Tocqueville e i dilemmi della democrazia 8884924162, 9788884924162


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Tocqueville e i dilemmi della democrazia
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pisa university press

Sag stu e

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Didattica e Ricerca

studi Saggi e

Regina Pozzi

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

EDIZIONI I

=

D! university press

Pozzi, Regina

Tocqueville e i dilemmi della democrazia /Regina Pozzi

(Didattica e ricerca. Saggi e studi) 321.8 (21.)

1. Tocqueville, Alexis de - Teorie politiche

2. Democrazia - Teorie - 19. sec.

CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa

© Copyright 2006 by Edizioni Plus - Pisa University Press Lungarno Pacinotti, 43 56126 Pisa Tel. 050 2212056 — Fax 050 2212945 [email protected] www.edizioniplus.it

Memberof Association of American

5

University

Presses

Coordinamento editoriale Francesca Ferretti

Editing e impaginazione

David Nieri

In copertina Honoré Daumier, La République, esquisse, 1848 (RF 1644). Paris, musée d'Orsay, donation Etienne Moreau-Nélaton,

1906

ISBN 10: 88-8492-416-2 ISBN 153: 978-88-8492-416-2

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Le riproduzioni per uso differente da quello personale sopracitato potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dagli aventi diritto/dall'editore.

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INDICE

INTRODUZIONE

Avvertenza bibliografica

PARTEI LA DEMOCRAZIA

16

TRA AMERICA E FRANCIA

Capitolo 1 LA TRIADE RIVOLUZIONARIA

E I PROBLEMI

DELLA MODERNITÀ

Égalité Liberté Fraternité

Capitolo 2 DEMOCRAZIA E RELIGIONE Premessa

Sull’utilità politica della religione Morale e religione La religione ancella della democrazia?

POLITICA

»

LS 19 24 29

35 35 d/ 45 49

Capitolo 5 LA «QUESTIONE SOCIALE» E LA RIVOLUZIONE DEL 1848

Democrazia e questione sociale Democrazia e socialismo

57 57 68

Capitolo 4 UNA

PATOLOGIA

DEMOCRATICA:

IL CESARISMO

Il problema Sociologia ed antropologia del cesarismo Un caso storico di dispotismo democratico: il bonapartismo

1ao 77 78 80

PARTE II RIVOLUZIONE

E DEMOCRAZIA

IN FRANCIA

Capitolo 5 LA STORIA (NON SCRITTA) DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE

La Rivoluzione-problema Il viaggio di Tocqueville nell'Antico Regime Alla prova della Rivoluzione-evento La Rivoluzione e la nascita della politica moderna La Rivoluzione-enigma

100 105 116

Capitolo 6

GUIZOT, TOCQUEVILLE E LA STORIA INGLESE Guizot, o l’unità della storia europea

Tocqueville, o la messa in crisi dell’interpretazione guizotiana Storia e politica, natura ed artificio

121 121 127 1355

Capitolo 7 TOCQUEVILLE, BURKE E IL LIBERALISMO TRADIZIONALISTA Premessa I liberaltradizionalisti tra antico regime e Rivoluzione

Tocqueville e Burke Tocqueville e il problema della Rivoluzione francese Conclusione Indice dei nomi

157 157 159 145 148 151 155

INTRODUZIONE

Il volume raccoglie, in veste ampliata e rielaborata, diversi studi che ho dedica-

to a Tocqueville in anni recenti, allorché mi sono decisa a cimentarmi direttamente

con

la sua

opera,

che avevo

tante

volte incontrato

nel corso

delle mie

ricerche sulla storia della Francia nel secolo diciannovesimo. Se è permessa un'annotazione sul genere di quella che i francesi chiamano ego-bistotre, dovrei

però piuttosto dire che con questi studi sono ritornata a Tocqueville, al quale avevo dedicato il colloquio del mio primo anno alla Scuola Normale nel lontanissimo 1960, alla preistoria dunque della mia attività di studiosa.

Quest'interesse di così lungo periodo credo non abbia bisogno di essere giustificato, data la natura e la qualità dell’opera. Basti considerare che Tocqueville è uno dei grandi interpreti di quel mondo contemporaneo che faticosamente stava prendendo forma nell'Ottocento, e che su tale mondo egli ha riflettuto a

partire dai problemi di un paese — il suo — il cui ingresso nella contemporaneità era avvenuto in maniera particolarmente traumatica, e in cui il nuovo si presentava, più che altrove, con tratti nitidi e contraddittori a un tempo, in ogni

caso laceranti e drammatici. La sua riflessione è dunque preziosa per chi cerchi a sua volta di comprendere le coordinate intellettuali e politiche della Francia dell'Ottocento e lo faccia a partire dal “discorso” degli attori. C'è però una ragione in più che spiega l'attrazione che ha per me il suo pensiero. Diversamente da altri grandi interpreti della contemporaneità, come Marx o

come Comte, Tocqueville non ha nessun “sistema” da proporre e dà voce piuttosto a dei dubbi e a delle domande, incalzandoci con un discorso complesso e

tormentoso nel quale, inevitabilmente, ci coinvolge. Com'è stato di recente detto, la sua opera offre ai lettori di oggi un piacere raro, quello di «scoprirsi

più intelligenti, e più liberi, sul filo delle sue pagine»). Il che non significa, tuttavia — ecco un equivoco da cui vorrei subito sgom-

brare il campo —, che egli sia un nostro contemporaneo, né che, come un altro critico sempre

recentemente

! Cfr. F. Mélonio,

Sorbonne, 2005, p. 12.

ha scritto interrogandosi

sul perché della sua

Préface a Tocqueville et la littérature, Paris, Presses de l'Université

Paris-

8

Regina Pozzi Mi

«eterna giovinezza», egli possa offrire «degli strumenti direttamente applicabili all'analisi delle società contemporanee»?. Per precisare meglio: è il termine «direttamente» che ritengo fuorviante. Tocqueville, com'è ovvio che sia, è un uomo del suo tempo, alle prese con i problemi della società emersa dalla fine dell'ordine antico. Sentimentalmente legato al mondo perduto, per origine familiare e sociale ma anche perché persuaso, come molti suoi contemporanei, che con esso rischiassero di andare perduti valori di cui l'umanità solo con grave danno avrebbe potuto fare a meno, ma intellettualmente tutto proteso a decifrare l'ancora incerta fisionomia del mondo nuovo che aveva dinanzi, e di cui sapeva l'inevitabilità, in quest’investigazione egli sembra spesso vedere oltre il suo orizzonte e prefigurare scenari in cui si agitano problemi che sono in buona parte ancora i nostri. Se ciò testimonia l'eccezionale lucidità del suo sguardo, è però ricollocandolo dentro l'orizzonte che è il suo che possiamo trarre da lui delle suggestioni ancora valide per il nostro presente. Dire che sia questa la cifra interpretativa che propongo è meno ovvio di quanto possa sembrare, perché le letture “attualizzanti” sono per quest'autore assai frequenti. Dire questo, tuttavia, non basta. Trattandosi di studi scritti in

momenti diversi e su aspetti particolari del pensiero tocquevilliano, credo sia doveroso da parte mia indicare preliminarmente quale sia il filo problematico unitario che li collega. Credo sia anche doveroso dire quale contributo, a mio avviso, questi studi possano aspirare a portare per la comprensione di un autore, che è fra i più studiati negli ultimi decenni e sul quale il rischio di ripetere cose arcinote è assai forte. La letteratura su Tocqueville è di fatti ormai sterminata, e la ricorrenza del bicentenario della nascita, nel 2005, le ha dato ulteriore impulso. Ho citato sopra due titoli di opere uscite in tale occasione, ma sarebbe impresa ardua elencare gli studi tocquevilliani anche solo degli anni più recenti. Parecchi di

questi studi — quelli con i quali mi sono più a fondo e con più utilità confrontata — il lettore potrà trovarli citati nel volume. Qui vorrei soltanto ricordare che la Tocqueville Society, che ha organizzato nel maggio-settembre 2005 un convegno internazionale i cui atti sono in corso di pubblicazione, ha intanto dedicato un numero speciale della rivista che essa anima, «The Tocqueville Review/La

Revue Tocqueville», ad una selezione di articoli pubblicati nel quarto di secolo della sua esistenza, a partire dal celebre saggio del 1979 di Raymond Aron, Tocqueville retrouvé, uscito sul suo primo numero, che ha di fatto segnato la riscoperta di Tocqueville in Francia (ma non negli Stati Uniti o in Inghilterra; e tanto meno in Italia, dove esisteva una tradizione critica, a partire da Croce e ? _R. Boudon, Tocqueville aujourd'hui, Paris, Odile Jacob, 2005, p. 13.

ye

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

9

Omodeo, che alla fine degli anni Cinquanta aveva dato vita agli studi pionieristici di Vittorio de Caprariis e grazie alla quale, un decennio più tardi, erano stati prodotti lavori del calibro di quelli di Nicola Matteucci e Anna Maria Battista). Uscito con il titolo Tocqueville et l'esprit de la démocratie, questo numero monografico nell'ampio ventaglio dei saggi proposti offre un eccellente panorama delle tendenze più recenti degli studi tocquevilliani'. L'esame dei criteri con cui è stata operata dai curatori tale selezione — che privilegia i temi al centro della Démocratie en Amérique, mentre sono quasi assenti i problemi storiografici che, rimasti sottotraccia nella Démocratie, hanno trovato sviluppo nell’altra grande opera di Tocqueville, L’Ancien Régime et la Révolution — mi aiuta per altro, indirettamente, ad illustrare la mia posizione.

Il filo conduttore del mio lavoro è dato dal tormentato rapporto di Tocqueville con la Rivoluzione francese. Ciò risulta ben chiaro nei capitoli sto-

riografici della seconda parte, che vi sono specificamente dedicati; ma è vero anche per quelli della prima parte, che si snodano'intorno ai problemi trattati nella Démocratie en Amérique. Alla base di questa mia lettura stanno una constatazione ed un'ipotesi interpretativa. La constatazione, a suo tempo formulata da Frangois Furet?, è che il problema intorno al quale Tocqueville ha continuato ad arrovellarsi per tutta la vita gli si sia posto ben prima del viaggio in America, e trovi origine in quel nocciolo duro che ha per lui rappresentato, dal punto di vista intellettuale e, forse più ancora, esistenziale, l’esperienza della Rivoluzione francese, vissuta, per appartenenza familiare e sociale, sotto la specie di una rottura traumatica, e tuttavia considerata. come una svolta irreversibile, un punto

di non ritorno a partire dal quale soltanto poteva essere tentata l’impresa di ridefinire i principi della comunità politica. Non che il viaggio in America non abbia costituito una tappa fondamentale nell’itinerario intellettuale e politico di Tocqueville. Lo ha mostrato da ultimo, con dovizia di analisi, Umberto Coldagelli, in quella che non solo è la più recen3. Cfr. V. de Caprartis, Tocqueville in America. Contributo alla genesi de «La Démocratie en Amérique», Napoli, L'arte tipografica, 1959; N. Matteucci, Alexis de Tocqueville: un profilo, saggio introduttivo a A. de Tocqueville, Scritti politici, Torino, UTET, I, 1968 (ora in Id., Alexis de Tocqueville. Tre esercizi di lettura,

Bologna,

il Mulino,

1990);

A.M.

Battista,

rispettivamente “Za democrazia

in America” di

Tocqueville: problemi interpretativi, in «La Cultura», 1971, e Lo “Stato sociale democratico” nelle analisi di Tocqueville e nelle valutazioni dei contemporanei,

in «Il Pensiero Politico»,

1973 (ora in Ead., Studi vu

Tocqueville, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1989). Su questo punto cfr. ora R. Pertici, Zocqueville in Italia: le origini di una tradizione di studi, in «Ricerche di storia politica», VIII, 3 (2005), pp. 327-346. 4 «The Tocqueville Review/La Revue Tocqueville». Numéro spécial bicentenaire (1805-

2005), XXVI, 1 (2005). Tocqueville et l'esprit de la démocratie. 5 Cfr. E Furet, Le syotème conceptuel de la «De la Démocratie en Amérique», in Id., L'Atelier de l'his-

toire, Paris, Flammarion, 1982, pp. 217 sgg.

10

Regina Pozzi ma

te biografia del nostro autore, ma anche la ricostruzione esemplare di un continuo e complesso scambio tra attività teorica e militanza politica. E, tuttavia, come lo stesso Coldagelli dice del viaggio americano, si è trattato di una «verifi ca». Verifica di che cosa, per l'appunto? Nella Démocratie del 1835, l'America, che conserva ancora i tratti reali di quella visitata da Tocqueville, ha la funzione di dimostrare, con le sue istituzioni, con le sue leggi e soprattutto con i suoi costumi, che nel mondo dell’eguaglianza, ossia in un mondo in cui, al di là delle differenze di fatto, gli uomini si riconoscono come eguali, la libertà può vivere (anzi può, nel caso specifico, prosperare). Se tale è la formulazione che Tocqueville dà del “suo” problema, è perché i due principi fondativi della modernità politica, ovvero l'eguaglianza e libertà, non sono per lui della stessa natura -— l'uno è un portato naturale della nuova condizione umana, l’altro va perseguito e costruito dall'azione politica —, e non hanno nemmeno lo stesso valore, poiché gli uomini delle società democratiche si adattano a perdere il secondo, mentre considerano irrinunciabile il primo. Questa basilare idea tocquevilliana costituisce un leitmotiv del presente volume. Al quale se ne intreccia, però, un altro:

che la libertà, come mostrerò in particolare nel capitolo primo, sia una categoria polisemica per il nostro autore, di cui egli dà diverse e non sempre concordanti

definizioni. Nella prima Démocratie, se egli delinea un assetto istituzionale classicamente liberale, lo fa però vivere di un'intensa attività partecipativa e comuni-

taria, tale da rievocare il civismo antico. Ben diverso, com'è noto, il quadro che emerge dalla Démocratie del 1840. Qui l'America, più che essere un esempio al quale ispirarsi o, meglio, un termine di paragone alla luce del quale pensare ai problemi del mondo uscito dalla Rivoluzione francese, assume la funzione di uno specchio inquietante, nel quale l'Europa trova riflessa l’immagine del suo futuro. È qui — detto per inciso — che lo sguardo di Tocqueville si fa particolarmente acuto, e che egli mostra una capacità d'individuare i tratti di ciò che ancora non esiste ma che puntualmente sarà, che non ha mancato d'impressionare i posteri (mentre ì contemporanei,

piuttosto comprensibilmente,

ne furono

disorientati).

Nella

seconda

metà

dell'Ottocento, sarebbe fiorita tutta una letteratura che, anche a partire dalle sue analisi, avrebbe designato con il nome

di «americanismo»

alcuni tratti — i

più superficiali — della fenomenologia da lui descritta: benessere diffuso e mediocrità, volgarità dei piaceri e fine dell'eccellenza. Tocqueville, però, a dif-

ferenza di questi suoi tardi e spuri discepoli, non si abbandona a un esercizio denigratorio, né si rifugia nel rifiuto reazionario. Della nuova realtà, di cui 6 U. Coldagelli, Vita di Tocqueville (1805-1859). La democrazia tra storia e politica, Roma, Donzelli, 2005. Cfr. soprattutto il capitolo II, che s'intitola La verifica in America, pp. 47 sgg.

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

11

intravede a mala pena i lineamenti a venire deducendoli dal presente, mette in luce gli aspetti più paradossali e contraddittori, la servitù che scaturisce dall’indipendenza, la massificazione e il conformismo che nascono dal trionfo dell’individualismo. Soprattutto egli non cessa di scavare, affascinato e spaventato, nelle dinamiche inerenti al processo dell'eguaglianza, nel quale scorge la man-

canza di limite propria della sua dimensione immaginaria — una dimensione che

non può arrestarsi dinanzi a nessuna differenza, né naturale né storica —, ma in cui scopre anche, per converso, il senso di perpetuo inappagamento che il rico-

noscimento di sé nell'altro è destinato a produrre. In queste giustamente celebri analisi di Tocqueville”, quel futuro che è diventato la nostra contemporaneità si rivela portatore di una dinamica che, ove non sia controllata e contrasta-

ta, potrebbe condurre l'umanità all’autodistruzione (con un processo, potremmo dire, d'implosione). Mentre, nella seconda Démocratie, l'America s’allontana sempre più sullo sfondo, assumendo di volta in volta (e talora nel corso della stessa pagina) la

figura di un futuro minaccioso o, al contrario, della “felice eccezione” propria di un paese che, per natura e per storia, sembra essersi sottratto alla sorte che

attende le società democratiche, si fa, al tempo stesso, sempre più angoscioso,

martellante ed urgente l’interrogativo da cui Tocqueville era partito. Qual è il

rapporto tra l'avvento dell'eguaglianza democratica, fenomeno universale e provvidenziale, dato di fatto irreversibile che caratterizza la nuova condizione umana, e l'evento sanguinoso e drammatico che ne ha segnato l’atto di nascita in Francia? La Rivoluzione francese era stata un passaggio necessario per approdare alla modernità politica, come ritenevano molti dei liberali francesi

del suo tempo che pure non avevano parole abbastanza forti per deplorarne gli eccessi, oppure, tutto sommato, era stata solo un deprecabile incidente che con

un po’ di saggezza e prudenza, come aveva sostenuto Edmund Burke, si sarebbe potuto evitare? Ma soprattutto, il modo in cui s'era realizzata la via francese alla democrazia quali conseguenze aveva avuto, e continuava ad avere, per il suo funzionamento? Come ha mostrato Frangois Furet, nell'opera del 1840 corre continuamente la distinzione tra la democrazia come stato “normale” della contemporaneità e lo «stato rivoluzionario», categoria che ne definisce invece una condizione patologica e sotto la quale l’autore rappresenta la situa-

7 È quasi superfluo dire che su questi temi esiste una letteratura critica vastissima. Mi limiterò a citare alcuni studi che mi sono apparsi particolarmente suggestivi: P. Manent, Tocqueville et la nature de la démocratie, Paris, Julliard, 1982; FM. De Sanctis, Zempo di democrazia. Saggio su Tocqueville, Napoli, Esi, 1986; D. Jacques, Tocqueville et la modernité. La question de l'individualité dans la «Démocratie en Amérique», Louiseville, Québec, Éditions du Boréal, 1995.

13

Regina Pozzi

ma

zione della Francia8. Il grande vantaggio degli Americani, egli dice, è «d'essere arrivati alle democrazia senza aver dovuto patire rivoluzioni democratiche, e d'essere nati eguali invece di diventarlo». È a questo punto che si colloca l'ipotesi interpretativa che sorregge il mio lavoro. Se la democrazia si presenta in Francia con tratti patologici, ciò avviene perché, secondo Tocqueville, le modalità della sua nascita hanno finito per imprimere una torsione perversa ai suoi principi costitutivi. A mio giudizio, nel corso di tutta la sua opera, ma in misura crescente mano a mano che vi è sollecitato dalle vicende del suo tempo, egli individua il vero nodo delle difficoltà in cui si dibatte il mondo contemporaneo proprio nella forma in cui tali principi sono stati enunciati nel 1789, al limine della modernità politica. E tuttavia è soltanto dallo scioglimento di questo nodo — tale mi pare essere la sua forte convinzione — che potrà venire la loro soluzione. Secondo questa linea interpretativa, il Tocqueville che qui propongo potrebbe figurare come il suggeritore neanche troppo occulto di molte delle analisi che vengono oggi dedicate ai problemi e alla crisi delle società democratiche. Penso in particolare alla bella trilogia che Pierre Rosanvallon ha scritto, in anni recenti, sulle difficoltà e i dilemmi della democrazia in Francia?: difficoltà e dilemmi che per altro, come lo stes-

so Rosanvallon illustra, non sono un dato specifico della politica francese, ma si presentano anzi come una costante della politica contemporanea, poiché sono

il prodotto delle categorie filosofiche stesse su cui essa poggia. Con quest'approccio interpretativo, l’opera di Tocqueville rivela anche, a mio giudizio, una coerenza interna che non sempre è messa nel giusto rilievo da

interpreti tutti rivolti alle — senza dubbio straordinarie — intuizioni della Démocratie en Amérique. L'Ancien Régime et la Révolution non vi appare soltanto come una splendida opera storica, con cui l’autore, sconfitto dalla politica dopo la rivoluzione del 1848 e il colpo di stato di Luigi Napoleone, s'immerge nel passato del suo paese per tentare di capire le ragioni di un esito infausto, che si ripete per la seconda volta. È anche — è forse soprattutto — la continuazione sotto veste storiografica di quell’operazione di scandaglio, incominciata tanti anni prima, nelle oscurità del fenomeno democratico. Dopo aver cercato (invano?) sull'altra sponda dell'oceano la chiave dell’enigma, Tocqueville si china ora sull’atto fondativo della politica contemporanea, su quella Rivoluzione del * Cfr. Furet, Le système conceptuel de la «De la Démocratie en Amérique», cit., p- 245. ° Cfr. P. Rosanvallon, Le sacre du citoyen. Histoire du suffrage universel en France, Paris, Gallimard, 1992 (trad. it. La rivoluzione dell'eguaglianza. Storia del suffragio universale in Francia, Milano, Anabasi, 1994); Id., Le peuple introuvable. Histoire de la représentation démocratique en France, Paris, Gallimard, 1998 (trad. it. // popolo introvabile. Storia della rappresentanza democratica in Francia, Bologna, Il Mulino, 2005); Id., La démocratie inachevée. Histoire de la souveraineté du peuple en France, Paris, Gallimard, 2000.

an

:

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

13

1789 che è nella sua genesi un prodotto della storia della Francia, ma che, per la sua dimensione simbolica di natura quasi religiosa (come egli dice), ha portata e validità universali. Ha trovato Tocqueville le risposte che cercava? Ha trovato, in particolare, una risposta al quesito fondamentale che lo assillava: a quali condizioni potesse impiantarsi e vivere la democrazia liberale? Il libro che presento al lettore non consente di trarre conclusioni confortanti. L'Ancien Régime et la Revolution, mentre

spiega perché proprio in Francia il passaggio alla modernità abbia assunto una forma tanto traumatica e gravida di pericoli per la libertà, mantiene però al 1789

il carattere liberale che una lunga tradizione storiografica “ottantanovista” gli aveva

riconosciuto.

In quell’anno glorioso e d’«immortale

memoria»,

com'egli

scrive nelle pagine conclusive, i Francesi hanno avuto abbastanza fiducia in se stessi e nella loro causa per credere che avrebbero potuto essere eguali nella libertà. Non mancherebbero in verità, nel libro del 1856, numerosi argomenti atti ad

incrinare questa cifra interpretativa, ma essi restano come occultati, od accantonati, dall'alto pathos retorico della conclusione. Tuttavia, come illustra il capitolo

quinto del mio lavoro, che ho dedicato al tentativo di Tocqueville (rimasto incompiuto) di proseguire l’opera, la trama degli eventi rivoluzionari, quando egli la osserva da vicino, sempre più lo spinge a decostruire questa figura, che aveva reso possibile ai liberali della prima metà dell’Ottocento l’accettazione dell’eredità rivoluzionaria. Un punto è dirimente. Ciò che Mme

de Staél, Guizot o Thiers

avevano condannato, anche se attribuendolo a cause diverse, era la stagione montagnarda, con la sua deriva terroristica; mentre tutti s'erano trovati d'accordo nell’indicare negli “immortali” principi dell'89 la culla della libertà moderna. Analista incomparabile delle aporie democratiche, Tocqueville muta di prospettiva. Egli, che nell’Ancien Régime aveva magistralmente rappresentato la disgrega-

zione sociale e la conflittualità tra le classi prodotte dall’assolutismo monarchico, abbandona ora questa linea interpretativa, che sarebbe bastata da sola a spiegare la radicalità della Rivoluzione, e va a cercare la chiave delle difficoltà del presente proprio nei principi dell’89, o almeno proprio nella formulazione che avevano loro dato i protagonisti di quella grande stagione. Non è certo un caso che tra le pagine più belle del suo lavoro incompiuto, siano da annoverare le magistrali analisi dedicate alla pamphlettistica dei primi tempi della Rivoluzione, o addirittura del periodo prerivoluzionario, dovuta alla penna dei Sieyès, dei Mounier, dei Rabaut-Saint-Étienne,

ossia dei protagonisti della cosiddetta fase

“liberale”: perché è proprio qui che lo storico scorge ora le radici della difficoltà, che il suo tempo esperisce, a far vivere insieme eguaglianza e libertà. Che fare allora? Condannare quei principi, come altri dopo di lui faranno, soprattutto quando, nella seconda metà del secolo e dopo il trauma del 1870,

14

Regina Pozzi ma

andrà di moda processare la Rivoluzione? È questa un'ipotesi dinanzi alla quale Tocqueville arretra con spavento, perché, come dirò, ciò significherebbe sconfessare, oltre che il senso della sua impresa intellettuale, la fondatezza stessa del suo disegno politico. Se in molte pagine di questo volume si vedrà il nostro autore idealmente dialogare con altri protagonisti della storia intellettuale francese dell'Ottocento, sarà per mostrare l'originalità della sua posizione rispetto al problema con cui tutti si sono misurati. Da Guizot, con cui ha in comune la fede liberale e la convinzione dell’irreversibilità del processo in corso, lo divide la distanza che separa la visione fondamentalmente ottimistica del suo predecessore sugli esiti di tale processo da una concezione drammatica, com'è la sua, che non trova nel presente nessun elemento di rassicurazione per il futuro. Da Renan e da Taine, ai quali pure suggerisce molti degli argomenti di cui essi si avvarranno nella loro requisitoria contro la Rivoluzione francese, lo divide il suo rifiuto di condannare il corso che ha preso la storia. Un «Don Chisciotte malinconico»: così con una formula suggestiva, Tocqueville è stato definito!”; e soprattutto la pubblicazione della corrispondenza familiare, in cui, com'è naturale, l’autore rivela i suoi lati più intimi, ci fa conoscere un personaggio lontano dall’iconografia ufficiale, un uomo tormentato e diviso, che ben potrebbe figurare in una galleria di eroi romantici. Il fatto

è che, com'è stato detto!!, sul piano esistenziale egli non è mai riuscito a ricom-

porre lo strappo che aveva operato separandosi da un'appartenenza familiare e sociale cui restava negli affetti ancora tanto legato; e che la ricomposizione è potuta avvenire solo a livello intellettuale, dopo l’intenso lavoro analitico e concettuale con cui ha unificato in una sintesi originalissima i valori dei due mondi

tra 1 quali, per tutta la vita, egli ha continuato a sentirsi sospeso. Ma è proprio sicuro che sia così? Io propenderei a rispondere negativamente, e ritengo anzi che sia proprio sul piano teorico e politico che il problema della “duplicità” di

Tocqueville si ripropone. Se così non fosse, non si spiegherebbe che egli abbia potuto essere valutato in modo tanto ambivalente, e considerato, di volta in volta, un difensore della modernità o un suo critico. Il mio lavoro non ha l'ambizione di risolvere questo oltre modo dibattuto

problema. Ho già detto che dai critici della modernità che verranno dopo di lui lo separa, non foss'altro, il rifiuto di condannare ciò gli appare come un irrever-

!° Cfr. E.Mélonio, Tocqueville entre Révolution et démocratie, saggio introduttivo a Tocqueville, Lettres choisies. Souvenir. 1814-1859, Paris, Gallimard, 2003, pp. 9-33 (l'espressione si legge a p. 21). !! Cfr. su questo punto L. Guellec, Toequeville à travers va correspondance familiale [1998], in «The Tocqueville Review/La Revue Tocqueville». Numéro spécial bicentenaire (1805-2005), cit., pp.

583-409.

ag

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

‘h>)

sibile portato della storia (0, come egli sovente dice, della Provvidenza). È però anche vero che, nella misura in cui la modernità si presenta a lui sotto la specie della democrazia,

i.

egli ne è un critico severo, privo di illusioni, e che non fa

sconti. In questo libro, come il lettore vedrà, io non chiedo a Tocqueville risposte definitive sui problemi del suo tempo (né, tanto meno, del nostro). Che egli s’interroghi sui famosi tre principi innalzati dalla Rivoluzione sullo stendardo della modernità politica, che indaghi il rapporto tra democrazia e religione, o

che cerchi delle soluzioni per quella “questione sociale” che lo preoccupa al pari di tanti suoi contemporanei (per indicare alcuni dei temi qui trattati), il mio interesse è piuttosto rivolto a seguire gli andirivieni di un pensiero che è alla ricerca

di se stesso.

Se talora,

nelle pagine

che seguono,

la riflessione

di

Tocqueville potrà mostrarsi contraddittoria od ambigua, vorrei tuttavia che fosse chiaro che non ho inteso imbastire nessun processo a suo carico. Al contrario, è proprio perché egli mi è apparso come un autore asistematico, e fondamentalmente irrisolto, che conversare con lui mi è sembrato utile. In questo senso anche — ma solo in questo senso, e senza volerlo per forza “attualizzare” — spesso l'ho sentito vicino a noi, come se fosse un nostro contemporaneo. è

I capitoli di questo volume ripropongono, in veste rielaborata, aggiornata ed ampliata, studi presentati, in una prima versione, in sedi diverse, che vengono qui di seguito indicate. Il capitolo 1 è stato pubblicato nel volume Patologie della politica. Crisie critica della democrazia tra Otto e Novecento, a cura di M. Donzelli e

R. Pozzi (Roma, Donzelli, 2003); il capitolo 3 è stato presentato al Convegno «Tra ricerca storica e impegno civile. Giornate di studio per Luciano Cafagna» (Pisa, 28-29 novembre 2003); il capitolo 4 è stato pubblicato nel volume Bonapartwmo, cesartsmo e crisi della società. Luigi Napoleone ed il colpo di Stato del 1851, a cura di M. Ceretta (Firenze, Olschki, 2003); il capitolo 5 è stato pubblicato in «Storia della Storiografia», 41 (2002); il capitolo 6 è stato pubblicato nel

volume // pensiero gerarchico in Europa. XVITI-XIX secolo, a cura di A. Alimento e Cristina Cassina (Firenze, Olschki, 2002), e in una versione in lingua francese in «The Tocqueville Review/La Revue Tocqueville», XXII, 2 (2001); il capitolo 7 è stato presentato in lingua francese al Convegno «Alexis de Tocqueville,

entre l'Europe et les États-Unis» (Cerisy-La-Salle, 26-31 maggio 2005). Il capitolo 2 è inedito.

16

Regina Pozzi ma Avvertenza bibliografica

La fonte principale del mio lavoro è l'edizione delle Oeuvres complètes di Tocqueville, la cui pubblicazione presso l'editore Gallimard, iniziata nel 1951, è ormai quasi completata. Per ragioni di comodità, a causa della frequenza delle citazioni, ho adottato nel corso del lavoro la sigla 0.C., seguita dal numero romano del tomo e dal numero arabo del volume. Do qui sotto l’elenco completo dei titoli dei tomi, secondo il piano di pubblicazione: I. La Démocratte en Amérique, 2 voll., 1951.

II. L'Ancien Régime et la Révolution, 2 voll., 1953. III. Éerits et discoura politiques, 3 voll., 1962, 1985, 1990.

IV. Éecrits sur le système pénitentiaire en France et à l'étranger, 2 voll., 1984. V. Voyages, 2 voll., 1957, 1958.

VI. Correspondance anglaise, 3 voll., 1954, 1991, 2003. VII. Correspondance étrangère, 1986.

VIII. Correspondance Tocqueville-Beaumont, 3 voll., 1967. IX. Correspondance Tocqueville-Gobineau, 1959. X. Correspondance locale, 1995. XI. Correspondance Tocqueville-Ampère et Tocqueville-Royer-Collard, 1970.

XII. Souventra, 1964. XIII. Correspondance Tocqueville-Kergorlay, 2 voll., 1977.

XIV. Correspondance familiale, 1998. XV. Correspondance Tocqueville-Corcelle et Tocqueville-Mme Swetchine, 2 voll., 1983 XVI. Mélanges, 1989. XVII. Correspondance à divers (non pubblicato)

XVIII. Correspondance Tocqueville-Circourt, 1983 La traduzione dei testi è mia.

ary

74

Capttolo 1

LA TRIADE RIVOLUZIONARIA E I PROBLEMI DELLA MODERNITÀ POLITICA

0 ÉGALITÉ

«La prima opera filosofica di tutti i tempi sulla democrazia nel suo manifestarsi entro la società moderna»: così

John Stuart Mill sulla «Edinburgh Review»

dell'ottobre 1840 saluta la Démocratie en Amérique di Tocqueville, di cui era appena uscita la seconda parte (subito da lui recensita, come già la prima parte nel 1835)!. Non è senza ragione che apro il mio lavoro ricordando il lungo commento

dedicato

da Mill all'opera del francese

una vista eccezionalmente

suo

contemporaneo.

Dotato

di

acuta, egli coglieva infatti, al primo sguardo, i due

tratti peculiari che ancor oggi fanno della Démocratie en Amérique uno dei momenti chiave — e un punto di partenza obbligato — per ogni riflessione sulla politica moderna. Individuava nell'opera tocquevilliana la novità di una tematizzazione che faceva della democrazia il fenomeno centrale e caratterizzante

della modernità e, al tempo stesso, coglieva l’ambivalenza di un'analisi che di tale oggetto esaminava le virtù e i difetti, la normalità e le patologie. In questo senso si può dire che la recensione milliana definisca l'ambito problematico stesso in cui si colloca la mia ricerca.

Di quest'opera, che oggi più che mai sembra attirare l’attenzione di chiunque s'interroghi sui tratti del mondo in cui viviamo, prenderò qui in esame un nodo particolarmente intricato: il ruolo che vi giocano, a livello sia descrittivo sia prescrittivo, i tre termini della triade rivoluzionaria, inalberati dalla Rivoluzione francese sullo stendardo della modernità. Si tratta per Tocqueville di elementi di egual natura e fra di loro uniti da un nesso necessario, nel senso

che l'assenza di ognuno dei tre pregiudichi l’esistenza degli altri? E come avvie-

Cfr. J.S. Mill, Sulla «Democrazia in America» di Tocqueville, a cura di D. Cofrancesco, Napoli,

Guida, 1972, p. 91 (il volume contiene la recensione del 1840 e non quella del 1835, comparsa sulla «London Review»). È da notare che nelle due recensioni, con maggior circospezione nel '35,

più esplicitamente nel ‘40, Mill prende le distanze dall'analisi tocquevilliana, dando avvio ad una riflessione che sarebbe sfociata nel saggio On Liberty. Su questo punto si vedano H.O. Pappé, Mill

anò Tocqueville, in «Journal of the History of Ideas», 25, 2 (1964), pp. 217-234 e l’Introduzione di

P. Thierry a J.S. Mill, Eysaw sur Tocqueville et la société américaine, Paris, Vrin, 1994.

20

Regina Pozzi

ma

ne il loro incontro? Si realizza spontaneamente o va piuttosto sollecitato? Rispondere a queste domande non esaurisce la straordinaria complessità dell’opera, ma ritengo possa offrire un filo di idee oggi ancora utile alla riflessione contemporanea.

Si dovrebbe partire dalla polivalenza del termine “democrazia” nella Démocratie en Amérigque. Senza evocare i ben undici significati contati da Schleifer, si può concordare con Jean-Claude Lamberti che le oscillazioni semantiche si raggruppino intorno a due accezioni principali, rinviando «sia al regime politico definito dal governo del popolo, sia, più frequentemente, a uno stato della società caratterizzato dall’eguaglianza», in senso tanto oggettivo, eguaglianza delle condizioni, quanto soggettivo, sentimento dell’'eguaglianza?. Ora, ciò che agli occhi di Tocqueville fa degli Stati Uniti un prezioso laboratorio d'osservazione — e che gli suggerisce il suo titolo, così felicemente ambiguo - è che qui egli ha trovato la completa realizzazione della democrazia in entrambe queste accezioni. Da una parte, «l'America presenta, nel suo stato sociale, il più strano fenomeno. Gli uomini vi si mostrano più eguali, per la loro fortuna e per la loro intelligenza, o, in altri termini, più egualmente forti di quan-

to non siano in nessun paese del mondo, e di quanto siano stati in nessun seco-

lo di cui la storia serbi il ricordo». Dall'altra parte, «ai giorni nostri, il principio della sovranità del popolo ha preso negli Stati Uniti tutti gli sviluppi pratici che possa concepire l’immaginazione»5. Almeno nella versione americana, la demo-

crazia presenta dunque il perfetto connubio dei primi due termini della triade? È quanto, anche a una lettura superficiale, non appare in alcun modo soste-

nibile. Basti ascoltare quanto l’autore dice alla fine della prima Démocratie: «Il mio scopo è stato di mostrare, con l'esempio dell'America, che le leggi e soprattutto

1 costumi

potevano

permettere a un popolo democratico

di restare

liberoȃ.

“Democratico” è qui sinonimo di “egualitario”, e libertà ed eguaglianza sono

termini (e valori) usati in funzione contrastiva. È noto, del resto, che questa

? Cfr. J.-C. Lamberti, Tocqueville et les deux démocraties, Paris, PUF, 1983, pp. 28-29 e J.T. Schleifer, The Making of Tocqueville «Democracy in America», Chapel Hill, The University of Carolina Press, 1980, pp. 263 sgg. Si veda anche De Sanctis, Tempo di democrazia, cit., pp. 82 sgg. CAMEO

p. 52 e 56 [corsivo mio]. I due volumi del tomo I delle Oewvres complètes conten-

gono rispettivamente l’opera del 1835 e del 1840. Nel corso del presente lavoro userò l’indicazione “prima” e “seconda” Démocratie nel senso corrente, che distingue così le due parti pubblicate nel

1855 e nel 1840. In un'analisi più dettagliata, andrebbe però tenuta presente l'importante distinzione introdotta da Lamberti, Zocqueville et les deux démocraties, cit., secondo la quale una flessione capitale nella problematica tocquevilliana sarebbe da collocare non già tra le due parti dell’opera, ma piuttosto all’interno dell'opera del 1840. 4 0.C., I, 1, p. 329 [corsivo mio].

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

21

prima parte dell'opera si prodiga ad illustrare gli strumenti attraverso i quali gli Americani sono riusciti a far vivere in libertà una società di eguali: strumenti sia istituzionali — federalismo, bicameralismo, decentramento, indipendenza del potere giudiziario — sia politici — organizzazione dei partiti, libertà di stampa,

libertà d'associazione; ma soprattutto strumenti attinenti alle moeurs, categoria non sì potrebbe più montesqueuiana, nel cui ambito forte rilievo assume lo spi-

rito religioso. Più fruttuoso può essere riflettere sulla loro natura. È vero che il carattere partecipativo della vita comunale o dell’associazionismo si radica in quell’abitudine ad autoregolarsi su cui poggia anche il principio della sovranità popolare®. Si deve però osservare che è soprattutto dall'esterno di tale spazio teorico che intervengono gli elementi liberali correttivi della democrazia americana: in sintesi, da quella tradizione inglese e puritana che costituisce il

“punto di partenza” del nuovo mondo, e in cui si prefigura tutta la sua storia successiva’. Più in generale, è da notare come, fin dalle prime battute dell’opera, i rapporti tra libertà ed eguaglianza vengano presentati in chiave problematica”: Non è che i popoli il cui stato sociale è democratico disprezzino naturalmente la libertà; hanno anzi un gusto istintivo per essa. Ma la libertà non è l'oggetto principalee continuo del loro desiderio, quel che amano di amore eterno, è l’eguaglianza; si slanciano verso la libertà con impulso rapido e con sforzi repentini, e, se mancano l’obiettivo, si rassegnano; ma nulla potrebbe soddisfarli senza l'eguaglianza, ed essi consentirebbero piuttosto a perire che a perderla. E così è con apprensione che l’autore guarda al pericolo, che vede incombere

sulle società democratiche, di dispotismo (altro termine montesqueuiano). La sua materializzazione più scontata — evidente la suggestione della recente sto-

8 «Negli Stati Uniti — Tocqueville scrive (cfr. 0.C., I, 1, p. 414) — il dogma della sovranità del popolo non è una dottrina isolata che non attenga né alle abitudini, né al complesso delle idee dominanti; si può invece considerarlo come l’ultimo anello di una catena di opinioni che avviluppa l’intero mondo anglo-americano.

La Provvidenza ha dato a ciascun individuo, qualunque sia,

il grado di ragione necessario perché possa condursi da sé nelle cose che lo interessano esclusivamente. Tale è la grande massima su cui, negli Stati Uniti, poggia la società civile e politica: il padre di famiglia ne fa l'applicazione ai suoi figli, il padrone ai suoi servi, il comune ai suoi amministrati, la provincia al comune, lo Stato alle province, l'Unione agli Stati. Estesa all'insieme della nazione, diventa il dogma della sovranità popolare». 6 «Quando penso a quel che ha prodotto questo fatto originale — scrive Tocqueville (0.C., I, 1, p. 292) — mi sembra di vedere tutto il destino dell'America racchiuso nel primo puritano che approdò sulle sue rive, come tutta la razza umana nel primo uomo».

7 0.C.,1,1, p. 53.

É

22

Regina Pozzi

ma

ria francese — è il dispotismo di un solo, figura che getta la sua ombra su tutta l’opera, connotandosi nei termini di un moderno cesarismo®. Ma anche altre sono le forme che il dispotismo può assumere: è anzi questo uno dei punti su cui tra le due parti della Démocratie si registra una più netta svolta?. Nell'opera del 1835 la maggior minaccia per la libertà proviene dall’applicazione illimitata del principio della sovranità popolare e si configura come quel dispotismo della maggioranza che tutto il liberalismo dell'età postrivoluzionaria aveva paventato. Originale è semmai che già qui, anche se più ampi sviluppi il tema avrà nella seconda parte, tale dispotismo minacci — ancor più che le scelte politiche, per le quali si può dire che, alla fin fine, valga la convenzione secondo cui la minoranza di oggi sarà la maggioranza di domani! — la formazione della pubblica opinione, sulla quale può avere effetti di soffocante conformismo. Nel 1840, a materializzarsi è invece la presenza di un novello Leviatano, vera e propria figura hobbesiana rovesciata!!: ossia un «potere sociale» che, nella frantumazione del tessuto collettivo e nella dispersione dei singoli, ha centralizzato il comando e l’ha esteso a tutti gli spazi dell'attività degli uomini. La descrizione di questo «potere immenso e tutelare» — che l’autore dice di non

poter denominare, per mancanza di vocaboli, ma che definisce poi «dispotismo democratico», usando l’espressione in un senso ben diverso da quello attribuitole dai liberali postrivoluzionari — è celeberrima, ma mi sia consentito di rievocarla qui, tanto essa è fortemente suggestiva, e densa di inquietudini per noi

posteri!?;

*. Sulla presenza della categoria, ma non del temine, di cesarismo in Tocqueville, e più in generale sulla formazione di questa tipologia politica, si rinvia a I. Cervelli, Cesarismo: alcuni usiesignificati della parola (secolo XIX), in «Annali dell'Istituto italo-germanico in Trento», 1996, pp. 61-197. Per la tematizzazione tocquevilliana della categoria del dispotismo cfr. E Mélonio, Tocqueville et le despotisme moderne, in «Revue frangaise d'Histoire des idées politiques», 6 (1997), pp. 339-354 e C. Cassina, Alexis de Tocqueville e il dispotismo “di nuova specie”, in Dispotismo. Genesi e sviluppi di un concetto filosofico-politico, a cura di D. Felice, Napoli, Liguori, 2002, vol. II, pp. 515-543. ° Alla questione della diversità tra le due Démocraties, aperta da S. Drescher (Zocqueville 4Two Democracies, in «Journal of the History of Ideas», 25, 2 [1964], pp. 201-216), un importante contributo, oltre che dall'opera già citata di Lamberti, è venuto da Battista, Studi su Toequeville, cit., rispettivamente pp. 21 sgg. e 192 sgg. !° «Negli Stati Uniti — scrive infatti Tocqueville (cfr. 0.C., I, 1, p- 251) — ciascuno trova una sorta d'interesse personale a che tutti obbediscano alle leggi; poiché colui che oggi non fa parte della maggioranza sarà forse domani nelle sue file; e quel rispetto che oggi professa per le volontà del legislatore, avrà presto occasione di esigerlo per le sue». !! Cfr. De Sanctis, 7empo di democrazia, cit., pp. 128 Sgg1? Si veda 0.C., I, 2, pp. 324 sgg.

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

5)

Voglio immaginare sotto quali tratti nuovi il dispotismo potrebbe prodursi nel mondo: vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali che girano infaticabilmente su se stessi per procurarsi piccoli e volgari piaceri di cui si riempiono l'anima. Ciascuno di loro, ritirato in disparte, è come estraneo al destino di tutti gli altri; i suoi figli e i suoi amici particolari costituiscono per lui tutta la specie umana; quanto al resto dei suoi concittadini, è al loro fianco, ma non li vede;

li tocca e non li sente; egli esiste solo in se stesso e solo per sé, e, se ancora gli resta una famiglia, si può dire almeno che non abbia più una patria. Al di sopra di costoro s'innalza un potere immenso e tutelare, che da solo s’incarica d’assicurare il loro godimento e di vegliare sulla loro sorte. Esso è assoluto, dettagliato, regolare, previdente e dolce. Assomiglierebbe alla potestà paterna se, come questa, avesse per oggetto di preparare gli uomini all’età virile; ma esso cerca, al contrario, solo di fissarli irrevocabilmente nell'infanzia; si compiace che i cittadini se ne stiano contenti, purché non pensino che a stare contenti. Ancora

un'osservazione

vorrei

avanzare,

su

cui

tornerò:

se

nella

prima

Démocratie era dall’esuberanza politica della società egualitaria che sorgevano’ rischi per la libertà, nella seconda parte dell’opera il pericolo proviene invece dalla sua apatia ed indifferenza per la cosa pubblica. Da una parte una democrazia iperattiva, dall'altra una democrazia spoliticizzata, si potrebbe dire postpolitica. Nella diversità di queste configurazioni, la libertà non sembra comunque

avere vita facile nel mondo dell’eguaglianza. Ma da ciò non si.deve concludere che per Tocqueville si tratti di scegliere tra due valori in conflitto: e questo non soltanto perché ai suoi occhi il cammino dell’eguaglianza è irreversibile, e falli rebbe chiunque cercasse di far prosperare la libertà a sue spese, ma, soprattutto, perché è soltanto coincidendo che i due valori politici della modernità si realizzano appieno.

Si può immaginare — egli scrive in passaggio fondamentale della seconda Démocratie* — un punto estremo in cui la libertà e l'eguaglianza si toccano e si confondono. Suppongo che tutti i cittadini concorrano al governo e che ciascuno abbia un egual diritto di concorrervi. Nessuno differendo allora dai suoi simi-

li, nessuno potrà esercitare un potere tirannico; gli uomini saranno perfettamente liberi, perché saranno tutti interamente eguali; e saranno tutti perfettamente eguali perché saranno interamente liberi. È verso quest'ideale che tendono i

popoli democratici.

15 0.C., I, 2, pp. 101-102. Si tratta del capitolo primo della Parte II, significativamente intitolato Pourquoi les peuples déemocratigues montrent un amour plus ardent et plus durable pour l'égalité que pour la liberté.

Regina Pozzi

24



LIBERTÉ

Anche in relazione al passo appena citato, è giunto il momento di chiederci: in cosa consiste per Tocqueville la libertà? In anni a lui prossimi, erano state definite da Benjamin Constant due tipologie di libertà, la libertà degli antichi, data dalla «partecipazione attiva e costante al potere collettivo», e quella dei moderni, realizzata nel «godimento pacifico dell'indipendenza privata»'. Qual è, potremmo chiederci, rispetto a queste categorie, la sua posizione? Tocqueville, però, direttamente non risponde, e non è nemmeno certo che conoscesse il testo constantiano!5. L'asistematicità del suo pensiero — oltre che la riluttanza, nella fattispecie, a specificare una categoria, come quella della libertà, che gli appare un bene in sé!9 — non è d'altra parte fatta per facilitare una risposta. Talora sembra che egli si attenga ad una definizione di stampo montesqueuiano, secondo cui la libertà è «la gioia di poter parlare, agire, respirare senza costrizioni, sotto il solo freno di Dio e delle leggi»!”. Oppure — è la definizione che di lui viene più spesso citata — sembra che egli teorizzi la libertà come assenza di dipendenza. Così quando, nell’Esai sur l'État social et politique de la France, del 1836, distingue tra una nozione aristocratica di libertà e una nozione moderna, ovvero, come egli scrive, «la nozione democratica, e oso dire la nozione giusta

della libertà», secondo la quale «ogni uomo, essendo supposto aver ricevuto dalla natura i lumi necessari per condursi, porta nascendo un diritto eguale ed imprescrittibile a vivere indipendente dai suoi simili, in tutto ciò che non riguarda che lui, e a regolare come vuole il suo destino»!8. Per valutare questo passo, potrebbe forse essere utile la distinzione introdotta da Berlin! tra «la libertà che consiste nell'essere padroni di se stessi» (libertà positiva) e «quella che consiste nel non essere ostacolati nelle proprie scelte da altri» (libertà negativa). Ma soprattutto va notato che, tra la libertà

14 Cfr. B. Constant, De la liberté chez les Modernes, presenté par M. Gauchet, Paris, Hachette, 1980, p. 501. Si tratta del celebre discorso tenuto all’Athénée royal di Parigi nel 1819, dal titolo De la liberté des anciens comparée à celle des modernes. 19 Cfr. su questo punto Lamberti, Tocqueville et les deux démocraties, cit., p. 75 e 103. !0 «Chi cerca nella libertà — dirà nell'Ancien Régime et la Revolution (cfr. 0.C., II, 1, p. 217) — altra

cosa che la libertà stessa è fatto per servire». SOCIA !* 0.C., II, 1, p. 62. Di libertà negativa ed indeterminata a proposito di questo passo ha parlato, per esempio, Aron, che tuttavia riconosce come tale libertà non possa «realizzarsi autenticamente che nella libertà propriamente politica» (R. Aron, Eusat sur les libertés, Paris, Calmann-Lévy, 1965, pp. 22-23). Cfr. I. Berlin, Due concetti di libertà, Milano, Feltrinelli, 2000 [1958], p. 26.

a

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

25

aristocratica (che, significativamente, è per Tocqueville la forma di libertà propria di tutte le epoche passate, e quindi anche delle repubbliche antiche) e la libertà democratica, non viene fatta una distinzione di contenuti, ma solo di gradi d’'estensione. Non ci stupiremo così che, poche righe più avanti, vengano evocate come condizione “normale” della politica moderna «le maschie e fiere virtù del cittadino»?°. Insomma, credo che s'interpreti il senso più autentico del

discorso di Tocqueville se si conclude che la libertà aristocratica — che l’eguaglianza vuole ormai estesa a tutti — rappresenta ai suoi occhi la figura stessa della libertà, ed è sinonimo di partecipazione al potere. E se è vero, come è stato scritto, che «tutta la sua opera è un immenso sforzo per trasporre nella democrazia, e a suo beneficio, i valori aristocratici»?!, non v'è dubbio che la loro sca-

turigine stia proprio in quest'identificazione originaria della libertà con l’eser-

cizio del potere??. Le vicende della storia intellettuale sono complesse, e questa più di altre, riguardando un concetto di così discussa definizione. Pure non esiterei a dirlo: per quanto importante sia per lui la salvaguardia delle libertà individuali, nella quale, non diversamente da Constant, vede un dato imprescindibile della modernità”, per il contenuto politico attivo che assegna a tale valore Tocqueville appartiene al partito degli antichi. Basterebbe a provarlo il seguente passo della prima Démocratie?: In certi paesi, l’abitante non accetta che con una sorta di ripugnanza i diritti politici accordatigli dalla legge; sembra che occuparlo degli interessi comuni sia rubargli il suo tempo, ed egli ama rinchiudersi in un egoismo angusto, di cui

20 In un ordine di discorso diverso dal nostro andrebbe sottolineata la costante associazione fatta dall'autore tra virilità e virtù civiche, secondo la più classica tradizione repubblicana, ripresa in anni recenti dai rivoluzionari francesi. Cfr. su questo punto D. Outram, «Ze langage male de la vertu»: Women and the Discourse of the French Revolution, in The Social History of Language, edited by P. Burke and R. Porter, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, p. 123.

21 Cfr. Lamberti, Tocqueville et les deux démocraties, cit., p. 77. 22 Su questo punto cfr. D. Cofrancesco, Alexts de Tocqueville. L'archetipo aristocratico e il ‘primato della politica’, in «Il Pensiero Politico», XXII, 3 (1989), pp. 433-461 e La Ubertà aristocratica.

Considerazionisu Alexis de Tocqueville, in «Trimestre», XXII, 2-3-4 (1989), pp. 167-189. 2 Bisognerebbe, per contro, ricordare che Constant, mentre teorizza la libertà dei moderni, ha però cura di esaltare la libertà politica come «il più potente, il più energico mezzo di perfezionamento

sto passo

che il Cielo ci abbia dato» (Constant, De la liberté chez les Modernes, cit., p. 513). Su que-

ha richiamato

l’attenzione

Barberis,

vedendovi

giustamente

un'anticipazione

di

Tocqueville (cfr. M. Barberis, Sette studi sul liberalismo rivoluzionario, Torino, Giappichelli, 1989, p.

257): tuttavia, nell'economia generale del ragionamento, è indubbio che per Constant la funzione della libertà politica sia quella di costituire la migliore garanzia delle libertà individuali.

24 0.C.,1, 1, p. 254.

ni

Regina Pozzi

26

ma

quattro fossati sormontati da una siepe formano l'esatto confine. Dal momento, invece, che l’Americano fosse ridotto a non occuparsi che dei suoi propri affari, metà dell’esistenza gli sarebbe rapita; egli sentirebbe come un immenso vuoto nei suoi giorni, e diverrebbe incredibilmente infelice.

E per maggior efficacia ecco che l’autore rievoca in una nota a piè di pagina il quadro tratteggiato da Montesquieu della disperazione dei Romani sotto i primi Cesari, quando, «dopo le agitazioni di un'esistenza politica, rientrarono d'un tratto nella calma della vita privata». Lo spazio della politica non è qui il luogo di astratte tecniche che organizzano la vita associata, ma, alla maniera di Aristotele, quello assai concreto della poli, in cui soltanto l’uomo realizza il suo fine. La prima Démocratie s'apre, del resto, con la descrizione della libertà dei comuni della Nuova Inghilterra, nucleo vitale delle istituzioni americane, nei quali «la legge della rappresentanza non è ammessa» e «il corpo degli elettori, dopo aver nominato i propri magistrati, li dirige esso stesso in tutto quel che non sia pura e semplice esecuzione delle leggi dello Stato»?°. Per quest'elogio

del comune americano, verrebbe immediato il richiamo a Rousseau e alla sua idealizzazione della Città antica, a causa dell'esercizio diretto della sovranità in entrambi i casi praticato, ma non solo a causa di questo. Come ha scritto Daniel Jacques, «in ciascuno dei casi, la libertà politica è possibile, perché gli uomini possono dibattere insieme del loro comune destino, a ciò spinti dalle leggi e dai costumi»?0.

Per illuminare la posizione di Tocqueville mi sembra allora utile ripensare a quella tradizione di libertà repubblicana, di «libertà prima del liberalismo», su cui è tornato in anni recenti Skinner”. Introducendo però un'ulteriore precisazione: proprio per la presenza dell’archetipo aristotelico, piuttosto che nei ter-

mini di Skinner, è soprattutto secondo la continuità stabilita da Pocock tra aristotelismo e repubblicanesimo che, a mio avviso, il riferimento sì rivela particolarmente pregnante.

E solo apparentemente

questa caratterizzazione

così for-

2° Ibid., I, 1, p. 60. Nella pagina precedente, Tocqueville aveva scritto: «È [...] nel comune che risiede la forza dei popoli liberi. Le istituzioni comunali stanno alla libertà come le scuole primarie stanno alla scienza; la mettono alla portata del popolo; gliene fanno gustare l’uso pacifico e l'abituano a servirsene. Senza istituzioni comunali una nazione può darsi un governo libero, ma non ha spirito di libertà». % Cfr. D. Jacques, Zoequeville et le problème de la clòture politigue [1998], in «The Tocqueville Review/La

Revue Tocqueville». Numéro

passo citato si legge a p. 372).

spécial bicentenaire

(1805-2005), cit., pp. 357-382

(il

Su questi temi cfr. M. Geuna, Introduzione a O. Skinner, La libertà prima del liberalismo, Torino, Einaudi, 2001 [1998], pp. XIII sgg.

a

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

DAI

temente politicizzata contrasta con la preoccupazione di stampo liberale, che Tocqueville a più riprese manifesta, per la crescita dello Stato e la sua inarrestabile invasione di tutti gli spazi della vita privata. Perché, come si vedrà, ciò che da tale processo egli teme possa venire è la spoliticizzazione dei cittadini; e quel che a tale pericolo oppone è, per contrasto, la partecipazione attiva e continua a tutti i livelli decisionali, sia che si tratti di grandi sia che si tratti di piccole questioni. Quello che Tocqueville ha in mente è la politicizzazione dell’in-

tero arco dell'attività umana. Si deve avanzare

una seconda osservazione,

che rimanda all'intento stesso

dell’opera tocquevilliana. I due primi valori della triade non hanno per l’autore la medesima natura. L'eguaglianza è ai suoi occhi un dato di fatto, inscritto nel destino della specie e che la storia ha per compito di attuare; la libertà nel mondo dell’eguaglianza non può essere invece che il prodotto dell’artificio, dell’azione

costruttrice della politica o, come Tocqueville dice con termine rousseuiano, del Legislatore?8. Se poi si esamina come vengono descritti (e prescritti) gli artifici che compete alla politica mettere in atto per preservare la libertà, risulta chiaro quanto egli sia debitore della lezione montesquieuiana. S'è parlato a questo riguardo di un liberalismo dei contropoteri??. La libertà — egli sostiene infatti — si fonda non spogliando l’autorità dei suoi diritti, ma dividendo «l’uso delle sue forze tra parecchie mani» 50. ciò che è tanto più vero per le società democratiche, propense per loro natura a concentrare il potere. Ed è proprio la funzione di

creare un sistema di poteri diffusi quella che sono chiamati ad espletare gli strumenti istituzionali e politici illustrati da Tocqueville nel 1835, e che vengono da

lui riproposti nel 1840. Solo che dalla prima alla seconda Démocratie lo scopo cui essi rispondono è cambiato, perché vi appare diversa la natura dell’uomo democratico. Con degli uomini

forti

nella

loro

autoistituzione

a sovrani,

quali quelli osservati

in

America (ma in cui forse, ci suggerisce Anna Maria Battista, veniva proiettata l’immagine dei giacobini francesi”'), tutto lo sforzo della politica doveva essere volto a contenere questo surplus di forza, nella forma che esso poteva assume-

re di onnipotenza della maggioranza. E non è certo un caso che proprio dinan-

28 0.C., I, 2, p. 150. In questo senso accolgo il giudizio sul tocquevilliano “primato della politica” formulato da Cofrancesco (cfr. sopra, nota 22), che egli però, in una prospettiva schmittiana, riferisce piuttosto ad una raffigurazione del sociale nei termini di lotta per il dominio.

29 Cfr. B. Manin, Les deux libéralismes: marché ou contre-pouvotrs, in «Interventions», 9 (1984), pp. 10-24 e Barberis, Sette studi sul liberalismo, cit., pp. 213 sgg. SOCI paz0; 31 Battista, Studisu Tocqueville, cit., p. 203.

Regina Pozzi

28

ma

zi a tale minaccia venisse rievocata da Tocqueville la teorizzazione del sistema dei checks and balances fatta da Madison nel Federalist*?. Nella seconda Démocratie il quadro appare mutato. Il percorso antropologico compiuto attraverso le idee, i sentimenti, i costumi dell’uomo democratico, amalgamando tratti “americani” e tratti “francesi”, ha lo scopo di delineare, secondo una felice formula, «quale tipo d'uomo abiterà il futuro della modernità»"5: e ben noto è il ritratto che ne risulta. Riorganizzando sparse intuizioni della prima Démocratie, Tocqueville mette ora a fuoco la debolezza connaturata agli individui di una società di eguali, granelli di polvere dispersi in una folla anonima, sopra la quale campeggia il potere centralizzato del Leviatano. Un Leviatano, si badi, che può perfettamente coesistere anche con istituzioni rappresentative. I nostri contemporanei sono incessantemente dilaniati da due passioni nemiche: sentono il bisogno d'essere condotti e il desiderio di restare liberi. Non potendo distruggere né l'uno né l’altro di questi istinti contrari, si sforzano di soddisfarlì a un tempo entrambi. S'immaginano un potere unico, tutelare, onnipotente, ma eletto dai cittadini. Combinano la centralizzazione e la sovranità popolare [...] Ogni individuo sopporta di sentirsi legato, perché vede che non è un uomo né una classe, ma il popolo stesso a tenere in mano il capo della catena.

In questo sistema, come Tocqueville dice parafrasando Rousseau, «i cittadini escono un momento dalla dipendenza per indicare il loro padrone, e vi rientra-

no». Ora, come costituire, in queste condizioni, un sistema di libertà diffusa, o, nei termini dell'autore, dei soggetti forti, capaci di limitare la presa del potere centrale? Se mai all'arte politica è stato affidato un compito arduo, è questo il caso. Tanto più che questi stessi individui, così impotenti, appaiono in preda a delle passioni che tendono ad isolarli e a renderli indifferenti alle sorti della collettività. L'individualismo, in primo luogo, neologismo che Tocqueville introduce nella seconda Démocratie®, per indicare un tipo di relazioni — o meglio, di

assenza di relazioni — che «dispone ogni cittadino a isolarsi dalla massa dei suoi

® 0.C., I, 1, pp. 270 sgg. Sull’importanza del Federalist come fonte della riflessione tocquevilliana sì veda S.S. Wolin, Tocqueville Between Two Worlds, Princeton, NJ, Princeton University Press,

2001, pp. 74-75 e 245 sgg. 5 De Sanctis, Tempo di democrazia, cit., p. 111. A 0/GI2Xp=926. % Il termine era entrato nel dizionario dell'Académie frangaise nel 1836 (cfr. Lamberti, Tocqueville et les deux démocraties, cit., p. 219). Sulla storia del termine, e sulla sua origine nel campo della letteratura controrivoluzionaria, si veda C. Cassina, Appunti intorno all origine di una parola. Individualismo’, in

«Cromohs»,

1 (1996), 1-21.

a

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

29

simili» e a ritirarsi nella sua sfera privata, lasciando «la grande società a se stessa». Il materialismo, in secondo luogo, che pure induce degli uomini troppo assorbiti nei loro affari a non considerare di propria pertinenza la cosa pubblica, e ad abbandonarla nelle mani di chi voglia impadronirsene”.

FRATERNITÉ È a questo punto che Tocqueville introduce il terzo valore della triade rivoluzionaria, quella Fraternità di cui ora soltanto si riesce a coglie tutto il senso e la funzione. Sappiamo da Mona Ozouf, che la fraternità è la «parente povera» della triade. L'uso negli anni della Rivoluzione ne è stato sporadico, e tardiva l'istituzionalizzazione

nel motto,

per la quale bisogna attendere

la Seconda

Repubblica. È tuttavia un'idea di cui s'è nutrita, nella prima metà del secolo, la critica di sinistra della Rivoluzione, alla quale ha così offerto un principio cor-

rettivo della dottrina “egoista” dei diritti individuali. Da Buchez a Louis Blanc “fraternità” è diventata la parola chiave di un ideale comunitario da opporre alla libertà individualista. E accanto a loro, in polemica con loro, si dovrebbe ricordare anche Michelet. Il grande storico della forza del popolo, dell’infallibile istinto delle masse, ha indicato nella fraternità la parola ultima della rivoluzione, anzi la sua più originale creazione, al tempo stesso, però, in cui ha rifiutato di opporre tale valore alla libertà degli individui, che era anzi, ai suoi occhi,

la condizione perché esso potesse attuarsi”.

SOCI

pall'0o: È da notare che Tocqueville insiste sulla natura tutta moderna ed ideolo-

gica di questa passione, che, a differenza dell’egoismo, nasce non da «un sentimento depravato», ma da «un giudizio erroneo». 7 Ibt., I, 2, pp. 147-148. Anche questa passione, come la precedente, nasce da un giudizio erroneo: perché alla lunga, afferma Tocqueville rovesciando il celebre nesso montesquieuiano, solo la libertà alimenta il commercio e la ricchezza, che in sua assenza s'isteriliscono. 5 Cfr. M.

Ozouf, Fraternité,

in Dizionario critico della Rivoluzione francese,

Milano,

Bompiani

1988 [Paris 1988], pp. 657-666. A questo studio sono debitrice dalla maggior parte delle osservazioni che sviluppo nel testo. 9 «Così sparisce dal mondo — si legge nella Prefazione del 1847 al primo volume dell'Histotre de la Revolution frangaise — la falsa solidarietà. L'ingiusta trasmissione del bene, perpetuata dalla nobiltà; l'ingiusta trasmissione del male, dal peccato originale, o l’infamia civile dei discendenti del colpevole. La Rivoluzione le cancella. È questo, uomini dei nostri tempi, quel che tacciate d'individualismo, questo ciò che chiamate un diritto egoista?... Ma pensate dunque che, senza questo diritto dell'individuo che soltanto lo ha costituito, l’uomo non esisteva, non agiva, dunque, non poteva fraternizzare» (J. Michelet, Histotre de la Revolution francaise, Paris, Laffont, 1979, I, p. 36 [corsivo dell’autore]). )

30

Regina Pozzi ma

Diversamente dagli autori di area democratico-socialista, Tocqueville non ha mai tematizzato, e nemmeno nominato, il terzo termine della triade. Tuttavia, com'è stato detto, esso costituisce per lui «uno dei nodi della Rivoluzione francese» e, più in generale, della modernità, che è società di eguali e che, anche nell'ambito della famiglia, specchio o metafora della società, ha sostituito al rapporto padri-figli quello tra fratelli*°. Si tratta però per lui di un concetto che non rinvia al discorso della solidarietà, e la cui funzione è specificamente politica. In sintesi, la fraternità è l'elemento che attiva nello spazio pubblico gli altri due valori: valori che, in sua assenza, resterebbero confinati alla sfera del diritto individuale, destinati a rovina per difetto (declino della libertà) o per eccesso (esasperazione dell’eguaglianza) del loro principio‘! È fin troppo chiaro perché ciò avvenga della libertà, data la sua natura politica. Merita invece che ci sì soffermi sul problema dell’eguaglianza: eguaglianza delle condizioni e sentimento dell’eguaglianza, come si è detto all’inizio. In realtà, per la mobilità delle condizioni che caratterizza lo stato sociale democratico, i due aspetti finiscono per coincidere, e si riassumono in quella «sorta di eguaglianza immaginaria» evocata a proposito del rapporto servitore-padrone”?. Nella Démocratie non trova spazio invece un'osservazione, assai acuta, che Tocqueville aveva annotato nei caiers di viaggio: che l'eguaglianza riguardasse non i rapporti sociali privati, né tanto meno il censo, ma la sfera pubblica. Che, come gli aveva suggerito uno dei suoi interlocutori americani, «l'eguaglianza non esistesse che sulla pubblica piazza». O meglio, l'osservazione prende nel-

l’opera sviluppi diversi, in un capitolo in cui si esamina «come l'eguaglianza divide naturalmente gli Americani in una molteplicità di piccole società particolari», e li spinge ad inventare nella vita privata «classificazioni artificiali e

arbitrarie» per sottrarsi all'indistinzione della massa*. Non è difficile capire il perché di questa torsione del discorso. Così innovativa è la scoperta, soprattutto nella seconda Démocratie, della dimensione mentale del fenomeno egualitario che l’autore non può smettere di scandagliarne, affascinato e spaventato, la

‘0° Si veda il capitolo Influence de la démocratie sur la famille in 0.C., I, 2, pp. 200 sgg. Per il giudizio sopra citato cfr. De Sanctis, Tempo di democrazia, cit., p. 121; sul nesso tra modelli familiari e configurazioni politico-sociali si veda del medesimo

Tocqueville. Sulla condizione moderna, Milano,

Franco Angeli, 1993, pp. 33-51.

‘! Sulla derivazione montesqueuiana di questo ragionamento, che individua un punto mediano ottimale in cui ciascun principio si realizza, ha insistito Lamberti, Tocqueville, cit., soprattutto p. 55. £10:Cin 12 pi 189. 0.C., V, 1, p. 105 [corsivo mio]; ma da vedere soprattutto le pp. 278 sgg. Utili osservazioni in De Sanctis, 7empo di democrazia, cit., pp. 247 sgg. 4 Cfr. 0.C., I, 2, pp. 223 sgg. (si tratta del cap. 13 della Parte terza).

a

31

Tocqueville e i dilemmi della A

natura divorante, il destino di perpetuo inappagamento‘’. Ed è così che egli finisce per lasciare cadere quell’originaria definizione “civica” dell’eguaglianza che gli avrebbe fornito — forse — la chiave del problema, perché vi avrebbe trovato il senso stesso della convenzione democratica, che è basata su un processo d'astrazione politico-giuridica. i,

Tocqueville imbocca invece un’altra strada, nella quale il compito di ripor-

tare gli uomini nell’agorà è affidato alla fraternità. E come nel caso della libertà, è anche questo un elemento che rende problematica la definizione del suo pensiero nei termini classici del liberalismo. Perché nella tensione che così si produce tra una concezione puramente costituzionale della democrazia — quale sembrerebbe

risultare

dall’attenzione

rivolta,

soprattutto

nella

prima

Démocratie, al sistema istituzionale americano come insieme di regole — e la con-

cezione partecipativa che s’accentua con l'introduzione del nuovo elemento, è questa seconda che appare prevalere dal complesso dell’argomentazione?. La fraternità è in effetti il valore che induce gli individui isolati — le monadi — delle società democratiche ad agire insieme; solo nell'azione comune, d'altra parte,

si attiva il circolo virtuoso in cui gli eguali si realizzano come liberi. Compito urgente del legislatore è dunque di incoraggiare tutte le forme di libertà che richie-

dono di essere esercitate in unione con gli altri, o che tale unione hanno l'effetto di promuovere. Le libertà locali, prima di tutto, che «riportano continuamente gli uomini gli uni verso gli altri, a dispetto degli istinti che li separano, e [che] li costringono a darsi reciproco aiuto»; in secondo luogo, ed irrinunciabili, altre forme di libertà, che appaiono più politiche del diritto stesso di voto. Così la libertà di stampa, perché la stampa «è, per eccellenza, lo strumento democratico della

libertà», ed insostituibile è il suo ruolo di aggregazione sociale‘. Così, soprattutto, la libertà d’associazione, alla quale Tocqueville aveva un tempo guardato con apprensione, paventandone gli abusi’, ma che ora, discostandosi da Constant,

4 Su questo tema è da leggere la suggestiva riflessione di Manent, Tocqueville et la nature de la démocratte, cit., pp. 81 sgg. 4 Per la distinzione cfr. in particolare S.N. Eisenstadt, Paradossi della democrazia. Verso democrazie illiberali?, Bologna, Il Mulino, 2002 [Baltimore, 1999], pp. 9 sgg“CONO ZA PLEIN 4 «L'eguaglianza toglie ad ogni individuo l'appoggio dei suoi vicini; ma la stampa gli permette di chiamare in aiuto tutti i suoi concittadini e tutti i suoi simili» (:400., I, 2, p. 330).

«Più considero l’indipendenza della stampa nei suoi principali effetti, più arrivo a convincermi che presso i moderni l'indipendenza della stampa è l'elemento capitale, e per così dire costitutivo della libertà. Un popolo che vuol restare libero ha dunque diritto d'esigere che essa venga rispettata a qualunque prezzo. Ma la libertà limitata d'associazione in materia politica non si dovrebbe interamente confondere con la libertà di scrivere. L'una è a un tempo meno necessaria e

Regina Pozzi ma

32

considera il fondamento di una democrazia liberale: a tal grado basilare che, come egli scrive, «nei paesi democratici, la scienza dell'associazione è la scienza madre; i progressi di tutte le altre dipendono dai progressi di questa»”. Alla luce del modello di libertà aristocratica, d'altronde, è questa un'idea che non può stupire. Credo fermamente —Tocqueville scrive — che non si potrebbe fondare di nuovo, nel mondo, un’aristocrazia; ma penso che i semplici cittadini associandosi possono costituirvi delle entità molto ricche, influenti, forti, in una parola delle persone aristocratiche [...] Un'associazione politica, industriale, commerciale o anche scientifica e letteraria, è un cittadino istruito e potente che non si potrebbe piegare come si vuole né opprimere nell'ombra, e che, difendendo i suoi diritti particolari contro le esigenze del potere, salva le libertà comuni?!.

Si osservi però che attraverso le associazioni non si tratta solo di creare degli istituti di contropotere, dei corpi intermedi. La posta in gioco risulta in verità, nelle pagine di Tocqueville, assai più alta. Ciò che deve essere preservato è l'eccellenza umana stessa, perché «un popolo presso il quale i particolari perdessero il potere di fare isolatamente delle grandi cose senza acquisire la facoltà di produrle in comune ricadrebbe ben presto nella barbarie». Nelle nuove condizioni dell’'umanità, solo al terzo elemento della triade può d'altra parte essere affidato tale com-

pito di rifondazione antropologica’: perché l’uomo è un animale sociale, e «i sen-

timenti e le idee si rinnovano, il cuore si ingrandisce e lo spirito umano si sviluppa solo grazie all’azione reciproca degli uomini gli uni sugli altri»*î. Si potrebbe concludere che, attraverso la fraternità, l'ideale aristocratico si sdoppi nell’'ideale della polis: ossia di una comunità di cittadini in cui gli individui, lasciata la sfera privata e messi da parte gli interessi quotidiani, si mostrano capaci di «grandi e veri sacrifici alla cosa pubblica» e pronti a prestarsi vicendevole appoggio”. È un ideale però che nelle condizioni della modernità si configura — e deve essere perseguito — in modi ben differenti da quelli antichi. Il nuovo civismo

più pericolosa dell'altra. Una nazione può mettervi dei limiti senza cessare d'essere padrona di se stessa; qualche volta deve farlo per continuare ad esserlo» (0.C., I, 1, p. 196 [corsivo dell’autore]).

5 0.C.,1,2, p. 117.

° 0.C., I, 2, p. 330. Sul ruolo dell’archetipo aristocratico nella trattazione tocquevilliana della libertà di associazione ha scritto pagine molto penetranti Cofrancesco, La ‘ibertà aristocratica’, cit. ° Che il problema della libertà sia nella seconda Democratie essenzialmente un problema di «ricostruzione antropologica» è quanto ha perspicuamente mostrato A.M. Battista (Studi su Tocqueville, cit., p. 244). 9 0.C., I, 2, p. 114. Per una penetrante analisi su questo punto si veda Lamberti, Tocqueville, cit., p. 106.

MO:

pall&

ge

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

33

non si basa più sulla virtù, ma sul principio tutto moderno

dell'interesse ben

inteso. Era quanto Tocqueville aveva osservato nelle note di viaggio”: Il principio delle repubbliche antiche era il sacrificio dell'interesse particolare al $

bene generale. In questo senso, si può dire che erano virtuose. Il principio di questa mi sembra essere di far rientrare l'interesse particolare nell'interesse genera-

le. Una sorta d’egoismo raffinato e intelligente sembra il perno sul quale ruota tutta la macchina. Se, quando partecipano alla cosa pubblica, sembra che gli Americani rivestano panni antichi, a guidarli non è l'abnegazione di sé, ma quella dottrina «poco alta, ma chiara e sicura» che dirige anche la loro vita privata, e che della virtù mostra non la bellezza, ma l'utilità”. Il calcolo intelligente basato su una diffu-

sa capacità sociale di ragionamento”:

su tale carta soltanto può puntare la

scommessa di rifondare la dimensione partecipativa e comunitaria della politi-

ca; o, per dirla con le parole di un recente interprete, di «riconciliare un ideale premoderno di azione politica con la moderna partecipazione di massa». È soddisfacente la soluzione così proposta? Si potrebbe rispondere sì e no. In questa fraternité raziocinante e prosaica si può individuare, com'è stato fatto,

l'autentico elemento di stabilità delle democrazie contemporanee, capace di coniugare interesse ben inteso e solidarietà, diritti individuali e politiche sociali. Ma si può anche, al contrario, rilevare in essa «il carattere spoliticizzante

della modernità, per cui la politica si riduce o a una decisione slegata da un valore o da un'idea, o ad una contrattazione fra gli interessi». Il discorso a me

5 0.C., V, 1, p. 234 [corsivo dell'autore].

CO: ppl27%seg. 97 «Un altro punto mostrato dall'America — si legge ancora nei Voyages (0.C., V, 1, p. 278) — è che la virtù non è come s'è lungamente pensato la sola cosa che possa mantenere le repubbliche, ma che i lumi facilitano più d'ogni altra cosa questo stato sociale». 8 Wolin,

Tocqueville Between Tivo Worlds, cit., p. 195. Tocqueville,

egli osserva anche, appare

«inconsapevole del significato della sua scoperta: che la politica americana, con la sua miscela di

elementi partecipativi, democratici e religiosi, era premoderna, mentre la sua cultura socioeconomica era furiosamente modernizzante» (p. 382). Sull’opera di Wolin e sulla sua interpretazione in chiave “post-democratica” della politica americana si veda però M. Richter, The Deposition ofAlexis de Tocqueville [2002], in «The Tocqueville Review/La Revue Tocqueville». Numéro spécial bicentenaire (1805-2005), cit., pp. 429-464. 5 Così A. Martinelli, / principi della Rivoluzione francese e la società moderna, in A. Martinelli - M.

Salvati - S. Veca, Progetto 89. Tre saggi su libertà, eguaglianza e fraternità, Milano, Il Saggiatore, 1989, pp. 103-104. 60 Matteucci, Alexis de Tocqueville, cit., p. 107.

34

Regina Pozzi ma

appare però piuttosto un altro: perché un conto è cogliere la suggestione che può a noi venire dalla scommessa di Tocqueville; un altro dover rilevare che, all’interno del suo sistema di valori, si tratta di una soluzione che poggia su una base assai fragile, fondata com'è su una logica — quella dell'interesse — che egli non riesce a far sua. Se prende atto che l'interesse personale si offre ormai come «il solo punto immobile nel cuore umano», il solo su cui far leva, egli non può in effetti esimersi dal vedere nell’utilitarismo, che teorizza questo sentimento moderno, una filosofia che fa torto alla natura più nobile dell'uomo: giacché «si vedono talora negli Stati Uniti, come altrove, i cittadini abbandonarsi agli slanci disinteressati ed istintivi che sono naturali all'uomo; ma gli Americani non riconoscerebbero mai di cedere a moti di tale specie; preferiscono far onore alla loro filosofia piuttosto che a se stessi». Non soltanto essa appare fragile, ma nello sviluppo della problematica tocquevilliana questa soluzione costituisce anche un punto d'arrivo provvisorio. Nel corso della Démocratie, in particolare nella contrapposizione tra stato democratico e stato rivoluzionario, lettmotiv della seconda parte dell'opera, l'autore, oltre alle forti ragioni di preoccupazione per i futuri scenari della democrazia, aveva trovato motivi in più per disperare delle sue sorti in Francia, per la divaricazione tra eguaglianza e libertà, che gli si era presentata qui più difficile da colmare che altrove. Le vicende della Seconda Repubblica, che della frenesia

francese per l'eguaglianza mostreranno la nuova versione socialista, non potranno che aggravare il suo pessimismo. Tornato nell’Ancien Régime et la Révolution a meditare sull’atto di nascita della democrazia in Francia, egli s'illuderà, è vero, di trovare realizzata al suo limine, in un ’89 per un istante mitizzato, la fusione dei due valori, grazie allo straordinario slancio di fraternità che s'era allora manifestato, scevro dai calcoli dell'interesse, ardente di un civismo antico. Non solo però tale moto gli apparirà effimero, presto travolto da una rivoluzione che avrebbe sempre più disgiunto i primi due termini della triade. Immergendosi negli eventi rivoluzionari per ricostruirne la trama, l’autore si convincerà anche che il momento magico dell'89 fosse stato il frutto di un'illusione, o forse di un equivoco: e che, almeno nella maniera in cui erano stati posti dalla cultura politica rivoluzionaria, i termini della triade non fossero tra loro conciliabili9?. Se nella Démocratie egli non aveva mai smesso di cercare una soluzione per quella che gli appariva la quadratura del cerchio della politica moderna, si deve allora constatare che il suo percorso intellettuale s'è concluso sull’impossibilità di districare questo nodo, e nell'amara consapevolezza di una sconfitta.

° 0.C., I, 2, p. 128; per la citazione precedente cfr. 0.C., I, 1, p. 249. °° Su questo tema cfr. infra, cap. 5, pp. 89 sgg.

Capttolo 2 DEMOCRAZIA E RELIGIONE

PREMESSA Giunto al termine della Démocratie en Amérique del 1835, Tocqueville richiama

l’attenzione

del lettore sulle «cause

repubblica

democratica»

principali che tendono

in quel laboratorio

a mantenere

la

politico che è ai suoi occhi

l'America. E scrive: «Al mio arrivo negli Stati Uniti, fu l'aspetto religioso del

paese che per prima cosa colpì il mio sguardo. E mano a mano che prolungavo il mio soggiorno, scorgevo le grandi conseguenze politiche che derivavano da

questi fatti nuovi». Il nesso democrazia-religione, spesso trascurato dalla critica come un aspet-

to secondario o residuale del pensiero di Tocqueville, appare in verità di capitale importanza. È vero che nella redazione definitiva dell’opera le analisi sulla religione sono disseminate in modo che non è facile ricomporle in un discorso

unitario?. Si deve però osservare che sono proprio due lunghi passi dedicati a questo tema ad aprire e chiudere la Démocratie del 1835. Sia nell’introduzione sia nella conclusione, Tocqueville traccia infatti il quadro del diverso rapporto

! 0.C., I, 1, p. 309. La constatazione rinvia specularmente all'altra — più spesso citata — che apre il libro: «Fra gli oggetti nuovi &he, durante il mio soggiorno negli Stati Uniti, hanno attirato la mia attenzione, nessuno ha più vivamente colpito i miei sguardi dell’eguaglianza delle condizioni» (0.C., I, 1, p. 1). Per completezza,

va ricordato

che il cap. IX della Seconda

Parte della

Démocratie del 1835, da cui si cita, non è propriamente l'ultimo dell’opera, poiché è seguito dal capitolo X, splendido, sulle «tre razze che abitano il territorio degli Stati Uniti»; è però quello che

conclude l’analisi della democrazia americana.

? Agnès Antoine, che al tema ha dedicato un recente ricco saggio, ricorda che l’autore aveva progettato un piano tripartito, che ha poi accantonato in cui, accanto alla società politica e alla società civile, avrebbe dovuto figurare la società religiosa (cfr. A. Antoine, L'Impenvéde la démocra-

tie. Tocqueville, la citoyennetéet la religion, Paris, Fayard, 2003, pp. 130-131). Sul tema — oltre a Ead., Politique et religion chez Tocqueville [1997], in «The Tocqueville Review/La Revue Tocqueville». Numéro

spécial

bicentenaire

(1805-2005),

cit., pp.

305-317



sono

da vedere

P. Thibaud,

Rouoseau-Tocqueville: un dialogue sur la religion, ihid., pp. 319-356 e D.S. Goldstein, Trial of Faith. Religion and Politici in Tocquevilles Thought, New York, Elsevier, 1975. Per un'analisi particolarmente acuta si veda inoltre Manent, Tocqueville et la nature de la démocratie, cit., pp. 117-149.

36

Regina Pozzi oa

in cui religione e politica si trovano negli Stati Uniti e in Francia; e come avviene per la democrazia in generale, ciò che in queste pagine egli in realtà costruisce sono un modello e un contromodello di tale rapporto. Mentre negli Stati Uniti i due elementi vivono in felice accordo, in Francia un aspro conflitto oppone gli amici del cristianesimo agli amici della libertà e dell’eguaglianza; là si ha lo stato “naturale” di questo rapporto, qui il suo sovvertimento “innaturale”, che colloca su fronti avversi sentimenti e idee che dovrebbero corrispondersi. «Si direbbe — osserva l’autore — che siano abolite tutte le leggi dell'analogia morale»!. Qual è la ragione di questa diversità, e cosa rende così potente la religione in America? La risposta di Tocqueville è nota. Al contrario che in Francia e in Europa, dove il clero ha stretto alleanza con il potere politico, e perciò è stato, e continua ad essere, coinvolto nelle sue instabili fortune, negli Stati Uniti vige l'assoluta separazione tra Chiese e Stato e i preti di tutte le confessioni si tengono rigorosamente in disparte dalla sfera politica, traendo la loro forza dal sentimento religioso, che è un dato permanente della natura umana. Non esercitano alcuna influenza diretta sulle leggi o sulle opinioni politiche, ma dirigono i costumi, le «moeurs»‘, ed è per questa via che lavorano «a regolare lo Stato»?. «Libera Chiesa in libero Stato»: dovremmo concludere, da quanto precede, che la soluzione cara ai liberali sia anche quella di Tocqueville? Questa sembra, almeno, la prima indicazione che la Démocratie en Amérique rimanda, ed è la formula con cui, frettolosamente, si è spesso etichettato il suo autore. Basta però TORI bre 4 Tocqueville ha detto precedentemente di considerare le moeurs come «una delle più grandi cause generali a cui si possa attribuire il mantenimento della repubblica democratica negli Stati Uniti»; e le ha così definite: «Intendo qui l’espressione moeurs nel senso che alla parola mores davano gli antichi; non soltanto la applico ai costumi propriamente detti, che sì potrebbero chiamare le abitudini del cuore, ma alla differenti nozioni che gli uomini possiedono, alle diverse opinioni che tra di loro hanno corso, e all'insieme delle idee da cui si formano le abitudini della mente» (0.C., I, 1, p. 300). ° 0.C., I, 1, pp. 304-305. Si ricordi che tale azione indiretta avviene soprattutto per il tramite delle donne, perché sono loro che, nell’ambito della famiglia, «fanno i costumi». Influenza della religione ed influenza femminile, per così dire, si confondono: negando loro ogni diritto politico, Tocqueville assegna le donne alla sfera della domesticità, attribuendo loro al contempo un forte potere politico indiretto, soprattutto attraverso l'educazione dei figli. «Per me — scrive nella Démocratte del 1840 (0.C., I, 2, p. 222) — non esiterò a dirlo: sebbene negli Stati Uniti la donna non

esca dalla cerchia domestica, e sia, per certi versi, in posizione fortemente subordinata, in nessun luogo tale posizione m'è apparsa più alta; e se, ora che m'avvicino alla fine di questo libro, in cui ho mostrato tante cose considerevoli fatte dagli Americani, mi si domandasse a cosa penso si debbano principalmente attribuire la singolare prosperità e la forza crescente di questo popolo, risponderei che lo si deve alla superiorità delle sue donne».

a

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

DU

una lettura più attenta per vedere quanto più ricco e complesso sia, su questo punto, il pensiero di Tocqueville. Se, al livello istituzionale, egli è un fautore della separazione, non condivide però l’idea cui essa s'ispira; non crede che la sorte della religione nel mondo contemporaneo

i.

attenga esclusivamente alla

sfera privata e dipenda da scelte che riguardano le coscienze individuali, e delle quali il legislatore può — anzi deve — disinteressarsi. Nel 1843, al culmine del dibattito intorno alla questione scolastica, che ha visto radicalizzarsi in Francia

il contrasto tra liberali e cattolici, è con sincera desolazione che egli assiste al fallimento del sogno che, così afferma, aveva avuto entrando nella vita politica, quello di contribuire «alla riconciliazione dello spirito di libertà e dello spirito di religione, della società nuova e del clero»9. Come si deve intendere quest’af-

fermazione? Dovremo forse pensare che il partito clericale abbia trovato nel teorico della democrazia un inaspettato alleato? Ancora una volta, la risposta è più complessa. Per Tocqueville la religione riveste un'importanza capitale ai fini della tenuta della comunità politica, soprattutto quando si tratti di una comunità democraticamente ordinata. Sfera politica e sfera religiosa, anche se

rigorosamente autonome, sono perciò chiamate a collaborare. Il problema è tuttavia quali debbano essere le modalità ed articolazioni di questo rapporto: è su questo punto che verte il discorso di Tocqueville. Ne risultano messe a fuoco questioni cruciali, su cui merita di riflettere, tanto più oggi che, a distanza di

quasi due secoli, dopo una lunga eclisse del sacro, e sullo sfondo di un'irreversibile secolarizzazione delle coscienze, il nostro tempo assiste al massiccio ritorno

della

religione

nello

spazio

pubblico.

Nella Démocratie

en Amérique

Tocqueville mostra come sia proprio l’illimitata libertà che s’apre dinanzi agli uomini delle società democratiche a spiegare (0, secondo l’autore, a necessitare) il loro bisogno di alterità, e come tale bisogno sia ciò che spiega (o necessita) la forza della religione. La sua riflessione rivela però anche, in controluce, le difficoltà — per non dire le ambiguità — che questo fatto comporta in un mondo ormai desacralizzato com'è quello contemporaneo.

SULL'UTILITÀ

POLITICA

DELLA

RELIGIONE

Nulla meglio dell'esempio americano, sostiene Tocqueville, mostra quanto la

religione «sia utile e naturale all'uomo, poiché il paese in cui essa ha oggi un

6 Cfr. 0.C., XIV, p. 236 (lettera al fratello Édouard del 6 dicembre 1843). Sulla collocazione

“anomala” di Tocqueville nel dibattito si veda A.M. Battista, Lo spirito liberale e lo spirito religioso. Tocqueville nel dibattito sulla scuola, Milano,

Jaca Book,

1976.

sa



Regina Pozzi ma

maggior potere è al tempo stesso il più illuminato e il più libero». «Utile e naturale»: se l'accoppiata dei due aggettivi è di per sé problematica e rivela «un'ambivalenza deliberata»*, il secondo non ha bisogno di molte spiegazioni. S'è già detto come per Tocqueville la dimensione religiosa sia connaturata agli uomini. Essi hanno bisogno di poter pensare un aldilà, perché i loro sentimenti ed idee - potremmo dire la loro ricerca di senso — non si lasciano circoscrivere nel breve spazio della vita terrena, ed essi aspirano a sopravviversi. «La religione non è [...] che è una forma particolare della speranza, ed è altrettanto naturale al cuore umano della speranza stessa»?. Il primo aggettivo introduce invece un criterio che ha dietro di sé una lunga tradizione di pensiero, quello dell'utilità politica della religione. Per restare ad uno dei poli della costellazione intellettuale del nostro autore, basti evocare l’umanesimo civico che, da Machiavelli a Rousseau, ha considerato la religione come un elemento necessario al consolidamento della civitas. Si deve tuttavia osservare che il sentimento che Tocqueville chiama a sostegno della politica non è la paura degli dei, cui pensava Machiavelli, bensì, come s'è appena visto, la speranza, secondo una concezione che molto deve a Pascal!°. È quanto dire che egli innova radicalmente il discorso “utilitaristico”, con argomenti originali di natura antropologica e sociologica e con una penetrante analisi della dimensione simbolica della religione per la vita sociale. Va altresì precisato un punto. Quando parla della religione (ma anche, indifferentemente, delle religioni al plurale), è il cristianesimo che Tocqueville implicitamente intende, sia che si riferisca al cattolicesimo in Francia o al varie-

gato panorama delle chiese cristiane d'America. Però, come a più riprese avverte, da buon seguace di Montesquieu egli parla della religione da un punto di vista puramente “umano”, a prescindere da considerazioni teologiche o metafisiche; e da questo punto di vista, e ai fini del discorso di utilità, ai suoi occhi le

diverse religioni si equivalgono!!. Quali che siano, esse danno agli uomini una dimensione che oltrepassa la loro finitezza, modificandone per questa via i comportamenti terreni. Giacché

7:0.C., I, 1, p. 304. * Antoine, L’Impensé de la démocratie, cit., p. 131. °_0.C., I, 1, p. 310. «L'incredulità — scrive ancora Tocqueville — è un accidente; la fede soltan-

to è lo stato permanente dell’umanità». !0 Sull'importanza del pensiero di Pascal nella formazione di Tocqueville si veda L. Diez del Corral, Tocqueville. Formazione intellettuale e ambiente storico, Bologna, Il Mulino, 1996 [Madrid, 1989], pp. 267 sgg. ! È il principio della «neutralità assiologica», che caratterizza, secondo Raymond Boudon, il modo di procedere del pensiero tocquevilliano come tipicamente sociologico (cfr. Boudon, Tocqueville aujourd'hui, cit., pp. 33 sgg.).

a

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

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non c'è religione che non ponga l'oggetto dei desideri dell’uomo al di là e al di sopra dei beni della terra, e che non ne innalzi naturalmente l’anima verso regionì ben superiori a quelle dei sensi. Non ve n'è neppure nessuna che non imponga a ciascuno dei doveri, quali che siano, verso la specie umana, o in comune con questa, e che non lo tragga così, di tanto in tanto, dalla contemplazione di sé. Ciò s'incontra nelle religioni più false e più pericolose!?.

Se è utile in tutte le società, è tuttavia nelle società democratiche che l’azione della religione si rivela soprattutto preziosa, grazie alla sua attitudine a contrastarne le tendenze più pericolose dal punto di vista della comunità politica. Su quest’azione di contrasto Tocqueville si sofferma soprattutto nella seconda Démocratie. Qui, con il tratto del grande scrittore moralista!, egli illustra una condizione umana caratterizzata da due “passioni” principali: da una parte, l’individualismo, che

spinge gli uomini democratici a ripiegarsi in se stessi, dimentichi della collettività cui appartengono; dall'altra l'eccessivo amore per il benessere materiale, che produce «una sorta di materialismo onesto», atto a snervare gli animi. E mostra come

queste tendenze, se non sono necessariamente dei vizi individuali, diventano però dei mali pubblici, che possono, ove non le si contrasti, condurre la democrazia alla

«servitù». È qui che interviene felicemente la religione!‘. Negli Stati Uniti, quando arriva il settimo giorno della settimana, la preoccupazione esclusiva del proprio “particulare” di colpo cessa, ed ognuno, sottraendosi alle passioni e agli interessi che agitano la sua vita quotidiana, «penetra tutt’a un tratto in un mondo ideale in cui tutto è grande, puro, eterno». Se da nessuna parte domina come qui la ricerca del benessere materiale, ecco che, con la pratica, questo popolo mostra di sentire «tutta la necessità di moralizzare la democrazia con la religione»! Un'altra caratteristica degli uomini democratici è di vivere interamente nel presente: non solo essi hanno spezzato ogni legame con il passato, ma sono incapaci di proiettarsi nel futuro. E ciò, di nuovo, ha conseguenze gravi per la vita delle

collettività, perché le fa diventare incapaci d'intraprendere iniziative che richiedano sforzi e sacrifici prolungati. È qui che ancora interviene efficacemente la religione: «Le religioni danno l'abitudine generale di comportarsi in vista dell'avvenire. In ciò esse non sono meno utili alla prosperità di questa vita che alla felicità

dell'altra. È uno dei loro più importanti aspetti politici»!’. Insomma, le religioni

ROERO Tpi29: ICI Beto Tocqueville moraliste, Paris, Honoré Champion, 2004, soprattutto pp. 445 sgg. 14 Su questo punto cfr. P. Gibert, La religion dans la seconde «Démocratie», in Tocqueville et la littérature, cit., pp. 85-104.

15 0.C., I, 2, pp. 149-150. LOC) palosì

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restituiscono agli uomini democratici la capacità di volgersi ad oggetti immateriali e di proiettarsi nell'avvenire; ampliano, al livello simbolico, l'orizzonte della democrazia, spingendola «verso l'alto e verso l’avanti»!”. Sarebbe difficile sottovalutare l’utilità di queste funzioni. Tuttavia, nell'analisi tocquevilliana, non si tratta ancora delle più importanti che la religione svolga; o meglio, queste funzioni possono essere esplicate perché si reggono su un presupposto. Per continuare la metafora spaziale, la funzione fondamentale

della religione è quella d’introdurre nello spazio della democrazia — che è uno spazio autoistituito e autoregolato — un di fuori, un limite esterno, che sfugge al potere degli uomini. Essa pone in sostanza una barriera intellettuale invalicabile alle sconfinate potenzialità di un mondo puramente umano. «Al tempo stesso che la legge permette al popolo americano di tutto fare, la religione gli impedisce di tutto concepire e gli proibisce di tutto osare»!®. Si è qui allo snodo fondamentale del discorso tocquevilliano. Non solo religione e politica, come già sappiamo, devono restare distinte nelle loro sfere, ma queste sfere sono governate da una logica opposta; tuttavia è proprio il riconoscimento di questa logica “altra” ciò che consente alla politica di dispiegare appieno la sua libertà. È l'argomento che Tocqueville introduce fin dall’inizio, mentre descrive il «punto di partenza» della società americana — quelle origini puritane in cui sta «la chiave del grande enigma sociale che gli Stati Uniti pre-

sentano al mondo nel presente» — e vi scopre meravigliosamente combinati insieme «spirito di religione e spirito di libertà». Vale la pena di ricordare per intero quanto egli scrive!?: Sotto la loro [dei puritani] mano, i principi politici, le leggi e le istituzioni umane sembrano cose malleabili, che possono trasformarsi e combinarsi a volontà. Davanti a loro s'abbassano le barriere che imprigionavano la società nel cui seno sono nati; svaniscono le vecchie opinioni, che da secoli dirigevano il mondo; si scoprono una carriera quasi senza limiti, un campo senza orizzonte: lo spirito umano VI sì precipita; li percorre in ogni senso; ma, arrivato ai limiti del mondo politico, si ferma di sua iniziativa; depone tremando l’uso delle sue più temibili facoltà; abiura il dubbio; rinuncia al bisogno d'innovare; s'astiene perfino dal sollevare il velo del santuario; s'inchina con rispetto davanti a delle verità che ammette senza discuterle. Così, nel mondo morale, tutto è classificato, coordina-

!” Così Antoine, L'/mpensé de la démocratie, cit., p. 159 [corsivo dell'autrice].

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ppt 306.

"° 0.C., I, 1, p. 42 [corsivo dell'autore]. Sono quasi le stesse parole che concludono la prima Démocratie: «[Negli Stati Uniti] tutto è certo e fissato nel mondo morale, sebbene il mondo politico appaia abbandonato alla discussione e ai tentativi degli uomini» (0.C., I, 1, p.- 305).

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Tocqueville e i dilemmi della democrazia

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to, previsto, deciso in anticipo. Nel mondo politico, tutto è agitato, contestato, incerto; nell’uno, obbedienza passiva, benché volontaria; nell'altro, indipendenza, disprezzo dell'esperienza e gelosia d'ogni autorità.

Sarebbe difficile definire più nettamente la distinzione tra sfera etico-religiosa e sfera politica: da una parte la sfera del dogma e dell'autorità, dall'altra quella della libertà e della ragione individuale. È un ragionamento a proposito del quale Nicola Matteucci ha evocato l’influenza di Pascal (di cui sappiamo quale attento lettore Tocqueville sia stato) e la teoria dell’incomparabilità dei tre ordini della forza, della sapienza e della santità, con «la necessità di ragionare, nell'ambito di ciascun ordine, secondo criteri ad esso propri»?°. Ora, è importante rilevare che questa concezione colloca il nostro autore in una posizione peculiare nella geografia politico-intellettuale della Francia del tempo. Non solo, come s'è accennato, egli non è riconducibile né al fronte liberale né a quello cattolico sulla questione della libertà d'insegnamento, ma risulta difficile da situare rispetto ai grandi problemi che stanno a monte della questione. Se, nella

Francia della monarchia di Luglio, cultura laica e cultura cattolica si danno battaglia intorno alla scuola, è perché sono animate da un'idea che la accomuna: che ordine politico ed ordine metafisico si corrispondano e che, pertanto, non sia problema di poco conto far discendere la verità dalla ragione o dalla tradizione”!. Sui fronti avversi della battaglia si contrappongono filosofia e fede, pur se non sono mancati tentativi di conciliazione. Il compromesso più noto è quello operato da Cousin, che ha proposto, hegelianamente, di considerare fede e filosofia come gradi diversi, ma non opposti, di raggiungimento della verità. Per Tocqueville, però, la linea di confine, diversamente che per il teorico dell’eclet-

tismo, non passa fra illetterati e filosofi, ma all’interno di ogni individuo. La teoria delle sfere separate

fa di lui un liberale intellettualmente sui generis, che

ripensa in modo originale il principio d'autorità nel regime della modernità

politica??. È, questo, un problema su cui egli si sofferma soprattutto nella seconda Démocratte. Il libro s'apre con un capitolo, in verità piuttosto sorprendente, che descrive gli americani come i discepoli più fedeli, sebbene inconsapevoli, di Descartes, per il metodo che essi praticano (salvo che in campo religioso) di

20 Matteucci, Alexis de Tocqueville, cit., p. 54. 21 Su questo punto mi sia consentito rinviare a R. Pozzi, Scuola e società nel dibattito sull'istruzione pubblica in Francia (1850-1850), Firenze, La Nuova Italia, 1969. 2 Su questo punto cfr. Antoine, L'Impenoé de la démocratie, cit., pp. 143 sgg. e soprattutto Battista, Lo spirito liberale e lo spirito religioso, cit., pp. 28 sgg-

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cercare da soli e in se stessi «la ragione delle cose»; ed addita in tale metodo la cifra intellettuale della modernità, tracciando una linea che dal libero esame di Lutero arriva alla critica sovvertitrice di Voltaire. Nel metodo critico però sta anche — questo è il punto per Tocqueville — il grande pericolo di fondo che minaccia il mondo moderno. Perché, da una parte, non è possibile agli uomini sottoporre a critica ogni nozione e giungere autonomamente alla verità su ogni

cosa; e d'altra parte essi hanno bisogno di certezze, e il dubbio rappresenta una condizione esistenziale “innaturale”. Ben lo sa Tocqueville, che non è credente, ma che ha vissuto con angoscia la perdita della fede; e che non ha mai considerato il dubbio per la sua positività di strumento critico, ma solo per gli effetti negativi che esso ha sulla psiche umana?””. Gli uomini hanno dunque bisogno di dogmi. E se così è, non vi sono credenze che siano più utili di quelle religiose, perché èda queste che derivano le convinzioni etiche che regolano ii loro comportamenti”. È dunque d’immenso interesse porre queste idee al riparo dall'esame critico, poiché «il dubbio su questi primi punti abbandonerebbe tutte le loro azioni al caso e li condannerebbe in qualche modo al disordine e all’impotenza». È vero che si mette così un giogo al libero dispiegamento dell ‘intelligenza umana:

ma, conclude l’autore, si tratta

di «un giogo salutare»?9.

Questa concezione della religione, vista come «un atto di obbedienza passiva, di volontaria rinuncia a ogni attività di ricerca e di verifica razionale», è debitrice, come ha mostrato Anna Maria Battista, del tradizionalismo cattolico e in particolare di Lamennais (si badi: non solo il Lamennais dell’Eusai sur l'indifféren-

ce, ma anche quello dell’«Avenir»)??. Più in generale, si potrebbe dire che Tocqueville condivida la concezione che ha della fede il cattolicesimo del suo

25 È da ricordare la bellissima lettera a Mme Swetchine, del 26 febbraio 1857, in cui racconta la crisi religiosa dei suoi sedici anni, e il terrore che allora lo prese dinanzi alle «rovine intellettuali» della sua vita e che tuttora lo riassale (0.C., XV, 2, p. 315); e soprattutto quanto scrive all'amico, e fervente cattolico, Francisque de Corcelle: «Se per credere bastasse soltanto volerlo, è da un pezzo che sarei devoto; o piuttosto lo sarei sempre stato, giacché il dubbio m'è sempre parso il più insopportabile dei mali di questo mondo; l’ho costantemente giudicato peggio della morte e inferiore soltanto alle malattie» (0.C., XV, p. 29; lettera del 1° agosto 1850).

2 «Non v'è quasi azione umana, per particolare che la s'immagini, che non nasca da un'idea generalissima che gli uomini si sono fatti di Dio, dei suoi rapporti con il genere umano, della natura della loro anima e dei loro doveri verso i loro simili. Non si potrebbe far sì che queste idee non siano la fonte comune da cui discende tutto il resto» (0.C., I, 2, p. 27).

2° Ibid. Poche pagine sopra (0.C., I, 2, p. 17) si legge quasi la stessa espressione: «È vero che ciascuno che riceve un'opinione sulla parola d'altri mette il suo spirito in schiavitù; ma è una servitù salutare che permette di far buon uso della libertà». °° Cfr. Battista, Lo spirito liberale e lo spirito religioso, cit., pp. 30 sgg-

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

secolo, come

di un porto di certezze

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autoritativamente

ricevute, e non

come

di

un'esperienza emancipatrice” . E sicuramente non v'è nulla che, più di quest'elemento, lo separi dalla famiglia liberale a cui appartiene. È vero che, per l’idea della naturalità del sentimento religioso, egli potrebbe essere accostato al

Benjamin Constant di De la religion considérée dans va source, ves formes et ses développements; ogni analogia tuttavia viene meno, solo che si pensi come in quest'ultimo l'esaltazione dell'istinto religioso si traduce nel rifiuto di ogni sua codificazione in una religione positiva. L'antirazionalismo è anche all’origine della diffidenza di Tocqueville verso il protestantesimo, che gli appare come un compromes-

so instabile tra fede e ragione; mentre egli guarda con interesse ai progressi fatti negli Stati Uniti dal cattolicesimo, che meglio di altre fedi cristiane risponde, a

suo giudizio, al bisogno d’autorità in fatto di governo delle dottrine?8.

È noto che la lezione dei tradizionalisti ha lasciato tracce profonde anche sulla riflessione più strettamente politica di Tocqueville. Non solo da loro egli ha tratto, come

molti suoi contemporanei,

un'analisi carica d'angoscia per la

disgregazione della società, accompagnata dalla convinzione che fosse necessario ricostituire una coscienza comune, ma proprio nei dogmi religiosi ha anche visto il collante capace di assicurare la tenuta del corpo sociale. Perché, egli dice, «è facile vedere che non v'è società che possa prosperare senza credenze siffatte, o piuttosto non senza idee comuni,

ve ne sono

che possano

non v'è azione comune,

così sopravvivere;

giacché,

e senza azione comune,

esistono

ancora degli uomini, ma non un corpo sociale»??. L'esito politico cui approda il suo “elogio” del dogmatismo è tuttavia ben lontano dalla visione gerarchica ed

autoritativa dell'ordine che esprimono altri discepoli del tradizionalismo (come per esempio un Saint-Simon o un Comte). La distinzione delle due sfere con-

sente infatti a Tocqueville di assegnare la politica al campo della libertà.

27 Cfr. Antoine, Politique et religion chez Tocqueville, cit. 28 «Gh uomini che vivono nei secoli democratici — egli scrive (0.C., I, 2, p. 35) — sono forte-

mente inclini a sottrarsi ad ogni autorità religiosa. Ma, se consentono a sottomettersi ad una siffatta autorità, vogliono almeno che essa sia una ed uniforme; dei poteri religiosi che non facciano

capo tutti ad un medesimo centro urtano naturalmente la loro intelligenza, ed essi concepiscono quasi con la stessa facilità che non vi sia nessuna religione, piuttosto che parecchie». Si ricordi

anche ciò che Tocqueville, colpito al suo arrivo negli Stati Uniti dalla varietà e dal numero delle sette religiose, aveva scritto all'amico Louis de Kergorlay: «Mi pare evidente che la religione riformata è una specie di compromesso, una sorta di monarchia rappresentativa in fatto di religione che ben può riempire un'epoca, servire di passaggio, da uno stato all’altro, ma che non potrebbe costituire uno stato definitivo e s'approssima alla fine» (0.C., XIII, 1, p. 228 [corsivo dell’autore]; let-

tera del 29 giugno 1831). 2 0.C., I, 2, p. 16. Cfr. su questo punto M. Battini, L'ordine della gerarchia. I contributi reazionarie progressisti alle crisi della democrazia in Francia (1789-1914), Torino, Bollati Boringhieri, 1995.

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E non si tratta di una semplice spartizione dei rispettivi campi d'azione. Il tratto più originale della complessa riflessione dell'autore su questo punto è che proprio il dogmatismo religioso si fa garanzia della libertà politica. È solo perché la religione soddisfa il bisogno che gli uomini hanno di credere e di ancorarsi ad un assoluto, infatti, che essi possono sopportare la libertà ed il relativismo della politica. Se ne può avere la prova a contrari: Quando non esiste più autorità in materia di religione, non più che in materia politica, gli uomini ben presto si spaventano alla vista di quest'indipendenza senza limiti. Questa perpetua agitazione di ogni cosa li inquieta e li affatica. Poiché tutto si muove nel mondo delle intelligenze, essi vogliono, almeno, che tutto sia fermo e stabile nell'ordine materiale, e, non potendo più riprendersi le antiche credenze, si danno un padrone. Per parte mia, dubito che l'uomo possa mai sopportare contemporaneamente una completa indipendenza religiosa ed un'intera libertà politica; e sono portato a pensare che, se non ha fede, bisogna che serva, e, se è libero, che creda”.

La religione svolge così una funzione tanto più importante quanto più recondita. Impedisce che gli uomini investano il loro bisogno d'assoluto nella politica attribuendole una dimensione “religiosa” che potrebbe avere conseguenze devastanti. Due sono infatti i possibili effetti, se la politica si sacralizza. Si può avere l'anarchia sovvertitrice, quando sono i singoli a non riconoscere limiti alle loro azioni, e a personificare in forma soggettiva (e delirante) la sua onnipotenza. È ciò che avviene nelle rivoluzioni, ed è lo stato che Tocqueville descriverà nell’Ancien Régime et la Révolution. Nella Rivoluzione francese, le leggi religiose essendo state abolite mentre venivano rovesciate le leggi civili, la mente umana perse interamente il suo equili-

brio; non seppe più a cosa appigliarsi né dove fermarsi, e sì videro apparire dei rivoluzionari di una specie sconosciuta, che spinsero l’audacia fino alla follia, che nessuna novità poté sorprendere, nessuno scrupolo rallentare, e che non esitarono mai dinanzi all'esecuzione di nessun disegno".

Si può anche essere indotti — è forse il pericolo maggiore — a considerare onnipotente il corpo sociale, con esiti che appaiono tendenzialmente “totalitari”. «Fino ad oggi — scrive Tocqueville nella prima Démocratie — non s'è ancora incontrato

nessuno, negli Stati Uniti, che abbia osato mettere avanti questa massima: che

30 0,C., 1,2, p. 29. 31 0.C., II, 1, p. 208.

ay

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

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Ù

tutto è permesso nell'interesse della società. Massima empia, che sembra essere

stata inventata in un secolo di libertà per legittimare tutti i tiranni a venire». Quest'ultima riflessione appare come il tratto più significativo del discorso tocquevilliano sui rapporti tra religione e politica. Se, come l’autore scrive, «la religione, che, presso gli Americani, non s'immischia mai direttamente nel governo, deve essere considerata come la prima delle loro istituzioni politiche», le vie attraverso le quali ciò si realizza appaiono ben più articolate e ramificate di quanto avessero indicato i sostenitori dell’“utilità” politica del fatto religioso. La religione si rivela, in ultima istanza, come il più sicuro strumento per contra-

stare la deriva illiberale che minaccia dal loro interno le società democratiche.

MORALE

E RELIGIONE

Il discorso tocquevilliano si regge su due premesse. La prima è che la sfera dell'etica dipenda interamente dalla sfera religiosa, in altre parole che non sia concepibile quella che noi oggi chiamiamo una morale laica. Che le moeurs si correlino con la religione in un rapporto di stretta dipendenza è in effetti per Tocqueville una verità assiomatica, come rivelano diversi passi della

Démocratie*. La seconda è che i principi del cristianesimo costituiscano il nucleo originario da cui si sono sviluppati i valori fondanti della politica democratica. Tale è la tesi che emerge dall’Introduzione della Démocratie del 1835, e che corre, più o meno esplicitata, lungo tutta l’opera. Data per scontata, è chiaro

che quest'idea facilita grandemente il compito di mostrare la possibilità d’accordo della religione con la democrazia. Essa comporta inoltre un corollario, pure fondamentale nella strategia argomentativa di Tocqueville: che il cristianesimo, sebbene si sia storicamente intrecciato con il potere politico, a differenza di altre religioni, per esempio dell’islamismo, rechi chiara in sé la distinzione tra regno di Cesare e regno di Dio”.

AC R00: CIOCRIAp9306: 54 Così, per esempio, nell’Introduzione alla prima Démocratie, quando egli scrive che «non si

può stabilire il regno della libertà senza quello di costumi, né fondare i costumi senza le credenze» (0.C., I, 1, pp. 8-9 [corsivo mio]). O ancora, specularmente, nella conclusione: «È il dispotismo che può fare a meno della fede, ma non la libertà [...] Come la società potrebbe mancare di perire se, mentre il legame politico vi allenta, non si stringesse il legame morale? E che fare di un popolo padrone di de stesso, Je non

è sottomesso a Dio?» (0.C., I, 1, p. 308 [corsivo mio]). 5 «Maometto — scrive Tocqueville (0.C., I, 2, p. 30) — ha fatto scendere dal cielo, ed ha messo

nel Corano, non solo delle dottrine religiose, ma delle massime politiche, delle leggi civili e crimi-

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Regina Pozzi a

Restato sottotraccia nella Démocratie, questo nodo di problemi diventa oggetto di una corrispondenza — che ci appare alla distanza d'eccezionale interesse, un capolavoro nel genere del dialogo filosofico — che Tocqueville ha intrattenuto qualche anno più tardi con Arthur de Gobineau, futuro autore dell’Eywsai sur l'inégalité des races humaines. Nel 1843, essendo stato incaricato dall’Académie des sciences morales et politiques, di cui era membro, di preparare un rapporto sullo «stato delle dottrine morali nel secolo XIX e sulle loro applicazioni alla politica e all'amministrazione», egli è ricorso alla collaborazione del giovane Gobineau; e per definire metodo e programma di lavoro, i due uomini hanno avuto uno scambio epistolare il cui tema è, appunto, la «morale dei Moderni». Cosa c'è di veramente nuovo nei lavori e nelle scoperte dei moralisti moderni (così definiti a partire dalla generazione che ha preceduto la Rivoluzione e che «ha decisamente rotto con il medioevo»)? Hanno scoperto un nuovo movente alle azioni degli uomini? hanno dato un altro fondamento ai

loro doveri? hanno collocato altrove la sanzione delle leggi morali? Tali sono i quesiti che Tocqueville pone nella sua prima lettera. La sua risposta è che la vera rottura, in fatto di morale, sia quella operata dal cristianesimo nei confronti del mondo antico, e che la morale moderna «la maggior parte del tempo non abbia fatto altro che sviluppare, estendere le conseguenze della morale del cristianesimo senza cambiarne i principi». È il cristianesimo che ha rivalutato «le virtù dolci» dell'umanità, della pietà, dell'indulgenza, contro la morale guerriera degli antichi; e che, soprattutto, ha introdotto il principio dell'eguaglianza, dell'unità e della fraternità del genere umano. La più notevole innovazione dei

moderni, in fatto di morale, consiste nello sviluppo e nella forma dati a due idee che il cristianesimo aveva già messo in grande rilievo, vale a dire «il diritto eguale di tutti gli uomini ai beni di questo mondo e il dovere di quelli che hanno di più di venire in soccorso di quelli che hanno di meno». Solo per un aspetto la morale cristiana appare a Tocqueville carente: essa ha trascurato «i doveri degli uomini tra loro in quanto cittadini, gli obblighi del cittadino verso la patria, in una parola le virtù pubbliche». I moderni hanno integrato su questo punto il

nali, delle teorie scientifiche. Il Vangelo, invece, parla soltanto dei rapporti generali degli uomini con Dio e tra di loro. Al di fuori di questo, non insegna nulla e non obbliga a credere nulla. Ciò solo basterebbe, tra mille altre ragioni, per mostrare che la prima di queste due religioni non potrebbe dominare a lungo in tempi di lumi e di democrazia, mentre la seconda è destinata a regnare in questi secoli come in tutti gli altri». Si tratta di uno dei rarì cenni di sociologia religiosa comparata presenti nella Démocratie, anche se Tocqueville, probabilmente stimolato dai problemi della colonizzazione, ha lasciato delle note sull'Islam e sull’induismo, servendosene come di «un contromodello all'idea che si fa di una religione moderna» (cfr. Antoine, L'Impensé de la démocratie, cit., pp. 172 sgg.).

nes

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

47

civismo degli antichi, dando ai principi cristiani una nuova dimensione sociale e politica. Dunque, se ne deve concludere che vi sia perfetta coincidenza tra

ì.

valori cristiani e valori moderni in fatto di etica? Non è questo il caso, riconosce l’autore, per due dottrine diffuse tra i moralisti contemporanei, quella della «riabilitazione della carne» e quella dell’«interesse bene inteso»: dottrine che gli appaiono piuttosto il segno del declino della fede (e non dice, ma lascia inten-

dere, che si debba in ogni modo cercare di contrastarle e d’imbrigliarle)f*. Gobineau risponde ribaltando completamente il ragionamento. È vero che la morale dei moderni è uscita dal cristianesimo, ma allo stesso modo in cui la morale cristiana risale a Socrate e alla filosofia antica. Tuttavia, se il cristianesimo aveva in vista la salvezza eterna e proiettava in un aldilà le aspettative degli uomini,

la tendenza che più manifestamente

ispira oggi le ricerche dei

moralisti e le proposte dei politici è di considerare il loro destino su questa terra. Questo è il senso profondo della dottrina della riabilitazione della carne,

di negare il principio cristiano della santificazione della sofferenza, perché,

umanamente parlando, la sofferenza è un flagello. Il suo lenimento non può essere dunque affidato alla virtù cristiana della carità, ma all’azione dei governi, che devono essere messi in grado «di distruggere la miseria, e di rendere

all’utilità sociale un lavoratore, che nella sua qualità di uomo non deve restare inattivo». Qui sta anche il senso autentico della dottrina dell'interesse beninteso, ove non sia più applicata agli individui ma alle collettività e governata da «una psicologia sapiente». Le idee espresse in queste lettere da Gobineau — sul diritto al lavoro e sulla dignità del lavoro, sul diritto all'istruzione, sui diritti dei carcerati e di tutti i reietti, in quanto membri della famiglia umana - ci rinviano alle orecchie un suono disarmonico, tanto sono discordanti con le sue future teorie razziali (ed offrirebbero inquietante materia di riflessione per un capitolo, da scriversi, della storia intellettuale). Non è tuttavia questo l’aspetto che più ci interessa della sua argomentazione. Con lucidità egli mette il dito sul punto capitale di dissenso dal suo interlocutore: La morale, oggi, non appartiene in proprio né al cattolicesimo, né alle dottrine protestanti; un mussulmano, un pagano può avere una moralità altrettanto elevata che il più austero eremita. Senza dubbio, signore, troverete come me che quest'opinione al presente generalmente diffusa è di grandissima rilevanza, in quanto disloca completamente le basi sui cui si faceva poggiare la morale dall'inizio dei tempi storici. Il suo primo atto è di distaccare del tutto la catena dei rapporti che uniscono tra loro gli uomini dalla maniera in cui un uomo di reli-

5 0.C., IX, pp. 45-48 (lettera del 5 settembre 18453 [corsivo dell’autore]).

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gione considera i rapporti dell’uomo con Dio. Essa respinge nel santuario chiuso della coscienza la credenza nei più diversi dogmi, e, nello stesso tempo, dà un’innegabile consacrazione alla libertà religiosa”. È questo, in effetti, ‘/ punto: se un sistema etico, che regoli le azioni individua-

li e collettive degli uomini, possa fondarsi altrimenti che su una religione positiva. La risposta di Gobineau è, ovviamente, per il sì: nella fattispecie, a fondamento della morale dei moderni, egli indica i valori dell'umanesimo, che, messi a punto dai Lumi, consistono nell’assunzione della centralità del soggetto e dei suoi diritti e nella presa in conto della sua natura integralmente terrena. Ed è questo l'argomento che Tocqueville coglie perfettamente, facendone l'oggetto principale della sua replica. A più riprese, nelle lettere successive, egli ribadisce infatti la sua convinzione che solo un sistema di credenze religiose possa alimentare un sistema di regole morali, e che, pertanto, i popoli non possano vivere senza una religione positiva. «Crederei — dice — piuttosto alla venuta di una nuova religione che alla grandezza e alla prosperità crescente delle nostre società moderne senza religione». Questo dialogo a distanza s'è protratto per qualche tempo, senza essere mai sfociato in quel lavoro sulla morale del secolo XIX che ne era stato l'occasione. I due interlocutori sono rimasti attestati sulle rispettive posizioni, con una sola concessione (che però non è tale) da parte del più giovane: se le antiche religioni, egli dice, avevano un mezzo molto facile di nobilitare la morale ponendola sotto l'egida della divinità, la nuova morale, discesa in terra, fatica ancora a trovare la sua legittimazione, è come «un paese che si dissoda, la cui circonferenza è sconosciuta, il cui centro non è stato scoperto» e che, tuttavia, «già reca frutti». Diversa appare però la disposizione psicologica dei due uomini.

Tocqueville si mostra assai turbato e cerca di chiudere la discussione (giacché «il carattere di tutte le dispute filosofiche, egli dice, è di lasciare ciascuno dei

0.C., IX, p. 49-56; il passo citato è a p. 51 (lettera dell'8 settembre 1843). 8 0.C., IX, p. 68 (lettera del 22 ottobre 1843). Si ricordi che nella seconda Démocratie

Tocqueville aveva sostenuto che nei secoli democratici, dato il rifiuto del principio d'autorità intel-

lettuale, la fondazione di una nuova religione sarebbe impossibile. «Quando dunque — raccomandava (0.C., I, 2, p. 151) — una religione qualsiasi abbia gettato delle profonde radici in seno ad una democrazia, badate bene a non distruggerla; ma conservatela piuttosto con cura come la più pre-

ziosa eredità dei secoli aristocratici; non cercate di strappare agli uomini le loro antiche opinioni religiose per sostituirvene delle nuove, per paura che, nel passaggio da una fede all'altra, trovandosi per un momento l’anima vuota di credenze, l'amore dei godimenti materiali venga ad occuparla e a riempirla tutta».

5 0.C., IX, p. 55.

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

49

filosofi esattamente nelle opinioni che aveva prima»), mentre Gobineau insi-

ste e cerca di farlo uscire allo scoperto («Mi dite, signore, che non siete credente; perché dunque non lo siete? »‘!). Una sua frecciata è andata, comunque, certamente a segno: quando egli paragona la difesa del cristianesimo da parte del suo interlocutore a quella del paganesimo fatta da Cicerone, cattivo devoto, ma

preoccupato del declino degli antichi dèi, nei quali vedeva una garanzia per l'ordine sociale”.

LA RELIGIONE

ANCELLA

DELLA

DEMOCRAZIA?

È giunto ora il momento di chiederci quale sia, secondo Tocqueville, la fisionomia della religione nelle società democratiche, e a quali condizioni essa possa esistere in un mondo di individui che si affidano solo alla propria ragione e si occupano solo del proprio bene. Queste condizioni vengono analizzate nella seconda Démocratie, in un capitolo intitolato «come, negli Stati Uniti, la religione sa servirsi degli istinti democratici»; e il quadro che ne risulta è tale da porre

non pochi problemi al lettore. Ci è già nota la prima di queste condizioni: un regime di totale separazione tra Chiesa e Stato, che viene però ora motivato non soltanto dalla scelta strategica di mettere la religione al riparo delle variazioni della politica‘, ma come

conseguenza diretta della distinzione gnoseologica tra le due sfere. Proprio perché gli uomini, nei secoli democratici, sono disposti ad accettare delle verità

dogmatiche in fatto di credenze religiose, le religioni devono badare a non sconfinare, per non rischiare di non essere più credute in nessuna materia: devono «tracciare con cura il cerchio in cui pretendono di fermare lo spirito umano,

e

al di là lasciarlo interamente libero d’'abbandonarsi a se stesso». Questa for-

4° 0.C., IX, p. 67 (lettera del 22 ottobre 1843). 41 0.C., IX, p. 65 (lettera del 16 ottobre 1843).

4 «Sono forse troppo impertinente e mi perdonerete, signore, se oso credere che voi consideriate un po’ questa faccenda come Cicerone, e che siate molto meno preoccupato, nell'ammirazione che v'ispira il cristianesimo, della sua verità assoluta, che della sua utilità politica?» (0.C., IX,

pp. 65-66). 4 Motivazione peraltro vigorosamente ribadita: «Mi sento — scrive Tocqueville (0.C., I, 2, p.

153) — così compreso dei pericoli pressoché inevitabili che corrono le credenze quando i loro interpreti s'immischiano negli affari pubblici, e sono così convinto che si debba ad ogni costo mantenere il cristianesimo in seno alle nuove democrazie, che preferirei incatenare i preti nel santuario piuttosto che lasciarveli uscire».

4 0.C.,1,2, p. 30.

Regina Pozzi

50

mula, in verità, può non essere sempre di facile applicazione nel campo delle questioni etiche (ben lo vediamo oggi): non avendo però l’autore considerato il dominio dell'etica come autonomo da quello della religione, il problema non gli sl pone. Le altre condizioni che le religioni devono ottemperare, se, «umanamente parlando», vogliono mantenersi nei secoli democratici, riguardano le credenze, le forme esteriori e gli obblighi che impongono. Esse devono semplificare il loro contenuto dogmatico‘; devono ridurre le pratiche esterne a ciò che è strettamente indispensabile al mantenimento del dogma; devono assecondare tutti gli istinti democratici che non sono loro contrari, facendosene anzi un appoggio per contrastare quelli veramente pericolosi. Negli Stati Uniti, osserva Tocqueville, i preti non combattono mai contro l'opinione della maggioranza se non le lotte strettamente necessarie. Il dubbio che però non può non sorgere, a partire dagli esempi che egli porta, è se la religione si serva dell'opinione per rafforzarsi, o se non rischi piuttosto di restarne prigioniera. In una prospettiva generale, tutta la sua descrizione fa pensare, più che ad una situazione d’equilibrio fra potenze separate, ad un rapporto di subordinazione della religione al potere politico. Pierre Manent non ha esitato a parlare di un «compromesso diseguale» tra religione e democrazia, sostenendo che «in

America, la religione, lungi dall’assicurare la sua reale indipendenza, ricupera la sua funzione politicamente benefica solo riconoscendo pienamente la sua dipendenza politica nei confronti della democrazia». Che, in realtà, quello che Tocqueville esamina sia tutt'altro che un regime di separazione — e che egli non descriva un rapporto paritario tra democrazia e politica — è ciò che sembra avvalorato dalla considerazione con cui s'aprono le pagine conclusive della prima Démocratie, dedicate appunto a questo tema”:

4 «Uomini simili ed eguali — scrive Tocqueville (0.C., I, 2, p. 30) — concepiscono agevolmente la nozione di un Dio unico, che imponga a ciascuno le medesime regole e accordi loro la felicità futura al medesimo prezzo». Si può osservare che questo contenuto dogmatico coincide quasi perfettamente con l'atto di fede che l’autore ha recitato nella lettera-confessione a Madame Swetchine: «Credo fermamente in un’altra vita, poiché Dio, che è sovranamente giusto, ce ne ha dato l'idea; in quell'altra vita, alla remunerazione del bene e del male, poiché Dio ci ha permesso di distinguerli e ci ha dato la libertà di scegliere, ma al di là di queste nozioni chiare, tutto ciò che oltrepassa i confini di questo mondo mi appare avviluppato da tenebre che mi spaventano» (0.C., XVApaglo): 4° Manent, Tocqueville et la nature de la démocratie, cit., p. 147; il giudizio sul compromesso diseguale si legge a p. 135. 4 0.C., I, 1, p. 301 [corsivo dell'autore].

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

5

Accanto ad ogni religione si trova un'opinione politica che, per affinità, le è congiunta. Si lasci lo spirito umano seguire la sua tendenza, ed esso regolerà in

maniera uniforme la società politica e la città divina; cercherà, se oso dirlo, d'armonizzare la terra con il cielo. Il quadro americano mostra, se così si può dire, che è piuttosto il cielo che si

cerca d'armonizzare con la terra. Non se ne dovrebbe tuttavia concludere che tale regime sia quello di una religione civile, in cui i preti sono incaricati di

un'azione pedagogica che ha per compito di far conoscere ed accettare i valori della civitas. Questa nozione, tanto cara all’umanesimo civico, è assente dal modello tocquevilliano*, nel quale anzi l'efficacia politica della religione pro-

viene dalla sua collocazione esterna allo spazio della civitas. Altrettanto assente — si deve aggiungere — è la nozione di religione naturale, giacché ciò che definisce il fatto religioso è proprio l'opposizione natura (umana)/trascendenza

(divina). Insomma, com'è stato scritto, Tocqueville sembra oscillare «tra una religione sinonimo di tradizione ed antagonista della ragione, che bisogna ad ogni costo “conservare”, ed una religione razionalizzata, che rischia di scompa-

rire nell'opinione maggioritaria». Ne risulta un’incertezza di fondo, e ne scaturiscono numerosi interrogativi, tutti di non facile soluzione. Il problema capi-

tale è, ad ogni modo, quello che viene posto dal quadro, che egli traccia, di una religione spogliata di qualsiasi carattere sacrale, povera di contenuti dogmatici

4 In realtà, negli anni del Secondo Impero, come mostra la corrispondenza con Mme Swetchine, si registra su questo punto una svolta, e Tocqueville appare ora fautore di un ruolo attivo di cittadinanza da parte del clero. «Non chiedo affatto ai preti — egli scrive (0.C., XV, p. 296,

lettera del 20 ottobre 1856) — di fare agli uomini la cui educazione è loro affidata o su cui esercitano un'influenza, non chiedo loro di fare a costoro un dovere di coscienza d'essere favorevoli alla repubblica o alla monarchia. Ma confesso che vorrei che dicessero loro più spesso che, al tempo

stesso che sono cristiani, essi appartengono ad una delle grandi associazioni umane che Dio ha stabilito senza dubbio per rendere più visibili e più sensibili i legami che devono stringere gli individui gli uni agli altri, associazioni che si chiamano popoli e il cui territorio si chiama Patria». Cfr. su questo punto Goldstein, Trial ofFaith, cit., pp. 88 sgg.

‘ Cfr. Antoine, L'Impensé de la démocratie, cit., p. 169. Con argomenti diversi, Thibaud insiste

anch'egli sulla contraddittorietà della posizione di Tocqueville, vedendovi il segno di una persistente inquietudine riguardo al rapporto tra democrazia e religione. «De la Démocratie en Amérique — egli scrive (Thibaud, Rowsseau-Tocqueville, in “The Tocqueville Review/La Revue Tocqueville”. Numéro spécial bicentenaire [1805-2005], cit., p. 324 [corsivo dell’autore]) — mescola in effetti

due giustificazioni della convergenza tra democrazia e religione. Talvolta essa sottolinea l'accordo dei due sistemi di valore, in particolare tra l’egualitarismo metafisico nel cristianesimo e l’eguaglianza delle condizioni nella democrazia. In altri momenti, è la complementarità (dunque la con-

traddizione) tra le libertà politiche e il “dogmatismo” religioso che prova l'utilità del secondo e che ne giustifica l’esistenza».

52

Regina Pozzi a

e ridotta a pura morale. Il punto è se, a queste condizioni, la religione possa efficacemente svolgere quelle funzioni di utilità politica che Tocqueville le aveva attribuito, argomentandole proprio a partire dalla sua dimensione di alterità e dalla sua natura dogmatica ed autoritativa. A creare difficoltà sono in particolare due sviluppi del discorso tocquevilliano. Il primo riguarda le motivazioni che portano a credere. Se in quell'America in cui Tocqueville va a cercare il senso del futuro la religione appare fiorente, risulta però che a spingere gli uomini «ai piedi dell’altare», sia la ragione ben più del cuore, ovvero il calcolo razionale che applica alle cose ultraterrene la dottrina dell'interesse ben inteso. L'Americano crede, perché giudica che sia saggio «azzardare qualcheduno dei beni di questo mondo per conservare i diritti all’immensa eredità che gli si promette nell'altro». Ci stupiremo di ritrovare di nuovo qui gli Americani nei panni di discepoli inconsapevoli? Questa volta

il loro maestro è Pascal, e le ragioni per cui essi credono ricordano assai da vicino quelle della sua celebre scommessa. Nel caso ci sfuggisse, è Tocqueville stesso a farlo notare?°. Nel mutamento di contesto, peraltro, l'argomento s'involgarisce. Per l’apologeta cattolico il convincimento razionale preparava la mente ad aprirsi alle «prove morali», e la fede supponeva «in definitiva un salto dall’ordre de la raison all’orore du coeur»; non così per i suoi moderni seguaci, che si attengono ad una religione di pura ragione, e per i quali la ragione coincide con il calcolo interessato. «Non soltanto gli Americani seguono la loro religione per interesse, ma spesso ripongono in questo mondo l'interesse che si può avere a

seguirla». In una società in cui domina il calcolo utilitaristico, d'altra parte, anche i preti si adeguano: al punto che, annota ancora Tocqueville, «è spesso difficile sapere, ascoltandoli, se l'oggetto principale della religione sia di procurare la felicità eterna nell'altro mondo o il benessere in questo».

% La citazione pascaliana è incastonata in un capitolo della seconda Démocratie, che ha per titolo «Come gli Americani applicano la dottrina dell'interesse ben inteso in materia di religione», in cui sì leggono anche le diverse frasi citate nel testo (0.C., I, 2, pp. 131-133). «“Ad ingannarsi -

scrive Tocqueville -credendo vera la religione cristiana, ha detto Pascal, non si ha molto da perdere; ma che disgrazia sarebbe ingannarsi credendola falsa!”». 51 Così Diez del Corral, Tocqueville, cit., p. 300. Come

l'autore peraltro ricorda, l'argomento

pascaliano, con la sua applicazione del calcolo delle probabilità all'apologetica, era stato oggetto di numerose critiche, da parte di Voltaire, Montesquieu, Fontenelle, Condorcet, e dallo stesso Tocqueville, in una nota preparatoria della Démocratie, era stato giudicato non «degno dell'anima del grande Pascal» (‘4i0., p. 299). Diez del Corral osserva inoltre come il pari pascaliano si possa «applicare anche in campo politico come argomentazione a favore della democrazia»: ciò che è stato colto, con il consueto acume, da Sainte-Beuve, che ha istituito un curioso parallelo «tra il modo che ha Pascal di aggrapparsi alla croce e quello di Tocqueville di aggrapparsi alla democrazia». 20. I2ppals25165%

Tocqueville e i dilemmi della democrazia

53

Il secondo sviluppo proietta un'ombra ancora più cupa sul discorso tocquevilliano. Non solo, infatti, la religiosità americana è il risultato di un calcolo, ma sovente non è che ipocrita adesione all'opinione dominante. «Fra gli Angloamericani, egli ammette, gli uni professano i dogmi cristiani perché vi credono, gli altri perché temono di non avere l’aria di credervi»5. Era questo un tratto che aveva colpito Tocqueville al suo arrivo in America. È l'opinione — aveva allora osservato — che la domenica obbliga tutti a farsi vedere in chiesa. Aggiungendo: «O m'inganno di grosso, o c'è una forte sostanza di dubbio e d'indifferenza nascosta sotto queste forme esterne». A distanza di alcuni anni,

e dopo la rielaborazione intellettuale del viaggio, il suo giudizio è rimasto immutato: tanto è vero che nella prima Démocratie il conformismo in fatto di religione è proprio l'esempio che egli porta per illustrare la tirannia della maggioranza sul pensiero. Tale consapevolezza non gli impedisce tuttavia di concludere il libro con le note riflessioni (da cui siamo partiti) sull’utilità della reli-

gione. E di scrivere: «Non so se tutti gli Americani hanno fede nella loro religione, giacché chi può leggere in fondo ai cuori? ma sono sicuro che essi la credono necessaria al mantenimento delle istituzioni repubblicane». È fin troppo facile osservare

che il ragionamento

tocquevilliano

presuppone

che l'utilità

politica della religione dipenda dall'attaccamento sincero e puramente religioso che le si porta. Ma cosa succede se a considerarla utile non sono i patrizi romani, come nel racconto di Montesquieu®,57 ma sono invece i plebei? se, in altre parole, il giudizio d'utilità è dato non da un osservatore esterno, ma dagli stes-

si cittadini? «La religione degli Americani — conclude Manent (cui si deve quest'osservazione) — perde di utilità nella misura in cui essi le sì attaccano in

PROC

prs00.

5 0.C., XIII,

1, p. 227. Si tratta della lettera del 29 giugno

1831, già citata,

a Louis de

Kergorlay, e la continuazione del passo merita d'essere riportata per intero: «Nessuna passione politica si mescola, come da noi, all’irreligione, ma la religione non per questo risulta avere più potere. È un impulso assai forte ch'è stato dato un tempo, ma che svanisce ogni giorno che passa.

La fede è con tutta evidenza inerte, de si entra nelle chiese (dico quelle protestanti) si sente parlare di morale; non una parola del dogma; nulla che possa men che meno urtare il vicino, nulla che possa risveglia-

re l’idea di una dissidenza. Le astrazioni del dogma, le discussioni specificamente proprie di una dottrina religiosa: è questo, nondimeno, ciò in cui ama immergersi lo spirito umano quando è fortemente preso da una credenza; così erano un tempo gli Americani stessi» [corsivo mio]. 56 «L'Inquisizione — si legge (0.C., I, 1, p. 267) — non ha mai potuto impedire che circolassero in Spagna libri contrari alla religione dei più. Negli Stati Uniti il dominio della maggioranza fa di meglio: toglie anche il pensiero di pubblicarne. S'incontrano degli increduli in America, ma l’incredulità non vi trova, per così dire, nessun organo per esprimersi». OCA ipYt306: 5 È la situazione descritta nella Dissertation sur la politique des Romains dans la religion (1716).

54

Ria Pi RN

ragione di tale utilità. È questa la difficoltà centrale dell'interpretazione tocquevilliana dei rapporti tra democrazia e religione». È indubbio che vi sia come una falla nel discorso di Tocqueville. Ben lo sì vede quando egli investiga le ragioni del declino della religione nel mondo contemporaneo e s’interroga sul modo di farvi fronte. Grande analista della modernità, egli, in effetti, non ne maneggia concettualmente un tratto capitale, quello che è stato definito come la fuoruscita dall'universo religioso”. Non che egli non colga il fenomeno, anzi ha ben chiaro il processo storico che, da Lutero a Voltaire, ha emancipato lo spirito umano, sottraendolo al principio d'autorità: ma, coerentemente con la sua posizione filosofica (e si potrebbe aggiungere sentimentale), vi vede solo un fatto “innaturale” e produttivo di disvalore. L'interesse che assume ai suoi occhi l'America è perciò, sotto questo profilo, enorme: essa può offrire l'esempio — e il modello — di uno sviluppo diverso, nel quale la catena Lutero-Descartes-Voltaire, che «sembra aver funzionato con consequenzialità rigorosa e inesorabile in Francia», ha potuto essere interrotta. Ora, le spiegazioni che dà Tocqueville di questo fatto — che ciò sia stato per merito di «due circostanze», ossia delle origini puritane e della separazione della religione dall'ordine politico?! — non sono delle più stringenti. Da una parte, egli non mostra come agisca nell'America dei suoi giorni l'influenza dello spirito puritano, di cui è anzi costretto a constatare il declino; dall'altra, è vago

nello stabilire una relazione tra l’attuale regime di separazione e la democrazia biblica delle origini. Verrebbe insomma da concludere che ciò che non risulta chiaro, in questa genealogia della modernità, non è tanto perché la Francia abbia seguito Voltaire quanto perché l'America lo abbia rifiutato. Vorrei richiamare l’attenzione sulle pagine finali della prima Démocratie, in

cui si descrive questo duplice processo.

Il confronto è fra l'America e la

Francia, ma anche tra due modi di affrontare un medesimo problema, che è — ecco