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Italian Pages 138 Year 2006
Carla Bagnoli
DILEMMI MORALI (Draft 18/10/04)
© Carla Bagnoli, 2004 Under contract, De Ferrari, Genova Please, do not cite or quote without the Author’s permission
Indice
Introduzione 1
La fenomenologia del dilemma morale
1.1
L’argomento del rincrescimento di Williams
1.2
R.M. Hare e l’appropriatezza dell’esperienza emotiva
1.3
Per una fenomenologia della scelta dilemmatica
2
Il dilemma morale: come definirlo?
2.1
Il conflitto di obblighi e l’obiezione di incoerenza
2.2
Strategie di contenimento dell’incoerenza
2.3
Il principio di agglomerazione
2.4
L’ambiguità di ‘potere’ e il principio secondo cui dovere implica potere
2.5
La relazione tra “dovere” e “potere”
2.6
La neutralità non è una virtù
2.7
La natura stipulativa e ricostruttiva delle definizioni
2.7.1
La definizione di obbligo
2.7.2
La definizione di dilemma morale
3
I dilemmi morali e la deliberazione
3.1.1
La deliberazione e il conflitto pratico
3.2
Ambivalenza, perplessità, e scissione del sé
3.3
Il giudizio di arbitrarietà
3.4.
Unità e integrità
3.5
Azione arbitraria e continuità nel tempo
3.6
Integrità e continuità narrativa
3.7
L’integrità e le attività riparatrici del sé
4
I dilemmi morali e l’incommensurabilità dei valori
Carla Bagnoli, Dilemmi morali
2
4.1
Scelte simmetriche
4.2
Strategie di arbitraggio
4.3
Decisioni arbitrarie
4.4
Strategie di arbitraggio esportabili
4.5
Dai casi di parità ai dilemmi morali simmetrici
4.6
La randomizzazione nei dilemmi morali asimmetrici
4.7
Deliberare, comparare e misurare
5
I limiti della deliberazione e l’importanza del teorizzare in etica
Bibliografia
Carla Bagnoli, Dilemmi morali
3
Quaestio mihi factus sum Agostino, Confessioni, X 33 50
a Luca, Serena e Clotilde
Carla Bagnoli, Dilemmi morali
4
Ringraziamenti
Questo saggio costituisce uno sviluppo delle riflessioni sulla rilevanza filosofica del dilemma morale che mi impegnano da diverso tempo. Gran parte di questo lavoro è stato scritto nel vecchio osservatorio astronomico di Madison durante l’anno accademico 2003-04, grazie ad una fellowship all’Institute for Research in the Humanities che mi ha sollevata da impegni didattici e amministrativi. Ho avuto l’opportunità di discutere gli argomenti dei capitoli 2, 3, e 4 in varie occasioni: all’American Philosophical Association, alla Special Conference on Value at UW-Steven Point, alla University of Illinois at Chicago, a Marquette University, alla University of Wisconsin-Madison, e alla Università di Rjieka. Per i commenti offertimi in queste occasioni, ringrazio Elvio Baccarini, Clotilde Calabi, Claudia Card, Joshua Gert, Peter Hylton, Christine Korsgaard, Tony Laden, Elijah Millgram, Amélie Rorty, George Rey, Abe Roth, Marina Sbisà, Marya Schechtman, Sally Sedgwick, Julius Sensat, Tamar Shapiro, David Velleman, e Gabriele Usberti. Sono grata a Carlo Penco, per avermi incoraggiato a scrivere questo saggio e per i preziosi suggerimenti di stile e di sostanza. Desidero ringraziare in modo particolare Luca Ferrero che è stato il primo lettore di questo libro e quindi anche il suo primo critico, ma soprattutto colui che ha ispirato le mie riflessioni sull’integrità e l’unità deliberativa. Questo libro è dedicato a lui, a Serena e a Clotilde, con la speranza e l’augurio che i dilemmi morali rimangano per loro solo un problema filosofico.
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Introduzione
Questo saggio tratta del dilemma morale e del suo significato filosofico. La convinzione che governa questa indagine è che vi siano dilemmi morali genuini, cioè conflitti morali irrisolvibili, in cui l’azione è arbitraria, cioè non giustificata da ragioni. Chiedersi se vi siano dilemmi morali non è come chiedersi se vi siano unicorni. La definizione di unicorno non è materia di discussione, e la questione se ve ne siano può essere determinata attraverso un’indagine empirica. Non così per il dilemma. Vi è disaccordo filosofico su che cosa sia un dilemma morale, e quindi anche su come interpretare l’esperienza di quegli agenti che si dicono intrappolati in un dilemma morale. La questione, insomma, non è se il dilemma sia un fenomeno genuino, ma piuttosto di che fenomeno si tratti. Prendiamo, per esempio, il caso dello studente di J.P. Sartre, diviso tra il dovere di combattere nelle Forces Françaises Libres e il dovere di rimanere al fianco della madre (Sartre, 1946, pp. 39-40). Lo studente è vincolato da due doveri contrastanti, si potrebbe dire; oppure si potrebbe dire che la sua volontà è divisa, o anche che interessi contrastanti lo spingono in direzioni opposte. La questione filosofica interessante non è tanto “Che cosa si dovrebbe fare in una situazione del genere?” ma piuttosto come descrivere e comprendere il problema morale di questo agente, e identificarne le conseguenze. Si tratta di un caso di perplessità morale, in cui l’agente attraverso un processo deliberativo apparentemente corretto arriva a due conclusioni contrastanti su che cosa deve fare. Ma la perplessità morale che contraddistingue lo studente è anche
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indicativo di un dilemma morale genuino? Bisogna dare credito all’esperienza di un agente perplesso? Questo è il problema con cui si apre questa indagine. Si tratta, in parte, di una questione che riguarda la fenomenologia morale, cioè il resoconto filosofico di ciò che consideriamo come “esperienza morale”. L’appello all’esperienza non è un argomento definitivo pro o contro la possibilità di dilemmi morali autentici, poiché un agente perplesso può, evidentemente, essere in errore, e quindi avere l’impressione di trovarsi di fronte ad un dilemma che invece ha una soluzione. Ma l’esperienza dell'agente perplesso deve comunque essere il punto di partenza della investigazione filosofica del dilemma. Un resoconto filosofico adeguato deve poter spiegare perché si esperiscono i dilemmi morali, perché si tratta di esperienze drammatiche, che cosa si guadagna attraverso la risoluzione del conflitto morale, perché è così importante risolvere i propri conflitti, che cosa è in gioco quando deliberiamo di questioni morali. Perché si esperiscono dilemmi morali? A questa domanda sono state offerte due tipi di risposta. Una prima ipotesi è che il dilemma morale sorga a causa di certi difetti cognitivi, morali, o logici dell’agente. L’agente che esperisce il dilemma ha compiuto un errore di qualche tipo, e per questa ragione non riconosce la soluzione giusta, oppure ha creato le condizioni per cui non ci può essere una soluzione giusta. Per esempio, l’agente compie un misfatto, e poi si trova a confrontarsi con un dilemma ancora più grave: la menzogna di ieri crea le condizioni per una serie di menzogne sempre più impegnative. In altri casi, l’agente esperisce un dilemma perché non delibera correttamente: si mostra particolarmente disattento riguardo a certi dettagli rilevanti della situazione, e perciò non ha gli elementi necessari per risolvere il suo problema. In certi casi questa disattenzione è un vizio morale, una negligenza colpevole; in altri casi è scusabile, e tuttavia impedisce
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di scorgere una via d’uscita che sarebbe, se non ovvia, almeno risolutiva. Infine, la perplessità dell’agente si può spiegare con la limitatezza delle capacità logiche e cognitive o con la semplice carenza di informazioni rilevanti. Per esempio, supponiamo che un dottore sia indeciso tra due terapie diverse che hanno effetti devastanti l’una sulla madre e l’altra sul feto e non sa prevedere quali siano le probabilità di riuscita di ciascuna. Queste spiegazioni insistono sul fatto innegabile che siamo deliberatori limitati e deboli, e suggeriscono anche che, in realtà, non vi sono conflitti morali che meritano la qualificazione di “dilemmi”, ma solo casi di scelta difficili in cui non riusciamo a discernere la soluzione giusta. Accogliere questa spiegazione, però, è come dire che non vi sono conflitti morali irrisolvibili, ma solo agenti difettosi, che lo stato di perplessità morale dell’agente non è indicativo di un dilemma genuino. Il medico esperisce il dilemma in ragione della limitatezza delle sue informazioni, il bugiardo in conseguenza delle sue menzogne, lo studente di Sartre perché non riesce a giudicare correttamente la situazione. Ma se questi agenti fossero perfettamente informati, virtuosi e capaci di ragionare correttamente, saprebbero come risolvere i loro conflitti. Chi accetta questa spiegazione è incline a ritenere che la teoria etica ci debba dire come superare i conflitti morali offrendoci un metodo di ragionamento pratico appropriato (Hare, 1981). Oppure ritiene che la teoria etica offra uno standard ideale di identità morale ideale, che l’agente non può mai realizzare appieno per via dei suoi limiti, ma che deve comunque considerare il criterio con cui valutare le sue scelte e le sue debolezze (Korsgaard, 1996). Il secondo tipo di spiegazione non parte da un’ipotesi di psicologia morale, ma da un’ipotesi sulla natura del valore. In questa prospettiva, i dilemmi morali si generano
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perché vi sono valori differenti e incomparabili (Nagel, 1979; Williams, 1981). Un agente che riconosce tali valori si trova perciò inevitabilmente vincolato da obblighi che possono entrare in conflitto. Quando gli obblighi entrano in conflitto non c’è un metodo per risolverli, e si genera necessariamente una perdita di valore. A differenza della prima, questa spiegazione prende sul serio l’esperienza dell’agente perplesso, ovvero, ammette che vi siano conflitti morali che non presentano soluzione alcuna. L’agente perplesso percepisce dunque qualcosa di vero a proposito della situazione di scelta in cui si trova, è veramente sottoposto ad obblighi genuini eppure incompatibili. Questo secondo tipo di spiegazione ha il merito di rendere conto in modo più caritatevole dell’esperienza dell’agente che affronta una scelta dilemmatica, e che proprio per questo si espone ad una difficoltà importante. I conflitti di obblighi sembrano simili a delle incoerenze: l’agente deve e non deve fare una certa azione. Se l’esperienza dell’agente perplesso è credibile, e quindi vi sono conflitti di obblighi, e perciò delle incoerenze, come può la teoria etica considerarsi un’impresa legittima? Una teoria etica che ammetta i dilemmi, e con ciò delle contraddizioni, rinuncia a presentarsi come un sistema coerente di principi morali. Per questo essa sembra fallire proprio nel suo compito precipuo: quello di guidare le scelte dell’agente. Ciascuna delle due ipotesi sullo status della perplessità porta con sè una certa lettura della rilevanza filosofica del dilemma morale. Chi accetta la seconda ipotesi sulla natura del dilemma morale si trova a concludere che la rilevanza filosofica del dilemma consiste nel suo rappresentare un test di adeguatezza per la teoria etica. Investigare la possibilità del dilemma dal punto di vista filosofico significa chiedersi se è possibile ammettere il dilemma in una teoria etica adeguata. In particolare, ciò comporta
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un’indagine sulla natura del valore, sulla possibilità di scelte ragionate in contesti di scelta in cui sono in gioco valori differenti, sulla natura e le conseguenze della coerenza in etica. In questo senso il significato filosofico del dilemma è meta-morale: si considera il suo impatto sulla teoria etica, di cui viene valutata la plausibilità descrittiva, la coerenza interna, e la determinatezza normativa. I filosofi che argomentano contro la possibilità del dilemma morale sostengono che ammettere che la perplessità morale corrisponde ad un dilemma genuino significa dire che la teoria etica è incoerente o indeterminata, cioé che dà istruzioni contraddittorie oppure insufficienti su come comportarsi di fronte ad un conflitto morale (Hare, 1981). Chi invece argomenta a favore della possibilità del dilemma morale sostiene che una teoria che ammette il dilemma è falsa rispetto ai fatti, disconosce sistematicamente l’esperienza dell’agente e quindi viola il requisito di plausibilità descrittiva. In ogni caso, in questa prospettiva, il dilemma morale è un caso filosoficamente interessante perché ci fa riflettere sui compiti della teoria etica. La prima ipotesi sulla natura del dilemma morale, invece, sposta la questione dal piano meta-morale a quello normativo. Siccome considera la perplessità morale come uno stato difettoso, ci invita a considerare quale teoria normativa dia maggiori garanzie di risolvere il conflitto morale, di correggere i nostri errori di percezione. Questo modello vanta il merito di spiegare la perplessità morale senza compromettere la possibilità della teoria etica poiché implica che, laddove essa potesse essere adeguatamente applicata, i conflitti troverebbero sempre la loro risoluzione. Il dilemma sorge, dunque, a causa delle condizioni di implementazione della teoria che sono da imputare alla limitata razionalità dell’agente. Da ciò si conclude, però, che i dilemmi morali sono spuri, e ciò in quanto
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sono sempre risolvibili se solo si applicasse correttamente la teoria etica (Mac Intyre, 1990; Donagan, 1996). Ora, ciascuno di questi due approcci al problema del dilemma morale presenta seri limiti. Se si affronta la questione del dilemma da un punto di vista puramente metamorale, si corre il rischio di presentarlo come un problema filosofico che ci interessa esclusivamente in quanto teorici dell’etica, anziché come un problema che ci affligge in quanto agenti (Gowans, 1987; Mason, 1996; Bagnoli, 2000). D’altra parte, se lo si affronta dal punto di vista normativo o della cosiddetta etica applicata si rischia di concentrarsi su strategie di risoluzione del conflitto e quindi di ridurre i dilemmi a casi di scelta difficili, perdendo così di vista la peculiarità del dilemma, cioè il fatto che non ammette una risoluzione razionale. L’approccio normativo potrebbe apparire comunque più interessante di quello meta-morale poiché promette di assolvere un compito pratico importante, e cioè quello di guidarci nelle scelte difficili. Tuttavia, a mio avviso, questo approccio non indaga la natura del conflitto morale né la natura della necessità di risolverlo, non coglie la peculiarità dei casi dilemmatici di scelta, e perciò non ci aiuta a comprendere appieno l’importanza e la rilevanza filosofica del dilemma morale. Sullo sfondo di questo modello esplicativo vi è, poi, una certa concezione non solo dei compiti della teoria etica ma anche dei suoi destinatari. In primo luogo, quando si dice che la teoria etica ha compiti pratici da assolvere, si implicitamente che tali compiti riguardino specificatamente l’azione, e che siano da assolvere tramite la proposta di una procedura decisionale completa, cioè capace di dare istruzioni determinate su che cosa si deve fare (Hare, 1981, cap. 2), oppure un sistema coerente e determinato di obblighi (Donagan, 1984). Di conseguenza, il lavoro deliberativo dell’agente viene rappresentato
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come
“applicazione”
di
una
procedura
al
caso
particolare,
oppure
come
l’implementazione di un algoritmo. I dilemmi morali si spiegano con errori dovuti alla limitatezza delle informazioni ed altri difetti cognitivi di chi applica la teoria; gli errori cognitivi sono mere interferenze (Donagan, 1984, pp. 291-309). In secondo luogo, la determinatezza normativa di una teoria e la completezza della procedura decisionale che ci mette a disposizione sono valutate dal punto di vista di agenti ideali. In questa prospettiva, quando ci interroghiamo sulla possibilità di dilemmi genuini ci chiediamo se agenti ideali, che operano in condizioni di razionalità perfetta, possano esperire il dilemma morale. Ma siccome la sorgente del dilemma è identificata con un errore o un difetto cognitivo, naturalmente la risposta è che agenti ideali non possono esperire dilemmi. La conclusione è che i dilemmi così come li esperiamo noi agenti imperfetti sono in realtà inautentici, a meno che non si dimostri, indipendentemente dal riferimento all’esperienza
dell’agente,
che
obblighi
incompatibili
procedono
da
valori
incommensurabili. La rilevanza filosofica del dilemma morale viene perciò ridotta alla questione della razionalità della scelta in contesti caratterizzati da incommensurabilità del valore. Lo scopo principale di questo saggio è di offrire una interpretazione alternativa della rilevanza filosofica del dilemma morale. Da una parte, si tratta di mostrare che l’esperienza morale ha una intelligibilità ed una importanza che è indipendente dalle ipotesi sulla natura del valore. La perplessità morale merita una spiegazione filosofica indipendente da considerazioni sulla natura del valore. Il significato pratico della teoria etica non consiste nel metterci a disposizione una procedura decisionale da applicare, ma piuttosto nel guidarci nelle nostre scelte. Può farlo in modo intelligente ed efficace solo
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se ci rende comprensibile la nostra esperienza della scelta. Una fenomenologia accurata della deliberazione nei contesti dilemmatici mostra che dal punto di vista dell’agente non v’è differenza tra dilemmi simmetrici (generati da ragioni che provengono dalla stessa sorgente di valore) e dilemmi asimmetrici (generati da valori incommensurabili). La rilevanza filosofica del dilemma morale non consiste perciò nel farci riflettere su come scegliere in condizioni di razionalità imperfetta o di incommensurabilità del valore, ma nell’incoraggiarci a ripensare il fine e l’ambito della deliberazione. Una delle assunzioni tacite che governano la riflessione filosofica sul dilemma morale è che la deliberazione ha il compito precipuo di risolvere il conflitto e indicare all’agente che cosa fare. Come cercherò di mostrare, ci sono buone ragioni per rifiutare una tale assunzione sulla natura e i compiti della deliberazione morale, e quindi anche per leggere altrimenti la rilevanza filosofica del dilemma morale. Si tratta, alla fine, di correggere l’errore prospettico che ha viziato il dibattito contemporaneo sulla possibilità del dilemma morale, il quale si è snodato secondo due direttrici principali, quella meta-morale e quella normativa. Dal punto di vista metamorale il significato filosofico del dilemma morale è conciso con la questione delle sue ripercussioni sulla teoria etica; dal punto di vista normativo, ci si è interrogati su come potremmo evitare i dilemmi se solo fossimo agenti ideali. In questo saggio mi propongo invece di affrontare la questione del dilemma morale interrogandomi sul perché costituisca un problema morale peculiare non per i teorici dell’etica o per esseri ideali, ma per agenti deboli e imperfetti quali noi siamo. Si tratta di capire come bisogna rappresentare la nostra debolezza ed imperfezione, e perché il dilemma morale rappresenti un’esperienza drammatica. Porsi questi obbiettivi non significa rinunciare alla
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teoria in etica, né significa trascurare il fatto che una teoria etica deve proporci un ideale rispetto al quale valutare le nostre scelte. Piuttosto, sosterrò che l’interesse filosofico del dilemma morale consiste nel farci riflettere sul perché deliberiamo avendo in mente un ideale, sul perché ci è necessario agire con criterio e dare ragione delle nostre scelte, e perché è in gioco la nostra integrità quando le nostre azioni non sono espressive della nostra identità pratica come accade nei contesti dilemmatici. Il dilemma morale è una minaccia alla nostra integrità perché ci pone di fronte ad una scelta necessaria senza che si possa disporre di ragioni decisive. Eppure riconoscere l’arbitrarietà dell’azione, la necessità della scelta, e quindi la drammaticità del dilemma è anche l’unico modo che abbiamo di costruire e determinare la propria integrità: è questo il fenomeno che attende una spiegazione filosofica.
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1 La fenomenologia del dilemma morale
Il dilemma morale esibisce una fenomenologia peculiare. Gli agenti morali che esperiscono un dilemma morale sono smarriti e perplessi non perché siano incerti rispetto ai loro doveri, ma perché non sembra esservi una rappresentazione della situazione che permetta loro di individuare qual è l’azione obbligatoria. La scelta in condizioni dilemmatiche sembra, cioè, non già infondata o irrazionale, ma arbitraria, cioè non basata su ragioni. Se la perplessità qualifica lo stato che precede l’azione in contesti dilemmatici, il senso di colpa, il rimorso, il rincrescimento sono i sentimenti che vengono anticipati durante la deliberazione ed inevitabilmente emergono dopo che la scelta è stata operata, quale che sia l’azione portata a termine. Si tratta di sentimenti che si accompagnano in modo caratteristico alla percezione di un fallimento da parte dell’agente, e generalmente segnalano la violazione di ragioni morali, ragioni che hanno un ruolo importante nella concezione che l’agente ha di sé. L’agire nei contesti dilemmatici comporta tipicamente l’esperienza di questi sentimenti, ed è questione filosofica aperta come debba interpretarsi questo fenomeno. In primo luogo, è questione dibattuta se tali sentimenti abbiano status morale. In secondo luogo, è controverso se si accompagnino semplicemente alla percezione di un errore morale, oppure se siano parte costitutiva di tale esperienza. Infine, è oggetto di discussione se la presenza di sentimenti morali negativi indichi che la deliberazione ha generato una perdita di valore. Si tratta di tre questioni distinte ciascuna delle quali richiede un’interpretazione filosofica della fenomenologia del dilemma morale.
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Se si guarda all’esperienza di sofferenza dell’agente, la fenomenologia della scelta dilemmatica è molto simile alla scelta tragica. Sia l’agente che è costretto dalle circostanze a scegliere senza una ragione apparente, sia l’agente che sceglie il male minore prova rimorso, rincrescimento, o senso di colpa. Evidentemente, l’agire secondo ragioni non ci protegge dalla sofferenza. Ciò sembra indicare che l’appello alla presenza di sentimenti negativi non rappresenta un argomento definitivo per la possibilità del dilemma morale (in cui non v’è un corso d’azione obbligatorio), ma se mai una prova della tragicità di certe scelte (in cui l’azione obbligatoria è comunque moralmente ripugnante, o tale che impone un sacrificio e la violazione di una ragione morale). Infatti, i sentimenti negativi sono presenti anche quando l’azione non è arbitraria, ma fondata su ragioni predominanti. C’è dunque bisogno di una qualificazione ulteriore per spiegare l’occorrenza e la rilevanza morale di tali sentimenti nei contesti dilemmatici. Dire che sono sentimenti appropriati quando l’agente ha agito senza ragioni predominanti o ha scelto il male minore, significa dire che questi sentimenti non sono solo negativi, ma anche residuali. Mentre la prima qualificazione è puramente fenomenologica, la seconda è normativa e implica una certa presa di posizione a proposito della struttura della deliberazione che ha preceduto l’azione. Senza dubbio i sentimenti residuali segnalano che la deliberazione ha avuto un costo considerevole (a meno che non ci siano prove indipendenti che l’agente è irrazionale o addirittura incompetente). Ma qual è precisamente il significato e la natura di questo costo? È su questo che si gioca la questione della possibilità del dilemma morale.
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Si possono isolare due posizioni al riguardo. Coloro che intendono negare la possibilità del dilemma morale, sostengono che tale costo non ha natura morale e che la deliberazione, quando viene portata a termine correttamente, non lascia residui di sorta in un agente razionale e competente (vd. Hare, 1981). Il sentimento che costituisce il residuo della deliberazione è considerato il prodotto di scarto di un ragionamento incompleto o errato. L’agente non ha ragione di ripensare o rincrescersi della propria decisione quando essa è fondata su buone ragioni, o quando non c’erano corsi d’azione migliori (come nel caso del dilemma). Secondo Bernard Williams (Williams, 1963, 1965), invece, bisogna dar pieno credito all’esperienza emotiva dell’agente. La presenza del rincrescimento non solo fa parte di una descrizione corretta della situazione, ma è costitutiva dell’esperienza del dilemma. In altre parole, si percepisce il dilemma attraverso l’esperienza del rincrescimento. Il disaccordo fondamentale tra Hare e Williams riguarda in particolare la natura residuale dei sentimenti che compaiono nei contesti dilemmatici, e la natura dei giudizi tutto-considerato che determinano la scelta in tali contesti.
1.1 L’argomento del rincrescimento di Williams Si noti che Williams non sostiene che si possa evincere la possibilità del dilemma morale semplicemente appellandosi all’esperienza emotiva dell’agente, né ritiene che la mera insorgenza di rincrescimento sia prova che l’agente ha compiuto una scelta senza avere ragioni determinanti. Piuttosto, Williams sostiene che vi è un tipo particolare di rincrescimento che segnala qualcosa di importante a proposito della natura del contesto di scelta in cui l’agente ha operato. Conviene allora esaminare le caratteristiche peculiari di
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questo fenomeno. Si tratta, in primo luogo, di un sentimento che pertiene ad un agente, anziché ad uno spettatore. È un sentimento che emerge, cioè, per il tramite di un ragionamento in prima persona su ciò che l’agente deve fare. Tuttavia, a differenza di altri sentimenti come la colpa o il rimorso, il rincrescimento non segnala la percezione di un vizio morale o di un errore deliberativo. Né il fatto che l’agente provi rincrescimento implica il desiderio, tutto considerato, di aver agito diversamente (Williams, 1981, p. 46.) Ci si può rincrescere della propria scelta senza perciò considerarla sbagliata o infondata. In questo senso, allora, il rincrescimento è compatibile con il riconoscimento che la scelta operata era basata su ragioni che continuano a sembrarci valide. L’argomento di Williams è che la presenza del rincrescimento sebbene non sia un modo di mettere in dubbio la giustificazione dell’azione compiuta, rivela che qualcosa è andato perso durante la deliberazione. Agire ha comportato una perdita di valore, il sacrificio di qualcosa di molto importante per la propria integrità. Dunque la presenza di rincrescimento, anche quando non vi erano corsi d’azione migliori, è giustificata e indica che il contesto di scelta in cui l’agente ha operato era pluralista. In questo senso, ha poca importanza per Williams che il rincrescimento non discrimini tra casi di scelta tragica in cui l’agente ha scelto il minore dei mali, e casi dilemmatici in cui non ci sono ragioni determinanti per l’azione. La questione centrale è che il rincrescimento indica un residuo della deliberazione e, più precisamente, una perdita di valore. Come ho appena osservato, questo residuo non segnala che c’è stato un errore durante la deliberazione, oppure che il ragionamento non è andato a buon fine. Piuttosto, il rincrescimento segnala che l’agente ha dovuto scegliere tra obblighi conflittuali la cui forza normativa dipende da sorgenti di valore diverse. Il dilemma morale è per Williams, alla fine, un conflitto tra valori diversi
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e in certa misura incommensurabili. Riconoscere che, operando la scelta, l’agente si rende vulnerabile al rincrescimento è come dire che la deliberazione lascia necessariamente un residuo quando si scontrano valori incommensurabili. Questo perché il rincrescimento è un sentimento che l’agente prova appropriatamente sia quando si trova a scegliere pur essendo vincolato tra ragioni contrastanti che derivano da valori incommensurabili, sia quando prende una decisione basandosi su una ragione predominante, sia quando la sua scelta è arbitraria. Questa osservazione ha implicazioni notevoli per quanto riguarda la natura della deliberazione in caso di conflitto morale, e non solo nei casi particolari di dilemma e scelta tragica. Williams ne ricava che il residuo (sottoforma di rincrescimento) è una caratteristica fondamentale e costitutiva dei conflitti morali. L’agente che si interroga sul da farsi non sta cercando di capire quale dei due obblighi in conflitto è quello falso; cerca invece di rispondere adeguatamente alle richieste della moralità. Fa il possibile, ma non è abbastanza. Sotto questo aspetto il conflitto morale presenta una fenomenologia molto diversa dal conflitto di credenze. Il rincrescimento, si può dire, marca il confine tra l’ambito pratico e l’ambito teoretico. La scoperta di un conflitto di credenze dà inizio ad una revisione che ha come scopo l’espulsione della credenza falsa. La preoccupazione di chi esperisce il conflitto di credenze è di evitare l’incoerenza per potersi fidare delle credenze di cui dispone. Risolvere il conflitto epistemico significa determinare che una delle due credenze contrastanti è falsa, e la risoluzione di questo conflitto non può lasciare alcun rincrescimento. Sarebbe irrazionale per un agente rincrescersi di aver estromesso dal proprio corredo epistemico la credenza secondo cui la luna brilla di luce propria. Invece,
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il conflitto pratico può lasciare residui anche se si è deliberato correttamente. Non è irrazionale provare rincrescimento dopo aver scelto tra due desideri incompatibili (per esempio, di seguire due strade che divergono nel bosco), anche se si è scelto con criterio (la strada meno battuta). È comprensibile che si guardi con rincrescimento la strada non presa delle due che divergono nel bosco anche se il fatto che quella intrapresa sia la meno battuta ci sembra ancora una ragione valida. Ciò mostra che la ragione inascoltata continua ad esercitare una certa attrazione che viene avvertita, dopo la deliberazione, sotto forma di rincrescimento. L’oggetto del rincrescimento in questo caso non è un errore deliberativo, ma una possibilità che abbiamo lasciato cadere, un’alternativa che rimane di valore anche se la sua ragionevolezza non è stata considerata una ragione predominante e non ci ha guidato nella scelta (Bagnoli, 2000a). L’esperienza del rincrescimento è il modo in cui attribuiamo valore a questa alternativa non perseguita che ci appare ancora desiderabile. Sotto questo aspetto, allora, i conflitti morali somigliano più ai conflitti di desideri che non ai conflitti epistemici. Nei conflitti morali, così come nei conflitti dei desideri, il rincrescimento mostra che la scelta ragionata non ha cancellato la desiderabilità dell’azione che non abbiamo compiuto, e quindi ci indica che la ragione morale rimasta inascoltata continua ad essere vincolante, anche se non ha predominato nella deliberazione. Il rincrescimento mostra, in questi casi, che riconosciamo ancora la forza normativa della ragione che non ha prevalso durante la deliberazione, e perciò continua ad esercitare una certa pressione su di noi. La questione è se tale pressione abbia anche autorità normativa. Williams ritiene di sì, e perciò tratta il residuo come indicativo della presenza di una ragione ancora vincolante dal punto di vista normativo, non solo presente nel corredo motivazionale dell’agente.
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A differenza dei conflitti di desideri, tuttavia, i conflitti morali non consentono all’agente di non prestare attenzione all’alternativa lasciata cadere. Mentre il desiderio di intraprendere la strada non presa e il conseguente rincrescimento può essere semplicemente ignorato o accantonato, il rincrescimento che segnala un conflitto morale richiede di essere preso in considerazione. La possibilità di sottrarsi a questa richiesta è preclusa dalla natura stessa della ragione morale (Williams, 1963, p. 178; Williams, 1981, p. 75). La ragione morale è tale per cui ci impone di essere presa in considerazione e quando non si risolve in azione, si ripresenta alla mente del valutante sotto forma di rincrescimento. Ciò significa che la possibilità di risolvere il conflitto morale senza residuo è un tentativo destinato all’insuccesso (Williams, 1963, p. 179). Certo la deliberazione può darsi nella forma di un soppesamento delle ragioni morali, e l’agente può formulare un giudizio tutto-considerato su ciò che deve fare una volta che ha preso in esame tutte le considerazioni moralmente rilevanti. Ma nei casi in cui vi è un conflitto di valori, Williams insiste, il giudizio tutto-considerato non può considerarsi la risoluzione morale del conflitto. Si tratta, piuttosto, di un modo di risolvere lo stallo deliberativo. Un tale giudizio determina che cosa l’agente deve fare, ma solo nel senso che una delle due ragioni morali in conflitto prevale sull’altra.
1.2 R.M. Hare e l’appropriatezza dell’esperienza emotiva Proprio perché il rincrescimento è un sentimento che si prova appropriatamente in occasioni diversissime nelle quali siamo impegnati nel ragionamento pratico, sembra implausibile sostenere che la presenza di un tale sentimento, anche quando è residuale, mostri la possibilità di dilemmi morali genuini. Hare ritiene che la questione rilevante, a
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proposito del dilemma, sia se l’agente può ragionevolmente provare rimorso nei casi di conflitto morale. Il rimorso è irrazionale quando l’agente ha agito per il meglio o quando non ha potuto fare altrimenti. Se l’agente ha deliberato secondo i canoni del ragionamento morale, non ha ragione di provare rimorso. Il rimorso è razionale solo nel caso in cui l’agente si rende conto di aver compiuto un errore deliberativo. Se però l’agente riconosce di aver deliberato correttamente e non rinnega la propria decisione, il sentimento morale che può appropriatamente provare è il rincrescimento. Ma questo tipo di sentimento è perfettamente compatibile con l’idea che tutti i conflitti abbiano una soluzione morale. Hare suggerisce che nell’argomento dei sentimenti residuali si sia confuso il rincrescimento con il rimorso; quest’ultimo sentimento risponde a criteri di appropriatezza peculiari. Il rincrescimento non ha la rilevanza morale che avrebbe il rimorso e ciò in quanto il rincrescimento non è un sentimento morale (Hare, 1981, p. 62). Alla luce di queste considerazioni, si potrebbe pensare di emendare l’argomento del rincrescimento considerando un’altra classe di sentimenti marcatamente morali, come il rimorso e il senso di colpa. Ma è facile immaginare dei casi in cui la presenza di questi sentimenti non indica un vero e proprio errore morale o l’assenza di una ragione di giustificazione per ciò che si è compiuto. Gli esempi abbondano: un agente che ha subito un’educazione repressiva vivrà con pesanti sensi di colpa la propria omosessualità, anche se non crede che vi sia niente di sbagliato o di ingiustificato nella propria condotta; le vittime di violenza sessuale spesso si sentono in colpa e biasimano se stessi per quel che hanno subito; i superstiti di una grave catastrofe si sentono in colpa per essere sopravvissuti ai loro familiari e amici. Per isolare una fenomenologia specifica del dilemma morale bisogna avere dei criteri normativi in grado di determinare la rilevanza,
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il significato, e l’appropriatezza di questi sentimenti. Sollevare la questione della rilevanza e dell’appropriatezza significa riconoscere che l’esperienza emotiva dell’agente deve essere valutata criticamente. La questione è che cosa significa “prendere sul serio” l’esperienza emotiva dell’agente. In risposta alle tesi di Williams sulla rilevanza ed il significato del rincrescimento dell’agente, Richard Hare sostiene che non bisogna considerare l’esperienza emotiva dell’agente come se fosse l’autorità ultima. I compiti della teoria etica a questo proposito sono due. In primo luogo, si tratta di fornire all’agente i criteri normativi con cui valutare la situazione, determinare le ragioni morali in gioco. In secondo luogo, si tratta di offrire un resoconto dei meccanismi psicologici in virtù dei quali l’agente percepisce la situazione in un certo modo. Secondo Hare, la teoria deve istruire l’agente su che cosa deve fare, determinare un corso d’azione preciso, ma deve anche spiegargli perché gli sembra che nessun corso d’azione sia percorribile, (cioè, perché gli sembra di esperire un dilemma morale). Per esempio, supponiamo che Mattia abbia concluso di dover rimanere a casa ad assistere il figlio febbricitante, anziché andare a teatro con la sua amica, come aveva promesso. Sebbene sia convinto della giustezza di questa decisione, prova un senso di colpa genuino per avere violato la promessa. Questo è un esempio di deliberazione in cui l’agente arriva ad un giudizio tutto-considerato che determina una ragione predominante per l’azione. Il sentimento di colpa che Mattia esperisce non è un motivo sufficiente per riconsiderare il processo deliberativo e mettere in dubbio lo status normativo dell’azione intrapresa, e tuttavia questo sentimento non è semplicemente irrazionale, inintelligibile o fuori luogo. Sebbene non indichi un errore deliberativo,
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questo sentimento ha significato morale; in questo caso, per esempio, indica che Mattia ha dei doveri di riparazione verso l’amica. Riconoscere che il sentimento di colpa di Mattia ha rilevanza morale non significa però sostenere che segnala la violazione di un obbligo, o l’esistenza di un conflitto di valori. In questo caso, infatti, la deliberazione di Mattia ha lasciato un residuo solo nel senso che la sua scelta ha creato le premesse per una nuova situazione deliberativa che coinvolge Mattia e la sua amica. Il residuo non rappresenta un obbligo non soddisfatto che riemerge sotto forma di sentimento negativo, ma piuttosto un incitamento a proseguire il proprio lavoro deliberativo ponendosi la questione di come riparare o ristrutturare la relazione con l’amica. In questo senso, il residuo non indica un errore o un difetto deliberativo, ma la necessità di impegnarsi in ulteriori processi deliberativi. Perché ciò sia plausibile, occorre che il sentimento morale sia associato al dovere prima facie, cosicché anche quando l’agente delibera che, tutto considerato, deve compiere una certa azione, prova senso di colpa per l’azione prescritta dal giudizio prima facie. In altre parole, la giustificazione del giudizio tutto-considerato non cancella l’importanza che i giudizi prima facie hanno, anche se questi non costituiscono, in quel particolare contesto deliberativo, delle ragioni per l’azione determinanti. Per rendere conto della relazione tra giudizio prima facie e sentimenti negativi, Hare si avvale di una teoria morale a due livelli. Solo una teoria così strutturata può, secondo Hare, spiegare la fenomenologia del dilemma morale senza incorrere nelle obiezioni canoniche di incoerenza e incompletezza. Cioè, solo una teoria a due livelli può spiegare perché si esperiscono sentimenti residuali anche quando abbiamo deliberato correttamente su ciò che dobbiamo fare. Siamo agenti che operano in condizioni di
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razionalità imperfetta: abbiamo poco tempo a disposizione per deliberare, le nostre capacità cognitive e logiche sono limitate, e quindi la nostra comprensione della situazione deliberativa in cui ci troviamo è seriamente limitata. Se fossimo agenti che operano in condizioni perfette di razionalità, con un tempo infinito e capacità cognitive e logiche perfette, troveremmo sempre una soluzione ai conflitti morali, e quindi non ci sarebbe ragione di provare sentimenti negativi. Ma date le nostre limitazioni, possiamo affidarci solo a regole morali generali che ammettono eccezioni e che possono essere predominate da altre regole durante la deliberazione. Perché i principi morali siano davvero efficaci, debbono essere abbastanza generali da poter essere imparati e trasmessi (Hare, 1952, 2:2; Hare, 1963, 2:8, e 3:5). Ma proprio in quanto generali, i principi morali entrano facilmente in collisione. Quando impariamo il contenuto di queste regole morali (i doveri prima facie) impariamo anche ad associarvi dei sentimenti morali. In altre parole, queste regole morali vengono internalizzate, e i sentimenti morali funzionano da sanzioni interne: ci compiaciamo di noi stessi quando facciamo il nostro dovere, ci puniamo con il rimorso o il senso di colpa quando manchiamo di farlo. I sentimenti negativi, come il rimorso o il senso di colpa svolgono dunque un ruolo fondamentale nel processo di internalizzazione delle regole morali. Essi fungono da incentivi o deterrenti per l’osservanza di norme, e quindi la loro occorrenza è giustificata ogni qual volta la norma è violata o predominata. Hare ritiene che la teoria etica adeguata per agenti che operano in condizioni perfette di razionalità pratica sia l’utilitarismo dell’atto. A questo livello gli agenti dispongono di tutte le informazioni rilevanti, di tempo infinito e di una capacità perfetta di immedesimarsi con gli altri. Questi agenti sono perciò in grado di applicare
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l’utilitarismo dell’atto e sono sempre in grado di determinare delle risposte alle questioni morali. Per agenti imperfetti quali noi siamo, è impossibile calcolare quale atto è giustificato utilitaristicamente. Bisogna perciò affidarsi a regole morali che sono a loro volta utilitaristicamente giustificate. In certi casi particolarmente difficili di conflitto morale, la deliberazione dell’agente imperfetto non riesce ad arbitrare tra due regole morali in conflitto, e a determinare un giudizio tutto-considerato. In questi casi allora l’agente crede di essere soggetto a due obblighi contraddittori, e quindi di esperire un dilemma morale. Ma non si tratta di dilemmi morali autentici, sostiene Hare, perché uno dei due obblighi in conflitto non è, in realtà, un obbligo. Il dilemma che l’agente imperfetto esperisce non sarebbe un dilemma se l’agente operasse in condizioni di razionalità perfetta e potesse esercitare il ragionamento morale correttamente, cioè applicando l’utilitarismo dell’atto. Il resoconto di Hare spiega la fenomenologia del dilemma morale senza riconoscere conflitti di obblighi genuini. Ciò perché i sentimenti morali negativi, come il rimorso o il senso di colpa, sono appropriati sia nel caso che l’agente abbia violato un obbligo genuino, sia nel caso che abbia violato un obbligo prima facie. Il fatto che l’agente provi giustificatamente dei sentimenti negativi mostra che la deliberazione ha lasciato un residuo di cui l’agente deve occuparsi, ma non mostra che l’agente ha violato un obbligo. I sentimenti negativi sopravvivono alla deliberazione, anche quando le norme a cui sono stati associati sono predominate, e quindi sono giustificati anche dopo una deliberazione corretta. Così, Mattia prova giustificatamente rimorso per aver violato la promessa fatta all’amica, anche se il dovere di mantenere la promessa è stato predominato nella
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deliberazione. Questa resoconto della fenomenologia del dilemma si basa su una concezione della deliberazione che merita un esame attento. Il giudizio di dovere prima facie (a cui vengono associati i sentimenti morali) non è una specie di ragione apparente la cui forza normativa viene completamente cancellata dal giudizio tutto-considerato. Piuttosto, è una norma che stabilisce ciò che ha rilevanza morale, ed è una norma che rimane importante per l’agente anche dopo che ha deliberato a proposito della sua predominanza. Lo status normativo del giudizio di dovere prima facie è diverso dallo status normativo del giudizio tutto-considerato. Il giudizio tuttoconsiderato non reitera semplicemente il contenuto del dovere prima facie, è invece la conclusione di un processo deliberativo che stabilisce una relazione di predominanza tra i due doveri prima facie in conflitto. Ma la relazione di predominanza che viene stabilita tra i due doveri prima facie non equivale ad un nuovo ordinamento o ad una revisione dell’assetto normativo dell’agente. Il giudizio tutto-considerato non cancella la forza normativa dei doveri prima facie, piuttosto, esso stabilisce che in questo contesto deliberativo un dovere (p.e. il dovere di accudire i propri figli) predomina sull’altro (il dovere di mantenere le promesse). Ciò nonostante, il dovere prima facie di mantenere le proprie promesse rimane di vitale importanza per l’agente. La deliberazione non ha stabilito che in caso di conflitto, il dovere di mantenere le promesse viene sempre predominato dal dovere di accudire qualcuno. Questo spiega anche perché l’agente possa incorrere in altri conflitti dello stesso tipo, in cui deve decidere se accudire qualcuno oppure rispettare i propri impegni. La relazione di predominanza che il giudizio tuttoconsiderato ha stabilito in un certo contesto deliberativo non può essere esportato in un altro.
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Si osservi che il giudizio tutto-considerato propone una soluzione morale al conflitto di doveri prima facie. Quindi la presenza di sentimenti morali negativi non indica un residuo morale della deliberazione, cioè non mostra che il problema morale che aveva dato inizio alla deliberazione è rimasto irrisolto, ma piuttosto che ha un seguito. Per esempio, il caso di Mattia mostra che il problema morale se accudire il proprio figlio oppure andare a teatro come promesso all’amica, ha trovato una soluzione, ma ha anche posto un altro problema: come riparare nei confronti dell’amica? La residualità dei sentimenti negativi che si manifestano dopo la scelta nei casi di conflitto risolto deve perciò essere intesa nella prospettiva del futuro deliberativo dell’agente: la scelta passata è moralmente giustificata, ma mette l’agente di fronte a nuovi compiti deliberativi. Se è così, allora la fenomenologia del dilemma morale può essere spiegata adeguatamente senza ammettere dilemmi morali genuini. Perché vi sia un autentico dilemma morale, sostiene Hare, bisogna che l’agente sia vincolato da due obblighi incompatibili. Questo non si dà mai perché vi è sempre una soluzione dettata dai canoni dell’utilitarismo dell’atto. In alternativa a Williams, Hare sostiene dunque che l’esperienza emotiva dell’agente non è un criterio sufficiente per provare che vi sono dilemmi morali autentici, in cui si è sottoposti ad obblighi ugualmente vincolanti eppure incompatibili. Ciò perché si può spiegare l’intelligibilità, la razionalità e l’appropriatezza di questi sentimenti senza far appello ad un conflitto di obblighi o di valori incommensurabili. Il disaccordo tra Williams e Hare riguarda, innanzitutto, lo status del giudizio tuttoconsiderato. Per Williams tale giudizio differisce dai doveri prima facie non solo per quanto riguarda lo status normativo, ma anche perché non ha status morale. Secondo
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Williams il giudizio tutto-considerato stabilisce che cosa fare dal punto di vista deliberativo, ma non rappresenta una soluzione morale. Il residuo che lascia è perciò un residuo morale: uno degli obblighi non soddisfatti reclama di essere preso in considerazione, e denuncia una perdita di valore, o più precisamente rivela che un genere di valore è stato sacrificato ad un altro. Così, il fatto che Mattia provi rimorso per non aver mantenuto la promessa mostra che il suo giudizio tutto-considerato ha lasciato un residuo morale, e l’amore per l’amica è stato sacrificato all’amore per il figlio. Per Hare, invece, il giudizio tutto-considerato conta come una risoluzione morale e quindi la residualità dei sentimenti negativi che seguono la scelta deve essere intesa altrimenti, come diretta al futuro deliberativo, anziché al passato. La questione è se sia necessario leggere la residualità dei sentimenti negativi come avente status morale allo scopo di spiegare la fenomenologia morale e dire, con Williams, che il rimorso di Mattia segnala un residuo morale e, alla fine, il sacrificio di un valore. Mi sembra che la conclusione di Williams non sia ovvia né condivisibile, e che si debbano trarre altre conclusioni da un esame attento della fenomenologia morale. Dalla contrapposizione di queste due rappresentazioni della fenomenologia del dilemma morale si devono ricavare tre lezioni importanti. Primo, gli argomenti basati sulla fenomenologia del dilemma e l’esperienza emotiva dell’agente non sono sufficienti a stabilire che vi sono dilemmi morali autentici. Che l’agente provi rimorso o senso di colpa dopo aver deliberato secondo i canoni del ragionamento pratico non mostra che la sua deliberazione abbia lasciato un residuo morale. Quindi l’esperienza emotiva non può essere usata come un criterio per stabilire che l’agente ha davvero esperito un dilemma morale, cioè che è vincolato da obblighi incompatibili. Sotto questo aspetto, Hare ha
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ragione a respingere l’argomento di Williams secondo cui la mera presenza di rincrescimento (e per estensione dei sentimenti negativi) prova la possibilità di conflitti irrisolvibili. Ciò perché la fenomenologia del dilemma (in cui non c’è soluzione, né giustificazione) è simile a quella della scelta tragica (in cui si sceglie giustificatamente il minore di due mali). Tuttavia, bisogna andare oltre il resoconto di Hare per far spazio alla tesi che i sentimenti morali sono modi in cui percepiamo e valutiamo la situazione in cui ci troviamo. Un’analisi dei sentimenti morali ci istruisce sui modi in cui l’agente intende la propria situazione e costruisce il proprio problema morale. In questo senso, i sentimenti morali operano in modi più complessi di quelli previsti da Hare, e svolgono funzioni diverse da quelle della semplice internalizzazione delle norme: non sono solo punizioni che l’agente si infligge avendo riconosciuto una propria mancanza. Perché allora proviamo sentimenti negativi, a che ci servono? Ci sono dei sentimenti morali peculiari della scelta dilemmatica? Che cosa ci dicono a proposito del dilemma morale? Nel prossimo paragrafo cercherò di rispondere a queste domande.
1.3 Per una fenomenologia della scelta dilemmatica È curioso che i filosofi che si sono occupati del dilemma morale abbiano preso in considerazione solo i sentimenti morali che si manifestano dopo la scelta, come il rincrescimento, il rimorso o il senso di colpa (Bagnoli, 2004). La percezione del dilemma morale attraverso i sentimenti viene descritta attraverso una specie di ragionamento ipotetico: quando l’agente si accinge alla scelta si immagina rovinato dal rimorso o dalla colpa, sia che agisca in un modo, sia che agisca in un altro. La fenomenologia del
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dilemma è così rappresentata da questa categoria di sentimenti (il senso di colpa e rimorso, il rincrescimento, la vergogna) che vengono anticipati nella deliberazione, e che sono inevitabili dopo la scelta. Si tratta di una rappresentazione filosofica, dettata da certi presupposti che ora bisogna esplicitare. In primo luogo, il senso di colpa, il rincrescimento, il rimorso e la vergogna sono sentimenti agente-relativi che si associano alla percezione di un fallimento, e quindi manifestano una specie di insoddisfazione riguardo a sé stessi come agenti, il proprio carattere, le proprie azioni, o ciò che ne è seguito. Tali sentimenti si manifestano nelle menti “propriamente educate”, e funzionano fondamentalmente come sanzioni interne, ovvero, come punizioni che l’agente si auto-infligge avendo riconosciuto la propria manchevolezza, il proprio vizio, il proprio errore. Si tratta di una una specie di autorimprovero e “l’idea che esso esprime è che, se operiamo razionalmente, proteggiamo noi stessi dai rimproveri del nostro io futuro” (Williams, 1981, p. 50). L’assenza di questi sentimenti dopo un errore morale o un fallimento deliberativo di qualche genere mostra che l’agente non è sensibile alla morale. In secondo luogo, si tratta di sentimenti che tipicamente servono a spiegare la forza motivazionale degli obblighi morali. In diversi resoconti filosofici questi sentimenti sono chiamati in gioco per spiegarci da dove l’obbligo morale trae la sua forza obbligante, cioè vincolante e motivante (Mill, 1861, cap. 2; Gibbard, 1990, p. 294; Korsgaard, 1996, p.151) Quindi non solo i sentimenti come il rimorso o il senso di colpa funzionano tipicamente da sanzioni interne, ma si associano tipicamente a degli obblighi. Quando la fenomenologia del dilemma morale viene rappresentata nei termini di questa categoria di sentimenti negativi (che vengono anticipati durante la deliberazione, e
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esperiti dopo la scelta) vengono suggerite, implicitamente, due tesi importanti a proposito del dilemma morale. In primo luogo, viene usata una definizione particolare del dilemma come un conflitto tra obblighi. In secondo luogo, viene suggerito che nei contesti dilemmatici la scelta è sempre analoga ad un errore deliberativo. Nel prossimo capitolo cercherò di mostrare che la definizione del dilemma come conflitto di obblighi costituisce un’ipotesi di lavoro poco vantaggiosa per un’indagine filosofica del dilemma morale. Quando il dilemma è descritto come un caso di incertezza o indeterminatezza, si suggerisce anche che la deliberazione in questi casi è stata incompleta o inefficace. La percezione di un dilemma morale è dunque la percezione di una inadeguatezza. Ciò che l’agente è costretto a ricavare dall’esperienza dolorosa del dilemma è la constatazione dei propri limiti, delle proprie debolezze e mancanze, della propria miopia. Sosterrò che è fuorviante considerare il dilemma morale come il risultato di un errore deliberativo. Accettare questa tesi implica che la deliberazione consegue il suo fine quando dà un verdetto preciso e determinato su che cosa l’agente deve fare. Se si abbandona la definizione del dilemma morale come conflitto tra obblighi si mettono a fuoco sentimenti morali diversi da quelli retrospettivi, auto-sanzionatori, autopunitivi quali il rincrescimento, il rimorso, il senso di colpa o la vergogna. Di fronte ad una scelta arbitraria, ci si può sentire perplessi, paralizzati, confusi, schiacciati dal peso di responsabilità che non possiamo assolvere, oppure possiamo provare un sentimento di rivolta verso la situazione stessa che ci impone di prendere una decisione “impossibile”, o meglio, ci impone di decidere quando veramente non si tratta per noi di “scegliere”. A mio avviso, l’enfasi sulla perplessità e l’arbitrarietà ci consente di prestare attenzione alla ragione fondamentale per cui i dilemmi morali rappresentanto un problema serio per
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l’agente: la questione cruciale non è tanto che cosa fare, ma perché, cioé che cosa fare sulla base di ragioni con cui ci identifichiamo e che riteniamo valide. La mia ipotesi è che il dilemma mette a repentaglio la nostra integrità mettendo in pericolo le condizioni alle quali possiamo esercitare ed esprimere le nostra identità pratica. Si tratta ora di dare un resoconto filosofico di questa ipotesi, e di trarne le conseguenze. Il compito più immediato è quello di proporre una definizione alternativa di dilemma morale, ciò che farò nel prossimo capitolo.
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2
Il dilemma morale: come definirlo?
Così come Williams e Hare, la maggior parte dei filosofi che si sono occupati della possibilità e delle conseguenze del dilemmma morale ha assunto che se vi sono dilemmi morali, questi sono da intendersi come conflitti di obblighi e, alla fine, di obblighi che procedono da sorgenti normative differenti. Sophie ha l’obbligo di risparmiare la vita di ciascuno dei due figli, ma non può risparmiarli entrambi. Lo studente di Sartre ha l’obbligo di combattere per la libertà e l’obbligo di accudire sua madre, ma non può soddisfare entrambi gli obblighi. Comunque agiscano, gli agenti che affrontano scelte dilemmatiche violano di un obbligo, e dunque si espongono ad una colpa inevitabile. In questo capitolo esaminerò gli argomenti principali sulla possibilità e le conseguenze dei conflitti di obblighi. Infine, proporrò una definizione alternativa di dilemma morale che dà modo di pensare altrimenti il suo significato filosofico, e consente di rendere conto adeguatamente della sua complessa fenomenologia.
2.1 Il conflitto di obblighi e l’obiezione di incoerenza Molti ritengono che il conflitto tra obblighi morali sia analogo all’incoerenza logica, e ritengono anche che ammetterne la possibilità comprometta la teoria etica come impresa teorica e pratica (vd. Donagan 1984, Brink 1994, McIntyre 1990). Assumendo che il dilemma morale è un conflitto di obblighi, si assume anche che la sua rilevanza filosofica consista nel rappresentare un test per la teoria etica: una teoria etica che ammette dilemmi morali si mostra incoerente. Se è incoerente, la teoria etica è incapace di assolvere il suo compito pratico precipuo, quello di guidare la condotta dell’agente.
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L’argomento con cui si deriva l’incoerenza fa appello a due principi che sembrano intuitivamente accettabili. Secondo il principio ‘dovere’ implica ‘potere’: un agente deve poter fare ciò che è obbligato a fare, altrimenti l’obbligo non sussiste. Il secondo principio regola l’agglomerazione degli obblighi: se un agente deve fare a e deve fare b, allora deve fare a & b. Questi principi sono considerati assiomi nella logica deontica ordinaria. Dati tali assiomi, e dati C operatore di possibilità, O operatore deontico, a e b variabili che stanno per azioni, si costruisce il seguente argomento: 1) -C (a & b) premessa 2) Oa premessa 3) Ob premessa 4) (Oa & Ob) => O(a & b) principio di agglomerazione 5) O(a & b) => C(a & b) principio ‘dovere implica potere’ 6) O(a & b) per calcolo proposizionale da 2, 3 e 4 7) -O(a & b) per calcolo proposizionale da 1, 5, 8) O(a & b) & -O(a & b) da 6 e 7 L’argomento serve a mostrare che ammettere la possibilità del dilemma è come riconoscere l’incoerenza della teoria etica, e quindi la sua inefficacia e impraticabilità. In alcune formalizzazioni il dilemma è trattato come un caso di contraddizione. Eppure, non sempre il dilemma morale si può esprimere con una formula contraddittoria del tipo (Oa & O-a). In certi casi si ha un dilemma perché vi sono due obblighi diversi e incompatibili Oa, Ob, anziché due obblighi opposti (Oa, O-a). In questo caso, la contraddizione si deriva solo aggiungendo una premessa empirica secondo la quale i due obblighi non
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possono essere soddisfatti contemporaneamente -C(a & b) (Ladd, 1958; Lemmon, 1962; Carey, 1985). In ciascuna di queste formalizzazioni del dilemma, tuttavia, si assume una particolare interpretazione dell’obbligo morale secondo il quale esso è analogo alla necessità modale. I giudizi morali di obbligo in cui compare ‘dovere’ vengono trattati come i giudizi in cui compare ‘è necessario che’. L’obiezione di incoerenza si regge perciò sull’idea che vi sia un’assiomatizzazione logico-deontica analoga a quella dei sistemi modali aletici ordinari. Gli argomenti contro l’ammissibilità del dilemma morale in una teoria etica adeguata funzionano a patto di prendere sul serio questa analogia. Perciò la prima questione da affrontare è se dobbiamo accettare questa analogia, o se invece non convenga modificare l’assiomatizzazione deontica per far posto al dilemma. Una considerazione rilevante per determinare tale questione è se l’analogia tra deontica morale e sistemi modali aletici ordinari sia rispettosa del modo in cui il concetto morale di dovere si comporta nel linguaggio naturale.
2.2 Strategie di contenimento dell’incoerenza La prima e più immediata replica all’obiezione dell’incoerenza consiste nell’indebolire l’assiomatizzazione dei sistemi di logica deontica ordinaria in modo da far posto al dilemma
morale
senza
dar
luogo
a
contraddizioni.
L’indebolimento
dell’
assiomatizzazione logico deontica standard può avvenire in diversi modi: l’incoerenza può essere contenuta rinunciando al principio di agglomerazione (Williams, 1965, pp. 106-107; van Fraassen, 1973, Barcan Marcus, 1980; Tannsjo, 1985, pp. 116-17; Forrest, 1990, p. 29), sospendendo il principio ‘dovere implica potere’ (Lemmon, 1962; Nagel
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1979; Trigg, 1971, p. 46), oppure riqualificando questi principi che compaiono come assiomi (Sinnott-Armstrong , 1987, p. 138; Brink, 1994, p. 237).
2.3 Il principio di agglomerazione Consideriamo il principio di agglomerazione. Perché dovremmo accettarlo come un assioma?
Come
ho
osservato,
una
considerazione
importante
nella
scelta
dell’assiomatizzazione logica è quanto essa rispetti le nostre intuizioni linguistiche. Ma tali intuizioni sono discordanti: il concetto di dovere non ha un uso uniforme nel linguaggio ordinario. Si tratta allora di costruire un modello idealizzato o artificiale di dovere. La questione è se tale modello deve rispecchiare quello della modalità aletica. La costruzione di modelli artificiali di ‘dovere’ è motivata dalla pretesa di rimediare alle ambiguità che il termine ‘dovere’ ha nel linguaggio naturale. In seno a questo progetto, l’assenza di dilemmi viene proposta come il risultato di un processo di idealizzazione del linguaggio morale. Il modello articifiale o idealizzato non si propone di spiegare l’accadere di conflitti tra giudizi morali di dovere, e quindi non ha pretese descrittive o ricostruttive. Esso è costruito per mostrare non come di fatto si comporta il termine ‘dovere’ che usiamo nel linguaggio naturale, ma come dovrebbe comportarsi, ovvero come si userebbe se fossimo capaci di rispettarne sempre tutte le proprietà logiche. La costruzione di un modello artificiale e idealizzato di dovere si accompagna ad una concezione specifica dei compiti e delle aspirazioni della teoria etica, secondo cui essa ci offre dei canoni di ragionamento morale che ci dicono come dovremmo comportarci, se fossimo agenti ideali (Hare, 1981).
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I tentativi di costruire un modello ideale di ‘dovere’ condividono l’idea che tale concetto abbia un comportamento uniforme perché vi è una sola sorgente normativa di obblighi. Con questa tesi assiologica riguardo alla natura del valore si impedisce la possibilità che si scontrino obblighi che hanno sorgenti diverse. Siccome la fonte normativa è una, il comportamento logico del dovere che la rappresenta non ammette sfumature, ambiguità, o devianze. Per questo l’operatore deontico è distributivo rispetto alla congiunzione: si possono agglomerare gli obblighi quando e in quanto sono dello stesso genere. Questo modello artificiale può sembrare povero o sterile solo a patto che si risconoscano e che si voglia rendere conto di sorgenti normative diverse di obbligo (vd. Hurley, 1992). Se vi fossero sorgenti normative distinte, ci sarebbero anche obblighi distinti, e bisognerebbe sospendere il principio di agglomerazione. Se è cosi, allora la questione fondamentale è stabilire quale sia la sorgente normativa degli obblighi in caso di conflitto. Tale questione è, evidentemente, normativa. Si è cercato di motivare la sospensione del principio di agglomerazione con considerazioni a proposito della natura del valore. La tesi dell’univocità della nozione di obbligo o dovere viene respinta, e l’applicabilità del principio di agglomerazione viene limitata quando occorrono sensi diversi di ‘dovere’. Le condizioni di validità del principio diventano in tal modo determinabili solo dopo che si sia proceduto alla disambiguazione del verbo ‘dovere’, cioè dopo che si sia risolto il problema normativo delle sorgenti di valore.
2.4 L’ambiguità di ‘potere’ e il principio secondo cui dovere implica potere
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Anche rispetto al principio ‘dovere implica potere’ abbiamo intuizioni contrastanti. Bisogna chiedersi allora in quale senso il verbo ‘potere’ è inteso e quali casi il principio ‘dovere implica potere’ è chiamato a regolare. Van Fraassen interpreta il principio ‘dovere implica potere’ come il divieto di chiedere che si debba compiere l’impossibile. Questa richiesta porterebbe al collasso deontico, cioè alla banalizzazione delle distinzioni tra ciò che è doveroso, permesso e proibito. Quindi il principio deve figurare come assioma per garantire un uso congruente delle distinzioni deontiche (van Fraassen, 1973). Tuttavia, non è ovvio che la sospensione del principio ‘dovere implica potere’ porti al collasso deontico. Questo esito catastrofico si consegue solo se si ritiene che, se un’azione è impossibile, allora qualsiasi altra azione può costituirne la condizione necessaria; ma non c’è ragione di condividere questa tesi (Mc Connell, 1976, p. 410). Naturalmente, per la realizzabilità di un obbligo è decisivo che l’agente si trovi nella condizione di poter agire di conseguenza. Ma ciò non implica che l’obbligo sia condizionale rispetto alla possibilità di ottemperarlo. Anzi, nei contesti morali, ‘dovere’ è incondizionale, o almeno tale per cui non si può dire che un’azione è obbligatoria solo a condizione che ci sia possibile compierla in qualsiasi accezione di ‘possibile’. Per esempio, supponiamo che Mattia dica “Dovevo raggiungerla come avevo promesso, ma non ho potuto perché me ne sono dimenticato”. Questo è un giudizio retrospettivo su un’azione doverosa che non è stata realizzata perchè all’agente non è parsa possibile. Evidentemente, l’appello all’impossibilità non cancella l’obbligo di mantenere le promesse, né rappresenta una scusa per l’omissione, o una circostanza attenuante. Anzi, in questo caso proprio il fatto che l’agente non ha potuto mantenere la propria promessa mostra la sua colpevolezza e rivela la natura morale dell’errore. Diverso è il caso in cui
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Mattia dica “Dovevo raggiungerla come avevo promesso, ma non ho potuto perché sono stato paralizzato dalla paura”; qui è un impedimento interno ciò che rende impossibile a Mattia la realizzazione di un obbligo morale. L’incapacità di superare o controllare la propria paura non ha necessariamente natura morale, ma in certi casi estremi rende l’agente non tanto colpevole quanto incompetente. In questi casi estremi non si può dire che l’agente abbia compiuto un errore morale, ma si dirà piuttosto che le sue condizioni psicologiche lo rendono incapace di apprezzare e seguire ragioni morali. Ancora diverso è il caso in cui Mattia dica: “Dovevo raggiungerla come avevo promesso, ma non ho potuto perché sono stato immobilizzato”. L’impossibilità fisica e la mancanza di opportunità contano come scuse che giustificano l’omissione, eppure non cancellano l’obbligatorietà del mantenere le promesse. Quindi anche se in quest’ultimo caso Mattia non è colpevole perché gli è stato impedito di compiere l’azione obbligatoria, non si tratta comunque di un caso in cui l’obbligatorietà di mantenere le promesse dipende dall’ opportunità dell’agente. Questi esempi ci danno due indicazioni. In primo luogo, essi ci rivelano che il senso di ‘potere’ che compare nel principio ‘dovere implica potere’ non ha natura logica, ma pratica. Bisogna investigare attentamente quando il senso pratico di ‘potere’ rappresenta una condizione di applicabilità di ‘dovere’, quando conta come scusa per un’omissione, e quando costringe a rivedere lo status deontico dell’azione obbligatoria. In secondo luogo, gli esempi sono sufficienti screditare l’idea che questo principio debba figurare come assioma senza qualificazioni. Il principio ‘dovere implica potere’ non dà modo di distinguere tra situazioni in cui l’azione non è, tutto sommato, doverosa perché l’agente non è capace di eseguirla e situazioni in cui non ha l’opportunità di eseguirla.
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Non è possibile impiegare tale principio in modo differenziato rispetto ai tre casi in cui Mattia dice di non aver potuto compiere un’azione che riteneva obbligatoria. Eppure questi tre casi non possono essere trattati alla stessa stregua. Una distinzione importante per qualificare il principio è quella tra capacità e opportunità, tra l’aspetto interno e l’aspetto esterno di ‘potere’. Ma proprio la differenza tra il primo caso in cui Mattia fa appello ad una dimenticanza e il secondo caso in cui fa appello alla paura non si può spiegare facendo ricorso a questa dicotomia. La distinzione tra aspetto esterno ed interno di ‘potere’, opportunità e capacità, non è ancora sufficiente a chiarire le condizioni di applicabilità del principio. Ci sono delle incapacità di cui siamo (almeno in parte) responsabili, e che non ci scusano per non aver adempiuto ai nostri obblighi. In altri casi, invece, non avere la capacità di compiere un’azione doverosa costituisce non un’attenuante o una scusante ma addirittura indica che non siamo agenti morali competenti. La questione della qualificazione del principio ‘dovere implica potere’ potrebbe essere riformulata chiedendoci a quali condizioni l’impossibilità di ottemperare il proprio dovere ci sottrae al biasimo. Se riconosciamo che l’agente avrebbe potuto fare altrimenti, saremo inclini a biasimarlo. Il principio ‘dovere implica potere’ non si applica quando l’incapacità dell’agente di adempiere il proprio obbligo è frutto di un suo errore morale, (vd. Sinnott-Armstrong, 1984, p. 259). Il biasimo è il sentimento di disapprovazione con cui vengono sanzionati gli atti immorali, atti di omissione o di inadempienza e implica che l’incapacità dell’agente non costituisce una scusante. Ma anche la capacità è una nozione morale. Essa può avere, cioè, sia una connotazione morale positiva (nel senso descrittivo che si oppone a ‘non-morale’ e nel senso normativo che si oppone a
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‘immorale’) sia una connotazione morale negativa (ovvero ‘morale’ in senso descrittivo ma ‘immorale’ in senso normativo). Quest’ultimo caso è facile da immaginare. Vi è certo un uso, per così dire, disonesto dell’espressione ‘non ho potuto fare altrimenti’ in cui l’impossibilità è chiamata in causa per giustificare un errore o una mancanza morale. Attraverso il biasimo si intende condannare il fatto che la capacità non è stata esercitata per ragioni inaccettabili, ragioni che non costituiscono una giustificazione morale o una scusa per l’omissione (vd. Sinnott-Armstrong, 1984, p. 253). Come osserva Williams, esistono casi del primo tipo in cui l’incapacità è espressione di un ideale morale di integrità (Williams, 1995, pp. 46-56). Si potrebbe dire che “Mattia non è capace di mentire”, oppure “Sophie non può scegliere”. Serve, insomma, un criterio per decidere quando e se l’incapacità dipende dall’agente. E nel cercare questo criterio bisogna tener presente che è la teoria etica a decidere dell’‘immoralità’ di certe incapacità e dell’ammirevolezza di altre. Per semplicità, si potrebbe proporre di limitare l’applicazione del principio ‘dovere implica potere’ ai casi in cui è coinvolta la mera opportunità di agire dell’agente. Ciò che interessa, in questo caso, non è la condizione di disposizione interna dell’agente verso l’azione, ma la questione se l’azione rappresenta per lui un’opzione reale. Questa qualificazione rende il principio più plausibile, ma non neutrale: la distinzione tra ‘capacità’ e ‘opportunità’ in seno al verbo ‘potere’ è essa stessa una distinzione di natura morale. E anche la nozione di ‘opportunità’ può avere connotazione morale. Per esempio, in virtù della sua posizione, storia, e cultura, l’agente può pensare di avere meno (o più) opportunità di quelle che ha davvero. Le opportunità che un agente contempla come tali sono in parte il prodotto della sua deliberazione, cioè del modo in cui si pensa quando si
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pensa in qualità di agente. Dicendo che Mattia non può mentire si dice che quella di mentire non è un’opportunità di cui Mattia può avvalersi, e quindi non conta come opzione reale, non fa parte dello spettro di alternative per lui moralmente rilevanti. In questo senso, anche le opportunità sono determinate da un ideale di identità pratica. Ciò significa che, sia nella forma non qualificata, sia nella forma qualificata, il principio ha comunque forti implicazioni sui compiti normativi che una teoria etica adeguata deve assolvere e su come tali compiti devono essere interpretati ed espletati. Nella sua formulazione non qualificata, il principio impone alla teoria etica una funzione esclusivamente prescrittiva e circoscrive il giudizio morale di dovere all’ambito delle azioni che sono sotto il controllo dell’agente. D’altra parte, le condizioni di applicabilità possono essere specificate proponendo una certa interpretazione della nozione modale di possibilità, per esempio limitando l’applicazione al caso di opportunità. Anche in questo caso il principio influenza i compiti della teoria etica. Ma in tal modo la teoria etica può tollerare casi di dilemma senza incorrere nell’obiezione di incoerenza.
2.5 La relazione tra “dovere” e “potere” In difesa del principio ‘dovere implica potere’ senza qualificazioni si è sostenuto che la relazione tra ‘dovere’ e ‘potere’ è di tipo concettuale, ossia dipende dalla logica del concetto di ‘dovere’. Affinché la questione del dovere si sollevi, occorre che l’agente possa agire. Secondo Hare, per esempio, se l’agente è nell’impossibilità di agire, dire che ha il dovere di farlo diventa incomprensibile. Domandarsi se Mattia dovrebbe fare ciò che ha promesso all’amica sapendo che non può farlo sarebbe come domandarsi “Entrerò nella stanza sbagliata per errore?” (Hare, 1963, p. 59).
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Eppure il giudizio “Mattia dovrebbe scrivere anche se non può” è del tutto comprensibile, e non mi sembra rivelare alcuna contraddizione concettuale. La tesi concettuale risponde, però, ad una intuizione importante a proposito della relazione tra ‘dovere’ e ‘potere’. Nei casi di impossibilità fisica o di forte incapacità psicologica (intesa in senso non morale) che rendono l’agente incompetente, la questione del dovere non si solleva in modo intelligibile. L’incomprensibilità del dovere è dovuta al fatto che i giudizi di dovere sono solitamente prescrittivi e perciò hanno senso in contesti in cui l’agente ha possibilità di scelta: ha la capacità e l’opportunità di agire in conformità a differenti linee di azione. Quando non è in gioco la competenza dell’agente, il suo status di agente, il giudizio “Mattia dovrebbe raggiungerla, anche se non può” non è un proferimento incomprensibile o inintelligibile come sostiene Hare. Lo scopo principale del giudizio morale di dovere non è di prescrivere un’azione particolare, quanto di presentare delle ragioni morali per l’azione che possano servire da guida ad un agente. Perciò il giudizio di dovere deve offrire delle ragioni anche se l’agente non è (momentaneamente) nelle condizioni di agire in conformità ad esse, per mancanza di opportunità, o per debolezza. In questa interpretazione, l’agente continua ad avere delle ragioni morali che rimangono inascoltate perché egli non può agire in conformità ad esse: quindi non si dice che non ha ragioni morali solo perché non le può ascoltare. Mattia continua a ritenere che sia suo dovere raggiungere l’amica, anche se è impossibilitato a farlo. In altre parole, l’impossibilità di agire non cancella la forza normativa del dovere. Anche in questi casi, il giudizio morale di dovere continua a svolgere la sua funzione di prescrivere o proibire un certo tipo di condotta sulla base di ragioni. Nella misura in cui il principio ‘dovere implica potere’ chiama in causa la funzione del giudizio morale, e in
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seconda istanza, la teoria etica come impresa pratica, è una meta-norma, una norma di secondo livello. Come meta-norma il principio detta le condizioni di applicabilità dei giudizi morali di dovere. Una teoria etica che intende guidare l’azione deve fare in modo che i doveri che derivano da essa siano praticabili.
2.6 La neutralità non è una virtù Se si è creduto che argomenti logico-formali potessero dirimere la questione dell’ammissibilità di dilemmi morali in una teoria coerente è perché si è creduto che la logica deontica possa e debba essere uno strumento neutrale. I tentativi di indebolimento della logica deontica ordinaria partono proprio dall’esigenza di adottare una logica che sul piano normativo impegni il meno possibile. La non-neutralità è considerata un vizio metodologico, e la neutralità una virtù realizzabile. Le considerazioni che ho presentato nei paragrafi precedenti sono sufficienti a mostrare che gli assiomi di agglomerazione e ‘dovere implica potere’ poggiano su precise presupposizioni normative e assiologiche. In generale ogni tentativo di formalizzazione logico-deontica del dilemma morale è condizionato da pesanti assunzioni sulla natura del valore che ne hanno determinato l’esclusione. Per dar spazio al dilemma morale è perciò sembrato opportuno epurare la logica deontica da compromissioni normative ed assiologiche (Van Fraassen, 1973). La difesa della possibilità del dilemma morale si è fondata sul cosiddetto principio di neutralità deontica. Inteso in modo rigoroso, questo principio prescrive che ciascun assioma e regola sia compatibile con tutte le teorie etiche consistenti.
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Il disaccordo sui principi che devono essere considerati assiomi della logica deontica cela un disaccordo a proposito dei compiti della teoria etica. Appena si mettono a confronto modelli diversi di ‘dovere’ e si pone la questione della scelta degli assiomi che devono regolare il comportamento logico di questo termine, emerge la natura normativa del problema. La questione normativa si solleva a tre livelli: quello delle definizioni
stipulative
di
obbligo
e
dilemma
morale,
quello
della
scelta
dell’assiomatizzazione logico-deontica, quello dei meta-criteri con cui si deve giudicare l’adeguatezza della teoria. Di fronte alla necessità di fare delle scelte su questi tre piani occorre riconsiderare la questione se la neutralità costituisca davvero una virtù metodologica. A mio parere, proporre una logica neutrale è una mossa non solo sospetta, ma anche inutile. È sospetta perché si lascia credere che la neutralità sia realizzabile, mentre non lo può essere: la scelta delle assiomatizzazioni deontiche segue un certo ideale normativo di ciò che conta come una teoria etica adeguata. Ma rinunciare alla neutralità non significa incorrere in un vizio metodologico: ciò che ci serve non è una logica che si adatti a qualsiasi teoria etica, ma una logica deontica che ci permetta di formulare distinzioni morali adeguate. In questo senso la neutralità non è una virtù.
2.7 La natura stipulativa e ricostruttiva delle definizioni L’argomento dell’incoerenza contro l’ammissibilità del dilemma morale finora discusso funziona solo a patto che si condivida non solo una certa assiomatizzazione logicodeontica, ma anche una concezione particolare dell’obbligo morale. Mostrare che non può esservi una logica deontica che sia neutrale dal punto di vista morale non significa ammettere che non vi siano argomenti validi a favore o contro l’ammissibilità del
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dilemma morale in una teoria etica adeguata. Piuttosto, bisogna riconoscere la natura parzialmente stipulativa e non solo ricostruttiva delle nozioni di obbligo morale e di dilemma, e conseguentemente scegliere una logica-deontica che vi si adatti. La constatazione della natura stipulativa e ricostruttiva della definizione di obbligo morale ha conseguenze importanti. In primo luogo, ci suggerisce di investigare le implicazioni normative delle diverse assiomatizzazioni e vagliarne la plausibilità. In secondo luogo, ci invita a discutere le definizioni di obbligo e di dilemma morale sulla base di argomenti sostantivi. Tali definizioni non registrano meramente gli usi effettivi dei due termini nel linguaggio naturale, ma non sono completamente artificiali, sono in parte ricostruttive e cioè vantano delle pretese di plausibilità descrittiva. Infine, si tratta di definizioni abbastanza generali da poter essere accettabili come ipotesi di lavoro in combinazione con teorie normative differenti.
2.7.1 La definizione di obbligo I contesti in cui occorre il termine ‘obbligo’ sono contesti che richiedono ragioni di giustificazione. I giudizi di dovere sono giudizi per i quali è necessario offrire delle ragioni di sostegno; la richiesta di ragioni non solo può sollevarsi adeguatamente, ma si solleva necessariamente. Lo scambio di ragioni è una pratica che caratterizza i contesti intenzionali (vd. Gibbard, 1990, pp. 38-39; Scanlon, 1995). Solo in tali contesti, infatti, l’agente può e deve giustificare il suo operato. Sotto questo aspetto, i giudizi morali di dovere sono simili ai giudizi di dovere tipici dei contesti intenzionali non-morali come i giudizi di razionalità (“Mattia dovrebbe licenziarsi”) o di prudenza (“Mattia dovrebbe curarsi”). Perché la questione del dovere si sollevi occorre parlare di azioni -per le quali
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si richiedono e offrono ragioni. La pratica dello scambio di ragioni ha senso per esseri che sono sensibili alle ragioni, cioè capaci e disposti a pianificare e riconsiderare le proprie azioni sulla base di ragioni. I giudizi morali di dovere si differenziano dagli altri giudizi di dovere (prudenziali e razionali) in quanto viene loro attribuita un’autorità ed un’importanza speciali che li rende specialmente vincolanti o necessitanti. Il carattere necessitante o incondizionato dell’obbligo consiste nel suo essere ineludibile. La sua violazione produce una violazione dell’integrità dell’agente, anche quando tale violazione è inevitabile (come nel caso dei dilemmi). È in questo senso eminentemente pratico che l’obbligo è un tipo di necessità. Queste considerazioni sulla natura dell’obbligo morale non intendono definire l’ambito della moralità, né devono essere interpretate come una resistenza a vincolare il contenuto delle ragioni. Certamente vi sono limiti a ciò che può essere ritenuto una ragione morale, ma tali limiti non sono di natura logica. È il carattere vincolante dell’obbligo e la sua relazione con l’integrità dell’agente a marcare l’ampio dominio della morale. Propongo di definire l’obbligo morale in termini di ragioni per l’azione che sono vincolanti e determinanti. Il carattere vincolante è una proprietà dell’obbligo che non è il risultato della deliberazione. Questa proprietà non viene cancellata se l’obbligo viene violato o predominato. In questo senso che riguarda solo il suo aspetto vincolante, l’obbligo morale non ha natura costruttiva, poiché la sua importanza non è determinata dalla deliberazione ma è, anzi, un vincolo sulla deliberazione. Più precisamente, le ragioni morali sono vincolanti in quanto ragioni morali. Ma il loro carattere vincolante non determina anche la loro priorità deliberativa, cioè la loro capacità di prevalere su
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altre ragioni durante la deliberazione. Questa priorità, la caratteristica di predominanza dell’obbligo, è anzi il risultato della deliberazione. La predominanza non è una proprietà di tutte le ragioni morali, ma solo di quelle alle quali la deliberazione conferisce lo status di obbligo. A mio avviso, la predominanza deve essere intesa come una relazione che si stabilisce tra ragioni morali per l’azione e dipende dai contesti deliberativi. Poiché questa relazione viene stabilita attraverso la deliberazione ha natura costruttiva. La predominanza è una relazione di priorità tra le ragioni morali stabilita in qualche modo moralmente rilevante. Essa è formale, cioè, non vincola i contenuti delle ragioni. Ciò significa che non c’è un metodo per stabilire la predominanza di certi tipi di ragioni in base ai loro contenuti. La predominanza non comporta la cancellazione della ragione che viene predominata. Che una ragione sia predominante rispetto ad un’altra non impegna a dire che tale ragione sia capace di cancellare la forza normativa della ragione morale su cui predomina. Quindi se una ragione morale viene predominata nel corso della deliberazione ciò non significa che venga estromessa dall’assetto normativo dell’agente; né significa che l’agente non possa provare giustificamente dei sentimenti simili a quelli che seguono la violazione di un obbligo, come il rincrescimento o il rimorso. I modi in cui una ragione predomina su un’altra, i modi in cui una ragione viene predominata sono vari, e presentano una fenomenologia diversificata (Nozick, 1968). La predominanza è dunque una relazione normativa contestuale, che viene stabilita dalla deliberazione in particolari contesti deliberativi.
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2.7.2 La definizione di dilemma morale La disputa sulla possibilità del dilemma è principalmente una disputa su come bisogna definire il dilemma morale. Se lo si definisce come un conflitto di obbligo, la sua rilevanza filosofica viene ridotta ad un test sulla coerenza e la plausibilità della teoria etica, e la discussione filosofica si sposta sulle strategie di contenimento dell’incoerenza e sulla possibilità di approntare una assiomatizzazione abbastanza neutrale da non pregiudicare la possibilità di dilemmi autentici. Il mio scopo è proporre una definizione di dilemma morale che ‘salvi i fenomeni’, cioè renda conto della complessa fenomenologia del dilemma morale, e metta a fuoco le ragioni per cui consideriamo il dilemma morale un problema per l’agente, prima che per la teoria etica. Il dilemma morale è, evidentemente, un problema per i teorici dell’etica, ma lo è nella misura in cui devono spiegare perché è un problema per noi agenti. Come ho osservato nel capitolo precedente discutendo della peculiare fenomenologia del dilemma, l’agente che esperisce il dilemma è un agente perplesso che patisce l’arbitrarietà di tutte le alternative che gli si prospettano. Per rendere conto di questo genere di perplessità mi sembra inadeguato parlare di conflitto di obblighi. Il dilemma è un tipo particolare di conflitto in cui, per l’agente, non c’è una risoluzione giustificata dal punto di vista morale. Questo agente dispone di due ragioni morali che gli raccomandano azioni incompatibili. Ciascuna ragione è importante, ma nessuna è decisiva e risolutiva, eppure il contesto è tale per cui è necessario che egli prenda una decisione.
Questa
decisione
genererà
inevitabilmente
sentimenti
di
colpa
o
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rincrescimento rispetto a ciò che l’agente non ha fatto, sebbene non si possa dire che abbia avuto alternative migliori. Per rendere conto di questo fenomeno propongo prendere la nozione di “ragione per l’azione” come primitiva. Una ragione per l’azione è una considerazione che conta in favore di compiere una certa azione o adottare un certo atteggiamento morale. Un’azione è moralmente obbligatoria se è sostenuta da ragioni predominanti e vincolanti. In caso di dilemma morale, non si scontrano obblighi contraddittori, ma si hanno (i) diverse ragioni per l’azione tutte moralmente vincolanti, (ii) nessuna delle quali è predominante, (iii) nessuna delle quali è predominata, e tali che (iv) giustificano azioni incompatibili. Secondo questa definizione, non tutti i conflitti tra ragioni per l’azione sono dilemmi morali; e non tutti i conflitti morali sono dilemmi perché alcuni conflitti presentano una risoluzione morale, cioé, ammettono un giudizio tutto considerato di obbligo. In questi casi l’agente delibera che vi è una ragione morale predominante. I dilemmi, invece, sono casi in cui è impossibile giungere tramite deliberazione ad un giudizio tutto considerato che stabilisca quale azione è obbligatoria. In altre parole, una volta esaminate tutte le considerazioni rilevanti, e una volta constatata la presenza di ragioni vincolanti eppure incompatibili, non-predominate eppure non-predominanti, l’agente non può deliberare ulteriormente su che cosa fare. Che cosa c’è da guadagnare nell’accogliere questa definizione? In primo luogo, la definizione che propongomette in luce caratteristiche importanti di ciò che ordinariamente conta come dilemma morale, e quindi è descrittivamente plausibile. In particolare, essa è capace di spiegare il fenomeno della perplessità che caratterizza lo stato mentale di chi esperisce il dilemma. In secondo luogo, descrivendo la scelta in
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termini di ragioni morali incompatibili, questa definizione evita di ridurre la problematicità filosofica del dilemma morale al dibattito sull’incoerenza logica. Questa definizione ci consente, cioè, di mettere a fuoco la questione del dilemma morale come un problema pratico, anziché logico. In terzo luogo, la definizione non vincola il contenuto delle ragioni. Questo è un merito rispetto alla definizione di dilemma in termini di doveri legati ai ruoli. Per esempio, il conflitto morale dello studente di Sartre può essere spiegato dicendo che emerge dallo scontro di un dovere derivante dal ruolo di cittadino (il dovere di lottare per la libertà) e un dovere che derivata dal ruolo di figlio (il dovere di accudire la madre). Alcuni filosofi sostengono che bisogna prestare attenzione alla sorgente degli obblighi per rendersi conto di una scissione insanabile tra doveri imparziali e parziali, universali e speciali (Nagel, 1979). La definizione che propongo è abbastanza generale da poter descrivere sia i conflitti di ruolo, sia i conflitti tra ragioni parziali e imparziali. Eppure tale definizione non riduce tutti i dilemmi a casi in cui si scontrano doveri derivanti da ruoli diversi, o da sorgenti imparziali e parziali del valore. Anzi, tale definizione è neutrale rispetto alla questione della sorgente del valore. Essa non riduce la possibilità di dilemmi morali alla possibilità di conflitti tra obblighi che derivano da valori incommensurabili. Questa definizione permette di dire dilemmatiche quelle scelte morali che avvengono tra alternative che producono lo stesso tipo di valore, o che richiedono atteggiamenti valutativi diversi rispetto ad uno stesso valore. Sotto questo aspetto, allora, la definizione di dilemma che propongo ha il merito di spostare la questione della possibilità del dilemma dalla controversia sul pluralismo di valore alla controversia sull’indeterminatezza e le conseguenze dell’arbitrarietà.
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Quando si presta attenzione alla caratteristica di arbitrarietà della scelta in condizioni dilemmatiche emerge una differenza importante tra il dilemma e i casi tragici che si è spesso tentati di trascurare. Le scelte tragiche sono moralmente ripugnanti, ma non sono arbitrarie. Agamennone che decide di sacrificare Ifigenia pur di far salpare la sua flotta compie un gesto moralmente discutibile, ma non senza criterio. La scelta tragica
rappresenta ‘il male minore’ ed è, perciò, la migliore azione disponibile
all’agente, anche se non è un’azione buona e l’agente avrebbe certo preferito non trovarsi nelle condizioni di doverla scegliere. Nei dilemmi morali autentici, invece, l’azione è arbitraria anche nel senso che non vi è un’azione che possa essere detta ‘migliore’ o la ‘meno peggio’. Infine, la definizione che propongo ha il pregio di insistere sulla relazione tra l’importanza delle ragioni per l’azione e l’integrità dell’agente. Le ragioni morali per l’azione sono vincolanti proprio in virtù di questo legame con l’agente. Questa è una caratteristica di grande importanza per comprendere l’indeterminatezza (epistemica o normativa) che ha generato il dilemma. Il dilemma è autentico nella misura in cui l’agente non può risolvere questo impedimento della deliberazione. L’agente che agisce in condizioni dilemmatiche è come ‘intrappolato’, condannato a violare una ragione morale qualsiasi sia l’azione che intraprende. Questa immagine della trappola deliberativa suggerisce che la posta in gioco, nella questione della possibilità del dilemma morale, è l’integrità e l’identità morale dell’agente, anziché una preoccupazione di ordine logico. Quando il dilemma è genuino e non ammette soluzioni di sorta, l’integrità dell’agente è inevitabilmente compromessa dall’azione poiché non si può agire sulla base delle migliori ragioni: la nozione stessa di ‘azione migliore’ risulta inapplicabile. Si dirà
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che la scelta in contesti dilemmatici è arbitraria, cioè non è confortata da ragioni determinanti in suo favore. Siccome ciascuna delle ragioni morali in conflitto mantiene forza vincolante e autorevolezza, questa arbitrarietà ha un impatto significativo sull’integrità dell’agente. L’integrità dell’agente, anziché la sua inadeguatezza, è dunque il tema che attende un’esplorazione filosofica.
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3 I dilemmi morali e la deliberazione
In un dilemma morale l’agente è perplesso, diviso tra modi di concepire la situazione, sensibile a due ragioni contrastanti su che cosa deve fare. La deliberazione sembra in questi casi incepparsi o non concludersi come dovrebbe, cioè con un giudizio sull’azione da compiere. Che il dilemma mostri un errore oppure un fallimento deliberativo è una tesi generalmente accettata, così come l’idea che si deliberi per stabilire che cosa fare. Affrontare la domanda “Che cosa devo fare?” non è sempre necessario per agire razionalmente, ma tale domanda si solleva in modo appropriato quando ci sono considerazioni contrastanti che contano come ragioni per agire. Sebbene vi sia un disaccordo significativo su come concepire la deliberazione morale, i filosofi si trovano concordi nel ritenere che si delibera per risolvere il conflitto tra considerazioni che contano come ragioni per l’azione. Un processo deliberativo è completo, cioè si conclude felicemente, quando produce un giudizio sull’azione basato su ragioni decisive, cioè ragioni che sono state valutate migliori, più autorevoli rispetto alle altre. In questa prospettiva, allora, il dilemma morale è un caso in cui la deliberazione non ha assolto questo compito. In una situazione dilemmatica la decisione è perciò arbitraria, cioè non giustificata da ragioni decisive. La riflessione filosofica sul dilemma morale si è concentrata principalmente sull’esame delle sorgenti di tale arbitrarietà, e sulle sue conseguenze per la teoria etica. Secondo alcuni, tale arbitrarietà dipende dall’incoerenza o dall’indeterminatezza normativa della teoria etica (Hare, 1981, Donagan, 1984); secondo altri, dalla natura
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incommensurabile dei valori (Nagel, 1979, Williams, 1981), oppure dalla limitatezza delle nostre capacità cognitive e dalle peculiarità delle interazioni difettose tra agenti morali limitati e imperfetti (Korsgaard, 1996). Ma l’idea che la percezione dell’arbitrarietà di un’azione sia la percezione del fallimento della deliberazione sembra del tutto incontestabile. Un agente che percepisce il dilemma morale è rappresentato alla stregua di un ragionatore fallace, stolto, disinformato, o debole di carattere. È proprio questa rappresentazione che intendo mettere in dubbio. Mi sembra, infatti, che essa falsifichi l’esperienza del dilemma morale e suggerisca una visione distorta del suo significato filosofico. In questo capitolo offrirò una spiegazione alternativa del significato dell’arbitrarietà dell’azione nei contesti dilemmatici. Sosterrò che in tali contesti l’arbitrarietà dell’azione non mostra un errore o un fallimento deliberativo, e che è anzi un modo con cui l’agente giudica di esprimere la propria integrità.
3.2 La deliberazione e il conflitto pratico Perché deliberiamo? Filosofi di diversa estrazione sono concordi nel rispondere che deliberiamo per risolvere un problema di scelta, per capire che cosa dobbiamo fare in una certa situazione. Chi delibera è un agente che esibisce diverse caratteristiche interessanti. Si tratta, innanzitutto, di un agente riflessivo, che non agisce d’impulso. Inoltre, è un agente libero di scegliere tra diversi corsi alternativi d’azione. E, soprattutto, è qualcuno a cui preme operare una scelta ragionata, cioè giustificata da ragioni. Le azioni sono movimenti intelligenti con cui rispondiamo al mondo esterno, secondo certe rappresentazioni e concezioni di ciò che siamo e di ciò con cui ci confrontiamo. Si delibera quando non ci è ovvio come dovremmo rispondere. In questo senso, la
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deliberazione parte da un certo modo di rappresentare e concepire il problema pratico. Essa inizia con la ricognizione di un certo spettro di possibilità che sono opzioni reali per l’agente. Ciascuna di queste possibilità presenta degli aspetti di desiderabilità, delle caratteristiche che la rendono attraente, e che offrono all’agente una ragione per realizzarla, cioè per agire in un certo modo. Si delibera, appunto, per vagliare la forza normativa o l’autorevolezza di queste ragioni. Si delibera su ciò di cui si può disporre, di cose per le quali fa una differenza se siamo noi ad agire, ad essere interessati e coinvolti. Si delibera su ciò che ci compete; anche quando agiamo insieme ad altri, c’è una divisione del lavoro deliberativo, ci assumiamo certi compiti e cerchiamo il modo di assolverli correttamente. Attraverso la deliberazione stabiliamo una relazione diretta con il mondo esterno, ne cambiamo l’assetto modificandone gli stati di cose. Questa caratteristica della deliberazione ha favorito una certa rappresentazione della deliberazione come un’operazione della volontà, come se l’ambito deliberativo fosse confinato ad oggetti di cui abbiamo il pieno controllo. Il modello della mente morale che ha prevalso, tra chi ha accolto questa rappresentazione della deliberazione, è quello della volontà divisa. Secondo questo modello, nei casi tipici di deliberazione, l’agente che percepisce un problema pratico e si chiede che cosa fare è una volontà frammentata. Tipicamente, e dunque non solo nei casi di deliberazione difficili, dilemmatici, o tragici, l’attenzione della mente deliberante è richiamata su aspetti diversi della situazione, che si offrono come ragioni per agire in un certo modo anziché in un altro. Lo scopo della deliberazione è di ricomporre questi aspetti discordanti in modo che emerga una visione unitaria della situazione che ci metta in grado di identificare l’azione giustificata dalle migliori ragioni.
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Insomma, si delibera per raggiungere una volontà unitaria, e l’azione non è che l’espressione di questa unità. Secondo alcuni filosofi, per valutare le considerazioni discordi che si alternano nella mente durante la deliberazione, bisogna che si costituisca un punto di vista, un io permanente dalla cui prospettiva vengono vagliate le opzioni. Per altri, invece, la frammentazione del volere coincide con la fragilità del sè; ciò in quanto i confini del sé sono determinati dall’esercizio della volontà. L’atto con cui si sceglie tra ragioni per l’azione, è anche un atto costitutivo della propria identità pratica, un atto con cui si marcano o si ridefiniscono precisamente i confini del sé. Il problema pratico di che cosa fare è quindi, alla fine, il problema di chi essere. Ma proprio perché tipicamente la deliberazione coincide con l’esperienza di una volontà divisa, l’agente è sempre sul punto di ‘disfarsi’ e continuamente impegnato ad arginare questa minaccia. Questa concezione della deliberazione, e soprattutto la tesi che i confini del proprio sé coincidono con le operazioni della volontà, vanta una tradizione imponente che è stata recentemente recuperata da Harry Frankfurt. Secondo Frankfurt, i conflitti pratici costituiscono delle minacce alla nostra identità pratica, cioè alla nostra identità di agenti, e deliberiamo allo scopo di rispondere a questa minaccia. La risposta è risolutiva quando la deliberazione dà un giudizio determinato su che cosa fare e, dunque, su chi essere. La completezza della deliberazione coincide con il successo del progetto con cui ci unifichiamo e ci identifichiamo nel tempo attraverso l’identificazione di oggetti che ci premono davvero. La nostra unità ed identità pratica può essere messa alla prova in due modi. In certi casi di conflitto pratico siamo indecisi rispetto alla questione di quale ragione per l’azione ha priorità. In certi altri casi, siamo incerti rispetto alla questione di quali aspetti
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della situazione devono contare come ragioni genuine per l’azione. In entrambi i casi si tratta di determinare il valore delle opzioni che riconosciamo come rilevanti, e con ciò di decretare i confini del nostro sé. Ma diversi sono i modi di risoluzione che pertengono a ciascuno di questi due casi. Prendiamo il caso in cui un agente deve decidere se cenare prima o dopo lo spettacolo teatrale. Qui si tratta di ordinare le proprie ragioni, di dar loro una scansione temporale. Quando si decreta la successione temporale di queste azioni si dà anche un giudizio di importanza; si dice, per esempio, che preferiamo cenare prima di vedere uno spettacolo. I nostri desideri di cenare e di vedere lo spettacolo teatrale contano come ragioni per l’azione, e la deliberazione serve a stabilire una relazione di priorità tra queste ragioni. L’esempio è banale, eppure è un esempio in cui si deve dire che l’agente sta deliberando sui confini del proprio sé: decidendo di cenare prima dello spettacolo teatrale, l’agente si è identificato con un certo ordinamento di importanza, ha stabilito chi è, decretando che cosa gli sta più a cuore. Ci sono altri casi di conflitto pratico in cui non si tratta di ordinare, ma di vagliare l’autorità ed esaminare la legittimità di certe considerazioni che si propongono come ragioni. In questi casi l’agente non si chiede quale desiderio abbia priorità, ma se debba avere autorità e quindi se abbia peso normativo, cioè se conti come una ragione genuina. Supponiamo che Mattia desideri davvero rivedere Shrek con il proprio figlio per la trentesima volta, ma desideri anche andare a vedere Lost in translation con l’amica. Supponiamo anche che questo conflitto di desideri si presenti con una certa fenomenologia: il desiderio di uscire con l’amica gli evoca pesanti sensi di colpa, mentre il desiderio di rimanere con il figlio gli evoca una specie di auto-compiacimento, un
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confortevole senso di adeguatezza. In questo caso l’agente non si sta domandando come ordinare, rendere compatibili e realizzare questi desideri. Piuttosto, si sta interrogando sulla loro legittimità. Il suo problema è se dar spazio ad un desiderio piuttosto che ad un altro. Il suo lavoro deliberativo consiste in una scrematura dei desideri con cui si identifica e che ritiene debbano essere vincolanti. La risoluzione di questo genere di conflitti pratici non è un ordinamento temporale, né un giudizio di importanza che conferisce priorità ad uno dei due desideri incompatibili. Stabilire la legittimità delle proprie volizioni è un’operazione molto più radicale dell’ordinamento. Si tratta di un atto fondativo vero e proprio attraverso il quale si delimita il proprio sé. La metafora dei confini del sé mi sembra utile proprio per mettere in luce che decretare la legittimità di uno dei desideri in conflitto è un atto fondativo, simile all’erezione delle mura di cinta della città. L’agente che determina che il desiderio di passare il tempo con l’amica, anziché con il proprio figlio, è illegittimo si identifica totalmente con il proprio ruolo di padre, e traccia così i confini del proprio sé. Tale identificazione coincide, d’altra parte, con l’estromissione dell’altro desiderio al di fuori del sé. Dopo l’atto di identificazione, il desiderio estromesso diventa una forza estranea, non appartiene più all’insieme di progetti e obbiettivi che all’agente preme coltivare e realizzare. Naturalmente, il fatto che l’agente decreti che un desiderio non ha autorità, e che non lo riconosca come suo, non ne determina necessariamente la sparizione, l’attenuazione, o la modificazione; anzi, il l’estromissione del desiderio spesso è causa della sua esacerbazione o del suo inasprimento. Ciò costituisce una fonte importante di complicazioni per il ragionamento pratico. Ma qui mi preme solo precisare in che modo il
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desiderio di cui si è decretata l’illegittimità viene percepito quando ricompare, come è prevedibile che accada, in occasioni successive di deliberazione. È esperito come una minaccia, e una minaccia alla propria integrità e stabilità. Le pressioni che questo desiderio continuerà ad esercitare saranno d’ora innanzi percepite come un’invasione da arginare. Il conflitto che si genera tra i desideri legittimi e desideri illegittimi è rappresentato come una lotta che l’agente ingaggia contro un nemico esterno, una forza estranea a lui. Il desiderio che prima era suo ora gli sembra una presenza aliena da combattere e respingere (Frankfurt, 1988, 61; Frankfurt, 1999). L’unità della volontà viene quindi stabilita attraverso la demarcazione dei confini del sé: così come le mura di cinta sono il primo atto di fondazione e significano confinamento ed esclusione di ciò che sta all’esterno, appartenenza e identificazione con ciò che sta all’interno. La definizione di un esterno e un interno è un meccanismo elementare di autodifesa che abbiamo in comune con molti organismi, e ma di cui abbiamo fatto un’arte (Dennett, 1991, pp. 414-417). Per quanto riguarda gli esseri umani, infatti, i confini non solo identificano ed isolano un interno ed un esterno (come per l’ameba e il paguro), ma delimitano anche in modo importante l’ambito di attività dell’agente. Essere agenti significa non solo essere reattivi (respingere un nemico esterno, demarcare e difendere i propri confini) ma soprattutto essere attivi, cioè capaci di organizzare i propri atti e i propri piani in modo intelligente, secondo fini propri. L’attività precipua e distintiva dell’agente è dunque il dare origine, l’essere il principio, progettatore, autore, creatore. In questo senso ciò che si oppone all’essere agenti, o ciò che risiede al di là dei contorni del sé, è tutto ciò verso il quale il sé è passivo. Quindi i confini del sé non segnano solo la differenza tra esclusione e appartenenza, ma anche quella tra passività e attività. L’attività
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che ci qualifica come agenti ci vede capaci di identificarci e riconoscersi nei propri piani e fini. Rendersi vulnerabili all’esterno significa perdere il controllo delle proprie azioni, cioè rendersi passivi, subire le pressioni esterne, non essere più autori dei propri piani. L’estrema vulnerabilità, l’estrema friabilità dei confini del sé coincide con la passività, con l’abdicazione a pensarsi come agenti, cioè come esseri intelligenti che sono capaci di darsi dei fini e modificare il mondo esterno per realizzarli (Frankfurt, 1999; Korsgaard, 1999). L’atto di fondazione e di esclusione con cui si stabiliscono i confini del sé e l’ambito delle sue attività deve essere interpretato come un modo di distanziarsi da ciò che non si vuole essere, e quindi come un modo di giudicare i desideri secondo un certo ideale di identità pratica. È questo ideale che ci fornisce il criterio per determinare la legittimità dei pensieri e dei desideri che ci occorrono. Una volta stabilita l’unità tramite l’adozione di questo ideale, certi desideri non ci appartengono più e quindi non rappresentano più delle ragioni genuine. Di conseguenza, certe possibilità che prima avevamo contemplato non sono più opzioni reali per noi: è impensabile andare al cinema con l’amica anziché rivedere Shrek col proprio figlio. È diventata un’impossibilità pratica (Williams, 1994). Se per debolezza, distrazione o sconsideratezza, cedessimo alla tentazione di rinunciare a vedere Shrek per la trentesima volta, il nostro figlioletto smarrito avrebbe ragione a protestare: “Non ti riconosco più!” Secondo Harry Frankfurt si può rendere conto dei nostri movimenti interiori, della nostra vita mentale intera, parlando di questi due modi di risolvere i conflitti pratici: l’ordinamento e l’esclusione. Gli atti di scansione temporale e di ordinamento dei desideri che competono per la priorità, e gli atti di esclusione e identificazione
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garantiscono una specie di integrazione statica del sé in quanto sono il fondamento di una struttura riflessiva e gerarchica. Ma garantiscono anche un’integrazione dinamica, in quanto gettano le basi per una coerenza deliberativa che si estende nel tempo (Frankfurt, 1988, p. 175). L’unità del volere e quindi la determinatezza nell’agire sono caratteristiche di un sé sano, che esibisce una condizione speciale di libertà interiore, cioè, è libero di fare ciò che ha deciso, senza dover combattere alcuna interferenza che provenga dall’interno. Questo agente si compiace nell’azione, per così dire, e il suo compiacimento è ad un tempo segno e premio di una deliberazione corretta. L’unità del volere è perciò il bene più alto e il compito più arduo e più meritevole che ci dobbiamo proporre di raggiungere quando ci pensiamo come agenti (Frankfurt, 2001, p.12). Si badi che il ritratto del deliberatore che si costituisce e si compiace nell’azione non è aristotelico. Infatti, la divisione del volere è caratteristica non solo dell’uomo vizioso o incontinente, in balia delle proprie emozioni, e quindi condannato ad esperire rincrescimento, come suggerisce Aristotele (Aristotele, 1166b5-25). Piuttosto, in questo modello, la divisione del volere è la condizione propria degli esseri umani che si pensano come agenti. L’essere divisi, essere costantemente impegnati nell’impresa di ricostituirsi, di rimarcare i propri confini, di ricucire le falle del sé è la caratteristica condizione umana. Questa impresa di auto-costituzione è continuamente rinnovata e rappresenta la vita mentale, l’attività che fa di noi degli agenti. Per questa ragione la vita mentale è senza posa, gli agenti sono sempre in movimento verso se stessi, e bisogna dare un resoconto filosofico di questo movimento continuo, di questa plasticità (Arendt, 1971, pp. 44 ss; Lear, 1998, pp. 80-122 ; Korsgaard, 1999).
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È facile osservare che la soluzione che Frankfurt prospetta, cioè l’estromissione di uno dei desideri in conflitto, e l’identificazione con il suo opposto, presenta somiglianze sospette con meccanismi di difesa quali la negazione e la rimozione. In un’ottica psicodinamica, questi meccanismi spiegano i disordini di personalità. Prendiamo, ad esempio, un famoso caso freudiano di ambivalenza: l’uomo dei topi. La causa della nevrosi dell’uomo dei topi, che ama e odia suo padre, non è tanto l’ambivalenza, ma le modalità con cui questo paziente si confronta con l’ambivalenza: cioè, appunto, la sua identificazione totale con una sorgente del conflitto (l’amore per il padre), e la totale negazione e rimozione dell’altra sorgente (l’odio per il padre). Tale negazione non cancella, però, l’odio: negato e reso illegittimo, anziché scomparire, il sentimento di odio si rafforza e trova espressione o personificazione in un’altra personalità, viene “ospitato”, per così dire, da un altro locus di identità pratica. Prendendo spunto da questo caso clinico, David Velleman obbietta a Frankfurt che l’esclusione del desiderio illegittimo non è tanto la cura per il sé frammentato, quanto la causa della sua malattia (Velleman, 1999, p. 102). Ma ci sono differenze importanti tra i meccanismi difensivi dell’ambivalente e l’unificazione tramite identificazione e separazione che prospetta Frankfurt e che ho illustrato con l’esempio di Mattia. In primo luogo, l’uomo dei topi non è consapevole del proprio conflitto; anzi, il conflitto non viene mai a coscienza (Wollheim 1983, pp. 174182). In secondo luogo, la rimozione è un meccanismo difensivo irriflessivo e inconsapevole con cui l’ambivalente gestisce la propria ambivalenza, mentre la separazione di cui parla Frankfurt è una strategia consapevole e deliberata, è anzi uno dei due modi fondamentali della deliberazione. L’identificazione non è dunque solo un
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meccanismo psicologico, ma è una strategia tramite la quale l’agente costituisce deliberatamente la propria identità pratica. Si tratta, inoltre, di una strategia che viene raccomandata come il modo con cui si deve raggiungere l’unità del volere, e dunque non solo ha natura normativa (a differenza della rimozione e di altri meccanismi psicologici), ma ha anche uno statuto normativo privilegiato. Essa, cioè, non ci dà solo un criterio per stabilire chi siamo, uno dei modi in cui si può costruire la propria identità pratica, ma il criterio con cui bisognerebbe farlo. Perché possa svolgere questa sua funzione normativa il metodo dell’identificazione e separazione deve essere adottato in modo trasparente. Quando l’uomo dei topi tenta di ricostruire il proprio problema, utilizza delle razionalizzazioni che conferiscono significato e struttura alla sua esperienza (Lear, 1998, p. 96). Sebbene intelligibili, e cioè dotate di senso, queste ricostruzioni non sono però trasparenti, appunto perché l’ambivalente non è nemmeno cosciente della sua ambivalenza, e attinge a risorse psicologiche non deliberate. Al contrario, nell’esempio che ho illustrato, Mattia è consapevole del proprio conflitto, delibera allo scopo di risolverlo non per accantonarlo, e la sua decisione non è solo intelligibile, ma anche giustificata alla luce della concezione di se stesso che ha maturato durante la deliberazione. Queste caratteristiche di consapevolezza, normatività e trasparenza, distinguono in modo importante l’identificazione di cui parla Frankfut dalla rimozione, e sono perciò sufficienti a replicare all’obiezione di Velleman. Tuttavia, l’idea che si possano, e si debbano, tracciare i confini del sé attraverso un atto deliberato, trasparente e riflessivo, mi sembra piuttosto problematica (Raz, 1997; Moran, 2002). Ci sono caratteristiche della nostra personalità, atteggiamenti e desideri che vorremmo non avere, e di cui tuttavia non
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siamo sempre pronti a sbarazzarci dichiarandoli estranei. Lo stesso si può dire di desideri che non avevamo anticipato, e che ora complicano irrimediabilmente la nostra vita. Il punto non sembra essere che senza questi tratti o desideri “scomodi” staremmo meglio, non incontreremmo impedimenti interni e saremmo più contenti di noi stessi. Anche quando crediamo fermamente di non dover dare seguito a certi atteggiamenti o desideri, questo non ci richiede di negar loro appartenenza, relegandoli al di fuori del nostro sé. Supponiamo che Mattia ami profondamente il proprio figlio, ma percepisca anche la paternità come un onere gravoso. Supponiamo che consapevole di questi atteggiamenti confliggenti, decida di sopportare un tale onere, e magari di sottoporsi alla trentesima visione di Shrek. È in questo atto che Mattia si definisce. Se non sapessimo della presenza di atteggiamenti confliggenti non sapremmo di che natura è la sua azione, né che valore dare al suo sacrificio, se di sacrificio si è trattato. È importante per Mattia riconoscersi in ciascuno di questi atteggiamenti. Ed è importante prendere in considerazione ciascuno di questi sentimenti per rendere conto della qualità della deliberazione e della scelta di Mattia. Questo è vero anche nei casi in cui l’agente fallisce, sbaglia o è manchevole. Supponiamo che un attore particolarmente sensibile al favore del pubblico si trovi ad accettare copioni scadenti ma di effetto sicuro. Supponiamo che questo attore, consapevole delle sue debolezze e dell’effetto deleterio che hanno sulla sua professionalità, si rincresca profondamente delle scelte dettate dalla vanagloria. Se però tentasse di giustificarsi dicendo che era “in preda ad un impulso che non riconosce come suo”, saremmo inclini a dubitare delle sue parole, e in ogni caso a non considerarle sufficienti a discolparlo. In un senso importante quest’uomo è responsabile di ciò che fa
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per strappare l’applauso e guadagnare l’approvazione altrui, i suoi errori gli sono imputabili anche se sono espressione di un atteggiamento che lui stesso vorrebbe non avere. Sebbene non approvi la sua vanagloria, ci aspettiamo che l’attore si assuma la responsabilità di quello che fa per vanagloria, e questo gli richiede, necessariamente, che riconosca questa qualità come “sua”. Per dare significato al suo rincrescimento, bisogna comprendere la forza di ciò che combatte e a cui soccombe. E per comprendere la misura e il significato pratico della sua sofferenza bisogna situare quel desiderio entro i confini del sé. Desideri, bisogni, interessi, qualità di cui non andiamo fieri sono tuttavia parte di ciò che siamo. Sono nostri proprio nella misura in cui ci rappresentano ostacoli che riteniamo degni di essere presi in considerazione, affrontati, compresi, combattuti, superati o semplicemente respinti. Tali ostacoli non sono della stessa natura degli impedimenti esterni che ci impediscono l’azione, come il ramo che ci blocca il passaggio, la porta che troviamo chiusa. La lotta che sosteniamo per dar forma ai nostri desideri o per trovar loro una collocazione o dar loro espressione, definisce non solo la nostra natura di agenti limitati, ma anche la sostanza di ciò che siamo. Il giudizio che diamo di noi stessi come agenti riguarda non solo il tipo di risposta pratica di cui siamo stati capaci, ma anche le risorse deliberative che abbiamo attivato, e la natura e la grandezza degli ostacoli che abbiamo percepito. Nella misura in cui i desideri ci pongono problemi distintivamente pratici, e ci richiedono una risposta in qualità di agenti, sono in un senso importante nostri anche quando non ci indentifichiamo con essi. I desideri sono “nostri” non solo (e non sempre) nel senso che ci sono attribuibili. Anzi, alcuni desideri non ci sono attribuibili perché per loro natura non sono modificabili o sensibili al giudizio (Scanlon, 2002, p. 171). Tuttavia, la nostra identità di agenti viene
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esercitata anche in relazione a questo tipo di desideri perché essi rappresentano dei vincoli e degli ostacoli di cui ci dobbiamo preoccupare in quanto agenti. In altre parole, tali desideri e qualità definiscono chi siamo perché limitano lo spettro di possibilità che costituiscono per noi delle opzioni rilevanti. Essi rappresentano i nostri limiti ma anche le nostre risorse. I contorni della nostra identità, e quindi i limiti del nostro essere agenti, sono negoziati tramite le relazioni che gli elementi della personalità che ci capita di avere intrattengono con l’ideale di identità pratica che abbiamo adottato. È quindi un errore confondere i confini del sé con l’ambito dei desideri che meritano la nostra approvazione e identificazione. Sgombrare il campo da questo errore significa anche prepararsi a vedere la perplessità morale e le sue conseguenze filosofiche in una prospettiva diversa e, a mio avviso, più adeguata. La mancanza di integrazione del sé e la frammentazione della volontà danno origine a fenomeni diversi. Se dovessimo seguire Frankfurt fino in fondo dovremmo dire che in tutti i casi in cui gli agenti mancano delle risorse deliberative per raggiungere l’unità della volontà, i confini del loro sé sono malcerti, porosi o friabili, e perciò questi agenti mancano tutti di unità e di identità pratica. Nei paragrafi che seguono vorrei mostrare che bisogna distinguere tra fenomeni in cui non c’è unità del volere, e fenomeni in cui i confini del sé non sono marcati. L’investigazione di questa differenza mostra che la perplessità morale non può essere trattata alla stregua di un conflitto pratico; per comprendere appieno la rilevanza filosofica del dilemma morale bisogna dunque ripensare il ruolo della deliberazione e la sua relazione con l’identità pratica.
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3.2 Ambivalenza, perplessità, e scissione del sé Si potrebbe pensare che il fenomeno più simile alla perplessità morale, cioè all’esperienza soggettiva del dilemma morale, sia l’ambivalenza. In entrambi questi casi l’agente è diviso tra due atteggiamenti opposti, la sua attenzione si posa in modo intermittente su aspetti della situazione che suggeriscono corsi di azione incompatibili. Entrambi i fenomeni sono solitamente classificati come speci di incoerenza (Frankfurt, 2001, p. 11; Frankfurt, 1999, p. 127). L’ambivalenza non è caratterizzabile semplicemente come “indecisione”. L’ambivalente oscilla tra un giudizio e il suo contrario, perché è sensibile a descrizioni contrastanti, e si sottopone a comandi contrari. Secondo Frankfurt l’ambivalenza è un tipo particolarmente pernicioso di irrazionalità pratica perché impedisce l’azione, ed è segno di un sé sofferente e instabile, dai confini ondeggianti e le basi malferme. L’azione dell’ambivalente è continuamente impedita da ostacoli e vincoli interni. Le sue volizioni rappresentano l’una all’altra ostacoli non meno pesanti da rimuovere di ostacoli esterni (Neilly, 1974). Ma forse sarebbe più corretto dire che per l’ambivalente ha poco senso distinguere tra ostacoli “esterni” ed “interni”, poiché si tratta di un individuo poco individuato: è un agente che non ha ben marcata la linea di separazione tra ciò che ricade all’interno e ciò che ricade all’esterno del suo sé. Come l’ambivalente, l’agente perplesso oscilla ed è paralizzato. La deliberazione di chi esperisce un dilemma morale è caratterizzata dall’impossibilità di considerare determinanti ragioni che pur si impongono alla mente come inviolabili e ineludibili; da qui, oscillazioni e paralisi. C’è, tuttavia, una differenza
sostanziale tra i due casi.
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L’ambivalente nutre atteggiamenti contrari verso lo stesso oggetto che gli impediscono di unificare il propro volere e concepire l’azione. Nel dilemma, invece, l’agente giudica che le ragioni che sta vagliando non giustificano alcuna linea di condotta, e perciò concepisce la sua azione come arbitraria. Il giudizio di arbitrarietà a cui perviene l’agente perplesso è una conclusione del processo deliberativo. Egli conclude, dopo aver dato fondo a tutte le sue risorse deliberative, che nessuna delle ragioni per l’azione è determinante, cioé predominante e non predominata da altre ragioni. Per l’ambivalente la paralisi e l’oscillazione precedono la deliberazione; l’ambivalente semplicemente non è un agente. Distinguere tra ambivalenza e perplessità morale ha conseguenze importanti per stabilire la relazione tra come opera la volontà e come si tracciano i contorni del sé. Dare plausibilità alla perplessità morale significa infatti ammettere che un processo deliberativo condotto correttamente può non risultare nell’unificazione della volontà, e quindi nella determinazione dell’azione. La questione che si solleva a questo punto, però, è a che serva la deliberazione. Se la deliberazione non si conclude sempre con un giudizio determinato sull’azione qual è il suo fine generale? La mia proposta è che i compiti della deliberazione non riguardino solo l’azione propriamente intesa, che è di necessità un’attività unificante e un’operazione della volontà. Vi sono attività del sé differenti dalle operazioni della volontà che mirano a costituire o a ricostituire l’integrità. L’unità della volontà, il compiacimento nell’azione, non è l’unico modo che abbiamo per costituirci come agenti dotati di integrità.
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3.3 Il giudizio di arbitrarietà Quando deliberiamo non cerchiamo solo di capire che cosa dobbiamo fare, ma offriamo e valutiamo delle rappresentazioni e delle concezioni di noi stessi come agenti nello sforzo di raggiungere l’integrità. Il conflitto morale rappresenta un problema per l’agente perché ne minaccia l’unità e quindi mette in discussione l’immagine che egli ha di sé stesso. La deliberazione ha lo scopo di portare all’unità le voci discordi che spingono ciascuna verso azioni alternative. Risolvere il conflitto di ragioni per l’azione tramite deliberazione è il modo fondamentale in cui si raggiunge l’integrità. Ora, potrà sembrare che proprio per l’importanza che accorda all’integrità questo resoconto della deliberazione è incapace di far posto al dilemma morale, così come l’ho definito. Infatti, ho sostenuto che il dilemma morale non costituisce un fallimento della deliberazione, e tuttavia è un caso in cui l’azione evidentemente non unifica la volontà, non porta a compimento l’integrazione del sé. Ma questa caratteristica non è sufficiente a considerare il dilemma alla stregua dell’ambivalenza, o dell’indecisione. Conviene dunque esaminare nei dettagli che cosa comporta l’integrità e quali sono i modi dell’autointegrazione. Vi sono molti modi in cui un agente (minimamente unificato, tanto da costituire un locus di identità pratica, una “unità deliberativa” (unit of agency) può procedere ad integrarsi, ma solo alcune strategie sono appropriate. Riservo il termine integrità a quella condizione di unità che è stabile in quanto basata su ragioni, che viene raggiunta attraverso la deliberazione, cioè attraverso procedimenti di valutazione razionale. Si osservi che il termine integrità non ha connotazione morale, in questo contesto. L’integrità è una condizione dell’agire morale, o anche costitutiva dell’agire morale, ma
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non è una virtù o qualità morale (come la sincerità, per esempio). D’altra parte, l’integrità di cui parlo non è nemmeno una qualità puramente psicologica. Ciò che preme, infatti, non è l’integrazione psicologica, ma invece la costruzione di una prospettiva da cui esaminare e criticare i nostri desideri, bisogni, interessi, e qualità. È per questo che ricorriamo a ragioni per agire. L’idea che sta dietro a queste osservazioni è che solo la valutazione razionale produrrà un agente appropriatamente unificato, cioè un agente dotato di integrità. In alcuni casi si tratta di stabilire delle relazioni di priorità; in altri casi di stabilirne la legittimità. Alcuni conflitti morali possono essere risolti alla stregua di conflitti pratici, cioè, attraverso l’individuazione di una scansione temporale, un ordinamento gerarchico, oppure un esame di legittimità. Tuttavia, il dilemma morale non appartiene a nessuna di queste categorie del conflitto pratico, e non ammette tipi di risoluzione che sono caratteristici dei conflitti pratici. Né l’ordinamento temporale o gerarchico, né l’esclusione sono soluzioni ammissibili. Il problema di chi affronta un dilemma morale è proprio quello di preservare o riguadagnare l’integrità in assenza di relazioni di priorità determinate tra ragioni morali pertinenti eppure non predominanti. Per esempio, Sophie potrebbe rifiutarsi di pensare che la scelta impostale dall’ufficiale nazista è un conflitto che sta a lei risolvere. Anziché pensare come uscire dal dilemma, potrebbe rifiutare di cercare una soluzione e guardare alle condizioni di ingiustizia che hanno dato origine al problema. Il giudizio a cui l’agente è arrivato attraverso una deliberazione corretta, in questo esempio, è che la sua azione è in un senso importante arbitraria: si tratta di un’azione che non può essere giustificata da alcuna ragione predominante. Non c’è alcuna considerazione che possa giustificare alcuna delle
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azioni alternative che l’ufficiale tedesco le presenta come opzioni. Nessuna di queste azioni è, dal punto di vista di Sophie, una vera possibilità, un’azione che ha senso contemplare come opzione reale. Sophie giudica che non ci può essere giustificazione alcuna. La percezione del dilemma viene a concludere la deliberazione, non ne segna l’inizio. Non si può deliberare oltre. Sarebbe un errore formidabile trattare la percezione del dilemma come fosse la percezione di un bisogno di risolvere il conflitto. Si tratta, invece, della percezione che un tale conflitto non può che rimanere irrisolto. Gli agenti che affrontano queste situazioni preferirebbero non esservisi trovati. Desidererebbero non dover scegliere, anche quando riconoscono che la scelta è urgente e necessaria. Ma è fuorviante dire che questi agenti si interrogano, si disperano, cercano aiuto o consiglio allo scopo di risolvere il loro conflitto. La scelta di Sophie posta di fronte al dilemma di consegnare uno dei suoi figli all’ufficiale nazista non sarebbe tragica e orrenda quanto grottesca, se la si rappresentasse come la ricerca di soluzione. Non ci può essere alcuna soluzione al dilemma di Sophie, e Sophie lo sa meglio di chiunque altro. Una persona che esperisce il dilemma morale non è dunque qualcuno che si trova di fronte ad un ostacolo e cerca di superarlo o anche solo di aggirarlo attraverso la deliberazione. Lo scopo della deliberazione non è semplicemente quello di rimuovere impedimenti all’azione e determinarci, ma quello di determinarci in modo che abbia ancora senso per noi parlare di integrità. Ora, si potrebbe obbiettare che questa conclusione sia affrettata perché è basata su un tipo particolare di dilemma morale, quello tragico. Consideriamo allora altri esempi.
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Emma è una donna omosessuale che matura un forte desiderio di maternità. La legge del suo paese non consente a coppie omosessuali di adottare bambini. Emma si trova perciò ad una scelta dilemmatica: abbandonare il suo progetto di maternità, oppure la sua relazione omosessuale. Dopo averci deliberato sopra, Emma conclude che sebbene questo sia un suo problema, non è a lei che spetta trovarne la soluzione. La soluzione del problema
comporta
il
ridisegnare
istituzioni
più
giuste,
cancellare
pratiche
discriminatorie nei confronti degli omosessuali. Come Sophie, Emma conclude la sua deliberazione con un giudizio che stabilisce l’arbitrarietà dell’azione, ma non considera questo un suo fallimento deliberativo. Anche se la deliberazione non si è conclusa con una prescrizione determinata, non ha lasciato immodificata la percezione che Emma aveva della situazione. Attraverso la deliberazione Emma ha anzi conseguito un risultato importante: ha capito perché nessuno dei corsi di azioni che le si presentano come alternativi sono espressivi della sua integrità, ed ha compreso che ciò che conta come un dilemma suo, è un problema che deve essere affrontato da un’altra unità deliberativa, delegato a chi disegna le istituzioni. Questa conclusione, sebbene non sia un atto della volontà che si esterna in un’azione, demarca in modo importante i confini dell’identità pratica di Emma, le sue responsabilità e il suo dominio di attività. Emma non sta constatando un fallimento deliberativo, né sta affrontando un conflitto di obblighi, eppure non sta scegliendo il male minore. Non tutti i dilemmi morali hanno come cause condizioni di ingiustizia così pervasive e profonde come nel caso di Sophie, ma tutti i dilemmi morali sono casi in cui l’azione individuale non cancella l’arbitrarietà della scelta, e quindi non è mai una risposta pratica adeguata. Allora ci si deve chiedere che cosa può contare come una
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risposta adeguata in tali contesti, e di quali risorse disponiamo. A mio avviso, i sentimenti morali sono le risorse pratiche a cui fare appello, ma per accogliere questa proposta bisogna prima considerare qual è l’ambito e lo scopo della deliberazione.
3.4. Unità e integrità Questi esempi ci pongono di fronte al seguente interrogativo: in che modo si può dire che il giudizio di arbitrarietà conserva l’integrità dell’agente? Il giudizio di arbitrarietà è la conclusione del processo deliberativo di un agente che ha vagliato accuratamente tutte le ragioni morali da cui si sente vincolato. Giudicando che non vi è alcuna risoluzione morale, l’agente rafforza la propria lealtà e fedeltà rispetto alle ragioni che ritiene vincolanti, presta attenzione ai modi in cui il dilemma minaccia la sua integrità morale, e riafferma la propria personalità morale. È attraverso la denuncia dell’arbitrarietà dell’azione, la constatazione dell’impossibilità di operare una scelta giustificata da ragioni, che l’agente si mette nella posizione di ricostituire la propria integrità morale. Laddove non vi sia un’azione giustificabile, la personalità e l’integrità dell’agente si esprimono attraverso l’adozione di atteggiamenti morali appropriati. Conviene a questo punto precisare e distinguere tra integrità e unità. Ho sostenuto che la deliberazione mira all’unificazione del sé. Ciò significa che chi siamo dipende in gran parte da come deliberiamo, e quindi siamo partecipi e responsabili del proprio carattere. Siamo dotati di risorse psicologiche per contenere o arginare le conseguenze di atti e scelte distruttivi del sé, e siamo capaci di meccanismi difensivi quali lo spostamento,
la
manipolazione,
la
negazione,
la
sublimazione,
la
compartimentalizzazione, la disattenzione, o l’oblio. Se il nostro scopo di animali
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razionali fosse solo quello di conservare una certa unità e, quindi garantire la propria auto-intelligibilità, cioè la possibilità di raccontarsi in modo coerente e intelligente, ci sarebbe sufficiente dimenticare, autoingannarsi, o semplicemente negare l’importanza delle ragioni che non abbiamo potuto ascoltare. La mente divisa non sa dare un resoconto coerente ed intelligibile dei suoi percorsi: l’uomo deliberante non si può narrare proprio perché non ha ancora raggiunto un centro di gravità narrativa, questo sarà il risultato della deliberazione. Dare unità significa conferire un centro di gravità narrativa intorno al quale organizzare l’intelligibilità delle proprie azioni, e alla fine, di sé stessi. La perplessità è un caso estremo di mancanza di centro di gravità narrativa. Non tutti i tipi di integrazione sono moralmente ammissibili e non tutti i modi di perseguire unità e darsi una struttura intelligibile si equivalgono. L’integrità è un tipo specifico di integrazione normativa del sé che ci guida come un ideale regolativo durante la deliberazione. Siccome le scelte che affrontiamo sono sempre diverse e muovono continue sfide alla nostra integrità, non si può dire che questa sia uno stato permanente, ma se mai una condizione ideale a cui aspirare. Appartiene all’indagine normativa la specificazione delle caratteristiche di questo ideale, ma sia sufficiente dire che non tutte le modalità di auto-integrazione sono moralmente e praticamente ammissibili. Torniamo allora alla questione se la percezione del dilemma è la percezione del fallimento deliberativo, della perdita di unità e integrità, di una smagliatura irrimediabile nel tessuto narrativo del sé. Per rispondere adeguatamente a queste domande bisogna, a mio avviso, apprezzare tre caratteristiche fondamentali del dilemma. In primo luogo, gli agenti moralmente perplessi non sono semplicemente sopraffatti dall’enormità della scelta che si trovano ad affrontare. Il loro giudizio di arbitrarietà è il risultato ponderato
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della deliberazione. In secondo luogo, tale giudizio implica che la risposta appropriata in questa situazione non è un’azione: non c’è un’azione tra le alternative disponibili all’agente che possa dirsi espressiva e anzi costitutiva della personalità e dell’identità pratica dell’agente. Ciò significa che l’azione (p.e. l’azione di Sophie di consegnare all’ufficiale tedesco la figlia) non è rappresentativa dell’ideale di identità pratica in cui Sophie si identifica e quindi non può proporsi come risoluzione del conflitto. Ciò significa anche che l’azione non è il tipo di attività che conclude la deliberazione dell’agente, che la può unificare e ricostituire. In terzo luogo, le sorgenti di arbitrarietà possono essere diverse, e possono essere identificate attraverso un’investigazione filosofica della fenomenologia con cui si presentano, cioè prestando attenzione all’atteggiamento che l’agente ha verso le proprie opzioni. Merita ora soffermarsi su questi due ultimi aspetti.
3.5 Azione arbitraria e continuità nel tempo Si potrebbe dire che nei dilemmi morali tragici come quelli di Sophie o di Agamennone non vi è alcuna attività che può ricostituire e re-integrare la mente dell’agente diviso, e che dunque si deve parlare non più di un agente diviso (come lo è all’inizio della deliberazione), ma di un agente distrutto da un conflitto insuperabile. Per Frankfurt il conflitto morale tragico è paradigmatico della dissoluzione del sé. Più precisamente, l’azione intrapresa in assenza di ragioni morali predominanti è un’azione che invece di costituire o affermare l’identità dell’agente, la viola, la sacrifica. L’azione arbitraria viene cioè caratterizzata non solo come una violazione ma anche come un tradimento di sé
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stessi. Metafore come il tradimento e il sacrificio sono particolarmente congrue alle scelte tragiche. Per esempio, scrive Harry Frankfurt: Agamennone in Aulide fu distrutto da un conflitto inevitabile tra due elementi ugualmente fondamentali della sua natura, l’amore per la figlia e l’amore per la flotta che comandava. Quando si trova costretto a sacrificare uno di questi elementi si trova costretto a tradire sé stesso. Raramente tragedie di questo tipo hanno un seguito, se mai lo hanno. Dal momento che l’unità del volere dell’eroe tragico è stata irreparabilmente compromessa, c’è un senso in cui la persona che è stata non esiste più. Dunque non può esservi una continuazione della storia. (Frankfurt, 1999, p. 139 n38.) Questo trattamento del dilemma morale è spesso sottinteso o difeso solo implicitamente nelle teorie contemporanee della deliberazione (Korsgaard 1996, p. 100). Si tratta di un resoconto che sebbene intuitivamente attraente e plausibile, si regge su premesse teoriche che, una volta esplicitate non sono né ovvie né così attraenti. Ciò che è promettente in questa concezione del dilemma morale è che la portata filosofica viene spiegata dal punto di vista dell’agente. L’identità pratica di un agente è determinata dall’adozione di certi desideri. Nei casi di dilemmi, questi desideri che sono definitori del sé e identificano l’agente praticamente, non possono essere soddisfatti contemporaneamente. L’azione in questi casi porta allora alla disintegrazione del sé. Si badi che questa non è una metafora: Frankfurt non sostiene solo che l’esperienza traumatica del dilemma cambia per sempre
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l’agente, ma che ne modifica sostanzialmente i contorni della sua identità pratica, tanto che non si può parlare più dello stesso agente. L’esperienza del dilemma è descritta alla stregua di un tradimento di sé. Il sacrificio di Ifigenia macchia Agamennone di una colpa da cui non c’è riscatto: con la vittima muore anche il carnefice, che ha rinnegato se stesso. La vendetta di Clitennestra giungerà ormai troppo tardi. Sotto questo aspetto le decisioni tragiche somigliano alle conversioni radicali: Agamennone in Aulide è come Saulo sulla strada di Damasco. Dopo la decisione nessuno di questi agenti può dirsi la stessa persona. Non è solo che la loro vita sarà per sempre diversa, ma che i loro sé acquisiscono un diverso centro di gravitazione narrativa, i contorni della loro identità pratica vengono ridisegnati altrimenti, secondo altre direttrici. Ora, sebbene suggestivo, questo accostamento è alquanto fuorviante. Per comprendere la conversione di Saulo, e rendere conto della sua esperienza della conversione è necessario dire che Saulo e Paolo sono due persone essenzialmente diverse. Il significato della conversione consiste proprio in questa soluzione di continuità; e forse anche la possibilità del riscatto morale coincide con una cesura, con il rinnegamento del sé precedente. Ma per comprendere la gravità della decisione di Agamennone, e le sue conseguenze, è importante non rinunciare a ritenerlo il medesimo locus di responsabilità. La sua scelta risulta tragica proprio perché Agamennone continua a identificarsi con gli stessi desideri e progetti fondamentali che lo identificavano prima del sacrificio di Ifigenia. Se Agamennone non si percepisse essenzialmente come la stessa persona, gli sarebbe impossibile guardare alla sua decisione con rincrescimento, ascoltare con vergogna il rimproveri del coro, aspettare con un misto di rassegnazione e sollievo la vendetta di Clitennestra. Accogliere la tesi secondo cui l’esperienza del
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dilemma morale è dissolutiva del sé significa cioè impedirsi di comprendere gli atteggiamenti (di rincrescimento, colpa, rimorso), le azioni autopunitive o riparatorie che sono tipiche degli agenti che hanno esperito il dilemma. Tali atteggiamenti e azioni riparatorie e auto-riparatorie ci dicono qualcosa di molto importante a proposito dell’agente, anzi di altrettanto importante e rivelatorio di quanto lo sia l’azione in caso di conflitto. L’azione arbitraria ha comportato una violazione del sé dell’agente, ma non la sua disintegrazione. Ci sono importanti vantaggi teorici a prendere sul serio la tesi della continuità del sé prima e dopo la scelta tragica, e dunque la continuità dell’agente attraverso l’esperienza del conflitto. In primo luogo, la tesi della continuità ci consente di mettere in luce una caratteristica distintiva della nostra identità pratica, e cioè l’auto-riflessività diacronica. La nostra natura di agenti non si dispiega solo attraverso l’esecuzione di azioni e la realizzazione di piani, ma anche attraverso il riesame di attività, progetti e desideri con cui ci eravamo identificati in passato. L’aspetto decisionale ed esecutivo del nostro essere agenti è certo un aspetto essenziale, ma non è l’unico modo in cui esprimiamo la nostra razionalità pratica e la riaffermiamo re-identificandoci nel tempo (Bagnoli, 2004b). Per esempio, l’identità pratica di Agamennone emerge non solo nella decisione di sacrificare Ifigenia, ma anche nella qualità della sua deliberazione in proposito, nel sentimento di rincrescimento che segue il sacrificio, nella perplessità che lo precede, nel modo in cui interpreta il corso degli eventi, nello spettro di possibilità che contempla prima e dopo l’esecuzione dell’atto sacrificale. Per ritrarre Agamennone come un agente auto-riflessivo, capace non solo di pianificare un’azione, ma anche di riesaminare il proprio operato e sottoporre a scrutinio i propri sentimenti e atteggiamenti,
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bisogna accogliere la tesi della continuità. È questa tesi che ci consente di affrontare una serie di questioni riguardo ad Agamennone che altrimenti ci sono precluse. Tali questioni riguardano il cambiamento di Agamennone attraverso l’esperienza del dilemma, il modo in cui patisce e subisce le condizioni dilemmatiche di scelta, il modo in cui reagisce a tale esperienza, e quindi anche le attività riparatorie ed auto-riparatorie che è in grado di mettere in atto dopo la decisione. Affrontare tali questioni significa cessare di considerare il dilemma morale come un caso di scelta isolato, e invece riconsiderarlo alla luce della storia dell’agente.
3.6 Integrità e continuità narrativa L’importanza di insistere su questo aspetto del dilemma morale, cioé sulla sua collocazione all’interno della storia dell’agente ci rivela un’altra caratteristica essenziale dell’identità pratica, ovvero la sua struttura narrativa. Ciò che ci qualifica come agenti non è solo la nostra capacità di essere in controllo delle proprie azioni, le operazioni del nostra volontà, ma la capacità di rappresentarci in un certo modo e di dirigere la nostra influenza sul mondo secondo certi piani e a partire da queste rappresentazioni. Un’autorappresentazione intelligente o auto-riflessiva ha struttura narrativa (Dennett, 1990, pp. 74-100; Bruner, 1990; Freeman, 1993; Schechtman, 1996; Lear, 1998). È vero che la deliberazione ha come scopo principale quello di stabilire che cosa fare; ma la domanda “che fare?” non viene posta nel vuoto. Quando ci interroghiamo su che cosa fare ci interroghiamo sulle possibilità che hanno senso per noi, secondo la narrativa che abbiamo costruito di noi stessi.
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Ma ciò significa anche che le risorse deliberative a cui possiamo attingere sono più varie e diversificate di quelle che dirigono la nostra attenzione su un particolare corso d’azione. Il dilemma morale ci insegna dunque che quando l’azione è arbitraria bisogna guardare ad altri modi per esprimere (preservare, proteggere, costituire o riparare) la propria integrità.
3.7 L’integrità e le attività riparatrici del sé Gli agenti perplessi si sentono e sono scissi perché non vi è una rappresentazione unica della situazione che può esprimere pienamente il loro punto di vista e dar voce a tutte le loro esigenze. Non c’è speranza che intraprendere un corso di azione anziché un altro li costituisca o ricostituisca come agenti unificati. Al contrario, è proprio l’azione che li scinde, talvolta irrimediabilmente. La domanda che si impone a questo punto è qual è l’attività pratica che preserva o esprime l’integrità dell’agente in condizioni di scelta dilemmatiche, quando non si può trovare unità nell’azione. Il giudizio di arbitrarietà significa non solo che il dilemma è un caso di conflitto morale irrisolvibile, ma anche che la risposta appropriata in tali circostanze, cioè la risposta pratica che conserva ed esprime l’integrità dell’agente, non può darsi come azione. I corsi di azione disponibili non sono rappresentativi di ciò che l’agente considera una risoluzione appropriata. Perciò l’attività pratica che costituisce o ri-costituisce l’agente diviso da ragioni morali incompatibili non può darsi sotto forma di azione. L’alternativa emerge se prendiamo in considerazione lo spettro di atteggiamenti e sentimenti morali che emergono dopo la deliberazione in condizioni dilemmatiche. Per esempio, la scelta di Sophie può provocarle disperazione, senso di annichilimento, umiliazione, rimorso. Agamennone prova rincrescimento. Emma
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prova umiliazione, senso di colpa e rabbia. Questi atteggiamenti rivelano modi differenti in cui l’agente sopporta la disintegrazione del sé o la violazione della propria integrità, e indicano anche significati diversi delle scelte che hanno operato, e segnalano modalità diverse di auto-ricomposizione o di riparazione in seguito alla scelta dilemmatica. Tutti questi atteggiamenti rivelano una sorta di scissione e disintegrazione, che sono caratteristiche
della
fenomenologia
del
dilemma
morale,
ma
non
rivelano
necessariamente un fallimento deliberativo. I dilemmi di Sophie e Emma, in particolare, non sono esempi di errori deliberativi, di decisioni sbagliate, ma denunciano le condizioni di ingiustizia in cui queste persone si sono trovate ad agire. In questi casi, allora, la percezione del dilemma non è la percezione di un errore imputabile all’agente, ma richiama l’attenzione sulle condizioni esterne che rendono qualsiasi azione inadeguata. In condizioni dilemmatiche di scelta, gli atteggiamenti con cui l’agente affronta il conflitto e sopporta le conseguenze della sua azione arbitraria sono più espressivi e anzi costitutivi dell’integrità dell’agente che non l’azione. Ora, per poter sostenere che l’agente esprime e addirittura costituisce la propria identità pratica attraverso certi atteggiamenti e sentimenti, bisogna avere una certa teoria della sensibilità morale. Bisogna poter dire, cioè, che gli atteggiamenti e i sentimenti morali hanno autonomia valutativa, sono modi indipendenti con cui si attribuisce valore. La loro giustificazione non passa necessariamente attraverso la giustificazione di giudizi corrispettivi ai quali essi si accompagnano. Il sentimento morale conta come una risposta valutativa autentica, piuttosto che come una reazione emotiva che si accompagna ad un giudizio valutativo. Può darsi anzi che il valutante non sia ancora in grado di formulare un giudizio e che la formulazione del giudizio sia, in questo modo, preannunciata e
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preparata da un sentimento morale. E tuttavia, anche in questo caso, non si può dire che il giudizio si basa su un sentimento: il giudizio non c’è ancora, le emozioni lo precedono. Può darsi, per esempio, che riflettendo sulle cause possibili del suo senso di colpa per non aver mantenuto la promessa fatta all’amica, Mattia ‘scopra’ quanta importanza ha per lui quell’amicizia. Questo giudizio di importanza non preesiste al senso di colpa, ma anzi viene preannunciato da esso. Questa è una scoperta di quelle scoperte che riguardano noi stessi: attraverso l’esperienza della colpa l’agente matura una certa valutazione delle relazioni personali che intrattiene, la quale non apparteneva ancora alla sua riflessione morale, di cui cioè non aveva ancora piena consapevolezza nel momento della decisione. In questo caso i sentimenti svolgono una funzione euristica. Nei casi di scelta dilemmatici, però, i sentimenti hanno un ruolo ancor più centrale rispetto alla questione dell’integrità dell’agente. In primo luogo, essi hanno un ruolo cognitivo in quanto richiamano l’attenzione sulle alternative che sono state trascurate durante la deliberazione, o quelle che sono stata scartate di proposito. Essi segnalano quegli aspetti dell’azione che hanno rilevanza morale, e li registrano come aspetti di cui tenere conto in simili occasioni future di deliberazione. In secondo luogo, i sentimenti morali esprimono l’atteggiamento dell’agente verso la propria scelta, verso la natura della propria deliberazione, e verso le condizioni in cui si è trovato ad operare. In questo senso, essi manifestano il carattere e la personalità dell’agente ed hanno significato espressivo. Infine, i sentimenti morali sono modi in cui si attribuisce valore; sono, cioè, risposte valutative autonome. In ragione di ciò, è riduttivo considerare i sentimenti morali associati all’esperienza del dilemma solo nella loro funzione auto-punitiva e auto-
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sanzionatoria. Essi sono importanti nella determinazione e anche nella riparazione dell’integrità dell’agente in modi diversi e più complessi. Dire che i sentimenti negativi possono fungere da risposte pratiche autonome significa dire che sono la risposta appropriata che l’agente deve offrire in situazioni deliberative in cui l’azione è impedita o l'agente non può scegliere per il meglio. In questi casi i sentimenti non sostituiscono dei giudizi valutativi. Piuttosto, essi sostituiscono l’azione morale. Si tratta di atteggiamenti deliberati nel senso che l’agente che è capace di rincrescersi è anche un agente capace di ragionamento morale (Rorty, 1980, pp. 49092; Calhoun & Solomon, 1984; Bagnoli, 2000a). In questo senso essi sono il frutto della deliberazione, e perciò non indicano l’incompletezza della deliberazione, ma anzi il suo compimento. In certi casi, e specialmente nei dilemmi morali, l’agente non può far altro che rincrescersi, e quindi deve essere giudicato sulla base della sua capacità di rincrescersi. Ciò mostra che la deliberazione non riguarda solo l’agire, ma anche il sentire: essa riguarda, in genere, la definizione di sé come agente morale. I sentimenti morali hanno un ruolo positivo di ridefinizione del sé in quanto ci rendono capaci di riconoscere noi stessi come agenti dopo il conflitto, anche se non abbiamo potuto o saputo risolverlo in modo morale. I sentimenti negativi ci consentono dunque di continuare il nostro lavoro di agenti, dalla propria posizione di agenti, attraverso il conflitto, e nonostante il dilemma. La possibilità che ho appena illustrato di continuare il proprio lavoro deliberativo attraverso l’esperienza di certi atteggiamenti, quando l’azione è impossibile, fa emergere due aspetti importanti della deliberazione: la sua inevitabilità e il suo carattere incessante. Ricordiamoci l’esempio di Mattia: delibera correttamente di rimanere con il figlio
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febbricitante anziché uscire con l’amica come le aveva promesso, eppure esperisce, e appropriatamente, dei sentimenti di colpa per non avere mantenuto la promessa. Questo esempio ci offre una direzione di indagine importante. La sofferenza di Mattia non è il segno di un errore o di una sua debolezza, ma della risonanza che le scelte hanno per la propria integrità. Si potrebbe dire che questo significa semplicemente che bisogna prendersi cura delle conseguenze delle proprie decisioni, e considerare l’impatto che hanno sul mondo, sia quando sono arbitrarie sia quando sono giustificate da ragioni predominanti. Ma ciò che mi sembra importante qui non è tanto la relazione tra l’azione e le sue conseguenze, quanto la continuità della deliberazione. Che Mattia, pur avendo risolto correttamente il suo problema, ne abbia anche creato un altro (come riparare nei confronti dell’amica?), e che questo nuovo problema ora meriti la sua attenzione, significa che egli non può smettere di deliberare. Il dilemma morale è un caso particolare solo perché il lavoro deliberativo dell’agente non può essere condotto attraverso l’agire e non si conclude con l’azione. Eppure possiamo attingere ad altre risorse per continuare il nostro lavoro deliberativo attraverso il conflitto. Essere agenti vuol dire principalmente questo: essere ‘condannati’ a costruire problemi e cercare di risolverli, esaminare e riesaminare il significato delle nostre risoluzioni, l’autenticità delle proprie ragioni, e quindi riconsiderare la propria stabilità e trasparenza. Si delibera quando siamo diventati degli interrogativi a noi stessi.
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4 I dilemmi morali e l’incommensurabilità dei valori
La concezione del dilemma morale e della deliberazione che ho proposto si pone in alternativa ad un’altra che ha dominato incontrastata il dibattito filosofico contemporaneo, e secondo la quale il conflitto morale è, alla radice, un conflitto tra valori (Nagel, 1979, pp. 128-141; Williams, 1981, pp.54-70; Hare, 1981, cap. 2; Lukes, 1997). In questa prospettiva, il dilemma morale viene spiegato con una certa ipotesi sulla natura dei valori, l’incommensurabilità. Dire che i valori sono incommensurabili è come dire che non c’è una scala unitaria comune con cui misurarli, e per questa ragione non si possono sempre dare giudizi determinati su quale di due azioni è migliore, peggiore o uguale, quando le azioni realizzano valori diversi. In questa prospettiva, è la commensurabilità dei valori che garantisce la completezza della deliberazione, e la capacità di dare giudizi determinati sull’azione. Il dilemma morale è un difetto deliberativo nella misura in cui è un difetto di misurazione o di
comparazione
determinata tra alternative di valore. C’è dunque solo una sorgente interessante di arbitrarietà, e cioè l’incommensurabilità dei valori. Se ne ricava, allora, che le teorie pluraliste che ammettono un qualche grado di incommensurabilità debbano preoccuparsi della possibilità del dilemma come una minaccia costante e come un problema a loro peculiare. Infine, si sottintende che i dilemmi morali interessanti sorgono esclusivamente in contesti in cui sono in gioco valori incommensurabili; la scelta in contesti dilemmatici ma non pluralisti è una scelta priva di importanza morale. Questo significa anche che è sufficiente ammettere l’incommensurabilità del valore per scongiurare la possibilità di
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scelte dilemmatiche significative. In questo capitolo mi riservo il compito di mostrare che la commensurabilità non ci mette in salvo da scelte gravi e dilemmatiche. Il mio argomento a favore di quest’ultima tesi si basa sull’interpretazione morale dei cosiddetti dilemmi simmetrici. I dilemmi simmetrici sono casi in cui sono in conflitto due ragioni morali che traggono la loro pari forza normativa dalla stessa sorgente di valore. Molti ritengono che tali dilemmi non siano genuini perché la scelta riguarda quantità uguali dello stesso tipo di valore. Che si scelga l’una opzione piuttosto che l’altra sembra, in questo caso, indifferente. Ma se si accetta che il dilemma morale sia un fenomeno importante in ragione della sua rilevanza per l’integrità dell’agente, come ho sostenuto nel Capitolo 3, il giudizio di indifferenza diventa inaccettabile. A mio parere, ritenere che queste scelte siano indifferenti mostra disinteresse e mancanza di rispetto per l’integrità dell’agente, fraintende la ragione per cui i dilemmi sono una difficoltà per la teoria etica, e oscura la ragione per cui sono un problema filosofico. Questa riflessione sulla natura morale della scelta in contesti dilemmatici offre anche delle ragioni per riconsiderare la relazione tra deliberare e commensurare. Sosterrò che la commensurabilità e l’incommensurabilità non sono da trattarsi come ipotesi sulla natura del valore che vincolano e strutturano i contesti deliberativi, ma sono invece il risultato della deliberazione.
4.1 Scelte simmetriche I dilemmi simmetrici riguardano due ragioni in conflitto e delle quali nessuna è predominante o predominata. Per esempio, supponiamo che Beatrice stia riflettendo sull’educazione delle sue figlie gemelle, Gemma e Gaia. Ciascuna di esse ha diritto ad
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un’educazione adeguata, ciascuna è dotata di notevole talento musicale, ma Beatrice non può permettersi di far studiare pianoforte ad entrambe. Il dilemma di Beatrice riguarda due piani di azione incompatibili giustificate da ragioni che traggono pari forza normativa dalla stessa sorgente di valore. Questo dilemma potrebbe presentarsi in qualsiasi teoria etica monista che riconosca un’unica sorgente di valore e quindi un solo modo di determinare il valore delle azioni. Proviamo a formulare il problema nei termini di una particolare teoria etica monista che è solitamente apprezzata per le sue alte capacità normative, l’utilitarismo. Supponiamo che Beatrice concepisca la deliberazione come un calcolo e che il suo proposito sia di determinare quali delle alternative pesi di più e debba perciò essere conseguita. Poniamo anche che Beatrice adotti una versione particolarmente esigente, e proprio perciò promettente, della teoria utilitarista secondo la quale il valore differisce solo in quantità, e le alternative possono essere ordinate esattamente in modo cardinale. In altre parole, Beatrice assume che c’è commensurabilità, cioé, che le opzioni possono essere misurate secondo una singola scala di valori. Per evitare un’obiezione che si solleva subito a questo punto, circa la carente plausibilità descrittiva di questo tipo di utilitarismo, dirò anche che Beatrice non è una utilitarista ingenua: è consapevole di quanto il suo resoconto normativo semplifichi ed impoverisca la sua esperienza del conflitto, e tuttavia è pronta a sopportare i costi di questa semplificazione nella speranza di raggiungere una decisione razionale. Adottando questa versione così esigente di utilitarismo monista, Beatrice è capace di ridescrivere il conflitto come un caso di parità (tie): una scelta tra due opzioni che hanno esattamente lo stesso valore, uguale valore dello stesso tipo.
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È una tesi condivisa che questo genere di conflitti sia poco interessante perché presentano una soluzione ‘ovvia’: come dire che dilemmi morali genuini sono impossibili in questa rappresentazione utilitarista. Naturalmente si può discutere se valga la pena accettare una semplificazione così estrema della fenomenologia della scelta morale allo scopo di raggiungere una decisione, ma vi è un accordo piuttosto generale sull’idea che una tale semplificazione è sufficiente a garantire la determinatezza normativa. Ciò che motiva questo accordo è l’idea che la parità non sia un problema morale genuino. Per alcuni la parità non è un problema morale perché in tali casi l’agente ha solo un obbligo disgiuntivo; così, Beatrice ha l’obbligo di far studiare musica ad una delle due figlie, ma non a tutte e due (vd. Feldman, 1986, p. 201; Herman, 1993, pp. 159-173; Statman, 1995, pp.112, 75; Hansson, 1999, pp. 433-440). Altri ritengono invece che la parità, così come altri casi più complessi di dilemma simmetrico, non siano problemi genuini perché possono essere facilmente risolti tramite randomizzazione. Di questo parere sono Alan Donagan e Alastair MacIntyre, i quali negano la rilevanza morale dei dilemma simmetrici, e li riducono a dilemmi della razionalità in cui si dovrebbe scegliere una delle due opzioni, non importa quale (Donagan, 1984; MacIntyre, 1990). Il mio proposito è di mostrare che questi argomenti si fondano su una confusione riguardo al significato della scelta. Il primo argomento secondo il quale nelle scelte simmetriche si ha solo un obbligo disgiuntivo non è convincente: proprio perché vi è solo un obbligo disgiuntivo l’agente si trova nella difficoltà di decidere che cosa fare. Non solo questa descrizione del conflitto non aiuta l’agente a prendere una decisione, ma non rende nemmeno conto del perché questa possa essere una scelta sofferta. Proprio perché Beatrice è costretta da un obbligo disgiuntivo si trova nella difficoltà di decidere che cosa
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fare. Dire che semplicemente non importa quale opzione Beatrice scelga, purché ne scelga una, non rende giustizia al modo in cui Beatrice percepisce il suo problema morale. Si potrebbe dire che quando l’obbligo è disgiuntivo non ci si trova di fronte ad una indeterminatezza preoccupante perché l’agente in fondo non può sbagliare: qualsiasi alternativa va bene. Ma questa è una consolazione di poco conto per l’agente, e soprattutto assume ciò che invece bisogna mostrare, e cioè che in caso di parità la scelta è indifferente. Questa stessa tesi è alla base anche del secondo argomento. Nei due paragrafi che seguono cercherò di mostrare che la tesi dell’indifferenza della scelta è implausibile, e che per questa ragione gli argomenti principali contro la rilevanza morale dei dilemmi simmetrici sono scorretti. Ma come si spiega che vi è un accordo così generale sulla marginalità o l’irrilevanza dei dilemmi simmetrici? Vi è una preoccupazione generale che spinge a dubitare della rilevanza dei dilemmi simmetrici. Sembra che considerare questi casi di scelta come dilemmatici abbia effetti devastanti per la teoria etica e conduca l’agente ad una specie di paralisi. Questo sembra seguire dall’idea che se una scelta simmetrica è dilemmatica allora tutte le alternative sono proibite; si finisce così per rendere proibite tutte le azioni che
realizzano pari valore. Ma non è affatto ovvio che in un dilemma morale le
alternative siano tutte proibite. Anzi, in base alla definizione che ho offerto nel Capitolo 2, non segue che in un dilemma tutte le alternative siano proibite. Inoltre, questo modo di porre il problema suggerisce che i dilemmi genuini siano scelte impossibili tra due mali, e che non si possa mai considerare dilemmatica una scelta tra due beni (Gowans, 1994; Statman, 1995; Foot, 1995). Questo suggerimento è però piuttosto curioso perché presumibilmente un agente morale dovrebbe interessarsi di dare
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ragione delle proprie azioni, sia nel caso che le alternative contemplate siano cattive sia nel caso che siano buone. In particolare, questo argomento ha implicazioni piuttosto discutibili quando si considerano i contesti pluralisti di scelta nei quali il problema morale dell’agente è proprio di scegliere tra corsi di azioni differenti che sono giustificati sulla base di valori differenti e incommensurabili. Se la scelta tra beni non ha rilevanza morale, allora si deve dire che in tutti i contesti pluralisti la scelta non è moralmente problematica né interessante: è un mero embarrass de richesse. Ma questa caratterizzazione della natura della scelta nei contesti pluralisti è, evidentemente, molto discutibile. Nei conflitti morali (simmetrici e non-simmetrici) è importante non tanto che una decisione venga presa, quanto che l’agente possa dare ragione della propria scelta, e considerarla quindi espressiva e costitutiva della propria identità pratica.
4.2 Strategie di arbitraggio Gli argomenti contro la rilevanza filosofica dei casi simmetrici di dilemma si basano sull’assunzione che in tali casi la scelta è indifferente. Eppure questa è una tesi che non può essere sostenuta senza qualificazioni. Se davvero non importasse come si sceglie nei dilemmi simmetrici, allora non dovrebbe importare neanche come si supera un giudizio di parità. L’agente potrebbe arbitrare (break the tie) seguendo una semplice preferenza personale o delegando la scelta a qualcun altro. Per esempio, Beatrice potrebbe decidere di agire guidata dalla sua predilezione per la figlia Gemma, sebbene con il solo intento di evitare lo stallo deliberativo. Questa decisione suona subito iniqua nei confronti di Gaia; un atto di discriminazione ingiustificata nei suoi confronti. Supponiamo, allora, che per
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evitare atti discriminatori, e non sapendo come altro scegliere, Beatrice decida di delegare la questione al padre delle gemelle; sarà lui a prendere una decisione purché sia. Con questa manovra, però, Beatrice non risolve il problema morale, vi ha rinunciato; con un atto di delega, ha semplicemente passato il problema ad un altro agente. Se tutto ciò che importa è che l’agente superi lo stallo deliberativo e prenda una decisione purchessia, non c’è nemmeno spazio per opporsi all’idea che in questi casi gli agenti siano “costretti” a scegliere, che venga imposto loro un ordinamento esterno, che qualcun altro decida per loro (vd. Putnam, 1989, pp. 19-28). Un ordinamento basato sulla mera preferenza personale può plausibilmente essere rifiutato come un esempio immorale di favoritismo. D’altra parte, costringere l’agente perplesso ad agire secondo un ordinamento a lei alieno pone in dubbio la stessa nozione di scelta. Quindi importa assai come si arbitra in casi di parità. Non tutte le strategie di arbitraggio sono moralmente ammissibili. Importa che l’agente sia capace di scegliere, ma importa più di tutto che sia capace di scegliere con criterio, sulla base di ragioni. È per questo che è un compito importante quello di offrire una guida all’agente perplesso, anche in quei contesti in cui, per ipotesi, il valore delle opzioni è pari. Per sostenere questa conclusione, prenderò in esame una strategia di arbitraggio che è
generalmente
considerata
legittima in quanto imparziale e autonoma, la
randomizzazione. Quando non c’è differenza morale tra due alternative doverose, e l’inazione introduce lo scenario peggiore, la randomizzazione è spesso invocata come una risoluzione morale del conflitto (Hare, 1981, p. 201; Donagan, 1984; MacIntyre, 1990). Strategie come il tirare la monetina sembrano legittime perché sono imparziali: non favoriscono un’opzione per un mero capriccio, o per una preferenza ingiustificata.
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In molti casi il ricorso alla randomizzazione è considerato doveroso in quanto qualsiasi altra strategia deliberativa sarebbe iniqua. Per esempio, nel caso di Beatrice, si può dire che ricorrere alla randomizzazione non è un modo qualunque di arbitrare: è l’unico modo equo. Ma dire che adottando una strategia equa Beatrice ha superato lo stallo deliberativo non significa che abbia con ciò dato una risoluzione morale al dilemma. L’idea di usare alla randomizzazione per risolvere i propri problemi morali non è solo frustrante o bizzarra. Anche coloro che considerano la randomizzazione un modo razionale ed equo di arbitrare vedono quanto sia increscioso doverci ricorrere. Sarebbe sorprendente se Beatrice fosse contenta della sua decisione perché è il risultato di una procedura imparziale di randomizzazione, e ancor più sorprendente se consigliasse un amico in difficoltà di tirare la monetina per uscire dal dilemma. C’è qualcosa di insoddisfacente nel tentativo di risolvere i conflitti morali con la randomizzazione, anche quando è stato stabilito che tutte le risorse deliberative sono state esplorate e esaurite. Come si spiega questa insoddisfazione? I resoconti filosofici in proposito divergono. Rosalind Hursthouse, una sostenitrice dell’etica della virtù, pensa che un agente virtuoso giudicherebbe il ricorso alla randomizzazione come un atto di irresponsabilità morale o anche di incapacità morale (Hursthouse, 1996). Peter Railton, utilitarista, crede che la scelta operata ricorrendo alla massimizzazione elimini il dilemma e lo trasformi in un semplice embarrass de richesse (Railton, 1996, p. 153). Simon Blackburn considera la riluttanza ad adottare la randomizzazione come un pregiudizio, uno scrupolo inutile, e ritiene che bisogna adottare la randomizzazione quando non ci sono altre risorse deliberative, anche se ciò comporta inevitabilmente sentimenti dolorosi (Blackburn, 1996, pp. 129, 131). Richard Hare, invece, non avverte alcuna insoddisfazione, né vede
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alcuna ragione per considerare insoddisfacente una scelta operata tirando in aria la monetina (Hare, 1981, p. 201). Contrariamente a Hare e Blackburn, credo che la riluttanza ad usare la randomizzazione come riposta appropriata nei casi di dilemma simmetrico ci dica qualcosa di molto importante a proposito della natura della scelta morale. Questa insoddisfazione merita perciò un’investigazione filosofica più accurata. Sono dell’opinione che la scelta operata per randomizzazione esibisca una relazione infelice tra l’agente e la sua azione. Il mio argomento è che la decisione raggiunta usando la randomizzazione non può contare come risoluzione morale del dilemma perché non è basata su una decisione di principio, non è cioè una scelta basata su una ragione. La randomizzazione non ci serve a scoprire una differenza morale tra opzioni simmetriche, ma a produrre un’asimmetria che determinerà la decisione dell’agente. L’asimmetria così prodotta è dunque rilevante ed utilizzabile solo in una singola occasione. Ciò significa che la decisione presa per randomizzazione non è una decisione di principio, e non è esportabile ad altri contesti di scelta. Se domandassimo a Beatrice perché ha scelto di offrire a Gemma anziché a Gaia le lezioni di piano, risponderebbe che lo ha fatto perché così ha determinato la monetina. Ma questa risposta non può essere considerata l’esplicitazione di una ragione per l’azione. Anzi, se si prende come un tentativo di dar ragione delle proprie azioni, la risposta di Beatrice appare elusiva e inappropriata. Ci si aspetta che Beatrice confessi di non aver avuto alcuna ragione per scegliere Gemma, e di essersi perciò affidata al caso. Anche se siamo d’accordo che è stato il caso a determinare la scelta, non ci aspettiamo che Beatrice sostenga che tirare la
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monetina conti come una ragione per scegliere Gemma, cioè una considerazione in favore di Gemma che è esportabile in simili contesti di scelta. L’implicazione di questa tesi non è che una scelta ragionata deve essere derivata da un principio universale preesistente. Le decisioni di principio sono chiamate così perché sono il risultato della deliberazione, sono basate su un giudizio che conta come ragione. Una ragione è una considerazione rilevante in favore di qualcosa, tale che rimane stabile o invariante attraverso contesti rilevantemente simili. Non si ha da riesaminare l’autorità di una ragione che ha concluso il nostro processo deliberativo, a meno che la sua autorità non sia messa in discussione da altre considerazioni rilevanti. Ceteris paribus, questa ragione sarà presa per buona nelle deliberazioni future. Naturalmente si può decretare che in presenza di dilemmi simmetrici bisogna ricorrere alla monetina. Per esempio, si può dire che considerazioni di equità richiedono che il dilemma di Beatrice sia risolto usando il metodo di randomizzazione. In questo senso, la randomizzazione è una strategia di arbitraggio esportabile. Ma questo non significa che tale strategia dia ragioni, cioé considerazioni stabili, che rimangono invariate in contesti rilevantemente simili. Prova ne sia che se dilemmi simili occorrono in futuro, l’agente è costretto di nuovo a tirare la monetina. Invece una risoluzione genuina estingue il conflitto, riducendo le ragioni confliggenti a ragioni apparenti o predominate, che quindi non contano più come rilevanti in contesti di scelta simili. Perché è così importante che l’agente scelga sulla base di ragioni? Perché non ci è sufficiente che sia disponibile un metodo applicabile in contesti simili? L’agente che si trova in un dilemma non sta cercando semplicemente di prendere una decisione per togliersi d’impiccio. I dilemmi sono una minaccia all’integrità, e quindi il tentativo di
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risolvere il conflitto è anche un tentativo di riparare o raggiungere l’integrità. L’agente che si confronta con un dilemma è un agente diviso il cui problema pratico è di conquistare o riacquistare unità. Decidere sulla base di ragioni è ciò che riconferisce integrità e fa di un agente un agente. Quando isoliamo una ragione predominante siamo con ciò capaci di basare la propria azione su una considerazione che riflette ed esprime pienamente chi noi siamo. Quindi agire sulla base di ragioni, di considerazioni esportabili, prendere decisioni di principio non è semplicemente un modo di determinare che cosa fare, ma il modo in cui esercitiamo ed esprimiamo pienamente la nostra identità di agenti. Non è possibile raggiungere questo scopo attraverso la randomizzazione, e questa è la ragione per cui Beatrice non può dire di aver risolto il suo problema. Dunque anche in quei casi nei quali considerazioni di equità impongono che si tiri a sorte, non possiamo dire che il metodo di randomizzazione giustifichi l’unità dell’agente e gli offra una ragione esportabile e rinnovabile, stabile o invariante attraverso contesti di scelta rilevantemente simili. Si osservi che non sto sostenendo che questa peculiarità della decisione di Beatrice dipende da caratteristiche del contesto morale di scelta. Non è perché la scelta è morale che la risoluzione deve essere una decisione di principio e fondata su una ragione. Per rendere più chiaro questo punto si può usare un esempio non morale. Supponiamo che Irene sia indecisa su quale di due film andare a vedere. Ha letto delle recensioni entusiaste su entrambi, e non può acquisire altre informazioni rilevanti su nessuno dei due. Perciò si risolve a tirare la monetina. Un’amica chiede ad Irene quale film merita di essere visto prima. Ecco, sarebbe scorretto da parte di Irene suggerire all’amica di andare a vedere prima il film che lei ha visto per primo. Certamente, avendo visto uno dei film
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Irene ha ora acquisito informazioni ulteriori, ma queste informazioni non possono contare come delle ragioni per giustificare la scelta di Irene, sebbene possano giustificare decisioni future oppure costituire un fondamento plausibile per consigliare un’opzione piuttosto che un’altra. Quindi il tirare a sorte di Irene non è di alcun aiuto all’amica perché non ha prodotto nessuna ragione per l’azione, e quindi nessuna considerazione esportabile. Nei contesti morali come nei contesti non-morali di scelta, la giustificazione della decisione dovrebbe dipendere dal confronto dei meriti delle alternative, secondo una certa valutazione della situazione. Ma quando i meriti sono simmetrici, non ci sono considerazioni predominanti che possano giustificare un corso di azione piuttosto che un altro. In questi casi la scelta è inevitabilmente arbitraria. Siccome la randomizzazione non determina le ragioni per l’azione ma solo un modo di uscire dallo stallo deliberativo, non si può dire che fornisca una risoluzione morale, cioè una risoluzione decisiva per l’azione che predomina su tutte le altre considerazioni rilevanti. Di conseguenza, la disponibilità di un metodo di arbitraggio equo, qual è la randomizzazione, non mostra che i dilemmi simmetrici sono spuri perché non mostra che vi è una risoluzione per tali dilemmi.
4.3 Decisioni arbitrarie Scegliere senza una ragione decisiva, o anche scegliere senza ragione, non è segno di irrazionalità pratica. Anzi, sia nei contesti morali sia in quelli non morali è razionale agire senza ragioni se l’inazione realizza l’opzione inferiore. Per esempio, Beatrice sarebbe irrazionale se non agisse, privando entrambe le gemelle dell’opportunità di educare il loro
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talento musicale. L’arbitrarietà è segno di una decisione presa in assenza di ragioni, ma non è segno di irrazionalità. Sebbene le decisioni arbitrarie non espongano un difetto di razionalità dell’agente, segnalano tuttavia una relazione peculiare che l’agente intrattiene con la sua azione. Un’azione determinata tramite randomizzazione non è un’azione che appartiene pienamente all’agente, non è propriamente “sua”, un’attività in cui ella si riconosce completamente, anche se ne è responsabile. Le decisioni arbitrarie danno luogo ad azioni che non sono completamente espressive dell’identità dell’agente, né indicative della percezione che l’agente ha della situazione. Questa mancata identificazione con l’azione è esattamente ciò che ci preoccupa quando ci troviamo di fronte ad un dilemma morale. Ci importa agire sulla base di ragioni in cui ci riconosciamo; vogliamo riconoscerci in ciò che facciamo perché solo così noi, come agenti, abbiamo un impatto sul mondo. L’impatto che hanno le azioni arbitrarie è in qualche modo indipendente da noi perché tali azioni hanno avuto origine in modo indipendente dalla nostra deliberazione. Ciò che sembra cruciale nel valutare il significato della scelta nei casi simmetrici è che in tali casi mancano le risorse deliberative per dirigere la nostra azione in un modo che sia completamente espressivo e costitutivo della nostra integrità. La conclusione di questa investigazione non è che la randomizzazione non offre una risoluzione morale al dilemma. L’implicazione su cui insisto non è che sia un metodo improprio nelle scelte morali, un atto di auto-indulgenza o di irresponsabilità, come suggerisce Hursthouse. Coloro che rigettano la randomizzazione in quanto morale non negano che essa sia un metodo risolutivo, cioè capace di isolare delle considerazioni predominanti ed esportabili (sebbene moralmente discutibili). Al contrario, il mio
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argomento è che la randomizzazione non produce alcuna ragione per l’azione, e di conseguenza non dà alcuna risoluzione morale. Quando vi è una risoluzione al conflitto morale, deliberare se un’opzione piuttosto che l’altra sia moralmente giustificata è un processo che modifica la comprensione e la visione che l’agente ha del proprio problema. Naturalmente risolvere il proprio conflitto non equivale a banalizzarlo, a negargli rilevanza e gravità, né a riclassificarlo come spurio. Nel risolvere il conflitto morale l’agente fa un passo avanti nella comprensione e nella valutazione del proprio problema morale. Nessuna di queste considerazioni riguarda il caso della decisione arbitraria. Avendo preso la decisione di tirare la monetina, in assenza di altre risorse deliberative per giustificare la propria azione, l’agente può certamente sentirsi sollevato per aver posto fine ad una situazione incresciosa di stallo, ma non può dire di avere capito qualcosa di più, di aver maturato una visione diversa del proprio problema morale. L’atto di tirare la monetina non ha alcun effetto di ristrutturazione dell’assetto normativo e assiologico dell’agente, e quindi non ha alcun impatto sulle considerazioni che contano per la valutazione del caso. Così, il tirare a sorte non ha alcun effetto sulla visione che Beatrice ha del suo problema morale, e non le indica alcuna ragione per ripensare l’importanza comparativa delle sue alternative: lascia le cose come stanno, un problema morale irrisolto. Che non ci sia alcun miglioramento o cambiamento nel modo in cui l’agente concepisce il proprio dilemma si può chiarire con un altro esempio. Se un’amica fosse in una situazione simile, Beatrice non avrebbe altro consiglio da darle che offrirle una monetina. Ciò non implica che la scelta per randomizzazione non porti con sé conseguenze di cui l’agente debba essere ritenuto responsabile. Che siano basate su ragioni o meno, le
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decisioni hanno un impatto sul mondo, ne modificano l’assetto, contribuiscono a dare forma al nostro futuro, e creano occasioni ulteriori per la deliberazione. A causa della decisione di Beatrice, le cose tra Gemma e Gaia sono cambiate. Le gemelle non sono più in posizioni simmetriche, e forse simmetrie di quel tipo non potranno più generarsi. Ma il riconoscimento di questa eventualità non implica che Beatrice abbia guadagnato una prospettiva diversa o una diversa valutazione della situazione in virtù del fatto che ha tirato a sorte; né implica che Beatrice abbia risolto il problema.
4.4
Strategie di arbitraggio esportabili
Si potrebbe obbiettare che il mio argomento non prova che i dilemmi simmetrici non possono essere risolti tramite strategie puramente deliberative per arbitrare il conflitto in caso di parità (tie-breaking) perché ho preso in esame solo la randomizzazione. La randomizzazione è infatti un tipo peculiare di strategia deliberativa perché non mira a produrre ragioni, cioè considerazioni in favore di un’azione che contano come rilevanti in contesti di scelta rilevantemente simili. Ma ci sono altre strategie che producono delle asimmetrie che sono esportabili in contesti di scelta rilevantemente simili. Per esempio, supponiamo che Beatrice cerchi di risolvere il suo problema morale stabilendo delle priorità e cioè costruendo un ordinamento di opzioni sulla base di considerazioni secondarie, per esempio la motivazione allo studio. In condizioni normali questa considerazione non costituirebbe un fattore discriminante, ma vista la simmetria tra Gemma e Gaia, il ricorso a ragioni secondarie consente a Beatrice di uscire dallo stallo deliberativo, determinando chi delle due gemelle è più motivata. Il ricorso a queste considerazioni secondarie può essere esportato in contesti deliberativi rilevantemente
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simili, anche se l’agente riconosce che non si tratta del modo migliore di risolvere il problema. Beatrice può continuare a ritenere che l’ordinamento moralmente più corretto sia quello determinato sulla base di considerazioni primarie, come il dovere di un genitore di aiutare i propri figli a coltivare i loro talenti. In alcuni casi, allora, l’ordinamento in base a considerazioni primarie risulta incompleto ma può essere integrato tramite il ricorso a considerazioni secondarie. Ma se è così allora ci sono delle strategie deliberative esportabili per risolvere i dilemmi simmetrici; e quindi non si tratta di dilemmi genuini. Contrariamente a quanto può sembrare, questo non è un contro-esempio all’argomento del paragrafo precedente. La strategie di costruzione di un ordinamento secondario è un’opzione solo se le alternative in gioco non sono davvero simmetriche, e dunque l’agente può contare su risorse deliberative ulteriori per risolvere il suo problema di scelta. Le considerazioni secondarie sono sufficienti non solo a superare la simmetria ma a risolvere il conflitto. In un dilemma genuino, però, il conflitto tra le ragioni in gioco non ammette risoluzioni di alcun tipo. Ciò significa che la possibilità di ricorrere a strategie deliberative che sfruttano considerazioni secondarie come fattori discriminanti tra opzioni altrimenti simmetriche non dimostra che i dilemmi morali simmetrici sono spuri. Quando il ricorso a considerazioni secondarie è determinante per la risoluzione del conflitto è perché le opzioni in gioco non erano davvero simmetriche. Nei casi perfettamente simmetrici le opzioni possono essere ordinate solo attraverso la randomizzazione la quale permette di superare lo stallo deliberativo, ma non risolve il problema e non offre nuove considerazioni per ridescrivere o rappresentare diversamente
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la situazione. Quindi i dilemmi simmetrici non ammettono una risoluzione, e l’agente che vi si confronta agisce in modo arbitrario.
4.5
Dai casi di parità ai dilemmi morali simmetrici
Come abbiamo visto in 4.3, quando le alternative differiscono solo in quantità e le opzioni possono essere ordinate in modo completo e cardinale, come nella rappresentazione che darebbe un utilitarista radicale, il ricorso alla momentina non sembra particolarmente problematico. Eppure, l’adozione di una strategia deliberativa di arbitraggio in caso di parità non costituisce una vera e propria risoluzione del dilemma morale. Questa conclusione può essere estesa ad altri tipi di dilemmi simmetrici, per esempio, ai casi di ordinamento ordinale per i quali l’agente deve determinare le relazioni di priorità, ma senza specificare di quanto un’opzione è più importante rispetto all’altra, oppure ai casi di parità approssimativa, o di ordinamenti imprecisi (Lukes, 1997, 184196). In quest’ultimo caso l’agente può ancora ambire a costruire un ordinamento algoritmico delle sue alternative, e trovarsi in una situazione in cui due alternative incompatibili occupano lo stesso posto nell’ordinamento. Questo è un dilemma simmetrico, ma non è un caso di parità (tie) perché le opzioni in gioco non sono misurate uguali ma bilanciate (on a par). Tuttavia, si può concepire la deliberazione in modo completamente diverso e quindi rinunciare all’idea che deliberare significhi fare confronti per costruire un ordinamento di opzioni sulla base del quale determinare che cosa si deve fare (vd. Anderson, 1997, pp. 90-110; Stocker, 1997, pp. 196-214; McDowell, 1997). Per esempio, adottando il metodo dell’universalizzazione l’agente potrebbe deliberare che due azioni incompatibili sono
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doverose, e rendersi conto che non vi sono ulteriori risorse deliberative per determinare che cosa fare. Questo è un caso di dilemma simmetrico perché l’agente è vincolato da due doveri che sono incompatibili ma si basano sulla stessa giustificazione. Tuttavia, a differenza dai casi di parità descritti sopra, questo tipo di dilemma simmetrico non si solleva perché le alternative sono di valore uguale o perché occupano lo stesso posto in un ordinamento non-algoritmico. Piuttosto, in questo caso le alternative doverose sono simmetriche solo perché hanno la stessa sorgente normativa. Il giudizio di simmetria è una valutazione del valore comparativo delle opzioni, ma non è necessariamente un giudizio quantitativo. Infatti, può essere formulato da un agente che riconosce la pluralità dei valori, e giudica che le sue alternative sono bilanciate. Ci sono delle differenze tra i dilemmi morali asimmetrici e quelli simmetrici che giustificano un uso selettivo delle strategie di arbitraggio?
4.6 La randomizzazione nei dilemmi morali asimmetrici Chi ritiene che la randomizzazione risolva (o dissolva) il dilemma morale nei casi simmetrici è animato dalla preoccupazione di evitare lo stallo, l’inerzia, l’inazione che produrrebbero lo scenario peggiore. Come per l’asino di Buridano, è preferibile agire senza ragione che non agire per nulla. In questa prospettiva, la randomizzazione sembra accettabile moralmente, e perfino razionalmente doverosa. Se è così, perché non dovremmo adottare questa strategia anche nei casi asimmetrici di dilemma morale? Nei casi asimmetrici l’agente si confronta con un conflitto tra doveri che sono giustificati da valori differenti. Questo può darsi perché tali valori sono in un certo senso incomparabili oppure perché sono pari. Si osservi che l’esempio è formulato in termini di
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comparabilità anziché di incommensurabilità. L’incommensurabilità ci dice che le alternative non possono essere misurate precisamente su una scala singola di unità di valore. A mio parere, tuttavia, la mancanza di una tale scala non comporta la non confrontabilità delle alternative in gioco. Credo che il pluralismo di valore possa ammettere una sorta di comparabilità limitata, senza rinunciare alla propria agenda, e quindi evitando l’effetto indesiderabile di rendere dilemmatica qualsiasi scelta (Bagnoli, 2000b, Capp. VII-VIII). In questa prospettiva, è possible compiere confronti locali tra valori sulla base di ragioni, e anche costruire ordinamenti parziali. Ciò non mi impegna a dire, naturalmente, che il fine proprio della deliberazione sia quello di comparare e ordinare le alternative. Anzi, il mio scopo è di far posto all’idea che la deliberazione non si riduca al soppesamento delle alternative. Come esempio di dilemma asimmetrico generato da incomparabilità di valori, prendiamo il caso dello studente di Sartre che è diviso tra il dovere di partecipare attivamente alla resistenza e quello di accudire la madre. Supponiamo che dopo una lunga deliberazione, lo studente giudichi che la libertà e l’amore filiale siano valori incomparabili e che perciò non può basare la sua scelta su una ragione decisiva. Lo studente non considera questo un fallimento deliberativo, né crede di aver compiuto degli errori di ragionamento. Al contrario, ritiene che proprio se si valutano appropriatamente la libertà e l’amore filiale si è costretti a rifiutare qualsiasi compromesso e confronto. Tuttavia, le opzioni non sono moralmente indifferenti, e la scelta non può essere rimandata.
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Per illustrare un secondo tipo di dilemma asimmetrico dovuto a parità,1 supponiamo che un terrorista deliberi che il valore della libertà e quello dei legami familiari siano comparabili. Quest’uomo non si sottrae alla ricerca di una risoluzione, e sarebbe incline ad accettare un compromesso, se fosse possibile. Dopo avere deliberato, giudica che questi valori sono pari (on a par), e che le alternative corrispondenti sono bilanciate, cioè occupano lo stesso posto nell’ordinamento, anche se non sono uguali perché non c’è un’unità di misura comune. Per raggiungere un giudizio di parità, il terrorista opera un certo tipo di confronto e soppesamento, sebbene non accolga la tesi di commensurabilità del valore. Ora, c’è un consenso significativo sul fatto che sarebbe moralmente eccepibile per lo studente e per il terrorista risolvere i loro rispettivi problemi deliberativi tirando la monetina. Infatti anche coloro che difendono l’uso della randomizzazione per risolvere le scelte simmetriche si oppongono all’estensione di questo metodo ai casi simmetrici. Ciò che deve far riflettere non è il disaccordo generato dalla questione se la randomizzazione sia una strategia morale per risolvere i dilemmi, ma l’accordo riguardo alla tesi che sarebbe comunque eccepibile nei casi asimmetrici. È difficile individuare con esattezza la ragione su cui si può basare un uso selettivo della randomizzazione, e la questione viene affrontata molto di rado. Alcuni suggeriscono che la randomizzazione è inaccettabile nei casi asimmetrici di dilemma morale perché risparmia l’onere della scelta e quindi implica che l’agente non 1
Contrariamente a Ruth Chang, non ritengo che la parità sia una quarta categoria di confronto, cfr. Chang, 2002, pp. 659-688. A mio avviso è un errore assumere che la valutazione delle alternative prenda sempre la forma di un giudizio comparativo quantitativo (sia che si accetti o meno la tesi che vi sono solo tre relazioni comparative.) Ma a parte queste considerazioni sulla natura della deliberazione, ci sono ragioni indipendenti per respingere la proposta di Chang. Mi pare che Chang confonda il caso della parità esatta (ties) in cui c’è commensurabilità e si è disposti dare un giudizio di uguaglianza, e il caso in cui non c’è
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sia, alla fine, autore della sua azione; l’azione non gli appartiene, anche se gli è attribuibile e imputabile. Questo è un elemento interessante ma ancora insufficiente a spiegare perché una decisione arbitraria (e quindi un’azione non pienamente intenzionale) sia accettabile nei casi simmetrici ma non in quelli asimmetrici. In entrambi i casi, infatti, l’azione è arbitraria perché l’agente non giunge ad una ragione decisiva per l’azione attraverso la deliberazione. In entrambi i casi rifiutarsi di agire significherebbe realizzare il peggior scenario, e dunque la decisione non può essere rimandata. Lo studente di Sartre e il terrorista hanno deliberato su tutto ciò su cui c’era da deliberare, hanno esaurito le loro risorse deliberative, ed hanno portato a compimento la deliberazione concludendo che si tratta di un dilemma morale, e che devono agire senza una ragione decisiva. Supponiamo che questi due agenti prendano in considerazione l’uso della randomizzazione con il solo proposito di superare lo stallo deliberativo, e quindi non nella convinzione di fornire una risoluzione morale ai loro conflitti. Su quali basi possiamo dire che sono giustificati ad agire in questo modo solo se il loro dilemma è simmetrico? Si potebbe pensare che nei dilemmi asimmetrici l’agente ha più risorse per risolvere il proprio dilemma. Diversamente dai casi di parità, le opzioni sono abbastanza differenti da fornire del materiale più variegato per la deliberazione. Per esempio, lo studente potrebbe considerare se vi siano modi di lottare per la propria libertà che non richiedono di sacrificare i doveri filiali. Oppure potrebbe ridescrivedere il proprio conflitto e concludere che lottare per la resistenza è un modo fondamentalmente più auntentico di sostenere la propria famiglia. Queste sono soluzioni morali possibili e perseguirle
modo di confrontare le alternative, eppure le opzioni non sono indifferenti, il che equivale ad ammettere un certo grado di incommensurabilità. Carla Bagnoli, Dilemmi morali 107
significa mostrare che il dilemma morale non era genuino: era invece un conflitto difficile ma non impossibile da risolvere tramite deliberazione. Ciò che è peculiare al dilemma morale è che l’agente, dopo aver deliberato, e proprio in virtù della sua deliberazione, si trova vincolato da ragioni incompatibili. Dunque che la descrizione di casi asimmetrici è più ricca e perspicua dei casi di parità è un fatto irrilevante. L’intuizione che spiega la riluttanza ad usare la randomizzazione nei dilemmi asimmetrici è che tali casi sono troppo importanti e gravi da essere trattati come casi di parità. Ora, è vero che il caso dello studente e del terrorista sono seri e importanti, ma perché lo sono? Viene talvolta suggerito, e spesso implicitamente, che nei casi asimmetrici come questi la scelta è più importante che nei casi simmetrici perché comporta un costo peculiare, un sacrificio di valore. Questo suggerimento si basa sull’assunzione che i casi di parità non possano essere tragici perché non producono una perdita di valore. Ma questa assunzione è sbagliata. Supponiamo, per esempio, che lo studente e il terrorista non si trovino in dilemmi morali tragici, ma stiano per affrontare un dilemma piuttosto banale. Si tratta di decidere se partecipare ad una manifestazione anti-governativa oppure portare i bambini dal dentista per un controllo di routine. Supponiamo anche che le gemelle di Beatrice abbiano bisogno di un serio intervento chirurgico, e che Beatrice non possa sostenerne le spese dell’intervento per entrambe. È ancora così ovvio, o anche solo intuitivamente corretto, dire che tirare la monetina sarebbe giusto per Beatrice, ma non per il terrorista e lo studente? Questo si potrebbe sostenere solo argomentando che la perdita di valore è significativa solo se è una perdita di genere di valori. In questa prospettiva, però, la scelta asimmetrica dello studente di andare alla manifestazione risulta più importante della scelta simmetrica della madre di
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lasciar morire una delle due gemelle.2 Ma questo risultato è insostenibile. Inoltre, si può parlare di perdita di valore anche quando c’è compensazione di genere: per esempio, ci si può rincrescere di aver da scegliere tra due offerte di lavoro perfettamente equivalenti sotto tutti gli aspetti rilevanti perché le si vorrebbe entrambe. Ciò che ci rende vulnerabili alla perdita, in questo caso, non è che le alternative differiscono nel genere, ma semplicemente che sono possibilità distinte e che l’agente preferirebbe non essere costretto a scegliere. In alcuni casi, come quest’ultimo di Beatrice la perdita di valore è tragica, anche quando le alternative sono perfettamente simmetriche e per ipotesi non c’è perdita di genere di valore. È un errore connettere la natura tragica dei dilemmi morali alla loro struttura asimmetrica. I dilemmi asimmetrici possono avere un impatto drammatico e violento sulla nostra vita, ma non sono tragici in virtù della loro natura asimmetrica. L’ultima serie di esempi è sufficiente a mettere in dubbio la tesi che la randomizzazione se è accettabile, lo è solo nei casi commensurabili di parità (tie). Forse la decisione di determinare le scelte per randomizzazione è sempre un atto di disperazione, anziché un atto irrazionale o irresponsabile, quando gli agenti sono sensibili al significato morale delle loro scelte, hanno fatto del loro meglio per deliberare a proposito del loro conflitto, e hanno esaurito le loro risorse deliberative. Nel presentarvi queste considerazioni, non sto cercando di mostrare che la randomizzazione non dovrebbe essere usata né nei casi simmetrici, né nei casi asimmetrici di dilemma morale. La mia idea è che se si ritiene che l’uso della randomizzazione sia obbiettabile nei casi asimmetrici di dilemma, si dovrebbe anche trovarla obbiettabile nei casi simmetrici. La distinzione tra casi simmetrici e asimmetrici in termini di genere di valore non offre
2
Si potrebbe obiettare che scegliere tra due persone implichi sempre una perdita di genere di valore, ma questo sarebbe come negare di principio che vi possa essere commensurabilità in questi contesti di scelta. Carla Bagnoli, Dilemmi morali 109
alcuna giustificazione plausibile ad un uso selettivo della randomizzazione. In nessuno dei due casi, infatti, il superamento dello stallo deliberativo grazie alla randomizzazione conta come una risoluzione morale del dilemma. Conta, invece, come si arbitra nei casi di parità e come si cerca di risolvere il problema morale. Dunque focalizzare l’attenzione sulla natura asimmetrica del dilemma e sulla perdita di genere di valore non illumina la ragione per cui i dilemmi morali ci preoccupano. Bisogna, piuttosto, distinguere tra risolvere e arbitrare un conflitto.
4.7 Deliberare, comparare e misurare I tipi di dilemma morale che ho esemplificato hanno una caratteristica comune che viene messa in luce quando prestiamo attenzione all’arbitrarietà della scelta e riconosciamo la differenza tra arbitrare per superare uno stallo deliberativo, e risolvere un conflitto morale. Quali sono le conseguenze di questo argomento? Il primo risultato è che la scelta nei dilemmi morali simmetrici è tanto significativa quanto la scelta nei dilemmi asimmetrici. Il fatto che i dilemmi asimmetrici si originano da un conflitto di valori, e che quelli simmetrici si originano in un conflitto tra doveri che hanno la stessa base assiologica di giustificazione non ci dicono nulla sulla loro rilevanza filosofica né sull’impatto che hanno sulle nostre vite. Perciò è fuorviante prendere il dilemma tragico asimmetrico come paradigma del dilemma morale: in questo modo si restringe l’ambito di investigazione filosofica ad una varietà sola di dilemma morale e si individua la loro sorgente nella mancanza di commensurabilità. Ma come ho mostrato le scelte arbitrarie sono causate da un tipo di indeterminatezza normativa che non è sempre segno di incommensurabilità del valore. Le etiche moniste (anche quelle
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basate sulla tesi della commensurabilità) e le etiche pluraliste (che invece ammettono sacche di incomparabilità) condividono gli stessi problemi deliberativi. Bisogna perciò abbandonare l’idea che la commensurabilità sia sufficiente a garantire un modello deliberativo che permette sempre di trovare una risoluzione morale. Il punto non è solo che i dilemmi simmetrici sono problemi genuini, ma che possono essere tragici o banali quanto quelli asimmetrici. La tesi che ho difeso secondo la quale ciò che caratterizza il dilemma è l’arbitrarietà, cioè, l’impossibilità di operare una scelta giustificata da ragioni predominanti è stata spesso osteggiata. Philippa Foot, per esempio, sostiene che bisogna chiamare dilemmi morali solo le scelte tragiche poiché l’assenza di risoluzione può caratterizzare anche conflitti che riguardano “cose di poco conto, o laddove la scelta è tra due beni anziché tra due mali, solo che non ci preoccupa” (Foot, 1995, p. 395). Molti trovano appropriata questa restrizione (Hursthouse, 1996, p. 31 n15). Secondo me, invece, proprio perché la mancanza di risoluzione interessa sia scelte tragiche sia questioni da poco, non si dovrebbe restringere la nozione di dilemma alle scelte tragiche, a rischio di fraintendere ciò che rende tali scelte dilemmatiche e ciò che le rende tragiche. Anche quando l’arbitrarietà interessa solo “questioni da poco” dovrebbe premere all’agente che vuole scegliere in modo responsabile. Gli errori e i vizi morali non si manifestano sempre sotto forma di azioni drammatiche irreparabili, che sconvolgono la nostra vita e quella degli altri, ma più spesso consistono in petites actions (Rorty, 1988, p. 285), piccole mancanze, disattenzioni, gesti mancati, uno sguardo freddo e distante, l’intonazione dura della voce, o un certo modo di venire in soccorso privo di grazia e compassione. Anche quando delibera tra due beni l’agente morale vorrà operare la sua
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scelta sulla base di una buona ragione; e certamente non considererà il suo problema come un mero “imbarazzo di scelta”. Il dilemma del terrorista non è lo stesso di chi trova troppi bei romanzi sullo scaffale della libreria. La definizione restrittiva di dilemma morale mal si attaglia a rendere conto della natura della scelta nei contesti pluralistici. Se si adotta la definizione restrittiva di dilemma morale la scelta in contesti pluralistici sarà sempre o banale (un imbarazzo di scelta) o tragica (una perdita di valore senza compensazione di genere). Quando l’azione ha conseguenze tragiche sugli altri e su se stessi, questo non è sempre a causa di un dilemma. I personaggi tragici non sono agenti perplessi, dubbiosi o incerti. La decisione di Agamennone potrà essere giudicata affrettata e basata su un piano scellerato, ma non è senza criterio; la determinazione di sacrificare Ifigenia è ripugnante ma non arbitraria. Insistere sulla fenomenologia delle scelte tragiche non aiuta a spiegare e comprendere la natura dei dilemmi. Dobbiamo anche considerare se la definizione restrittiva del dilemma morale, che privilegia le scelte tragiche tra due mali, sia davvero quella che rende conto meglio delle nostre intuizioni. Essa invita ad una concezione della scelta morale come qualcosa di radicale e drammatico, ma soprattutto scissa e separata dai complessi processi attraverso i quali l’agente immagina, struttura e articola le sue alternative. Se si vuole capire che cosa ci preoccupa nel dilemma morale dobbiamo prestare attenzione all’arbitrarietà. La mia tesi non è che i dilemmi morali siano tutti dello stesso tipo, o che non vi sia differenza tra scegliere tra alternative incomparabili e scegliere tra opzioni bilanciate o pari. Al contrario, queste differenze sono importanti e devono essere investigate. La fenomenologia del rifiuto di ordinare le proprie alternative è diversa dalla fenomenologia dell’arbitraggio in caso di parità o bilanciamento. Talvolta si suggerisce che la metafora
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delle transazioni (trade-off ) è appropriata per i casi di parità. Quando invece l’agente rifiuta di costruire un ordinamento di valore perché ritiene incomparabili le sue alternative, allora si preferisce parlare di sacrificio (Lukes, 1997, pp. 184-196). Ma se si considerano i casi tragici di dilemma morale simmetrico, come quello di Beatrice che deve decidere della vita delle sue figlie gemelle, non è così apparente che la metafora delle transazioni sia più adeguata del sacrificio, o anche del tradimento di sé stessi. In caso di parità l’arbitrarietà non si presenta come una perdita di valori di genere diverso; tuttavia, la scelta può essere emotivamente e moralmente costosa, lasciare dei residui come i sentimenti di colpa, dolore, il bisogno di riparare e di ripararsi. Si deve concludere, allora, che un’investigazione attenta delle varietà del dilemma morale e della sua fenomenologia non si esaurisce nella dicotomia tra dilemmi simmetrici e asimmetrici. Tale investigazione non mostra che i dilemmi morali sono più significativi, tragici, e quindi tali da rappresentare un tipo preoccupante di indeterminatezza normativa, quando sono asimmetrici; né mostra che la scelta nel caso dei dilemmi simmetrici sia moralmente indifferente. L’importanza e il significato della scelta nei dilemmi morali dipende da caratteristiche del contesto di scelta diverse dalla sorgente di valore delle alternative e di come queste contribuiscono alla nostra integrità. Un esame delle varietà dei dilemmi morali e del significato della scelta in contesti dilemmatici dovrebbe prendere avvio dalla considerazione di che cosa conta come risoluzione morale, e procedere esaminando la natura dei residui che tali risoluzioni lasciano nei casi particolari. L’attenzione alla natura della risoluzione e dei residui è necessaria non solo per una tassonomia accurata dei dilemmi e dei conflitti morali, ma anche per un ripensamento della natura e lo scopo della deliberazione.
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Il
secondo
risultato
di
questa
investigazione
riguarda
l’ipotesi
della
commensurabilità del valore, e la relazione tra deliberare e commensurare. Se consideriamo i dilemmi come casi in cui viene meno la commensurabilità tra opzioni che realizzano valori differenti, si cade preda di errori che mi sembrano fatali per una comprensione corretta della fenomenologia della scelta morale. In primo luogo, la tesi della commensurabilità del valore incoraggia la rappresentazione della deliberazione come una specie di calcolo, di soppesamento intuitivo, oppure di applicazione di un certo algoritmo, di una procedura di decisione che possa giustificare un giudizio comparativo e quantitativo. Ma la commensurabilità non è un’ipotesi sul valore necessaria al buon funzionamento della deliberazione, perché deliberare non equivale a misurare il valore delle proprie opzioni. In secondo luogo, se si tratta la commensurabilità come un’ipotesi sulla natura del valore, e si riduce la deliberazione ad una forma di calcolo, si impoverisce enormemente il linguaggio della scelta morale. Scegliere significa, in questa prospettiva semplificata, stabilire delle relazioni comparative, quali “meglio di”, “peggio di”, “uguale a”; si sceglie sulla base di giudizi quantitativi che determinano di quanto un’opzione è migliore o peggiore dell’altra. In terzo luogo, gli atteggiamenti di preferenza o indifferenza diventano gli unici due atteggiamenti razionali che si possono assumere nei contesti di scelta. Mi sembra che in questo modo si avvia un impoverimento concettuale che non solo falsifica la nostra esperienza della scelta morale, ma ne impedisce anche un’adeguata investigazione filosofica.
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Eppure, alcuni credono che la commensurabilità sia un’ipotesi necessaria anche se si intende la deliberazione in modo più ampio, cioè come quel tipo di ragionamento pratico volto ad elaborare una concezione di ciò che ci importa e con cui ci identifichiamo. Anziché considerare la commensurabilità (o l’incommensurabilità) come un’ipotesi sulla natura del valore, propongo di considerarla come un problema che la deliberazione fa emergere.3 In questa prospettiva, la questione se le opzioni rilevanti possono essere ordinate è una questione che emerge durante la deliberazione, ed è risolta attraverso la deliberazione. I giudizi di arbitrarietà dell’azioni sono giudizi che stabiliscono l’incomparabilità o la parità di opzioni diverse, e contano come risultati della deliberazione. In questo senso, tali giudizi non mostrano il fallimento della deliberazione ma il suo completamento. La valutazione comparativa delle opzioni è una operazione deliberativa. Prima e indipendentemente del contesto deliberativo di scelta la questione se le opzioni in gioco incarnano valori incommensurabili non è una questione intelligibile. Non ha senso per Beatrice chiedersi se Gemma abbia la precedenza su Gaia, indipendentemente dalle circostanze che determinano il contesto presente di scelta. La priorità tra le opzioni è una questione deliberativa, che viene definita in contesti deliberativi particolari, che acquista o perde importanza secondo la pratica della deliberazione, e per la risoluzione della quale non è necessaria alcuna ipotesi generale sulla natura del valore. 3
Vd. Millgram, 1997, 151-184; Millgram, 2002. Millgram ritiene che la commensurabilità sia il risultato della deliberazione, ma considera questo risultato come il segno che la deliberazione ha avuto successo, che si conclude felicemente perché costituisce il modo in cui l’agente si unifica e si identifica nel tempo. A mio avviso, invece, il risultato di una deliberazione completa e corretta non è necessariamente un giudizio di commensurabilità, e il giudizio di arbitrarietà non coincide con un fallimento dell’unificazione dell’agente. Non credo che “rendere i propri fini commensurabili sia il processo di acquisire la propria concezione di ciò che ha importanza”, Millgram, 1997, p. 161. Carla Bagnoli, Dilemmi morali 115
Si osservi che, contrariamente a Elizabeth Anderson, non sto suggerendo che sia inutile o tedioso cimentarsi nell’operazione di misurare prospetti di azione (Anderson, 1997, 100). La mia idea non è che il tentativo di commensurare viola il principio pragmatista secondo il quale l’agente deve pensare di avere un buon motivo per agire (no good reason principle); non dico che il commensurare non serve ad alcuno scopo pratico, ma che rappresenta un atteggiamento moralmente inappropriato di fronte alla scelta morale. Cercare di misurare se e di quanto una delle due figlie vale più dell’altra è, secondo me, un compito che un agente morale competente non dovrebbe assumersi. Rifiutarsi di rispondere alla domanda “Chi vale di più? E di quanto?” non è solo un atteggiamento adeguato e sano, ma anche l’unico atteggiamento che dimostra veramente ed esprime l’amore per i propri figli e il riconoscimento del loro valore di persone e che quindi è l’unico modo di essere congruente con la percezione del dilemma che l’agente mostra di avere. Essere in grado di misurare e quantificare il proprio attaccamento e il peso delle nostre attribuzioni di valore non ci mette in grado di deliberare correttamente a proposito delle scelte future. Se le richieste di misurazione avessero senso per Sophie o per Beatrice, il loro conflitto perderebbe tutta la sua tragicità e dilemmaticità. Forse sarebbe più facile, al contrario di quanto suggerisce Anderson, vivere in un mondo in cui queste transazioni e misurazioni sono possibili e ammettono risposte precise; e tuttavia, tali operazioni rimarrebbero a mio avviso immorali o fuor di luogo. Questo è vero anche in casi in cui le scelte non sono drammatiche, come nell’esempio di Mattia che delibera se rimanere a vedere Shrek con il proprio figlio oppure uscire a teatro con l’amica. Sarebbe scorretto supporre che il suo problema consista nel commisurare l’amore per il figlio con l’amore per l’amica. Anche qui, come nel caso di Sophie, il rifiuto di Mattia di
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porre la questione in termini di misurazioni precise, indica proprio la natura dell’amore che Mattia nutre sia per il figlio, sia per l’amica. Tale rifiuto è un atteggiamento appropriato sia quando le opzioni sono incommensurabili, sia quando sono pari o bilanciate. Si può dire che, come l’ambivalente e l’indeciso che abbiamo considerato nel capitolo precedente, l’agente perplesso non ha definito le sue priorità. Che altro può significare il giudizio di arbitrarietà sull’azione in contesti dilemmatici? Tuttavia, ciò non implica che le relazioni di priorità possano essere stabilite solo sulla presunzione di commensurabilità, né implica che la stipulazione di commensurabilità del valore sia sufficiente a determinare relazioni di priorità. Deliberare per stabilire relazioni di priorità è una pratica differente dal misurare e comparare il valore delle proprie opzioni. Un fallimento deliberativo non equivale ad un fallimento di misurazione del valore: si può errare proprio cercando di misurare il valore delle opzioni, e si può deliberare bene anche senza saper dire esattamente di quanto le nostre opzioni differiscono. Ma certamente bisogna sapere dire in che modo tali opzioni differiscono; e per questo abbiamo bisogno non solo di una sensibilità raffinata, ma anche di un vocabolario concettuale ricco, capace di rendere conto dei vari aspetti sotto i quali le alternative che importano e differiscono. Per questo deliberare correttamente e riuscire a stabilire delle relazioni di priorità tra i nostri progetti, desideri, bisogni, interessi è un’attività più complessa della costruzione di un ordinamento di preferenze. Stabilire giustificatamente delle relazioni è un’attività deliberativa che intraprendiamo sullo sfondo un nesso intricato tra pratiche condivise e il nostro giudizio, il cui risultato ha spesso l’effetto di modificare tali pratiche. Quando determiniamo che cosa è importante in una certa situazione deliberativa cerchiamo anche
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di collocare storicamente il nostro giudizio di importanza, cosicché abbia senso data la storia che abbiamo. Quando Beatrice cerca di decidere come risolvere il problema delle lezioni di piano, la sua deliberazione assume una forma particolare in considerazione di altre credenze, decisioni, ed atteggiamenti che le appartengono. Queste considerazioni sono espresse in modi specifici, che manifestano il tipo di personalità di Beatrice. Per esempio, Beatrice può risolversi a rinunciare ad un corso di yoga cosicché tutte e due le gemelle possano prendere lezioni di piano. Questa rinuncia può costarle tanto da spingerla ad intraprendere un’azione riparativa o correttiva (per esempio, può pretendere che il corso di yoga sia contemplato tra le terapie rimborsate dalla sua assicurazione medica). Come ho sostenuto nei Capitoli I e III, gli atteggiamenti e i sentimenti morali non costituiscono solo lo sfondo o il sotto-testo del dilemma dell’agente, essi danno forma alla deliberazione, guidano l’attenzione verso certi aspetti particolari della situazione che meritano di essere presi in considerazione, e in certi casi rappresentano le sole risposte pratiche giustificate che l’agente può elaborare. Soprattutto, bisogna ora sottolineare che questi atteggiamenti complessi non si possono ridurre alla dicotomia preferenza/indifferenza. Il linguaggio della scelta morale deve essere più ricco e più raffinato per poter descrivere adeguatamente l’esperienza che abbiamo della deliberazione e della scelta. Bisogna accontentarsi della tesi che le relazioni di priorità sono giudizi comparativi, e che deliberare significa disporre di un metodo per operare confronti a coppie? Anche la metafora del soppesamento (weighing) è, a mio avviso, fuorviante. Anche quando cerchiamo di stabilire relazioni di priorità non ci interessa quanto differiscono, ma che cosa ci preme di più. Le relazioni di priorità sono giudizi di importanza che debbono
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essere giustificati nel contesto deliberativo in cui l’agente si trova. Il primo compito della deliberazione è, allora, l’articolazione e l’esplicitazione delle ragioni che strutturano il contesto deliberativo. Non si delibera sempre per scegliere, né si sceglie deliberando. Anzi, per la maggior parte si sceglie senza deliberare, sulla base di ragioni implicite che non richiedono di essere di nuovo rinnovate perché sono stabili. Si delibera quando la stabilità delle ragioni che di solito si danno per scontate è posta in discussione da altre considerazioni che valgono come ragioni, oppure quando ci si confronta con un caso difficile che non sappiamo risolvere immediatamente. Si delibera, tipicamente, quando esperiamo un conflitto tra ragioni contrastanti. La percezione del conflitto e anche la problematizzazione del contesto di scelta ci richiede di esplicitare e articolare le ragioni che consideriamo rilevanti. È con questa operazione che inizia il nostro tentativo di valutare le risorse deliberative a cui possiamo dare fondo. Siamo capaci di isolare alternative rilevanti e attribuire valore in modi diversi, e sulla base di ragioni complicate. Il linguaggio della commensurabilità, dei confronti a coppie, e il modello del soppesamento risultano inevitabilmente inadeguati e insufficienti a rendere conto della complessa fenomenologia della deliberazione.4 Nel prossimo capitolo cercherò di mettere in luce le conseguenze filosofiche di questo errore prospettico e i vantaggi di una interpretazione adeguata del dilemma morale.
4
Come Putnam, credo questa dicotomia preferenza/indifferenza sia il risultato del tentative maldestro di ridurre la scelta morale al modello della teoria della decisione razionale, v. Putnam, 1989. Questo modello è inadeguato in etica, e dovrebbe essere abbandonato. Taylor suggerisce di sostituire a questa semplice dicotomia un linguaggio di contrasto (contrastive language), v. Taylor, 1985, pp. 13-45. In questo saggio, mi preme insistere solo sulla necessità di un vocabolario concettuale pià ricco e variegato che possa rendere conto ed esprimere modi diversi in cui si tracciano distinzioni e contrasti tra le varie alternative. Carla Bagnoli, Dilemmi morali 119
5 I limiti della deliberazione e l’importanza del teorizzare in etica
Nel corso di questo saggio ho sostenuto che è sbagliato guardare al significato filosofico del dilemma avendo presente solo il suo impatto sulla teoria etica. Ho cercato di correggere questo errore prospettico che vizia la riflessione filosofica recente sul dilemma ponendomi la questione dal punto di vista dell’agente perplesso. In questo ultimo capitolo vorrei spiegare che adottando questa prospettiva non solo si dà finalmente ragione del perché il dilemma morale sia un fenomeno filosoficamente rilevante, ma solo così si comprende in che senso è illuminante riguardo alla teoria etica. Sosterrò che una riflessione adeguata sulla perplessità morale espone la varietà dei vincoli e dei limiti che pesano sulla nostra deliberazione e, allo stesso tempo, mette in risalto l’importanza del teorizzare in etica.
5.1 I limiti della deliberazione individuale e le condizioni sociali dell’integrità Trattare del dilemma morale adottando la prospettiva dell’agente significa assumersi il compito di prendere sul serio lo stato di perplessità morale dell’agente. La spiegazione filosofica dei casi di Emma e di Sophie che ho offerto era volta a mostrare che i dilemmi non sono casi in cui la deliberazione è incompleta o errata, ma è anche un invito a riflettere sui limiti costitutivi della deliberazione. La deliberazione è un processo individuale, che si svolge nella mente dell’agente. Sostenere che vi sono dilemmi morali che non sono generati da difetti o errori deliberativi è come dire che vi sono dei conflitti morali che la deliberazione individuale non può risolvere in quanto individuale. E dire che la deliberazione è insufficiente significa richiamare l’attenzione sulla natura sociale
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del dilemma (o almeno di certi dilemmi), sulla varietà dei vincoli che pesano sulla struttura della deliberazione, e quindi anche sulle condizioni sociali dell’integrità, ciò a cui la deliberazione individuale mira. L’enfasi sulla deliberazione e sullo stato di salute del sé non deve trarre in inganno circa la natura dell’integrità. L’agente perplesso si trova di fronte ad una scelta impossibile non perché qualcosa è andato storto nella sua deliberazione, ma perché la situazione deliberativa non è gestibile dal solo individuo deliberante. Il caso di Sophie a questo proposito è rilevante. Sophie è di fronte ad una scelta “impossibile” non perché ella sia una deliberatrice incompetente o non veda la soluzione giusta, ma perché le condizioni di possibilità di una tale scelta non sono sotto il suo controllo. Certamente qualcosa è andato storto, ma questo qualcosa non è dipeso dal ragionamento o dall’atteggiamento di Sophie; qualcosa è andato storto prima che Sophie si trovasse a dover deliberare. Molti dilemmi morali sono di questo tipo, in cui non solo non c’è una soluzione che l’agente riconosce come appropriata, ma soprattutto non sta all’agente proporre una soluzione, sebbene stia a lei scegliere. In questi casi tragici, l’agente non crea il dilemma attraverso una deliberazione manchevole o scorretta; piuttosto, ne è vittima. La soluzione potrebbe arrivare solo rimuovendo le cause del dilemma, ripensando e modificando le condizioni sociali di tali scelte; ma evidentemente questa non sarebbe una vera e propria risoluzione del dilemma, quanto la sua dissoluzione. Ciò che mi preme sottolineare è, però, la natura socio-politica di alcune delle condizioni che pesano sulla struttura deliberativa e sulle capacità deliberative dell’agente, e anche, di conseguenza, la natura socio-politica dell’integrità. Proprio partendo da una riflessione sulla natura socio-politico dell’integrità e della deliberazione, Amélie Rorty ha suggerito che la deliberazione è indeterminata perché
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subisce i tratti fortuiti e improvvisati dell’interazione sociale (Rorty, 2000, p. 149); perciò non si può sperare nella completezza delle procedure deliberative. È vero che la struttura deliberativa dipende da condizioni di natura sociale e politica. Ma ciò non ci autorizza a dire che la deliberazione è un’improvvisazione che dipende dalla nostra interazione con gli altri. In questione non è nemmeno, come altri hanno suggerito, la codificabilità dei principi morali. Il modello di deliberazione che ho abbozzato nei capitoli precedenti non richiede la codificabilità dei principi morali, che invece viene presupposta dai cosiddetti modelli blueprint o covering law (McDowell, 1997; Herman, 1997). Assumendo la codificabilità dei principi morali ed una struttura deliberativa deduttiva questi modelli descrivono l’agente deliberante come qualcuno che semplicemente applica certe regole generali codificate a casi particolari; ma ciò che va persa in questa descrizione è proprio l’esercizio delle capacità pratiche o morali dell’agente. Ora, il fenomeno della deliberazione in caso di conflitto chiama in causa proprio queste facoltà: deliberiamo appunto perché non c’è una soluzione già disponibile. Ma se anche ci fosse, deliberare non significa semplicemente appurare se una tale soluzione si adatta al caso particolare. La deliberazione inizia con una costruzione del problema, cioè con una descrizione di ciò che conta come problema morale. Alcuni casi di perplessità morale si spiegano con la novità della situazione rispetto alla quale l’agente si trova impreparato; il lavoro deliberativo dell’agente inizia con l’individuazione e ricognizione di particolari rilevanti. Ma proprio perché la situazione è nuova, questo primo e cruciale stadio della deliberazione non può affidarsi a regole preconfezionate, né a giudizi di routine. La deliberazione è anche una pratica sociale,
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nonostante sia un processo che si svolge nella nostra mente, è anche una conversazione che si porta avanti con i nostri interlocutori, oppure nonostante essi. Scegliere i propri interlocutori è parte del processo deliberativo; per esempio, dire che Sophie rifiuta di farsi manipolare dall’ufficiale nazista e di considerare quella che gli viene imposta come una scelta significa dire che Sophie nega di considerare l’ufficiale nazista come un interlocutore. La selezione dei particolari rilevanti che ci servono a costruire il nostro problema morale è il frutto di un’azione collettiva, e quindi il risultato di un’interazione sociale. Quando la deliberazione è portata avanti con gli altri, il contributo degli interlocutori apre alternative nuove, ci espone a prospettive che non avevamo considerato, e magari ci offre una via d’uscita. Altre volte l’interazione sociale ci mostra nella nostra estrema vulnerabilità, mettendo in luce come la nostra deliberazione particolare dipenda da una quantità di elementi che non sono sotto il nostro controllo. Indicare la natura sociale e politica della deliberazione, e quindi anche dell’integrità, significa non solo prendere atto delle sorgenti della nostra vulnerabilità ma anche indicare che abbiamo più risorse deliberative a cui attingere per comprendere e superare le nostre difficoltà: la pratica sociale della deliberazione, la discussione normativa o la conversazione con gli altri, lo scambio di ragioni.
5.2 I limiti cognitivi della deliberazione individuale Si potrebbe obbiettare che privilegiando la percezione che l’agente ha del dilemma non si è fatto alcun progresso nella comprensione di questo fenomeno. Che l’agente sia moralmente perplesso, che abbia l’impressione di trovarsi di fronte ad un dilemma morale non mostra che vi siano dilemmi morali genuini (Geach, 1977; Hare, 1981;
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Donagan, 1996). Secondo questa interpretazione, i dilemmi morali che l’agente esperisce non sono autentici dilemmi, cioè ammettono in realtà una risoluzione che l’agente non riesce a intravedere o elaborare. L’obiezione è che se si affronta la questione del dilemma in una prospettiva soggettiva, cioè, dal punto di vista della percezione dell’agente, non solo si evita la questione centrale di determinare se vi siano dilemmi morali autentici, ma si consegue l’effetto di rendere spuri tutti i dilemmi. L’obiezione riposa su una concezione della deliberazione molto diversa da quella che ho delineato. Ho sostenuto, infatti, che il giudizio di arbitrarietà dell’azione con cui l’agente risponde ad una situazione dilemmatica è il risultato della deliberazione, non la prova del suo fallimento. Siccome la deliberazione è una costruzione dell’agente, che ci siano dilemmi di cui l’agente non è consapevole o viceversa che l’agente percepisca dilemmi inautentici non è possibile. Questa prospettiva richiede che si dia credito all’esperienza dell’agente, ma non ci impone di abbandonare la distinzione tra dilemmi spuri ed autentici. Piuttosto, ci invita a riconsiderare il fondamento di questa distinzione. Una concezione adeguata della deliberazione dovrebbe discriminare tra casi in cui l’agente compie degli errori di deliberazione (e per questo non giunge ad un giudizio determinato su ciò che ha ragione di fare) e casi in cui l’agente arriva ad un giudizio di arbitrarietà attraverso un processo deliberativo ineccepibile, e quindi si confronta con un dilemma autentico. Una tale distinzione è giustificata sulla base di criteri normativi e vincoli procedurali che guidano e strutturano la deliberazione. Certamente vi sono casi in cui il dilemma ha origine in un errore dell’agente, e quindi non perché vi sia oggettivamente una contraddizione tra obblighi. Non tutti i dilemmi morali sono del tipo esperito da Emma o da Sophie. Alcuni dilemmi sono
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generati da limiti cognitivi dell’agente. In certi casi questi limiti cognitivi sono anche limiti morali. L’uomo che non trova altra soluzione che mentire per cavarsi d’impiccio, e di menzogna in menzogna, si trova "intrappolato" in un dilemma morale gravissimo, non ha scuse, e non può contare neanche su spiegazioni che lo risparmino dal biasimo. Bisogna dire che il suo è un dilemma inautentico o spurio perché avrebbe potuto evitarlo se solo fosse stato un uomo migliore? La domanda da porsi proprio è questa: perché dovremmo considerare spuri quei dilemmi che possono essere risolti in linea di principio, o che non sorgerebbero se fossimo agenti ideali? Dal punto di vista dell’agente perplesso, i dilemmi morali sono auntentici nella misura in cui l’agente non può deliberare ulteriormente. Il suo è un conflitto stabile. L’origine di questi dilemmi può certo essere un difetto cognitivo, logico, o morale dell’agente. Ma richiamare l’attenzione sulla natura cognitiva di tali limiti non significa necessariamente negare l’autenticità del dilemma che genera. Dire che certi dilemmi morali non sorgerebbero per agenti ideali non equivale a sostenere che siano inautentici per agenti non-ideali. Ci sono limitazioni cognitive che non possono essere superate o corrette perché non dipendono da noi. Per esempio, supponiamo che un’improvvisa alluvione minacci di spazzare via due villaggi in prossimità di una diga. L’ingegnere idraulico della diga può dirottare l’acqua e salvare uno dei due villaggi, ma non può salvarli tutti e due, e non c’è tempo di allertare ed evacuare la popolazione. L’alluvione era imprevedibile non per la limitatezza delle conoscenze dell’ingegnere o per sua negligenza, ma per l’intrinseca imprevedibilità delle condizioni atmosferiche. In questo senso sarebbe curioso trattare il
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dilemma dell’ingegnere come se fosse generato da un difetto cognitivo, anche se è certamente un difetto di informazione. Ci sono poi delle limitazioni cognitive che sono incorreggibili non perché dipendano da fatti del mondo su cui non si possono fare anticipazioni attendibili, ma perché sono limiti costitutivi del nostro tipo di razionalità, cioé, limiti costitutivi di agenti razionali che agiscono nel tempo. E in tali casi, considerare difettosa la condizione dell’agente significa trascurarne la sua peculiare natura di essere umano. Non si tratta di semplici casi-limite o situazioni fantastiche. Al contrario, la razionalità imperfetta o limitata è la condizione in cui operariamo normalmente. Proprio perché la razionalità imperfetta è la condizione normale in cui si agisce, non dovrebbe essere considerata meramente difettosa, ma piuttosto costitutiva del nostro operare in qualità di agenti. Nella misura in cui certi dilemmi dipendono dai limiti costitutivi del nostro essere umani, perché non dovremmo considerarli autentici? Soprattutto, può una teoria etica vantare la determinatezza normativa quando questa è irraggiungibile proprio da coloro a cui la teoria è destinata? Sarebbe come dire che le questioni morali che più ci angustiano e che saremmo tentati di chiamare dilemmi, non sarebbero nemmeno problemi per degli agenti ideali. Mi sembra più ragionevole considerare dilemmatiche le scelte che gli agenti non si possono risolvere, anche se agenti ideali in condizioni ideali saprebbero risolverli. I dilemmi sono dilemmi indipendentemente dal fatto che gli agenti possano usare solo parzialmente quelle strategie che sarebbero invece completamente disponibili ad agenti ideali. Proponendo questa concezione del dilemma morale intendo anche rifiutare la distinzione tra dilemmi spuri e genuini nella misura in cui essa si fonda sul riferimento
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alle capacità (limitate o illimitate) dell’agente. Proprio in quanto i dilemmi morali dipendono dai limiti costitutivi del nostro essere umani, essi non possono essere evitati. Ma questa affermazione non rende il dilemma morale spurio o avventizio. Anzi, la concezione che propongo ha il pregio di mettere in evidenza perché il dilemma morale sia tanto importante dal punto di vista dell’agente: non perché siano in gioco i suoi propri limiti, ma perché la sua integrità lo è. Il problema che la possibilità del dilemma ci pone non è un problema epistemico, ma un problema morale. Il dilemma impone di giudicare in che modo la teoria può aiutarci a risolvere problemi morali e a prenderci cura della nostra integrità. Trascurare il valore dell’integrità dell’agente significa accettare di giudicare una teoria etica solo dal punto di vista di agenti ideali. Ora, si potrebbe ritenere che una volta acquisita questa lezione sia sufficiente integrare la teoria etica con principi morali fruibili da agenti non-ideali (Hare, 1981), o indicare in quali modi una procedura deliberativa perfetta per agenti ideali possa corrompersi una volta adottata da esseri imperfetti (Korsgaard, 1996; Schapiro, 2003). A mio avviso non è questa la lezione da trarre a proposito della teoria etica. Comunque emendata, integrata, una teoria etica guiderà sempre gli agenti “a distanza”, come lo può fare un ideale regolativo. Non vi sono integrazioni normative o complicazioni strutturali da apportare alla teoria che possano risparmiarci l’esperienza dolorosa della perplessità morale. In realtà, neanche la nostra virtù dell’integrità è sufficiente a risparmiarci poiché vi sono altre sorgenti di dilemma morale e di arbitrarietà non-morali, che non dipendono da noi. In questi casi, dobbiamo prendere atto che vi sono conflitti morali irrisolvibili, e denunciare l’arbitrarietà a cui siamo costretti.
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5.3 Avere in mente un ideale Che cosa può fare, allora, il teorico dell’etica a proposito del dilemma morale? Vi sono due compiti filosofici da assolvere: comprendere il fenomeno e cercare di porvi rimedio. Si può dire che il primo compito interessa la teoria etica in quanto impresa teorica e il secondo in quanto impresa pratica. È opinione diffusa che la teoria etica possa dirsi praticamente rilevante solo quando guida l’azione in modo univocamente determinato. Sotto questo aspetto, però, i dilemmi morali mostrano che la teoria etica fallisce il suo scopo. Su questo tema i filosofi morali si dividono. Alcuni coltivano l’ambizione di raggiungere standards piuttosto alti di determinatezza normativa. A questo scopo concepiscono la deliberazione come un calcolo e assumono che solo attraverso questa rappresentazione la teoria etica può soddisfare i suoi compiti pratici. Altri tengono in poco conto quelle teorie il cui solo intento è di determinare l’azione oppure dubitano che possano mantenere la promessa di risolvere tutti i conflitti morali (Williams, 1963; Pincoff, 1971; Blackburn, 1996). Nel capitolo IV, ho mostrato che qualsiasi algoritmo decisionale venga costruito, e nonostante la severa semplificazione della scelta morale che imponiamo quando rappresentiamo la deliberazione sottoforma di calcolo, tali sforzi sono destinati all’insuccesso. Nessun algoritmo aiuterà agenti come Sophie o Beatrice a deliberare meglio e risolvere il proprio dilemma morale. E tuttavia, la lezione da trarre non è che dobbiamo farci più modesti e accogliere criteri più deboli di determinatezza in etica, ma che dobbiamo concepire altrimenti la rilevanza pratica della teoria etica. Nei dilemmi morali la deliberazione fornisce un giudizio secondo il quale non c’è nulla di giustificato da fare: l’azione non sarà espressiva
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di noi stessi e della nostra visione del problema. I conflitti morali sono sempre una minaccia all’unità, e la deliberazione dovrebbe essere vista come un tentativo di rispondere a tale minaccia. I dilemmi morali sono particolarmente preoccupanti perché in questi casi l’azione è arbitraria, quindi non è pienamente intenzionale e perciò non può riportare l’agente all’unità. Questo fatto non indebolisce il significato pratico della teoria etica. Per essere praticamente rilevante, la teoria etica non deve essere univocamente determinata. Ciò non perché i costi della determinatezza normativa siano troppo alti (Williams, 1981; Blackburn, 1996). Piuttosto, è perché è un errore identificare la rilevanza pratica della teoria etica con la sua capacità di guidare e determinare l’azione. Quando affrontiamo un conflitto morale e cerchiamo una risoluzione non siamo semplicemente interessati ad agire per uscire da uno stallo deliberativo. Siamo interessati a comprendere la natura del nostro problema e rispondervi in modo appropriato e responsabile, cioè sulla base di buone ragioni. Ciò che ci preme non è che alla fine si faccia qualcosa, che si decida in un modo o nell’altro, ma che si scelga l’azione appropriata, quella espressiva delle persone che siamo, data la nostra comprensione del caso. Quando l’azione è inevitabilmente arbitraria, bisogna guardare ad altri modi in cui ci è possibile esprimere e quindi ricostituire la nostra integrità. Le azioni non sono le sole attività pratiche attraverso le quali esprimiamo ed esercitiamo la nostra identità di agenti: disponiamo di altre risorse. Gli atteggiamenti, i sentimenti, le emozioni sono altri modi in cui abbiamo un impatto sugli altri. Dunque un compito pratico importante della teoria etica, altrettanto importante per la nostra integrità della procedura deliberativa, è quello di offrire dei criteri normativi per comprendere e guidare le reazioni e gli atteggiamenti
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degli agenti dopo la loro scelta morale. La teoria etica mostra di essere praticamente rilevante nei dilemmi morali quando ci aiuta a confrontarci con l’arbitrarietà di certe scelte, identificando le sorgenti di tali arbitrarietà e guidando le nostre attività future di deliberazione, riparazione ed auto-riparazione. Ne segue che la determinatezza normativa non è un desideratum della teoria etica. Il significato pratico più importante della teoria etica consiste nell’offrirci una riflessione filosofica sistematica sulle difficoltà e i limiti che incontriamo nel perseguire un certo ideale morale (Rorty, 1988, p. 329; Bagnoli, 2000, capp. 8-9). Con questo credo di aver mostrato che la spiegazione filosofica del dilemma che ho proposto in questo saggio non ci costringe a rifiutare la teoria come impresa pratica, ma ci impone di guardare diversamente al suo significato pratico e ridescriverne i compiti. Ma questa risposta non avrebbe soddisfatto Bernard Williams, secondo il quale il dilemma morale mette in crisi la teoria etica non solo come impresa pratica, ma come impresa teorica. Per Williams la “teoria” etica non può fornirci alcuno strumento di comprensione del conflitto morale e ci istruisce malamente su come risolverlo. A suo parere, i teorici dell’etica trattano il conflitto morale alla stregua di una contraddizione logica, una patologia da curare, secondo un modello di razionalità epistemico. Eppure, le ragioni per cui un agente tenta di risolvere il conflitto morale hanno poco a che fare con la coerenza logica. È, piuttosto, la necessità di costituire un sé integro e autentico, un bisogno che è psicologico e sociale, anziché logico. Denunciando questo fraintendimento della natura del conflitto morale Williams afferma che “lo sforzo di comporre i nostri conflitti e di formulare leggi atte ad eliminare l’incertezza morale mediante la costruzione
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di una teoria etica filosofica è uno sforzo destinato all’insuccesso” (Williams, 1981, 108109). Una delle critiche più frequenti mosse alla teoria etica è che il teorizzare è inevitabilmente riduttivo perché impiega delle idealizzazioni che ci allontanano dalla comprensione dell’esperienza ordinaria, e delle generalizzazioni che semplificano e schematizzano la concretezza e la salienza delle situazioni particolari. In breve, la teoria impoverisce la comprensione che abbiamo di noi stessi e del modo in cui esperiamo la moralità. Ciò significa, per Williams, che bisogna dare priorità metodologica ad una riflessione intelligente sulle proprie esperienze morali che ha bisogno di essere interpretata e confortata da un’indagine sui fatti rilevanti, ma non c’è bisogno di una teoria etica normativa. È fuorviante pensare che solo la teoria etica offra le risorse per una critica intelligente delle proprie pratiche e tradizioni, c’è qualcosa di mezzo tra la teoria e il mero pregiudizio, e cioè, una riflessione critica ma non sistematica (Williams, 1985, 116, 112). Al contrario di Williams, ritengo non solo che la teoria etica sia un’impresa legittima, ma che ci offra strumenti teorici peculiari che nessun altro tipo di teoria (biologica, psicologica o sociologica) può darci, ovvero, dei criteri normativi con cui comprendere i dilemmi e conflitti come fenomeni morali. Naturalmente, non basterà esporre l’agente perplesso alla teoria etica perché si convinca a rivedere le sue credenze morali e ridescrivere la sua situazione, così come non basterà esporre il razzista ad un argomento per convincerlo dell’indecenza morale della sua posizione. Ma ciò non dimostra il fallimento della teoria etica. Infatti, una teoria etica si indirizza a quelle persone che hanno almeno un interesse minimo alla moralità, e non cerca di convincere il
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razzista che non sia sensibile alle critiche e al giudizio degli altri, e abbastanza riflessivo e motivato da poter sostenere una discussione normativa sulle ragioni che lo spingono ad adottare il razzismo.
Allo stesso modo, perché l’agente perplesso sia capace di
beneficiare della teoria etica, deve essere un agente riflessivo, disposto a riconsiderare le sue posizioni e reazioni, sensibile alle critiche e al giudizio, capace di ascolto e di riorientamento. Chi si oppone alla teoria etica perché impiega idealizzazioni e generalizzazioni suppone che l’idealizzazione inevitabilmente allontana la teoria dalle pratiche e dalle esperienze ordinarie, rendendola così inutile o falsa rispetto ai fatti. Sembra che il teorico dell’etica debba per forza porsi fuori dalle pratiche ordinarie, contemplarle e valutarle dall’esterno (Walzer, 1987, pp. 3-32, Baier 1985). Anziché insistere sulla continuità tra la teoria e la pratica della morale bisogna, a mio avviso, riconoscere che il teorizzare è un’attività morale. Il compito essenziale del teorizzare (in etica come in politica) è quello di rivitalizzare la nostra immaginazione, espandere la gamma delle alternative che siamo capaci di percepire come salienti. Teorizzare è un esercizio morale volto a forzare i limiti che le abitudini, il nostro egoismo, e le tradizioni ci hanno imposto. In questa prospettiva, il teorizzare in etica non consiste nel criticare le pratiche ordinarie secondo gli standard di un modello di idealizzazione, ma è piuttosto l’adottare un ideale morale. L’adozione dell’ideale morale ha un effetto dirompente sul nostro assetto cognitivo e motivazionale. Avere in mente un ideale, adottarlo, ci trasforma: non solo ci motiva diversamente, ma dà forma e consistenza alla nostra realtà, e determina quali attività e desideri hanno autorità e devono essere perseguiti. C’è continuità tra la teoria e la pratica della morale, ma non nel senso di un reciproco aggiustamento. Piuttosto, è lo
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scarto tra quello che siamo e quello che dovremmo essere che conta. Si delibera avendo un ideale in mente. Insistere che offrire un ideale decente è lo scopo precipuo della teoria etica significa riconoscere la potenziale forza rivoluzionaria del teorizzare in etica, la capacità di trasformazione che la teoria può avere sulla nostra mente, sulla nostra percezione della realtà, e sulle nostre interazioni con gli altri. Privarci della teoria etica ha l’effetto di impoverire le nostre risorse per percepire, comprendere, guidare e operare il cambiamento. È la teoria etica che espone la limitatezza della deliberazione e le condizioni sociali della nostra integrità, ma in questo modo essa ci dà anche le risorse per porvi rimedio, facendoci comprendere le radici della nostra fragilità e vulnerabilità e guidandoci attraverso un ideale.
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