic judgments a priori. Keywords: Synthetic Judgments a priori, System of Philosophy, Systematic Philosophy, quid facti, quid juris.
1. The Traditional Narrative of the History of Philosophy and the Vienna Circle Much ink has been spilled in controversies over the need to separate or to integrate the history of philosophy and so-called systematic philosophy. Whereas different answers have been given to this question, much less thought if any has been given to the question, which history of philosophy is meant. It seems that there is one and only one history of philosophy. There seems to obtain consensus over the canon and periodization of philosophy. The classic philosophers studied hardly differ among Western universities, and also the periodization seems generally accepted. The periodization and canon of philosophy are closely connected, and some periods are named after canonical philosophers. In our context the periodization and canon of “Early
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Modern Philosophy” and “Modern philosophy” are relevant, and here, too, consensus seems almost general.1 Three periods are distinguished. “Early Modern” (or: Pre-Kantian) Philosophy, Kantian Philosophy, Post-Kantian philosophy (often also called: German Idealism).2 This periodization is not peculiar to Kantian histories of philosophy, but is generally accepted until today. It implies that Kant’s philosophy is a turning point of philosophy. Allegedly, Kant synthesized both empiricism and rationalism, and raised philosophy to a higher level. Kant’s philosophy has been the point of departure of later, “Post-Kantian” philosophy. Hence a new era of philosophy began with Kant. The importance of such periodization is evident. Religions introduce their own calendar and so do Revolutions, too. All history before them are thereby turned into a “pre-history”, and history proper begins with the revolutionary moment. In our case, Kant appears as the telos of all previous philosophy, and as the origin of all subsequent philosophy. The direction of this post-Kantian philosophy is clear: it leads to Hegel, and the canonic philosophers of this period are Fichte, Schelling, Hegel. Some will add Reinhold before Fichte, some will include also the romantics. Details aside, this line is not simply a historical matter of fact but is said to follow a rational course, some even believe it to follow “a logical necessity” (Kroner 1961, preface to the second edition, p. V). However, this is at best a distorted picture, even a myth. Its origin is presumably Hegel’s own History of Philosophy (1833-1836). Hegel delib1 See for example Schacht 2013, p. 1: “Seven men have come to stand out from all of their counterparts in what has come to be known as the ‘modern’ period in the history of philosophy (i.e., the seventeenth and eighteenth centuries): Descartes, Spinoza, Leibniz, Locke, Berkeley, Hume and Kant […] a survey of their work constitutes one of the cornerstones of concentration in philosophy at practically every Western institution of higher learning”. 2 Here are a few examples of the older, explicitly Kantian and Post-Kantian schools: Johann Eduard Erdmann, whom Fr. Kuntze credits with the “resurrection” of Maimon published his Versuch einer wissenschaftlichen Darstellung der Geschichte der Philosophie in three volumes (in six parts). The first volume discusses Descartes and the philosophy of the seventeenth century in general, the second empiricism from Locke to Kant and idealism from Leibniz to Kant, the third volume discusses Kant in the first part, and the period from Kant to Hegel in the second. It is in this last half-volume that Erdmann discusses Maimon under the heading “Reinhold’s opponents”. Wilhelm Windelband published his Die Geschichte der neueren Philosophie in two volumes and three parts in 1878 and 1880. The first part presents the period “From the Renaissance to Kant”, the second “The Kantian Philosophy” and the third “Post-Kantian Philosophy”. Perhaps even more influential (but much inferior in quality) was Kuno Fischer, Geschichte der neueren Philosophie 1852-1877) which follows the same pattern. Ernst Cassirer, finally, published his Das Erkenntnisproblem in two volumes in 1906 and 1907. The second volume ends with an extended presentation of Kant’s philosophy. No further volume was planned. Nevertheless, in 1920 Cassirer published an additional volume, titled “The Post-Kantian Systems”.
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erately omitted from his account three rival philosophers: Jakob Friedrich Fries (1773-1843), Johann Friedrich Herbart (1776-1841) and Friedrich Eduard Beneke (1798-1854) who were highly critical of Hegel and had an alternative approach to philosophy. Their methodology followed the sciences, and was averse to a priori speculation. The omission was successful and these three philosophers – forming “the lost tradition” (see Beiser 2015, p. 83)3 – disappeared from our historical consciousness. Another important philosopher, mathematician and logician whose work remained largely unnoticed was Bernard Bolzano (1781-1848). Not only his monumental Wissenschaftslehre (1837) was ignored, but also his trenchant critique of Kant (Neuer Anti-Kant, 1850) He and his followers (“The Semantic Tradition”) had to be rediscovered after the decline of German Idealism at the end of the nineteenth century (see Coffa 1991). The harm done is not only the loss of some important philosophies, but above all the identification of philosophy with the foundationalist program and the a priori construction of “systems” of speculative idealism. This idea of philosophy formed henceforth also the approach to the history of philosophy. We thus obtain a circle in which the systematic and historical positions reinforce each other: The victorious philosophy determines the concept of “philosophy” which serves as a criterion guiding the historiography of philosophy, and the history of philosophy written from this vantage shows that the victorious school was rightly preferred over its inferior rivals, and so on and so forth. It is worth noting that the history of philosophy is much more important to philosophy than the history of science to science. Philosophy has no direct access to experience, and therefore relies much more on its inherited conceptual systems and on its own tradition. In what follows, I wish to look at the philosophy of Salomon Maimon not from a Kantian point of view, nor from that of German Idealism. From these points of view, Maimon has a role to play as a critic of Reinhold or Kant. However, if we attempt to look at the history of philosophy in Kant’s time (note that the period, too, is named after Kant) from a point of view less sympathetic to Kant, Maimon may appear as a serious, if not superior rival of Kant. Naturally, I cannot give a full account here, and a few points will have to suffice. Fortunately, I do not have to invent an imaginary point of view from which a different history of philosophy in the eighteenth century could be written. I will sketch this episode in the spirit of the Vienna Circle. The Vi3 Beiser (2015, pp. 90-95) however believes that the Neo-Kantian schools at the end of the nineteenth century redeemed the heritage of the lost tradition. I disagree, but cannot argue for this view here.
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enna Circle was an influential philosophical school in the 1920ies and 1930ies that combined empiricism and logical analysis. It is the origin of contemporary analytic philosophy. Although we do not have a history of philosophy written by a member of the Vienna Circle, we do have some observations that will suffice to draw the outlines of an alternative history of philosophy. The Vienna Circle made its public appearance in 1929, with the publication of the manifesto Wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis (The Scientific Conception of the World. The Vienna Circle). The authors (the manifesto is signed by Hans Hahn, Otto Neurath and Rudolf Carnap) characterized the philosophical orientation of the circle as empiricist and as applying logical analysis in the clarification of philosophical problems. This logical analysis overcomes not only metaphysics in the proper, classical sense of the word, especially scholastic metaphysics and that of the systems of German idealism, but also the hidden metaphysics of Kantian and modern apriorism […] It is precisely in the rejection of the possibility of synthetic knowledge a priori that the basic thesis of modern empiricism lies (Hahn, Neurath, Carnap 1929, p. 18; Eng. trans. p. 309; Neurath, Gesammelte Schriften, Bd. I, p. 307).
The philosophers of the Vienna Circle hence suggested that for one hundred and fifty years – from Kant, over German Idealism, to Neo-Kantianism etc. – this philosophical tradition was making no progress but rather the opposite: it advanced backwards and returned to obscure metaphysics. Reflecting from this position on its pre-history, it comes as no surprise that Hume and Leibniz, but not Kant, are named among their forerunners (Hahn, Neurath, Carnap 1929, pp. 12-13; Neurath, Gesammelte Schriften, Bd. I, p. 303),4 nor that Neurath refers to Kant and Kantianism as the “Kantian intermezzo” (“kantisches Zwischenspiel”, Neurath, Gesammelte Schriften, pp. 676-679)5 which separates Leibniz and Hume from Frege and Mach. Frege and Mach were considered the immediate predecessors of the Vienna Circle in logic and empiricism.6 These two traditions and these names do not do justice to the rich pre-history of the Vienna Circle, but
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This part of the Manifesto is missing from the English translation. This version is a retranslation from English back into German. The original German typescript has been found after the publication of this volume. The quotation is from p. 37 of the original typescript. See http://www.austrian-philosophy.at/neurath_ueber_werden_des_wiener_kreises.html (read on August 7, 2011). 6 On the empiricist and positivist side also Comte, Mill and Boltzmann are mentioned, and on the side of logical analysis also Bolzano, Brentano, Whitehead and Russell. 5
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they suffice to give an idea how philosophers of this persuasion would have viewed Maimon’s critique of Kant – if they only knew of it. The salient point is the Vienna Circle’s “basic thesis” that there are no synthetic judgment a priori. Although well-known, it may be useful to remind here what is at stake. Analytic judgments are judgments which depend only on definitions and logic. They are therefore necessarily true, i.e. true under whatever conditions. The down side is that on first sight they are also empty. They do not teach us anything new. A famous example is: “All bachelors are unmarried”. The proposition is necessarily true because “unmarried” is part of the definition of “bachelor”. The judgment merely spells out what is already included in the subject term. Synthetic judgments on the contrary teach us something new about the world, and exactly therefore they are not necessarily true and may be wrong: “The carpet is red” ascribes the property red to carpet. If the carpet is indeed red, the proposition is true, however contingently and not necessarily true. Its truth depends on matters of fact that could have been different. And if the carpet is in fact of a different color, then the judgment is false, contingently false that is, not necessarily false as a contradiction is. Now, before Kant consensus prevailed that analytic judgments are certain and empty, synthetic judgments are informative and not certain. Kant, however, promised that we can have it both ways: judgments that are both necessary and informative. If this were true, then Kant’s revolution would really be a turning point of philosophy. However, Maimon and others, especially the Vienna Circle more than one hundred years later, argued convincingly that there are no synthetic judgments a priori and that Kant’s promise proved empty. The Vienna Circle claimed that mathematics is necessarily true but not synthetic. Maimon believed that geometry (Euclidean geometry of his own time, that is) is indeed synthetic, but therefore not necessarily true (see Freudenthal 2006). He conceived the possibility of a geometry with different axioms than the Euclidean, hence of alternative geometries, and thus the alleged necessity of geometrical propositions was eo ipso ruled out. The same conclusion applies a fortiori to mathematical physics. Physics is dependent on matters of fact and hence its propositions are merely contingently true or false (see Freudenthal 2003). Kant’s view in the Metaphysical Foundations of Natural Science is rejected. I summarize: – Kant claimed that arithmetics and geometry are synthetic a priori and that physics was based on synthetic judgments a priori. – Maimon rejected the claim that there are synthetic judgments a priori. Specifically:
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– Maimon argued that arithmetics and the calculus (astonishingly, the calculus is entirely absent from Kant’s writings!) depend ideally on logic only and are therefore necessarily true; – that geometry depends also on sensibility – and therefore is not objectively necessary; – finally, that physics depends on experience, and hence is not necessary. The affinity between the Vienna Circle and Maimon is obvious. In a history of philosophy written from this point of view, Maimon should have received the role of a major philosopher and of a predecessor of the Vienna Circle. Kant would have been known as an object of their critique.7 Following this view, the Pre-history of the Vienna Circle could proceed from Leibniz and Hume, over Maimon to later empiricist Scientists-Philosophers on the one hand, and to the logicians on the other. Now, I do not commend the philosophy of the Vienna Circle, but I believe that their perspective and the counter-history it offers, are very useful in calling attention to the presuppositions of traditional textbooks which we unconsciously adopt. I now turn to Maimon himself. 2. Quid Facti: Geometry Whereas Kant argued that both arithmetic and geometry depend also on intuitions, Maimon distinguished between them. He argues that arithmetics is analytic and depends only on the understanding. It is, therefore, necessarily true. Geometry, in contrast, is synthetic, depends also on intuition, and is, therefore, subjectively but not necessarily true.
7 In an appendix to the Manifesto, the authors, Hans Hahn, Otto Neurath and Rudolf Carnap, characterized Schlick’s major epistemological work: Allgemeine Erkenntnislehre of 1918. Their account ends with the following words: “On the validity of knowledge of reality. The validity of deduction is independent from the nature of the world. The method of theoretical knowledge of reality is hypothetico-deductive. The problem of the validity must address the most general propositions (i.e. presuppositions, hypotheses). The view of Kant concerning synthetic knowledge a priori is refuted. The propositions of mathematics are analytic, those of natural science are a posteriori. The validity of knowledge of reality is based on induction alone” (Hahn, Neurath, Carnap 1929, p. 44-45). Another work of Schlick, Space and Time in Contemporary Physics (1917), characterizes the importance of Einstein’s theory of relativity in two respects: “Negatively in its criticism of apriorism (Kant) […] positively in facilitating the analysis of the empirical and logical content of science” (Hahn, Neurath, Carnap 1929, p. 43). Also this part of the Manifesto is missing from the English translation and from later German prints.
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3. Maimon on Geometry The Vienna Circle’s critique of Kant’s view of geometry and physics followed the development of non-Euclidean geometries and Einstein’s theory of relativity. The importance of this state of affairs is very clear in Moritz Schlick’s case but also in the case of Hans Reichenbach, the founder of the associated Berlin Circle. Maimon’s critique, however, preceded these theories and was based on pure philosophical considerations. What were these? Maimon agrees with Kant that Geometry is synthetic, but unlike Kant he claims that therefore it is not objectively necessarily true. Geometry is synthetic because it is not based on logic only but requires also diagrams. The imagined diagram – or, in Kant’s language – intuition a priori – adds information to that supplied by the definitions, axioms, postulates and logic. But exactly this addition of information is the reason that geometrical propositions cannot be necessarily true. We can imagine a world in which our sensible information would have been different. Now, Maimon of course believes that Euclidean geometry is true, but he denies that it is necessarily true. What seems to be (logical) necessity is in fact that some beliefs are imposed on our sensibility and command acceptance. However, there could have been intelligent beings with a different kind of sensibility who would also have a different geometry.8 Consider a simple example that was adduced by Kant to argue that geometry is synthetic a priori. The definition of a triangle is “a figure in the plane enclosed by three straight segments”. Once we construct the figure, we immediately see that it also has three angles, but this cannot be inferred from the definition. In the definition of a triangle “angles” are not at all mentioned, let alone their number. The fact that a triangle has three angels is learned from the drawn or imagined diagram. Kant celebrates this fact as demonstrating and explaining syntheticity by the contribution of pure intuition. Thus, for example, the proposition: Any three-sided figure has three angles (figura trilatera est triangula), is a synthetic proposition. For although, if I think three straight lines as enclosing a space, it is impossible that three angles should not simultaneously be formed thereby, I still, in this concept of the three-sided, by no means think the inclination of these sides to one another, i.e., the concept of the angle is not truly thought in it (Kant 1793/1804, AA 20, p. 323).9
8 Of course, also the world could have been different, but this argument is not mentioned by Maimon. 9 Maimon could not have known this essay, but Kant gives the same example also in Critique of Pure Reason, B 621-622.
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Maimon does not dispute that the construction of objects in intuition allows us to discover new properties that are not contained in the concepts. However, the reason why the object in intuition has properties which are not included in its concept remains opaque to the understanding. We first actively construct the object according to a concept and then passively perceive three angles. The discovery of the three angles is hence not an act of the understanding but of sensibility, and the understanding stands under the alien rule of the imagination: The Understanding prescribes the productive imagination a rule to produce a space enclosed by three lines. The imagination obeys and constructs the triangle, but lo and behold! three angles, which the understanding did not at all demand, impose themselves. Now the understanding suddenly becomes clever since it learned the connection between three sides and three angles hitherto unknown to it, but the reason of which remains unknown. Hence it makes a virtue of necessity, puts on an imperious expression and says: A triangle must have three angles! – as if it were here the legislator whereas in fact it must obey an unknown legislator (GW III, pp. 185-201; see also GW IV, pp. 449-450).
The same holds for geometrical axioms or principles in general. The straight line is shortest between two points. Why? No answer. All attempts to demonstrate the fact – including Maimon’s own – fail and we are left with a truth imposed on our sensibility with no insight of the understanding.10 We see that the straight line between two points is shorter than a curved or polygonal line between the same points, but we do not understand why this is so. Compare this truth with the necessary truth of logic that A is A and not not A. This is analytic and necessary and we do not have to know what A is in order to know that A is A and is not not A. The truth of the proposition is independent of the meaning of the terms (and hence from matters of fact). But the truth of geometrical axioms does not depend on the form of the propositions only but also on their content, on the nature of the objects. If space were different, then other geometrical axioms and postulates would be valid. Euclidean axioms are therefore not necessary. This is Maimon’s explicit position. True, geometry requires no induction. we do not need repeated experience to know that the straight line is shortest between two points: It suffices to look once at the diagram or to imagine this line once.11 The status of geometrical axioms is hence somewhere between logical necessity and experiential contingency. Maimon suggests that it is subjectively necessary, imposed on our sensibility, given together with sensibility and 10 11
See Maimon’s attempted proof in Maimon 1790, pp. 65-67. In this it differs from propositions of causality. See Maimon 1790, pp. 73-74.
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defining its form, but it is not necessarily universal. There could be other forms of sensibility. Maimon’s claim that there could be a geometry with a different set of axioms than the Euclidean was hence not a mathematical insight into the possibility of a geometry without the axiom of parallels. On the contrary: In his last book, Maimon even presented a proof of the axiom of parallels – wrong as all other such attempts.12 But Maimon had the philosophical insight that sensibility cannot establish necessity. This has wide-ranging implications. In the first place it alters the meaning of a geometrical “axiom”. A geometrical axiom is not anymore conceived as a self-evident truth but as a postulate on which the relevant theory depends. With this, also the epistemological status of geometrical truth changes: It cannot anymore be conceived as evident and necessary, but as hypothetical only. But there is much more to it. Kant’s entire interpretation of geometry is based on the notion of construction. We construct geometrical objects according to their concepts, and we learn from these embodiments of the concepts properties of the objects that could not be inferred from their concepts. We saw above that Maimon criticized the last step in this process, in which properties are passively learned from the perception of the object constructed. However, Maimon criticized also the first step: construction itself. How do we know, so his objection, that an object is the embodiment of the concept from which it was constructed? Kant’s answer is obvious: We know that the object corresponds to the concept because we construct the object in intuition from its concept. However, Maimon demonstrates with a series of brilliant analyses that this is not the case. I cannot present these arguments in detail here. Suffice it to say that Kant never named the rule by which we allegedly construct a straight line. He says that it is constructed by the motion of a point.13 However, all lines – whether straight, curved or polygonal – are said to be constructed by the motion of a point. What is the specific rule that guarantees that the line will be straight? No answer from Kant. Moreover, suppose that lines are constructed by motion. How do we guarantee that the lines constructed are strictly continuous? The introduction of motion rather sweeps the problem of continuity under the carpet of motion. It does not solve the problem. This is crucial as geometry is the science of continuous magnitude. 12 See Kritische Unterschungen (1797), GW VII, pp. 362-372. See also my discussion in Freudenthal 2006, pp. 94-110. 13 Kant, Critique of Pure Reason, A 100-103; see also “Über Kästner’s Abhandlungen”, AA 20, p. 411.
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4. Quid facti: Physics Maimon adopts the empiricist interpretation of science in general and of Newton’s physics in particular. All science is based on induction, and although Newton’s theory is the best corroborated theory ever, it is nevertheless only highly probable, not necessarily true. Maimon’s critique of Kant is two-fold. On the one hand, he argues that causality is not at all a logical category but rather an empirical concept; on the other hand, he argues that one of Kant’s arguments supporting the interpretation of Newton’s three Laws of Motion as synthetic a priori, is wrong. Kant believed that the “parallelogram of forces” is an a priori (and therefore necessary) theorem whereas Maimon argues that it is empirical (and therefore contingent). I’ll briefly address both arguments. 4.1. Newtonian Mechanics In the eighteenth (and nineteenth) century, Newtonian mechanics was the foremost example of certain real knowledge. Newton’s Principia itself was modeled after an ancient example of indubitable and systematic knowledge: Euclid’s Elements. In Kant these are the two principal claims to synthetic judgments a priori: Euclid’s Elements and Newton’s Principia. Now, when Maimon entered the scene, there were already two opposing interpretations of these knowledge claims: Hume’s and Kant’s. Both Hume and Kant agreed that Geometry was necessary certain knowledge, and Kant, but not Hume, maintained that the basis of Newton’s mechanics was also necessary. Kant was of course not the only philosopher who stood under the spell of Newton’s mechanics and World-System. They all did. Two examples will suffice, one of a friend of Hume’s, Adam Smith, the other of the greatest mathematician of the eighteenth century, Leonhard Euler. First to Smith. Adam Smith maintains in general that theories are hypothetical, they are merely our subjective way of organizing experience into coherent patterns. But not so in Newton’s case. He writes: And even we, while we have been endeavoring to represent all philosophical systems as mere inventions of the imagination, to connect together the otherwise disjoined and discordant phenomena of nature, have insensibly been drawn in, to make use of language expressing the connecting principles of this one [the Newtonian System] as if they were the real chains which Nature makes use of to bind together her several operations (Smith 1980, p. 76).
All science is hypothetical with the exception of Newton’s mechanics. My second example is Leonhard Euler. In the preface to his Mechanica of
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1736, he writes that he wishes to demonstrate not only the truth of the principles of mechanics, but also that they are necessarily true. He discusses the “principles of mechanics”, so he says, “conceived not as merely certain but also as necessarily true (ut non solum certa, sed etiam necessario vera esse intelligantur)” (Euler 1912, p. 10). In the same vein Kant writes that Newton’s mechanics is a “proper science” (eigentliche Wissenschaft) as distinguished from mere “knowledge” or a “systematic art”: What can be called proper science is only that whose certainty is apodictic; cognition that can contain mere empirical certainty is only knowledge [Wissen] improperly so-called. Any whole of cognition that is systematic can, for this reason, already be called science, and, if the connection of cognition in this system is an interconnection of grounds and consequences, even rational science. If, however, the grounds or principles themselves are still in the end merely empirical, as in chemistry, for example, and the laws from which the given facts are explained through reason are mere laws of experience, then they carry with them no consciousness of their necessity (they are not apodictically certain), and thus the whole of cognition does not deserve the name of a science in the strict sense; chemistry should therefore be called a systematic art rather than a science (Kant 1786, AA 4, p. 468).
Newton’s three laws of motion are based on the “analogies of experience” introduced in the Critique of Pure Reason, and these laws are synthetic a priori propositions, “drawn from the essence of the thinking faculty itself” (Kant 1786, AA 4, p. 472). Now, Newton’s mechanics is dependent on some empirical concepts, such as “the concept of motion, of impenetrability (on which the empirical concept of matter rests), of inertia, and others” (Kant, Prolegomena, § 15; AA 4, p. 295). This, however, does not detract from its apodictic nature. There could be a world without matter and motion, and Newton’s mechanics would be without reference, but once the world as it is exists and appears to us as it does (given our forms of intuition and understanding), the foundations of Newton’s mechanics are apodictically true (see Kant 1786, AA 4, p. 470ff.). 4.1.1. The Philosophical Argument Maimon criticizes this Kantian view of Newtonian science under the heading quid facti. The term quid facti together with quid juris are Kantian.14
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See Kant, Critique of Pure Reason A84-85; B116-117.
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The quid juris question concerns the justification to apply concepts of the understanding to perceptions. Their heterogeneity and independent sources make such a justification mandatory. Maimon reinterprets the quid juris in a “broader sense”. In this “broader sense”, the quid juris question refers not only to the applicability of a priori concepts to a posteriori perceptions, but to the application of concepts to intuitions as such, whether a priori (as in mathematics) or a posteriori (as in physics). In addition, Maimon radicalizes the question to refer to all communication between understanding and sensibility, and therefore to the possibility of the creation of the sensible world by an intelligence (the God of monotheism), to the mind-body problem, and generally: to the relation of form and matter.15 Maimon’s critique of Kant on this issue is part and parcel of an entirely different conceptual system rooted in medieval Aristotelianism and NeoPlatonism. I will not discuss it here.16 The purpose of Maimon’s arguments is to point out that the quid juris question arises due to the principal flaw of Kantian philosophy: its dualism. If indeed sensibility and understanding are independent from each other and heterogeneous, then concepts could not legitimately apply to intuitions. But if this is so, then Kant’s claim fails that mathematics and physics are synthetic a priori. Moreover, due to the lacking justification of the mind-body-interaction, also a necessary presuppositions of Kant’s moral fails.17 With this, the decision over the quid facti argument is already prejudiced. The application of categories to sensibility was said to be the condition of synthetic judgments a priori and of apodictic science. The impossibility of such an application undermines the claim to their existence. However, Maimon also addresses directly the quid facti question. Do we in fact apply categories of the understanding to perceptions? I come now to the question quid facti? Kant mentions this merely in passing, but I hold it to be of great importance with respect to the deduction of the categories. Its meaning is this: how do we know from our perception that b succeeds a that this succession is necessary, whereas the succession of the very same b upon c (which is equally possible) is accidental? […] (Maimon 1790, pp. 70-71). For example, the stove in the room has been lit and then we notice that the air in the room has become warm, and that outside snow has fallen. Then we have the 15 See Maimon’s letter to Kant April 7, 1789, AA 11, pp. 15-17; Maimon’s Lebensgeschichte, II, p. 253; Maimon 1790, pp. 62, 362. 16 I elaborated on the medieval roots of Maimon’s understanding of the quid juris question in my “Salomon Maimon’s Development” (Hebr.). 17 See on this Maimon’s papers on morals, collected in volume 7 of the Gesammelte Werke.
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same right to treat each of the two consequences [Folgen] either as objective or as subjective. So, what reason do we have for considering the warming of the air in the room to be the objective consequence and the snowfall the subjective consequence? (Maimon 1790, p. 371).
The answer is: none. Without experience we could not distinguish these “sequences”, if both were true as a rule, i.e. that whenever the stove is lit, it is both warm inside and snowing outside. It would take experience (here an experiment), e.g. of lighting the stove in the summer and observing that the air is indeed warmed up, but no snow falls. Obviously, Maimon develops here in the Kantian context Aristotle’s distinction between a demonstration “quia” and a demonstration “propter quid”, or, in Bernard Bolzano’s terminology, the difference between an inference and an “Abfolge” i.e. an inference from the “objective Gründe” of the consequence.18 However, on the basis of experience, only contingent and probable, but not necessary truth can be established, and causal judgment have only “subjective necessity (arising from habit) that is wrongly passed off as an objective necessity” (Maimon 1790, p. 73). Now, Kant derived the category of causality from the hypothetical judgment. Maimon suggests to reverse the direction and derive the hypothetical judgment from the experience of causal processes (Maimon 1790, pp. 71-72). Since it is not an a priori category of the understanding, it cannot ground a synthetic judgment a priori, and its truth is not objectively but only subjectively necessary (Maimon 1790, pp. 73-74). Kant’s argument that causal judgments are necessary, is in fact rooted in a vicious circle: In the end, you commit a petitio principii, in that you think these forms are necessary conditions of experience, which you presuppose as a fact, in order that you be able to prove the reality of these forms (GW III, p. 48).
However, “the critical skeptic [Maimon] may cast doubt on this very factum (namely that we have judgments of experience which express objective necessity and universality), and therefore also doubt the reality of the aforementioned principles with are based on it” (GW III, p. 420).19
18 See Aristotle, Posterior Analytics, book 1, chapter 13, and Bolzano, Wissenschaftslehre, § 198, and the references given there. 19 See also GW III, pp. 458-459; VI, p. 145. Maimon once imputes Kant this interpretation: “[…] meiner innigsten Ueberzeugung nach, [hat] Kant nie im Sinne gehabt […], duch seyn System die Skeptiker zu überführen” (GW III, p. 429).
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4.1.2. The Scientific Argument Maimon’s distinction between objective and subjective necessity in causal judgments implies that the quid facti question could be answered apodictically only if all inferences in science were “propter quid”, i.e. that the premises and the conclusion of the argument reflect the causes and effects of the causal process. Carrying this line of thought to the end implies that scientific truth could claim objective necessity only if it were inferred logically from first principles (representing causes) that are self-evident, necessarily true. In short: when science is reduced to logic. As long as this is not the case, science cannot claim to be objectively necessary, but must be content with contingent, probable knowledge. This is the stance of empiricist philosophers. The empiricist interpretation of Newton was developed mainly in England. Maimon turned to Henry Pemberton’s exposition A View of Sir I. Newton’s Philosophy of 1728, which he found superior to others in its detailed and clear exposition, and initiated its translation into German. Pemberton was the collaborator of Newton in preparing the third edition of Newton’s Principa (1726), and Maimon suggested that this, too, recommended his work.20 In his preface to the translation, Maimon launches harsh critique at all metaphysics, dogmatic and critical alike: The difference between the dogmatic and critical conceptions may be great, but nevertheless it does not have the slightest influence on our real knowledge of our determined objects of nature (Pemberton 1728, p. XIV).
The principles of Metaphysics, whether dogmatic or critical, may be necessary and universal, but they are barren, whereas empirical knowledge is fecund even though its principles are only of relative (“komparativ”) necessity and universality (Pemberton 1728, pp. XIV-XVI). Pemberton’s book is of course not a book of metaphysics, and also Maimon’s annotations concern the “philosophy of nature”, not metaphysics. The annotations repeatedly refer to and extensively quote from Kant’s Metaphysical Foundations of Natural Science, but Maimon enumerates topics on which he disagrees with Kant. Most extensive is his critique of the “compounding of motions”. The details of this theorem, its exposition by Kant and Maimon’s critique of it are too complex to be developed here, but the gist of the problem is simple. 20 On the title page it says “Aus dem Englischen übersetzt mit Anmerkungen und einer Vorrede von Salomon Maimon”. This is wrong. In the preface we read that the translation was done by a “gelehrten Freund” of Maimon’s. See Pemberton 1728, p. XII.
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Newtonian mechanics purportedly describes the motion of bodies on the basis of the three Newtonian laws. But in fact, we need also at least one additional rule to determine the effect of the simultaneous action of several forces. This is what the rule of compounding motions and forces does. Newton introduces it thus: If some force generates any motion, […] and if the body was previously moving, the new motion […] is added to the original motion if that motion was in the same direction or is subtracted from the original motion if it was in the opposite direction, or, if it was in an oblique direction, is combined obliquely and compounded with it according to the directions of both motions (Newton 1999, pp. 416-417).
The rule states that the simultaneous application of two forces AB and AC represented by two adjacent sides of a parallelogram, is equivalent to the application of one force AD, represented by the diagonal of this parallelogram. This is not at all evident. The components AB and AC are evidently not contained in AD, and the theorem is not simply addition of (scalar) magnitudes.21 Here it suffices to say that force could have been a scalar magnitude and then we would have to add up the absolute values of AB and AC and not AB2 + AC2 = AD2, as we do. The theorem hence refers to a causal relation, not to a mathematical operation. Moreover, it could well have been that – when acting simultaneously – the forces influence each other, and that their effect would have been different than when acting one after the other. Newton justifies the theorem saying in the sequel that the “composition and resolution are abundantly confirmed from mechanics”. In contrast, Kant attempts to justify the compounding of motions and forces as a mathematical theorem. In his Metaphysical Foundations of Natural Science, “Phoronomy”, the longest section is dedicated to a careful “construction” of compound motion. It is intended to form the basis for that part of physics which is “science proper” (and not science “improperly” so called). “Science proper” in Kant must be of “apodictic certainty” 21 The theorem also involves paradoxes which I will not discuss here. For an extensive discussion see Freudenthal 2003.
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and a priori (Kant 1786, AA 4, p. 468). In the chapter on “Dynamics” Kant applies the theorem not only to motions (velocities), but to forces as well. Let A be a movable point, and AC represent its motion. Now, instead of the simultaneous motion AB, let the whole frame of reference move in the opposite direction, that is: BA. Relative to this frame of reference, A will describe the motion AD. However, due to this construction, we avoid the simultaneous action of two forces on one object. We rather ascribe to the body and the frame of reference each only one motion. The question of the possible influence of the forces on each other does not arise. Moreover, the geometrical construction avoids all causal consideration and the theorem seems to be purely mathematical, and therefore also necessarily true. However, this geometrical construction is valid for velocities only. It cannot be immediately applied to real bodies moved by forces. Transferring this theorem to dynamics, when two forces simultaneously accelerate the same body, tacitly presupposes that the forces are proportional to motions, that they are vectors, and their effects are independent and do not interfere with each other. The tacit assumption that the geometrical construction applies without further ado to dynamics mistakes mathematics for physics. Maimon therefore accepts that geometrical construction is valid for velocities but not for forces. In mechanics, the validity of the theorem depends on experience, and is therefore a contingent and not necessary proposition. The certainty of mathematics does not confer necessity on the physical theorems it is applied to. Maimon concludes that we do not have “science in the strictest sense”, i.e. what Kant named “eigentliche Wissenchaft”. The argument that Newtonian mechanics is only highly probable but not necessarily true undermines not only Kant’s interpretation of modern science, but also Kant’s philosophy in general. On one reading, supported especially by Kant’s Prolegomena and by Kant’s preface to the second edition of the Critique of Pure reason (1787), Kant presupposed that there are synthetic judgments a priori and endeavored to explain how they are possible. Maimon argues that there are no such synthetic judgments a priori in the first place, and hence that we need not bother to account for their alleged possibility. Synthetic judgments a priori are neither real nor possible. 5. Bacon and Kant After the publication of his first book (Essay on Transcendental Philosophy (1790); published December 1789), Maimon received a present from the editor of the Berlinisches Journal für Aufklärung, Andreas Riem: the works of Francis Bacon. Having studied Bacon, Maimon wrote a paper in the form of a letter to Riem, Baco und Kant (May 1790), in which he com-
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pared these two philosophers. He also sent the paper to Kant (May 7, 1790, in GW VI, p. 428), asking him to respond to the paper and to give Maimon permission to publish this response. Kant didn’t even answer the letter. This was but Maimon’s first work devoted to the philosophy of Bacon as complementary to the philosophy of Kant. Two years later, Maimon edited a German translation of Bacon’s Novum Organon and added to it an extensive introduction, notes and a history of philosophy and of science, in fact: more science than philosophy.22 The conclusion of Maimon’s essay on Kant and Bacon is that “Bacon is too little […] Kant too much systematic” (GW II, p. 507). In order to understand this conclusion, we should take Maimon’s view of knowledge in general into account. In Maimon’s view, there is no essential difference between science and philosophy. “Philosophy”, so he defines here, is the attempt “to introduce connection or unity into the manifold of our knowledge”. However, this is also what science does in its respective domains. It therefore follows that “each particular science as such must philosophize on its subject matter. The manifold of this must be connected to an ordered systematic whole by the unity of basic principles on which it is erected” (GW IV, p. 357). This continuity between science and philosophy does not level their differences. Scientific principles are real (reel), they determine an object; philosophical principles do not. Perhaps we can construct particular mathematical objects from their concepts and according to principles (but remember the critique of Kant’s constructions above); the same is true of objects of the (mathematical) natural sciences. This is not the case with philosophy. Philosophy applies to a general notion of an “object as such”, not to a particular kind of objects and therefore it cannot construct its object. Its principles are “formal”, not “real” (GW IV, p. 357). This has an effect on their certainty and universality, but also on their productivity: Formal and modal perfection stand in direct ratio to each other, but both formal and modal perfection stand in an inverse ratio to their reality. The less determined an object of a science is, the more ample its application […] the fewer the consequences that follow from this concept and apply to the objects that fall under it (and so also vice versa), and the more rigorously they can be proven to apply to all objects to which this [concept] applies.
Thus, logic applies to all possible objects, but little can be inferred from it in respect to them. It has “the greatest formal and modal and the least real 22 Bacons von Verulam Neues Organon. Aus dem Lateinischen übersetzt von George Wilhelm Bartoldy. Mit Anmerkungen von Salomon Maimon, Berlin, 1793.
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perfection”. Natural science, in contrast, formulates laws which apply to determined objects, not generally: “it has only comparative necessity and universality. But from these laws much can be inferred in respect to the objects to which they apply (GW IV, pp. 358-359). We can now see why “Bacon is too little […] Kant too much systematic”. Bacon stops at the level of the individual sciences, Kant confines himself in the Critique of Pure Reason to the most universal principles and does not reach down to the particular sciences. Moreover, whereas the entire project requires the contribution of both approaches, Bacon’s philosophy is productive and adequate to its own domain, whereas Kant’s philosophy is lacking in its proper domain: it cannot answer the quid juris question and we lack an explanation and a proof of its relevance to the individual sciences. Maimon himself conceives the generation of knowledge as one process, beginning with the most elementary everyday knowledge and ending, on principle, at the peak of a metaphysical system. Everyday knowledge, scientific knowledge and metaphysics are seen as different aspects and stages of one and the same process, beginning with concrete experience and ending with pure philosophy which deals with “the mere form of a science”, as his definition of philosophy reads.23 6. Systematic Philosophy vs. a System of Philosophy I wish to conclude with a brief look at Maimon’s concept of philosophy. We have seen that Maimon acknowledges the achievements of both “formal” and “real” philosophies and that he envisages a philosophy which would reach from bottom to top. This absolute system is of course not the share of humans but of the “infinite intellect”.24 Concerning human “systems” of philosophy, it seems that we find in Maimon contradictory views. At times he emphasizes that his “system” is complete, at time he complains about those philosophers who value “system” more than truth. What then? Does Maimon recommend a philosophical system or rejects it? I believe that there is no contradiction here, but that Maimon uses “system” in the sense of the French Encyclopedie. In his Traité des Systèmes (1749), Condillac introduced a distinction between the “esprit systématique” and the “esprit de système”. This distinc23 Philosophy is conceived as “the idea of a science the object of which is the possibility of science in general […] or an idea of a science of the possibility of the whole of knowledge as such”, “or of the mere form of a science” (Maimon, Kathegorien des Aristoteles, 1794, pp. 118, 120-121; GW VI, pp. 130, 132-133). 24 See on this aspect of Maimon’s philosophy Atlas 1964.
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tion was quoted in d’Alembert (in his “Discours préliminaire”). The “esprit systématique” is what we may call the scientific spirit: It begins with observed phenomena, forms concepts and formulates general hypotheses which it again probes against experience. The “esprit de système” is the attempt to construct general metaphysical systems not supported by experience but derived from few principles, preferably a single one: these systems are barren, and they deal of words instead of real objects. A productive system cannot be constructed on the basis of abstract principles, but only on principles that generalize observed facts and are controlled by these. The best example of such a positive system is, of course, Newton’s physics; the examples of bad systems are Leibniz’s metaphysics of monads and, above all, Spinoza’s Ethica (d’Alembert 1751). Maimon certainly shares these views. He writes to Reinhold, probably the first to attempt a construction of transcendental philosophy based on only one principle, as follows: To you, system, absolute necessity and universality are most important. You therefore look for such facts that are best suited to this purpose and you base your philosophy on these. To me truth is most important, and be it presented in a less systematic, necessary and universally valid fashion. Newton’s Principa philosophiae naturalis, that so much contributed to extend our knowledge of nature, is more important than all Theory of the Faculty of Knowledge a priori, [Maimon alludes to Reinhold’s book Versuch einer neuen Theorie des menschlichen Vorstellungsvermögens] from which nothing can be inferred that was not known before (even though in a less rigorous fashion), and on top of which is based on unproven propositions (GW IV, pp. 263-264).
In his last book, Maimon says similar things of Kant himself: Finally, I noticed that this famous author [Kant] is more interested in a system than in a detailed elaboration of the required parts thereof. However, […] We should first establish beyond doubt the truth of the components required for the system, that is their aptitude to form a system, and then the system which they are apt to form will follow of itself. And should the nature of the science studied not allow for a system, this science itself would nevertheless be amended and extended. The mathematician goes his secure path without paying attention to a system of his science. One has never heard talk of the system of mathematics.25
In Maimon, philosophy should not only be continuous with the sciences, but proceed from them. We begin with knowledge of particulars, formulate conjectures, corroborate or falsify them, and we strive for ever more general
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Kritische Untersuchungen, Dedication, pp. IV-V (not paginated), in GW VII.
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theories. The construction of knowledge “bottom-up” is made explicit in Maimon’s criticism of Fichte. In a letter to Fichte, he writes: I am expecting with joy the time when, as you say, “philosophy should be a systematic science”. On my part, too, I will not fail to contribute towards this goal as much as is in my weak forces. We will meet on the very same way, even though it seems that we will travel it in opposite directions. You wish to travel it from top to bottom (from the concept of a science as such to the concrete sciences), but I want to travel it from bottom to top […] (Maimon to Fichte, Berlin, October 16, 1794; GW VI, pp. 449-450).
The alternative to a barren “system” top-down or to a leap from single phenomena to a supreme principle of everything, is a science-like philosophy that proceeds bottom-up step by step from phenomena to ever more comprehensive hypotheses – but never reaches either the top or certainty, and never constructs a “system”. All this is very much in the spirit of Condillac and d’Alembert. Let me summarize: 1) I argued that Maimon successfully refuted Kant’s theses that the foundations of geometry and physics are synthetic a priori. – Maimon argued that synthetic geometry, dependent as it is on intuition is subjectively but not objectively necessary. – Maimon argued, moreover, that Newtonian mechanics is contingent. It is based on experience and therefore not necessary. 2) I also argued that Maimon’s concept of philosophy was opposed to Kant’s and even much more so to Kant’s followers and successors. In Maimon’s view, philosophy should be continuous with the sciences, not a socalled “system” of final truths. It should rather formulate hypotheses based on an analysis of the sciences, and be content with this. Needless to say, that Maimon’s case was lost and that German Idealism with its top-down cathedral-like systems prevailed. At the beginning of this essay, I pointed to “the lost tradition” (F. Beiser) of Fries, Beneke and Herbart, but also to the “semantic tradition” of Bolzano and Brentano. In different ways and to a different extent, both traditions were overshadowed by the philosophy of German Idealism. Unfortunately, the latter also determined the conception of philosophy in the century following it. I believe that we should add Maimon to the list of forgotten philosophers (or remembered for the wrong reasons) who are worth reconsideration. Wilhelm Dilthey remarked that “If the methods of analysis developed by Lambert, Kant, Maimon would have been further pursued and applied
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particularly to logic which Kant accepted as it was, the course of our philosophy would have been entirely different” (Dilthey 1959, pp. 49-50).26 We cannot change the past, but we should reconsider our narrative of past philosophy and the values it transports. Cohn Institute for the History and Philosophy of Science and Ideas University of Tel Aviv, Israel E-mail: [email protected]
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GIDEON FREUDENTHAL
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Luigi Azzariti-Fumaroli
Uno schlemiel trascendentale. Salomon Maimon fra momenti di vita e movimenti di pensiero
Abstract: A transcendental schlemiel. Salomon Maimon between moments of life and movements of thought. Lebensgeschichte is still today Salomon Maimon’s best known work. In it there seems to be not only the physiognomy of a stateless person never satisfied with his intellectual discoveries but also some of the most significant themes that recur in the author's reflection. This present essay intends to highlight some of these issues: from the influence exerted by Maimonides, to the comparison with Kantian philosophy, up to the sceptical outcomes that Maimon’s thought witnessed in later life, reviewing the traces that such schools of thought left in the autobiography of the Lithuanian philosopher, who thus seems to display the signs of a spirit that is as restless as it is curious. Keywords: Autobiography, Maimonides, Kant, Infinite Intellect, Scepticism.
1. Masochismi intellettuali “Autobiografia” è “parola artificialmente medica” (Gusdorf 1991, p. 9); “Lebensgeschichte”, al contrario, è termine compenetrato dalla densità della storia e dalla continuità vitale dell’esistenza, sebbene vi resti estraneo il riferimento alla mediazione della Grafia. Se l’autobiografia, come hanno mostrato numerose esperienze letterarie e filosofiche moderne (cfr. Mariani 2012; nonché Lejeune 1975/1986 e 2013), è costitutivamente scrittura, la Lebensgeschichte rimanda a una diversa economia di discorso, dominato da una forma di prosopopea allucinatoria, dalla quale il se stesso emerge conferito di una figura che viene ad essere ricostruita, secondo un determinato ordine, in un’unità bio-logica che si svolge nel tempo. In tale genere letterario non sarebbe dominante una struttura, nella quale si postula un’identità fra l’autore, il narratore e il personaggio di cui si parla,1 dovendosi in esso piuttosto constatare “l’impossibilità della chiusura e della totalizzazione 1 Giusta la ormai canonica definizione data da P. Lejeune di autobiografia: “racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità” (Lejeune 1975/1986, p. 12).
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[…] di tutti i sistemi testuali costituiti sulla base di sostituzioni tropologiche” (de Man 1979, p. 922). Lo dimostrerebbe in modo eclatante il “romanzo-tipo della letteratura mondiale” (Šklovskij 1929/1966, p. 178), The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman (1759-1767), nel suo presentare, valendosi del cosiddetto paradosso della focalizzazione, una messa in chiaro autobiografica dell’io narrante e, contemporaneamente, la sua sottrazione ad ogni visibilità. Quest’opera esemplificherebbe infatti l’impossibilità di pervenire alle “fonti primarie” come alla cause finali degli eventi narrati, attestando così l’ineludibilità di uno iato fra vita e scrittura, fra esistenza e interpretazione, e dunque di una scissione del self da se stesso e dall’universo che lo circonda (cfr. Iser 1988, pp. 30-33). Per tale sua peculiare sovversione di ogni raccoglimento presso il sé, la soggettività tratteggiata nel Tristram Shandy ha potuto assumere già presso i suoi primi lettori valore emblematico. Nel 1792 Salomon Maimon vi allude in uno degli sporadici richiami intertestuali della sua Lebensgeschichte (Maimon 1984, p. 113): l’opera alla quale più di ogni altra resta ancora oggi legato il suo nome,2 e che dal romanzo sterniano sembra mutuare non soltanto, come è stato osservato (Weill 2009, p. 30),3 la struttura a chiasmo e ad anelli concentrici, ma soprattutto la tendenza a presentare un soggetto “decentrato”, non perché in Maimon si osservi una scissione del proprio io, come in Tristram, quanto perché egli si descrive, in continuità con una tradizione, quella dell’autobiografia ebraica, assai poco rappresentata, ma fortemente connotata nei suoi tratti distintivi,4 al modo di uno schlemiel. Già Hannah Arendt, in The Jew as Pariah, aveva suggerito di annoverare Maimon come il capostipite di quella teoria di “sfortunati”, che hanno costellato la storia intellettuale ebraica (Arendt 1944/2017, p. 19). L’osservazione risulta invero essere solo in parte condivisibile, se ci si limita a considerare il termine schlemiel nell’accezione assunta dalla Arendt, ossia come 2 Come ricorda Atlas (1964, p. 2, nota 4), a dispetto della scarsa diffusione del pensiero di Maimon fra i suoi contemporei, la Lebensgeschichte conobbe un grande successo. Pubblicata più volte fra Sette e Ottocento, nel Novecento essa è stata nuovamente stampata a Monaco, nel 1911, presso Georg Müller, per le cure di J. Fromer. Su questa edizione è stata condotta, nel 1920, la traduzione italiana di E. Sola, poi riveduta – con qualche imprecisione puntualmente riconosciuta e stigmatizzata da C. Cases (1989, p. 29) – da G. Scarpelli (Maimon 1989). Recentemente la fortuna della Lebensgeschichte è stata illustrata da Melamed (2018, pp. xiii-xvii). 3 Più in generale sulla struttura dell’autobiografia di Maimon si veda ora Wälzholz 2016, pp. 36-50. 4 Cfr. Hayoun, 2008, pp. 231-232, il quale indica l’opera di Maimon come ultimo esempio, in età moderna, di autobiografia ebraica, genere nato con Leone Modena alla fine del Cinquecento e proseguito, nel Settecento, sulla scia di Rousseau, con Yaaqov Emden. Ma su ciò si veda altresì Moseley 2006, pp. 286 sgg.
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colui che, fra molteplici distrette e avversità, vive ai margini della propria realtà sociale e culturale, come una sorta di apolide metafisico. Non può infatti trascurarsi che Maimon, secondo quanto si trae dalla sua stessa Lebensgeschichte, era pienamente immerso nel contesto Ostjuden, sicché la sua apolidia si rivela certo meno completa e insieme più consapevolmente scelta di quella, per seguire gli esempi proposti dalla Arendt, del “signore dei sogni” tratteggiato da Heine o dallo “yid” impersonato da Charlie Chaplin. Ove però, approfondendo gli aspetti salienti dello schlemiel nel suo sviluppo storico (cfr. Wisse 1974, pp. 190-192), se ne assimila la figura a quella dell’intellettuale un po’ maldestro, sì vulnerabile agli assalti del caso e rispetto al quale la disgrazia è un elemento essenziale, ma dotato di una tenacia nei confronti della realtà che lo circonda pronta a trasformarsi in un singolare cimento speculativo, senza tuttavia sacrificare la propria condizione di outsider, l’iscrizione di Maimon all’albero genealogico degli schlemiel appare maggiormente convincente. Al destino che per nascita – come Maimon stesso scrisse nell’aprile del 1789 a Immanuel Kant (cfr. Kant 1922, pp. 15-16), e come, due anni più tardi, la sua Lebensgeschichte attesterà in più luoghi – lo voleva condannato a trascorrere i migliori anni della vita “nelle selve lituane, privo di qualsiasi mezzo per accedere alla conoscenza della verità”, egli si oppose senza tregua, pur di appagare un “bisogno intellettuale” (Moritz 1984, p. 7) che invero solo in parte – egli ammette – la lettura delle grandi opere dell’illuminismo tedesco, come la Metaphysik di Christian Wolff, per caso rinvenuta in uno scalcinato negozio di libri di Berlino (Maimon 1984, p. 151), o della prima Critica di Kant (Maimon 1984, p. 201), riescono a soddisfare. Allo stesso modo, come alla fine dell’Ottocento non mancherà d’illustrare, romanzando alcuni passi della Lebensgeschichte, anche Israel Zangwill nel racconto Maimon the Fool and Nathan the Wise (Zangwill 1898/2018, pp. 313-359), la frequentazione diretta delle figure prime dell’Aufklärung, riunite attorno a Moses Mendelssohn, lascia in Maimon un senso d’insoddisfazione e d’irrequietezza, che intride l’intera autobiografia sino alle sue righe finali.5 Emergerebbe da ciò un ulteriore elemento, questa volta di natura psicologica, per accostare Maimon ad uno schlemiel: la tendenza a giudicare sempre sfavorevolmente ogni occasione gli si presenti, permanendo perciò
5 Maimon 1984, p. 212: “Non ho ancora raggiunto il porto della pace”. Sul legame fra Maimon e Mendelsshon deve vedersi Freudenthal 2002, pp. 369-385. Sulla peculiare posizione rivestita da Maimon rispetto alla filosofia illuministica, cfr. in generale Roubach 2003, pp. 80-88.
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in uno stato di raziocinante masochismo (cfr. Reik 1962, p. 41), ovvero in una costante situazione d’attesa.6 2. Tensioni gnoseologiche La diatesi masochista potrebbe interpretarsi come indotta da una sorta di parricidio tanto rabido quanto irrisolto, tentato da Maimon nei confronti della cultura testuale dalla quale proviene e da cui non sembra in grado di evadere,7 sicché egli vivrebbe costantemente nella procrastinazione. Il significato di tale provvissorietà non sarebbe, tuttavia, riconducibile a una condivisione da parte di Maimon di quella tensione che mai conosce rilassamento e che è stata indicata come lo stigma più autentico della vocazione messianica del pensiero ebraico (Scholem 1970/1986, p. 147). Vi osterebbe in primo luogo la vicinanza di Maimon alla riflessione di Maimonide (attestata in primo luogo dall’ampio commentario alla Moreh Nevukhim (Guida ai perplessi) che occupava, nella prima edizione della Lebensgeschichte, un’ampia sezione del secondo volume8), incline a ritenere che il compito 6 Come ha osservato Deleuze (1967/2007, p. 81): “masochista è colui che vive l’attesa allo stato puro”. Di conseguenza tale attesa non può che sdoppiarsi in due flussi simultanei: uno rivolto a ciò che il soggetto dichiara effettivamente di attendere e che nondimeno non arriva, per motivi in apparenza del tutto indipendenti da lui; l’altro rivolto a qualcosa di cui si aspetta l’inevitabile sopraggiungere: l’unica cosa che possa “far precipitare l’arrivo dell’atteso”. A sua volta tale duplice flusso si scandisce – prosegue Deleuze – in una combinazione di piaceredolore, la quale determina l’angoscia masochista: il tendere infinitamente verso il piacere, aspettandosi intensamente il dolore. 7 Cfr. Maimon 1984, p. 223: “E che cosa devo dire dell’enorme numero di libri, che trattano di quelle leggi che non sono più in uso […] la penna mi cade dalle mani al ricordo che io e molti altri come me spendemmo i migliori anni, nei quali le forze sono nel loro pieno vigore, in questi affari ammazza-spirito [geisttötenden], e nei quali dovevamo vegliare la notte, onde trarre fuori un senso là dove senso non vi è, scoprire con arguzia contraddizioni, là dove non ve ne sarebbero da cercare, risolverle grazie all’acume là dove esse si trovano palesemente, acchiapparle dopo le ombre per mezzo di lunghe catene di inferenze, e costruire castelli in aria”. Da questo passo Socher (2006, pp. 123-124) ha tratto motivo per rilevare che, sebbene l’identificazione dell’autore col protagonista dell’autobiografia sia solitamente sancita dalla immagine della “mano che tiene la penna”, in Maimon il ricordo della Polonia, dei suoi studi, della sua famiglia abbandonati per andare “in cerca della verità”, lo priva quasi letteralmente della sua identità di autore di lingua tedesca, così da renderlo alieno tanto al proprio contesto originario quanto a quello di adozione. 8 Cfr. Maimon 1984, p. 241, dove si legge dell’“influenza affatto decisiva” esercitata da Maimonide sul pensiero maimoniano, un’influenza lasciata però negletta dagli editori moderni della Vita, i quali, come J. Fromer, hanno posto in appendice il commentario alla Guida ai perplessi, ovvero l’hanno soppresso del tutto, come nell’edizione curata da M. Spitzer, pubblicata sotto il titolo Geschichte des eigenen Lebens (Berlin, Schocken Verlag, 1935), ovvero in quella, versata in lingua inglese da J. Clark Murray, dalla quale il commentario fu espunto, in
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dell’uomo sia stato definito sin dalla rivelazione e che pertanto il suo adempimento prescinda totalmente dall’avvento del Messia. Per il filosofo spagnolo, l’uomo sarebbe perfettamente in grado di realizzare il proprio destino, sicché il messianismo sarebbe da considerare soltanto un elemento della tradizione (cfr. Maimonide 1993, p. 42). Ciò nondimeno, la prospettiva “razionalistica” (Bannon 1998/2000, p. 29; cfr. pure Wurzburger 1993, pp. 6780; Yardenit Albertini 2009, pp. 389 sgg.) inaugurata da Maimonide nell’ambito della storia del messianismo ebraico non escluderebbe affatto la possibilità d’una condizione esistenziale sottoposta a un principio di dilazione. Al contrario, come proprio la Lebensgeschichte di Maimon sembra provare rispecchiandosi nel pensiero di Maimonide, il nesso fra l’asintotico tendere verso la conoscenza e un leben im Aufschub, nel quale nulla può dirsi definitivo e irrevocabile, appare del tutto indissolubile. Sulla centralità sia diegetica che esegetica della posizione di Maimonide nell’economia dell’autobiografia maimoniana la critica si è già soffermata.9 Per confortare quest’interpretazione è stato in particolare invocato un passo nel quale Maimon, oppresso dall’indigenza, narra d’essersi rivolto a un pastore luterano dichiarandosi risoluto, per raggiungere la propria “felicità sia temporale che eterna [zeitliche und ewige Glückseligkeit] – la quale dipende dal conseguimento della perfezione [Erlangung der Vollkommenheit] – […] ad abbracciare la religione cristiana” (Maimon 1982, p. 183; cfr. Socher 2006, p. 132). Egli infatti farebbe qui ricorso a una nozione – quella di Erlangung der Vollkommenheit – che traduce letteralmente quella maimonidea di “qinyan hashelemut”, spiegata altrove da Maimon come la tensione che conduce le azioni umane a conformarsi a quell’ideale regolativo della perfezione divina (Maimon 1965/1999, p. 191),10 che però il dettato di Maimonide è chiaro nel circoscrivere a una dimensione esclusivamente “politica”, esorbitando esso dalle facoltà di “un solo individuo isolato” (Maimonide 2003/2013, pp. 614-618).11 A quest’ultimo, invece, al fine di tentare di raggiungere la perfezione morale e intellettuale, è possibile, secondo Maimonide, solo studiare la Torà, attraverso l’approfondimento della quale è dato avvicinarsi a Dio, “nella misura in cui è possibile all’uomo […] di conoscerLo” (Maimonide 2001, p. 77).
quanto non “biografico” e in sospetto d’essere un mero “riempitivo” (Clark Murray 1888, p. xiv). Sull’importanza di Maimonide sul pensiero di Maimon si vedano Hayoun 1999, pp. 7-55; Grózinger 1930, pp. 179-182. 9 Lo suggerisce, ma apoditticamente, già Weissberg (1997, p. 113). 10 Il commento si riferisce al cap. II della I parte della Moreh Nevukhim. 11 In continuità con tale significato politico, i “giorni del Messia” indicano, per Maimonide, l’epoca in cui sarà ristabilita una sorta di pax judaica (cfr. Coppola 2009, pp. 35-44).
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Una puntualizzazione, questa, che si riflette sulle chiose che Maimon dedica alle considerazioni espresse nella Moreh Nevukhim a proposito del significato delle espressioni bibliche impiegate per caratterizzare la natura di Dio. Queste – aveva notato Maimonide – parrebbero ricalcare gli attributi di grado superlativo con i quali si è soliti definire quanto, dell’umano, è più candente, più perfetto, più grande, così postulando una somiglianza fra noi e Dio che dovrebbe essere invece esclusa (Maimonide 2003/2013, pp. 204-205). Sarebbe infatti necessario rilevare che il concetto di ente è predicato di Dio e di quanto è diverso da Lui “in modo puramente equivoco”: si tratterebbe – così come avviene nel considerare “la scienza, la potenza, la volontà e la vita” – di una mera omonimia fra quanto, del creato, è dotato di tali caratteri e ciò che pertiene a Dio. “Non bisogna credere – scrive Maimonide – che Dio abbia cose aggiunte alla Sua essenza simili [agli] attributi aggiunti alla nostra essenza” (Maimonide 2003/2013, p. 206). Perciò sia qualora vengano conferiti a Dio attributi di azione sia qualora venga predicata una sua specifica proprietà, è opportuno esprimersi ricorrendo ad una forma di negazione. Ma questa negazione non deve essere applicata a Dio alla stessa stregua in cui si tende a negare di una cosa ciò che non le è connaturale, “come quando diciamo di un muro che non ci vede” (Maimonide 2003/2013, p. 210). Lungi dal sanzionare un’imperfezione, tale negazione non solo contraddice l’affermazione d’un attributo, ma anche l’affermazione della privazione di tale attributo (cfr. Maimonide 2003/2013, p. 210).12 Si tratterebbe quindi di una negazione che pone una non-corrispondenza tanto fra il soggetto e un predicato quanto fra il soggetto e il contrario logico di quel predicato. Tanto nel commento a Maimonide annesso alla propria autobiografia quanto in quello, successivo, redatto in ebraico, Maimon si appunta sul modo in cui sia improprio, per Maimonide, attribuire a Dio il predicato dell’esistenza, perché l’esistenza sarebbe già inerente alla sua essenza ed essa non potrebbe perciò essere suo attributo. “Dio dunque esiste, senza esistenza [Gott existirt also, ohne Existenz]” (Maimon 2000, p. 54). Per Maimonide – a questo alluderebbe il suo richiamo alla “negazione della privazione” attributiva – gli unici predicati che potrebbero impiegarsi per definire Dio dovrebbero essere delle pure “negazioni di negazioni [Verneinungen der Verneinungen]” (Maimon 2000, p. 55). Secondo quanto ha rilevato Friedrich Kuntze (1912, p. 231), l’assumere Dio in tale assoluta irriducibilità determinerebbe, nella riflessione di Maimon, una impasse epistemologica, compendiata nell’idea di “intelletto infinito”. 12 Al riguardo cfr. Wolfson 1977, in part. pp. 219-220. Ma si veda pure Kasher 1994, pp. 461-472.
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Come Maimonide aveva indicato nella conoscenza di Dio il fine ultimo dell’uomo e lo scopo cui tutta la sua esistenza dovrebbe tendere, così Maimon sottolinea che il telos al quale ciascun individuo tende nella sua finitezza creaturale è dato dalla perfetta conoscenza che deriva dal tentare di portare a unità il disparato insieme delle singole cognizioni (cfr. Maimon 1797, pp. 255-257), così da avvicinarsi all’impossibile adeguazione con l’intelletto divino. “Il nostro intelletto – scrive Maimon – è lo schema per l’idea di un intelletto infinito” (Maimon 1790, p. 365).13 I caratteri che connotano quest’ultimo, sebbene si rinvengano già in Aristotele (2017, pp. 517-519; Met. L 7, 1072 b 9-23), sono da Maimon ricalcati sul modello di Maimonide, e in particolare da quanto si legge nel capitolo LXVIII della Moreh Nevukhim, nel quale si sostiene che Dio è, “in un unico concetto, senza alcuna molteplicità”, “intelletto, soggetto di intellezione e oggetto di intellezione” (Maimonide 2003/2013 p. 238). L’intelletto divino crea ogni cosa conoscendola, dal momento che in lui il pensiero di un oggetto coincide con la sua generazione: la forma e la materia vi corrispondono ed esso può perciò immediatamente riunire le singole determinazioni che concorrono alla definizione di un oggetto. Il che spiega pure il motivo per il quale, per l’intelletto infinito, la cosa e la sua rappresentazione coincidono (cfr. Maimon 1790, p. 365).14 Al riguardo Maimon chiarisce che “noi assumiamo (almeno come idea) un intelletto infinito, per il quale le forme sono allo stesso tempo oggetti di pensiero […]”; e così accade per il nostro intelletto, sebbene in un modo più limitato (Maimon 1790, pp. 64-65).15 Se, secondo quanto si afferma nel Versuch über die Transzendentalphilosophie (cfr. Maimon 1790, pp. 28-35; al riguardo si veda Schechter 2003, pp. 19-31), il pensiero d’un oggetto reale deriva da una sintesi di concetti secondo il principio di determinabilità, occorrerebbe considerare entro quali limiti, in ragione della finitezza che ci connota, sia possibile realizzare compiutamente tale sintesi concettuale, e dunque formulare un giudizio sul nostro mondo circostante, dal momento che noi non si è in grado di ab13 Analogamente Kant (1914/2010, pp. 68-69) sostiene che Gesù Cristo “schematizza” il concetto di perfezione morale. 14 Come ha sintetizzato Bergman (1967, p. 32): “L’intelletto infinito comprende l’oggetto reale tale quale è, come un qualcosa di pensato e nulla più, come qualcosa d’identico al concetto, proprio come l’intelligibile è identico all’intelligens. In questo senso Maimon utilizza il termine ‘reell’. Non vi è qui dualità fra un oggetto percepito e uno non-percepito, e nessuna intentio della rappresentazione di un oggetto. L’oggetto delle nostre rappresentazioni è solo uno schema dell’oggetto ‘reale’, che è identico al puro concetto e che è pienamente illuminato dalla luce dell’intelletto, nello stesso modo in cui il nostro intelletto finito è lo schema di un intelletto infinito”. Ma al riguardo si veda pure Cassirer 1920/1955, pp. 134-143. 15 Mette conto ricordare che Kant (1922, p. 52) adombra, nella soluzione data da Maimon alla questione quid iuris, un non troppo larvato spinozismo.
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bracciare retrospettivamente, al contrario dell’intelletto infinito, l’intera catena delle determinazioni concettuali, quali si compongono attraverso il risalire dal generale al particolare. In tal senso il pensiero scientifico, che si compone di proposizioni sintetiche, in tanto potrebbe rivendicare la propria validità, in quanto presupporrebbe che queste proposizioni sono risolvibili in proposizioni analitiche da parte di un intelletto infinito, “che crea fuori di sé tutte le possibili connessioni e relazioni [Beziehungen und Verhältnissen] fra le cose” (Maimon 1790, p. 64; cfr. Atlas 1964, p. 119). Anche questo approdo non ha, tuttavia, nella riflessione di Maimon un significato illativo. Esso è anzi esplicitamente posto nella forma di una mera evenienza. Si legge infatti nel Versuch über die Transzendentalphilosophie che se per rispondere al tema posto da Kant a proposito della possibilità che si possano conciliare in maniera necessaria forme di pensiero determinate a priori con oggetti determinati a posteriori, può sembrare opportuno presupporre un “intelletto infinito”, è pur vero che si tratta esclusivamente “d’una sorta di ipotesi”, adottata per rendere maggiormente comprensibile la questione (Maimon 1790, p. 364). Il che indurrebbe ad osservare come, in linea generale, per Maimon non si tratterebbe di verificare se sia dato esprimere giudizi empirici aventi validità universale e necessaria, ma di tracciare il quadro generale nel quale si è in condizione di fare ciò (cfr. Nisenbaum 2018, p. 95). Ne seguirebbe l’esitare in uno scetticismo declinato nei modi di una presa di congedo dall’aspirazione a conferire al proprio pensiero portata universale, e dunque – secondo quanto si legge nella Lebensgeschichte – in un sistema filosofico al quale aderire in virtù del suo convenire sulla presenza, nella nostra conoscenza, di numerosi elementi puri commisti ad elementi reali, intendendo i primi “come l’idea cui, nell’ambito del reale, ci avviciniamo sempre di più senza, tuttavia, riuscire a raggiungerla” (Maimon 1984, p. 211). Così, esemplarmente, laddove la deduzione trascendentale, nella prospettiva kantiana, consiste nella dimostrazione della necessità di un concetto per la spiegazione della realtà d’un fenomeno, la quale presuppone come suo “vero correlato” (Kant 1904/2000, p. 60) apodittico l’oggetto noumenico, senza il quale cadrebbe qualsiasi esigenza di unificazione necessaria, causale, sostanziale del molteplice empirico, in Maimon si osserva l’abbandono d’ogni trascendentalismo, pur senza rinunciare alla cosa in sé.16 Sebbene, secondo quanto si afferma nello Streitfereien im Gebiete der Philosophie (cfr. Maimon 1793a, pp. 206-207), sia da escludere, in quanto del tutto inidoneo ad esprimere il fondamento oggettivo della conoscenza, 16 Non a torto si è definito il pensiero di Maimon un “kantismo moderato” (Ameriks 2000, p. 63).
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un concetto posto al di fuori della coscienza, ossia una cosa in sé – “filosofia critica” autentica è infatti, per Maimon, soltanto quella in cui tutto è dato per la coscienza –, per pervenire alla conoscenza d’un oggetto posto al di fuori della coscienza occorre comunque sviluppare un ragionamento, il quale se da un lato è assai incerto, ove si intenda procedere induttivamente dalla coscienza alla cosa in sé (Maimon 1790, p. 203), dall’altro, quando si concepisce la coscienza come un elemento attivo, privo di limiti e capace di rendere totalmente presenti gli oggetti, non può presupporre un oggetto logico che sfugga all’attività del soggetto, articolata come pensiero, rappresentazione e percezione (cfr. Maimon 1794, p. 320). Si è ritenuto di poter perciò rilevare l’insostenibilità dell’adozione da parte di Maimon del concetto di cosa in sé (Horkheimer 1990, p. 83; Moiso 1972, p. 62), non potendosi per lui assumere rappresentazioni se non in riferimento all’attività sintetica dell’intelletto. Più propriamente, occorrerebbe rilevare che la cosa in sé non è da Maimon elisa, ma assorbita nel concetto determinato della forma di un oggetto in generale, ovvero nel concetto universale di sintesi (cfr. Maimon 1793a, pp. 206-207), costituendo essa un elemento immanente della predicazione, intesa come un atto di determinazione. In tal senso la cosa in sé si configurerebbe all’incrocio fra immanenza e trascendenza, dal momento che essa fungerebbe, nell’ambito della nostra conoscenza sensibile, da “oggetto x”. Essa infatti dovrebbe essere pensata all’interno della coscienza, ancorché quale concetto limite al quale la parabola del pensiero, nel corso della sua attività sintetica, tende infinitamente (cfr. Maimon 1790, pp. 204-206). Enzo Paci ha annotato che Maimon intenderebbe la “cosa in sé” come ciò che, pur permanendo nell’ambito dell’azione del pensiero, non può essere tradotto in puri termini conoscitivi. Come tale, essa resterebbe oscura e non completamente analizzabile, “quasi qualcosa di inconscio” (Paci 1957, p. 7). Il richiamo non pare alludere all’inconscio freudiano, quanto a quello kantiano, e quindi a un inconscio categoriale, combinatorio (cfr. Kant 1904/2000, p. 209). Ma l’accezione con la quale lo comprenderebbe Maimon non porrebbe, come rilevato, l’inconscio al di fuori della nostra facoltà conoscitiva, sicché, ove ad esso si volesse accostare la nozione di “cosa in sé”, il richiamo all’inconscio kantiano non potrebbe valere neppure con riguardo alla sua organizzazione: esso definirebbe se mai un ordine finito tutto interno al soggetto pensante, nel senso che esso, in quanto “atto di determinazione” presente in ogni Denkbewegung, indicherebbe la perfetta unità ideale, non già – come si è pure ritenuto (Yakira 2003, p. 75, che ritiene di avvicinare Maimon ad Husserl) – fra intentio e intentum, ma di conoscenza e verità, pur nell’assoluta preclusione per il pensiero di pervenire a quest’ultima, nella sua pienezza.
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Walter Benjamin, nella Einleitung che avrebbe dovuto introdurre alla studio sul dramma barocco tedesco (Benjamin, 1989, p. 934), con la sua speciale capacità di cogliere in ogni autore la bellezza letteraria, il rigore concettuale e l'intuizione poetica, ha ricondotto tale diastema fra conoscenza e verità all’esempio offerto dalla pagina della Lebensgeschichte in cui Maimon narra (Maimon 1984, p. 270) – riprendendo una leggenda riportata da un altro commentatore delle opere di Maimonide, Moshe Narboni – di come le pietre che ricoprono il Sinai portino impresso il segno di una foglia d’albero, che ha il particolare carattere di riprodursi immediatamente su ogni pezzo di pietra che venga staccato da un blocco più grande e così all’infinito. Vi si troverebbe dispiegato in forma allegorica l’impossibile nesso che, nella prospettiva di Maimon, tiene insieme il limite euristico rappresentato dalla “cosa in sé” con le singole determinazioni concettuali, in quanto parti della verità, a sua volta da considerarsi come interamente inclusa nella coscienza, alla quale soltanto – appuntava in quello stesso torno d’anni Isaak von Sinclair – “può assegnarsi il proprio posto dappertutto” (Sinclair 1972, p. 729).17 3. Scetticismi metodologici Nell’universo concentrazionario della coscienza, come delineato da Maimon, parrebbe trovare soluzione il problema cardine dell’eredità kantiana relativo alla relazione fra soggetto e oggetto, collegato a quello della cosa in sé e al limite da essa rappresentato al conseguimento di una filosofia totale. Ciò non dovrebbe tuttavia concludersi con un approdo, da parte di Maimon, a un idealismo già compiuto, sebbene ancora adialettico.18 Ad ostarvi sarebbe lo stesso “differenziale della coscienza” per mezzo del quale viene superato “il metodo kantiano del condizionamento epistemologico”, nel suo prevedere una distinzione fra soggetto ed oggetto, a favore di “un metodo di genesi interna soggettiva” (Deleuze 1988/2004, p. 145). Nel Versuch über die Transzendentalphilosophie, si legge a questo proposito che a cospetto di due colori che appaiono diversi come il rosso e il verde, occorre ammettere che non vi sia soltanto una differenza empirica, ma pure una dif17 Come ha osservato Bodei (1972, p. 712), la riflessione di Isaak von Sinclair – pubblicandolo – è specchio di quel processo che dagli eterogei elementi della filosofia fichtiana, kantiana e spinoziana e dalle posizioni di Schiller, di Reinhold, di Schulze e appunto di Maimon conduce al primo cristallizzarsi di moduli dialettici. 18 Come invece voluto, ad esempio, da Atlas (1964, pp. 316 sgg.), che sottolinea numerose analogie fra il pensiero di Maimon e quello di Fichte, secondo un filone ben attestato all’interno della Maimon-Forschung, a partire da Bloch (1985/2011, pp.43-45), e proseguito ancora con Frank (1997, pp. 91-132).
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ferenza interna, dovuta al fatto che “la regola particolare della produzione di un oggetto, o il modo del suo differenziale, ne fa un oggetto particolare, e i rapporti fra i differenti oggetti nascono dai rapporti dei loro differenziali”; più esattamente, – prosegue Maimon – “un oggetto richiede due elementi [Stücke]. Il primo: una intuizione data o a priori o a posteriori; il secondo, una regola mentale dell’intelletto, per mezzo della quale il rapporto dei molteplici è determinato nell’intuizione” (Maimon 1790, pp. 32, 82). L’oggetto sarebbe dunque il prodotto di una percezione cosciente, ovvero esso sorgerebbe nella sua determinazione specifica dall’Idea, in quanto sintesi reciproca dei rapporti differenziali (Maimon 1790, p. 33). L’Idea pertanto si porrebbe – si è sostenuto (cfr. Deleuze 1968/1997, p. 226; 2004, p. 146) – come il perno di una psicologia trascendentale, dove in luogo di un intelletto infinito si ha l’affermazione di un Cogito nel quale, tutto dovendosi ricomprendere, dev’essere posto anche il non-pensato. L’eco leibniziana che si effonde in tale interpretazione, e che si compendia nell’intendere la intuizione sensibile delineata da Maimon alla stregua delle petites perceptiones di cui si legge nei Nouveaux essais sur l’entendement, ossia nel considerare ogni nostra percezione cosciente frammista a una serie infinita di impressioni di cui non si avrebbe contezza in ragione del loro numero o della loro piccolezza (cfr. Leibniz 2000, p. 173), parrebbe nondimeno potersi riconsiderare alla luce delle osservazioni esposte da Emil Lask, che non si limita ad indicare i riposti confini di una possibile psicologia trascendentale, ma si impegna in un’epesegesi dei suoi territori, confrontando l’intera speculazione di Maimon con il pensiero dell’irrazionalità (Lask 1902, p. 44).19 La schisi che Maimon pone in evidenza fra metodo discorsivo-trascendentale e singole proposizioni empiriche comproverebbe il suo ritenere assai dubbia la possibilità di un passaggio dal razionale all’empirico;20 e ciò perché, sebbene non possa dubitarsi della “realizzazione [Verwirklichung] dell’a priori nell’a posteriori”, per Maimon sarebbe da escludere “la conoscibilità di tale realizzazione in un qualche singolo caso o l’utilizzabilità pratica dell’a priori”, così da doverne necessariamente, ma “dolorosamente” avvertire la perdita (Lask 1902, pp. 45, 79).
19 Occorre ricordare che questa interpretazione si pone nell’alveo delle interpretazioni di Maimon offerte già da Windelband (1899, p. 199) e da Fischer (1900, pp. 71-84). 20 Cfr. Lask 1902, p. 45, dove a conforto si cita un passo da Maimon 1793b, p. 16 – dissertazione predisposta per il concorso della Reale Accademia di Berlino per l’anno 1792: Quali progressi ha compiuto la metafisica dai tempi di Leibniz e Wolff? –, nel quale si legge: “La filosofia non ha gettato alcun ponte per mezzo del quale il passaggio dal trascendentale al particolare è reso possibile”.
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In questa prospettiva, l’atteggiamento scettico di Maimon assumerebbe caratteri per certi versi abreativi.21 Secondo quanto induce a rilevare il dettato delle Briefe des Filaletes an Aenesidemus,22 diversamente dalla filosofia critica, la quale “accetta di pensare il reale degli oggetti, secondo le condizioni fondate a priori della conoscibilità, lo scetticismo pone in dubbio questo fatto e cerca di mostrare che la prova del senso comune [Gemeinsinn] non è qui valida, dal momento che riposa su di un’illusione da spiegare con leggi psicologiche” (Maimon 1794, p. 302). Se quindi, concordemente a quanto opinato dal filosofo critico, il “vernünftiger Skeptiker” delineato da Maimon non esclude affatto l’esistenza di una conoscenza a priori e di una conoscenza a posteriori, occorre nondimeno notare che quest’ultimo nega che i principi a priori, costituenti le condizioni di possibilità dell’esperienza, trovino applicazione nelle singole conoscenze empiriche. Di qui, per Maimon, la ragione del perché, nelle scienze matematiche, noi si sarebbe “simili a Dio”. Tutti i loro concetti sarebbero infatti “da noi pensati, e contemporaneamente rappresentati a priori come oggetti reali attraverso una costruzione”, mentre in relazione alla conoscenza empirica degli oggetti particolari “si possono ingaggiare alcune lotte nell’ambito della verità soltanto grazie a delle truppe leggere, l’induzione, l’analogia, la probabilità e simili; ma certo non sicure conquiste” (Maimon 1793b, pp. 16, 20). L’impossibilità di fare affidamento su concetti a priori di tipo categoriale, per pervenire a una conoscenza effettiva e compiuta della realtà empirica (cfr. Maimon 1794, p. 438), porterebbe a connotare, nel pensiero maimoniano, l’ambito della razionalità come una “grandezza trascendentale”, sebbene limitata al proprio interno da una sorta di “irrisolvibilità [Unauflöslichkeit]” (Maimon 1794, p. 438), non già tuttavia dovuta all’irrazionalità dell’empirico, al suo perenne sottrarsi ai tentativi di una razionalizzazione assoluta, come voluto da Lask, dal momento che, se così fosse, si riproporrebbe il motivo kantiano della distinzione fra soggetto e oggetto, che, per Maimon, come notato, deve invece superarsi, riconoscendo in primo luogo la loro sintesi nella coscienza;23 quanto, piuttosto, a quell’intrinseca impotenza del pensiero che è commista “allo sforzo dello spirito umano verso la perfezione [Vollkommenheit]” (Maimon 1984, p. 85). Quest’anelito verso la perfezione è, nella Giva’at ha-Moreh, interpretato da Maimon quale messa in atto dell’intelletto umano nella sua pura poten21 A tale funzione catartica dello scetticismo rispetto alla filosofia critica allude Fichte (1965, p. 109), espressamente richiamandosi tanto a Schulze quanto a Maimon. Ma su ciò si veda ora Bransen 1991, pp. 99 sgg. 22 Pubblicate in appendice a Maimon 1794, pp. 291-438. 23 Sotto questo riguardo è da condividere l’opinione espressa da Engstler (1990, p. 136 n.), secondo cui la concezione di Lask “capovolge completamente l’impostazione di Maimon”.
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za, secondo una prospettiva che trova la propria origine prima ancora che nella Moreh Nevukhim di Maimonide,24 nel De anima aristotelico, probabilmente conosciuto da Maimon attraverso la mediazione di Alessandro di Afrodisia (Maimon 1965/1999, pp. 255-258).25 In quest’opera, l’intelletto, ricorrendo all’immagine della tabula rasa o, meglio, del rasum tabulae (cfr. Alessandro di Afrodisia 1996, p. 82; De an. 84, 25), è descritto come mera potenza,26 riconoscendo in ciò quanto a propria volta Maimon pone a presupposto di ogni astrazione. Qualora infatti l’intelletto non fosse connotato come pura potenza, esso si confonderebbe immediatamente con l’atto, nei modi di una possibilità puramente logica, laddove, a differenza di quanto si verifichi nell’intelletto infinito di Dio, “già sempre in atto”, ciò che per Maimon sembra caratterizzare il nostro intelletto è propriamente il mutarsi da potenziale in attuale solo di tempo in tempo, tanto è vero che in noi l’intelletto in potenza e l’oggetto dell’intellezione non possono che porsi in una sorta di unità nella distinzione.27 Ma se il nostro intelletto è destinato a permanere nella pura potenza, ciò non significa – secondo quanto Maimon stesso afferma – che esso non sia a propria volta intelligibile. Al contrario, l’intellezione è ciò in cui si compendia la nostra perfezione, nella misura in cui, realizzando i diversi atti conoscitivi, essa esplica il passaggio dalla potenza all’atto (Maimon 1965/1999, p. 145), senza tuttavia mai far venir meno l’essere in potenza dell’intelletto, in quanto compito infinito (Maimon 1791, p. 169; cfr. Aristotele 2001, p. 215; De an. 429 b 6-10). L’oggettività della conoscenza, infatti, non coincidendo con un oggetto dato o con un suo effetto, ma rappresentando l’esigenza conoscitiva del “dato” che è originaria e dimostrabile quanto l’esigenza del “pensiero”, segna un concetto limite che induce sì a considerare “il nostro essere pensante cittadino di un mondo intelligibile” (Maimon 1790, p. 338), ma al contempo a considerare un mondo che è solo e in quanto intellettualmente perscrutabile, “una pura finzione” (Cassirer 1920/1955, p. 143). Non a caso in un lustiger Ball, che fa ritornare come maschere delle proprie maschere Pitagora, Platone, Leucippo Maimonide, Kant, le figure 24
E segnatamente nella prima parte, cap. LXVIII. Su ciò deve vedersi Socher 2006, pp. 59 sgg., che richiama altresì l’attenzione sul trattato risalente al 1778, Hesheq Shelomo (Il desiderio di Salomone), opera ritenuta perduta a seguito della distruzione per mano nazista della berlinese Hochschule für die Wissenschaft des Judentum, e rinvenuta nel 1984 fra le carte del professor Alexander Guttman. Oggi si trova nelle collezioni della National Library of Israel, sotto la segnatura MS 806426. 26 Aristotele 2001, p. 213 (De an. III, 4, 429 a 21-22): “La sua [id est dell’intelletto] natura non è altro che questa: di essere in potenza. Dunque il cosiddetto intelletto che appartiene all’anima non è in atto nessuno degli enti prima di pensarli”. 27 Cfr. Maimon 1965/1999, pp. 256-257, dove si segue il dettato di Maimonide 2003/2013, pp. 240-241, non meno – parrebbe – del dettato del Libro Theta della Metafisica d’Aristotele. 25
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prime della Kabbala, e tutta la tradizione metafisica occidentale, dovrebbe trovare per Maimon rappresentazione l’intera storia della filosofia (Maimon 1984, p. 320, nota a). Qui Mme Metafisica, con la complicità della sua domestica Fisica, si mostra tetragona alle profferte dei numerosi invitati accorsi al bal-en-tête con la speranza d’irretirla. “Uno dei più intelligenti fra loro”, Kant, di Mme Metafisica tenta allora di mettere in dubbio la stessa esistenza, generando una ridda di opinioni ora favorevoli ora contrarie; finché, sotto mentite spoglie, non entra in scena Maimon stesso, sostenendo che, a suo giudizio, si può essere “un buon cavaliere” anche senza credere a tale “parto del cervello [Gehirngeburt]” (Maimon 1984, p. 319). A cospetto di questo teatro di mimi dalle scene molteplici, fuggevoli e istantanee, con il quale la Lebensgeschichte si conclude, occorre soprattutto prendere in considerazione – sembra suggerire Maimon con perplessa lucidità – sia le conseguenze del credere, con sentimento ancora sensibile alle seduzioni della Metafisica, nell’irreale intatto dentro il reale devastato, sia gli esiti cui conduce il dualismo critico di stampo kantiano fra cosa in sé e fenomeno, per quindi accedere a “uno scetticismo che viene compiendo se stesso”, in una perenne ricerca di senso, priva di ogni sicura certezza, e perciò assai simile a un vagabondaggio, a un nomadismo intellettuale, pervaso da un’inquietudine cronica, da una “Klage”, che fa del pianto la melodia della propria loquacità: Je suis venu, calme orphelin, Riche de mes seuls yeux tranquilles, Vers les hommes des grandes villes … Suis-je né trop tôt ou trop tard? Qu’est-ce que je fais en ce monde? (Verlaine 1962, p. 279)
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Daniel Elon
Skepsis und System. Salomon Maimons Versuch über die Transzendentalphilosophie und Gottlob E. Schulzes Aenesidemus in chiastischer Gegenüberstellung
Abstract: Skepticism and System. Salomon Maimon’s Essay on Transcendental Philosophy and Gottlob E. Shulze’s Aenesidemus in a Chiastic Comparison In the beginning of the 1790s, Salomon Maimon and Gottlob Ernst Schulze both presented critical approaches to the theoretical philosophy of Immanuel Kant via two independent skepticist perspectives, namely in the books Essay on Transcendental Philosophy (1790) and Aenesidemus (1792), respectively. Especially Fichte considered these skepticist perspectives to be of decisive effectivity against the very foundations of Kantian critical philosophy. It is now generally accepted that Maimon and Schulze have been of major importance for the development of classical German philosophy due to their influence on Fichte. In this paper, the two divergent conceptions of skepticism in themselves shall be examined and compared to each other in a detailed, yet compact way, especially regarding their positions towards the question of the possibility of philosophy as a unified, consistent system. In this way, a deeper comprehension of the main features of Maimon’s and Schulze’s understandings of philosophy in general shall be provided. Keywords: Skepticism, Systematicity, Transcendental Philosophy, Dogmatism, Rationalism.
Einleitung Mit Salomon Maimons Versuch über die Transzendentalphilosophie von 1789/90 und Gottlob Ernst Schulzes anonym veröffentlichtem Aenesidemus von 1792 erschienen, gewissermaßen in einer konstitutiven Schlüsselphase des philosophischen Diskurses zwischen den Großprojekten von Immanuel Kants Vernunftkritik und Johann Gottlieb Fichtes Wissenschaftslehre, zwei in diversen Hinsichten sehr ähnliche, in anderen Aspekten klar verschiedene, dabei auf jeden Fall bedeutsame Schriften. Was den Werken zunächst gemeinsam ist, ist ihre explizit skeptizistische Problematisierung dessen, was in Form von Kants kritischer Philosophie, u.a. auch in ihrer Fortführung durch Karl Leonhard Reinholds “Elementarphilosophie”, die Diskussion der Zeit maßgeblich bestimmte. Und gerade Fichte war von der Wirksamkeit der Kritiken Maimons und Schulzes an Kants
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und Reinholds Theoremen in einem solchen Maße überzeugt, dass er die Schriften der beiden Skeptiker zu verschiedenen Gelegenheiten als entscheidende Ausgangspunkte seiner eigenen Systembemühungen nennt. So heißt es unmittelbar zu Beginn seiner frühen programmatischen Schrift Ueber den Begriff der Wissenschaftslehre von 1794: Der Verfasser dieser Abhandlung wurde durch das Lesen neuer Skeptiker, besonders des Aenesidemus, und der vortreflichen Maimonschen Schriften völlig von dem überzeugt, was ihm schon vorher höchst wahrscheinlich gewesen war : daß die Philosophie, selbst durch die neuesten Bemühungen der scharfsinnigsten Männer noch nicht zum Range einer evidenten Wissenschaft erhoben sei (GA I, 2, S. 109).
Fichtes einstmaliger Enthusiasmus für Kants Philosophie wurde also primär durch die Angriffe Maimons und Schulzes auf dieselbe dahingehend eingeschränkt, dass der Philosophie als solcher, auch nach Kants und Reinholds Unternehmungen, noch immer der Status von Wissenschaftlichkeit fehle. Dies hängt, von Fichtes Perspektive aus gesehen, mit dem noch immer nicht behobenen Mangel an durchgängig systematischer Bestimmtheit der Philosophie, basierend auf einem ebenfalls noch fehlenden fundamentalen Prinzip, zusammen. Dass dieser Mangel bisher noch nicht behoben worden sei, konnten Maimon und Schulze, so Fichte, klar demonstrieren, auch wenn die beiden Autoren weder den Anspruch noch die Möglichkeit hatten, selbst effektiv ein philosophisches System zu begründen. V.a. Maimon gegenüber äußert Fichte in diesem Kontext seine enorme, geradezu hyperbolisch formulierte Wertschätzung. In einem, zumindest innerhalb der Maimon-Forschung, durchweg bekannten und vielzitierten Brief an Reinhold von März/April 1795 bekennt Fichte: Gegen Maimons Talent ist meine Achtung grenzenlos; ich glaube fest, und bin erbötig es zu erweisen, daß durch ihn sogar die ganze Kantische Philosophie, so wie sie durchgängig, und auch von Ihnen verstanden worden ist, von Grund aus umgestoßen ist. Das alles hat er gethan, ohne daß es jemand merkt, und indeß man von seiner Höhe auf ihn herabsieht. Ich denke, die künftigen Jahrhunderte werden unsrer bitterlich spotten (GA III, 2, S. 282).
Auch bezüglich Schulzes Werk äußert Fichte deutliche Anerkennung, obwohl er den Aenesidemus 1793 in Form einer umfangreichen Rezension (GA I, 2, S. 41-67; vgl. Druet 1973; Breazeale 1981; Karásek 2016) einer scharfen Kritik unterzieht. Dennoch: Die Anerkennung der Effektivität von Schulzes Angriff auf Reinhold und, in geringerem Maße, auch auf Kant spricht sich in Fichtes Äußerungen klar aus. Diesbezüglich schreibt er im Dezember 1793 in einem Brief an Heinrich Stephani über den Aenesidemus: Er hat mich eine geraume Zeit verwirrt, Reinhold bei mir gestürzt, Kant mir verdächtig gemacht, und mein ganzes System von Grund aus umgestürzt. Unter
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freiem Himmel wohnen geht nicht! Es half also Nichts; es mußte wieder angebaut werden (GA III, 2, S. 28).
Wie sich auf Grundlage der bisher angeführten Aussagen Fichtes ohne Zweifel festhalten lässt, sind die skeptizistischen Positionierungen Maimons und Schulzes gegenüber Kants kritischer Philosophie und dem Versuch einer Vervollständigung derselben durch Reinholds Elementarphilosophie als maßgebliche Motivationsgründe für Fichtes eigene Systemunternehmungen ab 1794 und somit auch auf längere Sicht als philosophiegeschichtlich bedeutsame Werke zu bestimmen. In der hier vorliegenden, möglichst kompakten und komprimierten Untersuchung soll es nun nicht schwerpunktmäßig um Fichtes systematischen Ansatzpunkt an den Werken Maimons und Schulzes gehen. Diese Thematik, die an dieser Stelle lediglich zur einleitenden historischen Verortung der beiden fokussierten Schriften diente, wurde in der Forschung, gerade der letzten Zeit, bereits eingehend behandelt.1 Von primärem Interesse ist hier vielmehr die direkte, systematisch motivierte Gegenüberstellung derjenigen spezifischen Skeptizismusmodelle, die in den Kant-kritischen Perspektiven des Versuchs über die Transzendentalphilosophie (im Folgenden: Versuch) und des Aenesidemus zum Ausdruck gebracht werden. Dabei wird sich zeigen, dass sich in diesen Modellen verschiedenartige, letztlich einander diametral entgegengesetzte Konzeptionen von Systemphilosophie und Systemkritik manifestieren. Diese Konzeptionen wiederum stehen in beiden Fällen in klarem Widerspruch zu dem, was die jeweiligen grundlegenden programmatischen und methodischen Ausrichtungen der Schriften, ebenfalls im Gegensatz zueinander, zunächst zu implizieren scheinen. Dadurch kommt es abermals zu einer systematischen Entgegensetzung der beiden untersuchten Positionen, weshalb sich innerhalb dieses Relationskomplexes schließlich eine chiastische Vergleichsstruktur explizieren lässt. Antizipierend sei hier bereits die These formuliert, dass die Position Maimons in diesem Kontext durch ein höheres Maß an philosophischer Tiefe und v.a. an gedanklicher Dynamik auffällt, aus diesem Grund für den philosophischen Diskurs der Folgezeit von größerer Bedeutung gewesen ist und auch gegenwärtig die interessanteren, instruktiveren Ansatz- und Forschungsmöglichkeiten bietet. Um dies einleuchtend demonstrieren zu können, sollen zunächst, in Teil 1 der Abhandlung, die Hintergründe der beiden Autoren, auch in ihrer Interaktion miteinander, sowie ihrer hier betrachteten Schriften in aller Kürze skizziert werden. In den ebenfalls stark komprimierten Teilen 2 und 3 wird 1 Vgl. u.a. Hammacher 1989; Krämer 1997; Fincham 2000; Thielke 2001; Bondeli 2002; Beiser 2003; Breazeale 2003; Gesang 2009; Messina 2011; Imhof 2016a.
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dargestellt, mit welchen spezifisch skeptizistischen Hauptargumenten Maimon bzw. Schulze kritisch und problematisierend auf Kants Philosophie eingehen. Dabei wird sich die Darstellung auf strukturelle Grundzüge und zentrale inhaltliche Charakteristika der Positionen beschränken, um die eigentliche, umfangreichere Hauptbetrachtung in Teil 4 vorbereiten und zu dieser überleiten zu können: Dort werden die beiden Skeptizismusmodelle gegenüberstellend zusammengeführt, um die oben bereits vorgezeichnete chiastische Vergleichsstruktur deutlicher explizieren zu können. Primär angestrebter Erkenntnisgewinn ist dabei ein tiefergreifendes Verständnis dessen, was das eigentlich Skeptizistische der Ansätze Maimons und Schulzes ausmacht und wie sich diese Ansätze, gerade hinsichtlich des zur Zeit der Entstehung der Schriften bedeutsamen Aspekts der Systematizität von Philosophie, voneinander unterscheiden. Im abschließenden Teil 5 wird dann erneut Maimons Denken in den Vordergrund gerückt, um aufzuzeigen, inwieweit dessen Positionierung zum Systemaspekt eine Sonderrolle innerhalb des Diskurses seiner Zeit einnimmt und damit gerade in gewolltem Gegensatz zu dem steht, was Fichte durch seine Wissenschaftslehre in der Folge zu leisten bestrebt war. 1. Historischer Hintergrund Mit Salomon Maimon und Gottlob Ernst Schulze stehen zwei Philosophen im Fokus, die, hinsichtlich ihrer äußeren Lebensumstände, kaum verschiedener sein könnten: Maimon, vermutlich 1753 (vgl. Engstler 1990, S. 13) im Dorf Žukau Barok (Sukowiborg) im Osten Polen-Litauens, heute Weißrussland, als Shelomo ben-Yehoshua geboren, wächst als Talmudschüler auf und kann seine rabbinische Ausbildung bereits im Kindesalter abschließen. In den späten 1770er Jahren begibt er sich, mit dem primären Ziel philosophischer Ausbildung und Erkenntniserweiterung, auf Wanderschaft in Richtung des deutschsprachigen Raumes. Nahezu permanent mit Elend verschiedener Art konfrontiert, wie er in seiner berühmten Lebensgeschichte (MGW I, S. 1-588) von 1792/93 schildert, gelingt es ihm nach vielen Reisen und Ortswechseln erst in den späten 1780er Jahren, im Berliner philosophischen Diskurs Fuß zu fassen. Dort beschäftigt er sich, vermutlich zwischen 1787 und 1789 (vgl. Ehrensperger 2004, S. XIV), intensiv mit Kants Kritik der reinen Vernunft (im Folgenden: KrV). Was zunächst als Kommentar zu Kants Werk konzipiert war, entwickelt sich während des Arbeitsprozesses mehr und mehr zu einem eigenständigen transzendentalphilosophischen Ansatz. Über den Philosophen und Arzt Marcus Herz, zugleich ehemaliger Schüler und langjähriger Briefpartner Kants, gelangt dieses Manuskript Mitte 1789 an Kant und wird später, zum Jahreswechsel (vgl. Engstler 1990, S. 27), um umfangreiche “Anmerkungen und Erläute-
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rungen über einige kurz abgefasste Stellen in dieser Schrift” (VT, S. 182238) ergänzt, als Versuch über die Transscendentalphilosophie mit einem Anhang über die symbolische Erkenntniß und Anmerkungen veröffentlicht. Den Ansatz des Versuches bezeichnet Maimon anderenorts selbst als “Coalitionssystem” (MGW I, S. 557), durch das Systemelemente der Philosophiekonzeptionen David Humes, Gottfried Wilhelm Leibniz’ und Baruch de Spinozas in Einklang zur kritischen Philosophie Kants gebracht werden sollen. Einen essenziellen Stellenwert innerhalb der Argumentationsstruktur des Versuches nimmt ein von Maimon vollzogener Rückbezug auf Humes Zweifel an der Notwendigkeit der Verknüpfung von Gegenständen im Erfahrungsurteil ein. Diesen “empirischen Skeptizismus”, der in Teil 2 eingehender betrachtet werden soll, versucht Maimon mit einem “rationalen Dogmatismus”2 zu kombinieren, in dessen Zentrum die Annahme und Funktionalisierung der Idee eines unendlichen Verstandes steht. Gottlob Ernst Schulze, 1761 geboren, besucht ab 1780 die Universität Wittenberg zum Studium der Philosophie und Theologie, erhält 1783 seinen Magistertitel, wird 1786 Diakon der Wittenberger Schlosskirche und 1788 Philosophieprofessor zunächst an der Universität Helmstedt, ab 1810 in Göttingen (vgl. Wolters 1995, S. 737). In seiner anonymen Schrift mit dem vollen Titel Aenesidemus oder über die Fundamente der von dem Herrn Professor Reinhold in Jena gelieferten Elementar-Philosophie. Nebst einer Vertheidigung des Skepticismus gegen die Anmaaßungen der Vernunftkritik übt er 1792 scharfe Kritik an der von Reinhold konzipierten Elementarphilosophie und am “Satz des Bewusstseins” als deren Grundsatzkonzeption,3 dessen völlige Unzulänglichkeit im Aenesidemus demonstriert werden soll. In der zentralen Passage “Eine Verteidigung des Skeptizismus gegen die Anmassungen der Vernunftkritik” (Ae, S. 84-129) hat Schulze hingegen primär Kants Philosophie im Blick (vgl. Grundmann 1998, S. 133). Hier entwirft er ein durch Humes Argumentation beeinflusstes, jedoch selbständiges Skeptizismusmodell, das v.a. um die Frage nach Dasein und möglicher Erkennbarkeit der Dinge an sich kreist. Schulze stellt explizit in Aussicht, dass der Skeptizismus zukünftig insgesamt durch ein stabiles philosophisches System, das allen skeptizistischen Angriffen standhalten würde, 2 Vgl. VT, S. 232: “Rationelle Dogmatiker und empirische Skeptiker. Diese behaupten: daß so wohl die Formen als die Objekte unserer Erkenntnis selbst in uns a priori sind, und daß dieses Vermögen nicht bloß darin bestehet, uns gegebne Objekte durch von uns gedachte Formen zu erkennen, sondern durch diese Formen die Objekte selbst hervorzubringen”. 3 Vgl. Reinhold 1791, S. 78: “Durch keinen Vernunftschluss, sondern durch blosse Reflexion über die Thatsache des Bewusstseyns, das heisst, durch Vergleichung desjenigen, was im Bewusstsein vorgeht, wissen wir: dass die Vorstellung im Bewusstsein durch das Subjekt vom Objekt und Subjekt unterschieden und auf beyde bezogen werde”.
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aufgehoben werden könnte; die Kantische Philosophie habe sich hierfür jedoch als ungeeignet erwiesen (vgl. Elon 2018, S. 128). 1794 kommt es zum direkten Disput zwischen Maimon und Schulze bezüglich ihrer skeptizistischen Ansätze: Schulze veröffentlicht, ebenfalls anonym, eine Rezension des Versuches in der Allgemeinen deutschen Bibliothek (Schulze 1794). Diese Aufgabe wurde zuvor von Reinhold abgelehnt (vgl. MGW IV, S. 237; Ehrensperger 2004, S. XLI). Zwar lobt Schulze den bemerkenswerten Erfolg der autodidaktischen Aneignung philosophischen Denkens durch Maimon und empfiehlt das Werk jedem Leser, “der sich über die Fortschritte der menschlichen Cultur freuet, und Sinn für das Hohe hat, so in der Ausbildung liegt, die sich der menschliche Geist durch eigene Kraftanwendung giebt” (Schulze 1794, S. 128). Zugleich gesteht er jedoch, dass er Maimon “in den wichtigsten der von ihm angestellten Untersuchungen” (Schulze 1794, S. 128) nicht habe verstehen können: Selbst die schwierigsten Passagen der KrV stellen, so Schulze, im Vergleich zur Lektüre des Versuches eine “angenehme Erholung” (Schulze 1794, S. 128) dar. Schulze zieht umsichtigerweise die skeptische Konsequenz und enthält sich eines Urteils über den philosophischen Wert der Schrift; die Rezension wird als Kompilation zentraler Textstellen der Versuches fortgesetzt. Eine unmittelbare Konfrontation der beiden Skeptizismuskonzeptionen findet zudem in Maimons Briefen des Philaletes an Aenesidemus (MGW V, S. 349-496), dem Anhang des 1794 veröffentlichten Versuchs einer neuen Logik oder Theorie des Denkens (= MGW V) statt: In diesem Ausschnitt eines fiktiven Briefwechsels argumentiert Maimon unter dem Namen Philaletes gegen die Positionen des Aenesidemus, d.h. Schulzes. An die Form der Schrift Aenesidemus angelehnt, werden deren Hauptthesen Schritt für Schritt durchgegangen, geprüft und problematisiert. Hierbei äußert Maimon harsche Kritik an Schulzes Skeptizismusmodell und nennt selbiges “vernunftwidrig und ungegründet” (MGW V, S. 50):4 Der Skeptizismus des Aenesidemus stehe dem Dogmatismus näher als der kritischen Philosophie (MGW V, S. 358), was Maimon mithilfe verschiedener Argumente zu belegen versucht. Hierin lässt sich ausblicksweise bereits skizzieren, worin sich Maimons und Schulzes Positionierungen zur Philosophie Kants maßgeblich unterscheiden. So expliziert Maimon die radikal realistische Grundprämisse Schulzes und benennt sie als bedeutenden Fehltritt: Schulze gehe davon aus, dass den Vorstellungen des Erkenntnissubjekts allein objektive Realität zukomme, sofern sie mit etwas außerhalb der Vorstellung 4 Manfred Baum (2006, S. 164) sieht diesen Angriff als gerechtfertigt an, da Schulze mit der Annahme, das Gemüt werde von Kant als Ursache notwendiger synthetischer Urteile gesetzt, eine verfehlte Kant-Kritik vorgelegt habe.
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und unabhängig vom Erkenntnisvermögen Existierendem in Verbindung stehen (vgl. MGW V, S. 426). Maimons spezifischer Einwand hiergegen ist nun, dass dieses mit der Vorstellung in Zusammenhang stehende “Etwas” zwar von der Vorstellung selbst verschieden sei, allerdings nicht außerhalb des Erkenntnisvermögens existiere (vgl. MGW V, S. 426 f.). In dieser Kritik Maimons an der Gleichsetzung von Objektivität und subjektunabhängiger Existenz manifestiert sich seine generelle Problematisierung der von Schulze noch vertretenen Annahme statisch-subjektexterner Dinge an sich (vgl. v.a. AS, S. 54 f.). Im späteren Verlauf der vorliegenden Untersuchung wird dies weiterführend relevant werden. Maimons in den Briefen des Philaletes erarbeitete direkte Auseinandersetzung mit Schulzes Skeptizismuskonzeption verdient eine eingehendere Betrachtung, als an dieser Stelle möglich ist. Eine solche Betrachtung wurde in der Forschung bereits mehrfach vorgelegt.5 Im Folgenden sollen demgegenüber die beiden Modelle von Skeptizismus als solche in ihren Grundzügen fokussiert werden. 2. Maimons Behandlung der Frage “quid facti” sowie sein Rekurs auf David Hume Kant sieht die Transzendentale Deduktion (KrV, A 84-130/B 116-169) der Kategorien als Antwort auf die Frage “quid juris” (vgl. KrV, A 84/B 116), d.h. auf die Frage, mit welcher Legitimation sich die reinen Verstandesbegriffe der Synthesis auf Gegenstände der Anschauung beziehen können und dadurch objektive Gültigkeit erhalten. Maimon kritisiert nun, dass Kant hierbei die ebenfalls notwendige Beantwortung der Frage “quid facti”, die Frage nach den vorliegenden Tatsachen (vgl. KrV, A 84/B 116), übergangen habe:6 So nehme Kant das Faktum als gegeben an, dass Erfahrungsurteile gefällt werden, also nach der durch Maimon übernommenen Definition Kants aus den Prolegomena “empirische Urtheile, sofern sie objective Gültigkeit haben” (AA IV, S. 298; Hervorhebung: D.E.), d.h. durch die – anders als bei bloß subjektiv gültigen Wahrnehmungsurteilen (vgl. AA IV, S. 298) – eine notwendige Synthesis stattfindet. Indem im Verlauf der Transzendentalen Deduktion demonstriert wird, dass die reinen Verstandesbegriffe der Synthesis die Möglichkeitsbedingungen von Erfahrung darstellen, wird deren objektive Gültigkeit postuliert. Ebendiese deduzierte 5 Vgl. v.a. Atlas 1964, S. 301-316; Beiser 1987, S. 320-323; Radrizzani 1991, S. 554, 564570; Thielke 2008, S. 603-607; Imhof 2016b, S. 93-104. 6 Vgl. VT, S. 104: “Kant erwähnt dieselbe [sc. die Frage “quid facti”] bloß im Vorbeigehen, da sie doch wie ich dafür halte, in Ansehung der Kategorien von großer Wichtigkeit ist”.
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objektive Gültigkeit sei jedoch, so Maimon, bereits als Prämisse und als Beweisgrund vorausgesetzt worden.7 Maimon sieht somit eine petitio principii, mithin eine Zirkelstruktur in der Prämissendisposition und Argumentationsführung der Transzendentalen Deduktion.8 Durch die Aufdeckung dieses unzulässigen Verfahrens sieht sich Maimon in der Position, die Deduktion insgesamt infrage stellen und, sofern die als unbezweifeltes und zugleich unbegründetes Faktum vorausgesetzte Prämisse für ungültig erklärt werden kann, gänzlich umstoßen zu können. Ebendiese Strategie verfolgt Maimon nun, indem er die entdeckte Lücke im Theoriegebäude der KrV als Gelegenheit nutzt, der Argumentation Humes (vgl. v.a. PhW 4, S. 24, 28, 37 f., 40, 58) gegen die Annahme notwendiger Verknüpfungen zwischen Gegenständen der Wahrnehmung neue Wirksamkeit zu verschaffen: Mit Hume, daher exemplarisch an der Kausalitätskategorie durchgeführt, bezweifelt Maimon, dass im Wahrnehmungsurteil eine notwendige Aufeinanderfolge und somit eine Verknüpfung von Ereignissen konstatiert werden könne: Ja, wird man sagen, das Faktum ist unbezweifelt. Wir sagen z.B. das Feuer erwärmt […] den Stein, welches nicht bloß die Wahrnehmung der Folge zweier Erscheinungen in der Zeit sondern die Notwendigkeit dieser Folge bedeutet. Hierauf aber würde David Hume antworten: es ist nicht wahr, daß ich hier eine notwendige Folge wahrnehme […]. Es ist bloß eine Assoziation der Wahrnehmungen, aber kein Verstandesurteil […] (VT, S. 45).
Der Zweifel “in Ansehung der Frage: Quid facti” (VT, S. 11), den Maimon hier unter Rekurs auf Humes Kritik an der Annahme einer notwendigen Kausalverknüpfung formuliert, scheint “unauflöslich” (VT, S. 11) zu sein. Es bleibt bei der Möglichkeit bloß subjektiv notwendiger Wahrnehmungsurteile;9 die Existenz von Erfahrungsurteilen, durch die mithilfe der Kategorien eine notwendige Synthesis vollzogen werden und denen dem-
7 Vgl. VT, S. 105: “Hr. Kant setzt das Faktum als unbezweifelt voraus, daß wir nämlich Erfahrungssätze (die Notwendigkeit ausdrücken) haben, und beweiset hernach ihre objektive Gültigkeit daraus, daß er zeigt, daß ohne dieselbe Erfahrung unmöglich wäre; nun ist aber Erfahrung möglich, weil sie nach seiner Voraussetzung wirklich ist, folglich haben diese Begriffe objektive Realität” (Hervorhebungen: D.E.). 8 Zum Aspekt dieser Zirkularität vgl. Bondeli 2004, S. 267, 276. Laut Manfred Baum (2006, S. 158 f.) hingegen ist Maimons Argument der Zirkularität unwirksam, da Kant die Wirklichkeit von Erfahrung nicht etwa, wie von Maimon angenommen, bloß als Faktum gesetzt, sondern als notwendig nachgewiesen habe. 9 Yaron Senderowicz (2003, S. 194 f.) thematisiert die Problematik des Kantischen Begriffs einer subjektiven Notwendigkeit sowie Maimons inkonsequenten Umgang mit dieser Problematik.
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nach Objektivität zukommen könnte, wird durch Maimon radikal infrage gestellt, wenn auch nicht explizit negiert:10 Ich hingegen bezweifle das Faktum selbst, daß wir nämlich Erfahrungssätze haben, daher kann ich ihre objektive Gültigkeit auf diese [sc. von Kant gewählte] Art nicht beweisen […] (VT, S. 105).
Die Transzendentale Deduktion ist, so die Konsequenz aus Maimons skeptizistischer Argumentation, nicht haltbar, da mit der Neutralisierung der unbegründet vorausgesetzten und durch Maimon als bezweifelbar identifizierten Prämisse des Faktums von Erfahrungsurteilen die gesamte Beweisstruktur der Deduktion hinfällig werde.11 Daher lasse sich die objektive Gültigkeit der reinen Verstandesbegriffe gegenüber skeptizistischen Angriffen nicht verteidigen. Hierbei muss jedoch darauf hingewiesen werden, dass Maimon, ebenso wie er die Realität von Wahrnehmungsurteilen unbezweifelt lässt, auch die Existenz der Kategorien im Sinne a priori im Verstand liegender Begriffe einräumt: [M]an siehet hieraus die geheimnisvolle Natur unsers Denkens, daß nämlich der Verstand alle mögliche Begriffe und Urteile schon vor seinem Bewußtsein von demselben in sich haben muß. Dieses zeigen (außer dem Vorgetragenen) nicht nur die Formen des Denkens, samt ihren Bestimmungsbegriffen (Kategorien) und ihren Grundsätzen a priori, […] sondern auch alle Begriffe und Urteile überhaupt (VT, S. 30).
Da der Verstand nach Maimons Erkenntniskonzeption jedoch “bloß […] ein Vermögen zu denken” (VT, S. 107) darstellt, die Kategorien dieses Vermögens dementsprechend lediglich “die Denkbarkeit der Dinge” (VT, S. 106; Hervorhebung: D.E.) betreffen und nicht die Wirklichkeit derselben in der Anschauung, sind es allein die objektive Gültigkeit dieser Kategorien und ihr Gebrauch für Gegenstände der Wahrnehmung,12 mithin die
10 Hierin besteht ein wesentlicher, von Maimon nicht weiter reflektierter Unterschied zur Position Humes, der die Existenz von Erfahrungsurteilen nicht bloß bezweifelt, sondern negiert; vgl. Engstler 1990, S. 204 f. 11 Indem somit auf die Ungültigkeit der Beweisstruktur abgezielt wird, besteht jedoch die von Maimon nicht hinreichend in Betracht gezogene Möglichkeit, dass das eigentliche Argumentationsziel der Deduktion – die objektive Gültigkeit reiner Verstandesbegriffe – auch unabhängig von der Richtigkeit der Prämisse des Faktums von Erfahrungssätzen vorliegen könnte: So könnten die Kategorien hinsichtlich der Möglichkeit von Erfahrung Validität beibehalten, auch wenn die Frage nach der Wirklichkeit von Erfahrung unbeantwortet bliebe. 12 In diesem Sinne kann der Kausalitätsbegriff als solcher zwar ein notwendiges Erfolgen beinhalten, ohne dass ein solches Erfolgen jedoch tatsächlich erfahren werden könnte; vgl. Franks 2005, S. 181: “Maimon sometimes argues, not that the meaning of ‘cause’ is noncategorical, but that its use is based on an illusion or self-deception”.
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Existenz von Erfahrungsurteilen im Kantischen Sinne, die als Angriffsziel von Maimons Skeptizismus zu bestimmen sind.13 Komplementär und ergänzend zu diesem “empirischen Skeptizismus” vertritt Maimon, wie oben bereits erwähnt, einen “rationalen Dogmatismus”, der sich mit der Frage “quid juris” auseinandersetzt. Dieser Teil von Maimons insgesamt scheinbar paradoxer14 “koalitionssystemischer” Konzeption kann an dieser Stelle nicht tiefgreifender erörtert werden, sondern ist bloß hinsichtlich seiner Relevanz für Maimons Skeptizismusverständnis zu skizzieren: Laut Maimon ist die Beantwortung der Frage “quid juris”, also die grundsätzlichere Frage nach der Legitimität der Anwendung von Verstandeskategorien auf das in der Sinnlichkeit Gegebene, nicht möglich, solange, wie bei Kant, von der dualistischen Annahme einer spezifischen Verschiedenheit von Sinnlichkeit und Verstand ausgegangen werde.15 Stattdessen nimmt Maimon, v.a. in Referenz auf die Theoreme Leibniz’ und Wolffs, an, die beiden Erkenntniskräfte seien lediglich graduell voneinander verschieden (vgl. VT, S. 40). Im Kontext dieses Gradualitätspostulats eines begrenzt “leibnizischen”16 epistemischen Monismus setzt Maimon die Annahme, “zum wenigsten als Idee” (VT, S. 40), eines “allervollkommensten Denkvermögens” (AS, S. 67), mithin eines unendlichen Verstandes, von dem der menschliche Verstand ebenfalls lediglich graduell unterschieden, d.h. eingeschränkt und in einem geringeren Maße vollständig, prinzipiell jedoch mit diesem identisch sei (vgl. VT, S. 40). Angesichts dieser eigentlichen Identität sei es dem endlichen Verstandeswesen nun möglich, sein “Denken immer vollständiger zu machen” (AS, S. 57), um auf diese Weise eine infinite, jedoch nie tatsächlich abschließbare Approximation in Rich13 Vgl. Atlas 1964, S. 261: “Maimon is a true follower of Kant in the recognition of the necessity of the assumption of certain a priori principles of thought. His criticism of Kant, which results in his skepticism, consists […] in questioning the legitimacy of the application of these general concepts to particular objects of experience”. Zur möglichen Unanwendbarkeit der Kategorien und zu den daraus resultierenden Problemstellungen für die Naturwissenschaften vgl. Freudenthal 2003, v.a. S. 148 f. 14 Laut Frederick Beiser (1987, S. 287) ist die Auseinandersetzung mit der scheinbaren Paradoxie dieses Koalitionssystems elementar für die Interpretation der Philosophie Maimons: “His [sc. Maimon’s] philosophy is an apparently paradoxical coalition of rationalism, skepticism, and criticism. Whether these seemingly conflicting elements cohere, and if so how, is the central problem of interpreting Maimon”. 15 Paul Franks (2005, S. 56) vertritt diesbezüglich die Position, dass Maimon die Dualität der Erkenntnisvermögen nach Kant fehlinterpretiert habe und der Argumentationsgang des Versuches die eigentliche Problematik der KrV daher verfehle: “Maimon thinks that, since Kant is committed to distinctive uses of faculties, he must be committed to really distinct faculties. […] But the mistake here lies in the inference from distinctive exercises to really distinct faculties”. 16 Dies ist zumindest Maimons eigener Anspruch; vgl. VT, S. 233; MGW II, S. 521.
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tung des unendlichen Verstandes zu vollziehen (vgl. Elon 2017, S. 128). In dieser infiniten, progressiven Vervollständigungsdynamik des Denkens sieht Paul Franks den “dynamischen Charakter von Maimons Monismus”17 begründet: “[…] Maimon was committed to the idea of the infinite intellect as the goal of infinite striving, which finite minds could near but never attain” (Franks 2000, S. 109). Lidia Gasperoni bezeichnet dies, in prinzipieller Übereinstimmung dazu, als “dynamische Praxis des Denkens” (Gasperoni 2012, S. 124). Das scheinbare Paradoxon, dass der Mensch als endliches Verstandeswesen in seiner Erkenntnis stets auf etwas extern “Gegebenes” angewiesen ist, für das das Faktum der Anwendung von Kategorien dann in Zweifel steht; dass dieses Gegebene durch die Approximation an den unendlichen Verstand, der jeden seiner Erkenntnisgegenstände spontan selbst hervorbringt, jedoch gänzlich neutralisiert werden soll,18 bezeichnet Maimon auch als “allgemeine[] Antinomie des Denkens überhaupt” (AS, S. 56).19 Die Tatsache, dass, gemäß Maimons Konzeption, ein definitiver, statischer Zustand vollständiger Erkenntnis aufgrund der infiniten, asymptotischen Approximationsdynamik des Denkens, die prinzipiell nicht zum Stillstand kommen kann, unmöglich ist,20 kann letztlich als strukturell skeptizistische Ausrichtung der Philosophie Maimons festgehalten werden. Diese Ausrichtung geht über den oben dargelegten expliziten, an Hume orientierten Skeptizismus bezüglich der Frage “quid facti” hinaus und wird für die in Teil 4 auszuführende Hauptbetrachtung von zentraler Bedeutung sein. 3. Schulzes Problematisierung des Kantischen Postulats der Unerkennbarkeit der Dinge an sich Schulzes Argumentation gegen Kants Inkonsequenz hinsichtlich der Anwendungsrestriktion der Kategorien, damit auch von Kausalität, auf Erscheinungen bei der gleichzeitigen Annahme einer Affektionsrelation zwischen Dingen an sich und Erkenntnissubjekt (vgl. v.a. Ae, S. 182-186, 206) 17 Vgl. Franks 2000, S. 109: “The dynamic character of Maimon’s monism illuminates the relation between his monistic ‘rational dogmatism’ and his dualistic ‘empirical skepticism’”. 18 V.a. hierin besteht Maimons oben bereits angesprochene Problematisierung der Annahme von Dingen an sich im Sinne eines statisch-subjektextern Gegebenen. 19 Vgl. Gasperoni 2012, S. 124: “Insofern kann Maimon als wichtige Station des Weges gelten, der von Kant bis zu Hegel führt, welcher schließlich die Relationen des Denkens als generell antinomisch ansehen und die Möglichkeit ihrer prozessualen Aufhebung postulieren wird”. 20 Vgl. hierzu das Talmudzitat am Ende des Versuchs: “Die Schüler der Weisheit finden keine Ruhe, weder in diesem noch in dem zukünftigen Leben” (VT, S. 237 f.; vgl. Goldschmidt 1933, 64a (= Babylonischer Talmud, “Berakhot IX”, Fol. 64a): “Die Schriftgelehrten haben keine Ruhe, weder in dieser Welt, noch in der zukünftigen Welt”).
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wurde bereits eingehend in der Forschung besprochen und ist als Schulzes, wenn auch deutlich begrenzter, Beitrag zur Geschichte der nachkantischen Philosophie generell anerkannt.21 Hinsichtlich des für das Verständnis der Position Schulzes bedeutsamen Aspekts der darin vorgenommenen Referenz auf David Humes Skeptizismus sei an dieser Stelle unterdessen kurz ein thematisch ergänzender Aspekt besprochen: Ein wichtiger Argumentationspunkt Schulzes gegen Kants Kritizismus ist die Erörterung der gewissermaßen genetischen Problematik, die sich aus der Annahme notwendiger und zugleich synthetischer Urteile ergibt. So bezweifelt Schulze den Wahrheitswert des von Kant geäußerten Postulats, die Notwendigkeit einer bestimmten Klasse synthetischer Urteile könne zugleich als Garant für den apriorischen Ursprung dieser Urteile gelten: Es ist nämlich […] unrichtig, daß, wie in der Vernunftkritik angenommen wird, das Bewußtsein der Notwendigkeit, welches gewisse synthetische Sätze begleitet, ein unfehlbares Kennzeichen ihres Ursprungs a priori und aus dem Gemüte ausmache (Ae, S. 106).
Laut Schulze ist mit eben derselben Berechtigung sowie ohne Widerspruch denkbar, dass diese Notwendigkeit, die mit dem Fällen synthetischer Urteile einhergeht, auch in der “besondere[n] Art und Weise, wie die Außendinge unser Gemüt affizieren” (Ae, S. 106), wurzeln könne; die von Kant als a priori klassifizierten synthetischen Urteile könnten demnach ebenso gut erst durch Erfahrung gewonnen, mithin a posteriori sein. Indem Kant jedoch eine notwendige Synthesis zwischen Gemüt und einer bestimmten Klasse von Urteilen herstelle, genauer eine Kausalverknüpfung zwischen Gemüt als Ursache und Urteilen als Wirkungen, begehe er letztlich eine petitio principii, da die Möglichkeitsbedingungen von Synthesis überhaupt vor der Vernunftkritik noch in Frage stehen müssten. Gerade diese vermeintlich von Kant durchgeführte genetische Definition der notwendigen synthetischen Urteile fasst Schulze als Kernthese der KrV, als “Hauptstütze der dem Kantischen System eigentümlichen Lehren und Sätze” (Ae, S. 98) auf. Hiergegen führt Schulze Humes generelle Skepsis gegenüber der apriorischen Gültigkeit von Kausalität ins Feld: Hume würde also von dem Verfasser der Vernunftkritik fordern, ihm erst Rede und Antwort darüber zu geben, mit welchem Rechte bei der Grundlegung der kritischen Philosophie eine Anwendung vom Satze der Kausalität gemacht worden sei, und wie diese Philosophie […] dazu komme, […] das Dasein der notwendigen syn21 Vgl. u.a. Frank 1996; Sandkaulen 2007; Gesang 2009. Manfred Baum (2016, v.a. S. 43) sieht jedoch ein grundsätzliches Missverständnis der Kantischen Philosophie durch Schulze vorliegen, auch in dessen späteren Schriften.
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thetischen Sätze in uns, für die Wirkung von einer davon verschiedenen Ursache […] zu halten (Ae, S. 103).
Insgesamt trifft das hier erörterte Argumentationsmoment die anvisierten Thesen der KrV jedoch nicht effektiv: Mit dem Modell der genetischen Definition spezifischer Urteilsformen wendet Schulze, so lässt sich hier einwerfen, einen Erklärungsmodus22 auf die Argumentationsstruktur der KrV an, der der Kantischen Erkenntniskonzeption nicht gerecht wird und diese daher verzerrend wiedergibt: Das Postulat einer Kausalverknüpfung zwischen Gemüt und notwendigen synthetischen Urteilen lässt sich in der von Schulze referierten Form nicht aus der KrV herleiten;23 Schulze übersieht, dass die Urteilsformen des Verstandes als dessen Funktionen und das Gemüt als vereinigender Referenzpunkt dieser und weiterer Erkenntnisformen24 nicht ohne Weiteres mit Erkenntnisgegenständen identifiziert werden können,25 für die eine Subsumtion unter die reinen Verstandesbegriffe, hier unter die Kategorie der Kausalität, überhaupt infrage käme. An dieser Stelle soll es weiterführend, abseits dieser Diskussion um die Plausibilität der Kant-Kritik Schulzes, jedoch um einen andersartigen Aspekt gehen, der unmittelbar mit Schulzes im Aenesidemus geäußertem Verständnis von Skeptizismus als solchem zusammenhängt. Dieses Verständnis wiederum ist, wie bereits erwähnt, im Wesentlichen an den Fragestellungen nach Dasein und Erkennbarkeit der Dinge an sich sowie nach der Möglichkeit von Philosophie als dauerhaft validem System orientiert.26 So findet sich bereits zu Beginn der Schrift eine explizite Definition des Skeptizismusbegriffs: Nach meiner Einsicht nun ist der Skeptizismus nichts anders, als die Behauptung, daß in der Philosophie weder über das Dasein und Nichtsein der Dinge an sich und ihrer Eigenschaften, noch auch über die Grenzen der Erkenntniskräfte etwas nach
22 Beiser (1987, S. 282) nennt diesen von Schulze angewandten Interpretationsmodus der Kantischen Philosophie primär psychologistisch und deklariert ihn deshalb als inadäquat. 23 Fichte fordert Schulze diesbezüglich auf, “ihm doch die Stelle bey Kant nachzuweisen, wo er diesen Unsinn angetroffen habe” (GA I, 2, S. 53). 24 Vgl. Beiser 1987, S. 322: “The transcendental subject […] is nothing more than the formal unity of all representations, the necessary condition of having consciousness at all”. 25 Auch an dieser Stelle greift Fichtes Kritik: Dieser weist auf die hier genannte Argumentationsschwäche hin, indem er Verwunderung darüber äußert, dass Schulze, “so wie das Wort: Vorstellungsvermögen, sein Ohr trifft, sich dabey nichts anderes denken kann, als irgend ein (rundes, oder vierektes?) Ding, das unabhängig von seinem Vorstellen als Ding an sich, und zwar als vorstellendes Ding existirt” (GA I, 2, S. 50). 26 Zum diesbezüglichen Einfluss Schulzes auf das Denken seines Schülers Arthur Schopenhauer vgl. Elon 2018.
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unbestreitbar gewissen und allgemeingiltigen Grundsätzen ausgemacht worden sei (Ae, S. 26).
Ein zentraler Kritikpunkt Schulzes an Kants Philosophie ist nun, dass diese mit dem zur Gewissheit erklärten Postulat der prinzipiellen Unerkennbarkeit der Dinge an sich selbst eine Form von Dogmatismus vertrete: Nun haben wir es aber noch mit einem andern neuern Gegner [sc. des Skeptizismus] zu tun, nämlich mit dem kritischen Idealismus, der einen Dogmatismus von ganz eigener Art enthält, und die Kenntnis der Dinge an sich, worauf der ältere Dogmatismus so groß tat, für etwas erklärt, so nach der einmal vorhandenen Einrichtung der menschlichen Natur ganz unmöglich ist (Ae, S. 180).
Durch einen solchen negativen Dogmatismus verhindere der “kritische Idealismus”, d.h. die Kantische Philosophie, das durch die Vernunft selbst weiterhin aufgetragene Streben (vgl. Ae, S. 30) nach einer eventuell doch möglichen Erkenntnis der Dinge an sich.27 Indem der Skeptizismus also die immanenten Unzulänglichkeiten der kritischen Philosophie demonstriert bzw. eine Diskrepanz innerhalb derselben zwischen Erkenntnisanspruch und tatsächlich geleisteter Erkenntnis aufdeckt,28 ohne dabei selbst einen positiven Gegenentwurf konstituieren zu wollen, gibt er den Weg erneut frei für weitere philosophische Systembemühungen hinsichtlich einer möglichen Erkennbarkeit der Dinge an sich. Damit distanziert sich der Skeptizismus Schulzes auch explizit vom “Glaube[n], unsere Unwissenheit sei notwendig” (Ae, S. 29), ist also eindeutig nicht als generelle Erkenntnisskepsis im Sinne des Postulats der Unmöglichkeit gesicherten Wissens zu verstehen, und hält die Perspektive in Richtung eines letztlich doch allgemeingültigen, stabilen und fundierten philosophischen Systems offen (vgl. Elon 2018, S. 137), für das sich die kritische Philosophie jedoch als ungeeignet erwiesen habe: Sobald im Gegenteil aber in der Philosophie wahre und allgemeingiltige Prinzipien werden gefunden und aufgestellt worden sein, nach welchen über das, was wir wissen und nicht wissen können, entschieden werden kann, sobald die Bemühungen 27 Zum eigentlichen metaphysischen Realismus sowie vorkantischen Dogmatismus, der sich in Schulzes Denken ausspricht, vgl. u.a. Franks 2005, S. 243: “As Maimon, Fichte, and Hegel point out, along with contemporary commentators, Schulze’s own skepticism is preKantian. He assumes that the problem of knowledge is to establish a correspondence between representations in the empirical sense and things outside the mind”. Vgl. zusätzlich Grundmann 1998, S. 140 f.; Bondeli 2016, S. 72. Bereits Fichte identifizierte Schulzes Position als “sehr anmaaßenden Dogmatismus” (GA I, 2, S. 49). 28 Vgl. Grundmann 1998, S. 134: “Therefore, the relation of skepticism to a position that is subject to doubt, is parasitic: it uncovers within such a position a discrepancy between claim and justification”.
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der Weltweisen zu einer sichern und durchaus nicht mehr schwankenden Erkenntnis der Grenzen des Vorstellungsvermögens zu gelangen, mit einem bessern Erfolge, als bisher, werden gekrönt worden sein; sogleich erreicht auch der Skeptizismus sein Ende; sogleich ist auch die Quelle verstopft, aus der er entspringt; […] so eilt er, um einer der ersten zu sein, die der gefundenen, vorher aber nur aufgesuchten Wahrheit den Huldigungseid schwören (Ae, S. 29).
Dabei macht es “ein[en] wesentliche[n] Bestandteil des Skeptizismus” (Ae, S. 30) aus, dass durchaus die Hoffnung besteht, “unsere Unwissenheit sei vielleicht nur zufällig und könne aufgehoben werden” (Ae, S. 29), nämlich durch eine ebensolche zukünftige Philosophie, die letztgültig gesicherte Prinzipien bezüglich möglichen Wissens vorweisen und dieses Wissen somit umfassend und systematisch fundieren kann. 4. Direkter Vergleich der beiden Skeptizismusmodelle In diesem Teil ist nun zu betrachten, welche spezifischen Modelle von Systemphilosophie und Systemkritik sowohl explizit als auch implizit in den beiden Schriften zum Ausdruck kommen. Auf diese Weise sollen Maimons Versuch und Schulzes Aenesidemus vergleichend und in direkter Gegenüberstellung erörtert sowie in Dialog zueinander gesetzt werden. Der implizite Dialog zwischen den beiden skeptizistischen Philosophiekonzeptionen hinsichtlich dieses speziellen Aspekts wird bereits von Maimon selbst in Bewegung gesetzt, indem er im ersten Brief des Philaletes Schulzes Befreiung “von aller Systemsucht” (MGW V, S. 351) lobt; inwieweit dieses Lob gerechtfertigt ist, soll im Laufe dieses Teils der Untersuchung geprüft werden. Darüber hinaus charakterisiert Maimon seinen im Versuch konstituierten Systementwurf auf zweierlei Weise: Einerseits, wie bereits erwähnt, als “Coalitionssystem” (MGW I, S. 557; s.o.); andererseits als “Nichtsystem” (VT, S. 236). Diese beiden selbstreferenziellen Einordnungen Maimons erscheinen geeignet, um die Gegenüberstellung der zwei betrachteten Skeptizismusmodelle zu gliedern. Die zentralen Divergenzen dieser Modelle sollen demgemäß in den Abschnitten 4.1 und 4.2 dargelegt werden. Im Zuge dieser Gegenüberstellung wird sich die bereits antizipierte chiastische Vergleichsstruktur zeigen, die in Abschnitt 4.3 weiterführend zu explizieren sein wird. 4.1. “Coalitionssystem” und Aggregat skeptischer Einwände Maimon enthält sich eines Urteils darüber, ob sein Systementwurf als kantisch oder antikantisch zu klassifizieren sei, und fordert seine Leser explizit auf, hierüber selbst zu entscheiden:
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Wie weit ich übrigens Kantianer, Antikantianer, beides zugleich, oder keines von beiden, bin: überlasse ich der Beurteilung des denkenden Lesers. Ich habe mich bemüht […], den Schwierigkeiten dieser entgegengesetzten Systeme, so viel an mir war, auszuweichen (VT, S. 11).
Maimons Aufforderung soll an dieser Stelle ernst genommen werden: Wie in Teil 2 gezeigt wurde, nimmt er mit dem Konzept eines Monismus des Verstandes eine philosophische Position ein, die dem Kantischen Dualismus von Sinnlichkeit und Verstand dezidiert entgegengesetzt ist. Dies sollte jedoch nicht darüber hinwegtäuschen, dass die grundlegende transzendentalphilosophische Perspektive, von der aus Maimon argumentiert,29 nämlich die Frage nach den a priori im Subjekt liegenden Möglichkeitsbedingungen von Erkenntnis – hier nicht mehr explizit auf Erfahrung restringiert –, an Kants kritizistischem Projekt orientiert bleibt. In diesem Sinne bestimmt Maimon seinen Skeptizismus in den Briefen des Philaletes bezüglich des philosophischen Forschungsfeldes, innerhalb dessen dieser Skeptizismus agiert, als mit der kritischen Philosophie konform gehend.30 Indem nun zentrale Thesen der KrV als unzulänglich identifiziert werden, um die von ihr aufgeworfenen Fragestellungen adäquat zu beantworten, schafft Maimon im Zuge der Systemkonstitution des Versuches Raum für einen Rekurs sowohl auf den an Hume angelehnten Skeptizismus, also auf den Zweifel am Faktum objektiv gültiger Erfahrungsurteile, als auch, wie bereits angesprochen, auf die als Dogmatismus verstandenen rationalistischen Positionen Leibniz’ und Wolffs (vgl. v.a. VT, S. 40). Dieser Argumentationsgang des Versuches führt schließlich zur Doppelstruktur von “empirischem Skeptizismus” und “rationalem Dogmatismus” (vgl. Anm. 3). In ebendieser Strategie der Systemkonstitution besteht Maimons diplomatische Klassifikation seiner eigenen Position als Koalitionssystem, das seiner Struktur und Ausrichtung nach offen lässt, ob es als Transformationsversuch des Kantischen Kritizismus oder als Gegenentwurf zu diesem aufzufassen sei. Es gibt des Weiteren diverse Hinweise darauf, dass Maimon in der späteren Phase der Entwicklung seiner Philosophie, also nach dem Versuch, einen stärkeren Fokus auf diesen “koalitionssystemischen” Aspekt richtet, womit die Orientierung am “Nicht-System” relativ in den Hintergrund gerät: So charakterisiert er sein künftig noch anstehendes philosophisches Un29
Zu Maimons Begriff von Transzendentalphilosophie vgl. Hoyos 2008, S. 233-236. Vgl. MGW V, S. 359: “Der Skeptizismus beschäftigt sich hauptsächlich mit Aufsuchung dieser Bedingungen und ihrer systematischen Ordnung, um dadurch die Gränzen des Erkenntnißvermögens zu bestimmen und festzusetzen. So weit folgt der Skeptizismus der kritischen Philosophie […] Schritt für Schritt nach”. 30
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terfangen 1791/92, in deutlicher Akzentverschiebung zum Versuch über die Transzendentalphilosophie selbst, als Versuch einer “Vereinigung der Kantischen Philosophie mit dem Humischen Skeptizismo”, dem der ehemals unternommene Versuch der “Vereinigung der Kantischen Philosophie mit dem Spinozismo” weichen solle (MGW III, S. 455). Was bleibt und sogar noch stärkere Betonung findet, ist der Aspekt des “Koalierenden” auf Grundlage eines “Vereinigungspunkt[s]” (MGW I, S. 558) der Systeme. Vor diesem Hintergrund ist es auch zu verstehen, wenn Maimon im Oktober 1794 an Fichte schreibt, er “werde auch [s]einerseits nicht ermangeln, nach [s]einen wenigen Kräften[] dazu beizutragen”, “‘daß die Philosophie eine systematische Wissenschaft seyn soll’” (MGW VI, S. 452) Hinzu kommt, dass Maimon gerade der Mathematik eine positive Sonderrolle hinsichtlich der Möglichkeit systematisch gesicherten Wissens zuschreibt. Dies kann abermals als Argument für die Plausibilität der Annahme gelten, Maimon orientiere sich mit seiner eigenen Philosophie durchaus – wenn auch deutlich begrenzt, wie sich abschließend ergeben wird – an den für seine Zeit prägenden Ansprüchen hinsichtlich Systematizität.31 Schulzes Aenesidemus folgt hingegen, im Vergleich zu Maimons Versuch, grundlegend andersartigen formalen Mustern der Argumentationskonstitution: Mit der zunächst polemischen Schrift setzt sich Schulze im Geiste klassisch-skeptizistischer Gegenargumentation das Ziel, sowohl Reinholds als auch Kants Systemkonzepte in ihrer immanenten Unzulänglichkeit zu enttarnen. Auf diese Weise soll verhindert werden, dass die Akteure des philosophischen Diskurses der Zeit in dogmatische Systemanhängerschaft verfallen, sich mit der vermeintlichen Unerkennbarkeit der Dinge an sich zufrieden geben und sich nicht mehr der weiterhin gebotenen Suche nach noch zu erlangender philosophischer Erkenntnis widmen (vgl. Elon 2018, S. 134). Eben hierin besteht die von Maimon – zumindest in dieser Hinsicht zurecht – gelobte Befreiung von Systemsucht. Auf Grundlage dieser argumentativen Ausrichtung setzt sich Schulze im Aenesidemus auch nicht zum Ziel, einen eigenen, alternativen Systementwurf vorzubringen: Die Figur Aenesidemus ist, als Repräsentation von Schulzes Skeptizismusverständnis, kein Systemphilosoph auf eigene Faust, sondern 31 Vgl. diesbezüglich v.a. Maimons “Satz der Bestimmbarkeit” als “Grundsatz alles reellen Denkens, und folglich auch der gesammten Philosophie” (MGW V, S. 78, 368). Zum einen trägt Maimon damit dem v.a. von Reinhold und Fichte geprägten Projekt von Grundsatzphilosophie Rechnung. Zum anderen besteht die angesprochene positive Sonderrolle der Mathematik darin, dass im Falle mathematischer Konstruktion dem Satz der Bestimmbarkeit gemäß operiert werden könne, während Erkenntnis innerhalb der Sphäre des Empirischen diesem Anspruch generell nicht gerecht zu werden in der Lage sei (vgl. auch MGW V, S. 495 f.; VT, S. 51-58; Freudenthal 2006).
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ein auf ein spezielles, als dogmatisch aufgefasstes System fixierter kritischer Prüfer. Sobald diese kritische Prüfung erfolgreich ausgeführt und das im Fokus stehende System somit widerlegt wurde, findet auch die Argumentationsperspektive dieses Prüfers ihre Neutralisierung (vgl. Elon 2018, S. 137 f.). Schulze realisiert diese polemische Haltung konsequent, indem er die Schrift Aenesidemus hinsichtlich zentraler Strukturmerkmale als weitgehend unsystematisiertes Aggregat skeptischer Einwände gestaltet, dessen bisweilen positive Gegenentwürfe keine eigene Position konstituieren sollen, sondern lediglich dazu dienen, die Plausibilität des jeweils Gegenteiligen zu demonstrieren. 4.2. “Nichtsystem” und Antizipation einer zukünftigen Selbstaufhebung des Skeptizismus Die am Ende des Versuches durch Maimon vorgenommene Charakterisierung seiner Philosophiekonzeption als “Nichtsystem” (s.o.) scheint, zumal diese Bezeichnung nicht weiter ausgeführt wird, im Widerspruch zur Konzeption des Koalitionssystems zu stehen. Um sich also demjenigen zu nähern, was Maimon mit dem Begriff des Nichtsystems ausdrücken wollte, erscheint es weiterführend – auch wenn lediglich die bisweilen inkohärente und verschlungene Struktur des Versuches als Grund für diese Klassifikation aufgefasst werden könnte –, auf das Argumentationsmoment der unendlichen Approximation zu rekurrieren: Wie in Teil 2 dargestellt wurde, führt dieses für den Versuch zentrale Moment, das sich aus Maimons Konzeption des unendlichen Verstandes ergibt, zu einer tendenziell und strukturell skeptizistischen Geisteshaltung: Obwohl das Streben nach der Vervollständigung von Verstand und Denken durch die Vernunft geboten wird (vgl. AS, S. 67), ist die Möglichkeit des faktischen Erreichens dieser Zielsetzung in Zweifel zu ziehen und in letzter Instanz sogar zu negieren. Diese fortwährend strebende, nie zum Stillstand kommende Vernunfthaltung, die “dynamische Praxis des Denkens” (vgl. Gasperoni 2012, S. 124; s.o.), lässt sich nun auch auf die Frage nach der Möglichkeit philosophischer Systemkonstitution anwenden: Die unendliche Perfektibilität und die fortwährende Vervollständigungs- sowie Fortschrittsdynamik des Verstandes gehen einher mit der Unmöglichkeit, die tatsächliche Perfektion dieses Verstandes und seiner Konzeptionen erreichen zu können. Daher müsse letztlich jeder Versuch philosophischer Systembildung, so das Resultat dieser Maimon-Interpretation, zum “Nichtsystem” führen: Die Absage der Vernunft an die Hoffnung auf faktische Erreichbarkeit eines bewegungslosen Zustands des Intellekts, in dem dieser aufgrund der erlangten Identität mit sich selbst in seiner nicht-defizitären Form zur Ruhe käme, bedeutet zugleich die Negation der Möglichkeit eines
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statischen Systems, durch das Verstand und Vernunft in ihren Erkenntnisfähigkeiten letztgültig fixiert werden könnten. Dieser “Systemskepsis” entsprechend ist der Versuch Koalitions- und Nichtsystem zugleich; in diesem Sinne wird Maimon Philosophie als solche später nicht als systematisches Ganzes, sondern vielmehr als Tendenz des Intellekts definieren (vgl. MGW VI, S. 135; weiterführend s.u., Teil 5). Demgegenüber hält Schulzes Skeptizismuskonzeption, wie in Teil 3 demonstriert wurde, explizit die Bewegungsrichtung auf ein in Zukunft durchaus mögliches philosophisches System offen, durch das prinzipiell gesicherte, positive Aussagen über Dasein und Eigenschaften von Dingen an sich im Sinne vorstellungs- und subjektunabhängiger Entitäten sowie über definitive Erkenntnisgrenzen getroffen werden könnten. Damit wäre auch, so Schulzes Perspektive, philosophische Forschung als Systembildungsprozess zu einem erfolgreichen Ende gebracht. – In dieser Hinsicht trifft Maimons Lob der Befreiung von Systemsucht nicht mehr zu. Die in erster Linie polemische Ausrichtung von Schulzes Skeptizismusmodell erhält damit letztlich eine selbstreferenzielle Wendung: Sofern der Skeptizist im Zuge seiner durch die Vernunft selbst aufgetragenen Tätigkeit der Systemprüfung32 konstatieren kann, dass das hypothetisch in Rede stehende System durchaus allen Anforderungen der Vernunft gerecht wird, hebt sich nicht mehr bloß die jeweilige, spezielle skeptizistische Perspektive auf, sondern der Skeptizismus insgesamt und als solcher, der damit, wie von Schulze auch in Aussicht gestellt (vgl. v.a. Ae, S. 19 f., 28 f., 177), infolge der Erfüllung seiner ursprünglichen Aufgabe zu seinem Ende durch letztgültige Selbstaufhebung gebracht wäre (vgl. Elon 2018, S. 138). 4.3. Chiastische Vergleichsstruktur Sowohl bei Maimon als auch bei Schulze führt die Konzipierung sowie Anwendung des jeweiligen skeptizistischen Argumentationsmodells somit letztlich zu Resultaten, die den grundlegenden Prämissen der entsprechenden Argumentationsführung zunächst zu widersprechen scheinen, die in diesen jedoch bereits angelegt waren: Maimon konstituiert im Zuge seines Versuches eine Koalition empirisch-skeptizistischer sowie rational-dogmatischer Systemelemente und lässt zugleich offen, inwieweit diese Koalition mit den spezifischen Thesen der kritischen Philosophie Kants konform gehen könne. Im weiteren Vollzug seines Koalitionssystems kommt Maimon 32 Achim Engstler (1998, S. 163) merkt an, dass der Skeptizismus gemäß dieser Charakterisierung durch Schulze eine Aufgabe übernimmt, die mit dem allgemeinen Interesse an philosophischer Theorie- und Systembildung konform gehe: “Every philosophical theory requires confirmation, and thus every dogmatic philosopher should have a skeptic opponent”.
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letztlich jedoch zu dem Ergebnis, dass die Möglichkeitsbedingungen einer Systemkonstitution als solcher radikal in Zweifel zu ziehen seien: Der nie abgeschlossene Progress des Verstandes mit der Ausrichtung auf seine eigene Vervollständigung, die in diesem Kontext als regulative Idee auftritt,33 negiert die Option eines statischen Vernunftsystems. – Jeder Systemversuch resultiert dieser Negation gemäß im Nichtsystem. In Schulzes Aenesidemus nimmt der Argumentationsgang hingegen die entgegengesetzte Bewegungsrichtung: Die polemische Grundhaltung des skeptizistischen Argumentationsmodells hält, da die Selbstneutralisierung der jeweiligen skeptizistischen Gegenposition ihrer Struktur nach auf den Skeptizismus als solchen projizierbar ist, die Option der Konzipierung eines vollständigen, universellen und dauerhaft gültigen philosophischen Erklärungsmodells bezüglich der Frage nach möglichem Wissen offen. An dieser Stelle zeigt sich somit die erwähnte chiastische Struktur im Vergleich der beiden Skeptizismuskonzepte hinsichtlich ihrer jeweiligen Positionierung zum Systemaspekt: Dasjenige, was die formale Gestaltung des Versuches impliziert und anfangs für sich beansprucht; zugleich dasjenige, was der Aenesidemus seiner argumentativen Grundhaltung entsprechend zunächst verwirft – nämlich die Möglichkeit eines systematisch strukturierten, auf Universalität ausgerichteten philosophischen Theoriekomplexes, als dessen weitgehend gescheitertes Modell die Kantische Vernunftkritik auftritt –, wird im Verlauf der Ausführung und Realisierung der beiden skeptizistischen Argumentationskonzeptionen schließlich von Maimon, auf die Dynamik der unendlichen Approximation rekurrierend, negiert; von Schulze hingegen, angesichts der möglichen Selbstaufhebung des Skeptizismus insgesamt, affirmativ in Betracht gezogen. Gerade wenn, auf Grundlage dieser chiastischen Vergleichsstruktur, die Philosophie Maimons aus der Blickrichtung der Ausführungen Schulzes zum Aspekt von Systematizität betrachtet wird, erscheint Maimons Denken im Kontext der philosophischen Diskussionen seiner Zeit durchaus in einem neuartigen Licht: Schulze stellt die Konstituierung eines dauerhaft gültigen philosophischen Systems auf Grundlage einer eventuell noch zu erreichenden positiven Erkenntnis der Dinge an sich in Aussicht. Notwendige Voraussetzung dieser Perspektive ist dabei die Annahme einer Statizität der von Kant übernommenen Unterscheidung von Dingen an sich und deren Erscheinungen. Gerade eine solche Statizität dualistischer Strukturen, v.a. 33 Vgl. Krämer 1990, S. 188: “Wenn der unendliche Verstand als Idee des endlichen Verstandes bezeichnet wird […], dann bedeutet das, daß er eine regulative Idee ist, die uns (den endlichen Verstand) dazu anleitet, uns nicht mit der bloßen Gegebenheit zufrieden zu geben sondern immer mehr von der vollständigen Möglichkeit zu durchschauen”.
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auch derjenigen im Diskursfeld der Dinge an sich, steht jedoch im Widerspruch zu den für Maimons Denken insgesamt charakteristischen, Dynamik ausdrückenden Theoremen um Gradualität, Perfektibilität und Approximation. Im Kontext dieser Theoreme gerät die Annahme eines statischsubjektexternen Gegebenen, das sich in der Konzeption der Dinge an sich manifestiert und dessen Konnex zur Vorstellung deren Objektivität ausmachen soll, in kritisch-problematisierende Diskussion. Damit fällt Maimons philosophische Grundposition schon prinzipiell aus dem Rahmen desjenigen heraus, was Schulze in positiver Hinsicht als künftiges philosophisches System zu antizipieren versucht. Dies gilt umso mehr, wenn in Betracht gezogen wird, dass Maimons verschiedenartige, bisweilen anscheinend widersprüchliche Positionierungen zum Systemaspekt, die hier mithilfe der chiastischen Entgegensetzungsstruktur geschärft nachgezeichnet werden sollen, ebenfalls als Ausdruck einer grundsätzlichen philosophischen Dynamik gelesen werden können. Dies erscheint v.a. in Abgrenzung zu Schulzes partiell auf Dogmatismus aufbauendem und letztlich auch auf diesen abzielendem Skeptizismusverständnis durchaus als möglich. Inwieweit mit der beschriebenen Approximationsdynamik innerhalb von Maimons Philosophie ein Spezifikum derselben in Abgrenzung zu diversen anderen Philosophieverständnissen seiner Zeit, nicht nur Schulzes, sondern schließlich auch Fichtes, identifiziert werden kann, und welche positiven Ansatzmöglichkeiten dieses Spezifikum für weitere philosophische Reflexionen bietet, soll im folgenden Schlussteil thematisiert werden. 5. Ausblick: Maimon zum Systemaspekt – “Wohnen unter freiem Himmel” Maimon postuliert, wie bereits angeklungen, an anderer Stelle seines Gesamtwerks: “Philosophie ist (wie schon ihr Name zeigt) vielmehr eine intellektuelle Tendenz, als ein geordnetes Ganze der Erkenntnis selbst” (MGW VI, S. 135). Ebenso, wie der Mensch als endliches Verstandeswesen den Status des unendlichen Verstandes zwar approximieren, jedoch nie erreichen kann, ist auch das Streben nach einer durchgängigen systematischen Bestimmtheit der Philosophie von vornherein maximal richtungsweisende Tendenz und nicht tatsächlich einlösbares Ziel, da der Zustand des Vollkommenen stets lediglich Ideal eines in sich dynamischen Annäherungsprozesses bleibt. Diese Haltung des Kapitulierens hinsichtlich des Systemanspruchs wurde explizit von Fichte kritisiert. Dieser warf Maimon, trotz seiner anderenorts geäußerten Hochachtung, vor, er wolle “das Nichtsystem selbst zum System […] machen”, was “widersinnig” sei (GA II, 4, S. 229). Im Ausgang von der Kant-Kritik Reinholds war Fichte im Kontext seiner Wissenschaftslehre vielmehr bestrebt, diesem Systemanspruch durch das Postulat und die
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Konsolidierung eines ersten, voraussetzungslosen Grundsatzes, in der Funktion eines Prinzips der Philosophie als vereinheitlichter Wissenschaft, Genüge zu leisten. Hier zeigt sich somit, inwieweit sich Fichte und Maimon bezüglich des Verständnisses von Philosophie als solcher letztlich klar voneinander unterscheiden, trotz der in der Forschung bisweilen konstatierten Verwandtschaft der beiden Ansätze (vgl. v.a. Krämer 1997; Breazeale 2003). “Unter freiem Himmel wohnen geht nicht!” (GA III, 2, S. 28), so Fichte im oben bereits zitierten Brief an Heinrich Stephani, hier bezugnehmend auf seine Lektüre des Aenesidemus, die Fichtes “ganzes System von Grund aus umgestürzt” (GA III, 2, S. 28) habe. Fichtes Fazit ist eindeutig: “Es half also Nichts; es [das System] mußte wieder angebaut werden” (GA III, 2, S. 28). Hierzu dient bei Fichte die “Thathandlung” in ihrer Funktion “als Grundlage alles Bewustseyns” (GA I, 2, S. 255) als zentraler Referenzpunkt des obersten Grundsatzes der Philosophie im Sinne einer Wissenschaftslehre. Demgegenüber scheint gerade das sich von diesem Großprojekt einer Systemphilosophie radikal unterscheidende “Wohnen unter freiem Himmel”, das Fichte im Sinne seines eigenen Philosophieverständnisses für unmöglich erklärt, ziemlich genau dasjenige zu bezeichnen, was Maimon durch sein Verständnis von Philosophie als dynamischer, lebendiger, progressiver Vervollständigungstendenz des Denkens ohne statische Systematik,34 somit gewissermaßen auch als Lebenspraxis, realisiert. Diesbezüglich scheint der Aspekt des “Nicht-Systems” wiederum ein Übergewicht zu gewinnen. Illustrierend können hierzu Programmatik sowie Titelgebung der Streifereien im Gebiete der Philosophie von 1793, eines der Hauptwerke Maimons, angeführt werden. Dort heißt es einleitend: Mögen große Männer Systeme umstürzen und auf ihren Trümmern, nach einem besseren Modell, neue aufbauen. Mögen die, die für sich nichts großes zu unternehmen im Stande sind, die Thaten ihrer respektiven Helden in Prosa und in Versen erzählen. Für mich ist jenes zu groß, und dieses zu klein. Ich bin so wenig Architekt als Poet, folge bloß meinem Naturtriebe und mache zuweilen Streifereien im Gebiete der Philosophie. Doch muß man nicht glauben als lebte ich bloß vom Raube. Die Philosophie ist ein weitläuftiges republikanisches Reich, das allen die sich darin anzubauen Lust haben, offen stehet. Ihre Provinzen sind alle Theile der menschlichen Erkenntniß (MGW IV, S. 3).
34 Dass dies wiederum einen Widerspruch darstellt zu Maimons oben zitierter positiver Bezugnahme auf Fichtes Projekt von Philosophie als Wissenschaftslehre, also streng systematisch bestimmter Wissenschaft der Grundlagen von Wissen überhaupt, kann als weitere immanente Spannung in Maimons philosophischem Denken aufgefasst werden.
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Inwieweit das Bild des philosophischen “Umherstreifens”35 in Verbindung einerseits mit dem Fichteschen Diktum vom “Wohnen unter freiem Himmel”, andererseits mit der für Maimons Werk generell konstitutiven Approximationsdynamik des Denkens in Richtung des Unendlichen, die ihr Ziel jedoch nie faktisch erreichen kann und damit dauerhaft “unterwegs” bleibt, sich letztlich als Beschreibung von Maimons lebendigem, im Kern möglicherweise existenzial geprägtem Philosophieverständnis insgesamt eignen könnte, soll an dieser Stelle zukünftigen Betrachtungen zu erörtern überlassen sein. Institut für Philosophie I Ruhr-Universität Bochum, Deutschland E-mail: [email protected]
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Meir Buzaglo
Salomon Maimon and the Regular Decahedron
Abstract: Salomon Maimon and the Regular Decahedron Maimon’s principle of determinability (Satz des Bestimmbarkeit) is undoubtedly the pillar of his philosophy. One of the original uses he gave to this principle is related to its creative nature: a synthesis according to this principle yields an object. This creative aspect, however, is questioned by the decahedron, since on the one hand it is a synthesis that satisfies the principle of the determinability, but one cannot construct such a concept in intuition. I suggest a solution to this riddle that accords with Maimon’s writings and his rationalistic spirit. I briefly discuss the ramification of this solution on the relation between the principle of sufficient reason and the creative role that Maimon ascribes to reason. Keywords: Satz des Bestimmbarkeit, Principle of Sufficient Reason, Construction, Rationalism, Idealism.
How far was Salomon Maimon prepared to take his rationalism? His position is generally described as a return to Leibniz via Kant, a description which is supported by Maimon’s own summing-up of his system as a coalition of philosophies including Leibniz as one of its layers. While this overarching question, which contains both a historical and a philosophical element, is not our concern here, Maimon’s writings on the decahedron raise the question of his position on the creative dimension in human understanding. Samuel Hugo Bergman already attempted to answer this question; below I will propose my own solution, which differs from Bergman’s. If this answer is accepted, it will provide us with a case in which Maimon was more radical than Leibniz in his rationalism.1 It would be interesting to track down, if only on a preliminary level, the source of his difference from Leibniz. First, however, it is worth making a number of general notes on the principle of determinability (Satz des Bestimmbarkeit) in Maimon’s system, which will assist us in refining the question.
1 The matter is of importance even independently of its relationship to Leibniz. Husserl adopted a position similar to Leibniz’s (Logical Investigations, I.15); on this point, Maimon’s position is noticeably different.
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1. Background: Determinability and Creativity The centrality of the principle of determinability to Maimon’s system is indisputable. In order to provide a brief overview of its role, it is worth discussing the following unequivocal claim by Maimon: “[T]he principle of determinability laid down in this work is a principle of all objectively real thought, and consequently of philosophy as a whole too. All the propositions of philosophy can be derived from and be determined by it” (Di Giovanni, Harris 1985, p. 165; S. Maimon, Gesammelte Werke, V, p. 368). For readers less familiar with Maimon’s system, it will suffice to say that determinability is the conceptualization of the relationship between a genus and species. The case is one of a synthesis of concepts, one of which, the determinate, cannot be conceived of without the determinable, though the determinable can be conceived of without this particular determinate. The example Maimon tended to bring was that of the synthesis of a “straight line”. The concept straight is inconceivable without the concept of a line – while a line can be conceived of without the concept of straight, for example in the synthesis given by the expression “curved line”. An objective synthesis, in Maimon’s terms, requires that at least one of the component terms cannot be conceived of without the other; if it can, then the synthesis is considered arbitrary. Maimon’s position vis-à-vis Kant finds various forms of expression, but one of them is particularly interesting for our concerns. The a priori synthetic cognition, in his system, is not limited to a particular form of recognition – rather, it has a creative element: Kant perceived synthetic cognition in the narrow sense. For him, cognition is synthetic if its object is not included in its subject, and it is based on construction: […] In my terminology, both analytic judgments and synthetic judgments expand our cognition […] analytic judgments [e.g. a triangle has three angles – my addition] expand our cognition about a given object, whereas synthetic judgments [e.g. a triangle can be determined to be right-angled – my addition] expand our cognition by determining a new object (Maimon 1794, p. 29).
We are not speaking here of a mere difference in terminology. Objects, according to Kant, assume existence through intuition: without intuition, there can be no object.2 In articulating his own definition, Maimon added 2 Setting aside for the moment the intricate interpretation of Kant’s arithmetic, this remains to a certain extent a central theme of Kant. Seung-Kee Lee (2008) offers a different view on the relation of Kant’s synthetic judgment and Maimon’s which gives a special role to the notion of determinability and inderminabilty in Kant’s system. While I believe with Lee that the study of the notion of determinability in Kant’s system is of special importance both
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his original argument that objects are formed by syntheses acting in accordance with the principle of determinability: an objectively real thought yields a real object. This position of Maimon’s is fundamental to his system of thought and central to his critique of Kant. According to this critique, the quid juris? question, regarding the nature of the relation between a pure category and time as a form of sensibility in Kant’s thought, can be answered only if we assume that intuition is not autonomous but, rather, a picture of conceptual relations.3 It is worth noting that the concept of determinability can aid in the articulation of the question. The relationship between the concept of causality and the pure intuition of time is like that between the pure concept of seven and the sensory concept of sweet, and so is unintelligible. Such categories apply to phenomena because the latter are not autonomous – they are based on objects of the understanding, the differentials. In other words, intuition is not an absolute requirement of the concept of the object. This is the point at which Maimon does return to Leibniz. Indeed, we are combining in Maimon’s system his statement that in the realm of mathematics we resemble God with his position that numbers are a product of the understanding, which establishes the relationship between them, thus providing a place for the creativity of the understanding. The creation of an object according to the principle of determinability, then, is not at all surprising, but is rather a natural extension of Maimon’s fundamental positions. With this overview, we are ready to address the question of the regular decahedron. 2. The Question of the Decahedron A polyhedron is said to be a regular polyhedron if its faces are made up of regular polygons and the same number of faces meet at each vertex. The number of possible regular polyhedrons has been known for some time and was put to philosophical use in Plato’s Dialogue of “Timaeus”. As Euclid demonstrated, the number stands at five: the pyramid (tetrahedron), cube, octahedron, dodecahedron, and the icosahedron. Note that the regular decahedron is not on the list. If the concept of the regular decahedron contained a simple contradiction, as does the concept of a round square, then a rationalist bound by the for the understanding of Kant and German Idealism, as far as the problem of the decahedron is concerned Lee’s reconstruction remains conservative (see Lee 2008, p. 259). 3 One way to analyze the picture relation in terms of the notion of reduction was given in Buzaglo 2002, chapter 3. Freudenthal (2006, p. 31) gives a qualitative formulation.
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law of contradiction could resolve it unhesitatingly. As we shall see later this was Leibniz’s view. Maimon took the example from Leibniz, but understands it differently. According to his analysis there is no contradiction in the idea of the decahedron, and it meets the requirements of the principle of determinability – as such, its nonexistence raises a question for Maimon’s notion of synthetic judgment. If we were to accept that construction is necessary for an object to be considered legitimate, as maintained by Kant and at times by Maimon, then we would have to conclude that there is no such thing as a decahedron, since it cannot be constructed. However, since ultimately construction refers to intuition and is not necessarily required in Maimon’s form of rationalism, we are confronted with the challenge of explaining the absence of an object such as the decahedron. Bergman addressed this challenge against the background of the relationship of objects of thought, which do not require intuition, to objects that do require construction and thus exist in relation to cognition: We find in Maimon a certain hesitation with respect to criteria that make a distinction between thought and cognition. In one place (V., p. 131) he relies only on the criteria of determinability, and in another only on that of construction. […] Nevertheless, it is impossible to rely solely on the relation of determinability in creating a possible concept in the positive sense as is shown by the regular decahedron (Bergman 1967, p. 176).
He then raises the possibility of finding assistance in the construction of the object: “The example of the decahedron shows us then that positive possibility requires besides the relation of determinability the proof of the possibility of construction” (Bergman 1967, p. 176). However, Bergman understands the problem in Maimon’s view:4 “But what is the meaning of construction for the radical rationalist who recognizes no criterion except that of the understanding?” (Bergman 1967, p. 178). Bergman then attempts to answer his question by appealing to the distinction between the consistency of an object’s definition when viewed in isolation and the consistency of the same definition when we require it to be in harmony with “geometry as a whole”.5 He then offers an original speculation on the role of construction in Maimon’s system: “Constructions rectify, as it were, the error that was made when we removed an isolated entity, such as the deca4 To the best of my knowledge, despite the literature on Maimon’s philosophy of mathematics Bergman is the only scholar who explicitly formulates this problem in Maimon’s philosophy and offers a possible solution. 5 Lachterman (1992) brings Maimon’s treatment of the matter from another source. Though he compares Maimon to Maimonides in the realm of mathematics, he neither cites Maimon’s discussion from Gibeath Hamoreh nor even mentions the problem Bergman raises.
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hedron, from the entire context and analyzed its conceptual structure without considering the relations that connect this body to all other bodies in our system” (Bergman 1967, p. 178). Bergman’s proposal contains an interesting perspective. The concept of an object can be non-contradictory in itself, and yet the existence of some other object can rule out its existence. Bergman does not go into detail on this issue, and does not provide any examples. In fact it is not easy to see the relevance of this comment to the decahedron, since the existence of the decahedron is not excluded by the existence of any other objects. The conventional proofs which list the possible polyhedra and show that there can be no more than five do not eliminate the possibility of any others, since other geometric objects have to be taken into account. There are other positions close to Bergman’s, according to which something may appear to be possible because of a lack of knowledge on our part, but if we take into account the whole order of nature, we will realize its impossibility. However, even if we adopt a similar position, it is unclear how it resolves the current difficulties. What is the status of a concept which is not contradictory according to the principle of determinability but cannot be constructed in space? Bergman will be forced to say not only that constructability grants possibility, but also that non-constructability implies contradiction. Similarly, he will have to explain why this dependence on constructability is not problematic for a rationalist who does not see intuition as a necessary requirement. Bergman hereby adds to Maimon’s explanation; while I may not agree with him, it is one possibility. Part of the role of the interpreter is to offer solutions to problematic elements of the text or system of thought being interpreted. Given Maimon’s ambivalence towards the role of construction, there is nothing especially problematic in the role assigned to it by Bergman. I would like to suggest the possibility of giving a solution opposed to Bergman’s, which I will attempt to support by Maimon’s claims and by noting its compatibility with the general spirit of his position. Maimon also writes on the decahedron in Gibeat Hamoreh, a commentary on Maimonides’ Guide of the Perplexed, and this passage introduces a different perspective. He writes: Although the concept of a decahedron, i.e., a regular polyhedron with ten faces, is possible with respect to its form, since the condition of congruent faces does not contradict their number ten, it is impossible to find such a concept in intuition […]. Thus, even if the act of thought ( )פעולת המחשבהis not limited in itself, our cognition ( )הכרהis necessarily confined to what can be represented to our senses. That is why he (Maimonides) writes, “Do not criticize the words used in this chapter and in others in reference to the understanding”, where he says that human understanding has
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its limits. This is indeed problematic, since understanding ( )השכלhas no boundaries (Maimon 1965, p. 64).
Maimon repeats here his claim that there is no contradiction in the concept of the decahedron, but although he does not explicitly say so, he adds here that thought is not subservient to the limitations imposed upon cognition. This reading also informs his understanding of Maimonides’ hint. This opens the possibility of a straightforward interpretation: the impossibility of constructing an object does not necessarily comprise an absolute limitation. This is a broad topic, touching on the fundamental question of the place of understanding for Maimonides, but it is interesting that Maimon links it to the decahedron. There is a lurking suggestion that the impossibility of the decahedron is only a consequence of the limitations of our perception related to intuition.6 If we discard the limitations of our perception, then we will have to acknowledge the existence of the decahedron. From here follows the general principle that if a concept contains no logical contradiction, and if the synthesis upon which the concept is based obeys the principle of determinability, then an object is created by the concept. In other words, we adopt the concept of object-creating thought mentioned above. Now, I am not saying that this is definitely Maimon’s opinion, since Maimon expressed opposing opinions on the subject, but I would suggest that it is a position that Maimon holds beneath the surface, that it has a basis in Maimon’s writings and that, as I will show, it is reasonable in itself, as I will demonstrate below. To begin with its reasonableness. Modern mathematics accepts no obligation to limit itself to three dimensional Euclidean space. There exists a teeming world of mathematical objects such as the Klein bottle and four- or five-dimensional spheres which are not constructable in three-dimensional space. A regular polyhedron which also has ten faces falls into the same category. A modern mathematician might compare the restriction of mathematics to three-dimensional space with the experience of beings living on a two-dimensional flatland, restricted to two- dimensional objects. For us the decahedron, unrealizable in three-dimensional space, is like a sphere for the Flatlanders. So modern mathematics lets Maimon’s position make sense. Of course, we also need to examine its connection with other statements by Maimon. Then we can explain how Maimon’s difference of opinion with Leibniz goes further.
6 Maimon’s classification of mathematical knowledge is an articulation of this view. See Buzaglo 2002, pp. 37-42, for an elaboration.
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3. Elaboration Further support for my interpretation can be found in Maimon’s writings on the infinite circle. Maimon distinguishes between ideas of the understanding and ideas of reason. An idea of reason is an infinite concatenation of concepts that cannot be grasped all at once, while an idea of the understanding is a finite concatenation which remains an idea due to the fact that it has no manifestation in intuition. In a discussion of the possibility of different magnitudes of infinity, which is fascinating in its own right and has not yet received the attention it deserves, Maimon introduces the idea of a circle with infinite radius. The circumference of such a circle, Maimon claims, will be larger than its diameter. Maimon is prepared to grant reality to such an entity and does not dismiss its existence merely because it exceeds our perceptual limits.7 In our terms, Maimon uses the infinite circle, which is an idea of the understanding and as such cannot be given in intuition, in order to disprove a thesis on the coherence of the notion that one infinity can exceeds another infinity, thereby implying that he sees such a circle as a legitimate object.8 However, the case of the infinite circle may be seen as a curiosity introduced for the sake of argument, and it is not a decisive proof. More significant support can be found in Maimon’s comment on Kant’s antinomies. Maimon held that the antinomies should be given a more extensive response, because they are not found only in metaphysics but “also in physics and, what is more, even in the most apodictic science – mathematics” (Maimon 2004, p. 228). We do not need to enter into the details of this doctrine in order to understand that the inclusion of ideas in science grants them significant power. Here he accepts the distinction between infinite understanding and finite understanding, and moves towards the quotation with which we began: “What the finite understanding in its limitations sees as an idea, is in terms of its absolute existence a definite object”. The decahedron is not an idea that requires a reference to infinity, like the infinite series of number which Maimon refers to, but it resembles them in that it 7 Here is the relevant passage: “This argument is fallacious, for it is possible that one infinity will be larger than another infinity, and at the same time, parts will not be equal to wholes. Let us assume a circle whose radius is an infinite line. Here the circumference is always greater than the radius even though both are infinite. Yet this does not entail that parts are equal to wholes. For it is impossible that the radius will be equal to the circumference, in such a way that a finite number of radii and their parts give the circumference, for we have proved that they are incommensurable” (Maimon 1965, p. 150). 8 Fortunately, Bergman and Rotenstreich, the editor’s of Maimon’s work, invited Fraenkel, a contributor to the bases of set theory, to comment on this issue. This discussion needs to be dealt with separately, but it is outside the objectives of this paper.
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cannot be given in intuition. The claim that it does not exist for a finite understanding but does exist for an infinite understanding is compatible with Maimon’s essential view of ideas. 4. First comparison with Leibniz How does this interpretation of the decahedron contribute to the relationship between Maimon and Leibniz? What is the source of their difference? I will deal with the first question first. Luckily, Leibniz adds the following explanation to his view on the regular decahedron: Essence is basically just the possibility of the thing in question. Something that is thought possible is expressed by a definition; but if this definition doesn’t at the same time express this possibility then it is merely nominal, leaving us to wonder whether the definition expresses anything real – i.e. possible – until experience helpfully acquaints us a posteriori with the thing’s reality – if it does actually occur in the world. (We can settle for this way of knowing in cases where reason can’t acquaint us a priori with the reality of the defined thing by exhibiting its cause or the possibility of its being generated) (Leibniz 1996, Third Book, Chapters 3.3).
Leibniz does not distinguish between a decahedron and a concept such as a “square circle”; he does not hold a position like Maimon’s regarding the creativity of synthesis according to the principle of determinability. He later elaborates: So it isn’t within our discretion to put our ideas together as we see fit, unless the combination is justified either by reason showing its possibility or by experience showing its actuality and, hence, its possibility (Leibniz 1996, Third Book, Chapters 3.3).
It is interesting to consider for a moment the difference between Maimon and Leibniz. We cannot dismiss Maimon’s regular decahedron by claiming it to be an arbitrary assembly of concepts, since its assembly obeys the principle of determinability. Rather, it seems to me that their essential disagreement is regarding how to understand the apparent fact that the regular decahedron cannot be constructed in space. Leibniz understands the proof in Euclid as necessitating the impossibility of the decahedron. Maimon, of course, accepts this essentially mathematical claim, but only if we assume that the object satisfies certain conditions that constraints a finite understanding – constraints that a synthesis in pure thought does not require. In this respect, Maimon was more radical than Leibniz, a statement that raises a question for the latter: why place such importance on three dimensional space, when according to Leibniz himself space is not an actual substance but only represents the relationship between objects. Moreover, different possible worlds have their own space, and no a-priori argument has
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been proposed to demonstrate that these spaces must have the dimension of the space of the actual world. In order to maintain his position, Leibniz must accept some form of the principle of plenitude: that which cannot be made manifest in space contains an inherent contradiction. This is not so applicable to Leibniz, who confines the principle to concepts of possible substances; The question of whether or not it is possible to respond on Leibniz’s behalf, aided by an expansion of the principle of plenitude from substances to the realm of geometrical objects, should interest every rationalist who rejects the existence of the decahedron in any form. We should not conclude without noting that this topic also leads us to the difference between Maimon’s understanding of differentials and that of Leibniz. Leibniz rejects the possibility of infinity, and along with it the possibility of differentials, which are so necessary for Maimon’s system: The true infinite, strictly speaking, is only in the absolute, which is more basic than any composition and isn’t formed by the addition of parts […]. But it would be a mistake to try to suppose an absolute space that is an infinite whole made up of parts. There is no such thing: it is a notion that implies a contradiction; and these infinite wholes, and their opposites the infinitesimals, are like imaginary roots in algebra, having no place except in calculations (Leibniz 1996, Second Book, Chapters 17.3).
For Leibniz the justification of differentials is instrumental. The fact that they are infinitesimal nullifies any other significance. For Maimon, things are completely different. They have a role in Kant’s answer to the quid juris question, and as such are required as metaphysical assumptions, not only as tools for simplifying calculations.9 The solution I have proposed here to the problem that Bergman raises goes in a different direction, and is supported by Maimon’s essential positions. It also enables a distinction to be made between him and Leibniz. This, however, raises the question on the source of the difference between Maimon and Leibniz. I leave this question for further investigation, but it seems worth formulating a hypothesis here, even if it will eventually be rejected. The characterization of Maimon as a return to Leibniz via Kant is highly significant in the light of the present discussion. On the way to Kant we lost God as Creator of the world, and assigned the creative role to Man; from a real and absolute substance, God became a mere ideal. A further difference between Kant and Maimon is that for Kant the role of creator given to Man is not that of the creator of a totally objective world. Rather it is a world of phenomena, distinct from the world of things in themselves, constrained by 9 From here a response may also be derived to the question that we left open earlier, namely that Leibniz will see any geometry of more than three dimensions as having only instrumental significance.
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forms of sensation which are not objective in the strict sense of the world. From the point of Maimon’s position, on the other hand, Man’s creation is not confined to his finite condition, but reflect a purely conceptual world. When Maimon explains that in mathematics we resemble God, he must be understood as implying that the objects we create are objective in an absolute sense. For Leibniz, who adheres to the principle of sufficient reason, everything which exists is explicable, but according to Maimon reason is not confined to explaining what exists but it is endowed with the power to create. To answer the quid juris? question, Maimon followed Leibniz and requires that reality must be transparent to reason, but according to the suggestion proposed here concerning the decahedron, he also holds the opposite position: whatever conforms to reason exists. This follows directly from what he termed as “synthetic judgment”. In the spirit of Parmenides: “For thinking and being are the same”. 5. Summary Anyone who has encountered Maimon’s writings is aware of their variability and even occasional inconsistency,10 a quality on display in Maimon’s concept of the necessity of construction. Solutions such as Bergman’s to the question of the decahedron marginalize Maimon’s more radical statements, while the solution I have proposed here preserves this radicality. According to this solution, a synthesis that is consistent with the principle of determinability and that does not contain a contradiction produces an object, regardless of whether or not there is a suitable construction of the object. This position is consistent with Maimon’s interpretation of Maimonides and with his willingness to acknowledge the existence of infinite circles and his expansion of the realm of ideas to mathematics. The question of the coherency of the solution proposed here, along with its suitability to Maimon’s system as a whole, deserves a more exacting assessment. Department of Philosophy The Hebrew University, Jerusalem, Israel E-mail: [email protected]
10 One case that exemplifies this character of Maimon’s writing is given in Maimon’s use of the decahedron to criticize Kant (see Bergman 1967, p. 82).
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Gualtiero Lorini
Verità, linguaggio e coscienza in Salomon Maimon1
Abstract: Truth, Language, and Consciousness in Salomon Maimon Many of the difficulties related to Maimon’s philosophy arise from its antinomic nature, basically aimed at investigating the ways by which a finite understanding can approximate to the gnoseological perfection of an infinite understanding. Beyond Maimon’s explicit confrontation with Spinoza, Leibniz, Hume and Kant, and his more or less direct influence on some crucial topics of the raising German idealism, the present contribution tries to clarify some internal passages of Maimon’s path. The aim is to show how the peculiar “differential” structure of thought, which in Maimon coincides with the structure of consciousness, can be illuminated by the analysis of notions that gravitate around it as its corollaries, namely, the concepts of truth and language, which are in turn strongly intertwined with each other. Keywords: Truth, Language, Consciousness, Subjectivity, Determinability.
1. Il principio di determinabilità e il suo significato per la sintesi a priori Spesso le ricostruzioni storiche orientate da un intento teoretico possono da un lato prestare il fianco ad accuse di parzialità rispetto a certi temi, ma dall’altro hanno il pregio di considerare degli snodi cruciali nella storia del pensiero in una luce inedita anche rispetto alle più accurate ricostruzioni manualistiche. Si pensi al riguardo alle pagine della Crisi delle scienze europee in cui Husserl afferma che Kant “si rese conto, attraverso Hume, che tra le pure verità di ragione e l’obiettività metafisica si apriva un abisso incomprensibile; si rese conto cioè dell’impossibilità di capire come queste verità di ragione potessero venir impiegate per la conoscenza delle cose” (Husserl 1972, p. 121). Husserl intende qui identificare in Kant un interlocutore privilegiato rispetto all’individuazione della soggettività come Thema principale dell’indagine fenomenologica. Malgrado, nella stessa Crisi, Husserl affermi di sentirsi assai più vicino a Descartes, e soprattutto a Hume, che non a Kant (Husserl 1972, p. 480), quest’ultimo ha il merito innegabile di aver spostato l’asse dell’analisi relativa ai processi di costituzione 1 Le traduzioni delle opere di Maimon sono di chi scrive. I numeri di volume e pagina si riferiscono all’edizione delle Gesammelte Werke (GW, cfr. Bibliografia).
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dell’esperienza e del suo senso all’interno del soggetto. È dunque a Kant che occorre riferirsi quando si intende ridefinire, o addirittura abbattere, i limiti che la sfera trascendentale impone alla conoscenza della realtà. Un discorso analogo può applicarsi all’“incontro” di Maimon con Kant, che fornisce al primo l’occasione di precisare la propria concezione del rapporto fra l’attività dell’intelletto, la conoscenza che ne scaturisce e l’oggettività attribuibile a questa conoscenza, in un senso che mostra però come il debito fondamentale di Maimon sia assai più leibniziano che kantiano. Come Husserl più tardi, Maimon pone l’accento sull’abisso che separa le verità di ragione e l’obiettività a cui la metafisica ambisce nell’applicazione di queste verità alla conoscenza della realtà. Tuttavia, se Husserl riconosce nella rivoluzione del “trascendentalismo” kantiano un decisivo tornante nella storia del pensiero occidentale – l’idealismo tedesco avrebbe infatti radicalizzato questo soggettivismo nella propria multiforme tensione verso l’Assoluto – Maimon si colloca alla radice di questo fenomeno. Si è addirittura sostenuto che l’intera tradizione postkantiana potrebbe essere considerata come il risultato, più o meno diretto, delle critiche maimoniane alla filosofia kantiana (Smith 2012, p. 66), al punto che “studiare Fichte, Schelling o Hegel senza avere letto Maimon, equivale a studiare Kant senza aver letto Hume” (Beiser 1987, p. 286). Se da un lato queste affermazioni possono suonare eccessive, dall’altro esse trovano legittimazioni sia a livello storico – come la lettera a Herz del 26 maggio 1789 in cui Kant riconosce l’acutezza delle osservazioni maimoniane alla KrV –, sia soprattutto a livello teoretico. Maimon intende allargare l’ambito del trascendentale, applicandosi a quello che Husserl avrebbe definito “il motivo del ritorno alle fonti ultime di tutte le formazioni conoscitive, della riflessione da parte del soggetto conoscitivo su se stesso e sulla sua vita conoscitiva” (Husserl 1972, p. 125). Nel Versuch über die Transzendentalphilosophie (1790) Maimon esprime insoddisfazione per la soluzione con cui Kant colma l’abisso fra dimensione intuitiva e dimensione concettuale della conoscenza, soluzione che trova la sua più alta espressione nella dottrina dello schematismo (Engstler 1990, pp. 71-80 e 124-142; Gasperoni 2012, pp. 116, 127). Maimon si concentra sullo schema del giudizio ipotetico presentato da Kant nella seconda Analogia dell’esperienza: “Tutti i cambiamenti avvengono secondo la legge del nesso di causa ed effetto” (KrV, B 232; Kant 2004, p. 166, trad. emendata). Mentre nella percezione di una casa la mia apprensione può iniziare indifferentemente dal tetto o dal suolo, ed è quindi determinata soggettivamente, nel caso di una nave che discenda un fiume una percezione in cui la nave si trova più a monte dovrà necessariamente precedere quella in cui essa si trova più a valle (cfr. KrV, A 192-193/B 237-238). Secondo Kant vi sono dunque due criteri che consentono di stabilire se una relazione temporale sia determinata oppure no – il che equivale a stabilire se un evento possa essere
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sussunto sotto la categoria della causalità. Il primo consiste nel fatto che la successione non possa essere reversibile, ossia che se B segue ad A, A non possa seguire a B; il secondo consiste nel fatto che, una volta posto A, B debba seguire necessariamente (KrV, A 198/B 244). Maimon contesta l’assunto che sta alla base di questa posizione, ossia che “la successione” sia “assolutamente il criterio empirico unico dell’effetto in rapporto alla causalità della causa che precede” (KrV, A 203/B 249; Kant 2004, p. 175, trad. emendata). Egli ritiene infatti che l’esempio della casa e quello della nave non possano essere distinti in linea di principio perché “l’apprensione del molteplice del fenomeno [Erscheinung] è sempre (sia essa soggettiva o oggettiva) successiva; si può dunque distinguere l’oggettivo dal soggettivo solo per il fatto che si percepisce come nel primo caso la sequenza si verifichi necessariamente secondo una regola, mentre nel secondo essa sia casuale” (VT, p. 187). Il problema è proprio qui: infatti, continua Maimon, “non si trova da nessuna parte nella percezione una sequenza che accada necessariamente secondo una regola […] poiché, se essa dovesse essere necessaria per il fatto che durante la percezione di una sequenza io non posso percepirne un’altra, allora anche la prima non si potrebbe distinguere da una sequenza meramente casuale” (VT, pp. 187-188), perché anche durante la seconda successione, che si suppone casuale, la prima, che si suppone necessaria, dovrebbe essere impossibile (cfr. VT, pp. 187-188). In altre parole, Maimon ritiene che, negli esempi addotti, Kant presupponga già quella causalità che ritiene di estrarre dalla struttura della successione temporale,2 e ciò si lega a un altro elemento dell’Erkenntnislehre kantiana criticato da Maimon, e cioè lo statuto di spazio e tempo. Maimon “concede” a Kant che essi siano forme della nostra sensibilità, ma ritiene di dover aggiungere che: queste forme speciali della nostra sensibilità hanno il proprio fondamento nelle forme generali [allgemein] del nostro pensiero in generale [überhaupt]. Poiché la condizione del nostro pensiero (coscienza) è l’unità nella molteplicità […] spazio e tempo sono allora queste forme speciali per mezzo delle quali sono possibili l’unità nella molteplicità degli oggetti sensibili, e dunque questi stessi oggetti come oggetti della nostra coscienza (VT, pp. 15-16).
L’accento sul concetto di “coscienza” nell’analisi della teoria della conoscenza kantiana non era nuovo in quegli anni – si pensi, ad esempio, al Satz des Bewusstseins3 reinholdiano – e, come noto, sarebbe stato destinato a 2 Su questo punto della critica maimoniana alla seconda Analogia dell’esperienza kantiana si veda Thielke 2001, pp. 444-447. 3 E.g. Reinhold 2003, p. 113: “Nella coscienza il soggetto distingue la rappresentazione dal soggetto e dall’oggetto e la riferisce a entrambi”.
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una grande fortuna negli sviluppi della riflessione post-kantiana. L’aspetto che però qui preme sottolineare è che la considerazione dello statuto di spazio e tempo, pur posta in termini di “condizioni” di possibilità degli oggetti di conoscenza, assume nella prospettiva di Maimon un verso differente rispetto a quello imperante nel dibattito di fine Settecento e inizio Ottocento sulla filosofia kantiana. Non si tratta infatti di testare la consistenza con cui queste forme offrono all’intelletto un materiale adeguato alla sintesi cognitiva, valutando quindi l’adeguatezza con cui queste forme concorrono a parte rei alla costituzione di una conoscenza oggettiva. Si tratta piuttosto di porre in rilievo la matrice concettuale di queste forme, per sottolineare come esse rimangano inevitabilmente una componente a parte subiecti nella costituzione della conoscenza (cfr. Atlas 1964, pp. 168-171). La considerazione di spazio e tempo si inscrive quindi in una sorta di analisi proto-fenomenologica del processo per mezzo del quale la coscienza determina il significato della conoscenza. In questo senso essi “sono sia concetti sia intuizioni, e queste presuppongono quelli” (VT, p. 18). Si prenda questa volta il caso dello spazio: “La rappresentazione sensibile della diversità delle cose [Dinge] determinate è il loro essere distanti; la rappresentazione della diversità delle cose in generale è l’essere distanti in generale, ossia lo spazio” (VT, p. 18). In quanto modalità della rappresentazione, spazio e tempo rientrano quindi nell’analisi dell’attività della coscienza, che costituisce il fondamento ultimo della sintesi cognitiva dal momento che il giudizio, kantianamente inteso come espressione dell’applicazione del concetto all’intuizione, si limita a mostrare l’inerenza del concetto del predicato a quello del soggetto. La scoperta di questo fondamento rappresenta per Maimon il vero compito della filosofia trascendentale. Infatti, mentre la “filosofia trascendentale comune [gemeine Transzendentalphilosophie]” (Antwort-Obereit, Maimon 1792, p. 458) non distingue soggetto e predicato tramite una condizione dirimente, nella concezione maimoniana della logica trascendentale sottesa alla sua filosofia trascendentale: “essi vengono distinti per mezzo di una condizione a priori: io cerco dunque qui di fissare questa condizione. Essa non è altro che la possibilità oggettiva di una sintesi in generale” (VT, p. 85). Il compito di individuare questa condizione di possibilità viene affidato da Maimon a un principio che egli non definisce espressamente nel Versuch, pur attribuendogli un ruolo centrale: il principio di determinabilità [Grundsatz/Satz der Bestimmbarkeit], che emerge nel paragrafo intitolato “Soggetto e predicato. Il determinabile e la determinazione” (VT, p. 84).4 4 Una definizione esplicita di questo principio si trova nel Versuch einer neuen Logik oder Theorie des Denkens (VL, p. 78). Si vedano anche le Kritische Untersuchungen (Maimon 1797,
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Studiando le diverse modalità di relazione a priori fra soggetto e predicato nel giudizio, Maimon ne individua tre fondamentali: arbitraria, formale e reale. La prima è la sintesi dell’immaginazione, in cui soggetto e predicato sono collegati in modo meramente arbitrario, e possono infatti sussistere ciascuno indipendentemente dall’altro (VT, pp. 92-93). Come Maimon preciserà nel VL: “il pensiero arbitrario non ha alcun fondamento, e per questo non è in realtà un pensiero” (VL, p. 82). Il secondo possibile rapporto è puramente formale e consiste in una relazione scambievole in cui uno dei due membri determina l’altro, senza che sia però stabilito quale dei due è il determinante e quale il determinato (VT, pp. 84-86). Infine, l’unica solida distinzione a priori fra soggetto e predicato che si possa considerare “reale”, si ha nel caso in cui il predicato non sia concepibile se non come determinato dal soggetto: le proprietà di un triangolo sono predicati del soggetto “triangolo” ancor prima dell’attività per mezzo della quale il triangolo viene disegnato, dato che senza aver chiara questa relazione non sarebbe nemmeno possibile disegnarlo (VT, p. 85).5 Solo nella conoscenza matematica è dunque possibile conseguire una determinazione a priori chiara e univoca della relazione fra soggetto e predicato, dal momento che questa determinazione consente la costruzione dell’oggetto stesso che è al centro del giudizio. Tuttavia, in ambito metafisico l’affermazione del primato dei giudizi matematici è ben lungi dal fornire una soluzione alternativa al dualismo kantiano fra elemento intuitivo ed elemento concettuale. Maimon è piuttosto impegnato, anche attraverso la concettualizzazione di spazio e tempo, ad affermare una continuità fra concetto e intuizione a cui non sono estranei elementi del monismo spinoziano,6 ma che trova in Leibniz il riferimento principale. Egli ritiene che se intuizione e pensiero concettuale “devono essere rappresentati già in noi come due facoltà diverse, esse debbono poter essere pensate da un’essenza pensante infinita come un’unica e medesima forza”, e che nel nostro caso “la sensibilità è l’intelletto finito [unvollständig]” (VT, p. 103). A testimonianza dell’omogeneità qualitativa fra gli elementi del pensiero, Maimon sostiene che la stessa evidenza della matematica può essere riscattata solo presupponendo che “gli effetti della sensibilità, dell’immaginazione, etc., sono gli stessi effetti, per quanto meno perfetti, dell’intelletto e della ragione” (VT, p. 348; Ehrensperger 2004, p. XXXV). La perfetta determinazione a priori della differenza fra soggetto e predicato pp. 203-206). Sulla centralità di questo principio nell’economia del pensiero di Maimon si veda i.a. Schechter 2003. 5 Per un’esposizione più compatta di queste tre modalità si veda VL, pp. 82-84. 6 Sullo spinozismo di Maimon si vedano i.a. Atlas 1959, Kroner 1961, pp. 326-361, e Fraenkel 2009, pp. 228-239.
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– e dell’inerenza del secondo al primo – che si ha nel giudizio matematico rappresenta un caso limite all’interno di una serie di gradi del conoscere, in cui quelle che Kant ha identificato e separato, rispettivamente, come dimensione sensibile-intuitiva e intelligibile-concettuale differiscono solo in termini di gradi di perfezione. Questa soluzione della dicotomia concettointuizione rappresenta la base della corretta comprensione di Leibniz alla quale Maimon ambisce,7 oltre che la base per la sua risposta alla vexata quaestio del quid iuris. Per comprendere le implicazioni di questa soluzione è però necessaria un’analisi della teoria della verità che deriva dalla posizione di Maimon. 2. Le due facce della moneta: valore ideale e valore reale della verità Nella lunga riproposizione dei temi salienti dell’opera, che Maimon colloca in appendice al VT, si trova un articolato commento alla Critica del quarto paralogismo nella prima edizione della KrV. Con l’“idealista trascendentale” Maimon sostiene che io “non posso uscire dalla mia percezione [Wahrnehmung] immediata”, e quindi tanto la materia dell’intuizione, “l’empirico dell’intuizione”, quanto la sua forma “esistono solo in me” (VT, p. 205). Maimon dissente però dall’“idealista trascendentale”, nella misura in cui questi intende come materia ciò che appartiene alla sensazione [Empfindung], facendo astrazione dalle relazioni in cui è ordinato, mentre io sostengo che ciò che appartiene alla sensazione deve anche essere ordinato secondo relazioni se dev’essere percepito (anche se io non posso percepire direttamente queste relazioni) (VT, p. 205).
Con il “realista trascendentale” Maimon ritiene quindi che “l’intuizione ha un fondamento [Grund] oggettivo tanto rispetto alla materia quanto rispetto alla forma” (VT, p. 205), ma non accetta che gli oggetti possano essere determinati in sé, concependoli piuttosto “come mere idee, od oggetti in sé indeterminati, che solo nella percezione [Wahrnehmung], e per suo mezzo possono essere pensati come determinati (proprio come i differenziali sono pensati per mezzo dei propri integrali)” (VT, pp. 205-206, corsivo mio). Affinché la materia dell’intuizione possa costituirsi in una percezione, l’attività del soggetto deve ordinare l’“empirico dell’intuizione” secondo relazioni che possono anche non essere direttamente percepibili, ma sono necessarie affinché la percezione possa sorgere. Maimon si colloca qui alla
7 Si veda e.g. il “Leibnizianismo emendato [verbesserter Leibnizianismus]” di cui Maimon parla nell’articolo del 1790 “Baco und Kant” (Maimon 1790b, p. 521).
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radice della questione del quid iuris,8 e la sviluppa servendosi di una concezione di spazio e tempo come forme della relazione fra gli elementi dell’Empfindung che consentono di poterla prendere per vera, ossia percepirla nella forma della Wahrnehmung. Spazio e tempo cessano dunque di fungere kantianamente da forme della presentazione [Darstellung] empirica di un molteplice che la sintesi concettuale consentirebbe poi di rappresentare [vorstellen]. Essi sono funzioni tramite cui la coscienza attua determinate relazioni concettuali fra gli elementi della materia dell’intuizione,9 sicché con il termine “materia” “non intendo un oggetto, ma semplicemente le idee in cui infine le percezioni debbono risolversi” (VT, p. 205).10 Che la soluzione maimoniana del dualismo kantiano sia a tutto vantaggio del versante soggettivo-concettuale è ribadito poco dopo: Se il mio modo d’intuizione viene distrutto, allora non ci sono intuizioni, né oggetti del pensiero determinati in se stessi; ma poiché la mia facoltà di pensare potrebbe pur sempre rimanere, questa facoltà di pensiero potrebbe comunque produrre oggetti di pensiero da sé (idee che attraverso il pensiero diventano oggetti determinati) (VT, p. 206).
Alla base di questa posizione c’è la convinzione secondo cui la relazione del pensiero sia “con un certo modo di intuizione [Anschauungsart]” sia “con una facoltà dell’intuizione [Anschauungsvermögen] in generale” è puramente accidentale (VT, p. 206). A sua volta ciò presuppone il principio di determinabilità, qui nella forma di una “facoltà di determinare oggetti reali per mezzo di relazioni pensate [gedachte Verhältnisse] che si riferiscono a un oggetto in generale (Objectum logicum)” (VT, p. 206). In questo senso va letto il “sistema” leibniziano “correttamente inteso” (VT, p. 206). Se si assume la sostanziale omogeneità d’intuizione e concetto, è evidente che i puri concetti del pensiero possono essere applicati agli oggetti dell’intuizione sulla base dell’assunto che l’intuizione non è altro che “pensiero confuso”. Di conseguenza, l’attività per mezzo della quale il pensiero (e quindi la coscienza), attraverso il principio di determinabilità, articola le relazioni dell’oggetto in generale (l’obiectum logicum) – rendendolo percepibile e quindi reale – è un’attività sintetica se vista dal punto di vista dell’intelletto umano, ma analitica per l’intelletto divino. Infatti, rispetto a quest’ultimo non si verifica che una riconduzione nel pensiero chiaro e di8 Fra i lavori più recenti che insistono sulla rilevanza sistematica della problematica del quid iuris per lo sviluppo dei nuclei centrali del pensiero maimoniano, segnaliamo Pringe 2015, pp. 89-98. 9 L’ispirazione leibniziana di questa posizione è mesa in luce da Fincham 2015, p. 1047. 10 Nell’articolo “Baco und Kant” Maimon, riferendosi a Platone, definisce le idee come “i veri oggetti dell’intelletto” (Maimon 1790b, p. 522).
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stinto di quel che si dava dapprima oscuramente e confusamente.11 Tuttavia, nel sostenere questo punto di vista Maimon ha anche di mira le implicazioni che da questa posizione derivano in riferimento al concetto kantiano di “cosa in sé”. Rifiutando l’idea che la materia dell’intuizione sia determinata indipendentemente dall’attività dell’intelletto, in un articolo del 1790 egli può infatti sostenere che “cosa in sé e concetto o rappresentazione di una cosa sono oggettivamente lo stesso, e si differenziano tra loro solo soggettivamente, cioè in riferimento alla perfezione della nostra conoscenza” (Antwort, Maimon 1790c, pp. 54-55). Da questo punto di vista, la cosa in sé kantiana non è altro che “una vuota parola senza significato alcuno” (Maimon 1790c, pp. 54-55). Il primato del pensiero nella costituzione del processo cognitivo si alimenta quindi di un’attività che determina in modo sempre più preciso la percezione di un oggetto in generale tramite “relazioni pensate”, risolvendo infine questa percezione in un’idea. Questo processo corrisponde al passaggio dalla mera Empfindung alla Wahrnehmung, ed esprime la tendenza dell’intelletto finito, immerso nelle verità di fatto, verso l’intelletto infinito, regno delle verità di ragione. Questa progressiva determinazione consiste nel fissare non sostanze o enti, ma le relazioni mediante le quali la percezione può articolarsi. Ne consegue che la possibilità di considerare vere le idee in cui si risolvono le percezioni è funzione delle relazioni che sono state determinate dall’attività della coscienza. Una simile concezione della verità emerge con chiarezza tanto nel VT, quanto in un articolo pressoché coevo pubblicato nel 1789. In questi due testi l’argomentazione presenta consonanze tali da consentire una loro lettura congiunta. Il punto su cui Maimon insiste è che “in riferimento al pensiero considerato in sé non vi è alcun concetto vero o falso, quanto piuttosto o esso è un concetto o non lo è” (VT, p. 146). Ancora con evidenti echi leibniziani, Maimon sostiene che la verità risiede non in elementi statici come i concetti, ma nelle modalità con cui essi vengono collegati dall’intelletto. Nel discorso, posso affermare che “un triangolo ha tre angoli”, ma questo enunciato è vero solo soggettivamente, nel senso che io “esprimo con ciò qualcosa che penso realmente, cioè parlo con verità e il contrario sarebbe falso” (UWL, p. 601). Enunciati di questo tipo, tuttavia, non valgono “per un oggetto in generale e nemmeno per oggetti determinati in riferimento ad ogni essenza pensante in generale” (UWL, p. 602). Al contrario, l’enunciato “Un triangolo è uguale a se stesso” è una verità oggettiva “per11 Come noto, Leibniz espone la classificazione delle conoscenze in termini di gradi di chiarezza e distinzione nelle Meditationes de veritate, cognitione et ideis (Leibniz 1684, pp. 422426).
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ché io qui penso un triangolo uguale a se stesso in quanto non solo io, ma ogni essenza pensante in generale deve pensare non solo un triangolo, ma ogni oggetto in generale come uguale a se stesso. Senza questo assolutamente nessun pensiero sarebbe possibile” (UWL, p. 602). Certo, potrebbe suonare strana l’idea che un enunciato come “un triangolo ha tre angoli” debba essere considerato solo soggettivamente vero, ma bisogna tenere presente che Maimon si concentra sul processo di collegamento tra i concetti e non sul contenuto dei concetti collegati. Da questo punto di vista, l’enunciato “un triangolo ha tre angoli” non è certamente falso, ma la sua verità viene ricavata sulla base di un processo soggettivo tramite cui il soggetto enuncia un pensiero che è tale perché i concetti che lo compongono (“triangolo” e “avere tre angoli”) sono correttamente collegati. Maimon definisce questa verità metafisica, riferita cioè a oggetti “determinabili ma non ancora determinati”; essa è necessaria non per ogni essenza pensante, ma per il singolo (in questo caso umano) per come esso è costituito (VT, pp. 150-151; Atlas 1964, p. 235). Nel caso invece dell’enunciato “un triangolo è uguale a se stesso”, la verità vale oggettivamente per ogni essenza pensante, perché la proprietà dell’identità con sé prescinde dall’oggetto cui viene riferita, e vale per l’oggetto in generale, trattandosi cioè di una verità logica: “La verità è dunque la speciale relazione del primo [il discorso] con il secondo [pensiero], secondo cui all’espressione corrisponde un pensiero”, mentre nel caso della falsità “nessun pensiero corrisponde all’espressione, con la pretesa però che a questa corrisponda un pensiero, perché altrimenti essa sarebbe un vuoto suono” (VT, pp. 147-148). Nell’articolo del 1789 Maimon chiarisce la propria posizione accostando metaforicamente la verità a una moneta. Una moneta può infatti avere sia un valore ideale, come “unità di misura generale, per mezzo della quale viene determinato il rapporto reciproco del valore delle cose”, che però in sé non ha valore se non come mero segno “in virtù del suo conio” (UWL, pp. 603-604), sia un valore reale “come merce, in riferimento alla materia di cui essa è costituita” (UWL, p. 604). Le oscillazioni nel rapporto fra questi due valori – a seconda dell’evoluzione del mercato e, nel nostro caso, dei vari ambiti conoscitivi – fanno sì che quando il valore della materia di una moneta reale è pienamente coincidente con il valore del conio, essa cessa di funzionare come un’unità di misura generale, divenendo a sua volta una merce, il cui valore dovrà essere rideterminato per mezzo di un’altra unità di misura stabile. Quanto più invece il valore ideale e quello reale differiscono l’uno dall’altro, “tanto più la moneta reale si avvicina a quella ideale […] nella misura in cui l’eccedenza del valore del conio rispetto al valore reale è una moneta ideale, e questo fino a che tale differenza non divenga massima, e cioè [la moneta] non abbia alcun valore reale, ma solo un valore ideale” (UWL, pp. 604-605).
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Da questo stato di cose Maimon deriva che la moneta ideale ha un vantaggio su quella reale per quanto riguarda il suo “uso indiretto”, cioè come misura del valore, mentre la moneta reale ha un vantaggio su quella ideale nel suo “uso diretto”, cioè come qualcosa che ha un valore in sé. La verità – questo è il punto essenziale – riunisce in sé entrambi i vantaggi, poiché è in prima istanza la misura per mezzo della quale il rapporto reciproco di tutte le cose viene determinato; ma diviene adatta a ciò per il fatto che essa non è un oggetto che possa esso stesso essere pensato in relazione ad altre cose, ma la mera forma o il modo di pensare la relazione fra le cose, e in quanto tale essa rimane immutabile e va in questo caso associata alla moneta meramente ideale. In secondo luogo, oltre a questo, essa ha anche un pieno valore rispetto al suo uso diretto, ossia come perfezione di un’essenza pensante (UWL, pp. 605-606).
Qui Maimon aggiunge una considerazione che rimanda alla matrice leibniziana di questa concezione della verità. Egli precisa cioè che “quanto meno una verità è pura, cioè quanti più concetti e principi a posteriori debbono essere posti a suo fondamento, tanto meno essa è indicata a fungere da misura generale del valore oggettivo di tutte le cose nei loro rapporti reciproci, e in questo essa è uguale alla moneta reale” (UWL, p. 606). In questo modo torna la dicotomia fra intelletto finito – costantemente alla ricerca di un criterio adeguato a ricomporre sinteticamente quello che gli si presenta nella forma di un’altra (apparente) dicotomia fra pensiero e intuizione – e intelletto infinito, per il quale questa seconda dicotomia non ha luogo poiché la chiarezza del concetto raggiunge una totale trasparenza. Come la moneta, la verità ha dunque due valori: un valore materiale, ossia i concetti, i quali “come soggetto e predicato, sono collegati in un enunciato e quindi diventano una verità” (UWL, p. 611; cfr. Harel 1969, pp. 96101). I concetti in se stessi non sono però verità, ma “mere realtà quando sono d’accordo con l’oggetto”, mentre “nel caso opposto non sono realtà; solo la regola specifica, ossia la rappresentazione della loro necessaria connessione, rende una semplice proposizione una proposizione vera” (UWL, p. 611). Il secondo valore della verità è legato alla sua forma: “Questa è sempre reale in riferimento al puro pensiero, altrimenti non sarebbe affatto una forma. Di contro, nel riferimento del segno (del linguaggio) a ciò che tramite esso viene designato, essa [la forma] può anche non essere reale” (UWL, pp. 611-612). Ciò ripropone il dualismo fra verità nel discorso e verità nel pensiero, che Maimon intende superare a favore di una concezione della verità dipendente dal modo in cui queste due dimensioni vengono collegate. Infatti, il valore materiale e il valore formale (ideale) della verità “possono stare insieme, come in una moneta, come quando da concetti reali e principi sintetici […] si derivano nuovi enunciati” (UWL, p. 612).
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Il caso che restituisce nel modo più evidente la peculiarità di questa concezione della verità si ha quando i due valori divergono, come nel caso dell’enunciato “un triangolo ha due angoli retti”. In questo enunciato pensiamo “un concetto non reale”, e se da esso deduciamo “determinate conseguenze secondo la forma necessaria del pensiero, abbiamo allora una forma di pensiero reale, ma senza materia” (UWL, p. 613). La nostra attività di pensiero si è quindi correttamente espletata, anche se “non possiamo utilizzare l’enunciato in questione in nessun contesto” (UWL, p. 613). In questo caso la verità funziona quindi inversamente rispetto alla moneta, perché nel caso di quest’ultima “la forma in sé, astratta dalla materia, non ha alcun valore e quindi può essere usata solo come segno concordato in un determinato territorio, ma non in generale” (UWL, p. 613), mentre il valore del materiale che compone la moneta consente di scambiarla anche al di fuori del territorio in cui il conio è valido (a condizioni diverse di quelle stabilite dal conio). Di contro, nel caso della verità è la forma ad avere un valore universale, “nella misura in cui, per suo mezzo, viene sempre posto un pensiero reale, mentre la materia ha invece un valore solo per noi, ma non per ogni essenza pensante” (UWL, p. 613). Detto altrimenti: nel caso dell’enunciato “un triangolo ha tre angoli”, la verità assumeva semplicemente un valore materiale (e soggettivo), senza ancora una forma necessaria a priori tale da renderla condivisibile da ogni essenza pensante, e quindi oggettiva. Ciò si verifica invece per quei concetti che vengono dedotti secondo un procedimento corretto, seppur a partire da un pensiero che non ha materia.12 La distinzione fra valore materiale e formale (ideale) della verità pone ulteriormente l’accento sulla matrice operativa che definisce la verità stessa, al di là del “conio” con cui si voglia fissarne il significato: “La verità non è moneta coniata” – dirà Hegel – “la quale così com’è possa venir spesa e incassata” (Hegel 1973, pp. 30 sg.). Infatti, la possibilità di scambiare la moneta della verità al di fuori della dimensione limitata del soggetto dipende dall’universalità della forma che esprime il passaggio dal pensiero all’espressione, ossia al linguaggio, a cui non a caso Maimon si riferisce esplicitamente in queste righe. Occorre quindi concentrarsi sulla modalità di designazione con cui il linguaggio può portare alla luce la verità, e a questo scopo è necessario comprendere il legame strutturale che esso instaura con la
12 In questo senso è emblematico quanto Maimon afferma nel VT, pp. 148-149: “Se invece dei suoi assiomi metafisicamente veri Euclide ne avesse assunti di falsi, io sono tuttavia sicuro che non per questo egli avrebbe trasmesso al mondo un’opera inferiore o di minor levatura rispetto a quella che ancora oggi traiamo da lui”.
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conoscenza simbolica, nella sua contrapposizione a quella intuitiva. Anche questo passaggio viene chiarito nell’ambito della metafora numismatica. 3. Il linguaggio fra conoscenza intuitiva e conoscenza simbolica: una costante approssimazione Nell’articolo del 1789 Maimon dichiara di voler esporre “la differenza fra la conoscenza simbolica e quella intuitiva e il vantaggio di questa su quella, o viceversa” (UWL, p. 607). A questo fine egli riprende l’accostamento con la moneta e la possibilità di scambiarla all’interno di un contesto limitato oppure universalmente. L’introduzione della moneta rispetto all’economia basata sul baratto ha avuto il merito di estendere la sfera del commercio, che prima presupponeva una convergenza di necessità specifiche fra i due contraenti. Tuttavia, l’introduzione della moneta porta con sé una limitazione di tipo diverso, ossia che “il valore della moneta viene determinato solo tramite il conio; e così con il tempo è accaduto […] che il valore indicato dal conio fosse molto diverso dal valore della moneta secondo la sua materia” (UWL, p. 608). Di conseguenza, “una simile moneta può essere utilizzata solo per il commercio domestico, ma non per il commercio estero” (UWL, p. 609). Una situazione analoga si può ravvisare confrontando le diverse modalità in cui conoscenza intuitiva e conoscenza simbolica consentono di accedere alla verità. Nella conoscenza intuitiva l’individuazione [Erfindung] della verità avviene attraverso una diretta e “immediata sostituzione dei pensieri tra loro” (UWL, p. 609). Sebbene ciò consenta di essere sempre certi della realtà del pensiero, non consente però di progredire molto nell’individuazione della verità, “specialmente se essa è troppo nascosta [versteckt]” (UWL, p. 609). La conoscenza simbolica sorge proprio per rimediare a questo inconveniente, e si basa sulla sostituzione delle cose che s’intende designare con segni, grazie alla cui interazione è possibile arrivare a designare cose che non potrebbero essere direttamente intuite, sicché “una nuova verità scaturisce da questa nuova formula. […] In questo modo si è in grado […] di scoprire, come meccanicamente, le verità più nascoste [allverborgenst]” (UWL, pp. 609-610). Ciò richiede però una particolare cautela, poiché “a volte ci si imbatte in combinazioni simboliche o formule che non hanno realtà, a cui cioè non corrisponde nessun oggetto reale” (UWL, p. 610), come nel caso del coseno di un angolo retto. Per questo motivo è essenziale vigilare sul processo di simbolizzazione, onde evitare di giungere alle “idee più ridicole, da cui poi non ci si può svincolare” (UWL, p. 610). Un simile rischio è presente anche nel linguaggio. Infatti, alla voce Sprache del proprio dizionario filosofico Maimon definisce il linguaggio come “espressione di pensieri attraverso segni in generale” (PW, p. 135). Questo
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consente di riconoscere nel linguaggio una forma di conoscenza simbolica e d’identificare un riferimento concettuale per l’attività tramite cui la coscienza determina di volta in volta la nostra conoscenza sulla base del principio di determinabilità, chiarendo così l’apparente dimorfismo fra intuizione e concetto. Se il procedere matematico rappresenta un caso limite dell’attività della coscienza, è perché consente la determinazione a priori della differenza fra soggetto e predicato, e dell’inerenza del secondo al primo. Malgrado Maimon non tematizzi esplicitamente questo aspetto, si può ora comprendere che l’attività coscienziale “media” che sta, per così dire, al di sotto di questo caso limite è rappresentata proprio dall’attività linguistica mediante cui la coscienza soggettiva, sulla scorta del principio di determinabilità, cerca di abbattere i confini entro i quali, soli, la sua moneta è valida. Si tratta del movimento d’infinita approssimazione [unendliche Annäherung] del finito-condizionato verso l’infinito-incondizionato destinato ad avere tanta fortuna nell’idealismo e nel romanticismo. Nella concezione maimoniana della matrice simbolico-discorsiva del linguaggio, questo processo è però ben lungi dallo scolorire in un vuoto afflato dell’anima verso l’infinito. Nel saggio del 1793 Ueber die Progressen der Philosophie, Maimon sostiene che Dio non pensa “discorsivamente, come noi, ma i suoi pensieri sono al tempo stesso esibizioni [Darstellungen]” (UP, p. 20). E all’obiezione secondo cui noi non possiamo avere alcuna idea di un processo di pensiero del tutto diverso dal nostro, Maimon risponde che: Noi siamo in effetti parzialmente in possesso di un simile concetto del pensiero [quello divino] in matematica, in cui comprendiamo tutti i concetti intuitivamente e al tempo stesso essi vengono presentati come oggetti reali per mezzo di una costruzione a priori. Nella matematica noi siamo simili a Dio. Questa è la ragione per la quale gli antichi tenevano la matematica in una così alta stima e la consideravano un presupposto indispensabile per la filosofia (UP, p. 20).
Poiché il metodo della matematica si fonda sulla comprensione intuitiva dei concetti, che vengono poi formalizzati simbolicamente per poter procedere alle dimostrazioni, questo metodo rappresenta il livello più raffinato di un procedimento che si esprime normalmente per mezzo della discorsività linguistica, dove trova voce la tensione del condizionato all’incondizionato e in cui, in ultima analisi, si riflette la struttura stessa della coscienza. Queste considerazioni ci mostrano come la natura indubbiamente antinomica del pensiero di Maimon sia tutt’altro che il limite della sua prospettiva, quanto piuttosto il suo elemento strutturante, oltre che originale. Infatti, l’attività simbolizzante dell’intelletto finito umano si traduce in un’attività discorsiva di continua approssimazione all’intelletto infinito. In questa attività, l’intelletto finito è tuttavia consapevole della propria incompiutezza proprio perché riesce a rappresentarsela in quella simbolizzazione matema-
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tica, in cui l’attività cognitiva umana raggiunge la maggiore distinzione. La “costante approssimazione” ha luogo tramite una costante astrazione [Absonderung] e generalizzazione [Allgemeinmachung] dei concetti e dei giudizi per mezzo della quale “ci si allontana costantemente dalla materia avvicinandosi alla forma” (VT, p. 164). Il pieno raggiungimento di quest’ultima non è tuttavia solo un’idea, ma contiene in sé una contraddizione: un esempio di questo tipo d’idea è la radice irrazionale: mediante una serie infinita noi possiamo avvicinarci sempre più ad essa, tuttavia il suo pieno raggiungimento non è meramente un’idea (dato che questa serie può proseguire all’infinito), ma contiene piuttosto un’impossibilità, poiché un numero irrazionale non può essere reso razionale (VT, pp. 164-165).13
Se, quindi, anche quando siamo più “simili a Dio”, ossia nel caso della conoscenza matematica, l’intelletto non può evitare di confrontarsi con una strutturale incompletezza, ciò significa che la conoscenza discorsiva umana, che si esercita mediamente nel linguaggio, è essenzialmente inadeguata a colmare il gap fra il finito e l’infinito. Ciò segna una distanza significativa rispetto a Leibniz, come si può apprezzare nella parte delle Anmerkungen und Erläuterungen – poste in appendice al Versuch – in cui Maimon si concentra sul capitolo dove aveva presentato il principio di determinabilità nella sua applicazione alla relazione fra soggetto e predicato. Il tema in questione qui è l’asimmetria ravvisabile nella predicazione linguistica, ossia il fatto che – per seguire l’esempio di Maimon – il concetto di “angolo retto”, qualora scomposto nelle parti che ne costituiscono la sintesi concettuale, presenta, da un lato, qualcosa come un angolo che, per quanto non si dia mai privo di determinazioni, può essere riconosciuto come un oggetto a cui riferire determinazioni. D’altro canto abbiamo “l’essere retto”, che non ha senso se non come predicato da riferire a un soggetto, in questo caso l’angolo. Con Leibniz, Maimon ritiene che la ragione di questa asimmetria non possa essere risolta all’interno del linguaggio e che quindi il linguaggio non sia sufficiente a dar conto della distinzione fra generale e particolare. Diversamente da Leibniz, Maimon ritiene però che l’asimmetria fra soggetto e predicato venga alla luce nel linguaggio come segno di un’asimmetria che caratterizza il pensiero, e non possa quindi essere liquidata come una sorta d’imperfezione connaturata alla modalità discorsiva tramite cui lavora il nostro intelletto. La sintesi concettuale ha cioè una parte dipendente, che linguisticamente assume la funzione di predicato, e una parte indipendente, che linguisticamente si traduce nel soggetto (Yakira 2003, pp. 70 sg.). 13
Si veda anche VL, pp. 261-263; Gasperoni 2015, p. 23.
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Si ricorderà che nella concezione maimoniana della logica trascendentale, la quale riposa sul principio di determinabilità, la distinzione fra un soggetto indipendente e un predicato dipendente è la condizione di possibilità della sintesi. A sua volta, la sintesi è condizione di possibilità della coscienza stessa poiché “senza sintesi nessuna coscienza è possibile” (VT, p. 349). Appare dunque evidente che l’asimmetria strutturale del pensiero espressa dalla natura discorsiva dell’intelletto umano per mezzo della propria attività linguistica ci risospinge verso l’analisi proto-fenomenologica dell’attività coscienziale cui abbiamo accennato nel primo paragrafo. Si tratta cioè di comprendere la dinamica concreta tramite cui la coscienza mette in forma quei contenuti che all’intelletto finito appaiono come dati, e che dipendono in realtà dall’attività determinante del pensiero. 4. La struttura “differenziale” della coscienza La relazione fra verità e linguaggio emersa sin qui rivela la natura marcatamente processuale del concetto maimoniano di verità, che si può apprezzare nella considerazione del linguaggio come mezzo per l’articolazione del rapporto fra pensiero e discorso. Per un intelletto finito, la verità è sempre una mediazione operante per mezzo del ragionamento discorsivo. Diviene così chiaro il motivo per cui la “cosa in sé” kantiana rappresenta per Maimon un non-senso. Maimon analizza infatti l’attività del pensiero soggettivo nella sua approssimazione a un infinito il quale deve poter far parte dell’orizzonte del soggetto non solo al modo regolativo kantiano, ma sulla base di una distinzione puramente quantitativa rispetto alla chiarezza e distinzione della conoscenza. Questo significa che il pensiero – la coscienza – deve possedere una struttura tale da poter rendere conto della minore chiarezza e distinzione della nostra conoscenza rispetto alla trasparenza intuitiva dell’intelletto infinito. Nei termini della teoria maimoniana della verità, quindi, un pensiero di qualcosa che non possa essere compreso dalla coscienza semplicemente non sarebbe un pensiero.14 Il fatto che la coscienza maimonianamente intesa non possa accettare l’idea di una cosa in sé non riconducibile all’attività della coscienza non im-
14 Si pensi alla problematica caratterizzazione della cosa in sé fornita da Reinhold nel Versuch einer neuen Theorie des menschlichen Vorstellungsvermögens (Reinhold 2006, p. 154): “Le cose in sé […] sono quel qualcosa che fuori della rappresentazione deve stare a fondamento della mera materia [Stoff] di una rappresentazione”. Questo qualcosa può dunque essere rappresentato solo come “la negazione della forma della rappresentazione, vale a dire come ciò a cui nessun altro predicato può essere attribuito tranne quello di non essere una rappresentazione” (corsivi miei).
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pedisce tuttavia a Maimon di parlare di noumeni in un senso che si lega direttamente alla struttura differenziale della coscienza: La sensibilità fornisce quindi a una determinata coscienza i differenziali. […] Questi differenziali degli oggetti sono i cosiddetti noumeni; mentre gli oggetti che da essi derivano sono i fenomeni. Il differenziale di un certo oggetto in sé rispetto all’intuizione [Anschauung] è = 0, dx = 0, dy = 0, etc., ma le loro relazioni non sono = 0 e possono invece essere date in modo determinato nelle intuizioni che da essi derivano. Questi noumeni sono idee della ragione, che servono da principi per il chiarimento del sorgere degli oggetti secondo certe regole dell’intelletto (VT, pp. 31-32).
Per meglio comprendere il senso e il valore dall’adozione da parte di Maimon del riferimento al calcolo differenziale – in un’accezione di chiara ascendenza leibniziana – può essere utile sottolineare gli aspetti di questo calcolo che inducono Maimon ad adottarlo come modello per la descrizione dell’attività della coscienza. Il calcolo differenziale sorge per studiare il comportamento di una funzione negli intorno di un dato punto. Questo calcolo prevede la sostituzione – negli intorno del punto in questione – della funzione di cui si vuole studiare il comportamento con un’altra funzione che ha il vantaggio di semplificare la funzione di partenza con un margine di errore che si riduce in modo direttamente proporzionale al restringersi dell’intorno, conservando le proprietà della funzione iniziale. Applicando questo schema all’attività della coscienza è inevitabile riferirsi alla teoria leibniziana delle petites perceptions15 ma, ancora una volta, è nel confronto con Kant che il “leibnizianismo” di Maimon assume il proprio senso. A tale proposito, si può riprendere il commento di Maimon al quarto paralogismo kantiano. Con il realista trascendentale Maimon riconosce all’intuizione un fondamento oggettivo tanto materiale quanto formale, ma nega la possibilità di considerare gli oggetti dell’intuizione come determinati in se stessi, poiché la possibilità di pensarli come determinati dipende dalla loro percezione “proprio come i differenziali sono pensati per mezzo dei propri integrali” (VT, p. 206). La determinazione oggettiva, tanto materiale quanto formale, che va riconosciuta all’intuizione risiede dunque nella riconduzione delle differenze materiali a un livello di prossimità, che tende infinitesimalmente all’identità, con le forme concettuali valide non solo per la coscienza soggettiva, ma per ogni essenza pensante. Ciò rimanda al discorso sulla verità e in particolare alla distinzione fra verità metafisica (materiale) e verità logica (formale), e questo a sua volta rinvia alla necessità, emersa nell’analisi del linguaggio, di determinare un soggetto assolutamente 15 Si vedano in proposito i Nouveaux essais sur l’entendement humain (Leibniz 1765, pp. 47-48, 105, 121, 148, 174).
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indipendente e un predicato da esso sempre dipendente. In ultima analisi, queste sono le esigenze espresse dal principio di determinabilità, ossia le esigenze della sintesi, che è condizione della coscienza. Ne deriva una riduzione dell’oggettività all’attività della coscienza soggettiva, su cui Maimon è chiaro: “l’espressione ‘necessità oggettiva’ non ha significato alcuno” dato che “necessità significa sempre una costrizione [Zwang] soggettiva ad ammettere qualcosa come vero” (VT, p. 175). Le trattazioni della verità e del linguaggio, e delle loro reciproche relazioni, convergono quindi a illuminare la modalità tramite cui la coscienza opera, e ciò in un modo che illustra la soluzione maimoniana del problema del quid iuris. Nel giudizio “il rosso è diverso dal verde”, il “concetto intellettuale puro della differenza” non viene considerato come “una relazione fra qualità sensibili (altrimenti la questione del quid iuris rimarrebbe aperta)” (VT, p. 32). Secondo Maimon, questo concetto può essere letto in due modi: “o secondo la teoria kantiana: come relazione fra i loro spazi, in quanto forme a priori, oppure secondo la mia: come relazione dei loro differenziali, che sono idee della ragione a priori” (VT, p. 32). L’assenza di una distinzione qualitativa fra sensibilità e intelletto autorizza ad attribuire a queste idee una parte attiva (e non meramente regolativa) nella costituzione della coscienza d’oggetto. Esse si realizzano infatti – quasi come gli atti di “comprensione intellettuale evidente” [Verstandeseinsicht] husserliani (cfr. Husserl 1968, p. 485) – in “regole d’oggetto”: La regola particolare del sorgere di un oggetto, o il modo del suo differenziale lo rende un oggetto particolare, e le relazioni fra i diversi oggetti sorgono dalle relazioni tra le regole per mezzo delle quali essi sorgono, o fra i loro differenziali (VT, p. 33).
Sulla base di questa lettura normativa dei differenziali di coscienza, Maimon giunge a un redde rationem con la dottrina kantiana dello schematismo: L’intelletto non sussume dunque qualcosa di dato a posteriori alle proprie regole a priori; fa piuttosto sorgere questo qualcosa in conformità alle proprie regole (il che, io credo, sia l’unico modo di rispondere con piena soddisfazione alla domanda: quid iuris?) (VT, p. 82).
Una volta che il problema del quid iuris è stato chiarito nei termini di una coscienza che, per mezzo dei differenziali, si approssima a elementi non ancora del tutto chiari, ma comunque di matrice concettuale, rendendone esprimibili le differenze specifiche in termini intelligibili, le ricadute per l’intera concezione della metafisica appaiono dirompenti. Infatti, eliminato il criterio kantiano per distinguere ciò che può essere conosciuto oggettivamente da ciò che non può esserlo, ossia la necessità che nel primo caso si parta da un molteplice dato nello spazio e nel tempo, cadono le argomentazioni sulla base delle quali Kant poteva attaccare la metafisica classica, rea
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di mettere a tema oggetti di cui non si può avere alcuna intuizione empirica. Maimon concorda infatti “con il signor Kant che gli oggetti della metafisica non sono oggetti dell’intuizione che si possono dare in una qualsivoglia esperienza”, ma dissente da Kant quando egli “sostiene che essi [gli oggetti della metafisica] non sono oggetti che possano in qualche modo essere pensati determinatamente dall’intelletto” (VT, p. 195). Secondo Maimon questi oggetti sono infatti “reali” e “anche se in sé sono mere idee, possono tuttavia essere pensati determinatamente a partire dalle intuizioni che da essi originano” (VT, pp. 195-196). Diviene così chiara la svolta argomentativa resa possibile dallo scardinamento della distinzione concetto-intuizione. I differenziali rappresentano gli strumenti tramite cui si realizza quella simbolizzazione che – a condizione di essere sempre strettamente sorvegliata – conduce alla “scoperta” di nuove verità: “Tramite la riduzione delle intuizioni ai loro elementi noi siamo in condizione di determinare nuove relazioni fra di loro, e di trattare così la metafisica come una scienza” (VT, p. 196). Queste osservazioni consentono inoltre di apprezzare come il riferimento a Leibniz, relativamente all’analogia con il calcolo differenziale, sia strettamente legato al ruolo giocato dalla formalizzazione simbolica nel processo di approssimazione coscienziale. Al di là infatti della controversia storica Leibniz-Newton sulla paternità del calcolo infinitesimale, l’affermarsi dell’algoritmo differenziale leibniziano rispetto al metodo delle flussioni newtoniano è dovuto a una più efficace scelta dei simboli.16 Dal canto suo, Maimon richiama apertamente il parallelismo fra la sintesi coscienziale e il calcolo differenziale proprio nel passo in cui, alla luce del proprio ricorso ai differenziali di coscienza, rivendica la possibilità di trattare la metafisica come una scienza su basi opposte a quelle kantiane: noi possiamo “scoprire” nuove verità riducendo quelle che ci appaiono come intuizioni sensibili ai loro elementi concettuali “così come, per mezzo della riduzione delle grandezze ai loro differenziali, e di questi ancora ai loro integrali, siamo in grado di scoprire nuove relazioni fra queste (stesse grandezze)” (VT, p. 196). A questo punto occorre interrogarsi circa la giustificazione del primato della coscienza nella sintesi cognitiva, poiché è da questa giustificazione che dipende una valutazione equilibrata dello scetticismo maimoniano. Maimon si pone la questione di una determinazione ultima della natura dell’attività coscienziale e, commentando la propria scelta di inserire in filosofia concetti mutuati dalla considerazione matematica dell’infinito (come i differenziali), rileva che “essi sono tanto in matematica quanto in filosofia mere idee […] Essi sorgono tramite un costante regresso o riduzione [Verminderung] 16 Si veda in proposito la lettera di Leibniz a Tschirnhaus del maggio 1678 (Leibniz 1899, p. 374).
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all’infinito della coscienza di un’intuizione” (VT, p. 28n.). Questa riduzione non costituisce però una determinazione essenziale della coscienza, dato che essa viene operata mediante quei concetti in cui si traduce l’attività propria e originaria della coscienza stessa. Quanto di più prossimo a questa definizione può essere identificato nella dichiarazione maimoniana secondo cui con questa coscienza, “in quanto concetto di sommo genere [höchster Gattungsbegriff], non bisogna intendere né la coscienza del soggetto (l’autocoscienza), né la coscienza di un oggetto al di fuori di essa, ma la coscienza incondizionata, o l’azione del sapere in generale” (VL, p. 301; cfr. Buzaglo 2012, p. 111). Da un lato, dunque, è sulla scorta della descrizione di un’attività di coscienza caratterizzata dall’impiego dei differenziali che Maimon ritiene di poter superare il problema del quid iuris. Dall’altro, però, Maimon dubita “del fatto stesso che noi abbiamo enunciati d’esperienza [Erfahrungssätze]” (VT, p. 186), donde emerge il problema del quid facti. Kant presuppone “come indubbio il fatto che noi abbiamo enunciati d’esperienza (i quali esprimono necessità)”, la cui validità oggettiva [objektive Gültigkeit] viene dimostrata rivendicando che “senza di essi l’esperienza sarebbe impossibile”, con il risultato che “l’esperienza è possibile poiché essa è reale [wirklich] secondo il suo presupposto, e di conseguenza questi concetti hanno realtà oggettiva [objektive Realität]” (VT, p. 186). La messa in discussione maimoniana dell’attualità dei concetti espressi dagli enunciati d’esperienza costringe Maimon a fermarsi alla dimostrazione della possibilità della loro validità oggettiva, che risolve la domanda del quid iuris. Anche questa possibilità, tuttavia – stante la struttura differenziale della coscienza che la esprime – si riferisce a oggetti che sono possibili non in quanto direttamente determinati nell’esperienza dall’intuizione, ma in quanto determinati “nei propri limiti [Grenzen]”17 dalla ragione “in riferimento alle intuizioni a essi corrispondenti” (VT, p. 187). Se da un lato è certamente in questo passaggio che va identificata la radice dello scetticismo maimoniano, dall’altro non sembra tanto rilevante interrogarsi sulla possibilità o meno di risolvere questo scetticismo, quanto piuttosto indagare l’impostazione metodologica di cui esso è il segno. L’idea di un continuo controllo dei procedimenti intellettuali che si concretizzano nella simbolizzazione discorsiva del linguaggio e nei quali, soli, è possibile riconoscere la verità come correttezza del passaggio dal pensiero al discorso, esprime la fiducia nell’esistenza di un mondo totalmente e perfettamente intelligibile. Questo mondo si riflette nell’immediatezza intuitiva 17 Secondo Guidetti (2016, p. 160) nella nozione maimoniana di “differenziale di coscienza” “il dato puro non è altro che il limite di una serie di atti noetici”.
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propria della conoscenza dell’intelletto infinito ma, come si è visto, all’uomo non è precluso, nella forma della conoscenza matematica, un saggio di questa compiutezza ideale della conoscenza. Non è un caso che proprio dalla matematica Maimon tragga il modello differenziale per la coscienza, come a indicare che dalla disciplina che più si approssima a una conoscenza perfetta vanno tratti gli strumenti metodologici con cui trattare l’attività di coscienza che qualifica trascendentalmente la soggettività. In questo senso, “se per ‘scetticismo’ si intende l’impossibilità per l’intelletto umano di accedere alla conoscenza vera e perfino di essere certi dell’esistenza del mondo esterno, bisogna dire che Maimon non è uno scettico” (Zac 1988, p. 76). 5. Fra ricostruzione e intenzionalità: un nucleo problematico irriducibile Per Maimon Kant rappresenta dunque solo un punto di arrivo, colui che, concentrandosi sulla struttura del soggetto e della sua attività, dà modo a Maimon di precisare il proprio punto di vista, il quale non trova piena soddisfazione nella costellazione delimitata da Spinoza, Leibniz e Hume. Nello spirito della rilettura husserliana della filosofia moderna occidentale proposta nella Crisi, Maimon si collocherebbe quindi, da un lato, nell’alveo di quella soggettività che, con l’idealismo tedesco, diviene la protagonista del percorso verso l’assoluto, mentre dall’altro darebbe voce alla potenziale quanto inespressa obiezione radicale humeana sulla natura di quella soggettività, di quella coscienza che è il riferimento ultimo per la conoscenza del mondo. In Maimon questa interrogazione porta con sé un regresso all’infinito a parte subiecti, che rifiuta ogni sterile polemica contro la cosa in sé. Dalle trattazioni di Reinhold e Schulze emerge infatti l’intrinseca problematicità (se non contraddittorietà) della cosa in sé, intesa come un concetto concepibile ma non rappresentabile. Di qui la dimensione del dato viene sempre più allontanata da quella della coscienza a tutto favore di un consolidamento delle mura che separano la soggettività dal mondo. Dal canto suo, Maimon abbatte queste mura in una sorta di Aufhebung rovesciata, poiché le mura crollano verso l’interno della coscienza. Se ciò da un lato realizza l’ideale maimoniano di una filosofia trascendentale puramente immanente, dall’altro separa Maimon dagli sviluppi dell’idealismo tedesco. Al di là dei riferimenti espliciti a Maimon ravvisabili nell’idealismo tedesco,18 quel che qui importa è come il principio di determinabilità maimoniano consenta di collocare la cosa in sé all’interno della coscienza come l’orizzonte normativo di un’approssimazione infinitesimale, il cui differenziale ci restituisce la regola tramite cui l’oggetto di conoscenza può sorgere 18
Si veda, i.a., Ehrensperger 2004, pp. XLIII-XLV.
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(Beiser 1987, pp. 306-308). Questa decisiva considerazione diviene una sorta di trampolino da cui trarranno slancio svariati tentativi, in primis quello fichtiano, di colmare il margine infinitesimale tra la coscienza e un dato che essa non può che ricondurre alla propria attività.19 Nella considerazione di questi passaggi è dirimente la direzione in cui si concretizza la riconduzione della datità all’attività della coscienza. A caratterizzare l’idealismo tedesco è infatti un’appropriazione della realtà da parte di una soggettività la cui attività è entrata nella realtà sino a far scomparire lo iato che custodisce la dimensione dell’incontro fra pensiero e mondo. La dinamicità diveniente dell’attività coscienziale si è fatta mondo e ne costituisce il senso e la verità: “Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine [Ende] come proprio fine [Zweck]” (Hegel 1973, p. 14). In questa dinamica, l’approssimazione infinitesimale espressa dai differenziali di coscienza maimoniani vede inevitabilmente snaturata la propria lezione metodologica, la quale, a partire da Kant, metteva in questione la verità del conoscere sulla base di una critica della discorsività dell’intelletto e richiamava l’attenzione sulle relazioni, sugli atti stessi in cui questa verità discorsiva si costituisce senza però potersi mai identificare con i propri componenti: I principi di nessuna cosa sono la cosa stessa, perché altrimenti si dovrebbe presupporre la cosa prima del suo sorgere. I principi di una superficie, ad esempio, non sono una superficie, quelli di una linea non sono una linea […]; e dunque anche i principi della verità possono non essere essi stessi già una verità (UWL, p. 603).
La luce proiettata da Maimon sull’attività inesausta della coscienza, da cui sorge la conoscenza che siamo abituati a considerare “oggettiva”, è una sorta di tacito presupposto di ogni operazione razionale e come tale è tornata a emergere, sempre e ancora a partire da Kant, nel confronto d’inizio ’900 fra il neokantismo marburghese e la fenomenologia, ben rispecchiato nel confronto fra Natorp e Husserl. Senza volere qui aprire un’altra pagina che non potremmo approfondire, è interessante notare come, dopo aver condiviso un progetto di ricerca incentrato sulla natura degli atti coscienziali da cui scaturisce la conoscenza che consideriamo oggettiva, le strade di Natorp e Husserl si separino pro19 Si pensi all’ammirazione fichtiana per il ribaltamento maimoniano dell’“intera filosofia kantiana” (Fichte a Reinhold, marzo/aprile 1795: Fichte 1795b, p. 282), o ai passaggi in cui Fichte si confronta con i problemi sollevati da Maimon rispetto al criticismo: Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre (Fichte 1794, pp. 261-262, 264, 279-280, 368-369); Grundriss des Eigenthümlichen der Wissenschaftslehre (Fichte 1795a, pp. 189-191) e, in proposito: Beiser 2003, Breazeale 2003, Kee Lee 2008, pp. 253-260. Sull’importanza di Maimon per Fichte si vedano Kuntze 1912, p. 23, Gueroult 1929, p. 82 n. 1, Breazeale 2001, pp. 691-693.
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prio sul crinale dove si determina la direzione dell’attività della coscienza. Nell’Einleitung in die Psychologie nach kritischer Methode Natorp risolve il margine di inattingibilità rispetto al dato in un riflesso [Reflex] dell’oggettività (Natorp 1888, p. 101) che si ricompone nel soggetto. Questo intento ricostruttivo si precisa ulteriormente nell’Allgemeine Psychologie nach kritischer Methode, in cui il compito della psicologia consiste nello scomporre i processi oggettivanti della soggettività sino a renderli “come non-accaduti [gleichsam wieder ungeschehn]”, allo scopo di ritornare [zurückleiten] ai fondamenti della coscienza scientifica e della coscienza oggettiva “che sono alla base di tutta la conoscenza oggettiva” (Natorp 1912, p. 202; cfr. Gigliotti 1989, p. 240). Pur sulla base di un’analisi dell’attività del soggetto più marcatamente psicologica rispetto all’impostazione coheniana, Natorp attribuisce al dato una valenza essenzialmente metodologica, orientata cioè allo studio ricostruttivo del processo tramite cui l’oggettività sorge dalla sintesi soggettiva. Egli non rinuncia però a rivendicare per la strada intrapresa una valenza trascendentale, poiché gli atti originari del soggetto nella costruzione dell’esperienza rimangono la meta ultima del procedimento ricostruttivo, sicché la psicologia viene trattata “secondo il metodo critico”. Se però la valorizzazione dell’approccio psicologico agli atti coscienziali rappresenta il sentiero comune a Natorp e Husserl, è proprio la direzione in cui questi atti vengono concepiti a segnare la frattura fra l’Allgemeine Psychologie e le Ideen. Il “principio di tutti i principi” husserliano (Husserl 2008, p. 52) esprime l’irriducibilità del dato verso cui tende tutta l’analisi fenomenologica e mostra come la struttura intenzionale della coscienza sia tesa in ultima analisi a far emergere un oggetto che, come già il § 61 della sesta Ricerca aveva chiaramente sancito, non è trasformato dalla messa in forma categoriale (Husserl 1968, p. 487).20 Questa cursoria riproposizione di un dibattito dal quale non siamo ancora completamente usciti, ci rivela come stiamo sempre e ancora tentando di determinare il comportamento di una funzione, la nostra conoscenza, man mano che ci avviciniamo a un determinato punto. Chiedersi se sia più corretto collocarsi nell’intorno destro o nell’intorno sinistro di questo equivale a chiedersi se Maimon si schiererebbe con il neokantismo o con la fenomenologia. La domanda è oziosa, poiché l’interesse per gli aspetti genetici della conoscenza che innerva il pensiero di Maimon è percorso da una 20 Sulla differenza tra psicologia critica e fenomenologia è esemplare un passaggio della lettera di Husserl a Natorp del 18 marzo 1909: “In verità ciò che noi due chiamiamo filosofia trascendentale, ciò che costituisce ai nostri occhi i suoi problemi e metodi essenziali, è probabilmente molto diverso. […] Per me i problemi di fondo si trovano nel basso [Unten] fenomenologico, da cui devono condurre ai problemi-culmine” (trad. it. in Gigliotti 1989, p. 220).
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tensione la cui essenza risiede nell’essere non-risolta. Infatti, proprio dopo aver spiegato che i noumeni vanno intesi come forme differenziali di approssimazione all’oggetto, che esprimono la “regola d’oggetto”, Maimon soggiunge che “l’intelletto non può pensare alcun oggetto […] se non come fluente [fließend]” (VT, pp. 32-33). Dipartimento di Filosofia Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Italia E-mail: [email protected]
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Luca Guidetti
Kant e Maimon: prolegomeni a una topologia del tempo
Abstract: Kant and Maimon: Prolegomena to a Topology of Time The Kantian conception of time as a “pure relationship of representations in our internal state” constitutes the premise for a topology of time that Kant develops as an extensive quantity (quantitas) in intuition, and as an intensive quantity (quantum) in perception. Due to the separation between sensibility and understanding, however, the Kantian temporal topology is remitted to the forms of judgment that are heterogeneous with respect to sensibility and need mediating figures (pure apperception and schemes) to be applied to the matter of experience. This does not solve, therefore, the “quid iuris” issue. Maimon eliminates the Kantian separation by referring to space and time as concepts and thus trying to grasp the genesis of experience starting from the process within the temporal structuring itself. In that way, Maimon offers the basis for a consistent temporal topology in which sensibility does not appear as a simple external “datum”, but shows particular “forms” (which he discusses in his theory of differentials) whose meaning is grasped – to various levels – by the understanding and reason. It is always, however, an ideal meaning that, due to the impossibility of bringing to full consciousness the origin of the sensible “matter”, prevents the topology of time from reaching completeness. Keywords: Time, Space, Topology, Sensibility, Understanding.
1. La posizione del problema: il tempo come struttura delle proposizioni conoscitive Nelle pagine introduttive al Saggio sulla filosofia trascendentale, Maimon individua nel tempo il criterio per distinguere la conoscenza filosofica sia da quella meramente empirica (che egli chiama “dottrina della natura”), sia dalle determinazioni formali della logica (cfr., a tal riguardo, Kauferstein 2006, p. 207). Se infatti le proposizioni logiche, riguardando ogni cosa in generale come ciò che è “determinabile ma non ancora determinato” (VT, p. 8; trad. it. p. 703), non sono né a priori, né a posteriori – Maimon porta come esempio il principio d’identità A=A, o (x)(x=x), ma ciò potrebbe valere per tutte le altre costanti logiche –, le proposizioni riferite agli oggetti naturali sono invece a posteriori in quanto determinazioni empiriche o semplici percezioni (come “la neve è bianca”, o (∃x)(Fx ∧ Gx), a cui segue la generalizzazione esistenziale o per associazione, VT, p. 8; trad. it. p. 703). A loro volta, le proposizioni filosofiche, nella misura in cui esprimono una
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conoscenza trascendentale, sono determinazioni a priori (“ogni mutevole è necessariamente connesso a qualcosa di permanente” (VT, p. 8; trad. it. p. 703), cioè (x)(Fx ⊃ Gx), secondo la generalizzazione universale o per sostituzione). Il grado di empiricità non si distribuisce dunque in senso attributivo sui principi della conoscenza, ma in senso relazionale: a partire dal punto-zero di simmetria, costituito dalle proposizioni logiche (né empiriche, né nonempiriche), le proposizioni empiriche risultano di grado “1” e quelle trascendentali assumono il grado “–1”. Ciò consente la determinazione del rapporto tra soggetto e predicato nella proposizione non in senso contenutistico, ma strutturale: se le proposizioni logiche, in quanto formali, sono solo analitiche (cioè formalmente analitiche in quanto non interpretate, ossia estranee alla bivalenza vero/falso), le proposizioni empiriche sono al contrario sintetiche a posteriori, mentre le proposizioni trascendentali, similmente alle matematiche, presentano una sintesi a priori (cfr. VT, p. 9; trad. it. pp. 703-704). Si noti come la matrice di configurazione strutturale di questa tripartizione, non potendo essere ricavata dal contenuto semantico-concettuale (assente nel grado zero della logica pura), né dallo spazio (presente solo nell’esteriorità fisica della sintesi a posteriori), debba essere fornita dal tempo. Così, se la proposizione logica avviene nella contemporaneità o “assenza di tempo”, la proposizione empirica rappresenta invece la connessione del tempo, cioè la pura sintassi temporale; infine, la proposizione trascendentale, esprimendo la successione del tempo, dovrebbe offrire la fondazione semantica della sintassi empirica. Tuttavia, secondo Maimon nessuna proposizione trascendentale può fornire, da sola, la regola di successione di una connessione empirica come direzione del tempo, dato che dal punto di vista logico una serie può essere percorsa, indifferentemente, in direzioni opposte. D’altra parte, tale regola non può ricevere il suo senso dalle esperienze particolari, poiché ciò dipenderebbe dal caso considerato, rendendo così induttiva, e non trascendentale, la generalizzazione (cfr. VT, p. 9; trad. it. p. 704). Si tratta quindi di “cercare nelle percezioni qualcosa di universale a priori” secondo cui “il precedente determina il successivo”, esplicitando così il fatto che il tempo è la “forma o condizione universale di tutte le percezioni” (VT, p. 10; trad. it. p. 705). La regola si trova dunque nelle “percezioni in generale”, ma il suo significato non può essere ricavato dalle percezioni, dato che nessuna percezione è “generale”. L’ordine della serie temporale è così rinviato al modo in cui l’intelletto unifica le sensazioni in relazione alla loro particolare “materia”, permettendo all’intuizione di determinare il senso della percezione. In prima istanza, il vantaggio di quest’impostazione è che si può parlare di una “facoltà delle regole” come distinta dalla “facoltà delle intuizioni”
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(VT, p. 10; trad. it. p. 705) senz’incorrere in una dottrina delle facoltà come dotazione metafisica di una soggettività pura (cfr. Verra 1990, p. 700; Beiser 2002, pp. 249 sgg.), ma svolgendo il carattere operativo della conoscenza a partire dalla dinamica interna alla stessa configurazione temporale dell’esperienza (cfr. Zubersky 1925, pp. 17 sgg.). Per cogliere tale dinamica, è tuttavia necessario mettere a confronto la dottrina maimoniana del tempo con la sua originaria matrice kantiana. 2. Kant: il tempo come origine delle relazioni Per Kant, la dinamica operativa dell’esperienza ha inizio con l’intuizione in quanto “modo in cui la conoscenza si riferisce immediatamente a oggetti” (CRP, B 33, p. 112). Ma tale capacità denotativa può realizzarsi a condizione che gli oggetti ci vengano dati, e ciò può avvenire solo attraverso la sensibilità. Ora, dal momento che la sensibilità, esprimendosi in sensazioni che costituiscono la materia o il “molteplice delle apparenze”, non ha una forma propria indipendentemente dall’intuizione, ciò che essa offre all’intuizione non è in senso proprio l’oggetto, poiché – per presentarsi tale – il molteplice dev’essere “[formalmente] ordinato secondo certi rapporti” (CRP, B 34, p. 112). Ciò comporta un’asimmetria tra intuizione sensibile e sensazione: se infatti ogni intuizione sensibile contiene sempre una sensazione, non è però detto che ogni sensazione debba far parte di un’intuizione, a meno di non intendere come tale la semplice immediatezza presentativa, e dunque non oggettuale, del materiale sensibile. Tale difficoltà può essere eliminata in due modi: o lasciando cadere il problema della materialità della sensazione, affidando così all’intuizione, nel duplice registro puro/empirico, il compito di esaurire l’intera dinamica della datità oggettuale, oppure rinviando tale questione a una più riposta articolazione noetica della sensibilità attraverso il medium – al tempo stesso formale e materiale – della percezione. Nella Critica della ragion pura, la prima soluzione si trova nell’Estetica trascendentale, dove l’intuizione si definisce per isolamento dal dato materiale delle forme pure della sensibilità (spazio e tempo, cfr. CRP, B 35, p. 114 e B 38, p. 116; cfr., a tal riguardo, Thielke 2003, pp. 91 sgg.), mentre la seconda caratterizza la discussione delle forme della sensazione che ha luogo nell’Analitica dei principi, in cui spazio e tempo non compaiono, a loro volta, in termini di “forme”, ma di grandezze (estensive e intensive) relativamente a un dato oggettuale già strutturato (cfr. CRP, B 202, p. 333 e B 207, p. 341). Ora, già sul piano estetico la “formalità” dell’intuizione riceve una prima qualificazione topologica: si tratta della localizzazione delle proprietà intuitive pure dello spazio e del tempo (“estensione”, “figura” e “successione”), rispettivamente nel senso esterno e nel senso interno (cfr. CRP, B 37,
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LUCA GUIDETTI
p. 116; KR, 384, p. 123). Infatti, le intuizioni empiriche possono riferirsi ad oggetti solo se – come abbiamo visto – le proprietà dell’estensione della figura, rese possibili dalle intuizioni pure, non sono assegnate a misurazioni quantitative come “collezioni” di parti sensibili, ma ad ordini di relazioni che possono eventualmente specificarsi, come casi particolari, secondo determinate grandezze. Riguardo allo spazio, cioè all’ordine o figura imposta alle relazioni dell’esteriorità (non solo fisico-corporea, ma anche geometrica – ad es.: “il triangolo”), esso si fonda sulla forma del senso esterno che corrisponde alla tridimensionalità della geometria euclidea (cfr. CRP, B 37, p. 116; B 41, p. 122). Ma per Kant non si deve confondere la forma dell’intuizione, come condizione trascendentale, con l’intuizione formale, di tipo fisico-geometrico, in cui la tridimensionalità trova applicazione (cfr. CRP, B 161, pp. 279-281 n.; KR, 357, p. 116; Gent 1971, p. 66; Dietrich 1975, pp. 95 sgg.). Anche le determinazioni topologiche dello spazio dovranno dunque rispettare tale duplice registro dell’intuizione, svolgendosi diversamente a seconda che si tratti di condizioni trascendentali o applicative. In ogni caso, la nozione di spazio non dipende – come voleva Leibniz – dalle relazioni tra corpi, ma dall’ordine che il senso esterno impone agli oggetti (indeterminati) delle intuizioni esterne (cfr. CRP, B 38, p. 118; B 43, p. 124). Viene così immediatamente a cadere l’accusa di “soggettivismo” che si può muovere all’estetica kantiana (cfr. Trendelenburg 1867, pp. 215 sgg.; Gent 1971, pp. 63-64), dato che l’intuizione spaziale non si riferisce ad oggetti attraverso l’introiezione dei corpi o l’esteriorizzazione dei sensi, ma mediante lo svolgimento delle proprietà del senso esterno che, nel caso della ricettività delle sensazioni, ordina il molteplice secondo una certa geometria, determinando così trascendentalmente il significato conoscitivo dell’oggetto corporeo. Nella geometria euclidea, la denotazione univoca di un oggetto è fornita da tre dimensioni spaziali (x, y, z) e da una temporale (t). Ordinariamente, ciò dovrebbe corrispondere a una topologia discreta (metrica) che si basa sulle funzioni di coordinazione delle quattro dimensioni (cfr. Reichenbach 1977, pp. 39 sgg.). Ma poiché Kant considera lo spazio che induce tale geometria come “puro”, cioè a priori e vuoto (cfr. KR, 1445, p. 374), la forma del senso esterno, a cui esso corrisponde, è trascendentalmente definita da una topologia generale di tipo “indiscreto” o “meno fine” che esprime le caratteristiche di omogeneità, compattezza e continuità dello spazio puro dei sensi, in cui non esistono altri insiemi o “sottoinsiemi spaziali” oltre a quello proprio di ogni elemento dell’estensione preso a piacere (cfr. Dietrich 1975, pp. 32, 150; Melnick 1989, pp. 23-24). Si tratta, dunque, di una topologia adatta a esprimere il carattere di “stato” o “evento” di un fenomeno fisico (cfr. CRP, B 233 e 239, pp. 375 e 383; Scholz 1955, p. 71). Tale topologia – che possiamo esprimere come (x)∈X: U(x)=X (cioè:
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l’intorno di un punto qualsiasi nello spazio dell’intuizione pura è costituito dalla totalità stessa dello spazio, cfr. KR, 358 e 1762, pp. 117 e 461) – garantisce, al tempo stesso, l’unicità e la sinteticità dello spazio come condizione a priori della sensibilità. L’unicità e l’apriorità sono evidentemente connesse alla totalità dell’intuizione pura; quanto alla sinteticità, essa dipende dal carattere contenutistico (semantico) degli assiomi spaziali. Non vale infatti l’obiezione, mossa dall’empirismo logico, secondo cui la nozione kantiana di intuizione dello spazio sia in realtà analitica o – per conversione di senso – sintetica a posteriori (cfr., a tal riguardo, Pap 1967, pp. 159 sgg.). Quest’obiezione sarebbe valida solo se la geometria, che ne sta a fondamento, fosse intesa da Kant come un puro calcolo formale o, al contrario, come frutto di generalizzazioni intorno allo spazio fisico; ma ciò è impedito dal fatto che per Kant tutti gli assiomi introdotti dall’intuizione spaziale sono termini primitivi (cioè costanti non-logiche, irriducibili a funzioni proposizionali) e, se tali termini sono ricavati dall’esperienza, ciò avviene nella misura in cui il significato dell’esperienza ha la sua origine nella struttura del senso esterno a cui corrisponde l’oggetto fenomenico. La forma spaziale sarebbe dunque a posteriori solo se si riferisse a un determinato contenuto dell’esperienza, cioè a una “qualità contenutistica”, ad esempio, di tipo visivo. Ma qualsiasi contenuto essa abbia – a qualsiasi soggetto empirico essa possa riferirsi – è a priori necessario, e al tempo stesso sintetico, che un giudizio fondato sulla struttura topologica del senso esterno debba essere valido rispetto all’oggetto che in esso si presenta (cfr. Pap 1967, p. 167). Così, se ad esempio al senso esterno corrispondesse una geometria non euclidea, non sarebbe per questo tolta la fenomenicità del suo rispettivo oggetto, né verrebbe d’altra parte falsificata la validità della geometria euclidea rispetto alla sensibilità che, di fatto, costituisce la condizione della nostra esperienza. La prospettiva topologico-dimensionale del senso esterno è dunque, in linea di principio, estranea sia alla psicologizzazione sia alla logicizzazione dello spazio e, come tale, rende coerente il riferimento oggettuale della “forma” dell’intuizione. Tuttavia, in Kant accanto alla topologia spaziale si presenta anche la topologia del tempo che è connessa alla forma del senso interno e che si esprime esteriormente tramite la dimensione temporale (t) assegnata alla tridimensionalità spaziale (cfr. CRP, B 49, p. 134). Tale dimensione temporale non è però affatto una “spazializzazione” del tempo, poiché secondo Kant il tempo non può essere intuito esternamente, ma solo internamente (cfr. KR, 384, p. 123). Ciò dipende dal fatto che, in realtà, il tempo non presenta una “figura” o una “posizione” (un istante di tempo non ha una posizione individuabile nell’estensione se non ricorrendo a un criterio coordinativo pluridimensionale, e dunque non temporale, cfr. Söffler 1993, p. 205), ma solo il “puro rapporto delle rappresentazioni nel no-
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stro stato interno” (CRP, B 50, p. 134). È possibile, nota Kant, cercare di rendere tale rapporto in una figura spaziale (ad esempio, tramite una linea che procede all’infinito), ma si tratta solo di una trasposizione analogica, poiché “le parti della linea sono simultanee, mentre le parti del tempo sono sempre successive” (CRP, B 50, p. 134). D’altra parte, sebbene il tempo possa essere rappresentato all’esterno solo in modo improprio, esso si pone per Kant a fondamento di tutti i fenomeni poiché, in caso contrario, il rapporto delle rappresentazioni – e in particolare il movimento spaziale – risulterebbero incomprensibili (cfr. CRP, B 50-51, pp. 134-136). Quest’asimmetria tra spazio e tempo si esprime nello scarto che, nei due casi, si dà tra rappresentazione e intuizione: mentre una rappresentazione della successione spaziale è possibile solo sulla base di un’intuizione temporale, una rappresentazione della diversa localizzazione temporale (ciò che si potrebbe definire come “esteriorità temporale”) è al contrario possibile indipendentemente dall’intuizione spaziale, dato che la “posizione” del tempo è fornita dall’atto stesso della generazione della successione entro un’unica dimensione (cfr. CRP, B 47, p. 130; KR, 366, p. 118; Gent 1965, p. 21). Il privilegio che Kant accorda al tempo già a livello estetico non dipende dunque dall’individuazione di un ambito coscienziale separato di tipo “temporale”, ma dal fatto che la nozione stessa di relazione, che presiede anche allo spazio, ha la sua genesi trascendentale nella successione del tempo (cfr. KR, 373-382, pp. 120-122). Tale nozione non può infatti essere ricavata dall’intuizione dello spazio, poiché lo spazio può avere più dimensioni e, di conseguenza, la determinazione dell’ordine relazionale dev’essere affidata a una geometria in cui le relazioni siano già configurate secondo certi assiomi (cfr., a tal riguardo, van Fraassen 1970, p. 5). Ora, l’adozione di una determinata “scienza dello spazio”, indipendentemente dalla sua “naturalità” per il senso esterno, stabilisce la differenza tra l’ambito puro o trascendentale e quello applicativo dell’intuizione spaziale, ma non spiega né la possibilità, né il significato del passaggio dal primo al secondo. La topologia generale dello spazio puro dell’intuizione kantiana non è dunque metrizzabile e, nella misura in cui risulta metrizzabile come grandezza geometrica, ciò dipende dall’introduzione di un ordine di relazioni che non ha la sua origine nello spazio, ma nel tempo (cfr. Scholz 1955, pp. 78, 85). Secondo Kant, infatti, per il tempo non è possibile una “scienza delle relazioni” tra differenti dimensioni (cioè una “cronometria” come pura scienza matematica del tempo) che possa corrispondere alla funzione svolta per lo spazio dalla geometria euclidea (cfr. Gent 1971, p. 73), poiché è proprio “svolgendosi” che il tempo costituisce il significato della categoria di relazione e delle “grandezze” che ad essa si connettono (cfr. KR, 1764, p. 462). Qui si tratterà dunque d’intendere l’applicazione a partire
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dalla forma generale dell’intuizione, cioè come sviluppo dell’atto della temporalizzazione nella sua unidimensionalità. Dal punto di vista topologico, ciò implica la possibilità di isolare il “momento” o quantum temporale come base generatrice della totalità di tempo. Il quantum temporale è l’unità minima necessaria per riconoscere la presenza, nel senso interno, di un rapporto tra rappresentazioni (un “flusso”, cfr. KPS, § 14, pp. 436-437). Ora, il quantum è un totum in sé continuo (cfr. KR, 1033, p. 274), ma come “unità” è separabile dagli altri quanta per “limitazione” generata dalla successione (cfr. CRP, B 211-212, pp. 345347). A differenza dello spazio, la topologia discreta kantiana è perciò già inclusa nella forma acronometrica e anisotropa del tempo: si tratta solo di portarla a espressione. A ciò provvede lo schematismo, che mostra anzitutto il costituirsi del tempo nella generazione della quantità attraverso il numero (cfr. CRP, B 182, p. 307; Söffler 1993, pp. 123 sgg.; Böhme 1974, pp. 261 sgg.; Dietrich 1975, p. 99). Lo schema della quantità, come sintesi della successione dell’omogeneo (ovvero come sintesi denotativa “in estensione”), permette l’introduzione della retta numerica reale (R1) su cui s’induce la tradizionale topologia discreta che distingue tra spazio interno, spazio esterno e spazio di frontiera (cfr. KR, 1032, p. 273). Tale topologia discreta della successione, in quanto “produzione del tempo”, rappresenta la base coordinativo-denotativa per gli altri schemi: della qualità, come successione in intensione o contenuto di tempo; della relazione in senso stretto, come successione in direzione o ordine di tempo, e infine della modalità, come successione compiuta o insieme di tempo (cfr. CRP, B 184-185, p. 311). Ma con lo schematismo la topologia kantiana del tempo supera sia la mera funzione denotativa dell’intuizione, sia la ricettività “estetica” della sensibilità, per approdare a quella funzione sintetica dell’intelletto che si esplicita nel giudizio. Compito dello schema, infatti, è quello di offrire un metodo per procurare a un concetto la sua immagine, cioè per rappresentare sensibilmente un concetto in riferimento a un oggetto dell’esperienza (cfr. CRP, B 179-180, p. 305). Ma, data la separazione tra la facoltà dei sensi e la facoltà dell’intelletto, nessun’immagine sensibile può esaurire il concetto e, d’altra parte, nessun concetto generale – ad esempio il concetto di quantità – può offrire la regola della sintesi di una molteplicità in modo da intendere, nella fattispecie, una certa quantità empirica come grandezza. Mentre il concetto puro (non schematizzato) può esprimere la semplice regola formale che si applica a qualsiasi oggetto (anche non-sensibile), il concetto schematizzato funge da premessa alla sintesi giudicativa che riguarda l’oggetto fenomenico, e richiede dunque che il tempo si presenti anche dal lato noetico della conoscenza. La topologia del tempo, che sorge dalla forma del senso interno, opera quindi nel giudizio secondo due direzioni, vale a dire: i) in base alla succes-
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sione estensionale di parte a parte, in modo da costituire, nella sintesi dell’intuizione, la quantità come grandezza (quantitas, cfr. KR, 74, p. 43), e ii) in base alla successione intensionale della parte nella totalità del tempo, in modo da originare, nella sintesi della percezione, la quantità come grado qualitativo (quantum o momentum temporale, cfr. KPS, § 14, p. 436). La prima è puramente denotativa e riproduce, a livello noetico, l’oggettualità fisico-geometrica dell’intuizione estetica (“Assiomi dell’intuizione”, secondo il criterio dell’individuazione spazio-temporale; cfr., a tal riguardo, Schliemann 2010, pp. 4 sgg.). La seconda è invece connotativa e rappresenta nel giudizio non l’oggetto come entità puntuale, ma come fenomeno percettivo che si dà nell’unità topologica di una scala qualitativa in cui è accertabile la presenza “sensibile” di un reale (“Anticipazioni della percezione”, secondo il criterio dell’identificazione sensibile). All’insieme chiuso degli assiomi dell’intuizione, fondato a sua volta sull’“assioma di separazione” secondo cui punti differenti possono essere separati da intorni propri e distinti (cfr., a tal riguardo, Hausdorff 1914, pp. 213 sgg.), si affianca dunque l’insieme complementare aperto delle anticipazioni della percezione che, nella densità del quantum, reintroduce la topologia meno fine come forma propria della sensazione, in cui ogni intorno di un punto x0 contiene infiniti altri punti oltre a x0 stesso. Ora, tutto ciò significa che, per ristabilire il piano di simmetria con lo spazio, in cui la topologia indiscreta o “densa” compare sin dall’inizio come sua “forma” peculiare, il tempo, vincolato alla discretezza del quantum nella “successione”, deve ricorrere alla sintesi noetica che si esprime nella seconda “proposizione fondamentale” dell’intelletto, fondando la forma continua della sensazione sull’unità intensionale e indiscreta dell’atto percettivo. La facoltà di sentire, pur presentando la materia come contenuto semantico dell’oggetto fenomenico (il “reale” dell’esperienza), non ha dunque una capacità d’individuazione autonoma, poiché il tempo non può svolgere le due funzioni che gli spettano (denotativa nella successione e connotativa nella schematizzazione) come semplice forma dell’intuizione, ma deve trovare applicazione nella percezione che si riferisce, in ogni caso, all’unità sintetica “discorsiva” della coscienza (cfr. Giovanelli 2011, pp. 19 sgg.). Tale difficoltà dell’assetto kantiano conduce Maimon ad approfondire i due lati della sintesi conoscitiva: vale a dire, da un lato la funzione della materia come contenuto sensibile indeterminato e, dall’altro, il principio di determinazione discreta del quantum che costituisce l’unità referenziale su cui si basa il principio d’individuazione del reale.
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3. Maimon: il tempo tra intuizione e concetto Abbiamo visto che per Kant spazio e tempo, in quanto forme pure dell’intuizione, devono presentarsi come totalità continue e indifferenziate che si esprimono mediante una topologia indiscreta. Ciò deriva dalla funzione denotativa dell’intuizione, il cui compito è quello di offrire il riferimento oggettuale come un’unità. Ma nel trascendentalismo kantiano il termine “unità” è equivoco, perché può riferirsi di volta in volta alla condizione (l’unità come unificazione, cioè la funzione produttiva o “soggettiva” della forma pura) e alla proprietà del condizionato (la funzione come prodotto “oggettivo”, ossia lo spazio e il tempo come unità numeriche o determinate oggettualità spaziali e temporali). A tal riguardo, Maimon osserva che se nell’indagine trascendentale si tratta d’individuare le funzioni come proprietà delle forme pure, nel duplice registro dell’unificazione e dell’unità come essere-uno, bisogna introdurre un principio di determinabilità e, se s’introduce tale principio, esso è allora la vera condizione a priori (cfr. VT, pp. 51 sgg.; VNL, pp. 20 sgg.; KA, pp. 153-158, 208-211; KU, pp. 42 sgg.; cfr. anche Ehrensperger 2004, pp. XXII sgg.). Tale duplicità logica della determinabilità, sia come funzione di determinazione rispetto a qualcosa di “determinabile” sia come prodotto “determinato”, si rivela nella funzione svolta dal tempo, che da un lato si esplica nella temporalizzazione discreta della successione, dall’altro nella determinazione continua del momentum percettivo. Per Maimon si tratta di sviluppare la complementarità tra topologia indiscreta e topologia discreta, in modo da ristabilire la simmetria tra spazio e tempo. Il fatto che in Kant spazio e tempo debbano da ultimo ricorrere alla sintesi noetica, significa che questa dev’essere presente fin dall’inizio come campo semantico originario delle forme della sensibilità. Spazio e tempo sono certo intuizioni, ma quando si tratta d’individuare le loro proprietà – siano esse proprietà dell’atto o del prodotto – essi appaiono alla coscienza come concetti (cfr. VT, p. 16; trad. it. p. 708; KU, pp. 75 sgg.; VNL, p. 129). L’operatività dell’intuizione deve dunque sempre far ricorso a una più riposta assiomatizzazione noetica, altrimenti finisce per ristabilire, dietro agli atti della soggettività, quelle stesse forme metafisiche reificate che il criticismo kantiano intende superare. Così – nota Maimon – l’unità del molteplice, prima ancora che come forma della sensibilità, è la condizione logica del pensare qualcosa in generale, e tale condizione corrisponde al concetto di diversità, che è il vero fondamento noetico di ogni forma sensibile (cfr. VT, p. 16; trad. it. p. 708; KU, p. 135; Kroner 1961, pp. 349 sgg.; Thielke 2003, pp. 96 sgg.). Ora, nel campo delle sensazioni la diversità può esprimersi in due modi: come esteriorità o proprietà dell’“essere l’uno al di fuori dell’altro” (Auseinander-
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sein), oppure come successione o proprietà dell’“essere l’uno dopo l’altro” (Nacheinandersein, cfr. VT, p. 15; trad. it. pp. 707-708). L’esteriorità caratterizza la diversità dello spazio, mentre la successione indica la diversità del tempo. Dal punto di vista concettuale, l’una proprietà esclude l’altra, e ciò si ottiene per semplice negazione: (≠s → ¬ ≠t) → =t, e viceversa, partendo dal tempo: (≠t → ¬ ≠s) → =s. Se dunque, secondo la logica del concetto, s’intende la negazione in modo lineare, cioè come semplice inversione dell’attribuzione, si ottiene da un lato l’identità del tempo o “contemporaneità” e, dall’altro, l’identità dello spazio o “essere nel medesimo luogo” (cfr. VT, p. 15; trad. it. pp. 707-708). Contemporaneità e identica localizzazione sono le proprietà inverse dei due concetti di diversità e, come proprietà inverse, si collocano legittimamente nello stesso “spazio logico”. Tuttavia, nel caso dello spazio e del tempo come forme della sensibilità, l’identità non può essere l’inversione della diversità, poiché la contemporaneità non è una determinazione di tempo (“essere nello stesso tempo” significa che non vi è successione, cioè non vi è tempo), così come l’identica localizzazione non è una determinazione di spazio (“essere nello stesso luogo” significa che non vi è esteriorità, cioè non vi è spazio). Se dunque intendiamo lo spazio e il tempo come proprietà, giungiamo alla seguente aporia: l’identità, come contemporaneità e come medesima localizzazione, è necessaria per intendere, rispettivamente, l’esteriorità e la successione, ma nel momento in cui la si pone, si elimina per negazione quel particolare substrato sensibile a cui viene attribuita, poiché lo spazio, come tale, dev’essere concepito senza tempo (l’esteriorità, come separazione reciproca, è “rappresentazione insieme”, cioè nello stesso istante), mentre il tempo dev’essere concepito senza spazio (la successione è la rappresentazione delle cose nello stesso luogo poiché, se esse fossero in luoghi diversi, “dovremmo rappresentarcele nel medesimo istante”, VT, p. 15; trad. it. pp. 707-708). Il problema è che esteriorità e successione, come proprietà dello spazio e del tempo, implicano una molteplicità logica (come “quantità”), mentre l’identità sensibile di luogo e di istante non implica alcuna molteplicità, sia come posizione puntuale (identità semplice), sia come unità di un molteplice, poiché in tale unità la molteplicità non compare come somma scalare di parte a parte, ma come unificazione interna o composizione qualitativa (cfr. VT, p. 14; trad. it. p. 707). Lo scarto che si presenta tra la molteplicità logica e l’unità qualitativa sensibile non può essere dunque compensato, in senso predicativo, dal concetto, ma solo dall’intuizione che, tuttavia, non “presenta” (darstellt) denotativamente qualcosa, ma “rappresenta” (vorstellt) in senso connotativo un’unità che viene prodotta dall’intelletto (cfr. VT, p. 16; trad. it. p. 708). Da qui, Maimon evidenzia che la produzione dell’intelletto non offre, in effetti, alcuna proprietà delle cose, ma solo relazioni; perciò, dal punto di vista concettuale, spazio e tempo sono solo differenti “legami
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connettivi” degli oggetti (cfr. VT, p. 14; trad. it. p. 707). Una volta corretta in senso relazionale (non-attributivo) la “diversità” che qualifica lo spazio e il tempo, resta in ogni caso il fatto che la relazione, per quanto pensata concettualmente, non può essere estranea al dato sensibile o alla “materia” del fenomeno (cfr. VNL, p. 185; KA, p. 248), altrimenti si ricade nel proton pseudos kantiano per cui, dovendosi applicare come categoria al molteplice empirico, la relazione connota da un lato l’intuizione, ma dall’altro dipende dalla sintesi giudicativa che attende di essere “rappresentata” nello schema sensibile. Si tratta allora di cogliere il senso della relazione partendo dal modo stesso in cui si dà la “materia” dell’esperienza senza far riferimento a un’attività soggettiva di spazializzazione o di temporalizzazione del dato. A questo riguardo, è stato osservato come Maimon si avvicini al concetto aristotelico di “materia intelligibile o “determinabile” (cfr. Gent 1971, p. 110), nei cui confronti la facoltà conoscitiva si trova in uno stato puramente passivo (cfr. VT, p. 13, trad. it. p. 706). Ma se la materia esprime l’elemento passivo della conoscenza, da dove allora trae origine la relazione rispetto a ciò che è puramente “determinabile”? In altri termini: come si svolge l’intelligibilità di ciò che è “dato”? Nello spazio, il dato sensibile si offre nel modo dell’esteriorità, cioè nell’essere-al-di-fuori: a è al di fuori di b e b è al di fuori di a (cfr. VT, p. 16; trad. it. p. 708). Ma l’esteriorità non coincide con l’estensione spaziale: infatti, tutto è “al di fuori” di tutto, poiché esteriorità, dal punto di vista logico, significa semplicemente la distinzione posta da una certa determinazione. La distinzione non indica dunque alcuna relazione, a meno di non ammettere uno sfondo comune tra i distinti che connette le loro diverse posizioni. Tale sfondo comune è proprio ciò che viene introdotto nella misura in cui lo spazio appare, kantianamente, come intuizione pura: si tratta di uno sfondo assoluto e a-relazionale che non coincide né col concetto né col dato sensibile ma, appunto, con la rappresentazione prodotta dall’immaginazione. La figura pura dello spazio come intuizione è dunque – nota Maimon – un ens imaginarium, e tale è anche il tempo come assoluta successione (cfr. VT, p. 16; trad. it. p. 708). Lo spazio e il tempo assoluti renderebbero possibili solo relazioni esterne, cioè comparative rispetto a un medium di ordine logico superiore nei confronti dei termini relazionati. Si ammettano, ad esempio, un luogo assoluto e una successione assoluta: ciò significa che l’inizio e la fine, rispetto ai quali le cose sono in un certo tempo e in un certo spazio, non coincidono mai con la posizione di una cosa iniziale e di una cosa finale, cioè con il dato sensibile reale. Ma se nessun dato sensibile può rappresentare il limite di comparazione, allora non è nemmeno possibile parlare d’intuizione pura come forma a priori della sensibilità; lo spazio e il tempo assoluti non possono dunque essere insiemi chiusi entro cui sorgo-
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no le relazioni. Per questa ragione Kant definisce lo spazio dell’intuizione come “grandezza infinita”, cioè un insieme aperto. Tuttavia, nemmeno una grandezza infinita, se intesa come attuale intuizione pura di una quantità data (quantitas), può fornire relazioni, poiché, ad esempio, in una retta reale infinita da entrambi i lati, ogni punto può essere in ogni luogo e situarsi “prima” o “dopo” ogni altro. Se proprio, conclude Maimon, spazio e tempo devono presentarsi come intuizioni, essi saranno solo intuizioni empiriche (cfr. VT, p. 20; trad. it. p. 711), cioè unità in sé dense, ma in relazione discrete. Una volta rinviato all’immaginazione lo spazio dell’intuizione pura, che qualifica i suoi prodotti come mere finzioni (Erdichtungen, cfr. VT, p. 16; trad. it. pp. 708-709; PW, pp. 17 sgg.; Thielke 2003, p. 99; Gasperoni 2016, p. 196), si tratta di approfondire il lato noetico della materia, in modo da comprendere adeguatamente la topologia della sensibilità. Che la relazione si origini concettualmente dallo spazio come semplice esteriorità, è già stato escluso, poiché “essere al di fuori” è una condizione necessaria, ma non sufficiente per la relazione. Si potrebbe allora pensare che lo spazio come intuizione, pur nel suo assetto finzionale, possa fornire, sebbene come “esterne”, le relazioni tra le cose: uno spazio denso e continuo, dotato di topologia indiscreta secondo le stesse indicazioni dell’Estetica trascendentale kantiana, su cui poi interverrebbe la geometria euclidea a stabilire la “misura” effettiva delle relazioni. In questo caso, si tratterebbe di una condizione certo sufficiente, ma non necessaria per le relazioni, in quanto – osserva Maimon (cfr. VT, p. 17; trad. it. p. 709) – l’immaginazione compie una sintesi secondo le semplici leggi dell’associazione, ad esempio avvalendosi degli schemi figurali della geometria euclidea che permettono di congiungere arbitrariamente, parte a parte, il molteplice empirico. L’unica condizione necessaria e sufficiente per la relazione si ritrova dunque nella logica del tempo che, sottratta alla soggettività kantiana della temporalizzazione nel senso interno, rivela il principio di determinazione relazionale nella successione. Infatti, la successione temporale è una sequenza originaria e necessaria: mentre nello spazio una figura può essere liberamente riprodotta mantenendo inalterate le relazioni (ad esempio una parte può essere tolta dalla sua posizione e portata a coincidenza con un’altra (cfr. VT, pp. 19-20; trad. it. p. 711), nel tempo è impossibile portare a coincidenza una parte precedente con quella successiva, altrimenti – nota Maimon – “verrebbe distrutta l’essenza del tempo” (VT, p. 18; trad. it. p. 709). La successione temporale coincide quindi con la produzione stessa della regola di relazione, poiché non ha bisogno di attendere tale regola dall’esterno, come invece accade nell’applicazione della geometria euclidea allo spazio puro.
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Il tempo è dunque, per sua natura, relazione interna che respinge qualsiasi comparazione (cfr., a tal riguardo, Beiser 1987, p. 303). A tal riguardo, Maimon – con un’argomentazione che ricorda da vicino l’esempio zenoniano della “freccia”, ma a conclusione invertita – si riferisce a due cose, a e b, separate nello spazio: non possiamo dire che aRb, perché la semplice separazione non è una relazione; per ottenere una relazione dobbiamo infatti ammettere una terza cosa c, tale che cRa e cRb. Se la cosa c fosse definita solo spazialmente, si riproporrebbe la situazione di separazione di a e b, poiché c occupa lo spazio che coincide con la sua stessa posizione, cioè uno spazio assoluto e irrelato tanto quanto lo spazio di sfondo dell’intuizione pura kantiana. Per avere una relazione, c deve muoversi da a a b, cioè stabilire in sequenza temporale cRa e cRb, e il fatto che questo movimento sia “fisico” non rappresenta che un caso particolare o un’applicazione del movimento logico, cioè del tempo come concetto (cfr. VT, p. 16; trad. it. p. 708; si veda anche, a tal riguardo, van Fraassen 1970, pp. 68 sgg., che, in modo non dissimile da Maimon, parla di “coppia di separazione” come criterio di distinzione relazionale attraverso il tempo). Ecco perché, senza far ricorso a un atto soggettivo della temporalità (del “tempo interno”), le relazioni possono essere pensate solo in successione (cfr. VT, p. 16; trad. it. p. 708). Esse tracciano infatti un campo connettivo, cioè un luogo in sequenza in cui la sintesi non opera su unità discrete già costituite come “parti” di un insieme, ma si svolge come “sintesi della relazione del precedente e del successivo” che non può mai “essere pensata dall’intelletto come separata” (VT, p. 18; trad. it. mod. p. 709). Ciò permette, in ultima istanza, di chiarire la differenza tra spazio e tempo intesi come concetti e come intuizioni. La relazione di tempo, come luogo in sequenza e origine della stessa nozione di “relazione”, è ovunque densa perché, proprio rifiutando la separazione dello spazio, il tempo è in grado di fissare, nella loro genesi, le relazioni stesse dell’estensione (cfr. Pringe 2018, p. 42). La reciproca esclusione concettuale di spazio e tempo non riguarda quindi proprietà di oggetti, ma proprietà di relazioni, cioè di struttura. Se si deve ammettere una distinzione dello spazio, cioè una separazione dei punti spaziali, allora vi dev’essere un’unica relazione temporale (una stessa struttura o funzione di successione) in cui i punti si presentano come separati; ma questo significa annullare il tempo come successione di distinti o “parti temporali”. Se invece si ammette una successione di tempi distinti, bisogna annullare lo spazio come separazione e concepire uno stesso luogo relazionale in cui si svolge la successione (ad esempio la retta reale come parametro di coordinazione). Per l’intuizione, che non ha a che fare con compagini relazionali, ma con unità discrete o grandezze estensive (cfr. VT, p. 18; trad. it. p. 710), la situazione è esattamente opposta, cioè una determinazione di tempo implica una determinazione di spazio e viceversa. Qui, in-
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fatti, la sintesi è sempre sintesi di elementi o parti (non-funzionali), per cui il legame connettivo va ricercato all’esterno della specifica qualità contenutistica, sia essa di tempo o di spazio. Non si parlerà più, cioè, di spazio e tempo come campi relazionali, ma di molteplicità di spazi e di tempi che vanno unificati mediante rappresentazioni simboliche corrispondenti alle unità discrete, come ad esempio il movimento delle lancette di un orologio per la sintesi di molteplici tempi determinati (cfr. VT, p. 18; trad. it. p. 710), oppure il tempo puro di uno stato interno (il puro senso della variazione temporale come precedere e seguire) per la sintesi di spazi determinati (cfr., a tal riguardo, Kauferstein 2006, pp. 255-256). Detto ciò, risulta impossibile parlare di spazio e tempo come intuizioni – in particolare come intuizioni pure – prescindendo dal concetto. In una singolare convergenza con le osservazioni che, negli anni Venti del Novecento, Rudolf Carnap svolgerà in merito alla “dipendenza delle proprietà dello spazio da quelle del tempo” (cfr. Carnap 1925, p. 336), Maimon evidenzia come il “concetto” rappresenti quell’assioma di coincidenza relazionale del molteplice che non si può mai ricavare dall’intuizione isolata, poiché, “per determinare lo spazio e il tempo stessi come intuizione, si dovrebbe ammettere ancora un altro spazio e un altro tempo” (VT, p. 19; trad. it. p. 711), cioè quello spazio e quel tempo in cui compaiono gli oggetti che, come parti spaziali e temporali, vengono condotti a unità sintetica. D’altronde, questo paradosso è proprio ciò che si rivela nell’immagine dell’orologio, se non lo si considera come una rappresentazione simbolica ma come produzione reale di tempo. Ogni unità temporale nel quadrante è separata, è cioè un’unità assoluta che inizia nel punto a e termina nel punto b, a cui segue un’altra unità assoluta che inizia in b e termina in c. Tra a e b vi è una relazione, tra b e c vi è un’altra relazione, ma queste due relazioni sono distinte solo se sono già stati distinti i punti a, b e c. In realtà, astratte da questi punti esse non sono diverse, sicché dalla loro somma non può sorgere alcun’intuizione di tempo. Ciò richiederebbe “oltre alla percezione di ogni dato in sé nel tempo, anche una riproduzione del dato precedente nella percezione di quello attuale, in virtù della loro omogeneità” (VT, p. 20; trad. it. p. 711), ma proprio per la sua “qualità di passato”, che riceve dal riferirsi a un determinato contenuto empirico, l’unità temporale trascorsa non può essere sovrapposta all’unità temporale presente poiché tra le due non vi è omogeneità. Nella rappresentazione dell’orologio non vi è dunque alcuna produzione di tempo, ma solo una riproduzione coordinativa rispetto all’effettivo campo relazionale stabilito dal concetto di tempo. Si noti inoltre che spazio e tempo, come forme o unità relazionali, si comportano per Maimon come le categorie di relazione – in particolare di causa-effetto e sostanza-accidente – pur non essendo riducibili a tali strutture concettuali pure (cfr. VT, pp. 18-19; trad. it. p. 710). Si può anzi dire
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che le categorie di relazione esprimono il significato della successione temporale – anche in questo caso in modo non dissimile all’assioma carnapiano di “relazione W” (= Wirkung, effetto; cfr. Carnap 1925, pp. 338 sgg.) – poiché danno al tempo un’effettiva direzione rispetto agli oggetti (anche la relazione sostanza-accidente, come variazione nella permanenza, esprime la direzione irreversibile dell’identità nel corso del tempo), mentre la successione temporale esprime l’uso effettivo delle categorie di relazione rispetto agli oggetti, fissando gli istanti o i “diversi tempi” che vengono portati a unità sequenziale. Ciò detto, risulta impossibile identificare la “logicizzazione” maimoniana delle forme della sensibilità con l’idealismo logico neokantiano, in particolare con il carattere epistemologico-costruttivo che le categorie assumono in Hermann Cohen (cfr. Kuntze 1912, pp. 339-340; Bergmann 1939, pp. 548 sgg.; Atlas 1964, p. 330; Moiso 1972, pp. 8-10 e 68-69). Infatti, Maimon osserva che il tempo in quanto concetto non è – come invece vuole Cohen (1883, p. 40; cfr., a tal riguardo, Ferrari 2003, pp. 153-154) – né il tempo come categoria applicata di qualità (la “grandezza intensiva”), né il tempo come categoria pura di relazione, ma ha semplicemente “lo stesso grado di realtà delle categorie” (VT, p. 18; trad. it. p. 710). Ciò significa che in una compiuta “estetica trascendentale” dev’essere già presente un’autonomia noetica dell’elemento sensibile, vale a dire un’“intelligibilità della materia” il cui senso viene integrato, ossia “semanticamente costituito”, dalle strutture categoriali dell’intelletto, ma non è mai completamente riducibile a tali strutture (cfr. Hartmann 1983, pp. 24-25). Ma per comprendere questo rapporto, che esprime il vero significato del “principio di determinabilità”, occorre esaminare la teoria maimoniana dei differenziali. 4. Il differenziale come topologia complementare del tempo Nel secondo dei principi sintetici dell’intelletto – le Anticipazioni della percezione – Kant discute del rapporto tra intuizione, sensazione e percezione a partire dai diversi sensi della nozione di quantità e di grandezza, fino a giungere alla sintesi del molteplice come unità “qualitativa”. Per Kant, si possono avere due tipi di sintesi o “congiunzioni”, vale a dire: i) una composizione matematica in cui gli elementi non appartengono gli uni agli altri, e allora saremo di fronte a una sintesi dell’omogeneo che può essere intesa come estensiva (per aggregazione) oppure come intensiva (per coalizione); e ii) una connessione dinamica in cui gli elementi, appartenendo gli uni agli altri, danno origine a una sintesi dell’eterogeneo (cfr. CRP, B 201202, pp. 331-333 n.). Notevole è il fatto che mentre la sintesi dell’omogeneo, in quanto “matematica”, ha una certezza intuitiva, la sintesi dell’eterogeneo ha invece una
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certezza solo discorsiva (cfr. CRP, B 201, p. 331). Dal momento, quindi, che spazio e tempo sono intuizioni, entrambi possono rientrare a ugual diritto nella sintesi matematica dell’omogeneo, e precisamente sia nella sintesi in estensione, quando essi vengono considerati solo nel loro aspetto intuitivo (come denotazione di una parte in somma additiva con altre parti), sia nella sintesi in intensione, quando cioè il prodotto d’intuizione e sensazione dà origine a una determinata percezione come connotazione di un’unità entro la quale compaiono le parti (cfr. CRP, B 201, p. 331). Nella sintesi estensiva, il tempo si comporta come una “linea tracciata nel pensiero”, cioè cominciando da un punto si aggiunge per successione un istante all’altro e si produce così una “determinata quantità di tempo” (CRP, B 203-204, p. 335). Ciò non accade per la sintesi intensiva, poiché qui la percezione, come coscienza empirica della sensazione, richiede sempre la presenza di una modificazione o di una certa “realtà” della sensazione “che viene appresa solo come unità e in cui la pluralità può essere rappresentata solo approssimandosi alla negazione = 0” (CRP, B 210, p. 345). L’unità irriducibile del dato sensibile è dunque un “quanto” come quantità di una qualità e può essere intesa non come la semplice posizione di una parte su una linea, ma come posizione di un grado in una scala che va da un massimo a un minimo, fino all’assenza di coscienza della sensazione (= 0) che corrisponde all’intuizione pura (cfr. CRP, B 208, p. 341). In questa scala graduale, che riproduce la misura dell’intensità di un fenomeno, l’assenza di percezione costituisce dunque la negazione privativa della realtà, sicché la scala stessa oppone i suoi limiti nel senso della contrarietà, dato che un grado può crescere o diminuire il suo “quanto” con continuità, ossia per divisione interna all’infinito. Infatti il quantum, variando in intensione, ammette “molte sensazioni intermedie possibili” e “la differenza di tali sensazioni tra loro è sempre minore della differenza tra la sensazione data e lo zero”, poiché “nessuna parte è la più piccola possibile, ossia nessuna parte è semplice” (CRP, B 201-211, p. 345). A tal riguardo, Kant porta alcuni esempi, come l’altezza di un suono, il grado (l’intensità) di un colore, il grado d’irradiazione del calore in un volume che, per quanto “piccolo”, riempie sempre tutto lo spazio a disposizione (cfr. CRP, B 211-216, pp. 345-353). Infatti, pur rimanendo identica la “quantità estensiva dell’intuizione”, la quantità intensiva deve sempre “poter essere più piccola o più grande” (CRP, B 214, p. 351). Ciò che dunque in ogni percezione viene “anticipato” come forma a priori della sensazione, e che si situa in corrispondenza alle categorie di qualità, è per Kant “la sintesi dell’incremento uniforme da zero alla coscienza empirica data” (CRP, B 218, p. 355). A fronte di queste osservazioni kantiane, Maimon rileva anzitutto che la rappresentazione sensibile, come qualità, non può essere mai ridotta a quantità, sia essa estensiva o intensiva (VT, p. 21, trad. it. p. 711). È quindi
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inutile spendersi nell’individuazione della “forma” delle sensazioni (come quanta continua secondo un grado), se poi non si può, in senso proprio, “anticipare” su tale base alcuna percezione corrispondente alla coscienza empirica di una sensazione. Correttamente, Kant ha legato le sensazioni a gradi di incrementi e di diminuzioni, ma ha errato nell’intendere tali gradi come proprietà della “quantità di una qualità” e, soprattutto, del “reale” nel fenomeno (cfr. CRP, B 207, p. 341). Gli stessi esempi kantiani sono, da questo punto di vista, fuorvianti, perché non è il colore ad avere gradi che diminuiscono o aumentano, ma solo alcune sue proprietà misurabili, come la saturazione o la lucentezza. Lo stesso vale per il calore (come “temperatura”, cfr. VT, p. 72), la densità e, soprattutto, il tempo, per il quale è indispensabile la direzione e l’ordine entro un medesimo luogo e non è dunque possibile alcuna scalarità nella misura della rispettiva sensazione. Tutte queste “grandezze intensive” si possono ridurre a gradi di una scala solo attraverso misurazioni derivate, cioè relazioni comparative in base ad altri sistemi scalari o a proprietà topologiche della percezione (cfr., a tal riguardo, Pap 1967, pp. 194 sgg.). In quest’ultimo caso, l’argomentazione è circolare, poiché la forma intensiva del dato sensibile, nella sua gradualità, è semplicemente ciò che si può ricavare dalla successione comparativa empirica di due percezioni. Occorre dunque da un lato mantenere inalterato il momento qualitativo che corrisponde alla “materia” propria della sensazione e, dall’altro, individuare una forma dell’“incremento” e della “diminuzione” che non sia legata alla semplice quantità (sebbene continua e modulabile), ma a una certa relazione interna, non comparativa, della qualità sensibile. È a questo scopo che si rivela feconda la nozione matematica di “differenziale”. Com’è stato osservato (Buzaglo 2002, p. 67; Kauferstein 2006, pp. 309-310; Duffy 2014, p. 241), Maimon aveva una profonda conoscenza delle indagini matematiche intorno al calcolo infinitesimale che, a partire da Leibniz, si erano sviluppate fino all’epoca in cui egli compose il primo Versuch. Sebbene per tutto l’Ottocento fino agli inizi del XX secolo tale nozione abbia subito importanti integrazioni volte a eliminare ogni equivoco essenzialistico intorno al concetto di “infinitesimo” (ricordiamo, tra gli altri, il teorema di Weierstrass-Bolzano a proposito del “punto di accumulazione” come pura relazione topologica tra i termini di una successione, cfr. Boyer 1980, p. 599 sgg.), le linee fondamentali della struttura funzionale del differenziale erano già state tracciate. Ora, il differenziale (dy) esprime la variazione infinitesimale di una funzione (y=f(x)) rispetto all’incremento della sua variabile indipendente (x). Ogni incremento è una quantità data che si può rappresentare come misura della grandezza di un segmento su una retta. Esso dunque corrisponde a una parte, cioè a una quantità discreta di una linea già tracciata. Ma in tal
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modo l’incremento non esprime la variazione, poiché questa è una relazione funzionale da intendersi come un’unica operazione in cui le parti sono nel tutto. Infatti, se isoliamo la variabile indipendente dalla funzione, la variazione coincide semplicemente col suo incremento, il che significa dire che la variabile è ciò che è, ossia occupa il suo stesso “spazio” senza relazione. Dato che ogni cosa occupa il suo stesso spazio come ogni altra, si può porre allora x = y = z …, sicché il differenziale, per ogni cosa, sarà sempre uguale a zero: dx=0, dy=0 ecc. Secondo Maimon, è questo il caso dell’intuizione = 0, cioè dell’istante in cui si coglie qualcosa come uno in connessione zero (cfr. VT, p. 23; trad. it. p. 713). Se invece si osserva come il differenziale sorge a partire dall’incremento della variabile indipendente posta in una certa relazione funzionale, è possibile rilevare che l’incremento della funzione (Δy) dipende dall’incremento (h) della variabile indipendente, e poiché ora tale relazione esprime un effettivo gradiente di variazione, si può assumere che tale incremento abbia un valore a piacere, “determinabile ma non ancora determinato” (VT, p. 87), da zero all’infinito o (che è lo stesso in questo caso) dall’infinito a zero. Se dunque, in questo campo relazionale, assumiamo un valore qualsiasi di x e lo rappresentiamo come punto P su una linea, esso dipenderà dall’incremento a piacere h che, prima e dopo di sé sulla linea, avrà sempre infiniti valori più piccoli o più grandi a piacere, cioè “infinitesimi” ε(h). Se zero è il limite in cui la relazione differenziale si trasforma in intuizione, allora ε > 0 avrà sempre, tra sé e lo zero, infiniti altri valori, sicché anche il valore relazionale del punto P non dipenderà da una determinata quantità, ma indicherà un intorno denso e continuamente differenziabile P(x)h, cioè un campo in continua variazione infinitesima secondo la successione P(x)h + hε(h), il cui risultato è l’incremento effettivo (Δy) della funzione. Dal momento che il differenziale dy = P(x)h stabilisce la differenziabilità della funzione nel punto denso P (che per comodità possiamo assimilare a x), allora in quel punto la linea, intesa come forma dell’incremento di una curva qualsiasi, ha una tangente (cfr. VT, p. 25) che corrisponde alla sua derivata f ’(x) e che si può esprimere come rapporto tra il differenziale della funzione e il differenziale della variabile indipendente (dy/dx), cioè secondo il rapporto incrementale o, più correttamente, la notazione differenziale così com’è stata formulata nel 1684 da Leibniz nel suo Nuovo metodo per i massimi e i minimi (cfr. Leibniz 1858, pp. 220-221; Kauferstein 2006, p. 321). Ora, proprio prendendo spunto dalla notazione leibniziana e riferendola alle forme della sensibilità, Maimon osserva in primo luogo che “nel calcolo differenziale, lo spazio come concetto viene astratto da ogni quantità, ma è considerato come determinato mediante diverse specie della qualità, della sua intuizione” (VT, p. 18). Riprendiamo infatti il differenziale dy della funzione, cioè P(x)h. P(x) rappresenta il limite a cui tende la funzione nel
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punto P nel momento in cui h tende a zero, cioè P(x) è uguale alla sua derivata f ’(x) (cfr. Pringe 2018, p. 40). Da ciò segue che il differenziale dy = P(x)h è a sua volta uguale al prodotto della derivata e dell’incremento h, cioè f ’(x)h. Visto ora che la derivata si può rendere anche con la notazione differenziale, per un oggetto in sé puro x tale derivata sarà dx/dx, che coincide col differenziale nel momento in cui la si mette a prodotto con l’incremento h, cioè (dx/dx)h = h. Questo esprime pienamente il fatto che il differenziale di un oggetto in sé coincide col suo incremento. Ma con l’introduzione della notazione differenziale risulta altresì chiaro che dx = h = 0 vale solo per il “differenziale di ogni oggetto in sé rispetto all’intuizione” (VT, p. 23; trad. it. p. 713), mentre dx = dx/dx riproduce la derivata dell’oggetto in sé, cioè il limite assoluto, e come tale irraggiungibile, del differenziale proprio o “simbolico” di ogni oggetto (cfr. VT, pp. 190191; Kauferstein 2006, pp. 335-336). Maimon fa corrispondere il “differenziale proprio” al noumenon come “idea della ragione” (cfr. VT, p. 23; trad. it. p. 713), cioè a un limite che potrebbe essere raggiunto per costante approssimazione – benché solo attraverso una “completezza formale” (cfr. VT, pp. 49, 63, 202; Gasperoni 2016, pp. 193-194) – se avessimo un intelletto infinito (cfr. VT, p. 139; Schrader 1983, p. 706). Quest’”infinitamente piccolo metafisico” (VT, p. 193; cfr. Duffy 2014, p. 243) è l’unico predicato possibile della qualità di una rappresentazione sensibile, poiché “i noumena sono idee della ragione che servono come principi per la spiegazione della genesi degli oggetti secondo certe regole dell’intelletto” (VT, p. 23; trad. it. p. 713; cfr., a tal riguardo, Zac 1986, pp. 258-259). Tuttavia – nota Maimon – la sensibilità, in quanto materia, non è estranea a questo processo costitutivo poiché essa non è un passivo momento caotico della coscienza (un puro “molteplice”), ma “offre il differenziale per una coscienza determinata”, da cui l’immaginazione ricava un “oggetto finito dell’intuizione” e, dal rapporto dei diversi differenziali, l’intelletto produce “il rapporto degli oggetti sensibili che derivano da essa” (VT, p. 23; trad. it. p. 713). Se ora applichiamo l’intero processo alla rappresentazione del colore – ad esempio il “rosso” – si deve dire che essa “dev’essere pensata senz’alcun grado finito della qualità, eppure come il differenziale di un grado finito” (VT, p. 21; trad. it. p. 712). Ma nella misura in cui si considera tale rappresentazione sensibile come un semplice differenziale, “essa non dà ancora nessuna coscienza” poiché, a tal fine, occorre cogliere la “diversità del suo differenziale” (VT, p. 21; trad. it. p. 712; cfr. Wegener 1909, pp. 46 sgg.). Ciò significa che dal semplice differenziale P(x)h non possiamo ricavare l’equazione della curva e il tipo d’incremento (Δy) se non lo portiamo a sintesi con il tipo di infinitesimo h ε(h) che caratterizza la specifica funzione. Se ad esempio si assumono due diverse funzioni f(x) e g(x), esse possono avere infinitesimi di ordini diversi che indicano, comparativamente, se la crescita
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o decrescita del passaggio al limite, nella rispettiva curva, è più lenta o più veloce, cioè se l’“infinito” tra i valori è più o meno denso. Poiché ogni colore, nel suo momento percettivo, è lo zero della sua forma e, se esistesse solo il colore rosso, non vi sarebbe alcuna coscienza del rosso (cfr. VT, p. 22 n.; trad. it. p. 712 n.), la diversità dei differenziali, da cui deriva tale coscienza, dev’essere il frutto di “un’attività della facoltà di pensiero” (VT, pp. 21-22; trad. it. p. 712). Infatti, dx=0 e dy=0, ma il loro rapporto non è uguale a zero (cfr. VT, p. 23; trad. it. p. 713), in quanto proprio rapportando tra loro i diversi differenziali l’intelletto pone gli oggetti all’interno di un campo di variazione funzionale, in cui le relazioni non sono di “numero a numero” ma di “unità a unità” (VT, p. 213). L’intelletto non può dunque risolvere la questione metafisica del dato materiale – poiché altrimenti la qualità si ridurrebbe completamente a notazioni quantitative e funzionali – ma può determinare il significato, per la conoscenza, di ogni specifico momento qualitativo. Anche se non sappiamo cosa sia in sé la qualità del rosso, possiamo però avere coscienza della sua determinazione, e tale determinazione-di-coscienza sorge secondo una certa operazione del pensiero (cfr. VT, pp. 56, 217, 221). Non esiste infatti, al di fuori dell’intelletto, alcun modo d’intendere un rapporto tra pure qualità sensibili, poiché altrimenti si ripresenterebbe il problema kantiano del quid iuris, ossia della giustificazione dell’applicazione di categorie concettuali al dato materiale (cfr. VT, pp. 23, 28, 32; trad. it. pp. 713, 717; Engstler 1990, § 1; Pringe 2016, pp. 83 sgg.). Per superare tale difficoltà, Maimon non si appella a una “deduzione” che si fondi su un’appercezione pura della coscienza, ma svolge le proprietà logiche dell’esperienza a partire dal “modo della sua genesi”, in quanto “non possiamo pensare alcun oggetto come già sorto, ma sempre e solo come sorgente, ossia come fluente” (VT, p. 24; trad. it. p. 714). Poiché i rapporti degli oggetti non sono altro che “i rapporti delle loro regole genetiche e dei loro differenziali” (VT, p. 24; trad. it. p. 714), è possibile risolvere lo scarto tra proprietà qualitative e determinazioni quantitative introducendo l’integrazione di grandezze come operazione inversa, o complementare, rispetto alla differenziazione (cfr. VT, pp. 72, 110, 115, 213; Pringe 2018, p. 41). Infatti, l’integrale offre una quantità determinata (finita) eliminando gli indici infinitesimali del differenziale e producendo così l’identificazione del dato secondo un certo sistema numerico. Tuttavia, tale eliminazione non implica una riduzione del dato alla quantitas, poiché, una volta ritrovata la funzione originaria (la cosiddetta “primitiva” del differenziale), è sempre possibile ripercorrere, in senso opposto, il processo della sua genesi e reintrodurre, di conseguenza, le relazioni differenziali che costituiscono la matrice noetica del suo significato conoscitivo (cfr. VT, p. 213; Kauferstein 2006, pp. 331-332).
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Ora, dal momento che – in ultima istanza – l’identità oggettuale non è altro che un’identità genetica, il tempo rivela la sua funzione strutturale anche rispetto ad ogni contenuto dell’esperienza. Esso non è cioè solo esprimibile concettualmente, ma anche condizione del pensiero stesso (cfr. VNL, pp. 129, 143). Dobbiamo infatti distinguere il tempo come concetto e il tempo come funtore del concetto nel giudizio. Mentre nel primo caso la contemporaneità è la negazione del tempo (in quanto il tempo, in senso proprio, è successione), nel secondo è il suo complementare (cfr. VNL, pp. 128-129). La “funzione primitiva” offerta dall’integrale è infatti l’insieme di tempo che viene colto secondo una certa “forma”, e precisamente come la forma della curva temporale in cui compaiono le specifiche notazioni differenziali. La rappresentazione di tale forma si caratterizza evidentemente come un determinato “spazio” rispetto al quale sono possibili rapporti d’interiorità ed esteriorità, vale a dire uno spazio chiuso della contemporaneità che si relaziona topologicamente, in modo complementare, all’insieme aperto della successione differenziale del tempo. Tuttavia, poiché spazio e tempo sono anche intuizioni che richiedono la materialità del dato sensibile, essi non possono stabilire in modo autonomo la forma oggettiva della funzione originaria, ma richiedono sempre, a loro fondamento, il principio di determinabilità come relazione noetica tra “determinabile” e “determinazione” (cfr. VNL, pp. 131 sgg.). Se infatti – nota Maimon – spazio e tempo indicano senza dubbio ciò che vi è di “oggettivo negli oggetti della conoscenza”, d’altra parte essi sono solo i “criteri negativi dell’oggettivo nella conoscenza stessa”, sicché “ogni conoscenza del rapporto reale degli oggetti tra loro, che presuppone come condizione la conoscenza del loro rapporto esterno nel tempo e nello spazio, non è una conoscenza oggettiva, ma meramente soggettiva” (VNL, pp. 138-139; su ciò, cfr. Thielke 2003, pp. 103-104). Ciò significa che se da un lato la forma del tempo, cioè il campo relazionale da esso stabilito, determina l’oggetto della coscienza non semplicemente come uno stato del soggetto (la sensazione), ma come un oggetto al di fuori di tale stato soggettivo, dall’altro essa non può garantire l’oggettività della relazione, ma richiede un criterio positivo in base al quale, ad esempio, nel giudizio conoscitivo “a è b”, “a” debba apparire come determinabile attraverso “b”, e “b” come determinazione di “a” (cfr. VNL, p. 139; Bransen 1989, pp. 88-90). Se esprimiamo la relazione di tempo (R) come funzione che si dà tra la rappresentazione della successione (α) e l’oggetto reale (β), allora R = f(α, β) si svolge solo “secondo le leggi empiriche dell’associazione delle idee” (VNL, p. 140), mentre l’oggettivo della conoscenza dev’essere “ciò per mezzo di cui la conoscenza rivela necessità e validità universale” (VNL, p. 139). A tal fine, mantenendo fissa la relazione R, si dovrebbe dunque ricavare l’oggetto reale in funzione di α e di R, cioè β = f ’(α, R). Ma ciò è im-
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possibile, poiché la seconda funzione (f ’), come positivo principio di determinabilità, potrebbe intervenire sulla prima (f) solo se la regola della genesi determinasse l’oggetto empirico nella sua compiutezza. In effetti – conclude Maimon – si tratta di un compito inesaudibile, che in ultima istanza rinvia alla funzione simbolica (cfr. VT, pp. 146 sgg.; Gasperoni 2016, pp. 200-203) dei segni con cui si esprimono le notazioni differenziali: “Non appena andiamo alla ricerca del modo di sorgere di qualche conoscenza e troviamo che essa è preceduta da un’associazione di idee fondata su un legame casuale degli oggetti, abbiamo allora ragione di dubitare della supposta oggettività di tale conoscenza, poiché la cosiddetta conoscenza oggettiva non presuppone nulla di simile; e questa è la prima pietra della mia filosofia scettica” (VNL, p. 144). Dal momento che, rispetto alla “facoltà delle regole”, l’oggetto reale può presentarsi solo nella sua infinita alterità, anche la forma temporale rimane sempre un’immagine della diversità (cfr. VNL, p. 144). L’“intelligibilità” della materia, il suo svolgersi nella forma del tempo, è da ultimo consegnata alla struttura antinomica del pensiero, dove ogni totalità ideale sussiste accanto alla particolarità del dato sensibile la cui “passività”, pur non rappresentando “l’azione di qualcosa di esterno”, non può essere resa del tutto intelligibile nel suo contenuto (cfr. VT, pp. 22 e 241-242; PW, p. 169; Durante 1943, p. 78; Franks 2005, pp. 189-190; Freudenthal 2006, pp. 79 sgg.). Così, tanto nel realismo empirico kantiano quanto nello scetticismo empirico maimoniano (cfr. VT, p. 232; Engstler 1990, § 10; Gasperoni 2012, pp. 123 sgg.; Gasperoni 2016, pp. 190-193), l’irrisolta tensione tra intelletto e sensibilità, concetto e immagine, differenziale e integrale, confina il problema della realtà ai soli prolegomeni di una topologia del tempo. Dipartimento di Filosofia e Comunicazione Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Italia [email protected] Bibliografia 1. Sigle e abbreviazioni CRP = Kant, I. 2004: Kritik der reinen Vernunft (1781-17872), citaz. dalla Akademie-Ausgabe, voll. III-IV (Kant’s Gesammelte Schriften, Königlich Preußische Akademie der Wissenschaften, Berlin, 1904-1911), secondo l’impaginazione originale della prima (A) o della seconda (B) edizione; trad. it. di C. Esposito, Critica della ragione pura, Milano, Bompiani.
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KA = Maimon, S. 1798: Die Kathegorien des Aristoteles. Mit Anmerkungen erläutert und ald Propädeutik zu einer neuen Theorie des Denkens dargestellt, Berlin, Felisch. KPS = Kant, I. 1990: De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (1770), Akademie-Ausgabe, vol. II, pp. 385-419; ed. it. a cura di A. Pupi e R. Assunto, La forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile, in Scritti precritici, Roma-Bari, Laterza, pp. 419-461. KR = Kant, I. 2017: Reflexionen Kants zur kritischen Philosophie. Auf Kants handschriftlichen Aufzeichnungen, II: Reflexionen zur Kritik der reinen Vernunft, hrsg. von B. Erdmann, Leipzig, Fues (Reisland), 1882, trad. it. di R. Ciafardone, Riflessioni sulla Critica della ragion pura. Da annotazioni manoscritte, Napoli-Salerno, Orthotes. KU = Maimon, S. 1797: Kritische Untersuchungen über den menschlichen Geist oder das höhere Erkenntnis- und Willensvermögen, Leipzig, Fleischer. PW = Maimon, S. 1791: Philosophisches Wörterbuch, oder Beleuchtung der wichtigsten Gegenstände der Philosophie, in alphabetischer Ordnung, Berlin, Unger. VNL = Maimon, S. 1794: Versuch einer neuen Logik oder Theorie des Denkens. Nebst angehängten Briefen des Philaletes an Aenesidemus, Berlin, Felisch. VT = Maimon, S. 2004: Versuch über die Transzendentalphilosophie (1790), hrsg. von F. Ehrensperger, Hamburg, Meiner; trad. it. parziale a cura di V. Verra, Saggio sulla filosofia trascendentale, in Grande Antologia Filosofica, a cura di M.F. Sciacca e M. Schiavone, Marzorati, Milano 1990, vol. XVII, pp. 702-754. (Per i passi in cui non esiste la trad. it., compare solo VT seguito dal numero di pagina; invece per i passi in cui esiste la trad. it., compare VT seguito dal numero di pagina e “trad. it.” seguito dal numero di pagina). 2. Letteratura secondaria Atlas, S. 1964: From Critical to Speculative Idealism. The Philosophy of Solomon Maimon, The Hague, Nijhoff. Beiser, F.C. 1987: The Fate of Reason, Cambridge (MA), Harvard University Press. Beiser, F.C. 2002: German Idealism. The Struggle against Subjectivism, 17811801, Cambridge (Ma)-London, Harward University Press. Bergmann, S.H. 1939: “Maimon und Cohen”, Monatsschrift für Geschichte und Wissenschaft des Judentums, 83, pp. 548-561. Böhme, G. 1974: Zeit und Zahl, Frankfurt a.M., Klostermann. Boyer, C. 1980: A History of Mathematics (1968), trad. it. di A. Carugo, Storia della matematica, Milano, Mondadori. Bransen, J. 1989: The Antinomy of Thought: Maimonian Skepticism and the Relation between Thoughts and Objects, Dordrecht, Kluwer.
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Gaetano Rametta
Filosofia trascendentale e ontologia della differenza in Salomon Maimon
Abstract: Transcendental Philosophy and Ontology of Difference in Salomon Maimon The paper aims to show the relationship between Transcendental Philosophy and the Theory of Difference in Maimon’s thinking. Starting from Maimon’s first letter to Kant, the author explains the questions of quid iuris? and quid fact? In a further paragraph, Maimon’s theory about the Understanding (Verstand) is compared with the matching theories of Fichte and Hegel. The analysis of Maimon’s “Principle of Determinability” (Grundsatz der Bestimmbarkeit) is followed by a final remark on Maimon’s meaning for Deleuze’s book Difference and Repetition. Keywords: Transcendental Philosophy, German Idealism, Difference, Understanding, Determinability.
1. Una lettera a Kant Nella sua lettera a Kant del 7 aprile 1789, Maimon indica i quattro punti su cui vertono le sue integrazioni alla filosofia critica: La distinzione che Ella pone tra i principi analitici e sintetici e la realtà di questi ultimi. La questione quid iuris? […] Ho studiato un nuovo tipo di idee che io chiamo idee dell’intelletto […] La questione quid facti? (Maimon 1991, pp. 17-18).
Per cogliere il Versuch nella sua specificità, conviene partire proprio da queste indicazioni, anche se non è necessario seguire pedissequamente l’ordine con cui Maimon le ha elencate. Anzi, forse conviene partire proprio dal fondo. Già Bergman aveva indicato in tale domanda la questione decisiva.1 In estrema sintesi, Maimon formula due obiezioni, la prima di ordine relativo, la seconda di ordine logico. Quella di ordine relativo riguarda la scarsa attenzione che Kant avrebbe dedicato alla questione, se effettiva1 “Per riassumere: la questione del quid iuris in ultima analisi può essere risolta […] il mondo della scienza è possibile; ma è anche reale e la sua realtà può essere dimostrata? Questa è la questione decisiva del quid facti, ed è qui che Maimon si separa da Kant” (Bergman 1967, p. 80).
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mente sussistano dei giudizi sintetici a priori, a partire dai quali sia possibile fondare le scienze e legittimare la legalità dell’esperienza. Tale obiezione fa da semplice introduzione alla seconda, che investe la coerenza complessiva del criticismo kantiano, e chiama in causa il rapporto della questione quid facti? con la questione: quid iuris? L’argomentazione di Maimon può essere riassunta in questi termini: Kant tenta di dimostrare la legittimità delle categorie dell’intelletto a fungere da principi costitutivi dell’esperienza. In questo modo, egli presuppone la datità dell’esperienza, nell’accezione che egli stesso fornisce di questo concetto, distinguendolo da un semplice flusso di percezioni prive di ordine e regolarità. Una volta presupposta la datità dell’esperienza, assunta cioè come risolta la questione quid facti?, Kant procede alla soluzione del problema quid iuris? Con quest’ultimo, s’intende il chiarimento della questione sulla legittimità della pretesa, rivendicata dall’intelletto e dalle sue categorie, di valere come condizioni a priori per la possibilità dell’esperienza. Il ragionamento kantiano sarebbe dunque, nella ricostruzione di Maimon, il seguente: poiché l’esperienza è data (quid facti), allora devono essere dati anche giudizi sintetici a priori, perché altrimenti l’esperienza non sarebbe data. Appare evidente una prima circolarità: dire che i giudizi sintetici a priori sono dati, perché altrimenti l’esperienza non sarebbe data, significa dire nient’altro che i giudizi sintetici sono dati perché sono dati, o con formulazione logicamente equivalente, significa dire che l’esperienza è data perché è data. Il fatto dell’esperienza è assunto come presupposto, ed è a partire da questo presupposto, ritenuto da Maimon del tutto infondato, che Kant procede alla soluzione della questione quid iuris: è davvero giustificato il diritto, rivendicato dalle categorie, a valere come condizioni a priori per la possibilità dell’esperienza? La questione a quest’altezza si complica, perché dev’essere affrontata da un duplice punto di vista: dal punto di vista della dimostrazione della legittimità del diritto, e dal punto di vista del come un siffatto diritto, qualora sia dimostrato legittimo, possa farsi valere effettivamente come condizione dell’esperienza. Concediamo per il momento che Kant sia riuscito a “dedurre”, cioè a giustificare la pretesa delle categorie di costituire le condizioni trascendentali dell’esperienza. Come viene risolta da Kant la questione del come? Maimon intravede giustamente tale soluzione nella dottrina dello schematismo, ma è proprio qui che il pensiero di Kant rivela la sua insufficienza: anche se lo schema riuscisse a mediare l’applicazione delle categorie all’intuizione per il tramite della forma pura del tempo, il problema sarebbe spostato, ma non risolto. L’eterogeneità tra intelletto e sensibilità, infatti, si riproporrebbe altrettanto radicalmente nei confronti del materiale empirico che appare all’intelletto come dato a posteriori, e risulta per principio estraneo all’unità formale del concetto in quanto funzione a priori. Intelletto e sensi-
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bilità restano, in Kant, due facoltà completamente differenti, e lo schema non è sufficiente per mettere in comunicazione i concetti a priori, vuote forme categoriali prive di contenuto, con gli oggetti determinati che, secondo Kant, sono dati alla nostra facoltà conoscitiva solo per il tramite della sensibilità. Diverso sarebbe il caso per un intelletto “archetipo”, che producesse il contenuto nel momento in stesso in cui lo pensa, invece di doverlo accogliere come dato a partire da una ricettività originaria, sia pura dotata di forme a priori come lo spazio e il tempo. Nell’uomo, sensibilità e intelletto restano facoltà disparate, e il molteplice empirico, filtrato dall’intuizione, resta qualcosa di estraneo alle categorie, attraverso le quali l’Io penso cerca di farsi valere come istanza di unificazione trascendentale dell’esperienza. È per rimediare a questo iato tra a priori e a posteriori, contenuto e forma, sensibilità ed intelletto, che Maimon segnala a Kant l’introduzione di un nuovo tipo di idee, non più prodotte dalla ragione, ma dall’intelletto, rispetto alle quali, trattenendo a stento l’orgoglio per la propria scoperta, egli scrive: A me pare di aver aperto così una nuova prospettiva per la soluzione della questione quid iuris? di cui sopra (Maimon 1991, p. 18).
Sembra evidente l’allusione alla teoria dei differenziali, tra le più discusse della filosofia di Maimon. Nel Versuch, in realtà, Maimon introduce il concetto di noumeno proprio in rapporto alla sua teoria dei differenziali, e definisce il differenziale, assunto in questo senso, come un’idea della ragione. Non si tratta di un’oscillazione terminologica, ma della stratificazione del concetto. Prendiamo l’esempio del triangolo, forse il più limpido tra quelli che compaiono nel testo (cfr. Maimon 2004, p. 213 sg.).2 Facendo scorrere progressivamente la base della figura verso l’alto, in modo da formare una serie di parallele, io sono costretto a immaginare il restringimento proporzionale degli altri due lati. Mano a mano che procedo col mio esperimento di riduzione, mi avvicino tendenzialmente al punto in cui l’estensione della figura raggiungerà un valore = 0. Ma questo avvicinamento, appunto, non potrà mai pervenire alla presentazione compiuta dei rapporti sussistenti fra i tre lati del triangolo. L’azzeramento completo dell’estensione, infatti, per l’intelletto finito dell’uomo comporta l’azzeramento corrispondente della relazione, cioè del concetto che esprime logicamente in forma pura la struttura del triangolo. La riduzione della figura geometrica 2 Si tratta della lunga nota che precisa il passo seguente, sui rapporti tra grandezza estensiva e intensiva: “la grandezza estensiva è per così dire lo schema della grandezza intensiva, poiché questa ed i suoi rapporti non possono essere percepiti immediatamente in sé, bensì solo mediante la prima […] Nei quanti, la grandezza intensiva è il differenziale della estensiva, e questa a sua volta è l’integrale di quella” (Maimon 2004, p. 72).
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alla sua forma logica sarà dunque protesa all’infinito, non potrà mai sbarazzarsi di un residuo estensionale, per quanto infinitamente ridotto. Questa tendenza alla riduzione dell’estensione alla pura logica del rapporto intensionale è espressa, in Maimon, dalla sua nozione del differenziale. Nella rappresentazione (Vorstellung), noi possiamo esprimere questa riduzione dell’elemento spaziale solo come tendenzialmente = 0, perché la finitezza del nostro intelletto ci rende impensabile la presentazione (Darstellung) di forme prive di figurazione, emancipate dalla schiavitù dell’immagine. La componente ebraica del pensiero di Maimon ci sembra, a quest’altezza, innegabile.3 Se però pensiamo come compiuto il processo della riduzione, ecco che trasformiamo il differenziale in noumeno, o meglio: il noumeno esprime il differenziale come idea della ragione, nel momento in cui presenta come compiuto il processo della riduzione = 0 della grandezza estensiva. Ora però, il noumeno in questo senso è un pensiero paradossale, è letteralmente un pensiero impensabile: come potrebbe il nostro intelletto pensare a un triangolo senza spazio, in quanto pura relazione puramente intensionale tra le sue componenti (lati , angoli, ecc.) nel momento in cui noi possiamo concepire un triangolo solo nella misura in cui lo facciamo oggetto di una costruzione nello spazio, anzi addirittura concepiamo lo spazio stesso (in funzione di determinabile) come racchiuso nella forma figurata del triangolo (in funzione di sua determinazione)? Il triangolo è tale per noi solo nella misura in cui è spazio concretamente determinato in quanto figura, non può dunque emergere per noi come struttura cristallizzata in senso esclusivamente relazionale. Proprio l’attivazione del processo di approssimazione, però, ci fa capire come al versante della nostra insufficienza corrisponda quello, complementare, della nostra produttività. Dal lato della costruzione del triangolo, infatti, il nostro intelletto opera secondo regole che esso stesso si pone: ciò che esso cerca, nella serie delle sue figurazioni, nella deduzione dei suoi teoremi, nella scoperta di nuove forme di calcolo e di operazioni, è appunto la messa in luce della forma logica, della struttura del concetto. In altri termini, l’intelletto tenta di dare compiuta presentazione (Darstellung) all’idea, in 3
Al di là di quanto Maimon scrive nell’Autobiografia, cfr. i suoi Commentari a Maimonide (Maimon 1999), e l’emblematico finale del Versuch – se si esclude la Beilage costituita da un saggio pubblicato nello stesso anno (1790) sul Berlinisches Journal für Aufklärung: “I nostri talmudisti (che certo a volte hanno espresso pensieri degni di Platone) dicono: ‘Gli alunni della saggezza non trovano pace, né in questa vita né in quella futura’; a tali parole riferiscono, com’è loro modo, quelle del Salmista: essi avanzano con forza sempre crescente, compaiono in Sion di fronte all’Onnipotente” (Maimon 2004, p. 238). Sul rapporto con la tradizione ebraica del commento, essenziale per una corretta comprensione della stratificazione testuale del Versuch, cfr. Freudenthal 2003.
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quanto regola che presiede alla genesi delle sue produzioni. Queste produzioni ricadono, inesorabilmente, nella sfera della Vorstellung, cioè della rappresentazione in quanto facoltà conoscitiva permeata dalle operazioni dell’immaginazione come facoltà inventiva (Erdichtungsvermögen) nel senso della figurazione, della produzione d’immagini coglibili intuitivamente. Esse portano la regola ad espressione, la realizzano sul piano dell’esperienza, ma in pari tempo e proprio per questo, oscurano la limpidezza della visione intellettuale, di cui pure recano l’impronta. Il differenziale è dunque idea dell’intelletto quando è inteso come regola soggiacente al processo delle sue produzioni, è la realizzazione della regola nel processo genetico delle sue creazioni. Tale processo, tuttavia, non sussisterebbe senza rinviare al concetto del suo completamento formale, espresso dall’idea non più intesa come prodotto dell’intelletto, ma kantianamente come noumeno o prodotto della ragione. Per spiegare la relazione tra idee della ragione e idee dell’intelletto, Maimon si serve di altri due esempi. Il primo è quello della circonferenza, di cui i geometri hanno definito il metodo di costruzione, costituito dalla rotazione di una retta. Tenendo fermo un estremo, e facendo subire il movimento di rotazione all’estremo opposto sino alla chiusura della circonferenza, delimito un’area costituita da un’infinità di rette, che tuttavia non potrò mai presentare effettivamente alla mia intuizione. Questa completezza viene definita da Maimon una completezza di tipo materiale, ed esemplifica il concetto di idea dell’intelletto. Per illustrare il concetto di idea della ragione, egli ricorre invece al simbolo √2. Se cerco di rappresentare in termini numerici il significato di questo simbolo, mi trovo di fronte a un numero irrazionale. Il simbolo, in altri termini, risulta materialmente inesauribile, mostrando l’impossibilità, da parte dell’intelletto, di portarlo a ostensione completa, esponendo in maniera esaustiva la totalità degli elementi che lo compongono. La serie delle cifre rappresenta per Maimon l’idea dell’intelletto, nella misura in cui pone la facoltà conoscitiva umana di fronte alla propria incapacità di esporre in modo esauriente una totalità di tipo materiale; il simbolo √2 designa un’idea della ragione, nella misura in cui presenta come formalmente definita una totalità che materialmente risulta invece inesauribile. Lo scarto tra intelletto e ragione è dunque lo scarto tra un’idea che designa una totalità formalmente compiuta, e un’idea che nel tentativo di realizzarla materialmente, mostra questo compito come irrealizzabile. La sfasatura fra totalità in senso materiale (idea dell’intelletto) e totalità in senso formale (idea della ragione) non designa però soltanto uno scacco, poiché la contrario è la condizione per la produttività dell’intelletto. L’intelletto conosce effettivamente le proprietà del cerchio, poiché definisce la regola della sua effettiva costruzione; tuttavia, all’interno della regola si
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manifesta un’infinità di tipo materiale, che l’intelletto non potrà mai recare a presentazione completa. Se non fraintendiamo l’argomentazione di Maimon, la periferia del cerchio sarebbe dunque l’equivalente geometrico del simbolo algebrico √2; l’infinità materiale di rette che ne costituisce la superficie sarebbe invece l’equivalente della serie numerica che tenta di determinare il valore numerico di √2. Il rapporto fra questi esempi e la teoria del differenziale consisterebbe allora nel fatto che l’idea della ragione indicherebbe come risultato conseguibile l’esaurimento della serie (riduzione del triangolo a grandezza puramente intensiva, cioè a pura determinazione di rapporti tra lati e angoli), stimolando l’intelletto a realizzare siffatto obiettivo. Nella concreta operatività della facoltà conoscitiva, però, tale meta mostra di essere conseguibile soltanto per approssimazione: la distanza che separa il procedimento della riduzione dal suo definitivo completamento viene sì ridotta tendenzialmente a 0, ma resta pur sempre uno scarto, infinitamente piccolo, che il differenziale ha il compito di rappresentare sul piano simbolico. Tale discrepanza, tuttavia, non è letta da Maimon soltanto come scacco, bensì al contrario come condizione trascendentale per la produttività dell’intelletto. In altri termini, l’esercizio della facoltà conoscitiva umana trova nella sfasatura tra idee dell’intelletto e idee della ragione, tra totalità in senso materiale e totalità in senso formale, la condizione che ne premette un impiego creativo e originale. Proprio l’esempio del rapporto tra simbolo formalmente determinato √2, e serie materialmente infinita delle cifre che tendono a esaurirne la composizione materiale senza riuscirci, attesta che l’intelletto umano opera in rapporto all’idea della ragione intesa come noumeno irraggiungibile, e che la sua produttività è in relazione esattamente all’impossibilità di presentare esaustivamente l’idea formale, attraverso l’esposizione completa della sua componente materiale. 2. A confronto con Fichte e Hegel In questa combinazione, Maimon si dimostra pensatore originale, e non semplice precursore delle successive teorie che al riguardo verranno formulate da Fichte e da Hegel. Nel caso di Fichte, l’idea di approssimazione all’infinito, di provenienza maimoniana, viene integrata da una concezione più ampia, che concepisce l’approssimazione all’infinito come realizzazione effettiva dell’unità tra l’infinito come Idea e la finitezza della coscienza. Il carattere più conseguente della soluzione di Fichte, se valutata da un punto di vista trascendentale, sta nel fatto che il contrasto e l’unificazione tra io e non-io si producono all’interno della sfera della coscienza, in altri termini su di un piano di compiuta immanenza. In Maimon, ci sembra, l’unificazione tra finito e infinito avviene invece nella direzione opposta, poiché per lui si
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tratta di risalire all’indietro, almeno per quanto riguarda questo aspetto, da Kant a Leibniz. In questo senso, la teoria del differenziale viene descritta, nella sopra citata lettera a Kant, come un passo avanti nella soluzione della questione quid iuris? Essa può presentarsi come tale solo se concepita alla luce dell’integrazione dell’intelletto umano nell’intelletto divino, solo ripristinando, in altri termini, il presupposto metafisico dell’esistenza di Dio come intelletto infinito, del quale la facoltà conoscitiva umana costituisce la modalità di attuazione meramente finita. Certo, anche l’esistenza di Dio viene assunta, da Maimon, sotto riserva critica: è posta cioè come postulato reso necessario per la comprensione del rapporto tra forma categoriale e materiale empirico. Tuttavia, è proprio questa idea che si formula in termini di presupposizione difficilmente giustificabile in prospettiva trascendentale. Il supporre Dio come intelletto infinito, infatti, non basta a salvare questa supposizione da un’imputazione di dogmatismo, nella misura in cui essa pretende comunque di oltrepassare il piano concreto della coscienza finita, e lo fa tentando di collocare quest’ultima all’interno di un intelletto infinito, di cui d’altra parte, non senza tensioni aporetiche, si afferma il carattere meramente postulato o supposto. In Fichte, viceversa, è l’Io infinito a porsi nella coscienza come Idea. Non si tratta, in prospettiva storiografica, di dare ragione all’uno o all’altro, ma di porre in rilievo le differenze strutturali che contraddistinguono due possibili soluzioni a problematiche che traggono la loro origine comune dalla rivoluzione copernicana di Kant. Un discorso analogo può essere fatto rispetto a Hegel. La differenza qui è ancora più evidente. In Hegel, l’intelletto è facoltà di determinazione, che stabilizza il significato dei concetti basandosi sul principio d’identità logica A = A. Nella Prefazione alla Fenomenologia, Hegel riconosce proprio in questa operazione di delimitazione e fissazione la grandezza dell’intelletto, che egli definisce come “l’immane potenza del negativo” (Hegel 1980, p. 27; trad. it. p. 26). Si tratta quindi, anche per Hegel, di riconoscere all’intelletto una funzione produttiva, e questa produzione investe proprio la creazione del concetto. Questo concetto, però, mortifica immediatamente l’attività da cui scaturisce, poiché nasconde e immobilizza nel risultato il movimento genetico da cui emerge. In questo senso, la potenza sprigionata dall’intelletto, che addirittura in questo passaggio è identificato con “l’energia dell’Io puro” (Hegel 1980, p. 27; trad. it. p. 26), è anche espressione del suo limite invalicabile. La facoltà della ragione è chiamata a mobilitarsi proprio per fluidificare nuovamente ciò che l’intelletto ha permesso, ovvero l’innalzamento della coscienza alla dimensione dell’universale. L’universale dell’intelletto viene così riconvertito in movimento, processualità, divenire. Quel divenire fluente, che Maimon attribuisce all’intelletto, è dunque in
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Hegel proprio della ragione, nel suo duplice versante negativo-dialettico e positivo-speculativo. Anche dal punto di vista hegeliano, quindi, cessa la necessità d’ipotizzare l’esistenza di un intelletto infinito, rispetto al quale concepire l’intelletto umano come sua mera limitazione. Esso è senz’altro vincolato a un orizzonte di finitezza, ma quest’ultima è lavorata al proprio interno dall’erosione propria della ragione dialettica, che innalza le sue determinazioni all’altezza della contraddizione, e ancora più radicalmente dell’antinomia. Proprio nell’antinomia lo Hegel di Jena scorgeva l’espressione massima che l’intelletto poteva fornire alla verità speculativa, intesa come unità e transizione reciproca fra gli opposti (Hegel 1968, p. 26; trad. it. pp. 29 sg.). Nello Hegel maturo, l’antinomia diventa forma espressiva della ragione dialettica, che si attua come movimento capace di riassorbire i contraddittori e di unificarli in concetti di volta in volta più alti e più concreti. L’intelletto, come modalità finita di esercizio del conoscere, non ha dunque bisogno d’integrarsi ad un intelletto infinito come sua ennesima potenza, poiché la ragione che scaturisce dalle sue interne contraddizioni è essa stessa attuazione dell’assoluto, nell’immanenza del suo divenire. Di conseguenza, per esprimere la produttività del conoscere, non occorre più affidarsi al differenziale, cui Hegel del resto dedica un’ampia sezione nella sua Scienza della logica. Il differenziale è senz’altro espressione razionale dell’infinito, ma espressione ancora ristretta alla dimensione pre-riflessiva dell’essere. Il movimento speculativo, che Hegel identifica con l’attuazione della filosofia come scienza, e dunque con l’espressione effettuale del vero infinito, si può esplicare compiutamente solo all’altezza della logica del concetto. In questo senso, la dialettica hegeliana tra Darstellung e Vorstellung, nella soluzione della questione quid iuris?, procede in una direzione sensibilmente diversa da quella di Maimon. A quest’ultimo spetta senz’altro il merito di avere posto il problema della genesi delle sensazioni e dunque del materiale concreto del conoscere. È la problematica che in Lask, nel primo quindicennio del Novecento, assumerà la forma dell’irrazionale, inteso dal pensatore neokantiano come problema della genesi del contenuto della conoscenza dalle forme trascendentali della conoscenza stessa.4 La genesi del materiale, dell’empiria, della qualità, della sensazione: nella messa in luce di questo problema e del suo significato decisivo sta la grandezza di Maimon e la sua posizione di rilievo nella storia dell’idealismo tedesco. Maimon scopre una nuova problematica, costituita dall’interrogazione relativa alla genesi del materiale della conoscenza, e apre in questo senso davvero una nuova 4
Cfr. al riguardo Rametta 2002; Furlani 2012.
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strada alla ricerca del pensiero. Aperta questa via, tuttavia, egli non sembra volerla percorrere fino in fondo. La soluzione di Maimon al quid iuris? di Kant, infatti, tenta di recuperare istanze metafisiche di matrice leibniziana dopo la rivoluzione copernicana di Kant, e affida allo strumento matematico il compito di unificare intuizione e concetto in un’unica progressione della conoscenza, che dissolve senz’altro il dualismo kantiano tra intuizione e categoria, ma soltanto a prezzo di ricondurre la sensibilità a espressione opaca e imperfetta dell’intelletto. Ciò che resta fuori, in termini hegeliani, è proprio la ragione, che non a caso in Maimon resta vincolata, come in Kant, alla produzione di noumeni, lasciando all’intelletto il compito di approssimarsi indefinitamente alla loro presentazione completa. Tuttavia, proprio in virtù di questa impostazione, la teoria dell’intelletto costituisce un apporto originale di Maimon. Se da una parte, infatti, sembra esporsi alla stessa obiezione di “cattiva infinità” che Hegel aveva rivolto alle filosofie di Kant e Fichte; dall’altra, però, attribuendo all’intelletto una funzione creatrice nel senso che abbiamo cercato di determinare, gli conferisce una potenza dinamica che è assente non soltanto dalle funzioni che gli assegna Hegel, ma anche da quelle che appaiono ad esso proprie nella Grundlage di Fichte. Qui forse tocchiamo il punto decisivo, in cui la filosofia trascendentale si confronta con la problematica del reale. Ora, noi sappiamo quanto questo problema fosse importante per Maimon. Potremmo dire che uno dei principi fondamentali del suo pensiero, il celebre Grundsatz der Bestimmbarkeit, sia elaborato proprio per soddisfare l’esigenza di agganciare il pensiero alla realtà, costituendo una sorta di contrappeso all’elemento scettico, di matrice humeana, che rende impossibile dimostrare razionalmente l’effettiva esistenza di quest’ultima. Nella Grundlage di Fichte, il problema viene affrontato verso la fine della parte teoretica, attraverso la definizione dei rapporti sussistenti tra ragione, immaginazione e intelletto (cfr. Fichte 1965, pp. 373-375; trad. it. pp. 266-268). Per il pensatore di Rammenau, non si dà realtà senza determinazione, non si dà determinazione senza stabilizzazione dell’attività dell’immaginazione produttiva. Egli attribuisce a quest’ultima la funzione di produzione dell’esperienza, che Maimon attribuiva all’intelletto. Il carattere fluido e diveniente, che in Maimon spettava all’intelletto, viene dunque assegnato da Fichte all’immaginazione, la cui attività è contrassegnata da un’oscillazione che si libra tra soggetto e oggetto, nel momento però in cui questi ultimi sono ancora in condizione di mera potenzialità, potremmo dire in statu nascenti. Fichte non impiega la nozione del differenziale, ma la corrispondenza con la dottrina di Maimon sembra evidente. L’urto causato sull’io dal nonio suscita un sentimento di limitazione, che mette in moto il movimento
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oscillatorio dell’immaginazione, la quale produce, in questo suo librarsi, una prima differenziazione del soggetto dal suo sentimento di sé, distanziando dall’io una sfera apparentemente estranea, che egli proietta come oggetto opposto a sé. Qui sta la produttività dell’immaginazione, qui però sta anche l’evanescenza di questa produzione. Maimon aveva descritto l’Einbildungskraft come Erdichtungs-vermögen, laddove emerge il rischio di sbilanciare il concetto sul versante della parvenza e dell’illusione, piuttosto che su quello della produzione di realtà. Ma anche in Fichte, la produttività dell’immaginazione ha bisogno di un sostegno da parte delle altre due facoltà che l’accompagnano, cioè l’intelletto e la ragione, poiché essa non sarebbe in grado, da sola, di consolidare i suoi prodotti, di stabilizzare soggetto e oggetto, né di dare consistenza alle articolazioni che distribuiscono e differenziano un oggetto dall’altro. Per ciò fare, in effetti, è necessaria prima di tutto una facoltà che blocchi l’oscillazione altrimenti interminabile dell’Einbildungskraft. Ora, in radicale differenza da quanto sosterrà Hegel, questa capacità di “fissazione” e arresto del movimento oscillatorio dell’immaginazione è attribuita da Fichte alla ragione (Vernunft). Essa funge da facoltà determinante in rapporto a una sfera determinabile costituita dal librarsi fluttuante dell’immaginazione, ma da sola non basta. Infatti, continua Fichte, se c’è una sfera determinabile che la ragione ha il compito di determinare, siffatta attività di determinazione non sarebbe tale se non conducesse alla produzione di un elemento finalmente determinato, identificato cioè attraverso tratti caratteristici che ne contrassegnino il limite e con ciò stesso la differenza da altro. C’è dunque bisogno di una facoltà che “trattenga” il determinato, impedendo che esso si dissolva non appena è stato prodotto: e l’intelletto è proprio questa facoltà, che dando consistenza al determinato, istituisce per la prima volta la sfera propriamente detta del reale.5 Senza immaginazione produttiva, dunque, nessun campo d’immanenza su cui esercitare l’attività determinante della ragione; senza arresto operato dalla ragione sui flussi dell’immaginazione, d’altra parte, nessun esito possibile alla produttività dell’immaginazione. L’intelletto subentra a questo punto. Un prodotto senza durata, infatti, cesserebbe immediatamente di essere tale, scadrebbe nuovamente a fantasticheria, mero librarsi evanescente in immagini prive di consistenza: semplice Erdichtung, appunto. Perciò il determinato, in quanto prodotto di un’immaginazione bloccata dalla ragione, dev’essere fissato a sua volta in una facoltà, che Fichte designa appunto come intelletto. Bisogna dire: fissato “nell’intelletto”, e non come verrebbe 5 Scrive lapidariamente Fichte: “Solo nell’intelletto è realtà; esso è la facoltà di ciò che è effettivo” (Fichte 1965, p. 374; trad. it. p. 267).
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più spontaneo: “dall’intelletto”, perché Fichte è molto chiaro nel definire il Verstand come facoltà del tutto “inattiva” (unthätiges). Esso infatti è soltanto un “contenitore” (Behalter), la cui funzione è quella di stabilizzare il determinato, impedendo che esso venga nuovamente dissolto e volatilizzato in immagine priva di sostanza. Come si vede, il carattere radicalmente inattivo dell’intelletto contraddistingue la concezione di Fichte sia da quella di Maimon (dove l’intelletto assume la funzione produttiva riservata da Fichte all’immaginazione), sia da quella di Hegel (dove l’intelletto esprime “l’immane potenza del negativo” in quanto “energia dell’Io puro”). Viceversa per quanto attiene alla ragione, che assume in Fichte le funzioni che Hegel attribuiva all’intelletto in quanto facoltà di determinazione, e che Maimon attribuiva invece al suo “principio di determinabilità”. 3. Un nuovo principio Nel Versuch questa espressione, che Maimon impiegherà nella Logica del 1794, non compare ancora: al suo posto troviamo invece la formula: “legge del determinabile e della determinazione” (Maimon 2004, p. 144). Il concetto non è esattamente lo stesso, ma presenta già i suoi principali tratti distintivi, rispondenti alla necessità di distinguere la filosofia trascendentale dalla logica formale. Nella logica formale, il pensiero astrae da qualsiasi contenuto. Soggetto e predicato indicano delle caselle vuote, designano semplici posizioni, che possono essere occupate a piacimento da ogni termine. In questo senso, la logica considera il giudizio come una relazione puramente formale, che viene ritenuta valida purché rispetti il principio di noncontraddizione. Il limite della logica, dunque, è costituito dalla mancanza di necessità nella determinazione di che cosa, nel giudizio, possa fungere da soggetto o da predicato. La filosofia trascendentale, invece, si preoccupa di determinare che cosa, in un determinato giudizio, possa fungere da soggetto e da che cosa, invece, possa fungere solo da predicato. L’introduzione di una condizione di necessità, che metta il pensiero in grado di determinare effettivamente che cosa possa occupare l’una o l’altra posizione nel giudizio, rende inadeguate le categorie logiche di soggetto e predicato a designare i rapporti di cui si occupa il pensiero trascendentale, e ne impone la sostituzione con le categorie di sostanza e accidente. La sostanza viene a indicare il termine della relazione che può essere pensato anche indipendentemente dall’altro termine, con il quale nel giudizio viene posto in relazione; l’accidente invece designa il termine che non può essere concepito indipendentemente dalla relazione che lo vincola, nel giudizio, all’altro termine. Nell’esempio di Maimon, se dico “la foglia è verde”, sono costretto a pensare la foglia come sostanza determinabile, poiché essa può
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essere concepita anche indipendentemente dal suo essere verde, mentre viceversa il verde, in questo giudizio, non può essere concepito senza inerire alla foglia come sua proprietà (o determinazione), cioè in termini kantiani – e aristotelici – come suo accidente. Lo stesso vale per il rapporto che in un giudizio ipotetico viene instaurato tra condizione e condizionato. Il nesso indica una relazione di dipendenza tra due proposizioni, e stabilisce che la proposizione che esprime la condizione deve occupare la posizione di antecedente, mentre quella che esprime il condizionato deve occupare la posizione di conseguente, ma non determina quale debba essere stabilita come condizione ovvero antecedente, e dunque neppure quale debba essere posta come condizionata dalla prima ovvero conseguente. Nella filosofia trascendentale, invece, il problema è proprio di stabilire i criteri per determinare quale delle due proposizioni in gioco debba svolgere la funzione di antecedente, e quale invece quella di conseguente. Non si tratta più di una relazione puramente logica, ma di un rapporto che tenta di stabilire un nesso univocamente determinato di successione tra oggetti reali. Ecco perché ciò che la logica formale definisce con i concetti di premessa e conseguenza, diventa nella filosofia trascendentale la coppia categoriale di causa ed effetto. Qui però Maimon precisa che la realtà di cui si tratta è quella che spetta a oggetti soggettivamente percepiti, non quella che spetterebbe a oggetti di un’esperienza necessariamente e universalmente valida, cioè obiettiva in senso kantiano. Così, le categorie di sostanza e accidente svolgono un ruolo di condizionamento a priori, non in rapporto a un’esperienza presupposta come obiettivamente reale, bensì in rapporto alla possibilità di percepire un oggetto in generale. Allo stesso modo, la categoria di causa ed effetto svolge anch’essa una funzione di condizionamento a priori, ma non garantisce affatto l’oggettività dell’esperienza, bensì si limita a rendere possibile “la percezione di un cambiamento” per noi (Maimon 2004, p. 144). Rispetto alla “legge del determinabile e della determinazione”, non sembra che nel Versuch Maimon fosse già in possesso dell’idea, che costituisce il perno della sua Logica successiva, di derivare da essa la totalità delle categorie, – facendone il principio di una deduzione logico-trascendentale alternativa a quella che Fichte, contemporaneamente, stava tentando di realizzare nella Grundlage del 1794/95. Nel Versuch, il suo significato sembra limitato alla determinazione dei rapporti tra sostanza e accidente, che godono del resto di un privilegio particolare, nella misura in cui Maimon, come abbiamo appena visto, fa di essi la condizione per la percezione di un oggetto in generale. Al significato delle categorie di sostanza-accidente, causa-effetto, Maimon nel Versuch fa seguire una spiegazione sintetica delle differenze che separano la sua concezione delle categorie da quella di Kant (Maimon 2004,
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pp. 144 sg.). Mentre per quest’ultimo, infatti, le categorie sono “condizioni dell’esperienza (percezione obiettiva)”, per Maimon, che sulla scorta di Hume “mette in dubbio la realtà dell’esperienza”, esse costituiscono soltanto “le condizioni della percezione in generale”, perché di avere percezioni nessuno, a suo dire, potrà sensatamente dubitare. Da uno scetticismo di tipo humeano Maimon sembra procedere, in questo passo, a un idealismo psicologico di tipo berkeleyano, da cui proprio Kant aveva tenuto a smarcare la propria posizione nella Confutazione dell’idealismo inserita nella seconda edizione della Critica della ragion pura. Le conseguenze si fanno sentire, inevitabilmente, anche sulla concezione della causalità. Kant argomenta, nella ricostruzione di Maimon, in questi termini: come posso riconoscere, all’interno di una percezione, quali elementi corrispondono alla premessa di un giudizio ipotetico, e quali altri, invece, alla sua conseguenza? Perché questa conoscenza sia possibile, devo presupporre come soddisfatte due condizioni: la prima, è che tali elementi si trovino in un rapporto di successione “immediata”, senza richiedere membri intermedi che li colleghino reciprocamente; la seconda, è che tale successione avvenga secondo una regola, tale per cui l’elemento identificato come antecedente in senso logico preceda invariabilmente, nel tempo, l’elemento identificato, sul piano logico, come conseguente. Kant presuppone dunque: a) che si dia una successione; b) che tale successione sia universalmente e necessariamente determinata secondo un’unica direzione (da A verso B, e mai viceversa). Solo assumendo la validità di queste due condizioni è possibile attribuire ad A la funzione di causa e a B quella di suo effetto. Maimon dichiara di procedere in modo opposto, ma se osserviamo meglio la sua argomentazione, tale opposizione si riduce all’introduzione di un nuovo concetto, ancora una volta d’ispirazione leibniziana: il concetto di “uniformità” (Einerleiheit), che permette a Maimon di mettere in rapporto la nozione di causa e di effetto con quella di sostanza e accidente, così come la “regola” che determina in senso causale la successione tra due fenomeni con la “legge” che regola la relazione tra sostanza e accidente: Anche qui, dunque, come nel rapporto di sostanza e accidente (la legge del determinabile e della determinazione), si dà una regola del rapporto reciproco tra oggetti, per cui essi vengono posti nella relazione di causa ed effetto. Questa è che gli oggetti A e B, se devono stare nella relazione di causa ed effetto, debbano avere tra di loro la più grande uniformità possibile e la più piccola diversità possibile (Maimon 2004, p. 144).
A partire da questa concezione di fondo, Maimon segnala un’altra differenza con Kant, costituita dalla determinazione reciproca tra causa ed effetto. Kant aveva distinto le categorie di causa e di relazione reciproca, proprio perché il nesso di determinazione tra causa ed effetto, per avere effetti-
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va validità, poteva essere pensato soltanto in senso univoco e irreversibile: dalla causa all’effetto, e non viceversa. Quando Maimon applica la categoria di determinazione reciproca al nesso causale, invece, intende sottolineare l’impossibilità, finché si resta alla separazione kantiana tra sensibilità e intelletto, di applicare univocamente il nesso causale a fenomeni dell’intuizione. Di qui la sua proposta d’introdurre l’uniformità come criterio per determinare quale, tra due fenomeni in sequenza reciproca, svolga la funzione di causa e quale quella di effetto. D’altra parte, se l’uniformità costituisce una caratteristica fondamentale della nostra percezione, ciò significa che l’intelletto non può più essere pensato come separato dalla sensibilità, bensì al contrario, quella che in Kant era la sensibilità diventa una modalità operativa dell’intelletto stesso, che assimila i fenomeni all’interno di un generale principio di continuità (“Satz der Stetigkeit”, Maimon 2004, p. 81), e permette così il raccordo tra “legge del determinabile” (sostanza e accidente) e principio di uniformità (causa ed effetto). Il sensibile diventa forma mascherata dell’intelligibile, e lo sforzo conoscitivo dell’intelletto finito sta nel tradurre in nessi puramente intelligibili la trama variegata delle percezioni, attraverso l’impiego di una strategia epistemologica che fa leva sulla generalizzazione del differenziale a tutti i livelli dell’esperienza. Dal principio di continuità si procede dunque coerentemente, sul piano dei rapporti tra determinabile e determinato, all’Idea della determinazione completa della sostanza da parte delle sue proprietà; sul piano dei nessi causali, alla riduzione infinitesimale della separazione che ancora divide la causa dai suoi effetti, e costringe l’intelletto a piegarsi sotto il dominio figurale dell’immaginazione. È quest’ultima, infatti, che distende nel tempo relazioni che la mente aspira a conoscere come pure forme intellettuali, innalzando il divenire temporale all’istantaneità di un atto eterno. Dall’uniformità quanto più grande possibile, che per instaurarsi ha ancora bisogno di un frammento infinitesimo di tempo, alla sua folgorante istantaneità; dal lavoro conoscitivo della mente, che procede alla determinazione sempre più estesa della sostanza determinabile, all’idea della determinazione completa di quest’ultima, secondo il concetto razionalistico del divino come omnitudo realitatis; dalla comprensione dell’intelletto umano come sezione parziale dell’intelletto divino, alla progressiva approssimazione della mente finita alla perfezione compiuta di quella infinita: sono aspetti che si legano e s’intrecciano strettamente fra loro, e danno al pensiero di Maimon una coerenza sistematica che va ben al di là dell’appa-
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rente eclettismo, che la sua stessa definizione come Coalitionssystem lascerebbe supporre.6 Nella Logica del 1794 (cfr. Maimon 1912), come abbiamo anticipato, la “legge del determinabile e del determinato” diventa “principio di determinabilità”, e la validità di quest’ultimo si estende ben oltre il rapporto tra sostanza e accidente, venendo a configurarsi come principio per la deduzione delle categorie trascendentali. Qui Maimon distingue più precisamente tra queste ultime e le forme logiche propriamente dette: Le categorie sono i predicati elementari determinati a priori, o i predicati necessari di tutti gli oggetti reali. Al contrario, le forme non sono predicati, bensì soltanto modi possibili, determinati a priori, di enunciare predicati in generale di soggetti in generale (Maimon 1912, p. 134).
Il concetto di “forma logica” subentra dunque al concetto kantiano di giudizio, teoreticamente più ambiguo perché oscillante fra grammatica e logica. Il riferimento alla realtà costituisce la differenza fondamentale tra categorie e forme logiche, e comporta la necessità di riferire queste due diverse espressioni del pensiero a due principi differenti: La possibilità delle forme in riferimento a oggetti in generale riposa sul principio di contraddizione. La necessità delle categorie, in riferimento a oggetti reali in generale, riposa sul principio di determinabilità [Grundsatz der Bestimmbarkeit] (Maimon 1912, p. 134).
Nello sviluppo del ragionamento, Maimon illustra la sua concezione confrontando la forma logica espressa da un giudizio categorico con la categoria corrispondente, e insiste sul fatto che nel caso della prima non è possibile determinare lo statuto epistemologico del giudizio, proprio perché in essa si astrae da ogni determinazione contenutistica: la forma affermativa “a è b” è altrettanto categorica della forma infinita “a è – non b”, nella quale si asserisce la contraddittorietà di “a” non soltanto rispetto a “non b”, ma anche rispetto a “b”, poiché altrimenti il giudizio ricadrebbe nella precedente forma affermativa (“a è non b”). In questo modo, Maimon intende mostrare come, finché si resta sul piano meramente logico della forma, non sia possibile determinare la natura della relazione tra i due membri del giudizio, e dunque il significato conoscitivo di quest’ultimo. La forma categorica è infatti compatibile sia con un giudizio affermativo, che pretende di asserire qualcosa di oggettivamente valido in rapporto a enti reali, sia con un giudizio infinito, a cui spetta una validità puramente soggettiva, in quan-
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Per questa celebre auto-descrizione, cfr. Maimon 1965, p. 557.
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to si nega la pertinenza al soggetto del giudizio sia dell’attribuzione, sia della negazione di una determinata proprietà. Invece, la categoria corrispondente alla forma categorica, quella di sostanza e accidente, fornisce il fondamento mancante per l’attribuzione positiva di una determinata proprietà al soggetto del giudizio. Qui entra in gioco, come sappiamo dal Versuch, la “legge del determinabile”, che fa di “a” come sostanza il riferimento dell’attribuzione, e di “b” come accidente l’espressione di una sua proprietà. Ora c’è un criterio di decisione, proprio perché, ancora una volta secondo le linee tracciate nel Versuch, l’oggetto indicato come sostanza è pensabile indipendentemente dal rapporto in cui viene a trovarsi con un altro termine, mentre quest’ultimo, per essere pensato, dev’essere correlato o presupporre necessariamente il primo. Ecco che la categoria trascendentale di sostanza e accidente diventa il fondamento univoco di una determinata forma relazionale, espressa dal giudizio categorico affermativo. L’univocità di questa determinazione esprime dunque un nesso necessario tra categoria trascendentale e forma logica, e di conseguenza consente di determinare in senso obiettivo il contenuto epistemologico del giudizio. Di contro, l’assenza di una relazione di determinabilità fra due termini rende impossibile l’applicazione del nesso sostanza-accidente, e di conseguenza lascia campo libero all’immaginazione soggettiva, nella misura in cui quest’ultima può arbitrariamente congiungere qualunque predicato a qualunque soggetto. In questo caso, è l’assenza della categoria a determinare la forma logica come infinita, e ad impedire al discorso di rivestire un qualunque significato conoscitivo. Così Maimon cerca di separare senso e non-senso: nulla mi vieta di collegare nell’immaginazione il concetto di quadrato col concetto di virtù, ma difficilmente potrò attribuire un significato pertinente al concetto di “quadrato virtuoso” o di “virtù quadrata”. Evidentemente, qui si apre la strada a un compito gigantesco, quello della costruzione di una dottrina dei tipi categoriali, che avrebbe il compito di determinare il confine tra classi di attribuzioni pertinenti e non-pertinenti: una logica dei predicati come tipi logici, che per es. escluda dalla classe dei predicati pertinenti in geometria l’attribuzione di qualità morali a determinate configurazioni dello spazio, o da quelle pertinenti in etica la correlazione tra specifiche virtù morali e determinate figure geometriche. Qui si apre il campo all’idea di una serie di ontologie regionali, coordinate sulla base di una ‘scienza di tutte le scienze’, alla quale Husserl aveva pensato in una certa fase del suo pensiero.7 Tornando però più vicini al testo che stiamo commentando, colpisce da una parte l’insistenza su di un vocabolario di tipo realistico, che almeno in 7
Cfr. al riguardo i recenti Aurora 2017; Settura 2018.
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questo contesto mette da parte le riserve di ordine scettico ampiamente operanti nel Versuch, dove le categorie erano limitate alla messa in forma di rapporti operanti sul piano della mera percezione; dall’altra, l’estensione della validità del “principio di determinabilità” all’intero orizzonte categoriale, non solo nel senso estensivo di regola che presiede all’intero ambito delle categorie, ma ancora più radicalmente nel senso che Maimon attribuisce esplicitamente a siffatto principio il compito di fungere da fondamento a partire dal quale dedurre le categorie trascendentali nella loro totalità: Il principio di determinabilità (nei giudizi categorici) si riferisce al contenuto, e si può esprimere mediante “a è b”, che, se “a” designa il determinabile e “b” la determinazione, significa la possibile determinabilità di “a” da parte di “b”. Se invece “a” designa la determinazione o il determinato, e “b” il determinabile, allora esso significa la necessaria pensabilità di “a” in quanto “b”, perché la determinazione o il determinato non può essere pensato senza il determinabile. Dunque, i predicati elementari di tutti gli oggetti reali (da determinare secondo il rapporto di determinabilità), dati a priori alla facoltà conoscitiva, devono essere derivati e resi completi soltanto dal principio di determinabilità, e si chiamano quindi categorie (Maimon 1912, pp. 135-136).
Le categorie permettono al pensiero di prefigurare i rapporti operanti sul piano del reale, poiché costituiscono le determinazioni trascendentali in base alle quali non tanto un molteplice in generale, bensì un molteplice concretamente determinato può essere dato in riferimento a una coscienza in generale. Viceversa, una coscienza in generale può stabilire un’effettiva relazione a un dato molteplice, solo nella misura in cui trova nelle categorie i tipi trascendentali che rendono di volta in volta determinato il suo riferimento a un siffatto molteplice. Le categorie costituiscono dunque le strutture o i modelli di riferimento universalmente validi, che permettono alla coscienza di riferirsi a priori ad oggetti reali. Il principio di determinabilità, che permette di stabilire quali predicati possano essere attribuiti o negati sensatamente a determinate classi di oggetti, dev’essere dunque posto alla base della deduzione delle categorie, perché queste ultime non sono soltanto forme di pensabilità per un oggetto in generale, bensì le effettive modalità con le quali il pensiero afferra un oggetto reale.8 Il concetto di oggetto 8
Per esempio: è il concetto di “triangolo rettangolo” che rende possibile il giudizio “questo triangolo è un triangolo rettangolo”, perché in quel concetto una proprietà pertinente (“rettangolo”) è stata attribuita a un oggetto (“triangolo”) pensabile anche senza di essa (come “isoscele, scaleno, equilatero”), mentre il contrario non sarebbe stato possibile (non posso pensare un “triangolo rettangolo” senza pensare un “triangolo”). Ma la formazione di quel concetto dipende, a sua volta, dall’applicazione corretta del “ principio di determinabilità”, che permette di definire la componente “triangolo” come “determinabile” rispetto a una certa classe di proprietà, di cui la componente “rettangolo” fa parte come sua possibile “determinazione”. La componente “triangolo” appare dunque come variabile indipendente rispetto alle
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reale deve precedere il concetto di oggetto in generale, e come il principio di determinabilità dev’essere posto alla base della deduzione delle categorie, così le categorie devono essere poste alla base per la deduzione delle forme di pensiero. Kant ha adottato il metodo inverso, cercando di derivare le categorie trascendentali dalle forme logiche. Per Maimon, egli ha fatto un notevole passo avanti rispetto ad Aristotele, che nella ricerca delle categorie aveva proceduto in maniera “rapsodica”. Ponendo come base per la sua deduzione la tavola dei giudizi stabilita dalla logica formale, Kant ha comunque scoperto un principio che gli ha permesso di procedere metodicamente, e non più soltanto in modo più o meno casuale. Tuttavia, il principio di Kant era un principio puramente formale, rispetto al quale Maimon evidenzia tre problemi (cfr. Maimon 1912, pp. 137 sg.). Il primo riguarda il principio di contraddizione, che è in grado di stabilire negativamente che cosa impedisce la pensabilità di un oggetto in generale, ma non è in grado di stabilire positivamente il fondamento di pensabilità di un oggetto reale. Il secondo riguarda la completezza di tali forme, poiché nulla impedisce che possano esistere altre e diverse forme logiche, oltre quelle codificate dai logici e utilizzate da Kant, le quali pure rispettino il principio di contraddizione. Infine, resta indeterminato il significato che a tali forme spetta in rapporto al pensiero di un oggetto determinato in generale. L’esempio dell’affermazione e della negazione è utilizzato da Maimon per mostrare ancora una volta come il significato della forma presupponga l’uso di una categoria, e il concetto di oggetto in generale presupponga il pensiero effettivo di un oggetto reale: Affermazione significa una concordanza tra soggetto e predicato, e negazione mancanza di questa concordanza, da cui si vede che la realtà e la negazione logiche (affermazione e negazione) presuppongono quelle trascendentali (qualcosa o niente), senza di cui esse non hanno alcun significato. Dunque ben lungi dal porre le forme logiche a fondamento delle categorie, piuttosto queste ultime devono essere poste a fondamento di quelle (Maimon 1912, p. 138).9
sue proprietà, cioè come “sostanza”; mentre la componente “rettangolo” appare come variabile dipendente dall’oggetto che qualifica, cioè come suo “accidente”. Il nesso tra sostanza e accidente è quindi alla base del concetto di “triangolo rettangolo”, che in quanto concetto di un oggetto reale (in senso geometrico) sta alla base del rapporto tra soggetto e predicato nel giudizio affermativo: “questo triangolo è un triangolo rettangolo”. La categoria trascendentale (sostanza e accidente) è il fondamento di derivazione della forma di pensiero (nel nostro caso, il giudizio assertorio come relazione tra un soggetto e un predicato). 9 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, 1. Auflage (1781): “Realität ist Etwas, Negation ist Nichts” (Kant 1903/1911, Bd. IV, p. 186); stessa affermazione in 2. Auflage (1787) (Kant 1904/1911, Bd. III, p. 232; trad. it. vol. I, p. 281).
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Il principio di determinabilità comporta il primato della categoria di sostanza e accidente, e mette in evidenza un ulteriore elemento del pensiero di Maimon, costituito dalla logica e dalla metafisica di Aristotele. Da questo secondo punto di vista, l’influsso dello stagirita è mediato da quello di Maimonide, e trova la sua espressione più importante nella concezione dell’intelletto divino come unità di intellectus, ens intelligens ed ens intelligibile. A partire da questa concezione, infatti, Maimon può mettere in dubbio la separazione kantiana tra intelletto e sensibilità, facendo di quelle che in Kant sono le forme a priori dell’intuizione dei semplici prodotti dell’immaginazione, che interviene in questo modo a rimediare alle deficienze dell’intelletto. Attraverso i concetti formati da esso, infatti, noi non riusciremmo a cogliere ciò che determina l’individualità di un oggetto appartenente alla stessa classe di un altro (per es. due gocce d’acqua): collocando gli oggetti l’uno al di fuori dell’altro (nello spazio) e l’uno dopo l’altro (nel tempo), l’immaginazione ci permette di distinguere l’uno dall’altro, e di separare ciò che l’intelletto finito non saprebbe determinare come differente. In questo senso, l’ontologia di Maimon pone a suo principio fondamentale l’idea di diversità, e non più quella dell’affezione proveniente da una materia esterna alla coscienza.10 Se dunque lo spazio e il tempo sono prodotti dell’immaginazione in quanto facoltà poietica di figurazione (Erdichtungsvermögen), la correlazione tra dimensione metafisica e dimensione conoscitiva diventa inevitabile. Nel momento in cui l’intelletto finito dell’uomo è distinto dall’intelletto divino non per natura, ma per grado, e l’intelletto umano è una sezione limitata, e quindi imperfetta, dell’intelletto assolutamente perfetto, diventa possibile mettere in dubbio la distinzione kantiana tra giudizi sintetici e giudizi analitici.11 Ciò che Kant descrive come giudizio sintetico a priori nel caso dell’aritmetica e della geometria, dev’essere concepito come tale solo dal punto di vista dell’intelletto umano, mentre per l’intelletto divino esso sarebbe un giudizio esclusivamente analitico.12 La correlazione fra i concetti 10 “Alla base dell’individuazione […] non c’è il principio di identità, ma la differenza. È solo grazie all’insieme di varie relazioni, e non all’identità delle cose con se stesse, se riusciamo a distinguere gli oggetti gli uni dagli altri: la distinzione tra oggetti molteplici ha la sua radice nella forma originaria della diversità” (Valpione 2012, p. 33). 11 Ricordiamo che la distinzione tra principi analitici e sintetici, assieme alla realtà da attribuire a questi ultimi, era la prima delle questioni elencate da Maimon nella lettera a Kant sopra citata. 12 Sulla filosofia della matematica in Maimon, e sul suo rapporto con la distinzione kantiana tra giudizi sintetici e analitici, cfr. Atlas 1964, pp. 219-248; Zac 1988, pp. 77-89; Lachterman 1992; Buzaglo 2002; Freudenthal 2006.
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in gioco, che per Maimon non può mai mancare dell’aspetto analitico in quanto espressione di necessità logica, per noi dipende da una costruzione sintetica nel tempo o nello spazio, mentre dall’intelletto divino verrebbe immediatamente intuita nell’evidenza della loro implicazione necessaria, e dunque risulterebbe puramente analitica. In questo modo, però, anche la realtà dei giudizi sintetici a priori diventa incerta: se infatti essi comportano l’applicazione delle categorie all’intuizione pura del tempo, emergono per Maimon due dubbi, ai quali Kant non è in grado di rispondere. Il primo riguarda l’eterogeneità tra intuizione e categoria: anche se la dottrina dello schematismo ha come suo compito proprio quello di mediare tra le due facoltà differenti dell’intelletto e della sensibilità, tale compito risulta impossibile, poiché per esempio, nel caso della causalità, il rapporto di successione schematizzato dall’immaginazione non rende ancora applicabile la categoria a oggetti determinati nello spazio, cioè non permette di identificare quale di due oggetti in correlazione reciproca debba fungere da causa, e quale invece debba fungere da effetto. Perciò, dalla critica della realtà dei giudizi sintetici, Maimon può passare a un’obiezione più generale, applicando a Kant il dubbio di Hume sulla realtà dell’esperienza. Se la teoria kantiana dei giudizi sintetici non è in grado di mediare fra intuizione e sensibilità neppure mediante la dottrina dello schematismo, poiché non è in grado di giustificare l’applicazione della categoria non tanto alla forma pura del tempo, quanto ad oggetti individualmente determinati nella percezione concreta, allora diventa legittimo ribadire il dubbio humeano, e ricercare una nuova risposta al problema del quid iuris. La domanda sulla legittimità si converte nella ricerca di un nuovo modello esplicativo, in grado di superare l’eterogeneità tra sensibilità e intelletto, attraverso la teoria dei rapporto tra intelletto divino e intelletto umano, che Maimon cerca di articolare nel senso sopra determinato, utilizzando la teoria del differenziale come procedimento operativo di produzione dell’esperienza e riduzione progressiva di ciò che alla coscienza appare come dato in prodotto dell’intelletto, cioè in conoscenza delle relazioni che ne stanno alla base e presiedono alla sua genesi. Se accettiamo questa soluzione, la questione della legittimità nell’uso delle categorie non si pone più, poiché non si pone più il problema da cui essa sorgeva, costituito dalla necessità di trovare un rapporto tra oggetti dell’esperienza e categorie. La teoria metafisica dell’intelletto infinito comporta dunque il dissolversi della problematica gnoseologica di matrice kantiana, che il “cinese di Königsberg” esprimeva nella questione: quid iuris? La chiarificazione della questione alla luce della teoria del differenziale, come modalità operativa di risoluzione del dato empirico nelle relazioni che ne costituiscono la struttura e identificano, in pari tempo, la regola che governa il processo della sua concreta produzione, svuota di senso
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la domanda critica sulla legittimità nell’uso delle categorie, perché viene a cadere la differenza stessa tra il diritto e il fatto: il fatto diventa infatti risultato geneticamente derivabile dall’attività conoscitiva dell’intelletto, nella sua capacità di ricondurlo alla pluralità delle relazioni che lo istituiscono. Così il differenziale, come espressione dei rapporti tra gli elementi costitutivi del dato, può essere determinato da Maimon come grandezza intensiva, definito cioè sul piano puramente intellettuale della relazione tra componenti ideali, di cui l’esempio forse più eclatante – come abbiamo visto – è quello costituito dal triangolo che dissolve progressivamente la sua grandezza, sino a porre le sue dimensioni tendenzialmente = 0, pur mantenendo inalterati i rapporti e le proporzioni sussistenti fra suoi angoli e i suoi lati. La struttura resta invariante, si decanta dal rivestimento spaziale che la rappresenta come grandezza estensiva, e si espone in termini puramente concettuali, differenziali o “intensivi”. L’estensivo diventa dunque la maschera espressiva dell’intensivo, mentre il coglimento dell’intensivo come nucleo genetico del dato è l’obiettivo cui tende l’intelletto umano, approssimandosi indefinitamente alla perfezione assoluta dell’intelletto divino. La dottrina kantiana dell’intelletto archetipo o intuitivo viene dunque rivolta contro il suo stesso creatore, e diventa la leva a partire da cui sovvertire il sistema della filosofia critica, sostituendolo con un sistema dall’apparenza eclettica, ma dalla sostanza concettuale solidissima, proprio nella misura in cui non è un sistema nel senso dell’architettonica kantiana, ma viene orgogliosamente ribattezzato da Maimon come un “non-sistema” (Nichtsystem, Maimon 2004, p. 236). 4. Postilla breve. Maimon a Vincennes Il principio di determinabilità non è importante solo per comprendere la filosofia di Maimon e la funzione che essa ha assunto nello sviluppo dell’idealismo tedesco, ma anche perché permette di misurare, secondo un parametro teoreticamente definito, l’influsso che essa ha esercitato sulla filosofia della differenza novecentesca. Fin troppo facile risulta l’accostamento a Deleuze, che però non si limita alla generica affinità nella concezione del differenziale, nella messa in questione della genesi qualitativa della sensazione, nella funzione della sensibilità per la costituzione dell’empirismo trascendentale.13 Nel principio di determinabilità è possibile rintracciare la matrice logica del rapporto tra i due pensatori, e al tempo stesso il criterio per misurare lo scarto che li separa. In Maimon, il principio di determinabilità è radicato ancora in una logica di tipo aristotelico, che riconosce il pri13
Ho cercato di dare qualche indicazione al riguardo in Rametta 2008.
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mato delle categorie di sostanza e accidente.14 Certo, come abbiamo visto, entrambe vengono fortemente riconfigurate in relazione al principio di continuità, che permette di collegare la categoria di sostanza e accidente (percezione di oggetti in generale) con quella di causa e di effetto (percezione del cambiamento). Però, resta il fatto che in Maimon la cornice di funzionamento del principio di determinabilità, e la sua stessa posizione di fondamento per la deduzione dell’insieme delle categorie, è innestata sul primato della categoria di sostanza. In Deleuze, invece, troviamo un’operazione più complessa, nel senso che i rapporti fra indeterminato, determinabilità e determinazione vengono impiegati, da una parte, per interpretare la logica aristotelica come griglia concettuale, destinata alla fondazione di una concezione dell’essere nel senso della rappresentazione e dell’analogia entis.15 D’altra parte, e simultaneamente, Maimon viene impiegato per introdurre ad un’altra lettura di questo plesso concettuale, nella misura in cui è inserito all’interno di una filosofia del differenziale, che per Deleuze ha il compito di scardinare il primato della concezione rappresentativo-analogica, e di portare alla confluenza fra dottrina dell’univocità e filosofia della differenza (cfr. Deleuze 1997, pp. 222-229).16 Mentre in Maimon, insomma, la concezione del differenziale tenta di coniugare il primato della categoria di sostanza di matrice aristotelica col principio di determinabilità, letto a sua volta come espressione di un principio ontologico di continuità d’ispirazione leibniziana, per Deleuze la concezione del differenziale permette a Maimon di smantellare la logica aristotelica, correlata al primato della sostanza e dell’analogia, in direzione di una teoria dell’univocità che permetterebbe anche, se adeguatamente sviluppata, di comprendere l’inestricabilità del nesso fra differenza e ripetizione. La relazione fra Idea e differenziale si può tradurre così nella nuova coppia “virtuale-attuale”, che troverebbe anch’essa la sua prefigurazione nel pensiero di Maimon. Con la differenza, altamente significativa benché sottaciuta da Deleuze, che in Maimon il rapporto tra continuità, Idea e relazione differenziale è inserito in un contesto di continuità con la grande tradizione me14 Si ricordi che nello stesso anno della Logica, Maimon aveva tradotto e commentato il primo trattato dell’Organon aristotelico (cfr. Maimon 1971). 15 Cfr. Deleuze 1997, p. 45: “L’elemento della rappresentazione come ‘ragione’ ha quattro aspetti principali: l’identità nella forma del concetto indeterminato, l’analogia nel rapporto tra concetti determinabili ultimi, l’opposizione nel rapporto delle determinazioni all’interno del concetto, la somiglianza nell’oggetto determinato del concetto stesso”; e p. 180: “La rappresentazione si definisce per taluni elementi: l’identità nel concetto, l’opposizione nella determinazione del concetto, l’analogia nel giudizio, la somiglianza nell’oggetto”. 16 Per la lettura di Deleuze, un’importanza fondamentale ebbe Guéroult 1929; per contributi più recenti, cfr. Smith 2010; Duffy 2014.
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tafisica di matrice aristotelica che culmina in Leibniz, mentre Deleuze vuole fare esattamente il contrario, cioè scindere una volta per tutte determinazione analogica e determinabilità differenziale, tradizione aristotelica e dottrina dell’univocità, in una parola: Kant e Hegel da Spinoza e Nietzsche. Un’altra storia, insomma, da sviluppare senz’altro in un’altra serie di pensieri e di testi. Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata Università di Padova, Italia E-mail: [email protected]
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Lidia Gasperoni
Immaginare approssimando. L’(im)possibilità di un’estetica nella filosofia di Salomon Maimon
Abstract: Imagination as Approximation. The (Im)possibility of an Aesthetics in Salomon Maimon’s Philosophy Starting from the reconstruction of Salomon Maimon’s theory of knowledge, this paper intends to investigate the possibility of developing an aesthetics from it. This question emerges from an internal tension in Maimon’s philosophy between, on the one hand, a generative vision of imagination, language and fiction and, on the other hand, a rational dogmatism and empirical skepticism that anchor his theory of knowledge to the idea of an infinite intellect. In the first part of the paper Maimon’s theory of knowledge will be investigated, regarding in particular the distinction between ideas of intellect and ideas of reason. In the second part the role of imagination and symbolic knowledge will be explained according to the possibility of an aesthetics within it. Keywords: Aesthetics, Imagination, Fiction, Symbolic Language, Rationalism.
È possibile pensare l’estetica o un’estetica a partire dalla filosofia di Salomon Maimon? Acuto lettore e revisore della filosofia kantiana, pensatore di analogie e differenze tra tradizioni intellettuali e religiose in cambiamento, Maimon ha elaborato un proprio pensiero filosofico caratterizzato da una cesura interna: se da un lato egli difende nella sua teoria della conoscenza il valore genetico dell’immaginazione e dei processi simbolici, dall’altro egli sembra non poter rinunciare al valore ideale della conoscenza stessa, di modo che essa si relazioni sempre per approssimazione a un’entità infinita, la quale costituirebbe quindi la misura di tutti i pensieri e, in senso ontologico, di tutte le cose. Questa cesura segna anche l’interpretazione maimoniana della filosofia kantiana: se da un lato Maimon, in modo analogo alle critiche mosse da Hamann e Herder al filosofo di Königsberg, estende la teoria della conoscenza fino a inglobare questioni più strettamente semiotiche, simboliche e linguistiche, dall’altro lato sembra difendere una visione prekantiana della conoscenza, ancora legata a un dogmatismo razionale e a uno scetticismo empirico. Così facendo, Maimon tende a limare proprio quegli aspetti di mediazione schematica e rappresentazionale, fondata nel sensibile, cui Kant aveva dedicato la prima parte della Critica della
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ragione pura. Proprio questi aspetti, seppur oggetto di critiche, fonderanno i tentativi metacritici herderiani nel senso di una morfogenetica del sapere. Quest’architettonica teorica sembra dunque essere costituita da due spinte diverse e ad un primo sguardo contraddittorie, che si intersecano nella questione della possibilità di una teoria estetica nel pensiero di Maimon. Queste due tendenze – l’una definita d’ora in poi come genetica, l’altra come razionalista – trovano un riscontro anche in due posizioni filosofiche a noi più vicine. La prima è quella di Gilles Deleuze, che nel saggio L’idea della genesi nell’estetica di Kant (Deleuze 1963) sottolinea l’importanza delle critiche sia di Maimon che di Fichte, rivolte a porre l’attenzione di Kant sul valore soggettivo e oggettivo della genesi; critica che trova riscontro nei temi e nel metodo proposti da Kant nella Critica della facoltà di giudizio.1 In una visione genetica, la facoltà dell’immaginazione non è la facoltà della pura mediazione tra sensibilità e intelletto, ma la facoltà che nella mediazione si fa processo di costituzione. Questo senso costitutivo dell’immaginazione è altresì un cardine portante dell’architettonica maimoniana, nota per rivalutare e introdurre a pieno titolo la nozione di finzione come parte della genesi del concetto filosofico, ispirando tra gli altri le teorie di Hans Vaihinger (1913). Dall’altro lato il valore genetico dei processi finzionali, connessi alla facoltà dell’immaginazione, non si sviluppa nella direzione di un’introduzione radicale dei processi linguistici ed espressivi, che saranno alla base dell’estetica herderiana e della filosofia del linguaggio humboldtiana, quali condizioni di possibilità della costituzione della finzione, ma nella direzione di un razionalismo concettuale in cui il fondamento della conoscenza è costituito da un’entità ideale. Se a partire da questo razionalismo sia possibile parlare di “estetica” in Maimon è la materia trattata in questo articolo. Si tratta al contempo di una questione posta da Hans Blumenberg nel suo saggio Wirklichkeit und Möglichkeit des Romans (Blumenberg 1969, p. 19), trattazione sistematica del concetto di finzione nell’estetica letteraria. Riferendosi al razionalismo di Cartesio, Blumenberg nota come questi elabori una teoria della finzione ancora legata a un’entità esterna, come Dio, garante del valore conoscitivo degli enti e fatti finzionali. La funzione di una terza istanza depotenzia il valore genetico, costitutivo dell’atto finzionale, che viene così declassato a pura chimera soggettiva la cui realtà non è determinabile nell’atto espressivo. In questo senso l’atto finzionale non inaugura una nuova conoscenza, ma ha una funzione solo accessoria, da dirimere nei suoi elementi essenziali, di natura concettuale, al fine di costituire atto di conoscenza. La finzione in una prospettiva di razionalismo concettuale 1
Per un confronto più accurato tra Maimon e Deleuze si veda Voss 2015, pp. 60-84.
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è ridotta dunque a una sorta di composizione di elementi primari, come nel caso di Pegaso o della pratica pittorica basata sull’elemento primario del colore. Senza soffermarci ulteriormente su questo tema, riguardante in generale la teoria della finzione,2 è importante notare che proprio a causa della relazione di dipendenza conoscitiva tra l’atto finzionale, come atto espressivo sensibile, e l’entità ideale, garante del contenuto concettuale dell’atto finzionale, Blumenberg sottolinea come dal pensiero cartesiano non sia derivata alcuna estetica. Il tentativo di rinvenire la possibilità teorica di sviluppare un’estetica a partire dal razionalismo di Maimon si fonda proprio sulla possibilità di distinguere quest’ultimo – definito dall’autore stesso come “dogmatico” – rispetto al razionalismo cartesiano. Tale questione concerne, in conclusione, da un alto il valore genetico dell’immaginazione e dei processi simbolico-linguistici, dall’altro il valore conoscitivo dei processi stessi riflettendo sulle implicazioni derivanti dalla correlazione o dipendenza tra questi processi e un’entità ideale. In tal senso la dimensione estetica non s’intende qui come un ambito delimitato, oggetto di una disciplina filosofica specifica come la teoria dell’arte o la dottrina del giudizio estetico. Piuttosto, in questo saggio il dominio dell’estetico riguarda la congiunzione tra realtà e rappresentazione, ripensata a partire da una concezione della sensibilità e della razionalità che riformula la teoria della conoscenza nei termini di una teoria della costituzione sensibile del percetto e del percettibile. Per comprendere il valore genetico della filosofia di Salomon Maimon è necessario indagare la sua architettonica trascendentale, in primo luogo la definizione delle idee, il procedimento dell’approssimazione e il ruolo in essa svolto dall’immaginazione. L’approssimazione risulterà invero quella struttura trascendentale che determina la relazione tra la ragione e l’immaginazione. In secondo luogo sarà indagata la sua teoria della conoscenza simbolica, la funzione svolta in essa dalla teoria dei segni e infine l’estetica derivante da tale assetto teorico. 1. La formazione delle “idee” Maimon sviluppa la propria concezione delle idee a partire da due questioni principali: la possibilità della loro completezza, materiale o formale, e il procedimento di un’approssimazione infinita. In primo luogo egli ritiene che una conoscenza completa, sull’esempio della costruzione matematica, sia possibile. In secondo luogo definisce il procedimento alla base di questo completamento come un’approssimazione infinitamente piccola. Maimon 2
Si veda al riguardo Gasperoni 2018, p. 164.
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sembra quindi sostenere in apparenza due tesi contraddittorie: da un lato afferma, infatti, la possibilità di una completezza della conoscenza, dall’altro invece ne nega il raggiungimento. Più che di una contraddizione si tratta in questo caso di un’antinomia, riconosciuta da Maimon quale fondante il pensiero stesso.3 Egli caratterizza quest’antinomia generale del pensiero come generata da una tensione tra la determinazione del pensiero stesso e la possibilità di una sua completezza effettiva. Per Maimon, quest’antinomia è fondante, in particolar modo poiché viene ritenuta alla base di diverse discipline, come la fisica e la matematica, che impiegano concetti, anche se “incompleti”, per fondare sistemi teorici. In questo modo Maimon intende estendere la sfera delle idee e delle antinomie loro corrispondenti: Io invece estendo molto di più la sfera delle idee e delle antinomie da esse derivanti: infatti, affermo che esse non ricorrono solo nella metafisica bensì anche nella fisica e addirittura nella scienza più evidente come la matematica e ritengo quindi che le antinomie richiedano una definizione molto più generale (VT, p. 126).4
Maimon ritiene che tale carattere antinomico del pensiero sia insuperabile e che proprio a partire da esso si comprenda l’importanza trascendentale della conoscenza simbolica e del linguaggio in filosofia. Si badi bene che questa riflessione trascendentale è già contenuta nel Versuch ed è quindi antecedente alla pubblicazione della Critica della facoltà di giudizio, in cui Kant definirà l’antinomia del giudizio estetico e il ruolo in essa svolto dalle espressioni metaforiche. Maimon estende il carattere antinomico a tutti gli ambiti del sapere. Nel linguaggio, infatti, s’impiegano concetti che, seppure non completamente determinati dal punto di vista analitico, permettono la comprensione e lo sviluppo di sistemi teorici. Ad esempio in matematica, nel caso della radice irrazionale, l’impossibilità dimostrata di raggiungere un numero finito come risultato viene espressa, e in un certo senso superata, da un simbolo impiegato per risolvere calcoli matematici complessi. In questo senso Maimon pone l’accento su quel potere costruttivo e costitutivo dell’immaginazione, anche nella sua veste simbolica, che sarà motivo ripre3 Samuel Atlas (1964, p. 217) rintraccia al riguardo un’analogia tra la prospettiva maimoniana e quella hegeliana nel definire il carattere antinomico del pensiero: “Secondo Hegel, la realtà come il pensiero sono soggetti di un processo dialettico la cui essenza consiste nel riconciliare le contraddizioni in una sintesi. La vera natura del pensiero come sintesi richiede due elementi opposti, vale a dire una contraddizione, un’antinomia, quale il materiale necessario del processo di sintesi. Il concetto di sintesi è dunque mutato: non si tratta più di una sintesi del molteplice, come in Kant, ma una sintesi degli opposti […] Questo non significa che Hegel fosse a conoscenza della concezione maimoniana delle antinomie. Noi intendiamo solamente rilevare le diverse fasi nello sviluppo della dottrina delle antinomie dal metodo critico di Kant sino alla costruzione speculativo-dogmatica di Hegel”. 4 Le traduzioni italiane sono dell’autrice.
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so sia da Fichte sia da Schelling. Senza giungere direttamente al valore costitutivo dei processi simbolici, è bene analizzare brevemente la teoria della conoscenza di Maimon. Maimon distingue tra idee dell’intelletto e idee della ragione secondo il ruolo che esse rivestono nella completezza di un concetto. Il procedimento caratterizzante le idee della ragione è quello di una costante approssimazione (Näherung). Anche Kant nella Critica della ragion pura associa la nozione di ciò che è “solo” un’idea al procedimento dell’approssimazione (KrV, B 384). Secondo Maimon questo procedimento si differenzia a seconda che si tratti di idee dell’intelletto e della ragione. Egli dedica a questa distinzione il terzo paragrafo del Versuch über die Transzendentalphilosophie. Le idee dell’intelletto realizzano una completezza di tipo materiale che non può essere risolta nell’intuizione: “La completezza materiale di un concetto, ove questa completezza non possa essere data nell’intuizione, è un’idea dell’intelletto” (VT, p. 46). Esempio di questo tipo di idee è quello di un numero infinito di linee che possono essere tracciate partendo da un punto e che formano idealmente un cerchio. La possibilità di questa regola può essere mostrata nell’intuizione attraverso il movimento di una linea e il punto dato. Anche la completezza formale come unità del molteplice può essere raggiunta. Ciò che non può esser dato nell’intuizione è la completezza materiale, perché non possono essere tracciate infinite linee. La completezza materiale costituisce quindi un’idea dell’intelletto, giacché è raggiunta da esso per approssimazione attraverso la ripetizione di linee finite; la completezza materiale dipende dalla ripetizione della regola. Esse [le idee dell’intelletto] necessitano solamente per la completezza materiale di una ripetizione costante proprio di queste regole. Ma poiché questa ripetizione, secondo le sue condizioni, deve essere infinita, esse rimangono mere idee, hanno rispetto al grado della loro completezza materiale lo stesso identico grado di correttezza nell’applicazione (VT, p. 48).
Le idee della ragione determinano invece una completezza di tipo formale (VT, p. 49). Il loro procedimento costituisce un’approssimazione infinita in questo senso. La radice irrazionale è l’esempio per eccellenza di questo tipo di idee: possibile a livello formale, tale radice è impossibile a livello materiale, perché non le può essere attribuito un numero finito. Maimon riconosce come Kant il valore della rappresentazione geometrica della radice irrazionale, ma non ne riconduce il valore alla determinazione intuitiva, bensì ne risalta la struttura concettuale e antinomica.5 È, infatti, la completezza formale a caratterizzare il procedimento delle idee della ragione. 5
Si veda anche Gasperoni 2015.
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La nozione di radice irrazionale ricorre diverse volte nel Versuch über die Transzendentalphilosophie come esempio esplicativo per le idee della ragione. Il procedimento che caratterizza la radice irrazionale, e che secondo Maimon è analogo a quello delle idee, è il procedimento di un’approssimazione formale. Nella definizione della radice irrazionale si opera, infatti, un’approssimazione progressiva e costante, fino alla completezza della forma, che però non può essere raggiunta. La condizione alla base della radice irrazionale è quindi che la serie numerica sia infinita. Il raggiungimento della completezza formale non costituisce solamente un ideale, ma esprime un’impossibilità costitutiva del pensiero, una contraddizione, vale a dire una tensione antinomica irrisolvibile tra il pensiero reale e il fatto che quest’ultimo sia incompleto. Nel momento in cui si afferma il valore numerico della radice irrazionale, si è inoltre consapevoli dell’impossibilità costitutiva a raggiungere un numero finito. Questa costante approssimazione avviene attraverso una separazione e generalizzazione continue dei concetti e dei giudizi, attraverso cui ci si allontana costantemente dalla materia e ci si approssima sempre di più alla forma, sebbene il raggiungimento completo non sia solo un’idea bensì contenga addirittura una contraddizione, essendo al contempo un oggetto e nessun oggetto; un esempio di questo tipo è la radice irrazionale, noi possiamo avvicinarsi a essa attraverso una serie infinita ma il suo raggiungimento completo non è semplicemente un’idea (ove questa serie debba essere proseguita all’infinito) bensì implica un’impossibilità, non potendo mai una radice irrazionale diventare razionale (VT, pp. 93-94).
Questa consapevolezza rende il carattere antinomico costitutivo per la conoscenza e, come vedremo in seguito, per l’impiego del linguaggio. Riassumendo, le idee dell’intelletto sono costituite da un’infinitezza di tipo funzionale e rappresentano il procedimento infinito che determina le regole di costituzione degli oggetti. Questo procedimento consiste in una ripetizione della regola all’infinito. Le idee della ragione non procedono invece attraverso la ripetizione della regola data, ma tramite un processo di applicazione della regola ad una totalità formale. 2. L’intelletto infinito come intelletto intuente Il significato dell’introduzione delle idee dell’intelletto si estende al di là della costruzione del cerchio, aspetto oltretutto criticato da Kant nella lettera del 26 maggio 1789 a Herz (AA, XI, pp. 52-53),6 e costituisce un aspetto 6 La possibilità del concetto di cerchio implica una completezza materiale che non può essere mai raggiunta. Kant afferma al contrario che nel concetto di cerchio non bisogna accettare necessariamente le idee dell’intelletto.
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molto importante della caratterizzazione concettuale della percezione. Cerchiamo dunque di comprendere il significato che quest’introduzione riveste nella teoria della conoscenza di Maimon. Le idee dell’intelletto costituiscono i differenziali, quell’infinitamente piccolo che determina l’intuizione sensibile e le sue forme.7 La percezione, che per Kant è possibile a partire dalla sintesi tra sensibilità e intelletto, in Maimon emerge da nozioni astratte come quella di differenziale e successivamente dal principio di determinabilità (cfr. Hoyos 2008, p. 24). L’introduzione delle idee dell’intelletto è quindi il risultato più evidente della sua prospettiva razionalistica. Kant stesso, nella lettera del 26 maggio 1789 a Herz, caratterizza l’intelletto nella filosofia di Maimon come un “intelletto intuente” (AA, XI, p. 50). Le idee dell’intelletto costituiscono il metodo per passare dalla rappresentazione della cosa alla cosa stessa. Tale passaggio costituisce però una continua approssimazione che tende a una completezza materiale infinitamente irraggiungibile. In generale Maimon individua due aspetti che differenziano la sua concezione delle idee da quella kantiana. In primo luogo, egli ritiene che vi sia una sola idea dell’intelletto e non tre, vale a dire quella dell’intelletto infinito. In secondo luogo, se per Kant le idee non costituiscono in alcun modo oggetti della nostra conoscenza, Maimon le considera non come oggetti dell’intuizione ma come oggetti determinati del pensiero che possono essere conosciuti attraverso i loro schemi.8 La questione è comprendere se l’idea dell’intelletto infinito sia un’idea dell’intelletto, un’idea della ragione o se sia un’idea assoluta che comprenda tanto le idee dell’intelletto quanto quelle della ragione – vale a dire tanto il procedimento dell’approssimazione materiale che quella dell’approssimazione formale. Maimon definisce così l’idea di un intelletto infinito: 7
A questo riguardo molti interpreti, come per esempio Ernst Cassirer (2000, p. 93), notano come la nozione di differenziale sia necessaria in Maimon per risolvere il problema della conoscenza del particolare e la sua sussunzione sotto forme generali. Francesco Moiso (1972, p. 9) sintetizza in maniera molto chiara il significato che la teoria del differenziale riveste nella filosofia di Maimon: “Compito dei differenziali è risolvere nel senso di un ‘monismo criticoconoscitivo’ il problema dell’immanenza nella coscienza dei dati della conoscenza, una volta che l’affezione kantiana è stata negata: il mondo dei fenomeni deve fondarsi nella coscienza stessa, i fenomeni stessi altro non sono che funzioni della coscienza. L’estetica trascendentale di Maimon avrebbe così il compito di negare la realtà come attributo proprio dell’Empfindung considerata quale momento indipendente, e di attribuirla alla coscienza”. Al riguardo si veda anche Hoyos 2008, p. 277, e Kauferstein 2006, cap. XII. 8 “Io prendo le distanze da Kant per due ragioni principali. 1) Io al contrario di tre idee, da lui accettate, ritengo che una sola idea sia sufficiente (l’idea di un intelletto infinito). 2) Al contrario di Kant che non ritiene le medesime idee come oggetti della nostra conoscenza, io penso che non siano oggetti dell’intuizione ma certamente oggetti dell’intelletto che vengono conosciuti da noi come oggi determinati del pensiero non (direttamente) ma piuttosto attraverso il loro schema (che viene dato loro nell’intuizione)” (VT, p. 198).
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Nell’intelletto infinito la cosa e la sua rappresentazione sono dunque identiche. Un’idea è un metodo per trovare un passaggio dalla rappresentazione o il concetto di una cosa alla cosa stessa; essa non determina alcun oggetto dell’intuizione ma determina certamente un oggetto reale, il cui schema è l’oggetto dell’intuizione, per esempio lo schema dell’idea di un intelletto infinito è il nostro intelletto. Questo schema indica qui l’idea, e l’idea la cosa stessa o la sua esistenza, senza cui questa idea e il suo schema sarebbero impossibili (VT, p. 198).
Per l’intelletto infinito il completamento della conoscenza è reale perché in esso la cosa e la sua rappresentazione coincidono. L’intelletto infinito allora “immagina il tutto a livello intuitivo” (VT, p. 60). Esso costituisce al contempo entità ideale e schema di riferimento della conoscenza intuitiva. Nel procedimento di approssimazione un’idea è un metodo che permette il passaggio dalla rappresentazione o dal concetto alla cosa stessa. Come metodo essa produce uno schema che non determina in maniera completa e diretta l’oggetto dell’intuizione, bensì un oggetto reale, il cui schema è l’oggetto dell’intuizione. Questo significa che l’oggetto dell’intuizione non può essere mai completamente determinato, e che l’unico oggetto reale che possiamo rappresentare è lo schema. Lo schema si basa allora su un’idea, ovvero su un procedimento di approssimazione. In questa prospettiva Atlas (1957, p. 264) osserva come Maimon sviluppi una concezione “immanente” della cosa in sé, che costituisce un oltre epistemico, “un limite tra la coscienza categorizzata e quella non categorizzata”.9 L’intelletto infinito è quindi un’idea trascendentale che rende possibile la validità oggettiva delle rappresentazioni. Questa è una delle possibili interpretazioni dell’intelletto infinito e pone in risalto l’aspetto più epistemologico della teoria della conoscenza di Maimon, la quale per altri aspetti non esclude invece un altro tipo d’interpretazione, più forte, che consideri l’intelletto infinito come un’assunzione ontologica. 3. La nozione di limite e l’immaginazione Le idee dell’intelletto hanno la funzione di rendere possibile la percezione. Solo attraverso le idee dell’intelletto è possibile rappresentare gli oggetti. I concetti dell’intelletto sono invece predicati che esprimono le relazioni tra oggetti e le congiungono. Tali relazioni derivano dal principio della 9 Cfr. Atlas 1952, p. 169: “Per Maimon, la cosa-in-sé è quell’elemento nella nostra coscienza che non può ancora essere razionalizzato. È presente nella nostra coscienza; non è una realtà al di fuori di essa. È un peccato che questo aspetto della filosofia di Maimon, cioè il suo metodo critico-analitico, non sia stato ripreso dai sistemi filosofici del periodo post-kantiano, che hanno determinato una svolta nella direzione di una metafisica dogmatica”.
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determinabilità e la loro validità è necessaria solo soggettivamente. Atlas nota come nella definizione maimoniana delle idee dell’intelletto, dei concetti dell’intelletto e delle idee della ragione si realizzi in generale un’estensione della funzione schematica che costituisce l’oggetto reale del pensiero. In questa prospettiva lo schematismo nella filosofia di Maimon si realizza pienamente nel principio della determinabilità e non dipende più dalla sintesi tra sensibilità e intelletto, ma dalla determinazione razionale degli oggetti.10 Le idee della ragione sono, al contrario, concetti-limite, “solamente concetti limite, che significano qualcosa cui ci si approssima ma che non si possono mai raggiungere sia per quel che riguarda la costruzione empirica sia quella pura” (VT, p. 202). Il concetto di limite è, come noto, una nozione centrale del sistema kantiano, nel quale riveste un ruolo non solo negativo di delimitazione della conoscenza ma soprattutto positivo. Le idee, infatti, si sviluppano come delimitate rispetto alla conoscenza empirica e costituiscono quella tendenza della ragione a superare il determinato e a pensare l’indeterminatezza. Esse rappresentano l’impiego inferenziale da parte della ragione delle categorie di relazione. Maimon a questo riguardo riconosce, in maniera molto chiara, la derivazione delle idee trascendentali kantiane dalle inferenze della ragione.11 Egli però propone un’estensione di questo genere di idee, che sono a suo avviso a fondamento di molte scienze. Per comprendere quest’estensione bisogna ritornare alla definizione che egli sviluppa delle idee della ragione e in particolar modo alla nozione di limite, che in Maimon possiede un’altra connotazione. La nozione maimoniana di limite non si sviluppa più in riferimento alla limitazione dell’uso dei concetti rispetto alla loro corrispondenza nelle intuizioni, ma in relazione alla limitazione come atto produttivo. Per comprendere in che modo le idee della ragione costituiscano dei concetti-limite e si distinguano dalle idee dell’intelletto, è necessario analizzare il genere d’infinitezza che caratterizza le idee della ragione e quelle dell’intelletto. Questo è un punto fondamentale perché introduce quella critica – sviluppa10 Cfr. Atlas 1969-70, p. 387: “Secondo Kant, i concetti dell’intelletto e le idee della ragione costituiscono due regni separati e fondamentalmente diversi. I primi sono principi costitutivi degli oggetti dell’esperienza; le idee della ragione sono principi regolatori del regno ‘di ciò che dovrebbe essere’. Questi due regni comprendono vari domini della coscienza culturale umana. Non è così per Maimon. Una comprensione completa degli oggetti dell’esperienza è impossibile, senza mettere in relazione gli oggetti con le idee della ragione”. 11 Si veda al riguardo VT, p. 126: “Secondo Kant le idee sono principi della ragione che, per la sua stessa natura, richiede l’incondizionato per tutto ciò che è condizionato; e poiché ci sono tre tipi di inferenze della ragione, vale a dire categoriche, ipotetiche e disgiuntive, allora ci sono anche necessariamente tre tipi di idee che non sono altro che tre categorie complete (ultimo soggetto, causa, e totalità del mondo), e queste fondano le antinomie (conflitto della ragione con se stessa), che possono essere risolte solo dal suo sistema di sensibilità e dalle sue forme”.
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ta in seguito da Hegel attraverso la questione della “schlechte Unendlichkeit” – rivolta alla nozione d’infinito alla base delle idee kantiane. Nella filosofia di Maimon si possono distinguere, in conclusione, due tipi diversi d’infinito, a seconda che si tratti delle idee dell’intelletto o delle idee della ragione. Maimon spiega questa differenza ancora una volta attraverso un confronto con la matematica e cioè attraverso la differenza tra serie e numero irrazionale. Si noti, tuttavia, che esiste una differenza tra un numero irrazionale e la serie con cui esso viene espresso. Il primo è impossibile come oggetto perché si può dimostrare che a esso non può corrispondere alcun numero intero e neppure un numero frazionario, e di conseguenza è solo un’idea razionale del limite dell’approssimazione a un numero. Tuttavia non per questo il numero irrazionale costituisce un nulla; perché anche se non è un numero, è comunque una quantità geometrica che può essere data (VT, pp. 202-203).
Il numero irrazionale è impossibile come oggetto e costituisce un’idea della ragione che definisce i limiti dell’approssimazione a un numero. La serie costituisce invece il procedimento di una divisione, e la somma delle parti divise, proprio perché il loro numero è infinito, non viene rappresentata dal numero stesso ma dalla serie, rappresentabile nello spazio con una linea. Il numero invece costituisce il limite di questa serie, ossia il punto in cui si “decide” di chiudere tale serie con la consapevolezza che quel numero rimane infinito. In questa prospettiva l’infinitezza della serie è quella di una somma o divisione che procede indefinitamente, mentre quella del numero irrazionale rappresenta un processo di delimitazione. La prima è la ripetizione di una regola data, di una funzione. La seconda rappresenta invece un atto produttivo. La prima viene definitiva come intuitiva, poiché crea una completezza materiale che non può essere data dalle intuizioni. La seconda invece è simbolica. È l’immaginazione a produrre l’ultimo elemento della serie e a presentarlo come un oggetto reale per approssimazione. Il limite è dunque quello che viene imposto alla serie e contiene una certa consapevolezza dell’impossibilità, del carattere antinomico delle idee. Questa consapevolezza, indagata altrove,12 implica una forma di scetticismo produttivo, secondo il quale dubitare significa considerare la genesi del concetto. Nel Versuch einer neuen Logik oder Theorie des Denkens Maimon dedica un paragrafo alla definizione dell’intelletto e della ragione a partire dalla distinzione tra la serie e il numero. La rappresentazione dell’ultimo elemento di una serie infinita non è il risultato né della sensibilità, né dell’intelletto e neppure della 12
Si veda Gasperoni 2012. Cfr. Franks 2003 e 2005.
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ragione, ma è prodotta dall’immaginazione attraverso il procedimento dell’associazione: Abbiamo già dimostrato che la rappresentazione della totalità non è una funzione della ragione, com’è volere di Kant, ma dell’immaginazione trascendentale (che supera i limiti della conoscenza), in cui è dunque in conflitto con la ragione. La tensione verso la totalità (costante approssimazione ad essa) è un fatto indubbio e riguarda non solo la facoltà della conoscenza bensì tutte le facoltà senza distinzione (NL, p. 198).13
Non è allora la ragione, come in Kant, che entra in contraddizione con se stessa, bensì l’immaginazione che entra in contraddizione con la ragione, perché con la creazione di finzioni supera i limiti della conoscenza.14 Il procedimento dell’approssimazione concerne allora tutte le facoltà ed è solamente l’immaginazione a operare il superamento dell’approssimazione che prosegue all’infinito producendo una finzione. Il superamento rappresenta un processo di elaborazione, di produzione. L’immaginazione svolge dunque un ruolo positivo, produttivo, costruttivo nella conoscenza. Il superamento in realtà, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, costituisce un trasferimento di significato. In questa prospettiva Maimon distingue tra immaginazione riproduttiva e immaginazione produttiva. Attraverso la distinzione tra figure retoriche e figure filosofiche si può comprendere in che modo Maimon nell’opera Streifereien im Gebiete der Philosophie distingua tra immaginazione riproduttiva e immaginazione produttiva: L’immaginazione è semplicemente riproduttiva o produttiva. Nel primo caso opera secondo le leggi dell’associazione delle idee; ed è dunque dipendente dal modo contingente in cui i sensi le porgono le rappresentazioni. Nel secondo caso opera seguendo le leggi della conformità a scopi, crea a partire dagli Ideali offerti dai sensi e tende addirittura all’ideale più alto in ogni genere (GW, IV, p. 268).
Nel prossimo paragrafo considereremo come l’immaginazione sia la facoltà che supera il limite producendo una finzione in grado di delimitarne l’approssimazione all’infinito. Le idee quindi, nel loro essere finzioni, non trovano il proprio fondamento nella ragione, bensì nell’immaginazione. Tale aspetto della filosofia di Maimon sembra fondare il suo razionalismo nella direzione di una teoria produttiva dell’immaginazione e dei processi finzionali. Secondo Maimon, l’errore kantiano risiede nell’aver ridotto e limi13 Questa tensione verso la totalità e completezza della conoscenza è secondo Maimon (NL, p. 197) alla base anche della religione e della morale. 14 Cfr. Jacobs 1960, p. 255: “Le antinomie, quindi, non sono causate dalla discrepanza tra il finito e la Mente Infinita […] ma dal conflitto tra Ragione e Immaginazione. È quindi possibile che l’uomo diventi divino gradualmente, rendendo analitici i suoi giudizi sintetici”.
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tato questa tendenza all’approssimazione e al raggiungimento della totalità solo alla facoltà della ragione. Maimon estende quindi questo procedimento generalizzandolo ad ogni ambito del pensare. L’approssimazione è la tendenza più strutturale dell’animo umano e l’immaginazione opera su di essa attraverso la costituzione di “finzioni” (Fiktionen) di vario genere. Sulla distinzione tra figure retoriche e figure filosofiche a partire dal concetto di finzione si basa inoltre la differenza di procedimento tra l’immaginazione riproduttiva, che opera sulla base dell’associazione, e l’immaginazione produttiva, che genera un ideale della conoscenza. In questa prospettiva Maimon sembra rovesciare la definizione dell’immaginazione sviluppata da Kant, conferendo all’immaginazione riproduttiva il ruolo di produrre rappresentazioni e all’immaginazione produttiva quello di fondare ideali filosofici e sistematici. Nel prossimo paragrafo si comprenderà meglio il ruolo che Maimon attribuisce alle idee nel linguaggio e il significato delle finzioni come atti linguistici. Concludiamo la trattazione dell’immaginazione nella filosofia di Maimon con un’osservazione di Jacobs tratta dall’articolo Maimon’s Theory of the Imagination: Il contributo di Maimon al pensiero del suo tempo consisteva nell’estendere il limite dell’immaginazione dal mondo grossolano del senso, cui Kant l’aveva confinata, al mondo purificato di concetti puri. Liberò l’immaginazione dalle fatiche della metafora e dell’antropomorfismo e stabilì il suo legame fondamentale con il mondo delle idee, sua radice e àncora (Jacobs 1960, p. 267).
Se da questa fondazione derivi anche un nuovo ruolo dell’estetica, sarà indagato dopo la trattazione dell’immaginazione trascendentale. Il procedimento dell’approssimazione è proprio dell’immaginazione. 4. La conoscenza simbolica e il linguaggio nella filosofia Nel capitolo Über symbolische Erkenntnis und philosophische Sprache del Versuch über die Transzendentalphilosophie Maimon sviluppa una propria concezione della relazione tra linguaggio e filosofia. La funzione della conoscenza simbolica consiste nella possibilità d’impiegare la ragione per trovare nuove verità. Essa rappresenta il momento più astratto del sapere, in cui attraverso la congiunzione tra segni e concetti si possono analizzare gli elementi trascendentali della conoscenza. Si comprende allora come la conoscenza simbolica costituisca la sintesi più profonda della filosofia maimoniana, la quale si sviluppa a partire dalla matematica per comprendere la relazione tra le strutture trascendentali e le determinazioni del pensiero. L’analisi della predicazione e la centralità della radice irrazionale nell’elabo-
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razione della teoria della conoscenza si realizzano pienamente nella definizione della relazione tra pensiero e linguaggio. In questo capitolo Maimon si occupa di diversi temi. Egli ripercorre in parte alcune questioni problematiche molto discusse alla fine del XVIII secolo, come la relazione tra concetti e segni arbitrari, la definizione del simbolo e in particolar modo la possibilità di elaborare un’ars characteristica combinatoria. Qui di seguito mi limiterò a prendere in considerazione alcune argomentazioni esposte da Maimon all’interno del capitolo sulla conoscenza simbolica, alla luce delle quali si comprende come mai esso rappresenti il punto culminante per comprendere il valore dell’approssimazione infinita rispetto ai segni linguistici. La conoscenza simbolica è di importanza cruciale per il pensiero perché permette di trovare nuove verità a partire da quelle già note. Questo passaggio costituisce l’impiego della ragione, la quale deve presupporre la conoscenza intuitiva. L’impiego della conoscenza simbolica, anche se questa tende all’infinito, dev’essere regolato a partire dai limiti della ragione. Nel definire la conoscenza simbolica Maimon riprende le definizioni di Wolff e Baumgarten. Cos’è la conoscenza simbolica? Wolff dice: se la nostra conoscenza è determinata dal fatto che noi esprimiamo attraverso le parole ciò che è contenuto nelle idee, o lo rappresentiamo con altri segni, ma non osserviamo a livello intuitivo le idee che così designiamo, tale conoscenza è chiamata conoscenza simbolica. Questa definizione richiede una spiegazione. Perché cosa significa: non abbiamo idee o rappresentazioni di un oggetto – eppure lo designiamo? Com’è possibile! Questo è possibile perché i segni sono solamente segni poiché conducono alle rappresentazioni delle cose. La definizione di Baumgarten, cioè che l’idea del segno è maggiore di quella della cosa significata, potrebbe davvero essere considerata una Definitio nominalis. Tuttavia, manca la Definitio realis, vale a dire la spiegazione del modo della possibilità secondo cui la rappresentazione del segno debba essere maggiore di quella della cosa designata. Proverò quindi a spiegarlo (VT, p. 147).
Wolff definisce la conoscenza simbolica come l’espressione del contenuto delle idee attraverso le parole, contenuto però non intuibile. Baumgarten definisce la conoscenza simbolica come la rappresentazione del segno se esso è più grande, più esteso della cosa designata. Maimon critica Wolff perché ritiene che i segni siano tali in quanto conducono alle cose stesse e critica Baumgarten perché nella sua definizione manca una definitio realis che giustifichi e spieghi l’esigenza che la rappresentazione del segno sia più estesa della rappresentazione della cosa designata. Queste due critiche costituiscono le due questioni che Maimon si impegna a risolvere. L’impiego dei segni si basa sul procedimento dell’associazione delle idee. Il fatto quindi che il segno possa essere in alcuni casi più esteso rispetto alla cosa designata o addirittura riprodurre una cosa non intuitiva dipen-
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de dall’immaginazione, che a seconda della frequenza delle rappresentazioni può determinare diversi gradi di riproduzione. In risposta quindi a Wolff e Baumgarten la presenza della cosa e l’estensione dei segni sono determinati dall’immaginazione – non sono criteri per definire i segni come tali. Rispetto alla questione di un riferimento dei segni alle cose Maimon ritiene che la conoscenza simbolica sia un tipo particolare di conoscenza che è determinata attraverso gli oggetti ai quali si riferisce. Uno stesso giudizio può essere oggetto sia della conoscenza intuitiva che della conoscenza simbolica a seconda del modo in cui viene rappresentato.15 L’unione di forma e materia che caratterizza l’oggetto della conoscenza non deve essere definita solamente a livello intuitivo. La realtà di un oggetto, infatti, può essere definita attraverso le determinazioni del pensiero stesso. In questa prospettiva Maimon definisce l’oggetto della conoscenza simbolica come “una forma, o un modo, di pensare un oggetto dell’intuizione considerato come oggetto (ma non dell’intuizione)” (VT, p. 149). Gli oggetti della conoscenza simbolica possono essere più o meno astratti e sono le forme, le regole di costituzione degli oggetti. Le categorie, le formule algebriche sono oggetti della conoscenza simbolica. Non tutti i segni fanno parte della conoscenza simbolica. I segni, infatti, possono essere naturali e arbitrari. Solamente questi ultimi appartengono alla conoscenza simbolica e vengono impiegati, in assenza dell’oggetto, per definire la forma della conoscenza. Le parole proprie della conoscenza simbolica vengono apprese non attraverso l’associazione con gli oggetti ma con il concetto, pensato in relazione all’oggetto.16 L’arbitrarietà dei segni non risolve il problema della possibilità e realizzazione dell’elaborazione di un calcolo filosofico distinto appunto da quello matematico. Il calcolo filosofi-
15 Si confronti al riguardo il passo della Critica della facoltà di giudizio (Kant 1999, § 59, p. 186), in cui Kant osserva che non bisogna contrapporre all’intuitivo il simbolico, ma bisogna considerare il simbolico come uno dei due tipi dell’intuitivo – insieme al tipo schematico: “Si fa un uso scorretto della parola simbolico, accolto, sì, dai nuovi logici, che però ne stravolge il senso, quando la si contrappone al modo rappresentativo dell’intuitivo, perché il simbolico è solo una specie dell’intuitivo. Vale a dire, quest’ultimo (l’intuitivo) può essere diviso in modo rappresentativo schematico e simbolico. Entrambi sono ipotiposi, cioè esibizioni (exhibitiones) e non semplici caratterismi, cioè designazioni dei concetti mediante segni sensibili concomitanti, che non contengono nulla, affatto che appartenga all’intuizione dell’oggetto, ma solo servono loro come mezzo di riproduzione, secondo la legge dell’associazione dell’immaginazione, e quindi sotto un profilo soggettivo; mezzi del genere sono o parole o segni visibili (algebrici, perfino mimici), in quanto semplici espressioni di concetti”. 16 “Le parole che appartengono alla conoscenza simbolica non sono apprese attraverso l’associazione della parola con l’oggetto bensì dal concetto pensato a causa dell’oggetto” (VT, p. 152).
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co dipende da molti fattori diversi e non può raggiungere la stessa certezza del calcolo matematico (si veda al riguardo VT, p. 156). La filosofia è una disciplina dinamica e non può essere ridotta a un calcolo. Vi sono alcuni criteri per distinguere un filosofo da un calcolatore: la capacità di definire i principi della conoscenza ossia le forme di costituzione delle formule; lo sviluppare invenzioni proprie e l’impiego di esempi per spiegarle. È utile analizzare dunque il calcolo matematico non per la certezza dei principi raggiunti, ma per i procedimenti che l’intelletto e la ragione impiegano nella costituzione dei concetti matematici. La conoscenza simbolica si può definire anche in base a diversi tipi di segni. Esempi dei segni naturali sono le arti figurative, nelle quali non si può astrarre dalle circostanze particolari che vengono rappresentate e in riferimento alle quali si possono raggiungere diversi gradi di espressione. I segni arbitrari sono invece quelli del linguaggio, in cui le parole risultano dalla combinazione di un numero limitato di suoni. Maimon non intende occuparsi dell’origine delle lingue e del problema di una loro genesi onomatopeica; si concentra invece sul significato arbitrario dei segni, i quali devono essere appresi sia nel caso delle lingue straniere che nel caso della lingua madre.17 Dopo aver definito in generale l’ambito e gli oggetti della conoscenza simbolica Maimon passa ad analizzare il significato che essa riveste nella filosofia, che è caratterizzata innanzitutto come una dottrina generale del linguaggio (allgemeine Sprachlehre) (VT, p. 162). La filosofia definisce, in primo luogo, quella regola generale valida per ogni lingua secondo cui i segni e le parole del linguaggio devono corrispondere nel modo più preciso possibile con le cose designate; in secondo luogo, essa analizza le diverse relazioni e suddivisioni presenti nel linguaggio. La filosofia non possiede un proprio vocabolario, costituito da segni particolari, ma ha come materia il vocabolario di ogni lingua, che viene determinata in base alla relazione e corrispondenza tra segni e linguaggio. Qual è il criterio allora per giudicare le diverse lingue? Le lingue possono essere giudicate sulla base di una lingua ideale alla quale ci si può avvicinare infinitamente. Anche nella filosofia come dottrina del linguaggio la struttura 17 “D’altro canto, i segni arbitrari devono essere appresi, ma possono anche essere appresi correttamente; di questo tipo è il linguaggio, che è una raccolta di parole derivanti dalle molteplici combinazioni di un numero ridotto di suoni possibili. Non voglio considerare le lingue a partire dalla loro origine, ma solo nel loro stato attuale. Ammetto che nulla avviene senza una ragione sufficiente, che anche le parole primitive erano segni naturali (dell’udibile) degli oggetti, e che i segni derivati e composti da esse, erano anche segni naturali dei concetti degli oggetti derivati e composti dai precedenti; per noi le parole sono e restano solo segni arbitrari: devono quindi essere necessariamente apprese […]” (VT, p. 161).
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trascendentale si esplica nel procedimento dell’approssimazione che tende in modo infinito a una completezza, mentre nel caso specifico del linguaggio a una completa corrispondenza tra segno e cosa designata. In questo linguaggio ideale, quindi, ogni cosa avrà la sua ragione: tutti i segni, ad eccezione di quelli che sono irresolubili, potranno essere dissolti negli irresolubili, proprio come i concetti che designano. Si potrà affermare con sicurezza l’origine dei concetti e le loro relazioni reciproche dall’origine dei segni e le loro relazioni reciproche, e quindi si faciliterà notevolmente la conoscenza della verità (VT, p. 165).
Com’è possibile distinguere le espressioni e in particolare individuare le espressioni improprie? La facoltà che spesso causa un’estensione impropria dell’impiego dei termini è l’immaginazione. Maimon tratta questa questione nell’articolo Die philosophische Sprachverwirrung in cui distingue il linguaggio comune e il linguaggio filosofico indagando le ragioni di una possibile confusione nella definizione dei concetti più generali e astratti (GW, VII, pp. 406-451). Nel Versuch über die Transzendentalphilosophie Maimon tratta questa questione attraverso l’analisi dei tropi, ossia espressioni retoriche come le metafore, su cui si fondano molte parole di ogni lingua. Nota è, al riguardo, l’osservazione di Kant nella Critica della facoltà di giudizio in cui egli nota come il linguaggio sia ricco di tali espressioni: Il nostro linguaggio è pieno di simili esibizioni indirette, secondo un’analogia, per cui l’espressione contiene non il vero e proprio schema per il concetto, ma solo un simbolo per la riflessione (Kant 1999, p. 187).18
I tropi operano un trasferimento di significato.19 Essi operano infatti uno spostamento dal significato letterale a quello figurativo: la questione è individuare il significato reale dei tropi e a questo scopo è necessario analizzare le relazioni tra il figurativo e il letterale, per comprendere se essi siano espressioni adeguate o inadeguate dei concetti corrispondenti. Non si può spiegare la relazione tra tropi e concetti sulla base della somiglianza, ma vi devono essere altre relazioni soggettive che ne giustifichino l’impiego. La questione dei tropi interessa anche la filosofia, la quale sviluppa delle nozioni astratte che esulano dal significato letterale e operano dei trasferimenti semantici. Nel linguaggio si trovano espressioni trascendentali che 18 Si noti al riguardo che a questa frase seguono nella Critica della facoltà di giudizio alcuni esempi tra i quali quello di Fließen. Questo esempio compare anche nel Versuch über die Transzendentalphilosophie (VT, pp. 308-310). 19 Atlas (1957, pp. 253 sg.) nota nell’articolo Solomon Maimon’s Philosophy of Language come nel porre la questione dei tropi Maimon sia influenzato dal pensiero di Maimonide rispetto alla distinzione tra significato letterale e significato figurativo nei testi sacri. Cfr. Zac 1986, pp. 190-191.
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possono essere spiegate a livello genealogico partendo da un’origine sensibile, e proseguendo poi con un trasferimento semantico e con il raggiungimento di un significato astratto. Questo non significa che tali espressioni trascendentali rimangano sempre particolari: piuttosto esse costituiscono delle espressioni generali sotto le quali possono essere sussunte cose eterogenee – Maimon sottolinea al riguardo come i concetti trascendentali costituiscano al contempo delle “espressioni trascendentali”, e siano rese possibili dal linguaggio, la cui invenzione richiede arguzia e acume (VT, p. 169). È importante notare al riguardo come Maimon introduca una connessione generativa tra il linguaggio e il trascendentale.20 L’assunzione della costituzione semantica delle espressioni trascendentali a partire dallo sviluppo di espressioni comuni concernenti gli oggetti sensibili è una posizione problematica per Maimon, il quale sostiene una prospettiva razionalistica in cui è il pensiero a determinare la rappresentazione degli oggetti. In questa prospettiva le espressioni trascendentali dovrebbero essere condizioni della percezione e non concetti trovati in seguito ad essa. La questione che Maimon deve risolvere è allora quella dimensione trascendentale esposta nel Versuch über die Transzendentalphilosophie, per la quale le determinazioni trascendentali del pensiero sono definite come relazioni e oggetti reali, la cui validità tuttavia può essere solamente soggettiva – in cui con l’aggettivo “soggettivo” non si deve intendere una validità accidentale ma una validità propria di una soggettività trascendentale. Al riguardo Maimon introduce una nozione generativa di finzione, non intesa nel senso illusorio del termine, ma come momento produttivo del linguaggio filosofico. Nell’opera Streifereien im Gebiete der Philosophie egli dedica un capitolo al problema della distinzione tra figure retoriche e figure filosofiche. Lo spostamento di significato e la possibilità di poter esprimere relazioni comuni a molteplici oggetti riguardano le figure retoriche e l’analisi dei tropi; la possibilità di poter produrre un ideale e rappresentarlo come un oggetto reale concerne invece le figure filosofiche, le quali costituiscono delle illusioni, ossia finzioni non originarie. La rappresentazione dello spazio e del tempo come intuizioni pure è un’illusione di questo tipo, tema che non è qui ulteriormente trattabile. 20 È Atlas (1957, p. 260) a ricostruire la posizione maimoniana in riferimento alla definizione delle espressioni trascendentali. La questione principale è quella della determinazione delle espressioni trascendentali rispetto allo sviluppo del linguaggio: “Questi termini erano originariamente e genuinamente formati per significare oggetti materiali; solo in un secondo momento furono trasferiti dal loro dominio originario di oggetti sensoriali al regno delle idee astratte. L’impiego di questi termini per la designazione di concetti intellettuali e astratti non ha origine con l’uomo, ma è una sovrastruttura ideativa prodotta dal successivo sviluppo della mente umana”.
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Il fondamento “oggettivo” delle espressioni trascendentali risiede quindi nella loro natura linguistica. È allora possibile trascendere questa natura ed elaborare un’ars characteristica? Maimon non crede che sia possibile sviluppare una lingua universale in grado di scoprire nuove verità nelle scienze (cfr. Zac 1986, p. 201). Egli affronta questo tema a partire dalla posizione di Wilkins e da quella di Leibniz, ritenendo che l’elaborazione di una lingua universale possa essere utile non per trovare nuove verità, ma per facilitarne l’apprendimento, e ne restringe l’impiego solo alle scienze a priori quali la matematica pura e la filosofia pura. In filosofia, il progetto di una lingua universale non si realizzerebbe nella creazione di un linguaggio formale, ma attraverso la stesura di un vocabolario in cui si spieghino tutte le denominazioni dei concetti propri della philosophia rationalis, ossia la logica, la filosofia trascendentale. Maimon realizza questo progetto nel 1791 attraverso la pubblicazione del Philosophisches Wörterbuch che definisce come una collezione in ordine alfabetico di spiegazioni di oggetti che ricorrono nella scienza filosofica a dimostrazione di come il linguaggio e la filosofia siano “strettamente collegate” (GW, III, p. 9). Il problema di una corrispondenza completa irraggiungibile tra segni e cose designate impedisce che vi sia un criterio assoluto per giudicare le espressioni delle lingue naturali. Come nota Zac (1986, p. 202), anche nell’analisi delle espressioni adeguate e inadeguate nel linguaggio si esplica la distinzione tra rappresentazione (Vorstellung) e presentazione (Darstellung) che caratterizza l’intera teoria della conoscenza maimoniana. Nel caso dell’espressione di concetti la rappresentazione costituisce un’unione incompleta tra segno e oggetto. Zac sostiene che Maimon, criticando la possibilità di creare una lingua universale e mantenendo la differenza tra calcolo matematico e calcolo filosofico, mantenga la distinzione kantiana tra conoscere (erkennen) e pensare (denken). I simboli andrebbero allora oltre il campo del conoscere per estendersi all’ambito dell’intero pensare. La rappresentazione non definisce gli elementi costitutivi della sintesi, ma la relazione stessa tra segno arbitrario e oggetto designato. Maimon definisce tale distinzione anche nel Philosophisches Wörterbuch sotto la voce “linguaggio”. I segni sono naturali o arbitrari. Questi sono parti costitutive della sintesi, o parti essenziali dell’oggetto designato in tal modo; sono in parte presentazioni [Darstellungen], in parte o semplicemente rappresentazioni [Vorstellungen] dell’oggetto, come ad esempio un dipinto. Considerate in sé sono presentazioni [Darstellungen]: dalla loro relazione con le restanti parti della sintesi, sono secondo la legge dell’associazione, rappresentazioni [Vorstellungen] dell’intera sintesi. Questi non sono componenti della sintesi, ma oggetti completamente diversi, che sono stati arbitrariamente portati in associazione con gli oggetti così designati (GW, III, p. 135).
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È invece la presentazione (Darstellung) a costituire la definizione degli elementi costitutivi della sintesi.21 In questa prospettiva, la rappresentazione emerge dalla sintesi riproduttiva dell’immaginazione, che procede per associazioni, mentre la presentazione sembra propria dell’immaginazione produttiva, la quale crea un ideale in grado di definire i singoli elementi della sintesi. La questione centrale è, dunque, se Maimon riesca a sviluppare una teoria genetica della presentazione simbolica a partire da una teoria della conoscenza di tipo razionalistico e, di conseguenza, un’estetica che non sia una mera rappresentazione ma un atto costitutivo, una presentazione di senso. Anche accettando che ogni rappresentazione costituisca un’unione incompleta tra segno e oggetto designato e che tra di essi vi possa essere un procedimento di approssimazione infinita che tende alla corrispondenza ideale e autentica tra segno e oggetto, la nozione stessa di rappresentazione si sviluppa a partire da una teoria razionalista della conoscenza, secondo la quale questa non si articola nella relazione schematica tra sensibilità e intelletto, ma nell’approssimazione infinita a un concetto e, al contempo, ente ideale. Ma può sorgere da tale assetto teorico, da un lato genetico, dall’altro razionalistico, un’estetica? La risposta a una tale questione sembra non poter eludere la tensione di cui è portatrice. Tuttavia è forse proprio questa tensione a mostrare l’urgenza di una filosofia che debba essere anche pensiero estetico. Questa tensione caratterizza la definizione kantiana dell’idea estetica come quella rappresentazione dell’immaginazione che fa pensare molto e cui alcun concetto può essere adeguato, segnando dunque il senso antinomico del pensiero. Al contempo, questa tensione fa emergere una propria genetica del senso, che sarà per Herder anche una morfogenetica del sapere. Il merito di Maimon è avere mostrato come l’approssimazione non risulti dall’indeterminazione ma sia il processo costitutivo dell’immaginazione. Equiparando gli oggetti così costituiti a delle finzioni, Maimon radicalizza il valore discorsivo della filosofia trascendentale kantiana, introducendo il linguaggio come facoltà generativa. In questo senso Maimon mostra che non vi è filosofia trascendentale senza l’indagine delle sue condizioni generative di possibilità, che interessano il linguaggio e i segni. Al contempo però Maimon non trasforma 21 Cfr. Zac 1986, pp. 186-187: “I segni naturali sono elementi costitutivi presi uno ad uno in una sintesi vivente, cioè in una totalità di cui una parte è destinata a rievocare un’altra parte o la totalità delle partii. I segni naturali sono allo stesso tempo rappresentazioni [Vorstellungen], cioè conoscenza parziale e ‘troncata’, soggetta al principio della dualità di soggetto e oggetto, di forma e materia, di pensiero e realtà e presentazioni [Darstellungen], vale a dire una rivelazione dell’oggetto, che include una sintesi completa degli elementi, come se fosse l’oggetto così com’è per il pensiero di Dio”. Zac si richiama anche a Bergman (1967, p. 30) per la distinzione tra rappresentazione e presentazione.
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l’idea di un intelletto intuente in un intelletto sensibile, trascurando quell’ambito dell’estetica che sin da Baumgarten era teoria della sensibilità. Cassirer (2000, p. 100) parla al riguardo di un fraintendimento da parte di Maimon della teoria della sensibilità kantiana, accentuando ancor più quella cesura tra intelletto e sensibilità che Kant aveva cercato di superare con la teoria dello schematismo. Questa cesura trova diverse tracce anche nella parte dedicata all’estetica della sua opera Streifereien. In quest’opera scritta nel 1793, a cavallo quindi tra la Critica della facoltà di giudizio, inviatagli da Kant nella primavera del 1790, e la Metacritica herderiana, Maimon definisce l’estetica come “la scienza che indaga la percezione o il giudizio (per adesso non li distinguo) del bello negli oggetti” (GW, IV, p. 61). Non potendo analizzare quest’opera in dettaglio, ci sembra importante rilevare come Maimon riduca l’ampio ambito delle sensazioni a un’estetica definita rispetto all’adeguazione al concetto, associando le pratiche artistiche a segni naturali senza coglierne il valore costitutivo come pratiche di generazione di senso. Quello che in conclusione sembra mancare all’estetica di Maimon è quella teoria della Versinnlichung, indagata altrove,22 che, seppur implicando una revisione della filosofia kantiana, ha nella sensibilità la sua morfogenetica e non rinuncia allo schematismo come cardine di un’estetica generativa, origine di una teoria produttiva della finzione e della pratica estetica come costituzione originaria di senso. Institut für Architektur Technische Universität Berlin, Deutschland E-mail: [email protected]
Bibliografia Atlas, S. 1952: “Solomon Maimon’s Doctrine of Infinite Reason and Its Historical Relations”, Journal of the History of Ideas, XIII, pp. 168-187. Atlas, S. 1957: “Solomon Maimon’s Philosophy of Language Critically Examined”, Hebrew Union College, 28, pp. 253-288. Atlas, S. 1964: From Critical to Speculative Idealism. The Philosophy of Solomon Maimon, The Hague, Nijhoff. Atlas, S. 1969-70: “Solomon Maimon’s Doctrine of Fiction and Imagination”, Hebrew Union College, 40-41, pp. 363-389. Bergman, S.H. 1967: The Philosophy of Solomon Maimon, Jerusalem, Magnes Press. 22
Si veda al riguardo Gasperoni 2016.
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Blumenberg, H. 1969: “Wirklichkeitsbegriff und Möglichkeit des Romans”, in H.R. Jauß (hrsg. von), Nachahmung und Illusion, Kolloquium Gießen Juni 1963, München, Fink, pp. 9-27. Deleuze, G. 1963: “L’idée de genèse dans l’esthétique de Kant”, Revue d’Esthétique, 16, pp. 113-136. Cassirer, E. 2000: “Salomon Maimon”, in Id., Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Gesammelte Werke, Bd. IV, Hamburg, Meiner, pp. 77-120. Franks, P. 2003: “What should Kantians learn from Maimon’s Skepticism?”, in G. Freudenthal (hrsg. von), Salomon Maimon. Rational Dogmatist, Empirical Skeptic; Critical Assessments, Dordrecht, Kluwer, pp. 200-232. Franks, P. 2005: All or Nothing. Systematicity, Transcendental Arguments, and Skepticism in German Idealism, Cambridge, MA, Harvard University Press. Gasperoni, L. 2012: “Maimon und der Skeptizismus”, in E. Ficara (hrsg. von), Skeptizismus und Philosophie. Kant, Fichte, Hegel, Fichte-Studien, 39, Amsterdam-New York, Rodopi, pp. 111-128. Gasperoni, L. 2015: “Die irrationale Wurzel zwischen Mathematik und Philosophie bei Salomon Maimon”, in Ch. Asmuth (hrsg von), Irrationalität – Schattenseite der Moderne?, Würzburg, pp. 9-26. Gasperoni, L. 2016: Versinnlichung. Kants transzendentaler Schematismus und seine Revision in der Nachfolge, Berlin, De Gruyter. Gasperoni, L. 2018: “Fiktionen als heuristische Paradigmen”, Aretè, 3, pp. 164178. Hoyos, L.E. 2008: Der Skeptizismus und die Transzendentalphilosophie. Deutsche Philosophie am Ende des 18. Jahrhunderts, Freiburg, Alber. Jacobs, N.J. 1960: “Maimon’s Theory of the Imagination”, Scripta Hierosolymitana, 6, pp. 249-267. Kant, I. 1922: Gesammelte Schriften (AA), editi dalla Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, Berlin-Leipzig. Kant, I. 1999: Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni e H. Hohenegger, Torino, Einaudi. Kauferstein, Ch. 2006: Transzendentalphilosophie der Mathematik. Versuch einer systematischen Rekonstruktion der Leitlinien einer Philosophie der Mathematik in Kants “Kritik der reinen Vernunft” und Maimons “Versuch über die Transzendentalphilosophie”, Stuttgart, Ibidem Verlag. Maimon, S. 1912: Versuch einer neuen Logik oder Theorie des Denkens. Nebst angehängten Briefen des Philaletes an Aenesidemus von Salomon Maimon. Besorgt von Bernhard Carl Engel (NL), Berlin, Felisch. Maimon, S. 1976: Gesammelte Werke (GW), I-VII, hrsg. von V. Verra, Hildesheim, Olms. Maimon, S. 2004: Versuch über die Transzendentalphilosophie (VT), hrsg. von F. Ehrensperger, Hamburg, Meiner.
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LIDIA GASPERONI
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Maria Caterina Marinelli
Maimon’s Implicit Influence in the Eigne Meditationen über ElementarPhilosophie of Fichte
Abstract: Maimon’s Implicit Influence in the Eigne Meditationen über ElementarPhilosophie of Fichte This work intends to examine the implicit influence of Maimon in the Eigne Meditationen über ElementarPhilosophie of Fichte. This influence consists of two specific questions, to which Fichte seems to have to provide an answer: on the one hand, the problem of the evidence of the validity of the presupposition of philosophy, deriving from Maimon’s criticism of Kant “quid facti?”; on the other, the question of the relation between logic and philosophy, developed in Maimon’s “new theory of thinking”. Keywords: Maimon, Fichte, Eigne Meditationen, Quid Facti, Logic and Transcendental Philosophy.
Introduction That Maimon played an important role in the rise of German Idealism is indubitable, especially if one considers the influence that he had on Fichte (see GA III, 2, p. 282). In order to explain not “only that, but […] how Maimon had an influence upon Fichte” (Beiser 2003, p. 233),1 some scholars tried to determine in detail the relation between Fichte’s and Maimon’s philosophy. This research inserts itself in the same aim, but considering another essential text of Fichte, where a possible presence of Maimon seems to be an unknown quantity and a still unexplored issue. This text is the first formulation of his Wissenschaftslehre, known under the title of Eigne Meditationen über ElementarPhilosophie. The proposal of this research is also to try to understand whether it is possible to find an implicit influence of Maimon in these early reflections of Fichte and, if so, in what it consists. In order to answer these questions, this 1 There are just a few studies on the relation between Fichte and Maimon: Krämer 1997, Breazeale 2001, Beiser 2003, Breazeale 2003. Other sources in which this relation is touched upon include Kuntze 1912, pp. 347-353, Guéroult 1929, pp. 141-146, Atlas 1964, pp. 316-324, Moiso 1979, pp. 54-59, Zac 1988, pp. 243-259, Engstler 1990, pp. 243-259.
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work will develop in the following manner. First, two fundamental questions of the text of Fichte will be presented and analyzed; then an attempt to determine what are the philosophical problematics that these two questions of Fichte refer to will be made; finally, the issue will be addressed of understanding them in the light of the founded philosophical problematics to which they refer. 1. Fichte’s Eigne Meditationen über die ElementarPhilosophie The Eigne Meditationen über die ElementarPhilosophie, written between 1793 and 1794, starts with a paragraph entitled “Logik der ElementarPhilosophie” (GA II, 3, pp. 21-22). In this part of the text, Fichte inserts some preliminary observations, which are important not only to understand the content of these meditations, but also because they present some essential themes that will be restated in his immediately following works. In this paragraph, Fichte claims: The investigations of the Elementary Philosophy, the reflections it makes are themselves something that proceed in our mind – indeed, they are something of a certain kind: a thinking [Denken]. The Elementary Philosophy thus stands under the conditions of the genus [Geschlecht] and the particular species [besondere Art] – and it cannot be correct unless that which it seeks has already been found. (Hence the necessary circle of our mind). In searching for these laws [Gesetze], we cannot do otherwise than act according to these laws themselves (GA II, 3, p. 21).
From this passage, two important questions could be isolated. The first one is summarized in the sentence: the Elementarphilosophie “cannot be correct unless that which it seeks has already been found”; the second one, in the immediately following: “hence the necessary circle of our mind”. 1. The first question concerns the problematic according to which the Elementarphilosophie “cannot be correct unless that which it seeks has already been found”. That philosophy “cannot be correct” without already finding what it’s searching could be understood if we observe what was before claimed by Fichte: the Elementarphilosophie is a particular species (besondere Art) of the genus (Geschlecht) Denken. The latter is not only the genus to which the Elementarphilosophie belongs, but also at the same time the object of its research. In this same research, however, the Elementarphilosophie cannot disregard the conditions or rules of the genus in question, since it is subject to it as its species. So, what is already found before the research are precisely these rules (Gesetze), which constitute a necessary presupposition of the same proceeding of the Elementarphilosophie. A few lines after the above-mentioned passage, Fichte clarifies which are these rules that the Elementarphilosophie needs to presuppose and claims:
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This would make necessary for this investigation not those rules which are tacitly accepted [stillschweigend angenommen], but rather those which are expressly developed. These rules cannot themselves be proved – instead, one has to come upon them by luck. Fortunately, the logic which they belong to is already a solid science (GA II, 3, pp. 21-22).
Therefore, the rules used by the Elementarphilosophie are nothing other than those of logic, presupposed at the beginning of the treatment without being able to be first demonstrated. On the other hand, Fichte specifies that these are rules with a certain evidence and not just accepted (stillschweigend angenommen), since they have been developed by logic, which is a science that already boasts a solid tradition. 2. The second question presented in the passage concerns the idea that, by virtue of the necessity of the presupposition of the Elementarphilosophie, one incurs a circle: “In searching for these laws, we cannot do otherwise than act according to these laws themselves”. Given the necessary circularity of the argumentation, Fichte must therefore define in which relation the Elementarphilosophie and these rules are found. A few lines later, Fichte clarifies that, although the rules are necessary conditions for the Elementarphilosophie, it is the latter that constitutes their foundation: “An Elementary Philosophy must also ground it [the logic]” (GA II, 3, p. 22). Therefore, the circle derives from the fact that the rules of logic can be founded only by the Elementarphilosophie itself, but it must use this rules to be able to conduct its analysis and must accept them as valid even before their demonstration. As can be seen, the relation that is established between the Elementarphilosophie and the logic is circular, because the logic is founded by the Elementarphilosophie and the latter needs to use the rules of logic to proceed in its analysis. Through these two questions Fichte clarifies an important premise of his Eigne Meditationen. To understand these considerations in detail, it is necessary to go beyond what appears only from reading the text and investigate, instead, the concrete problematic context of reference in which they are inserted and for which they are established. This intention will lead us to ask ourselves why Fichte begins his own discussion starting with the problem of the Elementarphilosophie’s presupposition and why it is necessary to define the relation between the same Elementarphilosophie and another science, such as logic. 2. Philosophical Problematics: Maimon’s “quid facti” and his “new theory of thinking” As explained, the first question of Fichte concerns the problem of the presupposition of philosophy. If we try to investigate where this problem
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may arise within the debate of post-Kantian philosophy, we will notice that the first author who dealt with the problematic of the validity of the presupposition of philosophy in the field of Kantian criticism was Maimon. 1. Already in his first text, Versuch über die Transzendentalphilosophie, he raised a criticism of Kantian philosophy, known under the question “quid facti?” and destined to have a certain resonance among the authors of the time. Maimon claims: “Kant presupposes as an indubitable [als unbezweifelt] fact [Faktum] that we have propositions of experience [Erfahrungssätze], which convey necessity” (GW II, p. 186). “The principles of transcendental philosophy only have their reality as conditions of use in experience. […] A skeptic, however, who casts doubt on experience itself, will also doubt the reality of these principles” (GW IV, p. 213). Maimon's intent was to underline a fundamental problem in the Kantian theory of the first Critique, that is, that he assumed as a “Faktum” the validity of empirical knowledge or experience in the research for the conditions of possibility of knowledge. Given the lack of a demonstration of this validity, which would instead be necessary, the same results as the Kantian philosophy are only hypothetically valid and, therefore, not strictly scientific. In this way, however, Maimon does not intend to deny the possibility that philosophy can start from a presupposition, but rather the specific presupposition of Kantian philosophy. 2. Together with the above-mentioned criticism “quid facti?” and among many others, Maimon accused Kant of having derived the categories from the logical functions of judgment, subordinating the transcendental logic to the general one. As Maimon claims: “The Kantian system [derives] the categories from the logical forms” (GW II, p. 330). This criticism is not less important, since he ends up attacking again the validity of the results of Kantian philosophy. In this case, however, along with this criticism we are also interested in dwelling on the solution to this problem proposed by Maimon himself. In the work titled Die Kathegorien des Aristoteles, after the translation of the Aristotelian text and in the part dedicated to the discussion of his own project of “a new theory of thinking” (GW VI, p. 7), Maimon tries to define the correct relation between transcendental philosophy and logic, with the intention of finally eliminating the difficulties created by Kant in his deduction of the categories. In opposition to what is stated “in every theory of thinking”, for which logic is considered “as an independent and complete science [als eine für sich bestehende vollständige Wissenschaft]” (GW VI, p. 4), Maimon maintains that logic is not independent of transcendental philosophy and requires a foundation. On the contrary to what Kant achieved in his first Critique, Maimon claims that: “Far from the logical forms being the basis of
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the categories, one must rather base the logical forms on the categories” (GW VI, p. 4). Logic must be founded by transcendental philosophy and “is abstracted from transcendental philosophy” (GW VI, p. 8), but at the same time it fulfils a certain function with respect to philosophy. The intent of Maimon is to clarify this relation: I will show how logic and transcendental philosophy mutually presuppose [wechselseitig voraussetzen] each other […], since the logical forms derive their meaning from transcendental philosophy, and the latter receives its authenticity, completeness and systematic order of its concepts and principles from logic (GW VI, p. 141).
3. Fichte’s Eigne Meditationen über die ElementarPhilosophie in the light of the founded philosophical problematics raised by Maimon Let us now try to re-read what was analysed in the first part of our work about the two questions of Fichte in the light of what was developed in the second part about Maimon’s standpoints. 1. As we said, for Fichte the rules used by the Elementarphilosophie are none other than those of logic, presupposed at the beginning of the treatment and provided with some evidence (nicht stillschweigend angenommen). The necessary presupposition which Fichte deals with (necessary because of the discursive nature of the Elementarphilosophie, which needs to be subjected to certain rules of thinking), must therefore meet a fundamental requirement, namely the evidence. This requirement, as we have seen, was underlined for the first time by Maimon, who raised the problematic about the validity of the presupposition of philosophy, through his criticism “quid facti”. Although they have not yet been demonstrated, the rules of logic are the only ones able to respond to the need for validity and to nip sceptical doubt in the bud. Thus, in this case, the implicit presence of Maimon is seen in the problem of the validity of the presupposition of philosophy, without which the whole treatment would only be hypothetical and, therefore, not scientific. To this first conclusion, we add an observation that can help to further establish it. That Fichte was aware of Maimon’s criticism of Kant is an admissible hypothesis, because he refers in the Eigne Meditationen to the same “presupposition of experience [Voraussetzung der Erfahrung]” (GA II, 3, p. 30) to which Maimon referred. To this hypothesis of a direct influence of Maimon on Fichte, we can also add an indirect one. In fact, the problem pointed out by Maimon seems to pass through the mediation of the Elementarphilosophie itself – which constitutes the field of Fichte’s Meditationen – in two ways: on the one hand, as regards the criticism made
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by Maimon to Kant, for which Reinhold also argues: “Experience […] accepted as a fact [Faktum] […] is the basis of the Kantian system” (Beiträge I, pp. 193-194); on the other, with respect to the general problem of the validity of the Faktum, by Reinhold resolvable in the “indubitable fact of consciousness [unbezweifeltes Faktum des Bewusstseins]” (Beiträge I, p. 99), which expresses the fundamental principle of his philosophical project. The hypothesis that Reinhold took up again Maimon's criticism of Kant and that he kept in mind the problem raised by Maimon concerning the validity of the Faktum is provable by the fact that neither the reference to the “Experience” as the “basis of the Kantian system” nor the use of the term “Faktum” belong to the first Versuch einer neuen Theorie des menschlichen Vorstellungsvermögens, preceding his reading of Maimon’s text. 2. As we said, Fichte maintains that the relation that is established between the Elementarphilosophie and logic is circular, because logic is founded by the Elementarphilosophie and the latter needs to use the rules of logic to proceed in its analysis. The need to establish this relation, as we have seen, is supported by Maimon: starting from the problem in which incurs Kant himself, who had deduced the categories from the logical functions of judgment, it becomes necessary to establish the correct relation between philosophy and logic. Maimon himself maintains that logic is founded on philosophy, but also that it nevertheless has an important function for the treatment and completeness of the latter. It should be noted that the reference of Maimon to “abstraction” can also be found in Fichte, according to which the rules of logic can “be traced by abstraction [durch Abstraktion aufzufinden]” (GA II, 3, p. 21). Likewise, both Maimon and Fichte use “Reflexion” as the possible means to arrive at the principles of philosophy (see GW VI, p. 6; GA II, 3, p. 22). Given the scale of the question, we can only mention that the “Reflexion” will play a fundamental role in the first systematic text of the Fichtian philosophical proposal, namely the Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre. Therefore, the definition of the correct relation between logic and philosophy is also part of a philosophical problematic raised by Maimon, that is, to distinguish philosophy from logic, establish that the former is not founded by the latter and leaving, however, open the possibility of using logical rules (essential rules of thinking) in the treatment of the principles of philosophy. Without this definition we risk falling into difficulties to overcome problems, such as those deriving from the Kantian deduction of the categories from the logical functions of judgment. Therefore, in this case the implicit presence of Maimon is found in having aroused concern for defining the correct relation between philosophy and logic, without excluding the possibility that they operate mutually.
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Conclusion At the end of this work, we can now try to answer the questions asked at its beginning. From what is exposed in this research, we can formulate the thesis that it is possible to see an implicit influence of Maimon in Fichte’s Eigne Meditationen and that this influence consists of two specific questions, to which Fichte seems to have to provide an answer: on the one hand, the problem of evidence of the necessary presupposition of philosophy, a presupposition that Fichte identifies in the rules of logic; on the other, the question of the relation between logic and philosophy, in which the former is founded by the latter, but the latter requires the former to conduct its own research. Finally, it is worth pointing out that these issues are not an isolated case, later abandoned by the author. On the contrary, they are particularly essential for understanding Fichte’s philosophy, since, as is known, they will find their place in Über den Begriff der Wissenschaftslehre and a full and extensive discussion in the fundamental Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre. Università degli Studi di Roma Tor Vergata, Italia Ludwig-Maximilians-Universität München, Deutschland E-mail: [email protected]
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MARIA CATERINA MARINELLI
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David Hereza Modrego
Die Transformation der Frage “quid juris?” bei Kant zu Maimons “Satz der Bestimmbarkeit”1
Abstract: The Transformation of Kant’s Question “quid juris?” into Maimon’s “Principle of Determinability” This article attempts to present the transformation of Kant’s question “quid juris?” into the “principle of determinability” (Satz der Bestimmbarkeit), which is the main point of Salomon Maimon’s philosophy. This transformation is exposed through an analysis of Maimon’s understanding, critique and reformation of Kantian criticism, following the fundamental lines present in his Essays of 1789 and 1794. Keywords: Transcendental Deduction, quid juris, quid facti, Principle of Determinability, Categories.
Einleitung Ohne Zweifel spielt der “Satz der Bestimmbarkeit” für das Denken Maimons (insb. ab 1794) eine wichtige Rolle (vgl. VnL, S. 425). Trotzdem ist seine Bedeutung und Funktion immer noch sehr umstritten: Einerseits wird dieser Aspekt in Maimons Denken in der Rezeption oft übergangen oder nur teilweise berücksichtigt (vgl. Engstler 1990; Beiser 1987). Anderseits muss man seine uneinheitlichen Interpretationen konstatieren (vgl. Gueroult 1929; Kroner 1961; Senderowicz 2003; Lee 2008). Hierbei möchte ich die Auffassung vertreten, dass die Analyse der Grundzüge, die die Transformation der Frage “quid juris?” bei Kant zum “Satz der Bestimmbarkeit” ermöglichen, für die Diskussion erhellend sein kann. Es kann jedoch dabei nicht die gesamte Entwicklung seines Denkens berücksichtigt werden. Vielmehr werden wir uns nur mit den beiden zentralen Momenten seines Denkens beschäftigen: seiner Kritik an der Philosophie Kants aus seinem Versuch über die Transzendentalphilosophie (1789) und seinen Darlegungen zum “Satz der Bestimmbarkeit”, wie man sie in seinem Versuch einer neuen Logik von 1794 findet. Mit dem vorliegenden Aufsatz wird also ein allgemeines Bild der Positionierung Salomon Maimons zur Philosophie 1 Aufsatz im Rahmen des Forschungsprojektes vom spanischen Bildungsministerium FPU15/05250.
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DAVID HEREZA MODREGO
Kants angestrebt. Damit wird der Versuch unternommen, die Transformation einer zentralen philosophischen Fragestellung aufzuweisen, wie sie Maimon von Kant ausgehend vollzieht. Einleitend soll expliziert werden, von welchem elementaren Punkt eine jegliche Untersuchung von Maimon ausgehen muss: Seine Philosophie hat ihren Ursprung in der Philosophie Kants. Es ist nur von seinem Dialog mit diesem Philosophen möglich, Maimons Ansicht zu verstehen2 ― man könnte hierbei sogar von einem “Paradigma in Sinne Kuhns” sprechen (Pfaff 1995, S. 227 ff.). Diesen Dialog kann man in drei Schritte unterteilen, die zugleich verschiedene Positionierungen gegenüber der Philosophie Kants darstellen: ein “Verständnis”, eine “Kritik” und eine “Nachbesserung” derselben. Diese Momente strukturieren den Aufsatz: (1) Zuerst werde ich mich mit Maimons Verständnis der Transzendentalphilosophie als einer Erörterung reiner Begriffe a priori beschäftigen. (2) Zweitens wird seine Kritik an der transzendentalen Deduktion behandelt werden, um (3) drittens die Bedeutung des “Satzes der Bestimmbarkeit” darzustellen. 1. Maimons Verständnis der Philosophie Kants Der Ausgangspunkt der Denkweise Kants lässt sich durch die Frage “Wie ist die Metaphysik als Wissenschaft möglich?” (KrV, B22; Prol., S. 280) definieren, wobei “Metaphysik” hier die “Wissenschaft des Übersinnlichen”, d.h. die Erkenntnis von Gott, Welt und Seele, bedeutet (vgl. KrV, B7; FM, S. 268). Die Absicht des Projekts einer “Kritik der Vernunft” besteht folglich in der Prüfung der Möglichkeit dieser übersinnlichen Erkenntnis “nach Prinzipien” (KrV, AXII), damit die endlosen Streitigkeiten darüber aufgelöst werden können. Ein so radikales Vorhaben kann bekanntlich nur durch eine Untersuchung der Elemente der “Erkenntnis überhaupt” oder “des Verstandes” (vgl. KrV, AXVI) durchgeführt werden. Daraus entspringt der kritische Weg: Erst wenn diese Elemente in ihrer Vollständigkeit erörtert werden, lässt sich bestimmen, inwiefern die von der 2 Wichtig ist es zu beachten (worauf verschiedene Abhandlungen hinweisen, vgl. Ehrensperger 2003, S. 14-15; Engstler 1990, S. 27-28 Fußnote), dass Maimon ab seinem vierten Aufenthalt in Berlin angefangen hat, Kant zu lesen (vgl. LG, S. 556), bzw. circa 1786. Dies impliziert, dass die wichtigsten Kritiken, die Maimon schon 1789 darstellt, aus der Lektüre der Kritik und der Prolegomena herauszuziehen sind. Obwohl man nicht genau weiß, ob Maimon die zweite Auflage der Kritik gelesen hat, machte er den Zug, den später Kant im Jahr 1787 durchführte, und zwar die Vereinigung zwischen der Kritik und den Prolegomena trotz der Anmerkungen über die Verschiedenheit der Methoden beider Bücher, die derselbe Kant in den Prolegomena ankündigt (vgl. Prol., S. 274-275). Deswegen wird hier der Unterschied zwischen beiden Bücher nicht berücksichtigt.
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Metaphysik erforderte übersinnliche Erkenntnis möglich ist.3 Demzufolge bedarf die Philosophie zuerst “einer Wissenschaft, welche die Möglichkeit, die Prinzipien und den Umfang aller Erkenntnisse a priori bestimmte” (KrV, B6), die deshalb den festen Boden jeder künftigen Untersuchung ausmachen kann. 1.1. Hauptpunkte von Maimons Deutung des kritischen Weges Dieses Bedürfnis der Philosophie, Wissenschaft der ersten Bedingungen der Erkenntnis zu werden, steht im Mittelpunkt der Aufmerksamkeit Maimons und deshalb benötigt das Verständnis seiner Deutung des kritischen Weges eine klare Einsicht darüber. Um es zu gewinnen, sollte man aber zuerst eine kurze Erklärung der Grundelemente der “Erkenntnis” bei Kant berücksichtigen, die Maimon auch annimmt. Nach Kant besteht unsere Erkenntnis aus zwei Typen von Vorstellungen: Anschauungen (repraesentatio singularis) und Begriffen (repraesentatio per notas communes) (vgl. Log., S. 91). Die ersten stellen unmittelbare Beziehungen auf Gegenstände vor, die zweiten hingegen die Allgemeinheit, durch die die Gegenstände bestimmt werden. Jeder Begriff bestimmt demnach einen Gegenstand als etwas (z.B. als “Lebewesen”), und dadurch wird er von anderen unterschieden (ggf. von “Mineralen”), und gleichzeitig werden andere Begriffe darunter subsumiert (“Tiere”, “Pflanzen”, usw.). Jeder Begriff fungiert als eine Regel, denn sie macht einen Unterschied zwischen demjenigen, was in eine Menge hinein- bzw. aus ihr herausfällt. Ohne die Regeln könnte es die Erkenntnis nicht geben. Nun könnte man nach den allgemeinsten Regeln oder Begriffen fragen, die für alle Gegenstände gültig sind. Diese Begriffe werden “Prinzipien der Erkenntnis” oder “Kategorien” genannt (vgl. KrV, A93/B126) und sie unterscheiden sich von anderen Begriffen aufgrund einer Eigentümlichkeit, die darin besteht, dass sie keinen Gegenstand ausschließen – wie jeder andere Begriff –, sondern alles in sich enthalten. Sie sind die Allgemeinsten, und deswegen die Gründe, die jede Erkenntnis überhaupt möglich machen. Diese allgemeinsten Begriffe werden von Kant auch als “reine Begriffe a priori” beschrieben (vgl. KrV, A95), denn sie lassen sich wegen ihrer Allgemeinheit keinesfalls aus der Erfahrung herleiten (sie liegen ihr vielmehr 3 In der Sprache der Schulphilosophie könnte man diese These so formulieren: die Metaphysica specialis (Erkenntnis des Übersinnlichen) ist nur unter der Bestimmung einer Metaphysica generalis (Darstellung der Elemente der Erkenntnis überhaupt) möglich. Für die Angleichung einer Metaphysica generalis an die Transzendentalphilosophie Kants siehe Refl. 4852, 4855 (XVIII, S. 10-11).
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zugrunde). Die Frage ist nun: Wie ist eine Untersuchung über solche Begriffe möglich? Nur durch eine Antwort darauf kann man das Projekt Kants fortsetzen, denn ohne sie könnte das Urteil über die übersinnliche Erkenntnis der Metaphysik nicht gefällt werden. Diese Frage nach der Möglichkeit solcher Begriffe kennt aber einen anderen Namen in der Kritik der reinen Vernunft, der für die Weiterentwicklung der Darstellung der Philosophie Maimons wichtig ist, und zwar die Frage nach der “objektiven Realität” der reinen Begriffe. Es beziehen sich die beiden Hauptelemente der Erkenntnis bei Kant (Anschauungen und Begriffe) aufeinander gemäß dem berühmt gewordenen Satz: “Gedanken ohne Inhalt sind leer, Anschauungen ohne Begriffe sind blind” (KrV, A51/B75). Diese Bemerkung impliziert nicht, dass Begriffe ohne Anschauungen unmöglich seien, sondern nur, dass sie “leer” sind. Tatsächlich wird ein sich nicht auf eine Anschauung beziehender Begriff nur eine bloß formelle Erkenntnis ausdrücken, die bloß auf dem Satz vom Widerspruch beruht (vgl. KrV, A150/B189; VnL, S. 19 ff.). Daraus lassen sich zwei Arten von Beziehungen in Begriffen unterscheiden, aus denen zwei “Gebrauche des Verstandes” entstehen: ein realer oder objektiver, sobald der Begriff sich auf eine Anschauung (vgl. Rfl. 2836: XVI, S. 539), und ein subjektiver, wenn er sich nur auf die Denkmöglichkeiten durch den Satz des Widerspruchs bezieht (vgl. KrV, BXXVI; A155/B194 ff.). Dies gilt für alle Begriffe, sogar die allgemeinsten. So bedeutet das Problem einer Erörterung der reinen Begriffe a priori als Gründe der Erkenntnis die Frage nach dem Prinzip ihrer objektiven Gültigkeit: Wenn sie die allgemeinsten sind, worauf beziehen sie sich? Falls sich die Kategorien auf ein Objekt überhaupt beziehen, wie ist diese Beziehung möglich? Ohne hier auf eine weitere Erörterung einzugehen, ist zu beachten, dass die Philosophie Maimons genau diesem Problem entspringt. Beleg dafür sind die ersten Seiten des Versuchs von 1789, in dem zuerst die Frage zum Ausdruck kommt: “[W]ie ist Philosophie, als eine reine Erkenntniß a priori, möglich?” (VT, S. 3). Bei Maimon besteht also die Philosophie erstmals in der Analyse der “Kategorien”. Mit diesem Satz bemerkt man schon, dass der Anfangspunkt seiner Philosophie nicht mehr die Forschung nach dem Übersinnlichen ist, sondern ausschließlich nach den Bedingungen der Erkenntnis überhaupt.4 Die Frage ist nicht, ob die Metaphysik, sondern ob die Philosophie selbst, als Wissenschaft der ersten Bedingungen der Erkenntnis, möglich ist. 4 Dies bedeutet nicht, dass sich Maimon mit der “Dialektik” nicht beschäftigt. In der Tat richtet er an die Dialektik eine ganz sachliche und harte Kritik (vgl. VnL, S. 422 ff.), die hier aber nicht berücksichtigt wird.
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1.2. Die transzendentale Deduktion bei Kant und die Frage “quid juris?” Wenn der Ausgangspunkt bei Maimon ausschließlich in einer Analyse der Kategorien besteht, dann muss man auf die konkrete Darstellung dieses Problems in der Kritik der reinen Vernunft eingehen. Eine solche Untersuchung der “Kategorien” heißt bei Kant “transzendentale Deduktion” und von ihr hängt die ganze Kritik ab (vgl. KrV, AXVI). Ihre konkrete Fragestellung wird auch als die Frage “quid juris?” benannt5 und sie lässt sich mit den folgenden Wörtern beschreiben: Will man daher wissen, wie reine Verstandesbegriffe möglich seien, so muß man untersuchen, welches die Bedingungen a priori seien, worauf die Möglichkeit der Erfahrung ankommt […] Diese Begriffe nun, welche a priori das reine Denken bei jeder Erfahrung enthalten, finden wir an den Kategorien; und es ist schon eine hinreichende Deduction derselben und Rechtfertigung ihrer objectiven Gültigkeit, wenn wir beweisen können, daß vermittelst ihrer allein ein Gegenstand gedacht werden kann (KrV, A96/97; meine Hervorhebungen).
Die Frage nach der objektiven Gültigkeit der Kategorien besteht bei Kant darin, diese Begriffe als Gründe aller Gegenstände der Erfahrung zu beweisen. Damit wird also erklärt, “wie sich Begriffe a priori auf Gegenstände beziehen können” (KrV, A85/B117)6 oder die “Rechtmäßigkeit eines solchen [objektiven] Gebrauchs [der Kategorien]” (KrV, A85/B117). Nun ist aber zu fragen, wie Maimon diese Problemstellung übernimmt, denn sie ist von großer Bedeutung für die Kritik und Nachbesserung, die ich später darstellen und analysieren werde. All dies impliziert bei Maimon Folgendes: Auf der einen Seite stehen die Kategorien oder reinen Begriffe (allgemeinste Regeln), die völlig a priori sind, denn sie drücken eine Allgemeinheit aus, die niemals aus der Erfahrung herzuleiten ist. Auf der anderen Seite stehen die unmittelbaren Beziehungen auf Objekte oder Anschauungen, die als Element der Erfahrung a posteriori sind. Die Frage nach der Erklärung der objektiven Realität der Kategorien bedeutet dann die Erforschung der Anwendung der “Begriffe” auf die Erfahrung (“Anschauung”), wobei sie als zwei an sich bestehende verschiedene Elemente begriffen werden. Das Problem ist die “Anwendung” (oder das “Applicieren”) des Apriorischen auf das Aposteriorischen, so wie Maimon im Versuch von 1789 (vgl. VT, S. 23) und in seinem ersten Brief an Kant hervorhebt (vgl. AA XI, S. 16). Er versteht also das Problem 5
Für eine weitere Erklärung vgl. Henrich 1989. Vgl. Maimons Behauptung: “die Sätze der Transscendentalphilosophie [müssen] sich erstlich auf bestimmte Objekte (nicht, wie die der Logik, auf einen Gegenstand überhaupt) d.h. auf Anschauungen” (VT, S. 8; auch VnL, S. 424) beziehen. 6
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der objektiven Gültigkeit oder transzendentalen Deduktion als “die Erklärung der Möglichkeit einer Erkenntnis aposteriorischer Objekte durch apriorische Begriffe” (Engstler 1990, S. 39).7 Die spätere Kritik an Kant hängt von diesem Verständnis ab, wie ich im Folgenden darstellen möchte. Zuletzt ist es auch wichtig festzustellen, dass im Gegensatz zu “quid juris?” Kant auch die Frage “quid facti?” stellt. Dieser Terminus wird aber von ihm nur benutzt, um die von Locke entwickelte “Deduktion” zu deuten, “welche die Art anzeigt, wie ein Begriff durch Erfahrung und Reflexion über dieselbe erworben worden” (KrV, A85/B117). Die Kategorien lassen sich jedoch aus der “physiologischen” oder “empirischen” Prüfung unseres Erkenntnisvermögens auf keinen Fall ableiten, weil eine reine apriorische Allgemeinheit niemals aus der Erfahrung bewiesen werden kann. Mit der Frage “quid facti?” möchte Kant demnach nur das Unverständnis Lockes der Fragestellung einer “Deduktion” deuten. Maimon stimmt mit dieser Kritik an Locke völlig überein, obwohl er – wie später erläutert wird – eine andere Nutzung des Terminus “quid facti?” machen mag, mit dem er genau den Beweisgang der Deduktion kritisieren will. Bei seiner Philosophie wird diese Frage demnach eine ganz andere Bedeutung haben. Worin aber diese neue Bedeutung besteht, die auch in seinem ersten Brief an Kant auftaucht (vgl. AA XI, S. 16), wird im folgenden Punkt des Aufsatzes erläutert. 2. Die Kritik “quid facti?” und der Skeptizismus Maimon versteht das Problem der objektiven Gültigkeit der Kategorien oder “quid juris?” als das Problem der Philosophie überhaupt, wie er von 1789 bis 1794 mehrmals betont, insbesondere wenn er verschiedene Einstellungen (Dogmatismus, Skeptizismus, Kritizismus und seine eigene Philosophie) als unterschiedliche Lösungen auf diese Frage begreift (siehe VT, S. 428 ff. und KA, S. 126-134). Nun ist zunächst zu erläutern, wie er die unleugbare “Wichtigkeit” der Lösung Kants erkennt und sie gleichzeitig als unbefriedigend bezeichnet (vgl. AA XI, S. 16). Dafür wird es nützlich sein, sich auf eine bestimmte Kategorie zu fokussieren, und zwar die der Kausalität (“Ursache und Wirkung”). Wenn man sie unter der oben erwähnten Frage7 Ob das ein richtiges oder falsches Verständnis der Sache bedeutet, liegt außerhalb der Absicht dieses Aufsatzes. Diese Frage ist aber für die Kant-Forschung, besonders heute, von Bedeutung, so wie einige Beiträge erklären: vgl. De Boer 2016. Wie auch immer ist eine solche Interpretation der Antwort Kants auf die Frage “quid juris?”, d.h. der Argumentation einer transzendentalen Deduktion nicht etwas, das sich auf das Verständnis von Maimon beschränkt, sondern vielmehr populär in der Zeit war. Siehe die Vorlesungen von G.A. Will (1788, S. 102-110) oder Schultz (1784).
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stellung Maimons erfasst, dann entsteht das Problem der Anwendung einer reinen apriorischen Regel “Wenn x, dann y” zur aposteriorischen Erfahrung. Die erste, dogmatische Lösung darauf ist zu behaupten, dass diese Kategorie aus der Erfahrung einfach abstrahiert werden kann und dass eine solche Abstraktion ihren Gebrauch schon legitimiert (vgl. KA, S. 131). Dies aber verfehlt das Problem von Anfang an, denn der Dogmatismus setzt völlig voraus, dass diese Kategorie Gültigkeit besitzt. Einen Beweis dafür zu liefern, ist Aufgabe des Kritizismus Kants. Er betont freilich, dass reine Verstandesbegriffe (Kategorien) “in Vergleichung mit empirischen (ja überhaupt sinnlichen) Anschauungen, ganz ungleichartig” sind (KrV, A137/B176; vgl. mit VT, S. 54) und so stellt er die Problematik der Deduktion auf. Diese Darstellung der Vereinigung von Kategorien und Anschauung oder “quid juris?” ist also der Punkt, von dem Maimons Kritik ausgeht. In diesem Teil werden wir also erstens die Lösung Kants und die Kritiken behandeln, die Maimon ihr unterzieht. Sie werden mit der Frage “quid facti?” ausgedrückt, deren Bedeutung ich neben dem Verständnis des Skeptizismus Maimons jetzt darstellen möchte. 2.1. Die Kritik an der Schematismus-Lehre (Anwendungsproblem) Gegenüber dem Dogmatismus nimmt Kant an, dass eine unleugbare Heterogenität zwischen Begriffen und Anschauungen besteht. In seiner “Deduktion” meint er, dass aufgrund der Heterogenität der Elemente, “es ein Drittes geben müsse” (KrV, A138/B177), damit eine Kategorie mit der Anschauung oder dem “entsprechenden Objekt” vereinigt werden kann. Das Element dieser Vereinigung ist bekanntlich die Vorstellung der “Zeit” – die Kant “das transzendentale Schema” nennt (vgl. KrV, A138/B177). Die reine Zeit ist einerseits “die formale Bedingung a priori aller Erscheinungen” oder Objekte (vgl. KrV, A34/B50) und anderseits teilt sie die Eigenschaft der Allgemeinheit mit den Kategorien (vgl. KrV, A138/B177). Die Zeit in Form der entsprechenden Kategorien, d.h. der sog. Schemata, ist daher die Vermittlung zwischen den Kategorien und der Erfahrung. Diese Lösung wird von Maimon so verstanden: “wir wenden diese Begriffe nicht auf die Materie der Anschauung unmittelbar, sondern bloß auf ihre Form a priori, (die Zeit) und vermittelst derselben auf die Anschauung selbst an” (VT, S. 52). Zum Beispiel entspricht die Kategorie “Kausalität” dem Schema notwendige, nicht umgekehrte Folge in der Zeit (vgl. VT, S. 54, 187) und so fallen unter dieser Kategorie alle empirischen Objekte, die diese Zeit-Form haben. So meint Kant (laut Maimons Interpretation), dass die objektive Realität der Kategorie “Ursache und Wirkung” bewiesen wird – also sich auf eine Anschauung bezieht –, insofern diese Kategorie in Form des Schemas
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der Zeit “notwendige, nicht umgekehrte Folge” dargelegt wird. Die Schematismus-Lehre fungiert als Methode (vgl. Engstler 1990, S. 130), die den Kategorien entsprechenden Formen von Zeit in den Anschauungen zu identifizieren und deshalb die allgemeinen Begriffe auf Erfahrung anzuwenden erlaubt. Die Lösung Kants ist aber für Maimon eine unbefriedigende Antwort, da diese bloß “hypothetisch” ist (PB, S. 225). Es ist klar, dass die Zeit allen Anschauungen zugrunde liegt und genau deswegen können Begriffe auf sie bezogen werden. Obwohl diese Antwort “eines Kant würdig” ist (AA XI, S. 16), bleibt immer noch die Frage: Wie ist es möglich, diese Bestimmungen der Zeit in den Objekten der Erfahrung zu erkennen? Wie kann man – fragt Maimon – wissen, wann die Kausalität oder eine andere Kategorie angewandt wird? Wo liegt der objektive Grund, der die konkrete Anwendung einer notwendigen Regel ermöglicht? Diese Frage bleibt nach Maimon ohne Antwort. Das Korrelat der “Kausalität” drückt eine gewisse Bestimmung der Zeit deutlich aus. Die Bestimmung der verschiedenen Schemata gibt jedoch kein Kriterium an, durch das die Kategorien in der Erfahrung angewendet oder erwiesen werden könnten. Die Schematismus-Lehre ist eine vielleicht notwendige, aber nicht hinreichende Lösung des Problems “quid juris?”. Eine befriedigende Antwort wäre nur möglich – argumentiert Maimon –, wenn man das Vermögen hätte, “diese Formen [der Zeit] […] als Formen in den Objekten zu erkennen” (VT, S. 431). Indem die Untersuchung das Korrelat der Kategorien in der Zeit bloß anzeigt, lässt sich also die Frage “quid juris?” nicht völlig auflösen (vgl. PB, S. 432), denn es wird keine objektive Gültigkeit gerechtfertigt. Bei Kant wird bewiesen, wie eine Anwendung möglich zu denken (in cogitatione) ist, aber nicht wie es wirklich (in re) geschieht: Sie [die Philosophie Kants] läßt eine ungeheure Lücke zwischen den reinen, sich auf Objecte überhaupt beziehenden und den, sich auf gegebene bestimmte Objecte beziehende Erkenntnissen, ohne den möglichen Uerbergang, von jenen zu diesen, zu zeigen (KG, S. 668).
Genau diese “ungeheure Lücke” der Philosophie Kants ist dasjenige, was die Frage “quid facti?” vorstellt (vgl. VT, S. 27; VnL, S. 190).8 Diese Kritik Maimons ist aber sehr stark. Sie bedeutet nicht, dass die Untersuchungen der Kritik der reinen Vernunft nicht gültig, sondern vielmehr unvollständig sind (diese Feststellung wird für das Verständnis des Skeptizismus Maimons von großer Bedeutung sein). Wenn es nicht der Fall ist, dann 8 Maimon drückt diese auch durch die Frage aus, “wie ist es [diese Einigung] begreiflich?” (VT, S. 364).
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soll der Erfahrungsgebrauch der Kategorien als unmöglich erwiesen werden. Nun ist also festzustellen, dass diese Kritik nicht dem Problem der Kategorien, auch nicht der Schematismus-Lehre an sich gilt, sondern vielmehr dem Anspruch dieser Theorie, die objektive Gültigkeit der Kategorien – nach dem Sinn, der früher dargestellt wurde – völlig bewiesen zu haben. 2.2. Die Kritik an das Faktum der Erfahrung (Faktizitätsproblem) Die hier erläuterte Kritik wird von Maimon immer neben einer “anderen” Kritik dargestellt, die aber im Grunde nur die Kehrseite der Medaille der Schematismus-Kritik ist, und zwar das Problem der Voraussetzung eines “unbezweifelte[n] Faktum[s]” (Vnl, S. 413; auch vgl. VT, S. 6, 186; GAD, S. 643). Mit dieser Voraussetzung erklärt man auch nach Maimon, wieso Kant der Frage “quid facti?” keine Aufmerksamkeit gewidmet hat, und doch glaubt er, die Frage “quid juris?” beantwortet zu haben. Bekanntlich räumt Kant in seinen Prolegomena das Faktum ein, dass wir “wirklich im Besitze einer reinen Naturwissenschaft [sind], die a priori und mit aller derjenigen Nothwendigkeit […] Gesetze vorträgt, unter denen die Natur steht” (Prol., S. 294-295; auch S. 280). Nach Maimon fungiert aber diese Voraussetzung als Grundüberzeugung nicht nur in diesem Buch, sondern in derselben Kritik (vgl. KrV, B17-8). Früher habe ich gesagt, dass die dogmatische Lösung behauptet, dass die Kategorien aus der Erfahrung einfach abstrahiert werden und dass eine solche Abstraktion ihren Gebrauch schon legitimiert. Bei Kant bekommen sie eine objektive Gültigkeit nicht mehr durch ihren einfachen Gebrauch, sondern durch die Schematismus-Lehre. Diese Lösung – sieht Maimon – setzt aber immer noch voraus, dass diese Kategorien gebraucht werden, obwohl ihre Legitimation nicht daraus bewiesen wird. Da Kant die Wirklichkeit der Kategorien nicht in Zweifel zieht, braucht er nur ihre Möglichkeit anzuzeigen, so wie es in der transzendentalen Deduktion geschieht. Doch dieses Faktum kann man bezweifeln, und deswegen könnte der Beweis der Schematismus-Lehre als nur hypothetisch oder unvollständig betrachtet werden: Kant legt in seiner Philosophie die Möglichkeit der Erfahrung überhaupt zum Grunde. Die Prinzipien der Transzendentalphilosophie haben nur als Bedingungen des Erfahrungsgebrauchs ihre Realität. Er setzt also Erfahrung als Faktum voraus. Ein Skeptiker aber, der Erfahrung selbst in Zweifel zieht, wird auch die Realität dieser Prinzipien bezweifeln (PB, S. 191, auch S. 203-204).
Dieses vorausgesetzte Faktum bedeutet – laut Maimon –, dass Kant eine reine und gleichzeitig auf das Empirische anwendbare Erkenntnis a priori einfach voraussetzt; mit dieser Voraussetzung kann aber die kritische Philosophie als Wissenschaft nicht bestehen, sowie in dem Titel der Prolegomena
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Diese Kritik an der transzendentalen Deduktion bedeutet also keine Kritik an der Transzendentalphilosophie an sich oder an dem Bedürfnis einer transzendentalen Deduktion überhaupt. Diese Stellung Maimons ist demnach sehr besonders. Es geht nicht darum, den Kritizismus, sondern nur seinen Anspruch auf einer Erkenntnis der Erfahrung aufzugeben. So glaubt Maimon, dass die kritische Philosophie “skeptisch” sein muss, wenn man konsequent argumentieren will: “[Man] kann unbeschadet der kritischen Philosophie meine Zweifel in Ansehung der Frage quid facti […] als begründet zugeben, weil ihrer Natur nach unauflösbar sind” (PB, S. 199).10 Dies bedeutet folglich, dass die Frage nach der objektiven Realität der Kategorien immer noch als Problem gestellt wird, weil die Hauptelemente der Erkenntnis bei Kant als gültig angenommen werden. In dieser Fragestellung wird niemals geleugnet, dass wir Begriffe nutzen, die eine bestimmte Erkenntnis ausdrücken. Nach Maimon kann man die Erkenntnis konkreter Gegenstände der Erfahrung in Zweifel ziehen, aber nicht die Erkenntnis selbst. Durch diese Kritiken steht man immer noch vor der Frage, die am Anfang gestellt wurde: “[W]ie ist Philosophie, als eine reine Erkenntniß a priori, möglich?” (VT, S. 3). Das Projekt von Maimon ist nun, sie dieses Mal ohne Voraussetzungen beantwortet zu können. Aus der neuen Problemstellung, die den kritischen Skeptizismus impliziert, entsteht die Bedeutung des “Satzes der Bestimmbarkeit”. 3. Die Nachbesserung aus dem “Satz der Bestimmbarkeit” Nach der dargestellten Kritik verbleibt immer noch der Ausgangspunkt des Denkens von Maimon offen, und zwar die Frage, “wie ist Philosophie, als eine reine Erkenntniß a priori, möglich?” (VT, S. 3). Der Fehler der Lösung Kants bestand darin, dass er “kein Kriterium des reellen Denkens angegeben” (VnL, S. 417), d.h. keinen Beweis der objektiven Gültigkeit der reinen Begriffe geliefert hat. Diesem Problem der Kategorien (vgl. 1.) und dem Skeptizismus bezüglich ihres empirischen Gebrauchs (vgl. 2.) entspringt die “Nachbesserung” Maimons, die ich in diesem letzten Teil darle10 Die Eigentümlichkeit dieser “Art des Skeptizismus” (PB, 191; auch VnL, 331) besteht darin, dass er sich von der “Akalepsia der Alten” (PB, 191) und dem “humeschen Skeptizismus” unterscheidet. Beide Autoren (Maimon und Hume) verstehen freilich, dass die Kategorien keinen empirischen Gebrauch besitzen, aber sie entfernen sich gleichzeitig voneinander in der endgültigen Schlussfolgerung, die sie daraus ziehen. Maimon behauptet deutlich: “Mein Skeptizismus giebt den Begriff von objektiver Notwendigkeit zu” (PB, 192) und “bezweifelt nur seinen wirklichen Gebrauch von Objekten der Wahrnehmung” (PB, 214; siehe auch VnL, 190), während Hume sogar die objektive Notwendigkeit in Zweifel zieht.
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gen möchte. Von dieser aus soll die Bedeutung und Funktion vom “Satz der Bestimmbarkeit” beschrieben werden, die eine endgültige Lösung der objektiven Gültigkeit der Kategorien oder des “reellen Denkens” darstellt. Zuerst wird aber eine Erklärung dieses letzten Terminus benötigt, der in Maimons Philosophie insbesondere ab 1794 eine wichtige Rolle spielt. 3.1. Die Umformulierung der Frage “quid juris?” Am Anfang dieses Aufsatzes wurde festgestellt, dass Maimon die Hauptelemente der Erkenntnis mit Kant teilt: Begriffe und Anschauungen (vgl. S. 3). Diese können aber auch als die Bestimmung und das Bestimmbare verstanden werden, wie es auch in der früheren Darstellung behandelt wird. Jeder Begriff bestimmt einen Gegenstand, d.h. etwas Bestimmbares, als etwas Bestimmtes (z.B. als “Lebewesen”), und dadurch wird es von anderen Bestimmungen unterschieden (ggf. von “Mineralien”) und gleichzeitig sind andere darunter subsumiert (“Tiere”, “Pflanzen”, usw.). Jeder Begriff oder Bestimmung funktioniert als eine Regel; und ohne die Regeln oder Bestimmungen könnte es die Erkenntnis nicht geben. In diesem Sinne besteht unsere Erkenntnis aus Bestimmungen, deren Funktion es ist, genau die Gegenstände oder das Bestimmbare zu regeln. Es gibt kein Objekt ohne Bestimmung, obwohl in Zweifel gezogen werden kann – wie Maimon es tut –, ob eine konkrete Bestimmung wahr oder falsch ist. Diese leichte terminologische Umstellung scheint nichts Neues zum an Anfang des Aufsatzes Gesagten hinzufügen, und doch liegt darin der Schlüssel, der meiner Meinung nach die Transformation zum Satz der Bestimmbarkeit ermöglicht. So wie es ohne Bestimmung klarer Weise keine Erkenntnis gibt, kann man auch behaupten, dass es unmöglich ist zu leugnen, dass es überhaupt Bestimmungen gibt. Tatsächlich könnte die Wirklichkeit konkreter Bestimmungen bezweifelt werden, aber nicht die Bestimmungen an sich. Damit kann auch nicht in Zweifel gezogen werden, dass es einen theoretischen Unterschied zwischen bloß logischen, auf dem Satz vom Widerspruch beruhenden, und den objektiven, vom Maimon “reellen” genannten Bestimmungen gibt. Die Frage ist betrifft den Grund dieser Unterscheidung, doch sie wird immer eingeräumt. Diese ist die implizite Überzeugung des Versuchs einer neuen Logik von 1794 und auch der Grund, warum sich Maimon vom alten Skeptizismus, von der “Akalepsia der Alten”, unterscheidet (PB, S. 191). Der Vertreter dieses Skeptizismus ist derjenige, der “bezweifelt selbst, dass er zweifelt” (PB, S. 192) und der also vermutlich nicht philosophisch ist. Daraus könnte man schließen, dass Maimon ein “Faktum” voraussetzt – so wie er sich manchmal äußert (vgl. PB, S. 430; auch GAD, S. 644) – und zwar, dass es diese “Bestimmung oder Erkenntnis überhaupt”
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gibt. Diese Behauptung kann irreführend sein, da er genau dies (die Voraussetzung eines Faktums) an Kant kritisiert. Dieses “neue” festgelegte “Faktum” ist aber keine materielle Voraussetzung, sondern einfach die Tatsache, dass wir “denken” oder, mit den Worten Maimons, dass es “reelles” Denken gibt (obwohl sein Grund unbekannt ist). Eine implizite Argumentation im Versuch einer neuen Logik besteht also darin, dass es dieses “Faktum” nicht geleugnet werden kann, da es, sobald man denkt, immer vorausgesetzt werden muss. Diese Feststellung ist jetzt mit der Kritik Maimons zu vereinigen. Das Problem der Kategorien – wie früher auch dargelegt wurde – stellt die Frage nach den allgemeinsten Begriffen des Denkens, die demnach die Gründe der Erkenntnis ausmachen. Da sie die allgemeinsten sind, schließen sie keinen Gegenstand aus. Dies impliziert folglich, dass sie alle unter sich enthalten, d.h. dass sie jede Bestimmung ermöglichen. Aus diesem Grund wurde behauptet, dass Kant diesen Bestimmungen das Adjektiv “reine” einfügt (vgl. 1.1.). Das Problem ist also das der reinen Bestimmungen oder des reinen Denkens. Bisher wurde eine konkrete Entwicklung der Frage “quid juris?” als die Erklärung der Möglichkeit einer Erkenntnis aposteriorischer Objekte durch apriorische Begriffe dargestellt. An dieser Fragestellung muss sich aber etwas ändern, damit sie nicht das gleiche Schicksal wie die Deduktion der Kritik erleidet. Diese Veränderung ist der Grund, aus dem Maimon nun die kantische Frage “quid juris?” nicht mehr als die sogenannte Erklärung versteht, sondern als die Frage: “Wie sind synthetische Sätze a priori, wodurch den möglichen Objecten Prädicate […] beigelegt werden, möglich?” (GAD, S. 644). Mit dieser Frage denkt Maimon dem Weg Kants zu folgen, ohne die Kategorien mit der Erfahrung in Verbindung zu bringen. Wenn die Kategorien die Elemente aller Objekte sind, dann ist die Frage nach einem Grund oder Satz, “wodurch den möglichen Objecten Prädicate […] beigelegt werden”. Das Problem verwandelt sich jetzt in das Problem der Bestimmung überhaupt, d.h. der Bestimmbarkeit. Eine mögliche Lösung für das Problem der Kategorien lässt sich bei Maimon jetzt durch eine Analyse des Grundes von der Bestimmung überhaupt, d.h. des Satzes der Bestimmbarkeit verstehen. Die Frage ist nun, wie es möglich ist, etwas (eine Bestimmung) von etwas (einem Bestimmbaren) a priori (“rein”) zu prädizieren. 3.2. Bedeutung und Funktion des “Satzes der Bestimmbarkeit” Ein jedes Verhältnis zwischen Begriff und Anschauung bzw. Bestimmung und Bestimmbarem ist mit einem Urteil identisch, wie gerade Kant behauptet (vgl. KrV, A68-9/B93-4). Dieses Urteil besteht aus zwei Elemen-
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ten; diese werden von Maimon – der Terminologie Kants folgend (vgl. KrV, A266/B322) – “Subjekt” oder “Bestimmbares” und “Prädikat” oder “Bestimmung” genannt. Es ist in dem Abhängigkeitsverhältnis dieser beiden Termini, in denen das Kriterium eines reinen, reellen Denkens entdeckt werden kann. Das soll aber nicht heißen, dass Maimon eine “sprachliche Analyse” durchführt, sondern nur eine Analyse der Struktur des Denkens. Die Möglichkeiten lassen sich auf vier logische Verhältnisse zwischen Subjekt und Prädikat zurückführen, da diese nur zwei Elemente sind: (i) Das Subjekt ist vom Prädikat abhängig, und auch das Prädikat vom Subjekt. (ii) Das Subjekt ist vom Prädikat abhängig, und nicht das Prädikat vom Subjekt. (iii) Das Subjekt ist vom Prädikat unabhängig, und auch das Prädikat vom Subjekt. (iv) Das Subjekt ist vom Prädikat unabhängig, und nicht das Prädikat vom Subjekt. Dies kann man mit dieser Tabelle einfach illustrieren:
Verhältnis des Subjektes zum Prädikat abhängig Verhältnis des Prädikats zum Subjekte
unabhängig
abhängig
(i)
(iv)
unabhängig
(ii)
(iii)
In diesem Verhältnis unterscheidet jedoch Maimon nur drei Verhältnisse, die drei Arten des Denkens ergeben: “formelles”, “willkürliches” und “reelles” (vgl. VnL, S. 20, 434; VT, S. 84). Im Folgenden möchte ich den Grund dieser Feststellung darstellen. Zuerst könnte man sagen, dass das Subjekt vom Prädikat abhängig ist. In diesem Fall ist das Prädikat dasjenige, das das Bestimmbare des Gegenstandes erzeugt. Es ist also bloßes Denken, wie es in einer logischen Definition angegeben ist. Wenn ich etwas “x” mit den Elementen “a, b, c” definiere, dann hängt “x” von diesen Elementen ab. Ein Urteil, in dem das Subjekt vom Prädikat abhängt, drückt einfach eine schon festgelegte Definition aus. In diesem Verhältnis ist es aber gleichgültig, ob das Prädikat vom Subjekt oder nicht abhängt, da immer vom logischen Denken die Rede
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ist. Der erste Fall wäre ein bloß identisches Urteil (a = a), der zweite eine logische Definition (x = a, b, c). Angesichts der Dichotomie “Materie und Form” kann man sagen, dass das Denken hier nur Form ohne Materie, also Denken ohne Gegenstand ist, d.h. hier geht es nicht um ein “reelles Denken”. Und das ist genau dasjenige, was in der Tabelle als (i) und (ii) dargestellt wird und was Kant “analytisches Urteil” nennt. Anders verhält es sich im Falle eines “willkürlichen Denkens”, in dem das Subjekt nicht vom Prädikat abhängt und umgekehrt, das Prädikat nicht vom Subjekt – also, dass die Bestimmung nicht notwendigerweise zum Bestimmbaren gehört und umgekehrt. Damit denken wir eine Bestimmung in einer möglichen Beziehung zum Bestimmbaren, aber dieses kann daher nie den Grund der Verbindung anzeigen: Z.B. “Der Tisch ist braun” oder “das Dreieck ist süß”. Ich kann “braun”/”süß” ohne “Tisch”/”Dreieck” denken und umgekehrt, was in jeder Erkenntnis oder Bestimmung der Erfahrung passiert. Deswegen behauptet Maimon: “Das willkürliche Denken hat gar keinen Grund, und ist also in der Tat gar kein Denken” (VnL, S. 24). Dieses Verhältnis ist demnach dasjenige, das Kant “empirische Erkenntnis” nennt, und sie drückt auch kein reelles Denken aus – vgl. (iii) in der Tabelle. Damit ist also auch die Kritik an Kants transzendentaler Deduktion nochmals festgehalten, denn diese versucht (nach dem Verständnis Maimons), dieses Verhältnis durch den Schematismus als notwendig zu etablieren. Es bleibt eine einzig mögliche Art des Verstehens, in dem die Elemente in einer gewissen Verbindung stehen und gleichzeitig nicht formell sind: Der Satz, dessen Subjekt unabhängig vom Prädikat ist und gleichzeitig das Prädikat vom Subjekt abhängt. Ein solches Urteil drückt etwas Objektives aus, denn die Bestimmung kann nur von einem Bestimmbaren sein, und da findet eine reelle Erkenntnis statt. Dies ist beispielsweise bei mathematischen Sätzen der Fall. Wie für Kant (vgl. KrV, A710/B738) ist für Maimon die Mathematik in der Tat eine apriorische Darstellung (Construction). Im Satz “Eine gerade Linie ist die kürzeste zwischen zwei Punkten” liegt ein Bestimmbares, “eine gerade Linie”, die ohne die Bestimmung “die kürzeste zwischen zwei Punkten” gedacht werden kann, aber die “kürzeste zwischen zwei Punkten” ist nicht ohne die “gerade Linie” denkbar. Diese Struktur wird von der grammatischen Struktur eines mathematischen Satzes illustriert, aber nur aus dem Verhältnis zwischen Subjekt und Prädikat definiert – vgl. (iv) in der Tabelle. Deswegen behauptet Maimon, dass nur die mathematische Erkenntnis reelles Denken ist, d.h., die Kategorien nur bei Objekten der Mathematik anwendbar sind (VnL, S. 192). Mit dieser Analyse gelangt man zur der Erfüllung der obigen Tabelle:
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Verhältnis des Subjektes zum Prädikat abhängig Verhältnis des Prädikats zum Subjekte
abhängig unabhängig
unabhängig Reelles Denken
Formelles Denken
Willkürliches Denken
Damit sind wir also zum “Satz der Bestimmbarkeit” gelangt. Dieser Grundsatz kann demnach ein Kriterium angeben, mit dem man wissen kann, wann genau eine Erkenntnis reell ist oder nicht. Dieser Satz erlaubt also die Frage “quid juris?” endgültig aufzulösen, denn man muss nur fragen, ob das Verhältnis zwischen Subjekt und Prädikat dem Verhältnis des reellen Denkens entspricht. Dieser Satz lässt sich bei Maimon auch in zwei Prinzipien (eines für jedes Element) ausdrücken: 1) in eine[m] Satz fürs Subjekt überhaupt: Ein jedes Subjekt muß nicht nur als Subjekt, sondern auch an sich, ein möglicher Gegenstand des Bewußtseyns seyn; 2) in eine[m] Satz fürs Prädikat: Ein jedes Prädikat muß nicht an sich, sondern als Prädikat (in Verbindung mit dem Subjekt) ein möglicher Gegenstand des Bewußtseyns seyn (VnL, S. 20).
Wurde einmal schon der Satz der Bestimmbarkeit oder die Lösung auf die Frage “quid juris?” gefunden, so ist schon die erste Frage der Philosophie beantwortet: Worin bestehen diese “Kategorien”? Nun ohne Voraussetzungen beantwortet: “Die Nothwendigkeit der Kathegorien, in Beziehung auf reelle Objekte überhaupt, beruht auf dem Grundsatze der Bestimmbarkeit” (VnL, S. 153). Am Anfang dieser Arbeit wurde bei Kant dargestellt, dass zwei Gebrauchsarten des Verstandes vorhanden waren: die subjektive, die nach dem Prinzip des Widerspruchs funktioniert, und die reale, deren Grundsatz gesucht werden sollte. Nach der Kritik an Kants Lösung, indem sie kein Kriterium angab, entsteht der Satz (oder das Prinzip) der Bestimmbarkeit als Prinzip dieses objektiven Gebrauches. Daraus sollten sich auch all die konkreten Kategorien ableiten; doch diese konkrete Darlegung muss an anderer Stelle erfolgen, da ihre richtige Analyse andere Kritiken und Feststellungen voraussetzt, die hier nicht dargestellt werden konnten. Tatsächlich haben wir nur die Kategorie der Kausalität behandelt. Von dieser kann man sagen, dass sie keineswegs aus dem Satz der Bestimmbarkeit abgeleitet werden kann, denn sie stellt das willkür-
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liche Denken dar. So bleibt Maimon ein “Skeptiker” in Bezug auf den empirischen Gebrauch der Kategorien, aber trotzdem denkt er, dass die Kategorien als reine Erkenntnis a priori zu beweisen sind, und zwar aus einem “genetischen” Prinzip: dem Satz der Bestimmbarkeit. Diese Kategorien sind immer noch die allgemeinsten Bestimmungen, obgleich sie im Endeffekt nur in der Mathematik anwendbar sind. Es ist auch zu betonen, dass Maimon die Kategorien zum ersten Mal aus einem Prinzip abzuleiten versucht, das nur vom Denken selbst aus (also “genetisch”) gestellt wird. Dies ist der Weg, der die Diskussion um 1794 in Deutschland bedingt und dessen Weiterentwicklung in Fichtes Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre zu suchen ist (vgl. Breazeale 2003). Schluss Trotz der Bedeutung vom Satz der Bestimmbarkeit für das Denken Maimons ist seine Bedeutung und Funktion immer noch sehr umstritten. Wie am Anfang dieses Aufsatzes beschrieben wurde, wird dieser Aspekt im Denken Salomon Maimons in der Rezeption entweder übergangen (Engstler 1990), nur teilweise berücksichtigt (Beiser 1987) oder in vielfältiger Weise interpretiert: in Bezug auf die symbolische Erkenntnis (Atlas 1964, S. 146-147), auf die mathematische Erkenntnis (Gueroult 1929, S. 44), auf die bloße Frage “quid facti?” (Kroner 1961; Senderowicz 2003), oder auf Kants Grundsatz der logischen Bestimmbarkeit von Begriffen (Lee 2008). Wenn das Ziel des Aufsatzes erreicht wurde, lässt sich der Übergang von der Frage “quid juris?” zum “Satz der Bestimmbarkeit” als ein kohärenter Zug verstehen, dessen Anfang in einer konkreten Deutung der Philosophie Kants besteht. Diese Interpretation beruht auf dem eindeutigen Verständnis der “Kategorien” als “reine[r] Erkenntnis” und aus diesem Verständnis wurde die Interpretation der Frage “quid juris?” bei Kant – Maimon folgend – verstanden als “die Erklärung der Möglichkeit einer Erkenntnis aposteriorischer Objekte durch apriorische Begriffe”. Nur so kann man begreifen, wieso das Problem für Maimon durch die Frage “quid facti?” als ungelöst erscheint. Wie auch gesagt wurde, impliziert diese Kritik keinen absoluten Skeptizismus, sondern nur einen “kritischen”, der das Problem der Kategorien anders lösen möchte. Nach Maimons Auffassung bedarf die Philosophie als “reine Erkenntnis a priori” keiner Beziehung zur Erfahrung. Vielmehr versteht er die Philosophie nur noch als Untersuchung der Bedingungen der reinen Erkenntnis überhaupt. Es gibt freilich keinen Zweifel, dass es Erkenntnis, und damit “reine Erkenntnis” gibt (ein Problem, das auch in Bezug auf Maimons zeitgenössische Diskussion besteht, vgl. Schrader 1987). Nun soll diese Erkenntnis – laut Maimon – in ihren Elementen ohne Voraussetzungen darge-
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legt werden. Dies wird durch die Analyse der Elemente eines Urteils – Bestimmbares und Bestimmung – durchgeführt und so wird ein neuer Grundsatz der Philosophie gefunden: der Satz der Bestimmbarkeit. Nur von diesem Prinzip ausgehend, kann man die Frage der Philosophie “quid juris?” wissenschaftlich beantworten, obwohl die Beziehung der Kategorien zum Empirischen problematisch bleibt. Departamento de Filosofía Universitat de València, España E-mail: [email protected]
Literaturverzeichnis 1. Abkürzungen Die Schriften Maimons werden nach der Originalausgabe oder den Gesammelten Werken (GW) zitiert. Die Angabe erfolgt aber immer parenthetisch im Text durch eine Sigle und die Seitenzahl des entsprechenden Buches oder Bandes des gesammelten Werkes. Es werden folgende Siglen und Bücher verwendet: GAD = “Salomon Maimon’s Geschichte seiner philosophischen Autorschaft, in Dialogen. Aus seinen hinterlassenen Papieren”, Neues Museum der Philosophie und Litteratur, Bd. II/1, S. 125-146; GW VII, S. 627-648. KA = Die Kategorien des Aristoteles. Mit Anmerkungen erläutert und als Propädeutik zu einer neuen Theorie des Denkens dargestellt (1794), nach der Original Ausgabe, Zweite unveränderte Auflage (1797), Berlin, Ernst Felisch, 1798. KG = Kritische Gutachten über die Kantische Philosophie (1804), GW VII, S. 667-670. LG = Salomon Maimon’s Lebensgeschichte. Von ihm selbst geschrieben und herausgegeben von K. P. Moritz. In zwei Theilen, GW I. PB = “Philosophischer Briefwechsel, nebst einem demselben vorangeschickten Manifest”, in Salomon Maimon’s Streifereien im Gebiete der Philosophie. Erster Theil (1793), GW IV, S. 177-244. VnL = Versuch einer neuen Logik oder Theorie des Denkens (1794), nach der Originalausgabe, Berlin, Ernst Felisch, 1794. VT = Versuch über die Transzendentalphilosophie mit einem Anhang über die symbolische Erkenntniß und Anmerkungen (1790), aus der Originalausgabe, Berlin, Chr. Friedrich Voß und Sohn, 1790. Die Schriften Kants werden nach der Akademie-Ausgabe (AA) zitiert. Die Angabe erfolgt parenthetisch im Text durch eine Sigle und die Seitenzahl des entsprechenden Bandes. Bei der Kritik der reinen Vernunft wird anstatt dessen
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die Sigle KrV mit der Originalpaginierung angegeben (nach der Felix Meiner Ausgabe, Hamburg, 1998): A für die erste und B für die zweite Aufgabe. Es werden folgende Siglen verwendet: Br = Briefe, nach der Nummerierung der AA X-XII. FM = Welches sind die wirklichen Fortschritte, die die Metaphysik seit Leibnizens und Wolff’s Zeiten in Deutschland gemacht hat?, hrsg. von F.Th. Rink (1804), AA XX, S. 253-332. Log = Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, AA IX, S. 1-150. Prol = Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können (1783), AA IV, S. 253-383. Refl = Reflexion, nach der Nummerierung der AA XIV-XIX.
2. Sekundärliteratur Atlas, S. 1964: From Critical to Speculative Idealism. The Philosophy of Solomon Maimon, The Hague, Martinus Nijhoff. Beiser, F.C. 1987: The fate of reason: German philosophy from Kant to Fichte, Cambridge, Harvard University Press. Breazeale, D. 2003: “Der Satz der Bestimmbarkeit. Fichte’s Reception and transformation of Maimon’s Principle”, Internationales Jahrbuch des Deutschen Idealismus/Yearbook of German Idealism, 1, S. 115-140. De Boer, K. 2016: “Categories versus Schemata: Kant’s Two-Aspect Theory of Pure and his Critique of Wolffian Metaphysics”, Journal of the History of Philosophy, 54, 3, S. 441-468. Ehrensperger, F. 2004, “Einleitung”, in S. Maimon, Versuch über die Transzendentalphilosophie, Hamburg, Felix Meiner, S. 7-52. Engstler, A. 1990: Untersuchungen zum Idealismus Salomon Maimons, StuttgartBad Cannstatt, Frommann-Holzboog. Freudenthal, G. 2003, “Maimon’s Subversion of Kant’s Critique of pure Reasen: There are No Synthetic a priori Judgments in Physics”, in Id. (ed.) 2003, S. 144-175. Freudenthal, G. (ed.) 2003: Salomon Maimon: Rational Dogmatist, Empirical Skeptic. Critical Assessments, Dordrecht, Kluwer. Gueroult, M. 1929: La Philosophie Transcendentale de Salomon Maimon, Paris, Alcan. Henrich, D. 1989: “Kant’s Notion of a Deduction and the Methodological Background of the First Critique”, in E. Förster (ed.), Kant’s Transcendental Deductions, Stanford, Standford University Press, S. 29-46. Kroner, R 1961: Von Kant bis Hegel, 2. Auflage, Tübingen, J.C.B. Mohr. Lee, K. 2008: “The principle of determinability and the possibility of synthetic a priori judgments in Kant and Maimon”, in P. Muchnik (ed.), Rethinking Kant, Cambridge, Cambridge Scholars Publishing, S. 241-264.
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“Discipline Filosofiche” Dipartimento di Filosofia e Comunicazione Università di Bologna Storia e obiettivi della rivista
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“Discipline Filosofiche”, rivista semestrale fondata nel 1991 da Enzo Melandri, ha assunto a partire dal 1995 una struttura compiutamente monografica, rivolta sia a problematiche di rilievo teoretico (logico, gnoseologico, epistemologico, estetico e linguistico), sia ad aspetti attinenti alla filosofia della pratica. La varietà dei contenuti trattati nel corso degli anni scaturisce da un’ampia partecipazione di contributi internazionali e da un intenso lavoro di traduzione di fonti inedite o difficilmente reperibili, che hanno arricchito il panorama filosofico di testi non ancora disponibili in lingua italiana. A partire dal 2012, “Discipline Filosofiche” pubblica articoli non solo in italiano, ma anche in inglese, francese e tedesco. Tutti i saggi – sia quelli pervenuti su invito della redazione sia quelli inviati in risposta a call for papers – sono sottoposti a un processo di peerreview doppiamente anonimo.
“Discipline Filosofiche” was founded in 1991 by Enzo Melandri, and is currently published twice a year. Since 1995 it has been publishing temathic issues on several topics both in theoretical philosophy (logic, epistemology, philosophy of science, aesthetics and philosophy of language) and in practical philosophy. The vast range of topics addressed in these years has been covered through the publication of several international contributions and an intense work of translation of unpublished or hard to find sources, thus introducing into the Italian philosophical scene many texts previously unavailable in Italian. As from 2012, “Discipline Filosofiche” publishes papers written not only in Italian, but also in English, French and German. All papers, whether solicited by the editors or submitted in response to a call for papers, undergo a double-bind peer review process.
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XVII 1 2007 Verso un’archeologia dell’intelligenza artificiale (a cura di Francesco Bianchini, Stefano Franchi e Maurizio Matteuzzi) XVI 2 2006 L’epistemologia francese e il problema del «trascendentale storico» (a cura di Andrea Cavazzini e Alberto Gualandi) XVI 1 2006 «La struttura subatomica dell’esperienza». Questioni di teoria della storiografia (a cura di Barnaba Maj) XV 2 2005 Elementi di estetica analitica (a cura di Giovanni Matteucci) XV 1 2005 La svolta pratica in filosofia. Vol. 2: Dalla filosofia pratica alla pratica filosofica (a cura di Roberto Frega e Roberto Brigati) XIV 2 2004 Percezione linguaggio coscienza. Percorsi tra cognizione e intelligenza artificiale (a cura di Francesco Bianchini e Maurizio Matteuzzi) XIV 1 2004 La svolta pratica in filosofia. Vol. 1: Grammatiche e teorie della pratica (a cura di Roberto Frega e Roberto Brigati) XIII 2 2003 Per un’estetica della memoria (a cura di Lisa Regazzoni) XIII 1 2003 L’uomo, un progetto incompiuto. Vol. 2: Antropologia filosofica e contemporaneità (a cura di Alberto Gualandi) XII 2 2002 Una “scienza pura della coscienza”: l’ideale della psicologia in Theodor Lipps (a cura di Stefano Besoli, Marina Manotta e Riccardo Martinelli) XII 1 2002 L’uomo, un progetto incompiuto. Vol. 1: Significato e attualità dell’antropologia filosofica (a cura di Alberto Gualandi) XI 2 2001 Carl Stumpf e la fenomenologia dell’ esperienza immediata (a cura di Stefano Besoli e Riccardo Martinelli) XI 1 2001 Hans Blumenberg e la teoria della modernità (a cura di Barnaba Maj) X 2 2000 William James e la fenomenologia (a cura di Stefano Besoli) X 1 2000 Unità di senso della storia nell’orizzonte contemporaneo (a cura di Barnaba Maj e Lisa Regazzoni) IX 2 1999 Heidegger e la fenomenologia dell’esistenza (a cura di Michele Gardini) IX 1 1999 Ebraismo e filosofia: tradizione e modernità (a cura di Barnaba Maj e Adriano Fabris) VIII 2 1998 Causalità e azione nella spiegazione psicologica (a cura di Roberto Brigati)
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