Dibattito su Rossellini 8881036096, 9788881036097

La trascrizione curata da Gianni Menon di un dibattito svoltosi in quattro giornate a Pisa nella primavera del 1969 sul

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Italian Pages 184 [170] Year 2009

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Dibattito su Rossellini
 8881036096, 9788881036097

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Prefazione

Mio padre, Roberto Rossellini, non andava mai alle retrospettive dei suoi film perché si sorprendeva delle castronerie che i partecipanti dicevano. Si innervo­ siva soprattutto quando alle immagini dei film venivano attribuiti significati che a lui non erano neanche passati per l’anticamera del cervello, e perché mai o ra­ ramente venivano decriptati i veri significati che i suoi film volevano esprimere. Si sorprendeva, soprattutto, perché credeva che i suoi film i significati li urlas­ sero, non li sussurrassero. Fu perciò che, quando nel maggio del 1969 fu invitato a Pisa a una tavola ro­ tonda sul suo cinema, accettò di partecipare solo alla seconda giornata in cui il di­ battito verteva su Europa ’51, film che, reputava, nel 1969 dovesse essere più com­ preso di quando uscì nel 1952. Oggi, a 40 anni di distanza, io come figlio sono fe­ lice che si sia sottratto alla prima giornata di dibattito, nel quale uscirono frasi come: «Dico soltanto che a me di Rossellini non me ne frega niente...» (Zanette). Rileggendo i testi del dibattito che in questo volume vengono ripubblicati, mi viene da riflettete su come dei giovani politicizzati dai movimenti del ’68 aves­ sero problemi a capire quanto i film di mio padre fossero vicini agli ideali che quei movimenti avevano generato. Mi sorprende anche come i film di Roberto Rossellini fossero stati letti correttamente dai critici dei «Cahiers du Cinéma» in Francia, e da Adriano Apra, Gianni Menon e pochi altri in Italia. Ho letto la trascrizione di quel dibattito del 1969 non come un dibattito sul ci­ nema di mio padre ma come un documento di antropologia culturale sul ’68 e su­ gli anni successivi. Devo anche onestamente confessare che io stesso, in quegli anni, sognando un’impossibile rivoluzione, sono stato ottenebrato e ho avuto con la “vera cultura” rapporti problematici. Di questo devo chiedere scusa a molti, ma soprattutto a mio padre Roberto Rossellini.

Renzo Rossellini

Gli occhi della pelle Adriano Apra

Nel marzo del 1968 Gianni Menon, che non conoscevo, mi chiamò per par­ tecipare come relatore a un seminario a Reggio Emilia dedicato alla “formazio­ ne quadri” di giovani organizzatori di cineclub aderenti all’UCCA (Unione Circoli Cinematografici dell’ARCI). Ero, in realtà, una seconda scelta: Gianni mi aveva chiamato perché Maurizio Ponzi non poteva venire. Che si trattasse di Maurizio o di me non importava; in ogni caso voleva qualcuno di «Cinema & Film», rap­ presentante di una nuova tendenza critica che doveva evidentemente averlo col­ pito. Dato il tradizionalismo allora imper ante, cinematograficamente, fra le si­ nistre, era già un bel gesto di coraggio; tanto più che fra gli altri invitati c’era Adamo Vergine, fondatore della CCI (Cooperativa del Cinema Indipendente), cioè il nostro underground, che si portò dietro qualche copia di film (e tra i film proiettati spiccava il da poco disponibile, e da noi della rivista osannato, Duomo con la macchina da presa di Dziga Vertov). Tra i relatori c’era anche Pio Baldelli, che però rimase solo per la sua relazione. Io invece mi fermai per tutto il perio­ do del seminario. Si dormiva, si mangiava e, per quel che ricordo, si proiettava in uno stesso posto. Feci una mattina la mia bella relazione sulle nouvelles vagues'. una panorami­ ca esaustiva di tutte le novità mondiali, con menzioni a raffica di nomi di registi e di titoli di film. Davanti a me in cattedra, i miei “scolari”. Domande? Si alza un ragazzo napoletano e, con bella impudenza, mi chiede se le cose che andavo dicendo avevano importanza di fronte alle occupazioni delle università che in quei giorni dilagavano. Domanda forse ingenua, e caso mai fuori luogo. Ma che produsse in me, e credo anche in Gianni, un profondo turbamento. Sapevo del­ le occupazioni, ero anche andato a curiosare alla Sapienza, ma da “esterno” (an­ ni dopo, rivedendo Discutiamo, discutiamo, l’episodio di Marco Bellocchio per Amore e rabbia, mi sarei detto che quella fulminante parodia delle inquietudini universitarie del periodo ne era anche la più bella sintesi “documentaria”). Fat­ to sta che mi sentii d’improvviso “vecchio” di fronte a quei giovani, inadeguato (e non avevo ancora 28 anni). Quella domanda fece scattare in me qualcosa che inconsciamente mi travagliava da un po’ di tempo. Perciò con Gianni decidem­ mo di cambiare il “metodo”: non più lezioni cattedratiche ma discussioni aper­ te in forma di tavola rotonda. Cominciava Gianni, o io, o entrambi, e poi si pro-

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seguiva nell’ordine del cerchio. Il “primo cerchio” serviva a scaricare le bana­ lità, a superare gli imbarazzi, a liberarsi dai pregiudizi. Dal “secondo cerchio” in poi ognuno si sentiva più a proprio agio, sciolto da impacci, capace di esprime­ re ciò che davvero sentiva. Il risultato fu sorprendente, e una volta usciti dalla “cerchia magica” l’onda di quel seminario si prolungò in amicizie durature (Gianni, Enzo Ungati, Franco Ferrini, che invitai tutti a collaborare a «Cinema &Film», i “pisani”). Con Gianni decidemmo di riprovare l’esperimento: albergo e ristorante in co­ mune, tavola davvero rotonda, interventi a cerchio che crescevano d’intensità a ogni tornata. L’occasione si presentò in dicembre grazie alla complicità di Gian­ ni Minello, responsabile dell’UCCA veneziana (poi dal 1976, con Nel cerchio, an­ che regista), che ci fece aprire - approfittando dei timori locali di ulteriori agita­ zioni sessantottesche - la altrimenti inaccessibile cineteca dell’ASAC (Archivio Sto­ rico delle Arti Contemporanee). Il risultato fu superiore alle aspettative, grazie anche a film straordinari, che talvolta io stesso vedevo per la prima volta, e co­ munque in versione originale quasi sempre con sottotitoli italiani. Stavolta regi­ strammo, ma i nastrini si rivelarono inutilizzabili, forse per nostra imperizia tec­ nica. Per quanto mi riguarda, la rivelazione fu The River di Jean Renoir: il film più armonico della storia del cinema (alcuni mesi dopo, scrivendo con Gianni la sceneggiatura della mia opera prima dii finzione, Olimpia agli amici — rimasta ope­ ra unica -, ne inserimmo la trama come racconto finale della madre dopo la mor­ te della figlioletta). Per la maggior parte dei ragazzi fu invece Europa ’51 (in quel­ l’occasione mi resi conto che la copia dell’ASAC era più lunga di quella conosciu­ ta, e anni dopo, quando ero in Cineteca Nazionale, la feci restaurare). Fu logico quindi - rosselliniani di ferro come lo ero io e come lo era diventa­ to Gianni, con cui condivisi una retrospettiva nell’estate del 1968 a San Marino e appassionanti discussioni - pensare a un terzo seminario, nel maggio 1969, proprio su Rossellini, e a Pisa, perché i ragazzi di Pisa incontrati a Reggio Emi­ lia e a Venezia si offrirono con entusiasmo di collaborare. Pisa divenne poi una mia città di elezione: decisi di girarvi Olimpia agli amici, nonostante i pochissi­ mi esterni del film, perché volevo essere circondato da amici in grado di aiutar­ mi in loco, e poi continuai a frequentare il gruppo di “Cinema Zero” per comu­ ni interessi culturali, ma soprattutto per amicizia. «Gli occhi della pelle» è un’espressione usata da Rossellini durante il dibatti­ to pubblico seguito alla proiezione di Europa ’51 a Pisa. Potrebbe definire an­ che lo spirito che ha caratterizzato quel seminario postsessantottino: occhi acce­ si, pelle vibrante. Per quanto mi riguarda, l’inquietudine che mi scorreva dentro da Reggio Emilia mi aveva portato a rimettere in discussione la mia vita: non so­ lo le mie idee sul cinema, ma il mio lavoro (avevo vinto un concorso per un posto fisso di fascia A, e neppure mi presentai il primo giorno di lavoro: decisione di cui non mi sono mai pentito), le mie prospettive (fare cinema: prima con una see-

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neggiatura scritta con Ferrini per Marco Ferreri, che voleva allora produrre ope­ re prime di giovani, La quinta stagione-, poi , appunto, con Olimpia agli amici) e so­ prattutto la mia vita privata. Quel seminario, nel mio ricordo, mi dette la scossa decisiva: guardare Rossellini, il cinema, la vita con gli occhi della pelle; smetter­ la di proteggermi dietro l’intelligenza; lasciarmi andare a un “altro da me” che finì per prevalere, e che determinò il mio modo di essere negli anni successivi. Mi lascio andare a queste confidenze personali perché è così che io ho vissu­ to quel seminario, al di là delle riscoperte rosselliniane. E perché ho sempre avu­ to una certa nostalgia per la “magia” di quell’iniziativa. Basta spogliarsi dai pre­ giudizi, presentarsi “innocenti”, e il cinema - come ogni altra esperienza cultu­ rale o di vita - può stimolare in chiunque di noi, colto o non colto, riflessioni rivelatrici. Quel seminario era stato una seduta terapeutica, un vero e proprio psicodramma. Discussioni altrettanto psicodrammatiche le avrei rivissute do­ po, nella mia casa di vicolo del Governo Vecchio 8, quando avevo deciso quasi programmaticamente di non scrivere più ma di “agire”; e anche parlare di cine­ ma - con Enzo, Franco, Gianni (che fra l’altro mi fece conoscere Carmelo Bene e Leo & Perla, e che mi introdusse al nuovo teatro romano), Marco Melani, Gianni Amico e tanti altri - voleva dire agire: senza lasciare traccia, come chi, felice di essere naufragato, affida a una bottiglia dall’incerto destino i propri flui­ di messaggi, non preoccupandosi di raccoglierne i frutti. Per questo ci tenevo a ripubblicare questo Dibattito su Rossellini-, non solo, spero, a futura memoria, ma come proposta, forse inattuale, di un altro modo di porsi di fronte al cinema, di cui sento profondamente la mancanza. Inaridi­ mento dell’accademia, sterilità di una cinefilia sregolata, assenza di esiti morali nella ricerca culturale mi sembra che minino profondamente coloro che si oc­ cupano di cinema; non chi fa cinema però (nulla a che vedere con la “morte del cinema”, che invece resta vivo: basta sapere dove cercarlo). Ricordo che con Gianni, quando passava le giornate a sbobinare il dibattito, ci dicevamo che, trascritto, se ne sarebbe persa l’essenza; la qualità orale del di­ battito, quello che circolava fra le parole, la tensione che ci attraversava non l’a­ vremmo mai potuta recuperare. Mi chiedevo addirittura se valesse la pena pub­ blicarlo. Mi sbagliavo, perché comunque, a rileggerlo, almeno io percepisco an­ cora il calore di un discorso innovativo. Di ritorno da Pisa scrissi di getto un saggio breve e denso su Rossellini destinato a «Cinema & Film»: Cuori, stelle, pietre-, Gianni mi convinse a rinunciare, perché non era giusto apporre una fir­ ma a idee che nascevano da uno scambio collettivo. Lo pubblicai altrove anni dopo, e adesso lo si può leggere nel mio In viaggio con Rossellini. Per chi fosse in­ teressato, può essere visto come un’appendice a questo Dibattito. Ho pensato anche che sarebbe stato interessante risentire le voci di quei ra­ gazzi, oggi uomini fatti. Con alcuni avevo mantenuto rapporti, molti altri non li avevo risentiti da anni, di altri ancora avevo perso ogni traccia. Ne ho ritrovati di­

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versi, e tutti hanno risposto. Fra quelli che non ho rintracciato, mi dispiace so­ prattutto non sapere cosa ne sia stato di Marco Beretta (un “puro e duro” da vecchio PCI, che però riusciva a porre interrogativi più che sensati al nostro di­ lagante irrazionalismo) e di Pietro Zanette (un avvocato di Vittorio Veneto suo omonimo si è rivelato essere un altro); con quest’ultimo, il cui “silenzio” tanto ci aveva colpito - e che è appunto una di quelle cose che nella trascrizione non “passano” -, avevo intrattenuto rapporti epistolari per un po’, e ne era venuta fuori una personalità “poetica” fin troppo coinvolgente. Ho deciso infine di chiedere, oltre che una prefazione a Renzo Rossellini, due “postfazioni”: una a Goffredo Fofi, che allora - ai tempi delle scaramucce tra le opposte fazioni di «Cinema & Film» e di «Ombre Rosse» - militava, apparen­ temente, in campo avverso; l’altra a Sandra Lischi, che aveva vissuto indiretta­ mente quel dibattito nell’ambito dell’ Università di Pisa che ci ospitava, e che sa­ rebbe diventata la sua casa. Ho infine chiesto a Michele Guerra, che mi ha spin­ to a ripubblicare il Dibattito trovandomi l’editore, il suo punto di vista dalla “distanza” delle nuove generazioni. Abbiamo cercato invano qualche fotografia che documentasse l’evento pisa­ no; l’unica, di Rossellini al Mignon, l’abbiamo trovata su «Il Tirreno». Abbia­ mo quindi deciso di illustrarlo soprattutto con fotogrammi tratti dai film pro­ grammati. Il testo originale viene ripubblicato con minimi interventi redazionali e con al­ cune integrazioni o precisazioni fra parentesi quadre. Infine, per ricordare Gianni Menon, ripropongo di seguito — oltre a una foto fornita dal fratello Vincenzo — una sintesi del curriculum che scrisse pochi mesi prima di morire (Roma, 2 febbraio 1989), destinato soprattutto a funzionari RAI, che dubito si siano presi la briga di rispondere, e che fu distribuito fra i presenti in occasione del funerale, come ricorda Cristina Torelli che me lo ha procurato.

Gianni Menon si racconta

«Sono nato - nel dicembre 1938 - e cresciuto a Trieste; maturità classica; fa­ coltà di Lettere e Filosofia». Sin dal 1953 si interessa di cinema, di teatro di prosa e di musica classica, at­ tivo fin da studente medio nei Circoli Universitari Cinematografici. «Esperienze precoci e, credo, preziose: le letture e gli incontri procedevano di pari passo in un processo di maturazione individuale abbastanza originale, sca­ valcando - bisogna ammetterlo - l’esperienza scolastica». Dal 1963 al 1965 a Padova a vendere lavagne luminose, «uno strumento di­ dattico piuttosto nuovo e con i suoi vantaggi innegabili, che però per varie ra­ gioni non ebbe il successo immediato che la Società si aspettava, cosicché la pic­ cola divisione di vendita sperimentale fu sciolta». Segue un periodo a Milano, dove l’esperienza «più importante è stata senz’al­ tro quella della collaborazione con Nanni Ricordi. [...] Ricordo di aver parteci­ pato in qualche modo alla nascita di “Linus” e contemporaneamente di aver se­ guito da vicino Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto che si facevano le ossa nei cir­ coli della cintura milanese. [... ] Più importante ancora per me la collaborazione a livello organizzativo con Dario Fo, allora ospite per tre, quattro mesi di esau­ riti all’anno del centralissimo Teatro Odeon (un po’ collaborai anche con Paolo Poli e con il primo [Giancarlo] Cobelli). [...] Stava per essere lanciata una rivi­ sta diretta da Fulvio Fo che si sarebbe dovuta chiamare “Il dito nell’occhio” e di cui avrei dovuto essere il segretario di redazione, ma per ragioni puramente in­ cidentali la cosa non andò in porto. Con Ricordi e altri fondammo anche l’ARCI (Associazione Ricreativa Culturale Italiana) che allora a Milano non c’era (l’ARCI era una realtà quasi totalmente tosco-emiliana, in quel periodo)». Dal 1966 al 1969 a Roma, responsabile dell’organizzazione nazionale ARCI del cinema e del teatro. «Anni come si sa non qualsiasi. Contestazioni varie a parte, mi pare di essere comunque riuscito a combinare qualcosa di positivo in quei tre anni [...]: l’aver portato il Living Theatre nelle case del popolo toscane; l’a­ ver contribuito a costruire l’Associazione Nuovo Teatro (con Franco Quadri, Edoardo Fadini, Giuseppe Bartolucci, Ettore Capriolo). [...] Ma la cosa più im­ portante finì per essere l’attività di formazione quadri attraverso corsi e semina­ ri un po’ per tutta Italia. [...] Fondamentale l’esperienza di tre seminari (a Reg-

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gio Emilia, a Venezia e a Pisa), dall’ultimo dei quali (l’opera pressoché omnia di Rossellini) è uscito anche un volume a mia cura (Dibattito su Rossellini, Edizio­ ni Partisan [Roma, 1972]), che a quanto pare in questi 20 anni è diventato no­ nostante la sua quasi irreperibilità un punto di riferimento irrinunciabile per stu­ di e scritti italiani e non su Roberto Rossellini. Che ho avuto modo anni dopo di conoscere meglio, tanto che al momento della sua morte improvvisa era appena iniziata una mia collaborazione con lui per un progetto di videocassette didatti­ che che voleva fare con l’appoggio dei partiti della sinistra, dei sindacati, delle as­ sociazioni unitarie. Nel periodo ARCI (e dopo) ebbi modo di seguire anche da vicino l’attività del primo teatro di ricerca: Carmelo Bene, soprattutto Leo De Berardinis e Perla Peragallo. [...] Sempre nel periodo ARCI “scoppiò” - letteralmente - il fenomeno dei Film Club, soprattutto a Roma, ma anche a Milano e altrove. [...] Il fenomeno si esaurì in una decina d’anni con l’assorbimento di pellicole da parte della RAI e delle televisioni private. [...] Però si fece in tempo a fare scoperte molto inte­ ressanti che ci erano state occultate nella nostra prima formazione. Direi so­ prattutto per quanto riguarda il cinema americano e il cinema italiano. [...] In me prevalse l’interesse per il cinema italiano. [...] Di questo mio maggiore inte­ resse si trovano tracce in varie pubblicazioni sparse: un saggio che fu considera­ to “audace” su Visconti [Note sul teatro di Luchino Visconti, ma anche sul cine­ ma e altre cose], che apparve in un numero monografico di “Bianco e Nero” [La controversia Visconti a cura di Fernaldo Di Giammatteo, settembre-dicembre 1976]; un intervento su Castellani [Renato Castellani in periodo neorealista] che si trova in 11 neorealismo cinematografico italiano, a cura di Lino Miccichè, Mar­ silio, 1975 ; poi cataloghi [fra cui, con Patrizia Pistagnesi e Aprà, Il melodramma nel cinema italiano per la prima edizione, 1977, degli Incontri Cinematografici di Monticelli Terme] e altre cose. E testi non pubblicati o pubblicati sotto pseu­ donimi su Pasolini, Rossellini, Poggioli, Matarazzo. A scrivere di cinema con una certa serietà avevo cominciato su “Cinema & Film” nel 1968, una rivista di breve durata (3 o 4 anni) distribuita dalla Garzan­ ti, per interessamento personale di Pier Paolo Pasolini. Ne sono stato prima col­ laboratore, infine redattore. [...] A “scrivere cinema” invece, cioè soggetti e sceneggiature, cominciai col pri­ mo e finora unico film di Adriano Aprà, realizzato dalla RAI (Olimpia agli amici, 1970). [...] Collaboro con la RAI da più di 20 anni. Ho firmato [... ] almeno una cinquan­ tina di servizi; uno special di un’ora per la primissima televisione a colori su Orietta Berti, [...] primo di una serie “sperimentale” di “Autoritratti formato vi­ deo” di cantanti celebri di musica leggera; ho collaborato all’unico esempio di “Telelirica” fatto con serietà dalla RAI (La cambiale di matrimonio di Rossini [di­

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retto da Annita Triantafillidou]); ho realizzato una decina d’ore di montaggio di materiale di repertorio sulle Olimpiadi del 1980 per la neonata Rete3 ; ho rea­ lizzato per il Dipartimento Scolastico Educativo una trasmissione di un’ora su Gemona a un anno dal terremoto. Non firmandomi, ho fatto ben tre campagne elettorali da regista per un par­ tito della sinistra al governo, a partire da un’inchiesta su Genova fino a un in­ credibile carosello di un minuto, in 35mm, stampato però in 1000 copie, che cir­ colò in campagna elettorale per tutti i cinema d’Italia. Tra le molte sceneggiature e collaborazioni a sceneggiature [...] ricordo so­ prattutto Irene Irene (1975) di Peter Del Monte; il lavoro televisivo durato anni con e per Maurizio Ponzi fino a una riduzione del racconto lungo Valentino di Natalia Ginsburg, la sceneggiatura non realizzata ma mai abbandonata de 1fra­ telli Cuccoli di Aldo Palazzeschi e infine Qualcosa di biondo (1984) scritto per Sophia Loren, finanziato da Carlo Ponti e la SACIS, comprato di recente perfino dalla Cina Popolare. [...] Anche la collaborazione con Paolo Benvenuti è stata importante: da lontani documentari [Il Cantamaggio. Viaggio con Dario Fo nella tradizione dei Maggi, 1978, coregia] alla fondazione di un Film Club a Pisa, “L’Arsenale”, con cui tut­ tora collaboro attivamente; fino all’ultimo II bacio di Giuda [cosceneggiatura], unico film italiano invitato alla Settimana della Critica della Mostra del Cinema di Venezia 1988. A Pisa si è sviluppata negli anni anche una mia collaborazione di tipo semi­ nariale con la cattedra di Storia del Cinema e il movimento “Ondavideo”. Con la radio collaboro dal 1982: una trentina di ore di trasmissione per la Rete3 e perla Retei (una trasmissione che mi dicono “anomala”: Audiobox). [...] In veste di regista (e sempre senza consulenti musicali), ci tengo a sottolinearlo [...]. Attualmente. Sto cercando di realizzare un film a soggetto e a lungo metraggio di cui ho scritto il soggetto-trattamento originale [Quelli che il dolore gli spacca la testa}. E a buon punto il tentativo di pubblicare un’importante rivista trimestrale di “cinema&altro” di cui esiste un menabò e sono disponibili una trentina di col­ laboratori di notevole qualità, di cui sarei il direttore. Sto lavorando assieme ad altri per l’apertura di un nuovo teatro che vuol es­ sere un centro polivalente di attività (teatro, cinema, musica) a Roma. Sono promotore, insieme all’Università di Pisa, di un grande convegno da te­ nersi l’anno prossimo con il patrocinio della Regione Toscana sullo “Scrivere ci­ nema”. Sto preparando corsi, seminari universitari, incontri con autori in pubblico a Pisa e a Bologna. Sono alla ricerca di una produzione per una serie ispirata a racconti gotici ita­ liani e stranieri deU’800.

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Sto preparando un libro su Giuseppe De Santis e una manifestazione con tut­ to il suo cinema all’interno di una rassegna su Cinema e Lavoro a “L’Arsenale” di Pisa. Sto facendo delle attente e complesse ricerche per la produzione di alcuni fil­ mati “multimediali”: sugli italiani - in particolare triestini — emigrati in Austra­ lia; sull’Expo del 1992 a Siviglia e sull’apertura delle frontiere del MEC, con par­ ticolare attenzione ai ruoli che vi svolgono l’Italia e la Spagna. Sono in attesa di una decisione per quanto riguarda 4 puntate in coprodu­ zione tra la RAI e la televisione cecoslovacca su Teresa Stolz, grande cantante del secondo ’800 e ultimo amore di Giuseppe Verdi. Meno avanzate le trattative per uno sceneggiato originale in 4 puntate di cui sarei, oltre che il soggettista, sceneggiatore e regista, con una delle reti della RAI. Questo curriculum sarà di volta in volta aggiornato».

Introduzione

Sono stato per tre anni, dal 1966 al 1969, responsabile della sezione cinema dell’ARCI (Associazione Ricreativa Culturale Italiana). Come si sa, l’ARCI è un’asso­ ciazione unitaria (PCI, PSI, PSIUP) che si occupa del cosiddetto tempo libera dei la­ voratori. L’associazione porta avanti con sufficiente autonomia le linee unificate di una politica culturale patrimonio delle organizzazioni della classe operaia e tende a collocarsi, nel panorama delle infrastrutture del Paese, come un contraltare dell’ENAL [Ente Nazionale Assistenza Lavoratori], Ente di Stato di nascita fascista, collegandosi faticosamente ad altre associazioni del genere, la piu importante del­ le quali è quella delle ACLI [Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani]. Sarebbe lungo, complesso, prolisso, probabilmente fuori luogo, almeno in questa sede, stare a specificare meglio quali sono state e quali sono le attività di questa associazione nei campi più diversi» Basti che, lavorando all’interno di essa per un periodo di tre anni, ebbi modo di promuovere - in campo cinematografico - alcune iniziative che mi paiono an­ cora oggi interessanti e che vale la pena di documentare. Le pagine che seguono sono la trascrizione, fedele il più possibile, di un se­ minario di studi cinematografici che attraverso l’ARCI organizzai a Pisa nel mag­ gio del 1969, dedicato all’opera di Roberto Rossellini. Sono passati quasi due anni ma il materiale, riletto, si è dimostrato talmente valido da trovare, come si vede, la via della pubblicazione. Innanzitutto è da spiegare in che cosa consistono questi “seminari”. Bisogna sapere che le associazioni culturali hanno la possibilità di ottenere dal ministero della Pubblica Istruzione dlei finanziamenti (parziali) per l’orga­ nizzazione di corsi e seminari di studi di vario tipo che rientrano tutti sotto la voce “educazione degli adulti”. Un’associazione come l’ARCI, con i mezzi spesso limitati che ha, deve addos­ sarsi anche il compito di formare dei quadri di base capaci di svolgere un deter­ minato compito politico, generale o specifico che sia, nel campo della cosiddet­ ta organizzazione culturale. Così come un partito o un sindacato organizzano corsi di formazione per i loro quadri, in apposite scuole, anche all’ARCI si decise che bisognava tenerne.

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Con il denaro dello Stato: ci parve una cosa molto opportuna. E si cominciò a “educare”, cominciando a fare meno affidamento sullo spontaneismo del­ l’impegno locale di vecchi e giovani quadri “ricreativi” e “culturali”. Siccome all’interno dell’associazione prevalevano (e ho l’impressione che pre­ valgano ancora, nonostante tutto) tendenze appunto “tempoliberistiche”, diva­ ga informazione sociologica, che si attuavano in una dettatura autoritaria e pa­ ternalistica di “compiti” che gli attivisti dovevano poi sbrigare seguendo le di­ rettive centrali, assai complicate dalle più sbrigative tendenze delle sedi locali (che detengono il potere reale, quello economico, dell’associazione), questi cor­ si e seminari, all’inizio, erano quanto di meno formativo ci possa essere. Cose abbastanza tristi, copiate (male) da analoghe iniziative della Società Umanitaria di socialdemocratico-massonica memoria e di altri enti similari, con “contenuti” trasferiti pari pari dai documenti delle commissioni culturali dei partiti. Anzi del partito, il Partito comunista italiano. Nel settore cinematografico (il più bistrattato e trascurato dell’associazione, appunto perché “artistico”, culturale, quindi infruttuoso) uno dei problemi che si poneva era quello di fornire ai giovani dirigenti volontari dei circoli cinemato­ grafici aderenti all’ARCI e delle Case del Popolo dove si effettuano delle proiezio­ ni i primi strumenti, elementari, per questo lavoro in un campo politico specifico. Contribuire insomma a creare degli “organizzatori culturali”. Sperando per l’anima nostra che non sia un peccato' troppo mortale. Il primo seminario si tenne a Reggio Emilia nel marzo del 1968. Molto tradi­ zionale: delle “lezioni” con dibattito di alcuni “docenti” e una ventina di parte­ cipanti. Furono invitati Mino Argentieri (che non potè venire), Adamo Vergine, Adriano Apra, Pio Baldelli. Le lezioni erano dedicate, nell’ordine, alla situazione cinematografica gene­ rale del momento, all’avanguardia e ai fenomeni di percezione visiva, al “nuovo cinema italiano” che allora per comodità e per polemica alcuni di noi andavano teorizzando, alle solite comunicazioni di massa. Tutto sembrava svolgersi nella maniera più banalmente prevedibile quando scattò una molla imprevista anche se sperata e desiderata. Scattò grazie soprat­ tutto alla straordinaria capacità di essere uomo vivo che ha Adamo Vergine, al­ lora presidente e factotum della Cooperativa del Cinema Indipendente. Adamo aveva portato con sé quattro o cinque film suoi e di altri dell’under­ ground italiano. Nessuno dei partecipanti aveva mai visto questo tipo di cinema. I film [tra cui anche Celovek s kinoapparatom, L’uomo con la macchina da presa, 1929, di Dziga Vertov] furono “visti”, cosa che il più delle volte non accade. Visti, sentiti, ca­ piti, con una sensibilità e una acutezza straordinarie. Basta in fondo essere liberi di vedere e parlare (o di non parlare) perché si crei

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la tensione necessaria e ognuno troverà in se stesso una capacità di attenzione stupefacente. La libertà dei bambini lasciati liberi. A fine corso noi ci salutammo che eravamo tutti molto felici. Io non ero, allora, un “rosselliniano”: chi si occupa di cinema in Italia sa che [in che modo] questa specie è costretta ad esistere (sia pure in condizioni disaNon lo ero in parte perché non conoscevo molti film di Rossellini, in parte perché non li avevo “visti” quando me li avevano proiettati. Era successo con me come con tanti altri. Europa ’51 mi ricordo che venne trasmesso in televisione verso il 1957 [in realtà il 7 dicembre 1959], quando io avevo più o meno diciotto anni ed ero na­ turalmente assiduo lettore di «Cinema Nuovo» e in generale della pubbli cistica cinematografica “disinistra”. Mi fece un’impressione enorme ma la repressi completamente. Allora, si sa, un liceale di provincia che non giurasse su Senso e sul passaggio dal neorealismo al realismo era spacciato. Ma adesso erano passati dieci anni. Subito dopo questo seminario di Reggio Emilia fui invitato a San Marino, a una rassegna molto ampia dell’opera di Rossellini: da La nave bianca a La prise de pouvoir par Louis XIV. Prendendo esempio dai ragazzi cercai di vedere. E devo dire che scoprii co­ se veramente straordinarie: non solo che Rossellini era l’unico maestro del cine­ ma italiano, uno dei pochi grandi della storia del cinema, l’unico a cui si deve se oggi qualche giovane in Italia sa filmare e/o sa vedere delle immagini, ma scoprii anche che questo di Rossellini era il cinema che serviva a me individuo storico, il cinema più politico che conoscevo. Questioni di gusto personale, si dirà. Può anche darsi, ognuno liquida l’elemento di disturbo come gli fa più co­ modo. Tuttavia servono a chiarire l’esperienza riportata in questo volume e per questo sono da sopportare.

Due mesi dopo questa mia esperienza si tenne [nel dicembre 1968] un altro seminario ARCI, questa volta a Venezia per approfittare delle copie originali sot­ totitolate di alcuni capolavori custodite presso la cineteca della Mostra del ci­ nema1. Erano presenti anche lì una ventina di ragazzi, e molti per la prima volta. Ma il “metodo” era diverso. I “docenti” eravamo Aprà e io soltanto, che non ci sentivamo di insegnare niente a nessuno. Durante il giorno si vedevano i film; la sera, per ore e ore, si discutevano a ruota libera. Chi ne voleva aveva del vino .

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Pastori del disordine [I voski/Les patres du désordre, 1967] di Niko Papatakis; A proposito di tutte queste... signore [For att inte tala om alla dessa kvinnor, 1964] di Ingmar Bergman; Europa ’51 [1952] di Roberto Rossellini; Eintendente Sansho [Sanshò Dayù, 1954] di Kenji Mizoguchi, Murielou Le temps d’un retour [Muriel, il tempo di un ritorno, 1963] di Alain Resnais; Au hasard Balthazar [1966] di Robert Bresson; The River [Il fiume, 1950] di Jean Renoir; Ordet [1955] di Cari Theodor Dreyer: questi i film proiettati. [E inoltre: Pickup on South Street, Mano pericolosa, 1953, di Samuel Fuller, Simon del desierto, 1965, di Luis Bunuel e Pervyj ucitel’, Il primo maestro, 1966, di Andrej Michalkov Koncalovskij]. A livello critico il risultato fu sconvolgente. Il film che entusiasmò di più fu Europa ’51. E dire che Apra ed io temevamo soprattutto le reazioni a questo film. Biso­ gnava capirci: ventenni ultrapoliticizzati pochi mesi dopo il Maggio francese che si trovano davanti a Ingrid Bergman che va tra ladri e puttane, e finisce in mani­ comio. C’era di che temere. Ma il nostro era evidentemente solo un riflesso della paura di marca fascista e zdanovista di molti, che c’è sempre stata e continua ad esserci. Alla fine di Europa ’51, quando la bianca Irene saluta dalla finestra della cli­ nica i poveri e i ricchi, i comunisti e i reazionari, gli umiliati e gli offensori, tutti assolutamente incapaci di capirla, tutti spettatori ideologizzati e impreparati al­ la verità, successe quello che non era successo per nessun altro film. La nostra piccola platea ebbe il coraggio delle proprie emozioni e una buona metà si mise a piangere. Poi andammo a cena. Dopo cena in sede di discussione si stabilì che la Irene del ’51 eravamo noi del ’68 e che si trattava di un film rivoluzionario. Riguardo agli altri film, quanto a intelligenza di reazioni il risultato fu identico. Ricordo molto bene che non potei partecipare alla discussione su Ordet, l’ul­ timo giorno, perché dovetti partire per Roma nella notte in modo da poter esse­ re presente a una riunione della commissione culturale del PCI cui ero stato invi­ tato nella mia qualità di dirigente nazionale di un organismo unitario e di massa. Intervenni, parlai di erotica dell’arte, di Rossellini, di Europa ’51. Lascio immaginare le reazioni: nel mio piccolo, lì ero io Irene, uno da rin­ chiudere insomma. Proprio noi del ’68, non c’era dubbio alcuno.

A questo punto si imponeva una verifica generale, tanto più che le mie idee e quelle dell’organismo unitario cominciavano a differire sensibilmente. Allora organizzai un terzo seminario, dedicato esclusivamente a Rossellini. A Pisa, quasi due anni fa. Anche qui alcuni dei partecipanti erano “nuovi”, altri reduci da Venezia, al­ tri ancora “fedelissimi” fin dai tempi di Reggio Emilia2.

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Il metodo il medesimo, i “docenti” sempre io e Apra3. I film, nell’ordine in cui furono proiettati e discussi: Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero, da L’amore, Il miracolo e la prima bobina di Una voce uma­ na4, Stromboli, Viaggio in Italia5, Europa ’5l6, Viva l’Italia, Vanina Vanini, per in­ tero Una voce umana, La prise de pouvoir par Louis XIV7, le prime due puntate degli Atti degli Apostoli. Dispiace, ora, di non aver potuto proiettare altri film, per varie ragioni. Per esempio Francesco giullare di Dio (la copia non era disponibile), altri che, visti di recente, si è capito come siano fra i grandi film di Rossellini, in particolare Gio­ vanna d’Arco al rogo, ma anche La paura e Dov’è la libertà. Ma ce n’era abbastanza. In quattro giorni e ventiquattro ore effettive di discussione tutto il “patrimo­ nio critico” esistente su Rossellini fu ignorato, o svuotato, o rovesciato, o lascia­ to indietro di anni luce. Non so bene, ma qualcosa accadde. Chi avrà pazienza di leggere questa trascrizione se ne accorgerà, anche se il senso delle nostre parole ha perso molto nell’essere messo per iscritto. Aprà, vecchio rosselliniano convinto di aver capito tutto di Rossellini, era stu­ pefatto. E dai suoi interventi risulta chiaramente. Ora dice di aver “superato” an­ che quelle posizioni, ma dubito che senza quegli interventi le avrebbe superate.

Successe che si creò fra noi una tensione, una capacità vitale, una forza tali non so come dire meglio - che l’opera di Rossellini diventò per noi come un me­ dium fra noi e la parte non liberata di noi. Emettevamo scariche elettriche, on­ de di lunghezza inusitate. Tutti. Credo di poter dire che nessuno di quelli che c’erano si è dimenticato di quei giorni. Eravamo talmente “diversi” che al ritorno, in treno, vari passeggeri del no­ stro scompartimento ebbero delle reazioni “anormali”, violente, nei confronti di Aprà e di me. Per la nostra sola presenza. Disturbavamo. Come introduzione questa potrà sembrare un tantino visionaria, poco “cul­ turale”, per niente “politica”, forse solo “ri-creativa”. Bene. D’altra parte tutto sta nel mettersi d’accordo sui termini e sulla loro utilizzazione. Ma sarà utile anche fare alcune altre considerazioni, di genere diverso, senza naturalmente pretendere di esaurire l’argomento. E ormai chiaro - mi pare - che una “politica culturale” è impossibile. Esiste soltanto la possibilità, per coloro che accettano di farlo all’interno della politica di partito, di svolgere determinate azioni di diffusione culturale su ordinazione. Parlo naturalmente soltanto dei partiti, bene o male, della classe operaia. Sono gli unici per cui il discorso è ancora in qualche modo interessante, in ogni modo gli unici su cui si può, se si vuole, premere. Cinema, teatro, televisione: l’operazione oggi in corso è quella di strappare una fetta di potere organizzato per poterlo gestire “da un punto di vista diverso”,

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il che si riduce all’amministrazione di un pubblico con esigenze diverse da quel­ le invecchiate della piccola borghesia. I confini però sono sottilissimi. Accade perciò che non cambi assolutamente nulla; anzi, può darsi che sia peggio, alme­ no per il momento. Perché non è detto che la classe abbia da “imparare” di più da un montaggio, mettiamo, di Vittorio Franceschi sulla scuola dell’obbligo (spettacolo teatrale di “Nuova Scena”, l’associazione che fa capo a Dario Fo) che da un Pirandello magari sbracato di Salvo Randone. Se non altro lì c’è Randone (e Pirandello). Alla distanza rendono. Non sono novità, naturalmente: la politica del movi­ mento operaio ci ha abituati a queste cose fin dal lontano 1944. Oggi pare che le cose siano cambiate, e assistiamo a furibondi scontri “cultu­ rali” fra partigiani di opposte fazioni, ma non è vero, non è cambiato niente, si è solo ampliato e complicato il campo delle sinistre. Per restare al cinema, da un lato avremo appoggiati, sostenuti, difesi, diffusi i Visconti, i Rosi, i Petri, i Puccini; dall’altro i Gregoretti, i Solanas, i cinegiornali liberi di Zavattini, o quelli meno liberi dell’Unitelefilm, o quelli liberissimi di al­ cuni volenterosi dissidenti. Perché non c’e differenza alcuna — se si parla di cinema - fra il PCI, i suoi cu­ gini e fratelli, i suoi figli, e i nipoti e figli adottivi, anche se prodighi. Sere fa in un dibattito a Pisa un operaio (ma... comincia a dar fastidio che la gente si presenti con un «premetto che io sono un operaio», esattamente quan­ to darebbe fastidio uno che si presentasse con un «premetto che io sono un in­ dustriale»: sempre ricatti. Di classe, naturalmente) sosteneva di credere che il cinema di Visconti fosse un cinema autoritario (d’accordo), ma che proprio per questo il cinema di Visconti, Rocco e i suoifratelli in particolare, gli serviva. Osservai che erano posizioni rispettabilissime, le posizioni del PCI. Si arrabbiò moltissimo; era un attivista di Potere Operaio. Quali margini esistono in una situazione così clamorosamente disastrata? Po­ chi, e molto esigui. Se ci si avventura, pericolosamente, su questi cornicioni, si deve essere pron­ ti a pagare di persona. All’interno del movimento operaio si è pronti invece a scannarsi se la scelta è fra Visconti e Gregoretti, fra Strehler e Fo: ma se si nomina Carmelo Bene o Leo De Berardinis allora il pericolo comune fa sparire ogni rivalità e in nome delle “necessità” della classe il fronte si fa comune. Vengono così compiuti, al servizio della classe o del popolo che sia, misfatti atroci. In nome dell’ideologia. E dell’ignoranza. E della rispettabilità di un obiet­ tivo politico più che trentennale che aspira a essere realizzato. Troppo giusto! Con le regioni ci stiamo avviando agli United States of Italia, almeno per quan­ to riguarda le cose della cultura. Ogni regione avrà ciò che si merita, ed è pro-

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babile che tutte si meritino il peggio. Meno male che, come ci sono sempre sta­ te, continueranno ad esserci smagliature, resistenze, sorprese. Qualcosa passerà, come è sempre passato. E passato Johnny Guitar [di Nicholas Ray, 1954] attraverso le maglie del si­ stema hollywoodiano, è passato Johan Sebastian Bach \Chronik der Anna Mag­ dalena Bach di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, 1968] attraverso quelle del­ la televisione italiana. Volete che non passi qualcosa d’altro?

Torniamo a Rossellini. Mi tengo la mia piccola illusione che Rossellini, penetrato nell’ARCI attraver­ so un seminario fatto con i fondi del minis tero della Pubblica Istruzione sotto la voce “educazione degli adulti”, sia pur [anche solo] una minuscola falla, e come tale sia servito: la dialettica, quando non annega tutto e tutti in un grande mare di irresponsabilità, è cosa seria. Come allora, a Pisa, non furono tirate conclusioni, così anche oggi non è il ca­ so di farlo. La politico però va fatta da uomini e non da notai. E così la politica cinema­ tografica, e così il cinema. Rossellini è l’esempio più probante, almeno per quanto riguarda l’Italia. Nien­ te di più indefinibile, di più compromesso e di più vitale di questa “carriera”, dagli inizi in tempi littori fino ad oggi. Certo, chi nel ’48-’50 faceva le cooperative per produrre Achtung! Banditi! [di Carlo Lizzani, 1951] non può che detestare Rossellini. Perché - dice - si pre­ sentava sempre come l’uomo del governo. Ma nel ’48-’50 Rossellini faceva Stromboli, Francesco: l’unico cinema italiano. Dovrebbe imbarazzare, per lo meno chi non è funzionario, che vada sempre a finire così. Nel 1789 Mozart metteva in musica Cosifan tutte, “qui pro quo” settecen­ tesco. Era un reazionario, no? La presa della Bastiglia pare che, almeno in se­ de di invenzione, non lo interessasse minimamente. Interessava, che so, An­ drea Chénier. Povero Andrea Chénier, che se Giordano non ci avesse scritto su un’opera lirica, quella sì un tantino reazionaria, non sapremmo nemmeno che è esistito! Ora: queste cose, abbastanza ovvie, non sono mai dette. O, se vengono dette, lo sono come cose scontate, patrimonio, in campi opposti, di accademici in or­ gasmo sulle finezze del dettaglio geniale di loro competenza e da saccenti igno­ ranti di giovane età al servizio del popolo. I “mediatori” sono rari e, se non hanno fatto della loro mediazione una pro­ fessione, scontano duramente le pene dei loro sensi di colpa. Se sorpresi a leggere Thomas Mann al servizio di se stessi si vergognano. E si puniscono. In questo seminario nessuno si è vergognato.

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Vale come documento, oltre che come miniera di libertà inventiva e creativa, di ciò che si può essere senza paraocchi. La cosa disperante è che, comunque saranno le future gestioni del potere, non concederanno mai, se non a duro prezzo, il margine per una conduzione cultu­ rale di questo tipo. Ma non è poi tanto disperante: uno si abitua a non contarci e non ci pensa. Il guaio è che non può che risolvere individualmente. Risultati rivoluzionari, come ognuno vede: o l’appiattimento o l’individualismo. Ma infine, perché una cosa così impegnativa come una “conduzione cultura­ le”? Uno legge un libro e se gli piace lo passa all’amico: è da sperare che tutti ab­ biano molti amici. Roma, dicembre 1971

Gianni Menon

Il testo di questo dibattito è di più di due anni fa, l’introduzione di quasi un anno fa. Evidentemente alcune cose sono cambiate, per tutti. E molti hanno cambia­ to idea. Forse è giusto e forse no; non so. Rileggendo il tutto mi pare ancora che le cose uscite da questo dibattito e le esperienze che gli stanno dietro possano essere comunicate con utilità. Non ai critici più o meno ufficiali - è evidente - ma agli uomini di cosiddetta buona vo­ lontà. E confortante ritrovare in alcuni recenti testi italiani le cose che, sia pure con qualche confusione e un po’ troppa approssimazione, sono uscite allora dal­ la nostra insofferenza per gli schemi logici, critici, politici della maggioranza di sinistra, vecchia o nuova che sia. Mi riferisco alla prefazione di Luciano Della Mea al suo «rendiconto politico di un proletario rivoluzionano» [Eppure si muove. Rendiconto di un proletario ri­ voluzionario, Jaca Book, Milano 1970]; alle «considerazioni non “marxiste”» di Franco Fortini nel numero 44-45 [ottobre 1971] dei «Quaderni Piacentini» (“Più velenoso di quanto pensiate”}',, infine allo scritto di Elvio Fachinelli su «L Erba Voglio» (nn. 1 e 2 [Il deserto e le fortezze, n. 1, luglio 1971, dove viene in­ dicato «continua»; ma Scassabambini, n. 2, settembre 1971, non è la continua­ zione del precedente]).

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Note 1. Presso [l’ASAC - Archivio Storico delle Arti' Contemporanee - del]la Mostra di Venezia giacciono centinaia di film: sono le copie proiettate nei vari festival, in lingua originate e sotto­ titolate in italiano o in francese. Film spesso irreperibili in Italia. Questa è stata una delle po­ chissime occasioni in cui qualcuno ha potuto vederli. Si dichiara che non si possono vedere in quanto sarebbero semplicemente custoditi, a disposizione della produzione che ne è proprie­ taria. Pure risulta che spesso li si vede. Ma soltanto nei circoli della Federazione dei Cinefonim. 2. Ecco l’elenco dei partecipanti, gli autori di questo libro1.Badiani Maurizio di Pisa, Ben­ venuti Paolo di Pisa, Beretta Marco di Genova, Bianchi Carlo Alberto di Pisa, Carlini Fabio di La Spezia, Casadei Eligio di Cesena, Duè Andrea di Pisa, Ferrini Franco di La Spezia, Forti En­ rico di Modena, Garrè Giorgio di Genova, Gentile Antonio di Bari, Mansueto Maria Teresa di Venezia, Melani Marco di San Giovanni Valdamo, Nascimbene [Nascimbeni] Alfredo di Mo­ dena, Rosati Faliero di Pisa, Rossi Alfredo di La Spezia, Sechi Simone di Venezia, Ungati En­ zo di La Spezia, Velati Enzo [Vincenzo] di Bari, Zanette Pietro di Vittorio Veneto, Zanichelli Mauro di Modena. Con una sola eccezione [Garrè] l’età media oscillava, allora, fra i venti e i ventuno anni. Alcuni sono studenti, altri no. 3. All’inizio della seconda tornata di discussioni trovano posto due “digressioni sul meto­ do” molto istruttive, a mio parere. Luna originata dall’atteggiamento particolare, particolar­ mente e magnificamente “dissidente”, di uno dei partecipanti, Beretta. L’altra dalla presenza non richiesta, quella sera alla discussione, di due assistenti alla Cat­ tedra di Storia del Cinema della Facoltà di Lettere dell’università di Pisa. 4. Discussione prima. Di Una voce umana fu proiettata per quel giorno soltanto la prima bobina perché ci accorgemmo che la scatola seconda conteneva invece una bobina di Sve­ gliati e uccidi!, il film su Lutring di Lizzani. Meriti organizzativi della nostra Cineteca di Stato che peraltro, molto cortesemente e gra­ zie all’intervento personale di Rossellini, ci fece avere tutti i film richiesti. A proposito dei rapporti di Rossellini e del cinema in generale con la suddetta Cineteca vorrei riportare un episodio recente. A Roma, al cinema Planetario, la Cineteca Nazionale ha organizzato una rassegna “com­ pleta” (non è vero: mancava l’episodio Linvidia) di Rossellini. Andai a vedere Paisà ed ebbi la sorpresa di constatare che giunti a metà dell’episodio napoletano dello sciuscià e del soldato negro si passava di colpo alla seconda metà dell’episodio romano, con Maria Michi già di­ ventata prostituta nella camera d’albergo assieme all’americano. Alle mie rimostranze il direttore del cinema mi informò che essendoci in sala un respon­ sabile della Cineteca stessa potevo rivolgermi a lui. Questo signore di cui non ricordo il nome prima si limitò a dire che l’aveva notato anche lui. Poi, interrogato sul suo grado di coscienza di che cosa ne avrebbe pensato il pubblico, rispose che il pubblico, non conoscendo certo be­ ne il film, avrebbe pensato a un “montaggio a incastro”. E rideva. 5. Discussione seconda. 6. Europa '51 fu proiettato in pubblico, al cinema Mignon, e seguì un dibattito con Ro­ berto Rossellini. Dispiace di non essere riusciti a registrare e trascrivere i nomi di tutti gli in­ tervenuti, ma solo di quelli partecipanti al seminario. 7. Discussione terza. 8. Discussione quarta.

Dibattito della prima serata (23 maggio 1969) Sono stati proiettati Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero. De Eamore, non essendo disponibile per il momento Una voce umana, è stato proiet­ tato solamente 11 miracolo.

Menon - Alcune parole, molto brevemente, a spiegare le ragioni per cui si è scel­ to di tenere questo seminario di dibattito cinematografico e di dedicarlo all’ope­ ra di Rossellini. I precedenti seminari hanno mostrato in molti di voi un livello di intelligenza critica e una disponibilità tali che può essere interessante verificare un lavoro di analisi in collettivo accostandosi all’opera di un solo autore. Questo per­ metterà un lavoro critico maggiormente approfondito ed eviterà la dispersione che non poteva non esserci quando, nello spazio di pochi giorni, siamo stati co­ stretti a esaminare film di autori diversi e anche molto distanti fra loro. Mi pare inoltre che esaminare l’opera di Roberto Rossellini possa consentirci di toccare molti temi di interesse politico e culturale generale, problemi che ri­ guardano senz’altro da vicino e non poco chi svolge attività politica all’interno del movimento operaio. Ci sono state e ci sono scelte e valutazioni che vanno verificate: l’opera di Ros­ sellini attivo nel cinema da oltre trentanni, dall’anteguerra agli attuali lavori per la televisione, è una delle questioni da verificare. Non mi sembra utile ora stare a dilungarmi su un problema che alcuni di voi ignorano e altri no, cioè sui rapporti fra la critica, principalmente italiana, e l’o­ pera di Rossellini. E preferibile, a mio avviso, che voi vediate i film con imme­ diatezza e ne discutiate liberamente, secondo quello che dicono a voi ora. Appunto questo vi si chiede: la massima libertà possibile (ed è l’unico “meto­ do” che mi pare accettabile in un seminario di questo genere) non tanto nei con­ fronti dei film quanto nei confronti di voi stessi e delle vostre reazioni e ai film e agli altri interventi. Sarà forse utile un’altra raccomandazione, visti i diversi livelli di conoscenza cinematografica e di abitudine alla discussione che ci sono in­ dubbiamente fra voi: siete vivamente pregati di non preoccuparvi minimamen­ te della terminologia che tanto spesso sembra indispensabile usare nei pubblici dibattiti, che riguardino cose cinematografiche o no. E soprattutto questo ma­ linteso senso di rispetto, non si sa bene per chi e per che cosa, che finisce col ren­ dere sterili, cose morte e inutili, e il dibattito e il film.

Nascimbeni — La prima impressione, banale, è su Roma città aperta", di questo film se ne potevano fare tre o quattro. Su una idea iniziale che era forse la storia



di una casa, di un isolato, è uscito un intreccio perfetto di storie, una massa straordinariamente coordinata di materiali. E un film così ricco che alla fine del primo tempo ci si chiede veramente cosa ancora può darci. Lo stesso discorso va­ le per Germania anno zero, con la differenza che la realizzazione deve essere sta­ ta molto più complessa visto che Rossellini non girava nel suo ambiente natura­ le; eppure mi sembra che abbia saputo cogliere in pieno lo spirito di un popolo che non è il suo. De 11 miracolo non so che dire: mi sem bra inferiore, forzato, forse si tratta di una evasione. Forti - Io Roma città aperta l’ho visto qui per la prima volta. La prima cosa che mi sono chiesto dopo averlo visto è se la parola, la definizione neorealismo, ab­ bia ancora un significato e come, per tanti anni, si sia potuto continuare a eludere l’accrescimento vitale che viene allo spettatore da film così, rifugiandosi in que­ sto o quell’altro degli “ismi” che sappiamo, tutti più o meno derivati dalla crisi del decadentismo e dall’idealismo, e che al massimo potevano andare bene per i Fellini e per i Visconti, sia del dopoguerra che di oggi. Perché usare per Rossellini il termine neorealismo, e confonderlo con tanti altri, mentre Rossellini da tutti gli altri si distacca per questo suo nuovo modo di ve­ dere la realtà senza mediazioni e interpolazioni di carattere culturale, ideologi­ co? Se lo si doveva etichettare tanto valeva parlare di simbolismo, se non altro per comodità. Le immagini di Rossellini non riconducono e non si possono ri­ condurre a una realtà dove poterle esaurire, perché questa realtà si dilata, cari­ candosi di infiniti significati. E per questo che noi possiamo fare, a livello per­ sonale, quest’opera di dilatazione critica: perché le immagini subiscono un pro­ cesso di arricchimento tale che, per esempio, la realtà è sì quella della Roma del 1944, ma contemporaneamente riporta di continuo alla realtà della condizione umana, alla forza della capacità di resistenza e di sopravvivenza degli uomini. Ecco, se dovessi usare anch’io una formula, ne userei una semplicissima e tale da poter contenere tutto un mondo: direi che il cinema di Rossellini è un atto di fe­ de e di amore e che la sua opera è tutta pervasa dalla sacralità della vita. Nannina, la pastora de 11 miracolo, è la vera purezza, l’innocenza forte, la capacità di vi­ vere panicamente a contatto con la natura, di partecipare a ciò che vi è di pri­ mario nella vita. E non è speranza astratta, questa di Rossellini, in un nuovo uomo starei per di­ re rousseauiano, ma ferma e convinta fiducia.

Zanichelli — In sala, durante la proiezione di Roma città aperta, le luci si sono ac­ cese varie volte per interruzioni dovute non so se allo stato della copia o alla po­ ca pratica del proiezionista. Devo dire che ogni volta ho avuto netta la sensazio­ ne che per me si sarebbe anche potuto cessare lì, tanto era già ricco e completo

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l’universo in cui ero penetrato. Avevo l’impressione di trovarmi davanti a un uo­ mo che di fronte alla complessità o alla terribile semplicità della vita aveva sapu­ to dire una parola ultima. Ma c’era anche qualcosa di più in molte delle immagi­ ni: quasi un’atmosfera di magia. Non so dire meglio, ma soprattutto ne 11 miracolo quel modo di accarezzare i visi, i paesaggi, mi ha immerso in un universo com­ piuto, misterioso, magico appunto, che poche volte ho ritrovato nel cinema. Per quanto riguarda 11 miracolo dipenderà anche, forse, dalla consonanza emoti­ va che c’era in quel momento fra l’autore e la protagonista, ma certo che la tona­ lità così vasta di rapporti, delle reazioni umane, il premere continuo di emozioni sotterranee, in una parola quello che mi sembra il mondo poetico e umano di Rossellini, raggiunge qui un suo culmine di vitalità. E difficile esprimersi, sono film che vanno meditati soli con se stessi, come centellinati lentamente, perché non riguardano soltanto una esperienza cinematografica ma costituiscono un pa­ trimonio didattico e conoscitivo che coinvolge pienamente la singola persona. E già stato detto dell’atto profondo di amore per la vita e per l’uomo che questi film rappresentano. Vorrei specificare che questo atto mi pare sia più emozio­ nante e commovente in Germania anno zero, perché un tema simile Rossellini ha avuto la forza e il coraggio di trattarlo con totale libertà nei confronti dell’uomo, e questo quando a prevalere era invece necessariamente l’odio.

Gentile — La prima cosa che bisogna dire è che Rossellini ha una grande forza di comunicazione: lo spettatore viene “preso” dal film, letteralmente, e non im­ porta se lo ha già visto o no, perché a questo livello non contano più i meccani­ smi narrativi ma la carica che il film ha e che viene dall’atteggiamento del regista verso la sua materia, non certo dall’approfondimento dei personaggi in senso psicologico. Questa è un’osservazione che mi pare essenziale, nel bene e nel ma­ le, perché al fondo del film e dell’atteggiamento dell’autore io ritrovo il senti­ mento. H che significa che, dopo il film, io devo pormi un problema: che sboc­ co ha tutto questo? A me sembra che Rossellini, preso com’è dal suo sentimentalismo, non sia con­ sapevole della maniera appunto sentimentale con cui affronta la realtà. E tutto questo porta all’individualismo. E significativo, in questo senso, che gli riescano meglio certi personaggi (in Roma città aperta il prete piuttosto che il comunista, per esempio). Il sospetto che nasce, in conclusione, è che l’intenzione di mettere il dito sulla piaga non individualisticamente rimanga alla fine appunto un’intenzione, perché si rimane o si ritorna all’ambito privato, all’individualismo. Prendiamo Germa­ nia anno zero: il film vuole essere evidentemente una denuncia, un atto di accu­ sa, l’individuazione di una piaga sociale; ma alla fine scatta il solito trabocchet­ to e si ha un’emozione senza l’approfondimento di un discorso. Anche perché la sicurezza che dava all’autore nei film precedenti il senso umano-religioso con

3,2 cui vede la vita e il mondo qui mi pare venga a mancare. Il dramma del protago­ nista diventa dramma personale, senza vie di uscita.

Velati- Vorrei tentare di riallacciarmi ad alcuni degli interventi precedenti, che trovo in gran parte esatti, per vedere se è possibile trovare nelle prime tre opere di Rossellini che abbiamo visto un comune denominatore. Mi pare innanzitutto che queste tre opere siano un ciclo concluso, una trilogia, se non altro per la tematica che le accomuna: la guerra, il fascismo, il nazismo, la liberazione, il dopoguerra. Una riflessione sul passato e sul presente condotta con atteggiamento di religiosità: vi si ritrova il Vittorini di Conversazione in Sici­ lia, la “coscienza del mondo offesa”. Ne troviamo conferma sia da un’analisi for­ male sia da quello che i personaggi direttamente dicono, con frasi tipo «abbia­ mo troppo peccato, ora bisogna pagare», ecc. Da questa “coscienza del mondo offesa” nasce la comunanza di interessi, la so­ stanziale identità fra il comunista, il prete, l’operaio, la popolana. I semplici co­ me quelli che non lo sono, che si muovano per fede o per convinzione ideologi­ ca, gli adulti come i bambini, hanno tutti chiaro quello che c’è da fare, il nemico comune da abbattere, che sono i tedeschi e i fascisti. Questo presuppone nell’autore un atteggiamento di tipo religioso, la coscienza di un equilibrio distrutto che va riscattato e pagato a prezzo di grandi sofferenze. La semplicità di questo schema in Germania anno zero comincia a incrinarsi, e mi sembra lo si possa ricavare da un’analisi formale: in questo film la macchina è sempre in movimento, come se l’autore non riuscisse a trovare parametri cui af­ fidarsi per giudicare. Per concludere, non mi pare che in questo schema che ho tentato di abbozzare si possa inserire in alcun modo l’episodio 11 miracolo, che è molto spostato ri­ spetto ai film precedenti. Due - Innanzitutto bisogna dire che la prima impressione è forte, violenta. Cer­ to, dipende non solo dall’autore ma anche dal vedere su uno schermo cose di cui si è tanto sentito parlare e dal rendersi conto con tanta immediatezza che so­ no cose esistite veramente. Detto questo, a proposito di cose sentite negli interventi precedenti vorrei che si approfondisse maggiormente il concetto di religiosità per quanto riguarda l’o­ pera di Rossellini. Io credo che sia il caso sì di parlarne, ma in maniera molto am­ pia, nel senso di una religiosità intesa come coscienza, come volontà di una profonda e non schematica presa di coscienza, sia politicamente che in senso più largamente umano. Prima qualcuno ha parlato di innocenza. Non vedo dove si possa trovare, questa innocenza, nei personaggi di Rossellini. Sono personaggi che vivono la loro vita e sanno perché la vivono: in loro c’è sì il senso della colpa ma anche della sua relatività, perché hanno il senso della storicità del loro vivere.

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In Germania anno zero si arriva a dire con chiarezza, esplicitamente, che la col­ pa è di tutti coloro che sono stati zitti, che hanno lasciato fare. E non è un atto di accusa esterno: la cosa che colpisce è la capacità dell’autore di cogliere il dram­ ma sia del singolo che della collettività, e del singolo nella collettività. La chia­ rezza è estrema, si sente nettamente che un popolo come quello tedesco, che ha permesso quello che ha permesso, non può che sentirsi ed essere così, proprio come ce lo mostra il film. E su tutto c’è la coscienza disperata dei bambini, cui Rossellini si affida. Benvenuti— Io ho conosciuto il cinema di Rossellini pochi mesi fa, vedendo Eu­ ropa ’51 [al seminario di Venezia]. Da allora in poi ogni volta che vedo un suo film rimango sconvolto. A tutti i livelli. E innanzitutto c’è un rapporto diretto, da uomo a uomo, io e lui. Poi viene lo straordinario fascino del modo in cui rac­ conta le cose, e il fascino, l’emozione, vengono proprio dall’apparente sciatteria, dal modo qualsiasi, “normale” di girare. Fermandomi stasera soltanto ad alcune prime impressioni, direi che la cosa che mi ha più toccato è quella prima bobina che abbiamo visto di Una voce umana, e spero molto che lo si possa vedere per intero. Mi pare che se per esempio in Germania anno zero o in Europa ’51 Rossellini mostra con grande chiarezza realtà politiche e sociali, in questo film vada molto più in profondità, perché scava al di sotto della realtà, scopre la complessità, la grande ambiguità della realtà e della vita. Un rapporto fra una donna e il filo del telefono diventa un rapporto col mondo. L’ambiguità, la verità anche nella menzogna. Vi ho ritrovato, confusamente, qualcosa de I visionari di Maurizio Ponzi [1968], sia per il tipo di analisi di un rapporto, sia per il movimento della macchina; e mi piace molto aver trovato vicini due autori che amo molto e che mi riguarda­ no particolarmente. Bianchi— Devo dire che Roma città aperta, che pure mi è molto piaciuto, mi ha fat­ to un po’ pensare all’eroe positivo. Ma poi, vedendo l’ultimo episodio di Paisà e so­ prattutto Germania anno zero, ho dovuto modificare questa prima impressione. Ora, Roma città aperta mi sembra un film “vecchio” rispetto a Germania anno ze­ ro, per tutta la serie di elementi che vi si ritrovano, di intreccio, riferibili ai mec­ canismi del cinema italiano d’anteguerra. Poi questi elementi non ci sono più. E anche la fotografia, prima fortemente effettata, in Germania anno zero è pulita. E il discorso diventa più limpido e più profondo. Il modo in cui Rossellini si accosta alla realtà è assolutamente non retorico. La realtà è presentata in maniera semplice, quasi banale; al tempo stesso si sente la precisione delle idee che stanno dietro a quella rappresentazione. Ma la preci­ sione di idee e scelte non significa mai, almeno nei film visti finora, schematismo o settarismo.

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Un cinema libero, ma di grande lucidità e chiarezza, che induce lo spettatore a un rapporto straordinario, di libertà, con il film. Per concludere, non mi pare che ci sia alcun contrasto o contraddizione fra Uti­ more e gli altri film visti: a Rossellini interessa la realtà, l’uomo, 1’umanità a tut­ to tondo e non una sua parte soltanto. Per questo non c’è contraddizione fra il bambino omicida e suicida nella Berlino postbellica, la pastora del Salernitano e Anna Magnani al telefono in una pièce di Jean Cocteau. Metani- La prima lezione che si ha dal cinema di Rossellini è quella di saper ve­ dere con libertà, partendo da zero ma dal presente, liberandosi di tutto ma sen­ za voler tornare indietro di vent’anni. Io mi sono messo davanti a questi film pensando che era giusto vederli dal nostro punto di vista di oggi, nella nostra si­ tuazione, non tanto politica quanto cinematografica. Per esempio, Rossellini, che è stato tanto importante per la “nouvelle vague”, può esserlo oggi nei confronti dell’underground? E devo dire che ho visto Roma città aperta con questo spirito, cercando di capi­ re se e quanto fosse un film underground. In questa direzione posso dire di aver ritrovato moltissimi elementi, e la cosa mi è stata confermata oggi dalla visione dell’ultimo episodio di Paisà (che trovo sconvolgente proprio sul piano della percezione: non so quanto dipenda dalla mia ignoranza dell’inglese ma è certo che l’ho visto esattamente come Truffaut dice di aver visto il cinema da bambi­ no, come seguito di immagini, e questo per me è molto importante), de II mira­ colo e di Germania anno zero. Ora cerco di spiegarmi meglio: Rossellini non è underground superficialmente come mi aspettavo e cercavo, nelle ombre e nelle luci, magari nei graffi del tem­ po sulla pellicola, ma per qualcosa di profondo che è poi l’essenza e il significa­ to del cinema underground, cioè nel concepire e fare un cinema che è una con­ tinua sfida allo spettatore. Pensate aU’ultimo quarto d’ora di Germania anno zero, ma in generale a tutto il film. O ci si compromette totalmente oppure lo si deve rifiutare. Così o io accet­ to di andare con tutto me stesso al miracolo di Narmina, e allora ne ricavo una ten­ sione che mi serve, oppure lo rifiuto e non succede niente, ma è peggio per me. La reazione dello spettatore, insomma, dipende dalla sua volontà e disponibilità a compromettersi totalmente con le cose che ha di fronte. In un caso Narmina e il suo miracolo, nell’altro Edmund e il suo gesto. Come i migliori dell’underground, Rossellini vede liberamente la realtà e riesce a mettere le persone in una complessa situazione che è di estraniazione e che non lo è, in una situazione di libertà nella scelta se accettare oppure no quello che viene loro proposto. Lo spettatore è libero di accettare o di rifiutare, assumen­ dosene la responsabilità, di vedere sconvolte le proprie abitudini mentali, di ve­ der mutato il proprio modo di vedere le cose, la propria visione del mondo.

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lanette — Dico soltanto che a me di Rossellini non me ne frega niente, perché il suo cinema è un cinema di citazione della realtà, non un discorso sulla realtà. Mi interessa soltanto II miracolo, ma è un fatto strettamente privato.

Casadei — Roma città aperta e Paisà mi sono sembrati molto belli, Germania an­ no zero invece no. Nei primi due film si fa scattare nel pubblico l’odio verso il na­ zifascismo, mentre invece nel terzo no, forse perché la figura del bambino non è vista in maniera giusta. Verrini— Il film che mi ha aiutato a capire anche gli altri è Paisà. In questo senso: Paisà ha un filo conduttore, il viaggio delle forze di liberazione da sud a nord, cioè esiste un preciso avvenimento storico che fa da struttura al film. A Rossellini sembra però che non importi tanto la storia con la S maiuscola, il fat­ to macroscopico, quanto i piccoli fatti che vi si accompagnano. Rossellini non guarda la storia come uno storico o un politico ma come un regista-uomo che si interroga sul mondo e sui fatti della vita. Mi pare poi che questo sia l’atteggia­ mento più corretto, perché limitandosi a una registrazione della storia Rosselli­ ni ce ne restituisce la complessità e l’ambiguità. E il caso infatti di parlare di am­ biguità non per l’atteggiamento dell’autore ma per la materia che egli affronta. I personaggi che gli interessano sono ambigui perché sono quello che sono, e non per le loro ideologie: sarebbe sbagliato contrapporre in Roma città aperta il prete al comunista, innanzitutto perché significherebbe escludere gli altri per­ sonaggi, ugualmente necessari, e poi perché Rossellini non prende affatto parti­ to per l’uno o per l’altro, e non per le loro ideologie. Rossellini è interamente obiettivo, perché è fedele alla materia che tratta. Così l’ambiguità si traduce in obiettività nei confronti della storia. Detto questo va anche detto che, tutto sommato, Rossellini non può non dare una risposta a questa materia, ed è una risposta che direi utopica, nel senso che ri­ manda a qualcosa di diverso, di possibile nel futuro. Sono i bambini di Roma città aperta, il bambino nel ventre di Anna Magnani ne II miracolo. Come dire che il rinnovamento non riguarda l’autore ma quelli che verranno, e lo spettatore. Questo ci viene confermato da Germania anno zero dove tutte le soluzioni vengo­ no rimandate, scartate, bloccate, perché improponibili: rinunciare alle soluzioni si­ gnifica coinvolgere lo spettatore. Mi pare che la complessità e l’ambiguità di Ros­ sellini vengano confermate dal suo atteggiamento nei confronti dei “generi”. Ro­ ma città aperta e Paisà passano continuamente dalla tragedia alla commedia e Germania anno zero mi pare un film comico, nel senso che ha tutti i meccanismi del film comico. La situazione di Edmund, tot almente paradossale, fa venire in men­ te Ridolini, Buster Keaton, tutti i personaggi inadatti a vivere nel mondo in cui so­ no costretti a vivere. E poi il meccanismo della topica: il personaggio si sposta in continuità, però si trova sempre allo stesso punto, quello di partenza.

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Ora, questo fatto dell’ambiguità nei confronti dei generi, per cui Germania an­ no zero, tragico crepuscolo degli dei, risulta un film comico, mi pare ancora più evidente ne Eamore. Si tratterà di vedere l’evoluzione di questo atteggiamento negli altri film, soprattutto sul piano delle scelte di linguaggio.

Rossi- A me finora di Rossellini ha colpito molto il modo in cui la disponibilità umana dell’uomo si concreta nella estrema duttilità stilistica: Rossellini è capa­ ce di alternare senza squilibrio alcuno isole di armonia a momenti di estrema concitazione. Pensate al primo episodio di Paisà, quello siciliano, con il lun­ ghissimo piano-sequenza fisso che stacca solo con la morte e vive finché dura la vita e l’umanità del soldato americano. E pensate d’altra parte al primo quarto d’ora di Germania anno zero, un vero e proprio concentrato di situazioni, un vortice di personaggi che entrano in campo e si confessano semplicemente con il loro comportamento nei confronti degli altri. Badiani-Qualcuno ha creduto di trovare delle fratture all’interno dei film sino­ ra visti. Non mi pare proprio: se vi sono fratture e squilibri sono quelli di un uo­ mo vivo, di sangue e carne, che si nega come uomo di cultura. La religiosità, per esempio, è sì una delle linee essenziali, ma va intesa come fat­ to interno che trasporta ed esalta l’individuo, come misticismo attivo. Il prete di Roma città aperta ci appare molto più come uomo della resistenza che come pastore di anime. In Paisà, nell’episodio dei frati nel convento sull’Appennino, Rossellini è senza dubbio dalla parte dei tre cappellani militari, ma sic­ come si trova a contatto, anche lui come loro, con un altro mondo, lo rispetta e ne apprende qualcosa. In Germania anno zero non c’è niente cui aggrapparsi: tanto che di religioso non c’è che il “Largo” di Haendel suonato dall’organo nella chiesa scoperchiata. Quello che ho chiamato misticismo attivo è un elemento che esploderà in Euro­ pa ’51, ma già col personaggio di Nannina, la scema di paese de 11 miracolo, pos­ siamo chiarire meglio il termine. Significa scoperta di sé, costruzione e scoperta di sé, difesa di sé, come creatura umana e come donna. E contro la religione ester­ na degli altri, che è anche un diverso modo di vivere. Allora il misticismo diven­ ta eros, tensione all’assoluto, alla totalità, alla completezza, rapporto con Dio che vuol dire senso e conoscenza del mondo e di se stessi nel mondo. Lo sguardo che alla fine Nannina rivolge al figlio che ha partorito è lo sguardo di una donna com­ pleta, liberata. Per finire, un’osservazione: in Rossellini l’amore è sempre un fatto naturale, e tutto ciò che se ne stacca è perverso. In Roma città aperta e in Germania anno ze­ ro l’omosessualità è fascismo, nazismo. Dopotutto è una tesi molto seria, sul pia­ no politico. Si pensi alle teorie di Reich sulla società sessuorepressiva che porta alla distorsione sessuale, al sadismo, al fascismo.

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Carlini — Mi pare che finora sia prevalsa la tendenza a ricercare soprattutto il messaggio. Questo è un fatto negativo, perché significa sempre escludere qual­ cosa, limitare l’opera e limitare se stessi. Non è un caso, appunto, che si sia par­ lato tanto dei tre film diciamo così di guerra e quasi niente de 11 miracolo. Infat­ ti un’analisi contenutistica, a livello esclusivamente del messaggio da ricercare, per i primi tre è relativamente facile, perché sono l’analisi urgente di una realtà politica immediata, con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Ne II miracolo questo non c’è, c’è invece una grande, difficile ambiguità, perché Nannina è una santa, una pazza, una scema, una che ha capito la realtà fino in fondo, una viva fra morti, e forse il figlio di Nannina è quello che farà la rivoluzione. Io sono convinto che questo film ha turbato assai più degli altri ed è per questo che non se ne parla, che lo si trascura. Un atteggiamento questo, secondo me, antistorico, perché la storia è contrad­ dittoria e ambigua, mai riduttiva, mai “comoda”. Per finire, se nei primi film ci colpisce l’umanità e l’apertura di Rossellini uomo e cineasta, ne II miracolo c’è già tutto il cinema moderno: i rapporti interni, gli spazi, gli oggetti. Se vi cerchiamo solo il messaggio ci castriamo. Ungari — Ricordo che la prima volta che ho visto un film di Rossellini ho prova­ to una sensazione sgradevole. Stasera, negli interventi, pensavo di ritrovare la stessa sensazione. Invece non è stato così. Alludo ai rapporti, visti oggi, fra Ros­ sellini e il neorealismo. Ma la cosa è più complessa e credo che non sia tempo perso soffermarsi un momento su questo problema. Abituati come siamo a con­ siderare almeno i primi film di Rossellini come film neorealistici, quando poi ci troviamo davanti le opere e le guardiamo con libertà ci accorgiamo che hanno ben poco da spartire e col neorealismo e con il nostro modo di concepirlo. Neo­ realismo significa una volontà abbastanza precisa di ridarci le cose nel loro aspet­ to più ovvio, più esterno, più appariscente. In Rossellini questo non accade. Ora, mi pare che alcuni di noi, davanti ad cinema di Rossellini, cinema molto umano che ci coinvolge visceralmente prima che razionalmente, tentino di tro­ vargli delle giustificazioni. Mi pare che si equivochi il discorso che l’autore fa, e anziché chiarire l’equivoco lo si giustifichi. Mentre il primo ottimo motivo per es­ sere, se vogliamo, crudeli con Rossellini è il fatto che Rossellini è estremamente crudele con i suoi personaggi; tutta la pietà che egli prova per essi è la conse­ guenza della estrema crudeltà e lucidità dell’occhio della sua macchina da pre­ sa. Anzi, meglio, la crudeltà della macchina è la condizione per provare e tra­ smettere la pietà. Specialmente in Germania anno zero Rossellini non ha nessun pudore; non c’è un momento in cui la sua macchina si giri verso un cantuccio, non ci viene risparmiato niente. Questa è la profonda lezione di Rossellini al ci­ nema moderno: la camera implacabile. Penso a Vivre sa vie, alla macchina che non abbandona mai i personaggi, la macchina in diretto contatto con la loro vi­

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ta, anche quando sembrerebbe pietoso lasciarli stare, perché stanno attraversan­ do vicende sconvolgenti, conturbanti.. Ora, mentre Rossellini è completamente disinteressato all’aspetto ovvio, super­ ficiale delle cose, nei suoi film noi ci troviamo di fronte a personaggi apparente­ mente molto tradizionali, convenzionali, dai rapporti convenzionali. Un prete è un prete, un comunista è un comunist a. A questo punto mi pare che una risposta a questa serie di problemi sia stata già data da Paolo Benvenuti quando accenna­ va al pezzo che abbiamo visto di Una voce umana. Rossellini è lontano dal neorealismo perché i suoi film vanno oltre l’aspetto ovvio della realtà proprio quando sono apparentemente sciatti, perché sono il prodotto di una volontà di centrare l’attenzione sull’essenziale attraverso la spietatezza del­ la macchina. Un’osservazione su Germania anno zero-, dal punto di vista politico, della collocazione, sembrerebbe non essere troppo diverso da altri prodotti “cri­ tici” del cinema e della letteratura borghese; la letteratura (tedesca eno) èpiena di personaggi che si caricano sulle spalle il peso e la responsabilità delle colpe di un’in­ tera nazione, di un popolo, e pagano di persona. La cosa scandalosa in Rossellini è che chi paga non è un uomo maturato attraverso una serie di esperienze indivi­ duali e collettive ma che il suicidio dell a Germania è il suicidio di un bambino. A questo punto possiamo cominciare a capire perché in Rossellini la coscienza è privilegio dei bambini, dei santi, dei pazzi, dei folli. Perché sono personaggi che, a differenza di noi spettatori, non si fermano alla superficie della realtà, schiavi dei propri pregiudizi, degli schematismi, delle incrostazioni ideologiche, ma vanno oltre e vedono se stessi e le cose in una nuova dimensione, più vera e profonda. Ecco che, capito questo, non ci infastidiscono più né certi aspetti superficial­ mente tradizionali né tantomeno il cosiddetto misticismo di Rossellini, che va inteso come superamento di un freddo, limitante, arido razionalismo: il mistici­ smo di Nannina, di Edmund, della Irene di Europa ’51.

Garre - Mi sembra importante questo studio su Rossellini oggi. Teniamo pre­ sente, per esempio, che Roma città aperta è sempre stato dato come film cele­ brativo della resistenza e come tale visto: è utile oggi vederlo e analizzarlo come opera cinematografica, la prima matura di un maestro. Dopo il ciclo, come è stato chiamato., dei primi tre film, viene 11 miracolo, ed è una evoluzione. Ma in che misura, in r ealtà, il film è una preparazione de La stra­ da e del mondo poetico di Fellini? Se è il caso di parlare di neorealismo, in che misura questo film segna il passaggio da un neorealismo di massa corale a un neorealismo più attento ai problemi dell’individuo? Roma città aperta è un film del CLN, Paisà è il film della violenza, sugli italiani vittime, e dei tedeschi e dei “li­ beratori” . Germania anno zero è già un’altra cosa, e devo dire che non me la sen­ to di condividerlo ideologicamente (tra l’altro la storia tedesca di questi ultimi venti anni dà torto all’analisi di Rossellini). Ma devo dire anche che la sempli-

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cita, l’essenzialità delle immagini è impressionante. Ancora più diverso è II mi­ racolo, un film di una modernità sconvolgente: l’esistenzialismo cristiano qui ri­ colloca nella massa l’individuo e le sue necessità. Discorsi più seri e approfonditi potrebbero essere fatti dopo aver visto altri film, soprattutto quelli del Rosselli­ ni “di mezzo”, che io ignoro completamente. Beretta - E possibile un intervento a livello di “impressione pura” ? E se è possi­ bile, è valido? Io finora più che delle impressioni soggettive ho sentito delle con­ fessioni culturali, e all’inizio interventi basati su uno sconvolgimento a livello in­ dividuale, che tra l’altro non so quanto sia sincero. Le mie ovviamente non possono essere impressioni ma osservazioni, ovvia­ mente ben poco meditate, che provengono sì dalla visione dei film ma anche dalle mie conoscenze culturali, dalle cose lette, ecc. Per cui tutta la questione del come Rossellini si pone di fronte alla realtà mi pare che sarebbe stata facil­ mente risolta dando magari lettura di alcuni vecchi numeri dei «Cahiers du Cinema» con le interviste a Rossellini, quando dice che lui fa muovere i perso­ naggi davanti alla macchina da presa e se ne frega di molte cose, quando dice che è d’accordo con Balzac, che i fatti non vanno giudicati ma semplicemente esposti. Ora, per quanto riguarda Roma città aperta un tempo mi piaceva, questa volta non mi è piaciuto; Paisà nemmeno, tranne; forse l’ultimo episodio che mi ha col­ pito per il contrasto con il resto del film per quanto riguarda l’elemento luce, fo­ tografia, paesaggio; Germania anno zero colpisce ancor oggi per questa figura strana di bambino, per essere stato girato allora, in mezzo alle macerie, ma non mi pare ci sia nel film un’analisi vera e proria, seria; Il miracolo, poi, per me al­ meno, non ha alcun significato (un film così non sarei mai andato a vederlo, e se mi fosse capitato mi sarei addormentato al cinema); Una voce umana è interes­ sante per l’elemento sonoro, la presa diretta, ecc., ma per il resto ricordiamoci che il testo è di Jean Cocteau. E anche negli altri film sino a che punto è contata la sceneggiatura? Molti hanno parlato quasi esclusivamente di personaggi, e i personaggi sono un fatto di sceneggiatura. Il mio è un intervento negativo ma anche interrogativo: vorrei che certe idee mi si aiutasse a chiarirle, magari da un punto di vista più strettamente cinematografico.

Mansueto — Il fattore storico, in questi film, va ridimensionato, è puramente ca­ suale, dipende esclusivamente dal momento in cui sono stati fatti. L’azione partigiana, per esempio, non è certo trattata con serietà, e non è nemmeno sfiorato un tentativo di analisi. Si è parlato di umanità, di religiosità, di amore. Per me non ce n’è affatto. Baste­ rebbe la breve sequenza dell’ultimo episodio di Paisà, in cui si vede il bambino che piange fra i morti e i soldati alleati che lo vedono e basta, cioè non lo soc­

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corrono, se ne disinteressano completamente, e si passa a un’altra scena. Per il momento basta: tutto sommato un’impressione abbastanza negativa.

Sechi — Di fronte a qualsiasi opera d’arte la posizione che assumo è quella di co­ gliere i problemi che l’opera pone a me, non tanto a livello estetico quanto a li­ vello umano, per capire di più di me, per fare un passo avanti. Devo dire che di problemi me ne ha posti molti la visione di queste prime ope­ re. Mi ha colpito lo stato di questa umanità appena uscita dalla reificazione to­ tale, mi ha colpito il senso della collettività di Paisà, dove c’è un popolo intero eletto a protagonista. Mi pare che, come in Pavese (Il miracolo può forse essere accostato a Paesi tuoi} e in Vittorini, ci sia in Rossellini la lotta contro la storia. Ma forse in Rossellini sussiste quello che è stato l’errore della resistenza: manca, nella tensione verso il futuro, la chiarezza.

Rosati -Parlare, per Rossellini, di semplicità, di umanità, di amore ecc. mi sembra che sia poco: c’è dell’altro, che ho scoperto oggi vedendo Germania anno zero. Ungari prima giustamente parlava di crudeltà dell’obbiettivo, ma c’è qualcosa di più. C’è in Roma città aperta una scena che lì per lì ho trovato “strana” : quando i bam­ bini provocano l’esplosione, gli stessi bambini cui nel finale è affidatala doloro­ sa speranza di Rossellini. In quella scena quegli stessi bambini sono dei mostri, dei superuomini. La “stranezza” della scena mi si è chiarita vedendo Germania anno zero, questo film tutto “strano”, così difficile da definire, questa tragedia che poi rigorosamente si può definire, come ha fatto Ferrini, “film comico”. In Germania anno zero infatti la “mostruosità” aumenta. Il film comincia su un pae­ saggio marziano da cui esce un personaggio marziano, un ragazzo che è l’ultimo soldato del Terzo Reich, l’unico a non piegarsi. Si muove in maniera strana, di­ versa, ma non perché è tedesco, teutonico, perché è già “vecchio”, ma perché è il ragazzo del futuro, di un altro mondo, il ragazzo di domani che non è ancora nato o che questo mondo non è pronto a ricevere. L’ambiguità è estrema: Edmund è il simbolo della Germania che è finita, di qual­ cosa di orribile che muore, ma è anche qualcosa di sublime che Rossellini spera, vuole, di cui ha nostalgia. L’anno zero non è l’inizio del film ma la fine, quando Edmund è spiaccicato a terra e passa un tram. Ed è un anno zero che riguarda noi come gli altri personaggi del film, che poi siamo noi. Gente tornata semplice, che svolge azioni quotidiane, gente che ha fatto e perduto una guerra e ora cer­ ca di vivere come può, di tirare avanti con i mille problemi di ogni giorno. Ed­ mund no, lui ha altri problemi. Alla fine del film la Germania è tornata alla normalità: quello che doveva nasce­ re si è ucciso.

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Apra — Farò osservazioni estremamente sconnesse fra loro, prendendo spunto da varie cose prese dai singoli interventi, e sperando che queste mie osservazioni servano come stimolo ad altri successivi interventi. Dico questo perché ho l’im­ pressione che ci sia una sorta di reticenza in quasi tutti a entrare nel profondo dei film. Non so da che cosa dipenda: pudore, paura, impotenza nei confronti dei film che non so se dipenda dai singoli individui o dalla forza di impatto che i film hanno, per cui si resta come intontiti, tanto che si preferisce rifugiarsi, attaccar­ si alle cose che già conosciamo piuttosto che arrischiarsi a scoprire cose che non conosciamo. Mi pare insomma che si stia girando intorno alle cose. Detto que­ sto passo alle sconnesse osservazioni che dicevo. Nascimbeni diceva che Roma città aperta è la storia di una casa. Improvvisa­ mente mi è venuto da pensare che l’opera di Rossellini si può raffigurare come un razzo che parte da terra per arrivare non si sa dove, e a ogni stadio fa un film. Effettivamente Roma città aperta è un film fatto sulla terra, un film su un isolato o, più che su una città, su un quartiere. Un film a livello di venti metri di altezza. Paisà è un film su un paese, ma mi domando se non sia più un film su delle re­ gioni di un paese. Germania anno zero, anche se si svolge tutto in una città, è de­ cisamente il film su un paese. L’amore, che si svolge in un paesino e in una ca­ mera da letto, è un film con un punto di vista più alto. Stromboli, che vedremo domani, è un film stellare. Viaggio in Italia è un film cosmico, come una cometa. E così via. C’è in Rossellini una tensione costante in avanti, e all’interno di ogni fermata-stadio del razzo c’è una tensione totale, in cui non si vede un solo setto­ re ma l’intera circonferenza di un cerchio, col raggio che via via aumenta. Ma ora è inutile stare a verificare meccanicamente questa idea che mi è venuta, è solo uno schema possibile. Un argomento che mi sta a cuore è quello dei rapporti fra Rossellini e il neorea­ lismo. Più vado avanti e più mi convinco che o si riconosce che Rossellini è sta­ to l’unico autore neorealista, e allora bisogna ridefinire il termine, oppure che Rossellini non è stato mai neorealista e che lo sono stati tutti gli altri, ma allora il termine va usato in senso negativo, spregiativo. Cioè: De Sica, che è un signore che si contentava di guardare la realtà così com’è, è un autore neorealista, e allora Rossellini, che non si è mai accontentato di guar­ dare la realtà così com’è, non è un autore neorealista. Oppure neorealismo significa il superamento della visione delle cose così come stanno e allora Rossellini è neorealista e De Sica un volgare naturalista o qualcosa del genere. Basta guardare i film senza paraocchi e appare chiaro che quelle che do­ vrebbero essere le costanti del neorealismo (guardare la realtà in modo che fra l’obbiettivo e la “naturalezza” delle cose ci sia il minor numero possibile di diaframmi) in Rossellini non esistono affatto, e che la sua “naturalezza” è tutt’altra cosa. Roma città aperta, per esempio: sempre più mi confermo che tra le matrici fon­ damentali di questo film c’è la commedia dell’arte.

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La commedia dell’arte è un genere basato sull’improvvisazione: si parte da un ca­ novaccio, da una situazione nota a tutti, e ci si serve di essa per muovere in di­ verse direzioni, costanti, nate dall’humus popolare. Le costanti però sono defor­ mate, sono maschere. La caratteristica delle maschere è di essere estremamente semplici, banali a livello di contenuti psicologici, costanti nel comportamento e quindi prevedibili, riconoscibili. Questa fissità permette loro però di essere dei nuclei totali, dei punti fermi. Ora, in Roma città aperta non corriamo che relativamente il rischio di immede­ simarci nella vicenda o nell’epoca, perché non l’abbiamo vissuta e ne abbiamo solo ricordi riflessi, e le reazioni che abbiamo sono reazioni emotive, sì, ma di ti­ po ideologico, non diretto. Possiamo quindi vedere il film per quello che è: strut­ turalmente una favola, che rimanda a una realtà tragica con la puntualità della cronaca su fatti appena accaduti. Il prete buono che è sempre buono (sempre prevedibile, costantemente, come tutto il film, mentre i personaggi del cinema moderno sono contraddittori e im­ prevedibili); il comunista serio; la popolana generosa; l’ufficiale nazista sadico che è costantemente cattivo; la donna perversa; la donna debole e vittima, ecc. Il canovaccio da commedia dell’arte è Roma occupata dai nazisti: su questo ca­ novaccio, con le maschere, Rossellini improvvisa la sua commedia dell’arte. Niente di meno neorealistico, o di più se per esempio identifichiamo nel neorea­ lismo il tentativo di estrarre l’humus più profondo della cultura popolare italiana. Ora, una delle cose geniali che io trovo in Rossellini è di cambiare ogni volta e di fare film diversissimi l’uno dall’altro. Questa totalità, che è la sua caratteristica, si realizza di volta in volta in film totali e (totalmente) diversi: il tramite è la sua persona. Non come Hitchcock, o Bresson, autori di un solo film che di volta in volta viene perfezionato, nella ripetizione ossessiva di un punto di vista unico, nevrotico, malato, sul mondo. Rossellini è uno che guarda la realtà con la voglia di cambiare punto di vista ogni volta . Già Paisà non è più la stessa cosa, il per­ sonaggio “unico” diventa un ambiente unico, anzi sei ambienti unici. Non più Pulcinella ma Napoli. Questa struttura viene a sua volta negata e superata in Germania anno zero, do­ ve da una parte abbiamo una realtà nota, riconoscibile, una quotidianità, una serie di gesti nostri, e cioè la famiglia, l’ambiente, gli incontri, la città; dall’altra abbiamo una freccia, Edmund. Edmund è completamente “autre”, diverso; non ha più nulla a che vedere con l’atteggiamento cosiddetto realistico di rispetto della realtà intesa come già noto, ma è un personaggio assolutamente folle, che ha settantanni ma anche meno settan ta, che è un marziano come diceva Rosati, che è come il bambino di 2001: Odissea nello spazio, con gli occhi aperti già nel ventre della madre. Edmund ha capito tutto, gli occhi aperti sulla realtà, e si esprime solo cammi­ nando, muovendosi. In una Germania all’anno zero Edmund è un bambino che

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ha duemila e un anno: forse non è casuale che si possano fare certi giochi di pa­ role. Ancora su Germania anno zero. Sappiamo tutti che il cinema tedesco più tipico è il cinema espressionista; ebbene, a me Germania anno zero è sempre sembra­ to un film espressionista, cioè un film in cui la realtà è sconvolta a livello lumini stico. E qui contraddico Bianchi per quanto diceva su una pretesa fotografia li­ neare di questo film: ma se è una fotografia continuamente alla ricerca di effet­ ti, una luce senza sfumature, senza atmosfera, irreale, che fa appunto di Berlino la Luna o Marte! Un mondo senza pietà e senza mezze misure. I rapporti tra Edmund e la realtà mi pare si possano trovare nella luce. Edmund attraversa la strada e noi vediamo il buio dell’ombra dei palazzi distrutti tagliato da macchie bianchissime che non sappiamo spiegarci, e che ci inquieta rimandandoci ad altro, oltre il semplice fatto di un attraversamento di strada. L’improvvisa luce del forno, dal basso, nella notte: un inferno. Luce asfittica, crepuscolare, indefinibile (come in Vampyr) quando Edmund si allontana dopo aver ucciso il padre: c’è Edmund e la fontana; e i movimenti di Edmund sono seguiti con movimenti di macchina da musical, liberissimi, asso­ lutamente antinaturalistici. Edmund arriva al portone, è buio, notte; entra, accende la luce, sale le scale, si siede sullo scalino, mette le mani sulla faccia, la luce si spegne: se volete, la deci­ sione del suicidio viene da quella luce che si spegne. Lui ha un sobbalzo, la riac­ cende, e se ne va. E una decisione di vita e di morte dovuta a un fatto luministico, come in Stern­ berg. Edmund esce nella notte, e sul portone c’è una luce incredibile, da faro da 5000 messo lì apposta. Ma questo è un film di f antascienza che rompe completamen­ te con la realtà, sicché non c’è alcuna necessità di verosimiglianza, alcun obbligo di seguire una ipotetica consequenzialità narrativa, psicologica o luministica. La sonata d’organo per esempio: in una passeggiata in cui la macchina segue so­ lo Edmund senza alcun riferimento esterno, a un certo punto si inquadra la chie­ sa scoperchiata, solo quella, come una zeppa messa lì apposta, e l’effetto è asso­ lutamente irrealistico perché la continuità è contraddetta e complicata da que­ sto unico elemento estraneo. La stessa cosa accade per la prima visione della chiesa sul monte all’inizio de 11 miracolo', una forzatura abusiva della continuità spaziale. Così come la visione delle baracche nella Napoli di Paisà, che non è una sogget­ tiva del negro che guarda e vede, ma sono due universi distinti che si incontrano e si mettono a confronto. Allora scatta la molla e nel negro e nello spettatore, e si vede la faccia stupita del bambino. Tutto questo per dire che Rossellini, forzando la continuità realistica, spazio­ temporale, non si affida all’immagine ma all’idea che sta dietro l’immagine: vuo­

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le che noi si creda all’idea e non all’irnmagine; l’idea non ha un percorso reali­ stico, ma segue altri percorsi. E questo implica che, per esempio, la chiesa de II miracolo potrebbe essere un desiderio, un sogno, un’aspirazione che si realizza, diventa vera, si attua alla fine del film. Velati ha fatto un’osservazione che trovo molto acuta, anche se non del tutto chiara: Roma città aperta e Paisà sono film di un individuo che si mette davanti alla realtà con la convinzione che alla realtà preesista un’armonia che i film non fanno che ricercare. In questo caso un’armonia storico-sociale che va stabilita attraverso la resistenza. C’è una fiducia preesistente, e forse per questo si tratta di due messinscene, limitate rispetto ai film successivi. In questi due film esistono tante strade, che sono altrettante rappresentazioni di una realtà varia: la strada di Anna Magnani, la strada del prete, la strada del­ l’operaio, la strada dell’intellettuale comunista, ecc. Improvvisamente, in Germania anno zero Rossellini è come se perdesse la fede: le tante strade non esistono più. Questo c’è già nell’ultimo episodio di Paisà, che, a prescindere dalle parole finali, potrebbe anche essere un film disperato e basta, su gente braccata che tenta tut­ te le strade ma alla fine perde, e tutto precipita nell’acqua, nel nulla. Con Germania anno zero Rossellini fa tabula rasa, elimina tutte le possibilità. Diceva poco fa Rossi che nei primi minuti del film ci sono tante storie (altret­ tanti film), in una concentrazione, con un ritmo forsennato e ansioso che ha del­ l’incredibile e che ci mette a disagio. E quasi un riassunto dei film precedenti: personaggi, storie, “strade” vengono mostrati ed eliminati subito, la polivalen­ za di soluzioni e di sviluppi viene cancellata, e si crea il vuoto che man mano che il film procede diventa assoluto. Vengono eliminate tutte le strade, tutte le vie di uscita “normale” da quell’universo. A questo punto, diceva Ferrini, se tutte le strade sono chiuse è anche vero che tut­ te le strade sono aperte: mentre Roma città aperta e Paisà offrivano una strada di uscita esclusivamente “storica” (la resistenza, la lotta armata, l’impegno), in Ger­ mania anno zero Rossellini afferma la molteplicità e la complementarità delle stra­ de passibili di realizzazione, di “uscita”. Le strade sono tante, tutte, infinite. Se è vero questo, e che Edmund col suo suicidio ci apre il mondo, a me dà da pensare che la speranza, il futuro, vengano da un personaggio obiettivamente fascista, o almeno il cui comportamento è fascista. Questo mi inquieta molto, è una contraddizione, si scontra con tutto il nostro modo di pensare. Ma a parte questo, su cui torneremo senz’altro più tardi, di­ cevo che Roma città aperta è la messinscena di una realtà che ha dietro un’ar­ monia preesistente e che Germania anno zero invece è il film della distruzione totale, in cui il futuro viene solo da questa identità: se tutte le strade sono chiu­ se allora anche tutte le strade sono aperte. E forse la stessa cosa vale anche per Una voce umana, un altro film in cui tutte le

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strade sono eliminate, anche quella esclusivamente vocale, il telefono. Il finale è come un suicidio. E con II miracolo che una via di uscita comincia a delinearsi: il bambino che sta nel ventre di Nannina, e che - diceva qualcuno - sarà forse quello che farà la rivoluzione. Se non altro perché non avrà padri da uccidere, morti da seppellire. Strutturalmente, ne II miracolo abbiamo una costruzione molto chiara, anche geograficamente: dall’alto si scende al basso per poi risalire verso l’alto. In alto Nannina ha un’esperienza di cui sbaglia totalmente la presa di coscienza, scambiando un’esperienza erotica per un’esperienza mistica; poi scende al bas­ so, la verifica con il quotidiano, il dato (così come Edmund verificava se stesso e la propria intransigenza con la città di Berlino), viene in parte ingannata e fino a un certo punto ci sta, poi si ribella; quindi risale verso l’alto e l’esperienza misti­ ca si trasforma in un’esperienza reale, che lei possiede. L’unico miracolo del film èia presa di coscienza della realtà, il “salto” dall’alienazione alla sanità. Stringe il mondo, Nannina, riconosce sé nella realtà, riconosce per sua la propria carne: l’esperienza se vuole essere totale deve passare all’interno di sé e non all’esterno come accadeva in Roma città aperta o in Paisà. Non mi pare che questo sia individualismo, come diceva Gentile, ma semplicemente necessità di affermare con chiarezza che passare attraverso se stessi è un obbligo. Questa però non è un’indicazione unica: Rossellini è un uomo complesso e le classificazioni fanno comodo solo a noi. In altri film l’indicazione sarà diversa, anche esterna. Un’osservazione a proposito di quanto diceva Benvenuti sull’ambiguità, rife­ rendosi anche al recente film di Ponzi, I visionari, che è un film sul rapporto tea­ tro-vita, realtà-finzione. Ora, se pensate che Rossellini ha fatto un film come La macchina ammazzacattivi, una commedia che comincia in palcoscenico con le maschere e continua nella realtà dove viene verificata e poi la realtà rimanda al teatro e si ritorna sul palcoscenico; se pensate che per lungo tempo Rossellini ha progettato un film su Pulcinella, dire che \Jna voce umana è un film sul rappor­ to finzione-realtà è un’osservazione importantissima, fondamentale. Nei primi film si riusciva a orientarsi, ora siamo di fronte a un nucleo comples­ so, a una visione totale che va oltre la realtà o, se preferite, che scende nel profon­ do della realtà. Questa tensione a qualcosa d’altro mi pare proprio che la si smi­ nuirebbe indicandola come una tensione di tipo religioso-cattolico. Casomai re­ ligioso, ma nel senso che va oltre il nostro mondo, la terra, e ha un respiro cosmico, siderale, che tiene conto della visione di un essere extragalattico. Ne II miracolo questa visione c’è già, ci sarà ancora di più in Stromboli. Un’osservazione di Bianchi sulla dialettica in Rossellini fra libertà e rigore mi serve per arrivare a una questione fra le più inquietanti di quelle che attengono all’opera di Rossellini. La critica italiana, nella sua quasi totalità, ha sempre det-

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to che Rossellini è un regista solo libero (contrapponendogli, per esempio, un Visconti tutto rigore), e per lo piu l’aggettivo stava per cialtrone, che gira “bene” solo quello che più gli interessa e il resto no, perché gliene importa poco. La verità è che Rossellini ha chiarezza di idee e non di immagini, e quindi può an­ che permettersi, al limite, e come si racconta in maniera del resto non verificata e poco attendibile, di far girare ad altri. E quindi libero, aperto; ma anche chia­ ro, lucido. Così come è un regista di pensiero e di carne al tempo stesso, senza che le due co­ se si escludano. Il cinema di Rossellini è una visione del mondo inseguita nelle idee senza badare al dettaglio delle cose e delle loro immagini in film che trasu­ dano sangue e sono fatti di carne, di sperma. Altra cosa diceva Bianchi: Roma città aperta film degli anni Trenta. Mi pare si pos­ sa essere d’accordo: l’ultimo film dei telefoni bianchi, un cinema tutto di costru­ zione. Così come anche Ossessione, non certo il primo film del neorealismo come ci hanno raccontato per trentanni. A vederlo oggi senza paraocchi è un film liri­ co, autobiografico, dolce, un riassunto di cultura passata e di amore per essa e per il proprio passato, non certo un film sulla cultura e il mondo del futuro. In Rossellini le novità arrivano con Germania anno zero, che è un film del futu­ ro. Gli altri lo saranno sempre di più. Ferrini diceva del “comico”: mi sembra un’osservazione geniale che forse non è stata recepita nel giusto senso e in tutta la sua importanza. E chiaro che si riferi­ sce ai meccanismi narrativi, alla costruzione, alla struttura. Comunque, a questo punto, mi dite che cosa c’entra il neorealismo? Ferrini par­ la di film comico, Forti di film simbolista, Rosati di film marziano, io di film espressionista. Dove sta il neorealismo in Rossellini? Rossellini non crede nella realtà, ma in quello che sta oltre la realtà, nelle stelle, o in quello che sta sotto la realtà, nei ventri, nelle placente. Badiani ha detto del rapporto religiosità-misti­ cismo attivo-eros: il meccanismo dei film di Rossellini mi pare sia quello dell’e­ rezione, della tensione verso i bambini di Roma città aperta', il figlio nel ventre di Nannina, il lancio nel vuoto di Edmund sono lo schizzo di sperma che crea la vita. L’utero siamo noi spettatori. Se siamo fertili facciamo il nostro film, altre cose nostre; se siamo sterili non ne facciamo niente. Se siamo impotenti poi non andiamo neanche a vederli. Prima ho detto che mi inquieta il fatto che l’uomo del futuro, Edmund come speranza, si comporti obiettivamente da fascista. Altrettanto inquietante è il fat­ to che in Roma città aperta e in Germania anno zero il “male” si accompagni alla cosiddetta perversione sessuale. C’è contraddizione nel fatto che film erotica­ mente così liberi abbiano in sé un dato così tipico della repressione sessuale, cioè l’identificazione della perversione sessuale (in questo caso l’omosessualità) co­ me elemento maligno, innaturale. Laddove è chiaro che una simile idea, di “con­ tronatura”, è superata.

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Ora, a livello del racconto, Rossellini non è polimorficamente pervertito, ma è orientato verso una sessualità etero e quasi esclusivamente genitale (non vi sono ba­ ci) : io tendo a comprendere questa contraddizione a livello formale, strutturale. Rossellini crea due universi opposti, e per concretarli, per renderli patenti e chia­ ramente inconciliabili si serve anche di un elemento primario e vistoso come la sessualità. Ma non posso dire che questo mi sia chiaro: è uno dei fattori oscuri e inquietanti rintracciabili in tutta l’opera di Rossellini. Pensate, in Germania an­ no zero, alla ragazzina che cammina facendo il “ponte”, quando Edmund e il maestro entrano nella casa, pensate agli agnelli massacrati in Roma città aperta. Sono sussulti improvvisi, scatti surreali, intrusioni di matrici stilistiche incredi­ bili. Una gamma enorme di possibilità.

Menon — Io, a differenza di Beretta, sono convinto che, soprattutto in un dibat­ tito di questo tipo e specialmente per un inizio di dibattito come è quello di que­ sta sera, sia molto importante che a venire fuori per prime, e in maniera anche disordinata e incontrollata, siano proprio le impressioni, e mi pare inutile stare a cavillare sul grado di presunta “spontaneità” di queste impressioni. E ovvio, mi pare, che la minima ricezione, anche a livello puramente fisico, sia mediata dalle nostre conoscenze, generali e specifiche, e che ogni impressione, una volta espres­ sa in parole, diventi anche una “confessione culturale”, come diceva Beretta. Anch’io mi lamento che finora abbia prevalso un atteggiamento di tipo cultura listico, e dirò poi che cosa intendo, ma posso assicurare che è una lamentela del tipo opposto. Prima vorrei dire qualcosa delle ragioni private, personali, per cui tenevo molto a che si facesse questo seminario, dopo i due precedenti di Reggio Emilia e di Ve­ nezia, ai quali molti di voi hanno partecipato, e che per me sono stati di grande importanza. Ovvio che le ragioni personali si confondono con altre di natura culturale e po­ litica, ma di questo ho già detto in apertura del dibattito e poi sono cose già scrit­ te nel programma [non reperito]. Rossellini per me, fino a poco tempo fa, era quello che è per la stragrande maggioranza di coloro che vanno al cinema e che si occupano di cose di cinema in Italia: uno sconosciuto. Era l’autore neorealista, il cineasta della resistenza e della liberazione, che si era poi stancato, inaridito, gli era venuta meno l’ispirazione o che so io, tanto che già Germania anno zero mi ri­ sultava essere stato un successo di stima e di attesa, o poco più. Attesa andata poi delusa dalla svolta misticheggiante, dalle opere minori, appena viste, dai film gi­ rati 'all’estero, dalle affermazioni “di regime” degli anni Sessanta. Poi era ritor­ nato piano piano alla ribalta con i lavori televisivi, soprattutto con quella Presa del potere da parte di Luigi XIV che consentiva alla nostra critica di gridare alla per­ fezione, alla resurrezione, al miracolo (ovvio che la stessa critica si è già tirata in­ dietro nuovamente davanti ad Atti degli Apostoli). Insomma, la mia visione era

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condizionata completamente dall’atteggiamento assunto per venti anni dalla maggioranza pressoché assoluta della critica italiana, e non parliamo poi della critica di sinistra, quella su cui bene o male ci siamo formati tutti. C’erano sì indizi che urgeva una revisione, e notizie che la considerazione in cui era tenuto Rossellini per esempio in Francia era ben diversa (e la considerazione veniva regolarmente citata dalla nostr a critica più impegnata soltanto per rider­ ci sopra); ma rimanevano appunto notizie, informazioni culturali e basta. Quel­ lo che conta sono le opere, e vederle con mente sgombra e occhi aperti. Lo scorso anno, per una fortunata combinazione, ho avuto l’occasione di vede­ re con tranquillità, uno dietro l’altro in ordine cronologico, tutti i film più im­ portanti di Rossellini: vi assicuro che questa visione mi ha obbligato a rivedere se­ riamente tutto un patrimonio culturale e politico che credevo pacifico e acquisi­ to, oltre a complicarmi terribilmente le cose nel mio lavoro di cosiddetto organizzatore culturale. E stata innanzitutto la gradevole scoperta dell’esistenza di un grande cinema an­ che in Italia, la scoperta dell’unico “maestro” italiano e dei debiti verso di lui del poco cinema serio in Italia oggi. Poi l’allineamento, per quanto riguarda il cam­ po nazionale, di Rossellini fra le vittime illustri della suicida politica culturale della sinistra italiana (qualcuno prima ha citato, per altre ragioni, Elio Vittorini; ma ve ne sono altri, in campo letterario, teatrale, nelle arti figurative, in musica), e quindi la necessità di un ulteriore ripensamento di questa politica e dei suoi sbocchi attuali e futuri, specialmente per quanto riguarda cinema e teatro, che so­ no i modi di espressione che più mi in teressano. Ma, cosa più importante di tutte, vedere Rossellini ha significato sentire vivo per la prima volta il bisogno di fare cinem a, intravedere la possibilità di esprimermi col cinema direttamente. Questo perché il cinema di Rossellini tocca da vicino me, italiano nato negli anni Quaranta e ancora vivo nel 1969, più di qualsiasi al­ tro cinema esistente, in un intreccio incredibilmente vitale di motivazioni indi­ viduali, storiche, politiche, culturali. E stata poi possibile una verifica pochi mesi dopo, al seminario di Venezia: quel­ li di voi che c’erano sanno che tra i molti splendidi film visti (Bresson, Bergman, Dreyer, Bunuel, Mizoguchi, Papatakis, Renoir, Resnais) l’unico che alla fine fece scoppiare l’applauso (non metaforico) in un pubblico ristretto come eravamo noi fu proprio Europa ’51, e che il dibattito su questo film fu forse il più interes­ sante, anche per un discorso direttamente politico. E dire che io e Aprà temeva­ mo le reazioni dei partecipanti, tutti politicizzati, proprio nei confronti di Euro­ pa’51, avendo presenti le reazioni della critica nostrana politicizzata quando uscì e quando, anni dopo, venne presentato sul teleschermo. Doveva essere il 1959, credo, e io ricordo che, pur essendone stato profondamente colpito, non me lo feci piacere perché a «Cinema Nuovo» non piaceva. E un peccato che la regi­ strazione di quel dibattito veneziano sia riuscita male, perché pubblicarlo valeva

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la pena se non altro per dare una lezione di metodo e di intelligenza a tanti si­ gnori che ancora oggi, non domi, pontificano. Voi ricordate che a Venezia si parlò di Europa ’51 e per il personaggio di Irene di contestazione totale, di rifiuto dell’ideologia come falsa coscienza, di popolarità del cinema e quindi della possibilità di fare cinema che vada alle grandi masse, di rivoluzione culturale, di saldatura fra la mimesi del realismo occidentale e il brechtismo, per intenderci, della tradizione rappresentativa orientale. E chiaro che a quel punto si imponeva una verifica collettiva e bisognava ap­ profondire quell’analisi: ora la mia speranza è che il livello del dibattito sia pari, almeno, a quello di Venezia e valga a risarcire l’opera di Rossellini, almeno in par­ te, dall’incuria e dalle ingiurie della nostra critica. Devo dire però che finora non ho sentito scattare nel dibattito quella molla di partecipazione e anche di ab­ bandono che può renderlo utile, a noi naturalmente; e anch’io mi domando da che cosa dipenda questa reticenza e questa tendenza a voler incasellare e, con quell’atteggiamento culturalistico che dicevo prima, liquidare. Questo, è chiaro, non vuol essere assolutamente un giudizio, tantomeno un giu­ dizio negativo che non vedo come potrei permettermi, ma semplicemente la con­ statazione del mio personale malessere e disagio fino a questo momento. Alcune brevi osservazioni, ora, sui film sinora visti. Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero non sono, come si sa, i primi film di Rossellini. Quando fa Roma città aperta Rossellini ha trentotto anni, mi pare, e al suo attivo già numerosi film: è abbastanza evidente che è con questo film che co­ mincia il “nuovo” Rossellini, quello che ci interessa e che pare non avere legami con i film precedenti, anche se devo dire che quei due o tre che ho visto non mi sono dispiaciuti affatto. Ma probabilmente l’unico motivo di interesse della pro­ duzione rosselliniana d’anteguerra lo ha individuate Beppe Ferrara (i cui meriti nei confronti di Rossellini peraltro si fermano qui) quando ha scritto che l’effi­ cacia, l’incisività, l’esattezza, la grande carica emozionale di Roma città aperta e di Paisà sono da ricercare anche nell’esercizio fatto nei film precedenti e di come l’aver lavorato dipendesse dall’atteggiamento di Rossellini uomo e intellettuale nel periodo immediatamente precedente la guerra. In parole povere è stato un vantaggio non aver fatto parte di quegli sterili raggruppamenti di intellettuali de­ mocratici che a Torino, Roma, Milano, Firenze facevano professione di antifa­ scismo e che non potevano poi, dopo la guerra, altro che finire nel populismo, nei vari realismi più o meno di partito, più o meno “laici”. Rossellini nel frattempo si era impadronito del mestiere e si era guardato attorno: in una Italia diversa le sue antenne vibrano ed è pronto a registrare e a mettere in scena la realtà nuova che preme e che lo interessa molto. Questa sera, rivedendo i tre film mi sono accorto della profonda “storicità” di Rossellini. In questa, come è stata chiamata da più d’uno, trilogia (anche se Ger­ mania anno zero è già un’altra cosa), l’atteggiamento che mi pare prevalente in

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Rossellini è quello dell’uomo singolo che, trovandosi a vivere in una situazione dove l’eccezionale è diventato normale, sente il bisogno di capire, e si fa storico della propria vita nel reale. C’è un ambiguo rapporto tra il “sé” e la storia di cui si è contemporaneamente oggetti e soggetti: per capirlo e comunicarlo bisogna registrare la realtà, per vedere dove tende, per vedere se c’è già in essa il germe di una realtà diversa, e di una felicità possibile. In questo senso l’atteggiamento di Rossellini è storico: rende passato quello che esamina e scrive la storia del futuro. Come quel personaggio di scrittore di sto­ ria del futuro che Ibsen mette in Hedda Gabler e che alla fine del dramma muo­ re mentre la sua opera, distrutta, viene faticosamente rimessa assieme da ap­ punti, frammenti, ricordi. Rossellini in Roma città aperta presenta delle certezze, delle speranze abbastan­ za “facili” (ed è per questo che la messa in scena ricorre agli strumenti culturali noti, ereditati dalla tradizione: mi pare si possa essere completamente d’accordo col discorso di Aprà sulla commedia dell’arte), ma a queste certezze e speranze è costretto a rinunciare già da Paisà, e a costruire faticosamente. In Paisà Rossellini sceglie come pretesto la marcia verso il Nord dell’esercito dei liberatori, gli si mette al seguito, ne segue l’itinerario in una guerra sì spaventosa ma che è anche momento di incontro e di conoscenza tra popoli. E la scoperta di una Italia che non esiste, la registrazione di una lingua che non esiste (l’uso del dialetto fino alla insopportabilità, alla incomprensione, non ha niente di neorealistico). Il film mi pare la storia della autoidentificazione di un popolo. E chiaro come allora la “chiusa” non possa che essere al Nord, alla lotta partigiana, alla resistenza vista come momento ultimo di una storia e non come inizio di una storia nuova. Dopo Paisà Rossellini deve allargare ili campo di ricerca e andare a vedere il pro­ blema alla radice, nella Germania nazista sconfitta, dove vengono al pettine i no­ di della nostra cultura e della nostra civiltà. E a questo punto giustamente bisogna chiedersi e rispondere fino in fondo per­ ché “è stato possibile”. Ma fino in fondo: non si può mica cavarsela con Anna Frank & C. La genesi del fascismo nell’Europa del ventesimo secolo è estremamente com­ plessa: la ventata di irrazionalismo, o se volete di spinta verso l’irrazionale nel momento in cui si riconobbe il razionale come insufficiente, la spinta all’insoffe­ renza, alla ribellione prese quella strada e non un’altra perché così volle il gran­ de capitale e perché le forze del movimento operaio non seppero prendere le re­ dini della situazione. Ma pensiamo, molto semplicemente, id ventilato incontro di Gramsci con D’An­ nunzio reduce dall’impresa di Fiume, al fatto che Mussolini cominciò la sua car­ riera come socialista, al nazismo che nasce come ideologia nazionalsocialista, na­ zional-popolare, pensiamo a Céline fascista, a Pirandello e a Verga conniventi.

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E inutile voltare gli occhi dall’altra parte quando ci troviamo davanti il “mostro”: poi nel mostro troviamo gli stessi germi che stanno alla base della nostra insoffe­ renza, della nostra ansia di liberazioni. Perché non è di molti di noi, per esem­ pio, l’insofferenza per la democrazia, il parlamentarismo? Germania anno zero e molte delle nostre considerazioni che negli interventi pre­ cedenti sono state fatte su questo film e sulla figura di Edmund mi hanno fatto ve­ nire in mente due altre opere, scritte all’incirca nello stesso periodo, che molto hanno in comune con Germania anno zero, anzi due personaggi: lo Stepok de 11 prato di Bezin [Bezin lug, 1937, film incompiuto di Sergej M. Ejzenstejn] e il Ne­ pomuk del Doktor Paustus [1947] di Thomas Mann. Altri due bambini biondi, “strani”, diversi in un mondo distrutto o in costruzione, che muoiono. Soprat­ tutto Stepok, così simile a Edmund, ucciso dal padre nella Russia bolscevica. D’accordo, le analogie sono cose pericolose, valgono semplicemente come ele­ mento di complicazione della discussione . Edmund ci viene presentato la prima volta in un cimitero, mentre scava tombe, mentre seppellisce morti: per ragioni giuste e democratiche (che diamine, il la­ voro prima dei quattordici anni nessuno di noi sostiene che è una cosa giusta; e poi si ruba il lavoro ai capi famiglia); per ragioni giuste e democratiche, dunque, non glielo lasciano fare e viene cacciato. Allora Edmund cerca altre strade, e que­ ste non vi sembrino, le mie, vie troppo con torte, visionarie, per arrivare alle cose. Vorrei a questo proposito riferirmi a una cosa detta da Maria Teresa Mansueto nel suo intervento, poco fa, a proposito del bambino tra i morti che non viene soccorso dagli ufficiali alleati, nell’ultimo episodio di Paisà. Lei ci vedeva un esempio di pretesa disumanità, non si sa bene se degli ufficiali alleati o di Ros­ sellini. Che cosa avrebbe dovuto esserci, allora? Me lo domando. Rossellini si guarda bene dal mostrare Tamericano che piange e si prende fra le braccia il bam­ bino, magari pensando a quelli che ha lasciato a casa: insomma la scena strappa­ lacrime. Questa è pseudoumanità, umanitarismo da quattro soldi. Rossellini non vuole far piangere, commuovere, vuole salvare tutti i bambini di questo mondo e non uno soltanto, tutti i bambini di tutti i mondi possibili che gli uomini pos­ sano mai costruire. Rossellini, mi pare, è profondamente coinvolto: dal bambino di Poma città aperta che dice al nuovo padre «ti voglio bene»; da Romoletto, sem­ pre in Poma città aperta, il piccolo storpio che vuole far saltare in aria con tutto il casamento i tedeschi e i fascisti; dallo sciuscià di Paisà, da questo bambino che piange fra i cadaveri; da Edmund. Sono i bambini che faranno la rivoluzione, che potranno cambiare il mondo, sal­ varlo: il figlio di Nannina che riconosce la realtà, la carne, il figlio di Karin in Stromboli, Karin che ha conosciuto l’inferno, e poi le stelle e l’universo. C’è un altro bambino suicida nell’opera di Rossellini, il figlio della Bergman in Europa ’51, che si uccide non più nella Germania sconfitta ma in una Europa ri­ costruita, in piena guerra fredda. Si uccide e la madre diventa l’apostolo, il testi­

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mone di questa morte e della nostra possibile resurrezione, non per salire in cie­ lo ma per regnare su questa terra. Non è un caso che oggi, vent’anni dopo, Rossellini faccia un film sugli Apostoli, un film su dei testimoni, dei diffusori,, dei rivoluzionari. Così come non è un ca­ so che si prepari a fare un film su Socrate: risalire alle origini per poter andare avanti. Rossi — Apra ha detto una cosa che io nel mio intervento non avevo avuto il co­ raggio di dire, e cioè che Germania anno zero è un film fantastico. Io mi ero fer­ mato “sull’orlo dell’abisso”, perché il problema è complesso, intricato. Due mondi mi pare si possano identificare nell’opera di Rossellini: quello che pos­ siamo esemplificare in Germania anno zero e, mettiamo, quello del primo epi­ sodio di Paisà, quello siciliano. Cose assolutamente diverse e così vicine nel tempo. Come per Godard Vivre sa vie e Pierrot le fou (tra l’altro Pierrot-Ferdinand prima uccide e poi si uccide, co­ me Edmund). H problema è complicato anche dal fatto che persino in un film come Roma città aperta troviamo il lato irrealistico, innaturale, fantastico. Per esempio il mondo dietro la porta della tortura, dove vive l’ufficiale nazista. E, ancora più, a livello di intrigo: se pensiamo che la molla che fa scattare la tragedia è la spiata della giovane ballerina, che è un gesto abbastanza gratuito, immotivato.

Metani — Io vorrei raccogliere la domanda di Apra: perché Edmund, uomo del futuro, bambino della speranza, è un personaggio che al livello del comporta­ mento è fascista? Non mi pare che questa sia una contraddizione. Sono due fac­ ce dello stesso personaggio: il santo si muove sempre al limite del fascismo. Obiettivamente il comportamento di un puro sconfina nel fascismo, nel dog­ matismo irrazionalmente immotivato. Questo mi permette di riallacciarmi al discorso che facevo prima, all’ottica de II miracolo e di Germania anno zero che è quella di certo cinema moderno, cinema della purezza, di qualcuno che vive sulle stelle. Solo che Rossellini non è né un santo né un fascista: è un etnografo e anche uno che scrive le vite dei santi. Se si sa dell’ amore assoluto, è giusto avere un’ottica (e una macchina) crudeli. Mi sem­ brano calzanti due esempi: Stan Brakhage è un guru che sta sulla montagna, è un personaggio di Rossellini; Rossellini invece sta sulla terra e sale su filmando la realtà, come Kubrick.

Perrini — Vorrei tentare di continuare questo discorso sul gesto di Edmund che da un lato è un gesto fascista e dall’altro è un gesto che tende al futuro, un gesto esemplare. A me pare che il gesto di Edmund sia essenzialmente un gesto ambi­ guo come tutto il personaggio, e non direi che è un gesto fascista ma un gesto

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sublime, che arriva alla purezza e si esercita nell’ambito della purezza, come quelli, mi si perdoni l’accostamento, del giovane Werther e dell’Alex de Ipugni in tasca. Il gesto avviene a un primo livello, che è quello della storia: Edmund è un ra­ gazzino tedesco, in una situazione determinata, storicamente precisa, che ucci­ de il padre su suggerimento di un maestro nazista e omosessuale. In questo am­ bito il gesto è catalogabile come fascista. Ma il gesto ha altri presupposti, che ec­ cedono l’ambito storico, e diventa un gesto eccezionale. Rosati diceva che Edmund è un marziano, una creatura della fantascienza, e anch’io non ho potu­ to fare a meno di pensare ai bambini terribili, al piccolo assassino di Ray Brad­ bury. Bisognerebbe andarci piano con l’uso del termine fascista. Che dire allora del comportamento del personaggio della Magnani ne 11 miracolo e della Berg­ man in Europa ’51? Dovremmo catalogarle come folli, pazze, e rinchiuderle in un manicomio, mettendoci così alla pari della società descritta in Europa ’51. L’am­ biguità del gesto di Edmund, la anormalità dei due personaggi femminili do­ vrebbero invece richiamarci alla complessità del fenomeno fascista, a Celine, a Drieu La Rochelle, a Ezra Pound. In sostanza il problema che rispunta fuori è quello dell’irrazionalismo, di tutte le intricate componenti che comporta. Bianchi— D’accordo sull’ambiguità, ma bisognerà che qualcuno poi mi spieghi bene la pretesa sublimità del gesto di questo “piccolo mostro antico”. Si può an­ che ammettere che il fascismo aveva, alle origini, una sua carica eversiva generata però da un’irrazionalità sbagliata, ma da questo a parlare di sublime per un ge­ sto che è disumano e basta ce ne corre. Se questo è sublime, meglio che niente e nessuno sia sublime: se un uomo nuovo può nascere lo può solo dopo che è mor­ to Edmund. Menon - Scusami, ma se il tuo intervento voleva portare avanti il dibattito mi sa che hai raggiunto l’effetto contrario. L’hai ricondotto indietro perché hai fatto un tipo di ragionamento immediato-logico-sentimentale. Come se il problema fos­ se quello, abbi pazienza, di decidere ora e qui se è meglio essere mostri o non es­ serlo, e scegliere tutti assieme, naturalmente, di non esserlo, e di onorare il padre eia madre. Capisci il rischio di instradare il dibattito su una strada come questa? Importanti invece mi sembrano le cose che dicevano Ferrini e Melani. Il nodo critico del problema sta nel rapporto fra elemento storico del fascismo, momento non storico dell’irrazionalismo e della necessità della violenza, momento della “santità” (non dimentichiamoci, a questo proposito, che Rossellini fa di Fran­ cesco un “giullare di Dio”, un cretino assai più cretino di Nannina). Ora, tutti questi elementi potrebbero portare Rossellini in una direzione unica, obbligata, la via delle stelle, degli spazi siderali, ma il tiro viene poi corretto dalla compre­ senza di una concretezza e di una terrestri tà, starei per dire di una genitalità, in­

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credibili, che lo tengono radicato al suolo terrestre e alla vita. Il tutto rimanda, oltre che alla complessità del problema dell’irrazionalismo, co­ me mi pare di aver già detto prima e come sottolineava Ferrini, anche alla com­ plessità e all’ambiguità della natura dell’opera d’arte. Per quanto diceva Melani, Patteggiamento religioso è quello di chi vuol rag­ giungere gli elementi primari della realtà, il mistero. Quindi il misticismo. Cer­ to che la “santità” paradossalmente è fascista. Il santo ha raggiunto qualcosa di così terribilmente alto e solitario che non può collaborare con gli altri nel senso dell’utilità, o meglio può solo consentire l’entrata a tutti, a chiunque lo voglia, in una scelta assoluta, nella sua dimensione; ossia il santo può solo volere altri san­ ti. Chi raggiunge delle vette per gli altri rappresenta un limite, un termine, e so­ cialmente diventa un polo dialettico di sviluppo della collettività.

Nascimbeni—Ma se a Rossellini interessa l’uomo critico, che sa trovare le strade di cui parlava Aprà, perché in Germania anno zero e ne 11 miracolo è così unidi­ mensionale? Menon — Non ti capisco. Tu parli di unidimensionalità, quindi di appiattimento, di opera a tesi. Ma ti pare proprio che Rossellini sia questo? All’unidimensionalità porta l’ideologia. Ora, se c’è una cosa che mi sembra Rossellini respinga col suo es­ sere intero è l’ideologia, come falsa coscienza, coscienza deformata della realtà. Quella che tu tacci di unidimensionalità è la violenza eversiva di Rossellini. Pen­ siamo a II miracolo-, quel lungo indirizzo di Anna Magnani al pastore, quel suo modo visionario di vedere il mondo, quando gli dice di andare con lei al santua­ rio che di lassù si vede il mare e di volare sul mare e poi verso il cielo. Gli dice an­ che che quelli laggiù, al paese, non l’avranno certo riconosciuto, perché quelli «non capiscono niente». C’è un’antitesi perfetta e completa fra lei e il mondo, fra due diverse visioni del mondo. Poi, dopo il pomeriggio di sole, di vino, di sesso, lei riscende al paese e comincia il suo itinerario: un itinerario attraverso le istituzioni (la chiesa, la monaca, l’istituto della maternità delle “altre”), il simile a lei (il defi­ ciente che prima voleva sposarla e ora la perseguita perché la sente diversa), il pae­ se che siamo noi con le nostre etichette e le nostre ideologie. Lei supera tutto que­ sto e abbandona il paese mentre vi si svolge una festa religiosa (la religione contro la religiosità). Si immerge nella natura, per uno stato di necessità, come Robin­ son: è sola con una capra e col figlio nel ventre. Arriva alla chiesa sul monte (che non è una chiesa-chiesa ma semplicemente il punto di vista più alto: sulla valle, e il mare, e il cielo), vi entra dalla porta secondaria, e lì partorisce. In un grande or­ gasmo col corpo del proprio figlio supera se stessa e si conosce e riconosce la realtà. Fino ad allora dava al figlio del lei, ora lo chiama «mio, mio, mio». Noi spettatori da una parte abbiamo Nannina, dall’altra gli altri: siamo costret­ ti a scegliere, oppure a far finta di niente. Ma ci vergogniamo. E la scelta è nostra.

55 Qui sta il punto: Maurizio Ponzi ha scritto molto giustamente che Rossellini ti la­ scia libero di fare la rivoluzione. O di non farla, è il caso di aggiungere. Ma la re­ sponsabilità è poi nostra. Aprà - Io ho posto il problema di un gesto, un omicidio anzi un parricidio, che è “oggettivamente” fascista; soggettivamente non lo è, è un’altra cosa. È Ed­ mund che Rossellini ama, è lui che segue. Quando dico che è un film meravi­ glioso è perché Edmund è meraviglioso. E lo è perché la macchina da presa del­ l’autore lo segue con passione. Forse è giusto richiamare lo Stepok di Ejzenstejn. II gesto di Edmund è fascista in quel momento storico, in un’altra situazione sa­ rebbe il gesto di un santo. E un gesto nicciano, e richiama tutto quello che la cul­ tura italiana di questi vent’anni non ha saputo né cogliere né tantomeno risolve­ re, o affrontare. Non posso fare a meno di accostare questo tipo di intolleranza, di violenza, di rifiuto dell’“eredità”, di autoritarismo se volete, a un tipo di atteggiamento corrente nel movimento studentesco e nelle posizioni politiche più estreme oggi in Europa. Un atteggiamento che da un certo punto di vista è ripugnante, perché richiama imme­ diatamente il peggior zdanovismo, ma che in qualche modo ha una sua legittimità: un assolutismo da “o si è con me o si è contro di me” che viene dal rifiuto e dal di­ sgusto delle collaborazioni da CLN, dalle alleanze a tutti i costi. O inferno o para­ diso, parlando in altri termini: questa potrebbe essere l’insegna di Europa ’51, per esempio; e non è casuale che siano stati per primi i comunisti a distruggere questo film. Ma la straordinaria attualità di Rossellini viene fuori ora: Rossellini, non a ca­ so assieme a Godard suo “figlio” (vedi Masculin féminin}, è l’unico che non si stu­ pisca davanti ai fatti di maggio a Parigi. E del resto è stato già ricordato qui il di­ battito con molti di voi, al seminario di Venezia, proprio su Europa ’51. Velati — Penso che le posizioni del movimento studentesco su certe questioni, quelle che si potrebbero chiamare anche posizioni neozdanoviste, in linea for­ male siano estremamente giuste. Mi pare però che siano poi sballate negli obiet­ tivi, cioè se la prendono con le cose meno adatte, senza approfondire. Ma sono convinto che questo errore derivi dalla politica culturale del PCI, stalinista sol­ tanto nelle forme e nei “provvedimenti”, ma in effetti quanto di più sporco e il­ liberale ci possa essere. Si ammette tutti e nessuno, con la dovuta eccezione di chi dà immediatamente fastidio, ma in realtà senza scegliere, senza alcuna volontà di scelta, perché scelta vuol dire non aver paura di volere la rivoluzione. Se è vero che Rossellini con i suoi film divide, “o con me o contro di me”, so­ prattutto se si pensa a questa politica, mi sembra che sia un fatto estremamente notevole.

Zanichelli-D’accordo, personaggi come Nannina, come Edmund, come la pro­ tagonista di Europa ’51 è come se dicessero: «O con me o contro di me». Ma quel

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tipo di scelta porta a un paradiso tragico, perché deserto. La liberazione si rag­ giunge solo nel regno della necessità, nell’empiria della realtà. Allora il loro mes­ saggio è valido solo come tensione, perché altrimenti c’è il rischio dell’abban­ dono. H rischio è di finire come Rimbaud o Artaud. Badiani — Vorrei tornare sulla figura di Edmund. Si è parlato di ambiguità, di complessità, di inquietudine nostra, si sono usati termini molto impegnativi. Mi sembra pericoloso, a questo punto, non portare a fondo un discorso di questa importanza. Per il personaggio si è parlato di fascismo e con un po’ di leggerezza si è parlato di lui come dell’uomo del futuro. A me sembra un personaggio wagneriano. Il fascismo, mi pare, è innanzitutto irrazionalismo, rifiuto della ragione, esigen­ za e creazione del mito, mito come falso valore in cui rifugiarsi, con la propria ideologia come falsa coscienza. Edmund è l’ultimo rigurgito dell’ideologia fa­ scista ed è ucciso dalla coscienza, dal fatto che va contro la propria vita di ra­ gazzo uccidendo il padre che ama. M uore perché non ha la possibilità di risol­ vere criticamente la contraddizione fra l’amore che tende a conservare e la ne­ cessità ideologica di distruggere. E questo non perché è un ragazzo ma perché è figlio del fascismo, cioè della acriticità. Alla fine il vero “messaggio” mi pare sia che ci sarà un domani se ci sarà una critica.

Carlini—A parte che non mi pare si possa essere d’accordo con Badiani nel suo modo di definire il fascismo e l’irrazionalismo in maniera così semplicistica e contraddittoria, tengo a ribadire che il personaggio di Edmund non è affatto l’ultimo rigurgito ma il personaggio di un “diverso”. Come tale viene rifiutato dalla comunità dei ragazzi, si esclude e viene escluso dal mondo. E un “diver­ so” che continuerà nell’altra “diversa” che è Nannina: magari è lui che rinasce nel ventre di lei, e allora il suo “fascismo” acquisterà significati diversi. E diver­ so perché compie atti diversi, anarchici, ma che sono liberatori, nuovi.

Benvenuti—A me sembra che l’uccisione del padre sia una cosa perfettamente lo­ gica a partire dal momento che se ne vede la faccia: la faccia di un uomo inutile, già morto. Vogliamo parlare di umanità? Ma andiamo ! Piuttosto non direi che il suicidio sia un atto di liberazione, ma di integrazione in un sistema, nella civiltà pseudode­ mocratica uscita dal nazismo. Edmund si integra nel momento in cui si uccide, cioè fa l’unico gesto che non può rifiutargli quella società, peraltro non disposta ad accettarlo così com’è e come può diventare. Menon — Se ricordate, a un certo punto il padre gli affida l’eredità, il diritto di pri­ mogenitura, visto che il vero primogenito, il fratello, è come morto e si sveglierà

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soltanto per integrarsi nella nuova società. Edmund di questa eredità fa un uso nuovo, rifiutandola così com’è, rischia e paga.

Apra - Benvenuti secondo me ha ragione in questo senso: Edmund non si libe­ ra ma ci libera. Lui è impotente, incapace di procedere oltre un certo limite, di opporsi a una realtà che lo schiaccia; ma fargli fare quel gesto significa per Ros­ sellini darci la misura di nuove liberazioni possibili. Menon - Un’osservazione su quello che diceva Benvenuti: mi pare che rifiutando l’atto come liberazione e accettandolo come integrazione tu contraddica quanto dicevi prima sull’ambiguità. Sta a noi, alla nostra capacità di essere liberi, di sce­ gliere, di procedere: mica dobbiamo stabilire se Edmund aveva ragione o no. E una raccomandazione: da tempo tutta una serie di partecipanti sta zitta. Li in­ viterei a prendere la parola. Non vorrei che si verificassero esclusioni e soprat­ tutto autoesclusioni per immaginabili ma inesistenti motivi, che sono poi quelli dei dibattiti soliti, basati sulla logorrea di alcuni e sulla timidezza di altri. Sono le cose che raccomandavo a inizio di serata.

Zanette - Siccome mi sento chiamato in causa per il mio silenzio, vorrei precisa­ re che trovo il mio silenzio molto espressivo.

Casadei- Io, se devo parlare, ribadisco quello che dicevo su Germania anno ze­ ro. Edmund si uccide per il rimorso, e la colpa è del maestro nazista che gli par­ la dei deboli da eliminare. Menon - Scusami ma siamo sempre lì, a occuparci del problema come se il proble­ ma fosse quello di “rimediare al malfatto”. Come se la faccenda riguardasse il ra­ gazzino che sta sullo stesso pianerottolo e il maestro della scuola elementare ac­ canto. Un film è una convenzione, ha leggi sue proprie. A noi pone degli interro­ gativi ma è ad altri livelli che noi possiamo intervenire, non a livello morale, perché è un fatto organizzato, finto: la sua moralità sta nello stile, nella maturità dell’auto­ re, nel rispetto che l’autore ha per se stesso., per il mezzo che usa, e per il pubblico. Beretta — Io vorrei difendere l’intervento di Casadei in questo senso: Casadei ha detto giustamente quello che pensava senza le sovrastrutture culturali di molti dei presenti. Sul gesto di Edmund si è troppo discusso: il gesto ha valore per il ge­ sto, la realtà è quella che è, e basta.

Menon - Guarda che non occorre che tu difenda perché nessuno qui ha attac­ cato. E poi beato te se la realtà è quella che è, ma ricordiamoci che stiamo par­ lando di un film.

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Beretta — Ma esiste anche la realtà dello schermo ed è di questa che stiamo par­ lando. Si continua a discutere di personaggi che sono finzioni e molti li prendo­ no come personaggi reali e reagiscono con la conoscenza esclusivamente cultu­ rale che hanno di sé. Perché si sono ci tati certi autori? Perché sono vivi, reali. E una contraddizione: sono finzioni o realtà?

Menon - Ma certo che sono vivi: attraverso un processo di conoscenza viva noi li abbiamo fatti filtrare dentro di noi e sono anche cosa nostra. E poi ci sarà pu­ re una differenza fra i personaggi di un’opera e l’autore di un’opera, no? Co­ munque mi sembra che tu non sia molto chiaro, o di non riuscire io per il mo­ mento a capire cosa vuoi dire. Zanichelli— Io ripeto la domanda sul problema che più mi ha inquietato stasera, e non solo stasera e qui. Edmund, Nannina, il personaggio di Europa ’51 (e Nietzsche, e Artaud, e Rimbaud), anzi le loro scelte, sono per Rossellini un uni­ verso tragico in cui si isolano di necessità perché sono inevitabilmente soli, e per Rossellini quel punto di arrivo rappresenta l’unica alternativa nella ricerca del­ la felicità che è di tutti noi, oppure no? In questo modo si elimina tutta la pro­ blematica sociale. Ossia la felicità per Rossellini è raggiungibile soltanto attra­ verso quelle scelte o anche attraverso una pratica sociale?

Menon — Rossellini dà una tesi mostrando dei personaggi in conflitto con una realtà che è anche la nostra. La negazione di questa tesi sta nell’esistenza del mondo con cui i personaggi si scontrano, di cui facciamo parte e noi e Rosselli­ ni stesso, che se fa un film evidentemente si compromette con la realtà. La co­ siddetta sintesi sei tu spettatore individuo storico: è in te che si completa l’ope­ ra, all’infinito. Riconoscere in un personaggio la totalità di una scelta e di un at­ teggiamento non significa uniformarsi al dettato di un autore autoritario ma conoscere appunto contemporaneamente la solitudine, come condizione [in]eliminabile della conoscenza di se stessi, e gli ostacoli che la realtà organica e storica e sociale pone alla tua piena realizzazione, che la limitano, ma che sono anche gli oggetti che creano la possibilità della tua esistenza. Perché a Rosselli­ ni si dovrebbe chiedere altro e più di questo? Comunque, data l’ora tarda e vi­ sto che non pare ci siano altri interventi, è il caso di continuare la discussione domani.

Dibattito della seconda giornata (24 maggio) Sono stati proiettati Stromboli e Viaggio in Italia. Europa ’SI sarà proiettato in sera­ ta in un cinema cittadino [il Mignon], seguito da un dibattito con la partecipazione di Roberto Rossellini.

Benvenuti - Stromboli è un film straordinario, e supera senz’altro quelli visti fi­ nora. Se ieri sera potevo parlare di dieci livelli di pressione sullo spettatore, stasera allora devo dire che le sollecitazioni che vengono da questo film ti obbligano a subire la pressione di cento livelli. Comincio a pensare che il discorso di Apra sul razzo a più stadi abbia le sue ragioni, capisco perché gli è venuto di farlo. Farò solo osservazioni slegate perché non. mi sento capace di altro. Innanzitutto le immagini erano “silenziose”, cioè il commento sonoro, ridon­ dante, spesso dava fastidio. E il momento' più silenzioso è proprio uno di quelli più pieni di musica: la ricerca che lei fa del bambino nel terremoto [sic, ma qui Benvenuti confonde una scena con un’altra]. Le varie situazioni che ci sono intorno a lei oltre a essere al di fuori di lei sono an­ che al di fuori di noi, cioè anche noi, come Karin, le subiamo ma non le com­ prendiamo. Questo è il film: il nostro rapporto con una realtà diversa. Un pezzo document[ari]o straordinario è la pesca del tonno. È una ricerca di montaggio sul ritmo del canto dei pescatori, che poi come si sa è il ritmo della lo­ ro fatica, la accompagna, la segue, la allevia praticamente. Le barche in questo film sono un motivo astratto: altro che neorealismo. Poi c’e una cosa particolarmente affascinante: con immagini e raccordi assurdi viene mostrato lo stretto legame che c’è fra i pescatori e la loro terra, l’isola. Più che l’amore, l’attrazione degli uomini di mare per la terra; mi pare che sia la ter­ ra, l’isola ad attirare i pescatori, come una creatura viva. Anche qui ci sono i bambini, che sono una costante in Rossellini, quelli nati e quelli che devono nascere. Un film come questo è chiaro che si supera, supera se stesso nel finale. Qui sia­ mo veramente su un altro pianeta: luce lunare contrapposta a quella violenta, rabbiosa, del resto del film: rocce nere, ombre lunghe. Solo passando per questo nuovo pianeta Karin si sente più vicina a Dio, cioè - chiaramente - a se stessa.

Bianchi- II film è costruito sui rapporti fra Karin, l’isola di Stromboli e la gente di Stromboli. Karin, all’inizio, ha un atteggiamento molto preciso nei confronti di tutta Strom­ boli e del film: si sposa per liberarsi dal campo dei profughi e forse anche perché

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questo ragazzo siciliano è bello, le piace. Ma non esiste rapporto fra loro perché lei non è modificata da lui, in quanto non pensa di doverne essere modificata. Al primo contatto fisico con Stromboli Karin si rinchiude, non capisce e non vuo­ le capire neanche quando il marito le dice che l’isola non è un luogo morto per­ ché ci sono i bambini, e ne vedremo molti di bambini nel film. Karin, invece di trasferire se stessa a Stromboli e di misurarsi con questo mondo in cui è capitata a vivere, vuole essere Ilei a cambiare Stromboli secondo certi pa­ rametri banali (culturalmente banali: basterebbe la casa che, addobbata da lei, sembra un ristorante turistico). Naturalmente lei di questa realtà non capisce niente, vuole solo confermarsene un’immagine che le è già nota, e che era preor­ dinata, precostituita. La stessa cosa nei confronti degli abitanti: lei chiede com­ prensione senza volerli e saperli comprendere. Il che è chiaramente impossibile. Ora, da Stromboli non si può uscire per vie normali (il film non si può risolvere con la “storia”, con l’intreccio normale). Non è un caso che Rossellini abbia pen­ sato a un’isola: non c’è uscita laterale, sul piano orizzontale; si può salire solo so­ pra, andare in verticale; insomma non si può svicolare, uscire da una situazione non risolvendone le contraddizioni per entrare pacificamente in un’altra. Se poi verticale significa arrivare a una coscienza superiore di sé, risolvere le pro­ prie contraddizioni, scoprire il mondo e la vita, arrivare a Dio o altro: questo è meno importante. A Stromboli terra, uomini, donne, bambini sono la stessa cosa: una cosa dura, sassosa, dolorosa, antica. I rapporti con Karin non possono essere che di repul­ sione, di rifiuto. La Bergman in questo film è di un erotismo dilagante, e come la Nannina de II miracolo ha rapporti sessuali con la natura, con la terra, con i fio­ ri, con il pesce. E ovvio che il marinaio [il guardiano del faro] abbia rapporti con lei, che il prete ne sia attratto: lei è un centro di erotismo, sa di avere quest’arma, e nel momento del pericolo se ne serve. Immodestia, dicono la madre del marito e le altre donne. Ed è un giudizio esat­ to. Così come è esatto che chiamino il marito cornuto prima ancora che lo di­ venti. E badate bene che non è la vecchia storia della “vox populi vox dei” : è che Rossellini si pone con estrema serietà e onestà nei confronti di questa gente e della loro morale. Karin non è il superamento di una morale repressiva: lo di­ venta quando sale sull’altro “pianeta”. Un’altra nota dell’atteggiamento correttissimo di Rossellini nei confronti della morale isolana è la rappresentazione del marito di lei e soprattutto di quando le fa sbarrare la porta: è un gesto simbolico, una richiesta di rimanere molto deci­ sa ma dignitosa, e soprattutto la lascia libera di scegliere. Lei fugge lo stesso, e du­ rante la fuga perde tutto, i soldi, la roba, e allora la fuga diventa ancora meno lo­ gica, innaturalistica, senza motivazioni e giustificazioni psicologiche. Lei passa attraverso mille pericoli poi, distrutta, si addormenta. Al risveglio è entrata in un’altra dimensione, è veramente salita su un altro pianeta.

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Non esiste soluzione, non esiste la “fine”. Non si sa cosa deciderà Karin: quan­ do dice «I can’t come back» è una presa di coscienza di sé e di quello che è stata a Stromboli, non certo la decisione di scendere dall’altra parte del vulcano. La via di uscita comunque non è un ritorno né alla vita della guerra e di prima né a Stromboli: se ritorno a Stromboli ha da esserci, è una Stromboli che ora sta in cima al vulcano. Lei chiede tre cose a Dio: la comprensione, la forza, il coraggio. E un po’ tutto, no?

Due - Vorrei parlare del problema dell’amore in questi film. Mi sembra che per Rossellini l’amore sia sempre una forza creativa (la grande, semplicissima carica erotica che c’è in questi film), una forza creativa che ha la funzione di portare al superamento della fondamentale contraddizione fra razionale e irrazionale. Vwgg/o in Italia, per esempio, è tutto pervaso da questo senso dell’amore crea­ tivo, fecondo, vitale. Pensate ai tanti bambini del film, alle donne incinte, agli innamorati. Poi c’è il ritrovamento dei due corpi, un uomo e una donna di tanti secoli fa: nessuno ci dice in che atto furono sorpresi dalla morte ma io voglio ve­ derli nell’atto di fare l’amore. In questo clima c’è questa donna, con i suoi senti­ mentalismi, il suo romanticismo vago, il suo costante rifiuto del ragionamento e della razionalità. Il marito la accusa di essere irrazionale, di non capirsi e di non capirlo. Lei fa lo stesso. Però questi due estremi inconciliabili si incontrano, si trovano. In un momen­ to preciso, in quel finale. Il che ci pone dei dubbi, degli interrogativi non di su­ perficie sul presunto razionalismo e irrazionalismo rispettivamente di lui e di lei. Questo mi sembra il problema fondamentale del film. Ci sono i versi che lei ripete, del poeta morto, amico e forse innamorato. Se ho scritto bene: «Tempio dello spirito, non più corpi ma pure, ascetiche immagini». Sono versi che esprimono lo stato del non realizzato, della staticità, una para­ bola non creativa perché non basata su una forza feconda che tenti di superare le contraddizioni. La donna è così e in quei versi vuole riconoscersi. Ma il suo tur­ bamento cresce davanti alle immagini che si trova davanti nelle sue peregrina­ zioni: al museo, le statue dalle forme potenti, piene; le visioni d’amore e di mor­ te; persino il “gallismo” della guida. Poi i due corpi abbracciati nei secoli, poi la violenza del corteo che momentaneamente separa lei e il marito. In quel momento loro avvertono il violento misticismo collettivo della religiosità e anche la carica irrazionale, lo sentono come una forza distruttiva, incapace di creare. E avvertono anche l’esistenza dell a razionalità creativa, che non è né la maschera fredda dietro la quale il marito nasconde la sua inquietudine e la sua sofferenza, né l’esasperato sentimentalismo fragile di lei, ma qualcosa di mag­ giore e diverso che essi in potenza hanno, se ora lo comprendono; ed è, mi pare chiarissimo, la capacità di amare. Il figlio che forse ora avranno sarà il supera­ mento di loro due, della contraddizione fra razionale e irrazionale, la sintesi di

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due creature e di due esigenze diverse e complementari. Ma forse il figlio è un al­ tro film, o addirittura questo film, se noi ne possiamo parlare così.

Gentile - Io non posso che ripetere quanto dicevo ieri. La grande forza di co­ municazione di Rossellini, e quindi la sua capacità di coinvolgere e travolgere lo spettatore, non ci deve far dimenticare il suo grosso limite: il sentimentalismo, non sorretto da una seria analisi sociopolitica, finisce nell’individualismo, nella genericità, nelle false alternative totalmente estranee a una problematica socia­ le e di classe, nella mancanza di prospettive. Vzìzggzo z’/z Italia in tale senso è estremamente indicativo. Ci sono due ricchi bor­ ghesi e c’è la crisi del loro rapporto, accelerata e acuita da un ambiente diverso. E la crisi della coppia, e loro due sono due facce dell’essere borghese. In modo diverso cercano di sfuggire: lui creandosi una cerchia e andando a puttane, lei fa­ cendo la turista e fantasticando. E tutto molto preciso: la falsità dei rapporti, l’immagine banale della poesia, il nascondersi l’uno all’altro. Ma il limite loro e del film è di rimanere all’interno di una problematica piccolo borghese: come la coppia non si rende conto che la crisi è in loro, così Rossellini non sa risolverla che attraverso un fatto esterno, il miracolo. Mentre dovrebbe essere chiaro che la crisi è ineliminabile perché è all’interno dei personaggi e del loro essere. Ros­ sellini, troppo coinvolto in questo mondo, non riesce a liberarsene e ricade nel sentimentalismo e nell’individualismo borghesi.

Apra - Chiedo scusa se prendo la parola per una breve indicazione. Viaggio in Italia non finisce sul loro abbraccio mia sul dettaglio della banda con la folla che passa. Questo mi pare corregga la tua idea del lieto fine. Velati—A parte ogni altra considerazione, devo dire che l’impressione più forte che ricavo dalla visione di Stromboli e di Viaggio in Italia, questo film “unico”, ve­ ramente straordinario, è quella della presenza continua del demoniaco. Demo­ niaco in senso greco, di potenza nascosta nella natura, di forza oscura, vitale e mortale allo stesso tempo. C’è l’isola, la gente, il mare, il vulcano. Il vulcano è visto come una potenza che si riflette nella gente e la gente nel film lo sente così. Karin cerca di riportare questa forza sconosciuta al dato, a quello che sa, e allora lo disegna: questa è magia pura e semplice. E significa che lei non riesce a cogliere ciò che pure ha davanti a sé e che il marito e gli altri invece capiscono. Questo motivo della forza demoniaca, del fuoco sotterraneo mi pare si possa ri­ trovare anche in Viaggio in Italia, che mi pare piuttosto un viaggio agli inferi di un Orfeo e una Euridice. C’è il museo, l’antro della Sibilla, le ossa, i corpi calci­ ficati, i vapori del fuoco sotterraneo. Ma è anche un viaggio sulla Luna, come quello di Astolfo: ci sono le ombre dei cervelli e delle idee e basta.

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È un film - mi pare - assolutamente astratto, più che un film una formula mate­ matica, tutto in bianco e nero, mono o se volete bicromatico. L’antitesi, se que­ sto può rendere l’idea di ciò che voglio dire, è Renoir con lo spessore naturali­ stico dei suoi grigi. Viaggio in Italia invece è una melodia in bianco e nero. E la colonna sonora è incredibile e affascinante: canzoni lontane, musica astrat­ ta, antinaturalistica, stilizzata al massimo. Forse sto esagerando un po’ ma sono assolutamente affascinato. C’è sì la necessità - lo dico riferendomi a certi interventi - di dare un giudizio su questi film. Ma mi accorgo che Rossellini, nella sua lunga opera, ha fatto un di­ scorso di respiro molto ampio e vario, a lunghissima scadenza, che noi non pos­ siamo diminuire esaurendolo nel ritrovamento di alcuni segni stilistici più o me­ no variati. Forse soltanto alla fine si potrà comprenderlo nel suo tutto. ÌSascimbeni - Non mi pare che sia Karin a negare Stromboli ma piuttosto che sia Stromboli a negare Karin. In tutto il film in lei non cambia niente, e fino alla fine lei resta se stessa, ma viene da un altro mondo e non capisce. Alla fuga è co­ stretta non per cambiare ma per ritrovare se stessa. Una sola cosa a proposito di in Italia', il finale mi sembra estremamente forzato. Forti—Con Stromboli Rossellini esce definitivamente dalla storia per entrare nel mito. La condizione di Karin è la condizione di esilio dell’uomo. II Marsault di Camus [ne Liét ranger}, nello scontro col sacerdote prima della condanna, esce purificato, liberato, e dice: «Apro gli occhi al cielo pieno di stel­ le e di segni, e per la prima volta mi apro». E l’aprirsi di Karin agli spazi inter­ stellari, dopo l’itinerario che l’ha portata a prendere su di sé il dolore degli uo­ mini e del mondo, dopo essere riuscita, lei e non i paesani, a placare l’abisso. Karin ha contatti diretti con la natura, lo vediamo dagli incontri che fa: il pesce sul tavolo, come lei esiliato dal suo elemento naturale, il polipo, il dolore che prova alla pesca del tonno, la visione della faina che uccide il coniglio, perché la vita significa sempre la morte di qualcuno. Stromboli è uno sviluppo de II miracolo. Storie di creature naufraghe, senza pun­ ti di riferimento col reale: ma solo a questa condizione si aprono altri spazi e al­ tre possibilità, perché è vero che se tutto è chiuso tutto è aperto. Dice Holderlin che solo là dove ha luogo il pericolo sorge il salvatore. C’è un grande dilemma che riguarda tutti: per cambiare il mondo bisogna cambiare se stessi oppure per cambiare se stessi bisogna cambiare il mondo? Tra il «cambiare la vita» di Rimbaud e il «tras formare il mondo» di Marx sembra, con Stromboli, che Rossellini scelga Rimbaud, ma il discorso è - credo - ancora lungo.

Carlini - A me interessa innanzitutto mettere in evidenza un aspetto, che mi pa­ re molto importante: i film sono film aperti, che prospettano un futuro, un do­

64 mani (neanche Viaggio in Italia è un film “chiuso”, tutt’altro). Il che significa che il rapporto tra film e spettatore non è di tipo autoritario e che il film lascia allo spettatore la sua capacità fantastica, la sua inventiva, gli per­ mette di far agire la sua creatività, la sua volontà rivoluzionaria, di cercare, di continuare lui il percorso in salita di Karin, la strada del figlio di Nannina, la stra­ da che Edmund non poteva trovare. In Rossellini gli individui non riescono mai ad adattarsi alla realtà o perché la comprendono fin troppo bene e non possono accettarla (Edmund), o perché hanno altri parametri (Nannina), o perché le resistono con forza (Karin). Come Edmund anche Karin è un’“ altra”, ma Edmund non può reggere il peso di esserlo mentre Karin cerca, cerca, e poi tenta l’unica strada possibile: andare oltre. Sono personaggi senza passato, non si sa da dove vengono, sono inclassificabili, mai conclusi e definiti. Non hanno passato ma un futuro che Rossellini lascia sco­ prire a noi, se lo vogliamo, se ci stiamo. E una possibilità che ci viene data. Una breve osservazione, molto vaga, sulla questione del miracolo in Viaggio in Italia-, il miracolo è il segno vistoso del diverso, di quello che non si comprende e che turba perché fa vedere altre possibilità, altre dimensioni. Zanichelli—Almeno finora i film fondamentali per comprendere Rossellini sono tre: Il miracolo, Stromboli e Europa ’51. Nei primi film Rossellini si applica al momento immediatamente storico e rea­ lizza la problematica della presa di coscienza e della lotta politica. Poi c’è questo passaggio “strano”, ed è abbastanza logico che la nostra critica non lo abbia ca­ pito e lo abbia stroncato. Ma è in questo passaggio che stanno la forza e il co­ raggio di Rossellini. Nei tre film che ho detto il personaggio finisce nell’isolamento. Predominante è il motivo della separazione dell’individuo dall’ambiente. Rossellini come impegno personale è fuori dalla storia, ma non lo dico in senso negativo; è fuori dalla storia perché il suo impegno è metastorico, cioè impegno di realizzare completamente tutte le tensioni di cui è caricato l’uomo storico. Rossellini non può accettare che queste tensioni vengano chiuse e circoscritte in una presa di posizione solo direttamente politica, cioè in un ambito esclusi­ vamente ideologico. In questo sta l’attualità e la travolgente modernità di Rossellini. Si è parlato di demonicità, anche per Edmund. Secondo me in Edmund c’è uno sconfinato, meraviglioso amore per chi può e vuole cambiare questo mondo non realizzato. La tragedia viene dal mondo che è malato, marcio, fradicio, e che cor­ rompe le speranze più profonde. Allora i bambini si uccidono. Credo di poter serenamente dire che del cinema italiano Rossellini è, autono­ mamente, l’autore più profondamente e autenticamente marxista. E cito Marx, un passo molto bello de La Sacra Famiglia (mi pare): «La critica

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non toglie i fiori immaginari dalle catene perché l’uomo continui a trascinare le tristi spoglie, ma perché le getti via e colga il fiore vivo». Tutto lo sforzo di Rossellini è riuscire a cogliere questo fiore vivo della vita degli uomini, a sfrondarlo, a depurarlo, a purificarlo da tutte le scorie, le false neces­ sità che lo incrostano. E questa è la problematica più attuale, in profondità, di og­ gi e nel futuro. Il futuro dei movimenti rivoluzionari. Melarti — I francesi della “nouvelle vague”, i ragazzi dei «Cahiers du Cinéma» di dieci anni fa dicevano che Rossellini era Socrate. Mi pare giusto: Rossellini insegna allo spettatore a conoscere se stesso. E direi che Rossellini è anche un guru. Stromboli è la storia di un personaggio chiuso in una situazione geografica. Lo spettatore di Stromboli è nelle stesse condizioni di Karin, è imprigionato dalla sa­ la, dallo spessore della pellicola; casomai l’unica cosa che può fare è uscire, ma non può viaggiare dalla sala allo schermo nel corso del film. Stromboli mi sembra un film che è un muro davanti allo spettatore, un muro con cui lo spettatore è co­ stretto a scontrarsi a tutti i livelli, e nel dolore e nella violenza dello scontro co­ nosce se stesso. E un film violento sulla violenza, fatta contro Karin e contro lo spettatore. Viaggio in Italia è un ulteriore passo avanti: qui Rossellini fa una co­ sa eccezionale perché prevede uno spettatore già diverso, nuovo. Al limite, se Stromboli era un muro per lo spettatore di vent’anni fa, Viaggio in Italia lo è per noi oggi. In Viaggio in Italia Rossellini non si accontenta più della forza, il co­ raggio, la comprensione, ma va oltre, e allo spettatore dà un vero e proprio spec­ chio. U termine può essere inadeguato al mio pensiero: voglio dire che ci dà qual­ cosa che ci obbliga a fare uno sforzo in più per trovare quelle stesse cose che in Stromboli sono il film stesso, le cose con cui scontrarsi. Ora, lo specchio ci riflette completamente, e noi dobbiamo fare appello a tutte le nostre risorse, anche razionali, per trovare il punto del muro-specchio con cui, ciascuno di noi, scontrarsi. Personalmente il punto che mi permette di lavorare su me stesso, di andare oltre, l’ho trovato nell’ombra di George Sanders, nei fumi del vulcano sotterraneo, e nell’idea della morte materializzata nei due corpi. In questo senso Viaggio in Italia è un film molto pericoloso. Lo spettatore, in­ fatti, corre continuamente il rischio di identificarsi con il personaggio della Berg­ man, perché è quello che gli assomiglia di più, perché vede le cose secondo gli schemi delle sue-nostre repressioni, e il suo sguardo è noto perché è vecchio, di­ pende dal suo-nostro passato. Lei della realtà coglie gli aspetti spettacolari, e la vita la vede nel teatro, cioè nel­ la scena del miracolo (non è un caso che il loro comportamento nel finale sia tan­ to simile a quello di Paul Newman e Julie Andrews ne II sipario strappato [Torn Curtain di Alfred Hitchcock, 1966]). L’uomo “nuovo”, in Viaggio in Italia, è George Sanders, che sa tutto, misterioso

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e diabolico (Rossellini filma spessissimo la sua ombra), che sa uscire da se stes­ so. Solo che è un cinico, e deve reprimersi, e non ha la capacità di commuoversi che ha la moglie. Nel finale ognuno dei due recupera l’elemento mancante. Una cosa come questo finale è la prima volta che io la vedo al cinema: qui vera­ mente Rossellini filma l’idea che sta dietro l’immagine, la comprensione totale del codice della vita, la capacità di meravigliarsi. Badiani — Sono osservazioni slegate. L’“enormità” del finale di Stromboli, Dio che partorisce se stesso attraverso il vulcano; il parto che ora Karin è pronta a fare, un parto fantastico, un approdo fantastico su una materia così concreta­ mente bruciante; la morte e la nuova nascita, come il salto nel vuoto di Thanos e Despina ne 1 pastori del disordine [Pdtres du désordre ( 1967) di Niko Papatakis] e la corsa sul mare nel finale del film di Glauber Rocha [Deus e o diabo na terra do sol, Il dio nero e il diavolo biondo,, 1964], realtà circoscritte, primitive, den­ se, che hanno poi lo sbocco astratto, liberatorio; Karin nuova madonna che de­ ve partorire il cristo. Per Viaggio in Italia posso dire che è un viaggio agli inferi proprio perché è un viaggio in Italia, nella realtà di vita e di morte di un universo conosciuto, nostro. Ungari- All’inizio di molti film Rossellini è solito mettere, a mo’ di epigrafe, dei versetti biblici o evangelici. Ora, Germania anno zero avrebbe potuto benissimo avere come epigrafe la fra­ se: «Che i morti seppelliscano i loro morti»; e a questo punto devo dire che mol­ te delle cose che sono state dette ieri sera e che a me sembravano quantomeno az­ zardate, sbilanciate, a questo punto Iti sottoscrivo. R cinema di Rossellini è un cinema fantastico. Germania anno zero per esempio è un film fantastico se non altro perché Ed­ mund è l’unica persona viva in un mondo di morti. Già qualcuno faceva notare ieri che all’inizio lo cacciano: è giusto così, sono i morti che devono seppellire altri morti, non Edmund. Però se si ammette questo allora cambia prospettiva l’atto finale di Edmund, che noi abbiamo inteso come suicidio, dando poi ognu­ no una diversa sfumatura al termine. Ora, però, se tutti gli altri sono dei morti, o dei vampiri, è pensabile che per Edmund il suicidio sia un salto nel vuoto, in una dimensione diversa. Questo elemento ritorna negli altri film. In Stromboli Karin fa un primo salto nel vuoto quando lascia il campo e si sposa, ma è un salto nel vuoto a metà, perché non c’è in lei l’innocenza di Edmund, lei è consapevole. II vero salto nel vuoto sarà da­ vanti al vulcano. In Viaggio in Italia pei: Katherine e Alex il salto nel vuoto avviene al ritrovamento dei due corpi. Insomma, sono due film totalmente fantastici. Stromboli prima di tutto, per gli stessi motivi per cui lo è Germania anno zero: le

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forme sia dell’uno che dell’altro sono form e che non hanno nulla a che vedere con la realtà, sono film che potrebbero svolgersi su un altro pianeta, un pianeta spen­ to, lontano. I riferimenti immediati che mi sono venuti sono Murnau a livello fi­ gurativo, e poi tutto il cinema di Hitchcock. Karin è un personaggio “diverso” cosi come lo è Melania ne Gli uccelli [The Birds di Hitchcock, 1963]. Lì Melania va a Bodega Bay e inavvertitamente, ma conia sua sola presenza, scatena una reazione terribile: gli uccelli si ribellano alla razza uma­ na. E chiaro che la colpevole è Melania, così come la colpevole di tutto quel che succede a Stromboli è Karin: il marito la chiude dentro casa per un sacrificio, per­ ché il vulcano si plachi. Ma lei va fino in fondo e il vulcano la risparmia. Stromboli è un film fantastico che è anche un film di fantascienza: Karin è un’a­ liena, un essere di un altro pianeta capitato sul nostro e che cerca di ritornare al pianeta d’origine. In quest’isola mediterranea e piena di sole, in cui tutti hanno caldo, Karin è l’unica ad avere freddo. Alla fine Karin rimane sospesa fra il suo pianeta, il nostro e le stelle, alle quali non arriva. Anche in Viaggio in Italia c’è questa sospensione; e il recupero dell’uma­ nità dei personaggi, il ritorno alla tollerabilità, all’utilità anche: hanno cominciato un viaggio che poi sarà lo spettatore a continuare. A proposito di Viaggio in Italia: nei film in cui c’è l’elemento viaggio, questo significa il passaggio al massimo fra due culture diverse; qui il passaggio è fra due differenti universi. Le violente oscillazioni della carrellata ini ziale preludono a un itinerario inquie­ tante, i cui accadimenti travolgeranno l’animo e la sicurezza dei protagonisti. Katherine farà un viaggio nel regno dei morti, Alex nella realtà, e il ritrovamen­ to della coppia avverrà davanti a qualcosa che sfugge loro nella maniera più as­ soluta. Altro che lieto fine! E una miserabile sospensione, un naufragio. Se qual­ cosa di “lieto” c’è, cioè di positivo, è che a differenza di altri film il futuro non è affidato a qualcosa che deve ancora nascere ma alle possibilità della coppia, cioè l’amore non è qualcosa di assolutamente ed esclusivamente futuro, ma qualco­ sa di possibile. A proposito di Hitchcock, per Viaggio in Italia si può ricordare un altro film, e cioè Uuomo che sapeva troppo [The Man Who Knew Too Much, 1956] : come qui la Bergman e Sanders, lì Doris Day e James Stewart svolgono due indagini su piani assolutamente diversi. Per finire, oltre a sottolineare fortemente qu esto aspetto fantastico di Rossellini, che mi pare dovrebbe essere approfondito per mettere seriamente in crisi l’idea di Ros­ sellini regista della realtà a tutti i costi, vorrei dire che in questi film c’è un aspetto, un’attitudine totalizzante che mi pare molto interessante. C’è il fatto che andare ol­ tre il già dato è anche un po’ tornare indietro, che andare in alto significa anche an­ dare in profondità. Se in Stromboli c’è una linea verticale, chiarissima, e se in Viaggio in Italia la linea è orizzontale, poi le cose si complicano, e nell’insieme l’unica linea possibile è il cerchio, incontro di passato e futuro, di sopra e sotto, di cielo e terra.

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Garre - Devo ripetere quanto credo di aver già detto, e cioè che se da un punto di vista stilistico questi film mi piacciono molto, non li posso poi accettare sul piano ideologico. Comunque Viaggio in Italia mi sembra più positivo: è la storia di un amore cor­ risposto, il fallimento di un rapporto umano che viene recuperato attraverso un viaggio nella realtà, la ricerca di una realtà diversa da quella borghese, il viaggio dalla disattenzione all’attenzione. In Stromboli mi dà fastidio il misticismo esasperato. Comunque sono due film, mi sembra, sull’amore e sull’individuo, sulla ricerca dei rapporti fra gli uomini. E sono lo sviluppo de II miracolo', in fondo sono la sto­ ria di altri due miracoli.

Rosati- Ieri sera Aprà parlava di un razzo, a proposito dei film di Rossellini. Io direi che si tratta di un razzo a più stadi. Un primo ciclo va da Roma città aperta fino a Germania anno zero. Poi il razzo riparte per arrivare a Europa '51.1 primi tre film sono vettori di un razzo che sale. Passato e futuro si incontrano in Ger­ mania anno zero, che è un film di arrivo e di partenza: il film della contraddizio­ ne. Tra Edmund e gli altri non c’e possibilità di rapporto: ecco perché abbiamo paura del film. In Stromboli comincia la discesa, la ricerca dei rapporti umani, che fallisce finché Karin non è salita sul vulcano, o se volete perché il razzo non è ancora disceso su Giove, la nave non ha ancora passato le colonne d’Èrcole. In Europa ’51 la di­ scesa c’è stata, esiste una nuova visione del mondo e la protagonista la applica al­ la realtà fino alle estreme conseguenze. Viaggio in Italia non so: mi sembra un altro discorso, comunque un discorso molto complesso e difficile. Beretta - Vorrei soltanto dire che una valutazione complessiva di Rossellini non può affidarsi alle impressioni, alle emozioni, ma a una riflessione meditata. In Rossellini ci sono enormi limiti sul piano ideologico: c’è mancanza di ideolo­ gia, o è una visione cattolica che io rifiuto. Continuare su questa linea di interventi è un suicidio. Si corre il rischio di co­ struire soltanto un grosso equivoco. (Qui il dibattito viene rimandato a dopo la proiezione di Europa '51, aperta al pubblico e alla presenza dell’autore)

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Dibattito seguito alla proiezione di Europa '51, aperta al pubblico e alla presenza del­ l’autore. Intervengono sia i partecipanti al seminario che persone del pubblico (non sia­ mo riusciti a trascrivere i nomi di tutti gli intervenuti)

Spettatore non identificato — La protagonista del film a un certo punto dice più o meno che l’amore per il prossimo è il frutto dell’odio che ha per se stessa. Vor­ rei sapere se questo da parte dell’autore è uno sfogo o un giudizio sulla realtà che ci circonda. Poi, a proposito di tutto l’insieme di cose che nel film rimanda­ no a un mondo diverso, per cui vi si parla di altezze, di paradisi: vorrei sapere dall’autore se era nelle sue intenzioni proporre delle soluzioni, e quali. Roberto Rossellini -Le devo confessare che ho qualche difficoltà a risponderle. Questo perché quando ho fatto un film ho poi orrore di rivederlo. Lei avrà visto che anche stasera sono entrato in sala soltanto alla fine della proiezione. Anche questo me lo ricordo molto vagamente. Cosa vuole, sono passati parecchi anni, io ne ho parecchi di più sulle spalle, sarò anche magari leggermente rammollito, quindi, lei capisce, sono ricordi lontani. Comunque, in generale, e questa è una linea che seguo sempre, credo che sia molto importante fare delle diagnosi pre­ cise: esiste un fenomeno, bisogna guardarlo fino in fondo, esaminarne le cause profonde. E la cosa più importante da esaminare sono gli uomini e i loro atteg­ giamenti, il comportamento, con i sentimenti che nascono naturali e che così spesso fanno correre il rischio di errori tragici. L’impegno di essere uomo comporta sempre un rischio enorme: altrimenti c’è la sterilizzazione, il congelamento. II mio era un tentativo di fare una diagnosi che penetrasse dentro, in fondo alle cose. Non altro. E fuori dalla mia mentalità proporre delle soluzioni. Certo che era solo una parte della verità, quella che mi colpiva di più in quel momento. Ungari - Vorrei fare alcune osservazioni sul film per poi porre a Rossellini una domanda precisa. Del film, almeno in questo momento, mi interessa l’aspetto più propriamente politico. Ora, più o meno molti dei suoi film sono stati apparentati dalla critica al cinema uscito dalla resistenza, cioè al cinema neorealistico. Una della caratte­ ristiche di questo cinema è di impegnarsi sempre su motivi immediatamente po­ litici, per cui i film non arrivano mai oltre all’invito, alla dimostrazione della ne­ cessità di schierarsi in un certo modo, o addirittura a votare in un certo modo. Mi pare che alla fin fine tutto si fermi poi qui. Invece Europa '51, che visto distrat­ tamente può anche sembrare un film mistico, proprio dal punto di vista politi­ co mi sembra un film estremamente radicale, un film molto avanzato rispetto non solo al cinema del tempo, ma anche, sempre dal punto di vista politico, ri­ spetto ai film che si fanno oggi.

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Cercherò di spiegare perché. Ho avuto l’impressione che fino a un certo punto del film, magari senza accor­ gercene, magari con un’adesione anche molto critica, tendiamo a identificarci con la figura di Andrea, il comunista, perché è l’unica positiva, quella che, nel contesto del film, porta avanti il discorso politico più avanzato. Ma da un certo momento in poi siamo obbligati a fare un salto e a renderci conto che all’interno del film Andrea non si stacca affatto dagli altri borghesi. Tanto che alla fine, da­ vanti alla clinica dove Irene è stata rinchiusa, ci sono due gruppi: i ricchi e i poveri. Tra i primi, che ritengono Irene pazza, c’è anche Andrea. I secondi, anch’essi non hanno capito niente, perché la ritengono invece una santa. Sono visti criticamente, senza illusioni populistiche. Ora a me pare che Irene non sia né santa né pazza: forse è una folle. Irene compie un gesto, e il film è la storia di questo gesto: il rifiuto dell’ideologia come falsa coscienza. Non segue Andrea nella milizia nel PCI, non si lascia reintegrare dall’ambiente da cui proviene. Sceglie di fare sino in fondo quella che noi oggi chiamiamo pratica sociale: va nei ghetti operai, nella fabbrica, a contatto con la prostituzione e con la rapina, e finisce in un manicomio; cioè in tutte le trappole del sistema dove viene praticata l’esclusione. La follia di Irene è poi la follia degli Apostoli, un tipo di follia che significa rifiu­ to della razionalità del sistema che l’opposizione esclusivamente partitica e par­ lamentare ha fatto propria, almeno in parte. A me pare che di questo tipo di fol­ lia sia pieno il movimento studentesco, per esempio, che è composto di folli. Da Rossellini vorrei sapere cosa ne pensa e se è d’accordo con un’impressione di questo genere.

Rossellini - Devo dire che sono sempre per i folli. Folli nel senso che dice lei. Questo è un problema che mi sono posto più volte, cioè ogni volta che mi sono dovuto accorgere che si vive nell’ortodossia perché è una posizione di comodo. Ed è evidentemente un modo per non prendersi delle responsabilità. Io credo che tutti i patrimoni ideologici dovrebbero essere una parte della nostra cultu­ ra e una componente della nostra formazione, non delle dottrine cui ci lega un sentimento e una pratica dettati dall’ortodossia. Noi oggi vediamo che il nostro mondo sta proliferando, senza stupore vediamo degli uomini andare sulla Luna, e questo ci sembra quasi un fatto normale: quan­ do ci renderemo conto, veramente, che tutto questo è frutto di un enorme lavo­ ro che hanno fatto gli uomini, e soprattutto di come sia inevitabile che questo grande progresso tecnico porti a dei grossi mutamenti sociali? Per esempio, secondo me, il fenomeno mondiale del movimento studentesco è un fatto che risponde a una logica assoluta. Da statistiche recenti apprendiamo che negli Stati Uniti d’America il numero degli studenti sta per superare quello della popolazione agricola. Quanti erano fino a pochi anni fa? E quanti sono ora, e con una sete di sapere incredibile?

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Se cambiano le condizioni sociali, risponde a una logica storica assoluta che ci siano delle mutazioni nei comportamenti.. Bisognerebbe fare il grande sforzo di osservare, di capire, di facilitare le evoluzioni. Nel passato, quando esisteva una cultura stabilita, se si inventava o scopriva qual­ cosa, questa scoperta faceva crollare l’edificio sulla cui stabilità si giurava da se­ coli. Il “qualcosa di nuovo” sconvolgeva, è logico: ma oggi noi viviamo in un “nuovo” continuo. Se un marziano venisse a visitarci direbbe che viviamo in un’epoca di progresso, di espansione. A questo punto bisogna avere il coraggio, e prendersi la responsabilità, di stare dentro il progresso. E impensabile sia fermarlo che arginarlo. L’unica scelta sto­ rica è starci dentro e cercare di governarlo. Ora, non so proprio se questo può servire a rispondere alla sua domanda, forse se ne allontana troppo. Ma tanto questa è una conversazione amichevole.

Menon - A questo punto vorrei fare alcune osservazioni di carattere generale, che magari risulteranno un po’ provocatorie. Europa ’51, rivisto stasera, mi è sembrato un film di una chiarezza estrema, e tra i film di Rossellini il più semplice, perché il più immediato, diretto. I personaggi che nei film precedenti avevano trovato in sé la forza, il coraggio di essere “diversi”, cioè fino in fondo se stessi, si incontrano e come si coagulano in questa figura di donna, Irene, che il film colloca al centro dell’Europa tragica degli anni ’50, dove si discute se ci sarà o no la guerra, dove i bambini, che sono la vita, ancora una volta si uccidono. Irene si misura con la realtà della civiltà neocapitalistica europea, con la morta Europa della cosiddetta ricostruzione, quella che dall’anno zero della Germania ha fatto uscire la Germania di Bonn e del revanscismo. Il film venne accolto male, venne preso per mistico, schematico, ecc. Trovo un fatto assai incoraggiante che stasera, dagli applausi, dai commenti, da alcuni interventi, appaia abbastanza chiaramente che almeno per una buona par­ te dei presenti il film sia importante, che li interessi, che li riguardi. Contempo­ raneamente però ho il sospetto che una serie di adesioni siano di tipo sbagliato. Mi spiego: se c’è una lezione che esce dai film di Rossellini, e da questo in parti­ colare, è il dovere, l’unico, dell’individuo nella società, di essere il più possibile libero da schematismi ideologici proprio se vuole essere qualcosa politicamen­ te per gli altri, o più semplicemente se vuole essere, anche politicamente. Una reazione del tipo: «Ecco, non è più utile stare nel PCI, però c’è Potere Ope­ raio, o c’è l’Unione [dei Comunisti Italiani marxisti-leninisti], o il movimento studentesco», una reazione così sarebbe sbagliata perché servirebbe semplicemente come conferma, come alibi, come applauso a se stesso per essere nel giu­ sto, per essere “più a sinistra”, e il film sarebbe completamente inutile. Tutta l’opera di Rossellini porta molto più in là, a grandi problemi che debbia-

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mo avere il coraggio di affrontare anche in assemblee come questa, al problema, per esempio, del rapporto difficile e contraddittorio fra la volontà di agire poli­ ticamente, della milizia politica, dell’utilità della prassi sociale, e la necessità di non tarparci, di volere altre liberazioni, altre realizzazioni, ad altri livelli. Ed è, questo, un problema, un nodo fondamentale della nostra condizione sto­ rica: lo vediamo in ogni situazione, da troppi indizi. Ecco, mi pare siano questi i temi di discussione cui rimanda Europa ’51. Rosati -II film potremmo benissimo chiamarlo Europa ’70. Rossellini ha detto poco fa che a lui non interessava andare oltre una certa diagnosi. Sarà anche ve­ ro, nelle intenzioni, ma poi mi pare che venga fuori un’indicazione molto preci­ sa, per tutti. Alla fine del film una buona parte di noi si è sentita commossa, non certo perché ci dispiaceva che una persona di cui avevamo seguito le vicende per due ore veniva rinchiusa in una clinica per matti, ma perché in Irene ognu­ no di noi ha identificato la profonda aspirazione che abbiamo a essere noi stes­ si, a vivere completamente. E questo che dice il film: essere se stessi fino in fondo e ad ogni costo, anche a co­ sto di essere considerati dei pazzi, o dei santi, o dei cretini. Chi ha capito questo capisce anche l’intensità del rapporto erotico che c’è fra questa donna e il mon­ do, per cui lei a un certo punto fa un taglio netto e va a braccia aperte incontro al mondo che non conosceva, incontro alla realtà. E non occorre aver letto Marx, o altro, per fare questo. Ed è solo a contatto con la realtà che lei ritrova qualcosa che è indispensabile per lei come per noi. Rossellini — Queste sono cose molto giuste. Devo dire che la mia aspirazione, il mio grande sogno, è che ciascuno sia se stesso, con tutti i rischi che questo com­ porta, anche il rischio di essere un citrullo, perché non c’è mica l’obbligo di es­ sere dei geni, le pare? Ma se si è autenticamente se stessi allora si ha una carica ta­ le di onestà che deve per forza sfociare in qualche cosa. Allora sì che si rimane uniti alla realtà, se si partecipa in modo completo, pieno di calore. Allora la vita diventa vita. Sennò si rimane a costruzioni intellettuali, che talvolta possono es­ sere mirabili ma alle quali è intimamente assai difficile partecipare.

Velati— Mi sembra importante sottolineare un aspetto che esce con grande chia­ rezza dalla sua opera e in particolare da questo film. Mi pare che a tutti i suoi film sia sotteso un atteggiamento verso l’uomo che direi di stampo religioso: è la caratteristica, molto precisa, di chi si occupa della condizione umana, ma senza interesse per la radice di classe dei problemi che attengono questa condizione. Soltanto questo, perché mi pare importante che vada sottolineato.

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Spettatore non identificato - Io non sono fra coloro che sono stati commossi dal film. Vediamo: il film è la storia di una famiglia borghese che non se l’è poi vista nemmeno tanto brutta durante la guerra e che ora si ritrova in una Roma assetata di divertimenti e in un clima di ricostruzione. H figlio in un momento di nevrosi in­ fantile si uccide. Allora scatta la nevrosi latente della madre borghese. Irene è una nevrotica che non riesce a sopportare il peso delle responsabilità che evidentemente non aveva saputo affrontare, fa tutte queste cose strane, e non è capita dai suoi. Al­ la fine lei esce anche dalla capacità di sopportazione e dall’ideologia borghese. Non è comunista, non è cattolica, non vuole “fare del bene”. Concludo che è matta. E io sono d’accordo con loro e del parere che Irene sia completamente matta. Se l’opera di Rossellini si può giudicare da questo film, io credo che il discorso sul movimento studentesco, sulle avanguardie rivoluzionarie, sulla pratica so­ ciale e il discorso sull’autore Rossellini siano due discorsi che vanno compietamente disgiunti.

Beretta - Io partecipo al seminario che si sta tenendo in questi giorni, ho visto al­ tri film di Rossellini, e mi sento di sottoscrivere completamente quest’ultimo in­ tervento. Il film riesce soltanto a suscitare reazioni di tipo religioso. Io dico che per capire la realtà c’è la ragione, e non credo negli istinti, nelle emozioni, nei sommovimenti che può suscitare un film come questo. E tutto molto ambiguo: mi sembrano delle vere e proprie mistificazioni. Rossellini -Posso risponderle? Vede, che mi si dica che sono un cretino lo pos­ so accettare, ma mistificatore no, e questa parola non l’accetto. Che io dica le cose nei limiti della mia struttura mentale, del mio modo di senti­ re e vedere è ovvio, e lei può benissimo non essere d’accordo. Ma non credo, mi scusi, di essere un mistificatore. Beretta - Vorrei chiarire in che senso ho usato il termine: mistificazione nel sen­ so che mi pare che lei voglia affrontare la realtà a livello di istinto e tagliare fuo­ ri la ragione. In questo senso, e vorrei che lei mi dicesse se è così e perché.

Rossellini- Allora cercherò di chiarirglielo. Vede, uno, nell’impostare una cosa, può sempre partire da un atteggiamento ti­ po «mo’ te dico tutto io», e questa è la cosa che io non farò mai. Quando uso il termine “istinto” lo uso in questo senso, riferendomi alla com­ plessità dell’atteggiamento necessario a chi vuole studiare la realtà. So benissimo quanto è facile per l’uomo, qualunque uomo, sbagliare. Se noi an­ diamo appena appena con la mente alle vicende della storia degli uomini, ve­ diamo che è completamente infarcita di errori madornali, fatti proprio quando si credeva di sviluppare un senso critico preciso. Naturalmente nessuno si è im­

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messo nella storia decidendo a priori che avrebbe assunto il ruolo del delin­ quente o che so io: la maggior parte dei coinvolti era in buona fede. Lei deve ammettere che nell’uomo ci sono queste due grandi misure: l’uomo può essere straordinariamente geniale, e proprio in proporzione a questa sua ge­ nialità ha la possibilità, come rischio e contrappunto, di fare degli errori che so­ no altrettanto grandi delle conquiste che può fare. Questo mi sembra il vero dramma in cui l’uomo si dibatte. Logicamente il nostro cervello ha la possibilità di organizzare una serie di ra­ gionamenti sottilissimi, di prevedere, ma alla fine il giudizio su quello che ab­ biamo fatto ce lo dà il tempo. Nessuno parte col proposito di sistematizzare l’er­ rore, tutti partono con la volontà precisa di non farne, ma poi gli errori si com­ piono lo stesso. Vede, per “istintivo” io intendo questo: mi voglio mettere in una posizione cri­ tica nei confronti del quadro generale dell’uomo e quindi tento di vederlo nelle sue reali prospettive, con tutti i rischi che questa operazione comporta, da una parte e dall’altra. Allora cerco di andare a scoprire la verità più piccola, più pun­ tiforme, perché magari è quella che può servire per capire. Beretta - Ma il discorso, così, resta nel vago. Quando io rivendico la necessità di un atteggiamento razionale, non parlo mica dell’atteggiamento di chi sta fuori della realtà. I progressi sono scientifici, d’accordo, ma la scientificità è raziona­ lità; mentre i suoi personaggi concludono nell’isolamento mistico.

Rossellini - Senta, ma lei crede che sia veramente tanto facile per un uomo vin­ cere secondo la logica? Io credo, ed è un metodo come un altro, valevole per quelle che sono le mie possibilità ideologiche, che bisogna tentare diagnosi del­ la realtà così come la si avverte attraverso gli occhi della pelle. Bianchi- Secondo me sull’opera di Rossellini ci sono due cose molto importan­ ti da dire. Prima di tutto che Rossellini si pone di fronte alla realtà in maniera non autoritaria, lasciando alla realtà tutta la sua ambiguità, la sua complessità. Perché le analisi di Rossellini sono molto precise politicamente, spietate. Ora una domanda: lei ha parlato di progresso in un certo modo, poi ha parlato del movimento studentesco dicendo che bisogna comprenderlo e che bisogna, in generale, facilitare e favorire le evoluzioni. Mi sembra che ci sia una contraddi­ zione fra le cose che fa nei film e quelle che ha detto stasera. Mi spiego: se non c’è via d’uscita in questa società, se essere diversi significa essere rinchiusi, a chi si dovrebbe chiedere questa comprensione? A chi ha sempre dimostrato di non saper comprendere altro che i motivi della propria autoconservazione?

Rossellini -Ma scusi, qual è la realtà? La lotta di sempre fra il progresso e chi lo

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frena: Proudhon diceva che la rivoluzione nasce dalla lotta che viene fatta alle idee. Questa è la realtà. Se prima il progresso andava a salti di grillo ora è pro­ rompente. Da ciò la necessità di vincere la paura, il terrore delle strade che non si conoscono. Ci sono dei freni da individuare, da allentare, da togliere.

Bianchi-Ma scusi, io vorrei un discorso più chiaro. Ci sono ostacoli e ostacoli, fre­ ni e freni. Alla grande industria, per esempio, mica si può dire di allentare i freni. Rossellini - Senta, io ho una grande fiducia negli uomini e proprio per questo so quanto si possa essere ciechi e imbecilli. Se uno non riesce a vedere gli sviluppi è logico che li tema: oggi la realtà storica è tutta negli sviluppi. Bisogna fare una grande lotta - violenta o pacifica è poi una questione di scelta di metodo - per rendere evidente a tutti che si vive nel progresso, nei suoi sviluppi, e che bisogna accettarlo, anche con tutto quel che c’è in esso di tormentoso.

Bianchi - Un’altra cosa. A me piace molto che lei non proponga mai una solu­ zione, che è sempre un fatto autoritario e reazionario. Ora, il progresso. Cosa possiamo fare noi per il progresso? Se parliamo di cinema cosa possiamo fare per il progresso del cinema, a tutti i livelli? Se guardiamo al tipo di ricezione del pubblico medio, se pensiamo a come è organizzata la distribuzione, ecc., vale ancora la pena di fare un film e di farlo proiettare a spettatori con le ali tarpate? Può essere inutile, o addirittura reazionario. Rossellini - Io, per tutte le ragioni che dice lei, da parecchi anni ho smesso di fare cinema. Mi preoccupo soltanto di fare dei programmi che ritengo utili per l’infor­ mazione. Siccome credo che ci sia bisogno di rimettere in ordine le idee generali per stimolare in chiarezza lo spirito di progresso, mostro quale è la grande traiet­ toria della storia umana, che è sempre di progresso, che è sempre andata avanti, an­ che se ci sono stati momenti orribili di ritorni indietro. Se cominciamo ad avere chiaro l’arco delle cose, forse possiamo proseguire meglio. Per questo non faccio più cinema spettacolare e sono fra i pochissimi - e lo faccio male - che cercano di mettere insieme delle immagini che abbiano valore didascalico, o didattico. Ma senza pedagogia, sia chiaro: si tratta di far presenti i vari lati del problema. Bianchi - Quello che mi preoccupa è se serve fare questo in televisione, con la «Fiera dei sogni» dopo e «Carosello» prima.

Rossellini - Certo che serve. Uno deve starci, mettersi in mezzo, rompere le sca­ tole a tutti. Non si può mica costruirsi la propria televisione. L’alternativa è quel­ la di stare chiusi in casa a liberarsi da soli, e mi pare inutile. Bisogna fare sola­ mente questo: se si è convinti di essere capaci di fare una cosa, tentare a tutti i co­

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sti di farla. E per farla, essere degli scocciatori tremendi, stancare l’avversario.

Carlini - Vorrei portare alcuni elementi che possano contribuire a una precisa­ zione sul problema della politicità dei film. Nel movimento studentesco, e io ne faccio parte, è diffusa l’idea che film politi­ ci siano quelli in cui si vedono tante bandiere rosse, tantissimi operai, e poi scio­ peri, dimostrazioni e cariche della polizia. I modelli sono certi filmini che ab­ biamo visto sul Maggio francese o il cinema di Solanas [allusione a La hora de los hornos, L’ora dei forni, di Fernando Solanas e Octavio Getino, 1968]. Ma questo è, nel migliore dei casi, un cinema per militanti, che hanno già avuto una presa di coscienza, che sono o dovrebbero essere già liberati. Un film come quello di stasera può essere invece liberante perché tiene conto della mediazione necessaria per l’uomo comune, normale. E sono mediazioni di tipo erotico, sentimentale, di situazioni, di invenzioni. Il tutto va sotto il segno del rispetto della totalità della realtà. La protagonista si libera perché ha immaginazione e coraggio, e c’è chi schematizza e parla di mi­ sticismo. Il fatto è che il film non è solo la comunicazione di un messaggio ma una proposta di metodo, una possibilità offerta allo spettatore. E un esempio, uno, di liberazione. Sono questi fraintendimenti che permettono la continuazione di una politica culturale da dopoguerra, morta e sepolta. Allora si voleva il cinema sui partigia­ ni, e oggi no; ma le cose non mi sembrano cambiate per nulla. Nascimbeni - Io vorrei chiedere a Rossellini un chiarimento su un particolare minimo: il personaggio interpretato da Federico Fellini ne II miracolo, un per­ sonaggio senza voce, è una presenza fisica reale oppure no?

Rossellini - Mi scusi, ma la mette incinta, no? Più reale di così... Benvenuti — Io ho scoperto da poco il cinema di Rossellini e vi ho trovato una carica dirompente, una forza capace d i coinvolgere e sconvolgere totalmente chi vi partecipa. Anche politicamente il cinema che ci propone Rossellini va molto più in là di molte altre proposte di cinema politico fatte finora. Detto questo, vorrei un momento accennare a una possibilità che esiste di usci­ re dal dilemma circuiti ufficiali o televisione o niente, dilemma che affiorava pri­ ma nella discussione. Che i film siano presentati in televisione e che una parte dei telespettatori possa ricavarne qualche utilità è giusto. Ma i film fatti prima? Europa ’51, per esempio. Bisogna impegnarsi perché film come questi arrivino alla base, alla classe tagliata fuori sia dalla politica del potere che dalla politica culturale della sinistra ufficiale.

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Spettatore non identificato — Lei ha detto che non fa più film e lavora per la tele­ visione. Di questo ha dato una spiegazione. Ora io ho qualche dubbio sui moti­ vi reali che l’hanno spinta a questo. Non le sembra che le si sia inaridita la vena politica che c’era dietro i film del periodo neorealista e che lei non abbia sapu­ to, magari cambiando metodo, seguitare in quella direzione, inserendosi in una realtà politica diversa?

Rossellint' — No, non mi sembra. Ma d’altra parte non oserei mai controbattere quella che è senz’altro una sua meditata opinione. Dunque, dicevo, se io voglio fare un film ed entro nella meccanica della distri­ buzione non creda che riesca a fare quello che voglio io. Invece, vi sembrerà stra­ no, ma con la televisione è più facile, se non altro perché la televisione ha mi­ gliaia di ore di programmazione all’anno, e qualcosa si riesce a far passare, o per­ ché la televisione ha la necessità di variare i suoi programmi. E poi, sa, adesso ho fatto un programma in varie puntate che dura dodici ore [La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza] : in dodici ore si riesce a dire qualcosa, magari poco, ma certo più che in un’ora e mezzo. Apra - Nel complesso c’è una cosa che mi colpisce in Rossellini e nel pubblico a cui il suo cinema si rivolge: il fatto che siano possibili due atteggiamenti distinti nel modo di accostarsi all’opera: un atteggiamento vitale, dinamico, e uno mor­ tale, statico. Rossellini è vitale, ama la vita; i suoi critici per lo più sono mortali, amano la mor­ te. In che senso? Rossellini propone una linea di azione: chi osserva o si mette a cercare l’errore, il pelo nell’uovo, oppure chi recepisce la linea in avanti e la con­ tinua. Il primo è uno spettatore mortale, il secondo uno spettatore vitale. Rossellini è un uomo che non ha mai l’atteggiamento di chi dice «in medio stat virtus» ma è violento nei confronti della realtà e si getta nel vuoto. Chi si getta nel vuoto non ha conti da rendere a nessuno, specie a quelli che stan­ no a guardare. Chi non ha capito questo di Rossellini, non ha capito niente. Nei rapporti tra l’opera di Rossellini e la critica italiana si può agevolmente trova­ re la prova sicura del fatto che la critica italiana è profondamente, obiettivamente reazionaria. Il solo guaio è che questa critica aveva in tasca la tessera del PCI. Era una critica che amava le classificazioni, e, in testa a tutto, il “reale”. Solo che per questi signori reale vuol dire già noto, già conosciuto, cioè la negazione di ciò che si può conoscere. La posizione è quella di chi sta fermo e vuole toccare con mano: la negazione dell’atteggiamento di chi vuole uscire a scoprire quello che non sa. Esiste, insomma, la realtà delle pietre e quella dei vulcani: le pietre stanno ferme, i vulcani esplodono. Che vogliamo fare? Accettiamo le esplosioni o rimaniamo ab­ barbicati alla sicurezza delle pietre e facciamo finta che i vulcani non esistano?

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Rossellini è terroristico, come Irene in Europa ’51: ti mette di fronte alle tue re­ sponsabilità personali. O sei con me o sei contro di me. Non ti sono permessi compromessi, conciliazioni, il “poi vedremo”: devi prendere posizione, subito. Stasera molti hanno rifiutato non il film ma una posizione, opponendo una pre­ tesa razionalità a una presunta irrazionalità. Così facendo hanno rifiutato la pos­ sibilità di un uomo totale e la necessità dell’errore. E invece bisogna sbagliare perché sbagliare è vita. La morte non ha sbagli, non si discute e non si sceglie, tutte le morti sono uguali, non inquietano perché i ca­ daveri non hanno occhi per guardarci. I film di Rossellini ti guardano negli oc­ chi. Quando un uomo ti guarda negli occhi o ci voltiamo e scappiamo o gli an­ diamo incontro e in questa azione ci realizziamo. La maggior parte del cinema italiano è un cinema di morti, è “realistico” nel senso che ci mostra come siamo, ci mette in pace con noi stessi, ci concilia, non ci mostra come non siamo e come potremmo essere. E un cinema di pace, di pacificazione, mentre quello di Ros­ sellini è un cinema di guerra, di guerriglia, di rivoluzione.

Spettatore non identificato - Sono meravigliato del terrorismo dell’intervento di Aprà: è lesivo nei confronti del diritto di un’assemblea di criticare o di rifiutare. Gli interventi rozzi o ingenui vanno giustificati perché è Rossellini che provoca al discorso politico. Spettatore non identificato - L’intervento precedente ci assicura che, di fronte a un cinema di morti, che ci mette in pace con noi stessi, ci concilia, il cinema di Rossellini è «cinema di guerra, di guerriglia, di rivoluzione». Non ci credo. In Europa ’51 viene mostrata una realtà che è di sfruttati e sfruttatori. La prota­ gonista sceglie di stare a suo modo da una parte, quella degli sfruttati. Ma è chia­ ro che un giovane rivoluzionario di oggi non possa identificarsi nel tipo di scel­ ta che la protagonista fa. Lattualità del film mi pare stia più nel gesto del ragaz­ zo che nella scelta della madre causata da questo gesto. Il suicidio del ragazzo è come la scelta di quelli che sono andati a dimostrare davanti a «La Bussola» [di Viareggio] pochi mesi fa: un gesto non rivoluzionario ma importante, perché anche se non cambia la realtà la demis tifica e permette che sorgano chiarezze ed esigenze nuove. Ma poi la scelta di Irene non la capisco, mi sembra una scelta francescana, fuori del tempo. Che San Francesco usasse certi metodi perché non ne aveva a disposizione altri è giusto: il rifiuto totale. Ma negli anni Cinquanta è assurda questa scelta irrazionalistica, non di lotta ma di amore. Non è un caso che si parli tanto di amore nei film di Ingmar Bergman, che ha scelto la socialdemo­ crazia scandinava, con la politica dei blocchi, e la rinascita di una mentalità pic­ colo borghese potenziata dal nascente neocapitalismo. Mi perdoni Rossellini, ma la scelta della sua protagonista non ha portato anch’essa una briciola a favo­ re della legge truffa del 1953 ?

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Spettatore non identificato - Non sono d’accordo con gran parte degli interven­ ti. Il discorso doveva essere politico. Sono molto perplesso sia sulla posizione di Rossellini nel film che sulle sue dichiarazioni di stasera. Va bene il riordinamen­ to generale delle idee ma un artista non distaccato dalla realtà deve indicare con precisione i metodi. Perché non vuole, non sa, non può fare un discorso politico? Rossellini -1 discorsi sono sempre e soltanto politici. Poi bisogna scegliere i me­ todi per farli, questi discorsi, e io credo fermamente che i discorsi politici non si debbono condurre con le passioni. La passione è la molla strettamente necessa­ ria, ma poi bisogna arrivare alla razionalità: e ci si arriva con la conoscenza. Le scelte non devono essere di umore ma debbono nascere dalla maturazione del pensiero. Per questo insisto a fare opera orientativa e didattica, a cercare di fa­ re, per quanto so e posso, la storia. Ma questo non significa non avere una visione politica e nemmeno non avere idee e posizioni politiche.

Rossellini al Mianon.

Dibattito della terza giornata (25 maggio) Sono stati proiettati Viva l’Italia, Vanina Vanini, Una voce umana [completo], La presa del potere da parte di Luigi XIV.

Benvenuti - Vorrei prendere subito la parola io, molto brevemente. In Nostra Si­ gnora dei Turchi Carmelo Bene dice che esistono i cretini che hanno visto la ma­ donna e i cretini che la madonna non l’hanno vista mai. A me questa suddivisio­ ne sembrava sufficiente fino a ieri sera, cioè fino al dibattito avuto con Rossellini dopo la proiezione di Europa ’SI. Mi pare ora di aver capito che esistono anche i cretini che quando vedono la madonna, siccome, visto di che cosa è fatta la ma­ donna, ne hanno paura, allora fanno finta di non averla vista. La paura che han­ no è quella della scoperta immediata della propria impotenza e della propria fri­ gidità. Costoro, chiudendosi nella propria ipocrisia, si illudono che giurando a se stessi e agli altri di non aver mai visto la madonna possono togliersi di dosso ogni tipo di responsabilità, innanzitutto verso se stessi. Diventano così l’immagi­ ne vivente dell’anticultura fascista, dell’orrida schematicità della cultura ufficia­ le, nonché di gran parte di quella di sinistra, della critica, disgraziatissima, che ha anche condizionato tutta la politica culturale del movimento operaio fino ad og­ gi. Questo nuovo tipo di cretini che ho scoperto, quando si trovano davanti l’uo­ mo che ci propone Rossellini sono terrorizzati dalla sua verità, dalla complessità delle sue componenti, e allora lo rifiutano perché ne hanno terrore, hanno paura di identificarsi con lui al negativo. Hanno paura di sé, in sostanza: di scoprirsi.

ÌVLenon - Cos’era, questo? Un intervento, una mozione d’ordine? O cos’altro? Benvenuti - Era una provocazione, mi sembra chiaro. Beretta - E allora? Io la madonna non l’ho mai vista.

Benvenuti — Ecco, lo sapevo.

Beretta - Io la madonna non l’ho mai vista, ma non so se è per questo che mi si de­ ve dare del cretino. Non vedo con quale diritto tu possa dire che sono cretino. Benvenuti- A prescindere che la cosa che ho detto è un tantino diversa, chi ti di­ ce che io mi riferissi a te? (segue una discussione confusa e inintelligibile)

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Menon — Per favore, vedete di calmarvi. Vorrei dire io alcune cose a Beretta, se me lo permette. Vedi, il fatto che tu abbia subito detto: «Io non sono un cretino», e ti sia sentito chiamato in causa è già abbastanza indicativo del tuo atteggiamento nei confronti non dei film, perché con i film si può, anzi si deve, essere critici quan­ to si vuole, ma del seminario che stiamo facendo. Questo dibattito ha impegnato la maggior parte di noi in misura e in maniera diversa da quello che succede nei dibattiti cinematografici soliti. Tu questa diversità l’hai finora rifiutata, e devo di­ re con coerenza estrema. Ma ciò nonostante questo tuo atteggiamento mi sfugge. Tu rifiuti che altri, davanti a un uomo che si pone di fronte alle cose come Ros­ sellini, ci si mettano liberamente anche loro, e accettino di cambiarsi. La tua reazione di ora è evidentemente la spia di questo tuo atteggiamento e il sintomo di un disagio che esiste, obiettivamente, fra te e una maggioranza. Quan­ do Benvenuti ha usato il termine “cretino”, non a caso citando Carmelo Bene, lo ha evidentemente usato come una formula che non va intesa nel senso con cui siamo abituati a dire e a intendere la parola “cretino”. Paolo, come molti fra noi, ritiene che esista una dimensione, quella della fantasia, dell’invenzione, e della reinvenzione. Di nuovi termini, di nuovi significati da dare ai termini stessi, in una ricostruzione del linguaggio che porti a un tipo di comprensione nuova, per cui si può anche dire una cosa intendendone un’altra, perché ci si fida non tan­ to dell’intelligenza quanto della disponibilità, dell’apertura di chi ci ascolta. Cre­ do, almeno, che questo possa essere il senso del discorso di Paolo, al di là delle intenzioni provocatorie. L’insofferenza tua e la scarsa partecipazione di alcuni pochi altri devo dire che la considero come un fatto decisamente negativo, perché non aiuta a fare passi avanti né chi è d’accordo col discorso bene o male prevalente né chi non lo è. E poi, scusami, ma non ti pare che tu trascuri almeno tutta la recente elabora­ zione e tutta la serie di meno recenti ma illustri tesi scientifiche, filosofiche, let­ terarie per cui il cretino, il pazzo, l’idiota altri non è che il portatore di latenze non approvate dalla società? Forse il problema è questo: che “cretino” è l’uo­ mo, che i più cretini forse sono più uomini. Se teniamo presente, certo assieme ad altre cose, questo, allora non ci adontiamo se sentiamo parlare di cretini e ci domandiamo cosa l’altro volesse dire. E allora forse anche quando Rossellini di­ ce e fa certe cose, si capirebbe di più se non ci si fermasse alla loro superificie. Beretta — Io avevo preso la provocazione per quello che era, appunto una pro­ vocazione, e basta. Se vogliamo fare una discussione su Rossellini facciamola, ma se poi vi pare che il mio atteggiamento voglia dire che io non ho capito nien­ te, in questo caso posso anche non intervenire più.

Menon — Guarda, non mi pare proprio il caso. Consideriamo questa una di­ gressione sul metodo e andiamo avanti.

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Spettatore non identificato - Io sono estraneo al vostro seminario, ma siccome lavoro all’istituto di Storia del Cinema dell’università, di cinema mi interesso e quindi vorrei poter dire anch’io alcune cose. Innanzitutto: se fossi entrato per caso in questa stanza nei giorni scorsi, senza sa­ pere che si stava parlando di cinema, mi sarebbe stato estremamente difficile ca­ pire se si discuteva di cinema o non, mettiamo, di un romanzo, o di un raccon­ to, o di qualsiasi altra cosa, magari anche di un sogno. Si è insistito su quello che i personaggi dicono o fanno arrivando a tirare delle conseguenze ambigue e forzate. Detto questo, vorrei ora parlare del film Stromboli, anche se in maniera appros­ simativa, perché per me parlare di un film significa fare una critica testuale, im­ possibile a farsi se non c’è la possibilità di un serio approfondimento analitico. Comunque, Stromboli è stato una rivelazione, sia nei confronti degli altri film precedenti, sia nei confronti del modo in cui l’ha trattato la nostra critica, Fer­ rara, Lizzani e altri. Devo dire che non sono d’accordo sul rifiuto di questa critica. Per loro dire Ros­ sellini significa dire neorealismo, e dire neorealismo voleva dire quasi esclusivamente Roma città aperta e Paisà, cioè le opere più rappresentative di quella cor­ rente nata da una esigenza civile di intervento portata alle estreme conseguenze. Come la cinematografia sovietica all’indomani della rivoluzione di Ottobre. Il che mi sembra quantomeno specioso. Stromboli rappresenta un nuovo punto di partenza per rivedere tutto. C’è un neorealismo che non è basato esclusivamen­ te sulla precisione di una contingenza storica, ma che si limita ad acquisire alcu­ ni valori sociali, che non prescindono da una certa volontà documentaristica. Ma tutto questo si cala poi nelle forme. Ci sono, predominanti, questioni di rit­ mo in Stromboli. Si è visto anche ieri sera che cosa ci ha detto Rossellini, anzi che cosa non ci ha detto, perché è un uomo capacissimo di esprimersi con le imma­ gini ma che verbalmente sa dire ben poco. Tanto più questo avvalora l’ipotesi del cinema come fatto essenzialmente figurativo. Per esempio: il film non è dop­ piato [la versione proiettata era quella “internazionale”, in inglese, della Cineteca Nazionale] ma io l’ho capito lo stesso perché c’è stata una forma cinematografi­ ca fondamentalmente visiva che ha portato all’acquisizione di un linguaggio che travalica le posizioni derivate dalla lingua usata. Spettatore non identificato - Scusatemi se intervengo anch’io, altro estraneo al vostro seminario: ma allora perché B.ossellini curerebbe tanto il sonoro fino a differenziare le lingue? Perché questo non dovrebbe avere importanza? Spettatore non identificato - Ma esattamente perché il cinema è un mezzo di co­ municazione audiovisiva, e allora viene coinvolto il concetto di rumore, quello di musica, quello di parola...

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Spettatore non identificato - La parola è una cosa, la lingua un’altra. Invito a non confondere i concetti. Apra - Scusatemi se vi interrompo tutti e due, non perché siete “estranei” ma per­ ché mi pare che a questo punto sia necessaria un’altra digressione sul metodo. Io non capisco come si possano portare ancora avanti le categorie degli anni Trenta, per cui si sente la necessità di classificare secondo un linguaggio preesistente di­ cendo del cinema che è arte figurativa o che non lo è, o che altro so io. E terroriz­ zante un approccio di questo tipo, che distingue, in un’opera, [qualcosa da] quel­ lo che è un tutto e che la rende tale. Perché mettersi a classificare, a sovrapporre al­ l’opera degli schemi che sono schemi precostituiti? Ieri abbiamo già avuto modo di parlarne: sento nelle vostre parole la scuola teorica dei Chiarini, degli Umberto Barbaro, dei Pudovkin, insomma quello che tutti sanno per averlo letto nelle teo­ riche di Guido Aristarco [il riferimento è ai “ classici” Uarte delfilm. Antologia sto­ rico-critica, Bompiani, Milano, 1950, ^Storia delle teoriche delfilm, Einaudi, Tori­ no, 1960, n ed.]. Ma tutti costoro sono cadaveri, ed è stato il seguirli che ha porta­ to, fra le altre cose, a un risultato vistoso come l’incomprensione di Rossellini.

Spettatore non identificato — Ma vi sono molti elementi compresenti nell’opera di Rossellini. Io ricordo nei primi film alcune effettive citazioni da Ejzenstejn [si riferisce a La nave bianca, 1941]. Bisogna applicare le teorie del montaggio.

Apra — Ma quelli sono contributi di De Rolbertis o del fotografo, o del montatore. Chi ha visto la Corazzata Potèmkin e La nave bianca, uno dei primi film di Rossel­ lini, ha detto che si somigliano. Certo, com e si somigliano una tigre e un gatto per il fatto di appartenere tutti e due alla famiglia dei felini. Si vuole instaurare ad ogni costo un rapporto dove non c’è, per la smania - sarà bisogno di sicurezza, non lo so - di teorizzare, di mettere in piedi una serie di ridicoli schematismi che impo­ veriscono la ricchezza e la complessità dell a storia del cinema. Il che non può de­ rivare che dalla non conoscenza della stessa. E per queste operazioni la scuola cri­ tica italiana è benemerita: infatti è una delle peggiori del mondo. Scusatemi se dico queste cose con veemenza, ma sono discorsi che mi sorprende sentire fare qui, perché erano dieci anni che non li sentivo più, e mi sembrano co­ sì superati, cadaverici, che sento il bisogno di intervenire con chiarezza e violen­ temente.

Menon - Quando ho sentito dire che chi fosse entrato per caso non avrebbe ca­ pito di che cosa stavamo parlando, sono stato molto contento: vuol dire che il se­ minario è sulla buona strada per riuscire. Probabilmente non si capiva di che cosa stavamo parlando, perché stavamo par­ lando di noi. In questo senso allora è apprezzabilissimo il gesto di Beretta che reagisce, è vivo.

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Non è per non farvi intervenire, ma temo che questo tipo di interventi, che poi sollecitala replica conia distinzione “fra” e “fra”, abbia come unica conseguenza di far saltare un dibattito che è stato sufficientemente unitario, finora. Spettatore non identificato - Sto osservando con rammarico che si pretende di parlare di cinema ignorando a priori quella che può essere considerata una me­ todologia perla lettura del cinema. Anzi, nell’ambito dell’istituto in cui lavoro, ci si batte proprio per questo, per fornire a chi frequenta i corsi la capacità di leggere un testo cinematografico, di fare una critica testuale. Ciò che general­ mente, mancando anche una terminologia ed essendo costretti a mutuarla dalla critica delle altre arti... Menon — Nessuno nega che anche queste siano delle esigenze. Forse non hai ca­ pito che questo seminario si propone altre cose, se non altro tenuto conto della riconosciuta non specificità delle conoscenze della maggior parte dei parteci­ panti. Quello che si vuole è l’aumento di formazione politica in quadri che vorremmo si impegnassero in un settore del lavoro politico, quello dell’organizzazione ci­ nematografica. Sarà poi compito di ciascuno approfondire anche da specialista, ma se ne avrà il tempo, se gli sembrerà necessario, in un confronto quotidiano con le esigenze della base.

Spettatore non identificato - Ma a me sembra assurdo pretendere che si debba studiare la geometria non su un manuale ma su Piero della Francesca.

Apra — Ma è soltanto così che Einstein riesce a ribaltare la geometria euclidea e a costruirne un’altra. Chiaramente, se vuoi conoscere ciò che esiste, e quello sol­ tanto, ti metti all’interno delle ideologie e ne utilizzi gli schemi; se vuoi andare ol­ tre rompi ideologie e metodologie. Tu dici che lo scopo dell’istituto per cui lavori è quello di creare delle metodo­ logie; lo scopo mio è di distruggere queste metodologie. Io lavoro contro il tuo Istituto, obiettivamente. Quanto al discorso che facevi sul linguaggio, se tu mi conosci e conosci la rivista sulla quale scrivo, sai che se c’è in Italia uno che si interessa del linguaggio cine­ matografico e di ricerca di lettura testuale dei film, quello sono io. Vorrei sape­ re chi altri se non noi di «Cinema & Film», in Italia, ha fatto questo lavoro. Non certo gli Aristarco o i Chiarini, che sono proprio le persone che hanno un’edu­ cazione tipicamente letteraria o da arti figurative, e con questo atteggiamento vedono i film, e vedono le forme come forme statiche, e non un film come un rapporto di forme intricatissimo. Proprio chi fa la lettura testuale si rende con­ to oggi che non esistono metodologie che contino. Andare alla ricerca di meto­

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dologie è andare alla ricerca di abiti che ti permettano, nella vita come nell’arte, di dire, come diceva qualcuno prima, «i matti al manicomio perché non si pos­ sono classificare». E invece noi stiamo parlando del cinema di un matto con l’at­ teggiamento di matti. E i matti, credo sia chiaro, sono spesso intolleranti, so­ prattutto con chi crede di essere savio e fa il medico superiore. Garrè - Mi pare che il pregio di questo seminario sia proprio quello di non im­ porre alcuna metodologia, di far dire ad ognuno quello che pensa nei modi che gli sembrano più opportuni. Mi sembra anche che uno le cose le può vedere in modo sbagliato, ma che è poi dal confronto che esce il nuovo. Quindi non biso­ gna essere settari, né in una direzione né in un’altra. E proprio perché non sono settario che mi preoccupo del fatto che Rossellini, rifiutata una serie di schemi sociali attraverso delle scelte di linguaggio, finisce poi, almeno a mio parere, per creare un altro schema. Così il mito esce dalla porta e rientra dalla finestra, e ri­ torniamo ad altri culti della personalità. Che tutti dicano dunque la loro opinio­ ne, e che nascano dal dibattito dei germi di un atteggiamento veramente nuovo nei confronti del cinema, da verificare poi nella prassi sociale, senza demagogia.

Aprà — Mi fa piacere che esista gente come te. Io, in realtà, sono stato violento nella mia reazione perché mi sento incerto. Mi pare che Rossellini abbia suscitato e messo a fuoco in me il concetto che esiste la possibilità di vivere in due modi, ugualmente veri, e che però io non riesco a conciliare. Da una parte l’atteggia­ mento che ho espresso io, settario, autoritario se vuoi, e dall’altra l’atteggiamento di chi dice che “bisogna sentire tutte le campane”, che è non dico il tuo personale ma quello di cui tu ti sei fatto portatore. Ebbene, a me fa piacere che tu esista, perché avrei paura se tutti fossero come mi sento io in questo momento. Ora però, se siamo tutti d’accordo, direi che si può riprendere a parlare di Rosselli­ ni: che queste discussioni siano servite come una sincera scintilla di metodo. Menon — Visto che per il momento nessuno vuol prendere la parola, vorrei dire io alcune cose, limitandomi a parlare solo di alcuni nuovi film visti e con l’in­ tenzione di enunciare soltanto una serie dii problemi e di temi che mi sembrano ormai quelli fondamentali in un’analisi di Rossellini, ma che vorrei fosse poi il di­ battito ad allargare e ad approfondire. Ieri sera, discutendo con alcuni di noi, Rossellini ha detto qualcosa sul fatto che si nasce sapendo di morire, che si fa una gran fatica per tutta la vita per dimen­ ticarsene, ma che non c’è niente da fare, perché la morte è l’unica certezza, il fat­ to comune, l’avvenimento in fondo più sociale di tutti. Ho idea, dopo aver visto i film di oggi, che questo pensiero sia uno dei nodi fon­ damentali per capire l’opera di Rossellini. L’altro è il tema della “marzianità”. Qui si sono usati molti termini diversi: si è par­

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lato di Edmund appunto come di un marziano, della “uscita verticale” in Strom­ boli, dello scatto, del salto nel vuoto, della soluzione non programmata (tra l’altro mi accorgo che dire «non programmata» è molto esatto: raccontava Rossellini che l’eruzione del vulcano in Stromboli non era prevista in sede di sceneggiatura, ma che poi, come si sa, i vulcani eruttano, si è sul posto, si filma, e magari finisce che solo allora si capisce il film, il film che si fa fino in fondo, il miracolo, ecc. ). Diceva Velati ieri una cosa affascinante culturalmente, ma oggi mi accorgo che è anche di una precisione critica estrema e che va al nocciolo del problema. Dice­ va che Viaggio in Italia, oltre ad essere un viaggio in Italia e un viaggio agli inferi, è contemporaneamente il viaggio di Astolfo sulla Luna. Ecco racchiusi in una so­ la frase “colta” i tre elementi fondamentali dell’opera di Rossellini: la tensione eutopica all’altro, al diverso, alla felicità immortale, agli spazi siderali, come volete voi, oppure più semplicemente la ricerca di un punto di vista più alto; il senso continuo della morte e la necessità di fare i conti con la paura che l’uomo ne ha, per cui tutta la nostra tradizione culturale, l’inconscio collettivo della civiltà me­ diterranea è pieno di viaggi agli inferi, dal mito di Orfeo, all’Ulisse omerico, a Dante Alighieri (e del resto la cultura moderna non è meno piena di invenzioni utopiche del più vario genere, le cui tracce riusciamo a scoprire fino a Carlo Marx); la “terrestrità”, infine, per cui Rossellini accetta il proprio ruolo di essere umano, la limitazione dell’esistenza storica, e sceglie di conoscere il mistero, e la realtà. E un’attitudine personale, la volontà di rimanere attaccato alla terra perché gli piace, sempre e comunque, perché soffre di non essere più giovane, di avere la pancia o che so io. E di questa “terrestrità” fa parte; ed è segno vistoso il terribi­ le intuito che contraddistingue Rossellini, le sue antenne pronte a vibrare e a cap­ tare, la sua capacità di rotolarsi per i prati con gli “occhi della pelle” ben aperti perché ne rimanga attaccato qualcosa del reale su cui applicarsi. Tre motivi fondamentali, dunque, compresenti incessantemente nell’opera di Rossellini. E va detto che seguono un percorso variato sì, ma incredibilmente omogeneo. C’è da rimanere stupefatti nel rendersi conto, in una visione acca­ vallata di film che vanno dal 1945 al 1966, che i conti tornano in maniera perfetta. E permettetemi anche di dire che tornano se non altro perché questa visione ci ricorda l’urgenza di una distinzione troppo spesso dimenticata, in epoca di mas­ sificazione e di industria culturale, che esiste fra le altre differenze che compe­ tono all’uomo: quella fra geniale e ingegnoso. Credo che la terribile autoco­ scienza di Rossellini sia stata espressa in maniera perfetta nel finale de La presa del potere da parte di Luigi XIV, quando, fra le massime che legge, Luigi ne legge una che dice pressappoco di alcuni che sono più avanti degli altri non per ric­ chezze né per onori, e nemmeno per meriti e realizzazioni, ma per il giudizio che a un certo punto hanno avuto il coraggio e hanno saputo dare di sé. Questo è un concetto terribilmente difficile e non semplifica certamente le co­ se, almeno a me non le semplifica affatto.

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A parte questo, La presa del potere, un film perfetto, mi sembra che sia la chiave di volta per capire l’intero edificio: qui quelli che ho indicato come i tre temi fon­ damentali di Rossellini si saldano con la massima precisione, come per un fatto programmaticamente necessario nella sua evoluzione. n film è un’analisi storica di grande esattezza, condotta con un rigore di stampo tacitiano, quel tipo di rigore da storico implacabile che non rinuncia a farsi coin­ volgere con tutte le sue passioni ma che non lascia nemmeno sfiorare la propria necessaria obiettività da quelle stesse passioni che pure lo muovono e che sono il motore della sua ricerca, della sua indagine. Dal punto di vista di un’analisi di classe il discorso non ha cedimenti. Infatti nel film il popolo non si vede che all’inizio, tagliato fuori dalla vicenda, e come sfon­ do nell’incredibile raccordo narrativo su D’Artagnan. Perché il popolo non è una classe, non è ancora tale perché o non ne ha coscienza o non si sono verifi­ cate ancora le condizioni perché possa diventarlo e cominciare ad averne co­ scienza. E una parte tagliata fuori dalla storia, in quel momento, che non rap­ presenta alcuna istanza progressiva nello sviluppo della società: l’istanza pro­ gressiva è rappresentata dalla borghesia che si andava affermando nei commerci, nelle manifatture, nella nascente industria. Luigi XIV sceglie la borghesia e pun­ ta su Colbert, che incarna il nuovo spirito nascente, quello dell’economia, della formazione del capitale, di una nuova morale di stampo recente basata sulla qua­ dratura delle cifre e dei bilanci. Colbert solo in cifre ragiona, e in onestà delle ci­ fre: è fedele a chi gli permette di far quadrare e produrre quelle cifre. Luigi XIV segna la fine della classe fino ad allora dominante, la nobiltà, che basava il pro­ prio potere sulla rendita fondiaria, improduttiva: ne segna il massimo fulgore e contemporaneamente ne precipita la decadenza lasciando spazio alla classe bor­ ghese che farà la rivoluzione nel ’79, e tagliando fuori il popolo. Rossellini fa i conti con la storia attraverso un personaggio le cui ultime parole, solo con se stesso, sono sul sole e sulla morte. Se ricordate, la prima parola del film è anch’essa «sole», mentre si narra la lun­ ga morte di Mazzarino. Il sole e la morte sono i due temi: Luigi è un personaggio che, applicandosi alla storia, raggiunge quel famoso punto di vista più alto, e ne ha perfetta coscienza, tanto da dichiararlo, -alla fine. Ma lui e i suoi sono racchiusi a Versailles, in quel­ la lugubre sequenza mortale che mostra la nuova corte come una raccolta di spi­ riti morti nei Campi Elisi. Su Vanina Vanini che, rivisto, si conferma un film meraviglioso, di un coraggio incredibile, vorrei dire soltanto una cosa, perché sia sottolineata fin da ora. Rossellini in Vanina Vanini spacca l’universo in due: due universi, quello ma­ schile e quello femminile, che si incontrano e si scontrano in un amore notturno che non sopporta la luce del sole. Pietro MLissirilli e Vanina sono l’uomo e la don­ na, o meglio delle tendenze di un certo tipo e quelle di tipo opposto, ambedue

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compresenti e necessarie alla creatura uomo; sono la linea e il cerchio, due modi inconciliabili e irrimediabilmente complementari di vivere la realtà e di soprav­ vivere come specie. E abbastanza chiaro, mi pare, perché, dopo questo film, Ros­ sellini si dia a “riordinare le idee generali” sulla specie. A sottolineare questi due universi basterebbe il finale, straordinario, con le due morti e i due percorsi diversi: quello di Pietro rettilineo, anzi ad angolo retto; quello di Vanina spezzato, affannoso, tendente al cerchio. Ma vorrei citare anche un’altra sequenza, e sottolinearne la somiglianza con quella di Roma città aperta in cui Anna Magnani e il suo uomo parlano della guerra e del futuro seduti sulle scale di casa; precisamente la sequenza in cui Pietro spiega a Vanina i suoi ideali, il mondo futuro con i re al servizio del popolo, ecc. Pietro parla delle sue speran­ ze e delle azioni indispensabili per concretarle, è tutto in tensione. Vanina ascol­ ta, o meglio assorbe, tutta raccolta in se stessa, gradatamente si accende e poi ci fa l’amore. Alla fine, cioè, lei è pronta a ri cevere dall’uomo che ama qualcosa che lei comprende in sé e che lui può solo rivelarle, non darle. E un approccio col mon­ do storico da capire, cambiare, trasformare, distruggere, ricostruire, del tutto di­ verso da quello di lui. Tutta la scena è girata però in un lunghissimo, interminabile piano-sequenza, per esprimere l’inscindibilità, la necessità per la totalità di entrambe le componenti. Insomma un film geniale, altissimo. Due parole infine su Viva l’Italia, un film che amo molto e che mi commuove da quando ho capito che è il film più scoperto, più direttamente autobiografico di Rossellini. E se pensate che è un film “di regime”, da celebrazioni del centenario dell’Unità d’Italia, è certamente un gran fatto che Rossellini ne abbia fatto un film su di sé, altro che quattro sbrodolature gramsciane ficcate dentro ad altre cose. Forse è il caso di dire che alla lunga il sistema si disturba molto di più così. Nel film Garibaldi è Rossellini. Rossellini, che ha fatto cose gloriose, che ha fatto il cinema italiano, che poi è do­ vuto andare via perché il cinema italiano era venuto su diverso, la sua presenza dava fastidio, il suo ruolo non veniva riconosciuto, della sua naturalità, del suo istinto, del suo “seguire l’ispirazione” non se ne faceva niente nessuno. Ora è potuto tornare. Troviamo Garibaldi all’inizio del film che non ha un cuscino su cui posare il capo, ma il momento è favorevole per tentare un’impresa (per fare un film?) e allora la tenta: si mette in testa di fare un lavoro bene, di farlo meglio e prima di Vittorio Emanuele II e di Cavour, oltre i compromessi della classe che questi rappresentano, mentre lui, Garibaldi, è l’eroe del popolo. Come Garibaldi fa l’impresa dei Mille, così Rossellini, cent’anni dopo, fa Viva l’I­ talia per ricominciare da capo, e risale nuovamente l’Italia a seguito di un eser­ cito di liberazione. Il film è la storia di un lavoro fatto bene da un personaggio dignitoso, intelli­

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gente, sensibile, che vince la battaglia di Calatafìmi così come si inventa lo zoom, che consegna il regno delle Due Sicilie a un re e a un’Italia che peggioreranno la situazione, e il film finito al produttore e al pubblico che ne faranno certo pessi­ mo uso. Ponzi dice anche che il personaggio di Tina Louise, la giornalista francese a Pa­ lermo, è un critico dei «Cahiers du Cinema» che va a intervistare Rossellini sul set, e che il figlio Menotti è nient’altro che Renzino Rossellini, collaboratore del padre, e che quando i garibaldini si fermano davanti allo stretto di Messina è perché il produttore non vuole più tirare fuori i soldi e la lavorazione non può an­ dare avanti. Comunque, vorrei che faceste attenzione a un particolare: alla precisione con cui Rossellini mette in scena le battaglie in questo film; io non ho mai visto al cinema una battaglia in cui fosse chiaro l’obiettivo da conquistare, i mezzi per raggiun­ gerlo, i risultati, gli schieramenti. In questa seria operazione invece è tutto chiaro. La fine del film è una sconfitta: la luce diu rna calda, solare di tutto il film cede a una luce verde-blu, a un’alba in cui fa freddo e umido e i cerini non si accendo­ no. Garibaldi, al culmine della sua gloria, è costretto a cedere i frutti della sua im­ presa e ad andarsene, in grande tristezza. Tutto il film è personale, sofferto, as­ sai tenero, e assolutamente antiretorico; e il risultato è raggiunto attraverso una scelta pazzesca, cioè con il massimo della retorica. Al punto di far parlare un per­ sonaggio (il maggiore letterato [Cesare] Bandi, autore del testo di memorie a cui il film si ispira [I Mille, da Genova a Capua, 1903], e che è interpretato da Franco Interlenghi) con la lingua “scritta” del tempo, mentre gli altri parlano un linguaggio moderno. Al punto che non ci viene risparmiata nessuna delle frasi che tutti noi abbiamo incominciato a odiare dall’età della ragione, o almeno della ragione democrati­ ca, tipo «Qui si fa l’Italia o si muore», oppure «A Palermo o all’inferno», oppu­ re ancora «Ci rivedremo, a Roma». Al punto che si arriva a un gioiello di spirito e di autoironia quando Garibaldi, che fino a quel momento non ha fatto altro che sputare sentenze tramandate dal­ la storia e previste in sceneggiatura, dovendo rispondere all’emissario di Vitto­ rio Emanuele con una frase degna del momento e dell’interlocutore, si concen­ tra a lungo per poterla dire, ma siccome la frase “memorabile” non c’è, ci ri­ nuncia e dice, con lo stesso tono e in maniera strabiliante: «Le farò avere la mia risposta».

Rossi-Vorrei dire alcune cose sull’uso deh zoom. Mi sembra che ci sia una profonda differenza tra l’uso che fa dello zoom per esempio Petri (vedi la recensione di Ponzi sul numero 2 di «Cinema & Film» [di A ciascuno il suo, 1966]) e l’uso che ne fa Rossellini. Uno zoom come quello di Petri è mistificante, e nel separarla nasconde la realtà. Lo zoom rosselliniano, in­

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vece, ha la proprietà, in una determinata realtà schermica, di raccoglierne gli ele­ menti, di separarli e poi raccoglierli nuovamente. Incontro, separazione, nuovo incontro: come nel coito. A proposito de La presa del potere Menon ha detto che è un film perfetto, e mi pare che non si possa che essere d’accordo: mi pare che sia un film su una mise en scène, un film dove sia Luigi XIV che Rossellini mettono in scena qualcosa, os­ sia una finzione perfetta. Rossellini fa di questo film appunto una finzione perfetta, conducendo l’opera­ zione fino in fondo: come i grandi film di Hollywood, quelli di Howard Hawks per esempio. Diceva una volta Aprà che nei film di Hawks c’è sempre un piccolo errore, ma­ gari di montaggio, messo lì apposta per dare la cifra dell’umanità dell’autore, della sua capacità di errore, per firmarsi, ecco. Mi sembra che la stessa cosa valga per questo film. Luigi XIV, che per tutto il film fa atti provatissimi e non sbaglia mai, nella svestizione finale compie un errore: si toglie una banda prima di togliersi il collare, mentre dovrebbe fare il contra­ rio. Ed è un errore incredibile. Ma se si deve parlare di perfezione, mi sembra che, rispetto a Hawks, Rossellini alla fine dichiari che il film è un sogno, ma vada oltre il film perfetto per il fatto che realizza la perfezione in pienezza di umanità.

Nascimbeni—N‘A. bene parlare di perfezione, ma perché il film è così perfetto, e ge­ niale? A me sembra, e per il momento voglio dire solo questo, che il motivo prin­ cipale sia il fatto che il film è visto come dall’intemo di un individuo. Il regista, che di solito è dietro la macchina da presa, qui è dentro il personaggio principale.

Rossi— Vorrei aggiungere qualcosa, perché ciò che ho detto mi sembra giusto ma mi sono accorto di non averlo detto fino in fondo. Se Luigi XIV e Rossellini mettono in scena l’uno la propria finzione politica e l’al­ tro la propria finzione cinematografica, Luigi e Rossellini sono la stessa persona: per la prima volta, forse, Rossellini prende completamente atto di se stesso come di un uomo che ha fatto e che sa molte cose sulla realtà e sulla vita, e come uomo, anche, che ha pudore di quello che sa. E questo film è una diagnosi su se stesso. UngartMenon prima ricordava quella cosa detta ieri da Rossellini a proposito della paura della morte che si ha fin dalla nascita. Vorrei sottolineare questo pun­ to per ritornarci su alla fine del mio intervento. Ora, ho visto Vanina Vanini, e l’ho trovato sublime, ma alla fine ho avuto la sgra­ devole sensazione di non averci capito niente. Altrettanto sgradevole la sensa­ zione, poche ore dopo, di avere improvvisamente capito tutto avendo visto La presa del potere.

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Sono due film che possono sembrare molto diversi, e probabilmente lo sono. Ma sono giunto alla conclusione che il personaggio di Vanina e quello di Luigi XIV sono complementari. Nei film di Rossellini vi sono dei personaggi che segnano l’inizio di qualcosa, qual­ cosa di nuovo e di diverso, di “oltre”; c’è un personaggio, Edmund, che è con­ temporaneamente la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro. Poi ci sono i per­ sonaggi come Vanina e Luigi XIV che sono la fine di qualcosa e basta. Vanina e Luigi, come Edmund (qualcuno prima citava con molta esattezza Thomas Mann), che si addossa la responsabilità di un intero mondo, compiono due suicidi. E mentre Vanina compie l’occultamento di un suicidio (il cancello del conven­ to si chiude su di lei), Luigi mette in scena il suicidio di un’epoca. I due film so­ no diversi ad altro livello: smagliante l’uno, opaco l’altro. Smagliante La presa del potere perché questo suicidio collettivo è messo in scena a livello delle appa­ renze, una esibizione della superficie delle cose, mentre in Vanina Vanini succe­ de il contrario, perché i personaggi nascondono il loro comportamento di mor­ te fino alla fine. Il film mi era oscuro perché Vanina mi sembrava un personaggio che “apre”, mentre invece Vanina, proprio perché am a Pietro, lo porta alla morte: per tutto il film il suo amore la porta a cercare di continuo di togliere la libertà all’uomo amato. Ora arrivo al problema della morte e dell’attesa e della paura della morte. Vanina nel corso del film non fa che rimandare la morte dell’uomo che ama, ma alla fine la morte, inevitabilmente, arriva. Ne La presa delpotere Luigi XIV la esor­ cizza attraverso un rito: credo che l’aspetto rituale, addirittura liturgico, sia quel­ lo fondamentale nel film. Il superamento della morte in Vanina Vanini è illusorio perché interno al film: Vanina muore veramente e Pietro muore nella storia, rappresenta un “piccolo passo” della storia, ma la vera morte non viene eliminata, è Vanina. Con La presa del potere Rossellini opera l’esorcizzazione della morte e allontana da sé la paura con un film perfetto, e quindi un film che dura. Ora può volgersi in­ dietro, a Socrate, agli Apostoli.

Aprà — Vorrei intervenire subito perche ho bisogno di chiarirmi le idee. Devo innanzitutto dire che fino ad oggi io credevo di aver capito tutto di Rossellini ma che ora, dopo la visione dei film di oggi e gli interventi di stasera, mi trovo davanti a elementi per me talmente nuovi, talmente “out” che se aspetto a parlare ho paura di non poter poi recuperare quello che volevo dire fin da prima; e scusa­ temi se non sarò molto chiaro e se salterò., come si dice, di palo in frasca. E per la casualità con cui è stato proiettato oggi Una voce umana (il caso è sem­ pre più prodigo di verità di quanto si possa supporre), tra Vanina Vanini e La presa del potere, che credo di poter dire di aver capito quello che è Rossellini nel

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profondo. E del resto mi pare che le s tesse cose stiano venendo fuori molto be­ ne dagli interventi che mi hanno preceduto. Ieri sera, tra le altre cose, Rossellini raccontava di essere passato, nel venire a Pi­ sa, per una zona collinosa molto bella, e che a lui piace molto la campagna, star­ sene disteso con «la panza all’aria», e aggiungeva che da quella prospettiva la pancia è il punto piu alto verso il sole:: mi pare che sia un’ottima chiave di inter­ pretazione e che collimi con le cose che siamo andati scoprendo in questi giorni nel suo cinema. Queste cose che Rossellini butta là senza parere, frasi apparen­ temente qualsiasi ma prodigiosamente acute e consapevoli, mi incantano per­ ché sono come il suo cinema. Rossellini come Luigi XIV, diceva Rossi: e lo è veramente, perché prevede tutto, mette in scena tutto. Luigi XIV mette in scena la propria epoca, e trasforma un pranzo in una barocca messa funebre. Rossellini rifa l’operazione, e la chiarisce. C’è nell’opera di Ros­ sellini una continuità assolutamente spaventosa: sarebbe interessante, ma mol­ ti di voi non conoscono i film, tentarti un confronto sistematico e organico, co­ me accennava ieri Ungari, tra il cinema di Rossellini e quello di Hitchcock, altro autore di grande continuità. Dicevo, dunque, di Una voceumana: in questo film c’è un universo presente e un universo assente, e questa dialettica è portata ai massimi limiti possibili al cine­ ma. Siamo chiusi in una stanza e il resto è solo sonoro e memoria: fuori c’è la realtà, la realtà del quotidiano, della vita che è possibile vivere. C’è la canzonet­ ta alla radio, un bambino che piange, dei passi, il rumore del portone, la voce al telefono, un cameriere al telefono: cose quotidiane, qualsiasi, possibili, che sono il netto contrario di ciò che è dentro la stanza. Cosa c’è dentro la stanza? L’altra realtà, folle, assoluta, barocca: un individuo ha deciso di vivere la sua vita in ma­ niera terroristica, come Irene, come Karin, come Edmund. Solo che invece di assistere a un itinerario che permetta una serie di incontri e di fatti scenici, qui assistiamo solo all’atto finale, dove tutto è concentrato. Una voce umana è come se fosse soltanto il suicidio di Edmund, o soltanto il «My God» di Karin, o soltanto la reclusione di Irene. Cosa fa Anna Magnani in Una voce umana? Si suicida, totalmente, nel momen­ to in cui vive il momento più vitale della sua esperienza: l’attaccamento alla vita è talmente disperato che comporta il suicidio. E non è un suicidio fisico, ma metaforico, l’idea di suicidio quando si arriva al­ l’intollerabilità. Lei dice: «Se si interrompe questa conversazione telefonica pos­ so anche morire». Quando butta giù il telefono muore: è una morte, ed è filma­ ta come una morte. Ora, cosa interessa a Rossellini filmare (e registrare: il film è il suo primo in pre­ sa diretta, interamente)? La dialettica fra un atteggiamento assoluto di fronte al­ la vita, che porta alla morte, e l’atteggiamento di un universo che continua a vi­

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vere. Se si vive come Anna Magnani si muore, se lo si fa come l’universo assente del film si può anche continuare a vivere. Ora, se io dovessi riassumere il cinema di Rossellini in una formula userei quel­ la che senza volere ho già usato ieri e l’altro ieri come una boutade ma che ora mi pare molto pertinente e precisa: il cinema di Rossellini è il cinema dell’erezione e dell’eiaculazione, cioè è basato sul meccanismo dell’erezione e dell’eiacula­ zione. Da questo nucleo fondamentale si dilatano poi una serie di variazioni. La meccanica è quella di un organo che solitamente tende verso il basso, e che a un certo punto si riempie di sangue e tende verso l’alto, raggiunge una certa ten­ sione, al culmine emette lo sperma. E il massimo di vita e di piacere, e nello stes­ so tempo è il crollo, e la morte. Germania anno zero è così: la camminata, il percorso e il procedere di Edmund, il salire sul palazzo, l’eiaculazione (la soggettiva della casa di fronte), e il crollo; diversamente Edmund non può fare perché ha visto la verità. Dice Luigi XIV che né il sole né la morte si possono guardare fissamente: i personaggi di Rossellini sono personaggi che osano fare questo, e quindi si suicidano, superano, vedono l’invisibile, come il David Bowman di 2001 che osa sfidare Dio-Hal 9000 e vin­ ce. Così sono i personaggi di Rossellini, sfidano Dio e tendono all’aldilà. Forse Rossellini è proprio uno spirito violentemente antireligioso. Eppure tutti i film di Rossellini sono una passione, una via crucis: pensate a Ka­ rin, a Nannina, a Irene. Karin - è chiaro - sul vulcano fa l’amore con Dio. Il con­ flitto fondamentale in Rossellini è fra amore e morte: ora, per me era applicable ai primi film, non mi pareva che fosse possibile sviluppare questa linea coeren­ temente attraverso i film successivi. E invece mi accorgo di sì. In Viva l’Italia il momento culminante è quando Garibaldi è tutto, ha tutto, e poi dà tutto. In­ quadrature mortali, un monumento funebre, quello che sta nelle piazze di tutte le città d’Italia. Vanina è una vampira piena di sangue, portatrice di amore e di morte. La vediamo all’inizio, nella scena del ballo introdotta dal dialogo fra il pederasta e il castrato, muoversi fra persone brutte, orrende, morti che ballano, come la Sharon Tate di Polanski fra i vampiri dissanguati della Transilvania [in The Fear­ less Vampire Killers, Per favore... non mordermi sul collo, 1967]. Ma è una vam­ pira vampirizzata: pensate alla scena in cui Vanina, vestita di nero, è posta fra i due cardinali vestiti di rosso. Tra l’altro questi preti di Rossellini sono sempre arrapatissimi. Ritorno ora all’elemento “luce” di cui ho già parlato a proposito di Germania anno zero. Pensiamo all’inizio, alla scena della taverna velocemente attraversata da Pietro inseguito da una spia. Quattro stanze di quattro diversi colori: giallo, verde, rosso, blu. E il segnale che il film è onirico, che è un sogno che rimanda ad altro: l’attraversamento del sogno è fatto da Pietro, sveglio a metà. E già stato detto che è un film notturno: da questa notte fugge varie volte Pietro,

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creatura diurna, e infatti le scene diurne sono quelle in cui c’è la massa, il popo­ lo. Sono i due universi, e Pietro sta in mezzo, come Alice che passa attraverso lo specchio. C’è, nel film, la dialettica inferno-purgatorio-paradiso. Laddove, schematizzan­ do, il popolo sovrano e il progresso nella libertà sono il paradiso sconosciuto, Pietro è la mediazione, il purgatorio, e Vanina è una creatura infernale. E sono creature infernali Karin, e Nannina. In generale Rossellini è contro il pur­ gatorio, e pensa che per arrivare al par adiso bisogna passare attraverso l’inferno, è per le scelte totali. Solo dopo il vulcano Karin può vedere le stelle. Tra l’altro, si parlava prima con Menon se non è il caso di esaminare l’opera di Rossellini alla luce di quel mito cardine che è Faust. Ora, la dialettica inferno-purgatorio-paradiso può anche essere quella tra fasci­ smo-democrazia-rivoluzione. Rossellini chiaramente non è per il pluralismo, per le molte voci, ma per la voce unica, la voce umana se mi permettete il gioco di parole. E non a caso passa dal film fantastico al film storico portandosi dietro tutte le contraddizioni. In Vanina Vanini il fascismo è la chies a mortale cui Vanina appartiene, ma Vani­ na è figlia sì ma figlia ribelle; Pietro è la democrazia, è il poter vivere. Luigi XIV si comporta in maniera autoritaria e fascista, impone, ma fa scoppiare così le contraddizioni dell’epoca. Poi si rinchiude, si suicida, non diversamente dal prossimo protagonista di un film di Rossellini, Caligola [progetto in realtà non realizzato]. Un altro fatto da notare nei film di Rossellini è quello della dialettica fra i quattro elementi fondamentali: acqua, aria, terra, fuoco. Se fate attenzione, ritornano continuamente, segni di alcune ossessioni rosselliniane. Per concludere vorrei dire che quello che mi sconvolge è che oggi credo di aver capito Rossellini secondo coordinate che sono completamente nuove rispetto a tutto quello che era stato detto finora e che io per dieci anni credevo di aver si­ stemato. E una scoperta tale che ne sono cambiato, e d’ora in poi credo che vi­ vrò in maniera diversa. Rossellini è veramente come Luigi XIV, mette in scena se stesso e così fa scoppiare le contraddizioni del cinema.

Piero Bargeliini [intervenuto “a sorpresa” nel nostro dibattito] — Vorrei che si tornasse a parlare di Vanina Vanini, che è un film stupendo. Innanzitutto con questo film Rossellini abolisce il cinema. In che senso? Perché toglie il tempo ci­ nematografico, muta il ritmo cinematografico per trasformare il rapporto con lo spettatore in uno scambio che avviene sul sincronismo perfetto fra le onde emesse dal cuore dello spettatore e le onde emesse dalla materia cosmica di cui è fatto il film. Seguire il corso del film è per lo spettatore come mettersi in una

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macchina del tempo ed essere trasportato nel presente di sempre, un presente continuo, uno spazio-tempo particolare raffigurabile solo come un cerchio di vita e di morte, senza inizio e fine, passato e futuro, alfa e omega. Il senso profondo del film mi pare questo: immetterci in questo presente conti­ nuo che è dato dal moto del nostro pianeta e in esso scegliere o Pietro o Vanina, l’uno che vive, perche è capace di amare e di dare, l’altra che muore, che entra nel nero. Dipende da noi scegliere la vita o la morte. In Europa ’51 Irene è come Pietro: sceglie la vita e tutti devono fare i conti con lei. Apra - Infatti Rossellini filma Irene in maniera diversa dagli altri, le dà più luce, in modo che Irene attraversa il film in maniera diversa dagli altri, con un “tem­ po” diverso, perché capta più luce. Ma dimmi, piuttosto, come sei arrivato a cogliere, in Vanina, i tempi diversi? Te la sentiresti di chiarire queste idee che io sento vere ma che faccio fatica a con­ cretare nel film?

Bargellini - Ma non è che si debba dare una spiegazione nettamente scientifica di questo fenomeno. E una capacità, un’attitudine di Rossellini, la stessa che gli ha consentito di fare film fascisti e di non essere mai fascista, proprio perché ha questo senso del presente continuo. Non è proprio il caso di dare spiegazioni scientifiche, oggi che riconosciamo che l’intelligenza viene utilizzata secondo parametri borghesi e utilizza strumenti borghesi, mentre invece ci serve quello che “non capisce”, lo scemo, perché non hanno importanza i “valori culturali” ma altre cose.

Beretta - Questa precisazione sull’intelligenza come appartenente al patrimonio borghese mi chiarisce forse molte cose. Secondo voi sembra che il fascismo sia una liberazione degli istinti e della fanta­ sia, ma questo non è un fatto reale. Nella pratica, come si proietta? Si è parlato di sole e di morte come di fatti metafisici, ma che il sole sia l’antitesi del buio e del­ la morte le persone “normali” lo sanno e non gliene importa niente. La vita è un fatto biologico, io sono vivo, basta così, non occorre occuparsene più, per chi se ne occupa c’è solo il misticismo. Già, il fascismo: molti di voi pare che lo vedano solamente attraverso la lettura di Nietzsche e allora per loro diventa sinonimo di liberazione. Ma il fascismo è un fat­ to storico di marca reazionaria e come tale dobbiamo vederlo, e non solo ma anche alla luce dell’ideologia marxista che ne ha dato l’interpretazione più avanzata. Vo­ gliamo intenderlo come momento di esaltazione contemplato dalla filosofia di Nietzsche? Ma allora è semplicemente anarchia e il risultato cambia di poco. H fatto è che voi tenete presenti solo le vostre reazioni istintive e non tenete con­ to che c’è chi queste reazioni le ha avute ma ha saputo già superarle.

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Apra - A me queste tue precisazioni interessano enormemente. Comunque do­ vrebbe essere chiaro che quando parlo di fascismo in un certo modo intendo ri­ ferirmi all’irrazionalismo e salto completamente il momento storico, che è por­ tatore di morte. Però in Nietzsche c’è sì il fascismo ma ci sono anche i germi di tutte le rivoluzioni del nostro tempo. Quello che mi inquieta e mi interessa è quel momento, quel punto di instabilità e di incertezza fra una cosa e l’altra. Beretta — Ma limitarsi alla sensazione appunto per questo è pericoloso, perché fa fare passi indietro. Oltre alla sensazione e all’intuizione, se si vuole costruire qualcosa è necessario il momento della riflessione. Forti—Ma io nego che siamo tutti preda di questa sfrenata sensibilità che tu dici e che la riflessione sia tanto assente. Riflettere vuol dire anche fare una serie di ri­ ferimenti e di collegamenti mentali, no? Non per il gusto di citare, ma vorrei proprio rifarmi a Marx e ad -alcune frasi mol­ to precise che ho subito collegato alla visione di Europa ’51. Più o meno Marx dice che l’ora di un operaio è uguale all’ora di un altro operaio e che l’uomo è la carcassa del tempo; poi che egli sta cercando di riportare la dottrina, criticando la religione, che «l’uomo sia per l’uomo l’essere supremo»; e inoltre, quasi lette­ ralmente: «La mia è una promessa della fine della contesa fra necessità e libertà, fra essenza ed esistenza». Non ti pare che questi fondamentali concetti marxiani riportino direttamente al cinema di Rossellini, e in particolare alla problematica affrontata e risolta in Eu­ ropa ’51? E chiaro che poi ognuno reagisce come vuole, e ciascuno continua in se stesso l’operazione rosselliniana, anche con l’aiuto di riferimenti, e anche di miti. Anzi, è merito della ricchezza dell’opera di Rossellini se noi siamo costretti a fare tan­ ta fatica per compiere su di noi e fra di noi un’operazione antiideologica come mi sembra quella che stiamo facendo, dove morte e vita non sono certo fatti scontati. E una concezione idealistica della scienza che ce li ha fatti dare per scontati. Beretta — Ma perché, c’è qualcuno che non dà per scontati vita e morte?

Menon - Certo che non è scontato. Se s olo pensi agli organismi unicellulari e -al fat­ to che riproducendosi per scissione sono praticamente immortali, già non è più scontato niente, e anche l’ineluttabilità della morte va a farsi benedire, non ti pare?

Beretta - Ma questo tavolo è un tavolo e basta. Le cose sono quelle che sono. Io certe domande non me le faccio. Non mi domando perché, e se ho gli occhi e le mani. Li ho e li uso.

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Menon - Andrebbe tutto benissimo, e io a questo punto sarei persino tentato di azzardare che il tuo atteggiamento in realtà è molto simile a un certo atteggia­ mento “sociale” di Rossellini. Anche lui usa i termini in modo diverso dalla mag­ gioranza, per cui quando parla di progresso scandalizza i marxisti osservanti; an­ che lui è uno che muove da una genitalità realizzata per cui non sta a guardare per il sottile, non si interroga direttamente sulle cose. Uno che “è” una cosa non si do­ manda “cos’è” quella stessa cosa, vero? Ma ho un dubbio, e spero che ora venga anche a te. Ti rendi conto che i tanti piccolo borghesi che conosciamo, e non solo piccolo borghesi, i morti-vivi della nostra società, parlano esattamente in questo modo, per loro tutto è scontato, non si fanno domande, “usano” e basta? Non ti far trarre in inganno dalla presunta “vaghezza” dei discorsi di molti; non sono certo, comunque, i discorsi che sentiresti fare da un piccolo borghese in­ tegrato. Rosati— Ieri sera, per i film fino ad allora visti, io parlavo di discesa in terra, a par­ tire da Germania anno zero per arrivare a Europa ’51, e, se ho visto bene, c’è una componente in Rossellini che è fondamentale: il minerale, la pietra, la materia, l’attenzione e l’attrazione per la materia, dalle macerie di Berlino alla roccia vul­ canica di Stromboli. Arrivati sulla terra c’è il viaggio agli inferi, che è il Viaggio in Italia. Qui deve co­ minciare il sacrificio, purificarsi per capire: la purificazione comincia davanti ai corpi umani disseppelliti, che sono pietra., materia. Poi è un susseguirsi di gente che non si piega, che vive se stessa fino in fondo, ma che si sacrifica: Garibaldi, Vanina, Luigi XIV. Quello che diceva poco fa Bargellini sulle onde sincroniche fra lo spettatore e la materia io lo ritrovo come incarnato in questa costante. Ne La presa del potere è la pietra che serve a costruire Versailles, e gli Atti degli Apostoli sono veramente la scoperta della natura del mondo, della materia di cui è fatto, della sua essen­ za e costituzione. Per questo Rossellini si volge al passato, a “riordinare le idee generali”, e in questo senso si può parlare di cinema didattico: mettersi in corri­ spondenza con la materia, riscoprire l’uomo, il suo conoscere il lavoro, il suo co­ struire le cose. E per questo c’è bisogno di un tempo cinematografico diverso: un film di sei ore. A Beretta vorrei dire questo: io sono partito da problemi di questo tipo, poi ho voluto il contatto con la realtà, l’attività pratica, il lavoro politico, ecc., ma mi so­ no accorto che non basta: che è l’uomo nuovo, non il vecchio, che deve entrare in contatto con la materia, con la realtà.

Beretta - Ma ti pare nuova la Irene di Europa ’51 ? E una che rifiuta di lavorare nel PCI, che è fuori dalla storia, che se ne frega degli altri, e vuole salvare solamente se stessa: è vittima dell’aristocrazia e del misticismo, che poi sono la stessa cosa.

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Io credo a questo punto di capire che la barriera che c’è fra me e molti di voi si chiama proprio Rossellini. Rosati- Ma solo casualmente e in parte noi siamo qui per Rossellini, che a que­ sto punto è un tramite attraverso il quale abbiamo uno scambio, un rapporto. Rossellini è il materiale, se vuoi il pretesto. Beretta — Ma non è il caso di accettare tutto di Rossellini, oppure di respingere tutto. Proprio questo mi dà fastidio in lui, il rifiuto degli altri, il far agire i suoi personaggi come se non facessero parte di una specie. Se noi gli andiamo dietro creiamo un divo, o un mito.

Menon - Non è che si vuole creare un mito. Semplicemente, la maggior parte di noi ha trovato in Rossellini un esempio, contraddittorio finché vuoi, di ap­ profondimento di una tematica che sentiamo riguardarci da vicino. E chiaro che la cosa è confusa, e complessa, e che la tendenza è quella di assolutizzare nel­ l’eccitazione collettiva della scoperta. Ma pure le citazioni di Forti da Marx han­ no un senso preciso, se pensi al concetto di lavoro alienato, a quello di libera­ zione dalla storia e dal lavoro.

Eorti- E il tanto vituperato Nietzsche dice che Zarathustra scende dalla monta­ gna ma per ritornarci non da solo. Che poi sia stato utilizzato dal fascismo mi in­ teressa poco, o relativamente. Zanichelli - A me pare che non ci siano dubbi. Che Rossellini conosca Marx ha nessuna o poca importanza. Io lo colloco in un ambito autenticamente marxista. Per troppo tempo ha fatto comodo trascurare e occultare il Marx che vuole la li­ berazione totale dell’uomo per utilizzare (male) solo il Marx “homo” compietamente “oeconomicus”; e pensare che è Marx a scrivere a Engels: «Finalmente mi sono liberato di questa merda di economia! ».

Metani-K proposito di utilità “politica” del cinema, a me pare che non è più Eu­ ropa ’51 il film politico, ma Vanina Vanini e La presa delpotere. Perché il problema oggi è di prendersi soggettivamente la responsabilità del peso cosmico della terra. Si può farlo da soli e continuare a vivere se non a vincere, come Pietro Missirilli che passa attraverso il film come un mutante, sale sul patibolo ma si volta verso di noi e noi sappiamo che continua a vivere perché siamo noi che dobbiamo farlo vi­ vere, oppure Luigi XIV che sa di non poter vincere ma sa anche che non morirà. La risposta politica totale è quella degli Apostoli, la stessa responsabilità dive­ nuta collettiva: gli Apostoli infatti vincono, sono dei vincitori, e ne hanno la com­ pleta consapevolezza.

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Gentile — Io non discuto le indubbie qualità di Rossellini, ma da che punto di vi­ sta si pone per trattare questa realtà che indaga? Non ha dietro di sé né una classe né un movimento, è al di fuori della storia, è un borghese che descrive le realtà più varie. Ora, che dia un giudizio sul comunista in Europa ‘51 facendone una mac­ chietta non è un giudizio che ha lo stesso valore di quello che danno a ragion veduta i gruppi della sinistra operaia o del movimento studentesco. Il loro è un giudizio che parte dalla prassi concreta e offre sbocchi operativi. Rossellini attraverso il suo film non dà niente, uno alla fine è commosso ma non sa che fare. Parafrasando Aprà, dopo l’erezione e l’eiaculazione non resta che mettersi a dormire. Aprà di­ ce che Rossellini lo fa cambiare. Ma che cosa ti offre di possibilità concrete? Zanichelli — Questa è una critica molto rozza. Comunque, anche a voler appiat­ tire e limitare le cose in questo modo, diciamo che se le forze politiche fossero state quello che non erano ci sarebbe stato un movimento come quello di Basa­ glia già allora, non ti pare? E poi, come si fa a parlare in questo modo, cosa c’entra Rossellini con Basaglia? Uno fa il regista e l’altro il medico, no? Ma mi ci hai portato tu, parlando a spro­ posito di possibilità concrete e di sbocchi operativi.

Menon — Dire che Rossellini è borghese non solo è esatto, ma va sottolineato. Ma allora diciamo anche che lo è Picasso , o chiunque altro, e anche quelli che nella sperimentazione si sono spinti più oltre. Del resto, per circa tre secoli bor­ ghese ha significato tout court uomo, il borghese è stato il massimo esempio di adattamento alla realta di una specie. E dagli ultimi figli ribelli della classe che esce la possibilitò di un modo diverso di vedere le cose, anche se spesso ciò non è ulteriormente specificabile e defini­ bile. Si operi, ecco, con un quadro, con un film, con la scelta di un lavoro politi­ co di quartiere come quello che facevano gli Apostoli, o come quello che puoi fa­ re tu, o chiunque altro.

Gentile — Ma le aperture di Rossellini sono sempre individualistiche; in questo è borghese. Aprà - Io dovrei rispondere alla domanda diretta che Gentile mi ha fatto. Ma non so, gli interventi di tutti sono cosi stimolanti che il mio punto di vista cambia in continuazione. Ora, per esempio, potrei dire che il problema fondamentale in Rossellini è il rapporto dialettico fra preistoria-storia-dopostoria e metastoria. Nel senso che ci sono due strade che, almeno per ora, vedo opposte, e che noi, che siamo nella storia, siamo costretti a scegliere. Vivere nella storia pur sapendo che c’è un oltre e, soffrendo della nostra frantu­ mazione, della nostra provvisorietà, sacrificare noi stessi alla collettività: col pos-

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sitile risultato di una sofferenza intima, di una solitudine, prodotta dal conflitto fra le sicurezze indubitabili dell’ideale storico e i bisogni del nostro io biologico; o invece vivere totalmente altre certezze: quelle soggettive, quelle metastoriche dell’io biologico, che però ci tagliano fuori dagli altri. O felici da soli, insomma, o infelici collettivamente. [Nota bene: il periodo precedente è stato cambiato ri­ spetto all’originale per rendere meno confuso il mio pensiero]. La terza strada è il paradiso di tutti, ma come arrivarci? Nella concretezza della prassi o nell’esasperazione dell’io? Rossellini ha certo scelto la strada del proprio corpo ma ha fatto dei film, ha oggettivato le sue scelte soggettive ed è dalla sua energia che noi ricaviamo l’energia che ci serve per conoscerci e discutere così come abbiamo fatto in questi giorni.

Sechi - Per me la posizione di Rossellini è tipica di chi si muove all’interno del ca­ pitalismo e della borghesia: un uomo che sente il marcio all’interno del sistema. Si sente chiaramente nei suoi film che c’è una realtà, che è dell’operaio, è del­ l’impiegato, è del professionista, che nega la vera realtà dell’uomo. Ma per libe­ rare l’uomo Rossellini crede che basti che si liberi, che crei, che vada da solo sul­ la montagna. Teme la collettività, e allora il personaggio si realizza fuori e contro il rapporto con gli altri, perché - come il suo autore - ha paura. Forse l’unica eccezione è la Nannina de 11 miracolo, preoccupata solo del futuro, libera dalla storia e perciò capace di creare. Per il resto tutto è sotto il segno dell’impotenza; non fase genitale ma fase ancora anale. Badiani - Si continua a chiedere a Rossellini di avere un ruolo che non può ave­ re. Siamo in un sistema che prevede e attua la divisione del lavoro, lui fa il regi­ sta. Il problema centrale suo è l’uomo, visto come uomo frutto del cristianesimo, punto di incontro e di incastro di una croce, con i suoi due bracci. E dei due bracci gli interessa capire quello che forse non si può capire, il braccio verticale. Carlini — Mi pare che per molti sia ancora valido un rapporto strumentale con l’arte, del tipo di quello che ha portato al cinema positivo sovietico, alla con­ danna di Ejzenstejn, perché il suo non era un cinema a una sola dimensione, che servisse immediatamente, ma un cinema complesso, cioè arte.

Ungari - Io a questo punto credo di dover dire che questa è una serie di spiegazioni di sé, di esibizioni. E non lo dico in senso negativo, mi limito a sottolinearlo. Aprà - Ma certo, ognuno fa il suo film.. Beretta, per esempio, forse è riuscito a su­ scitare questo pandemonio perché è l’unico che porta avanti una posizione che è quella di chi ha superato o vuol superare il complesso della morte, mentre gli altri no.

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Velati - Se ho ben capito, tu, Apra, metti in netta contrapposizione l’oggi e il do­ mani, la liberazione e il proprio corpo. Ma c’è invece, scusami, una strada sola, quella della lotta; è nella lotta che ci si libera, perché la rivoluzione non si fa una volta per sempre. Menon - Io temo che questo che dici, e detto poi così, possa trovare tutti tanto d’accordo da essere una chiusa, cioè, in questo caso, una chiusura.

Velati-Forse hai ragione. Certo, ognuno si fa il suo film. Apra - Sì, ognuno reagisce in maniera diversa, e il risultato è stato possibile per­ ché tutti hanno reagito seriamente: tu con il tuo riserbo, io con le mie esaspera­ zioni e provocazioni, Zanette con il suo ostinato silenzio, Beretta con la sua ir­ ruenza, ecc. ecc.

Garrè- Beretta giustamente mi diceva poco fa che il problema allora è nella scel­ ta e nell’uso del linguaggio, arrivando fino a non comprendere perché alcuni, per riferirsi ad altri, usino qui il termine compagno. Certamente lo si fa per sta­ bilire un minimo denominatore comune, che ovviamente c’è se siamo tutti qui per un seminario dell’ARCI, che ha una collocazione politica precisa; lo si fa an­ che perché non è il caso di chiedere più a nessuno la tessera del partito prima di considerarlo dalla propria parte. Ma al punto in cui questo dibattito è arrivato, forse voler ristabilire una base co­ mune di linguaggio è utile, perché può capitare quantomeno che si dicano le stesse cose in maniera tanto diversa da non capirsi. Un concetto può essere espresso in vari modi: io dico, per esempio, 50.000 disoccupati; un altro può di­ re 50.000 unità di mano d’opera disponibili. E diverso, no? Si tratta ora di capi­ re che cosa Rossellini vuol dire con la sua opera, ma con semplicità; dire che la sua è una filosofia esistenziale, che La presa del potere è appunto un film sulla tecnica della presa del potere. E un errore fare un mito di Rossellini, così come è un errore fare un mito del cinema a una dimensione, immediatamente utiliz­ zabile, quello delle bandiere rosse per intendersi. Stabiliamo assieme qual è il ti­ po di approccio di Rossellini con la realtà. Menon - Io apprezzo molto questo tuo richiamo non moralistico, e credo che la co­ sa si possa fare, magari domani in sede di conclusioni. E mi piace anche la capacità concreta di mediazione che tu hai dimostrato in questi giorni, frutto di una prati­ ca più che decennale all’interno del movimento operaio, una pratica che in gente come te è altamente stimabile perché non è diventata routine. Comunque è un frutto della storia dei partiti operai occidentali in questi ultimi quarantanni.

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Garrè - Forse sì. Solo che io vado oltre, la mia ricerca va oltre questi quarant’anni. Io sono completamente d’accordo con tutte le liberazioni e le prese di coscienza individuali, perché non voglio altre burocrazie al potere, non voglio ri­ voluzioni tradite prima di nascere. Comunque, questa che qualcuno ha definito come una terapia di gruppo si poteva fare con più ordine. Beretta - Insomma, qualsiasi cosa era buona purché ciascuno di noi si liberasse dei propri complessi?

Menon - Direi di no. Con qualunque altro autore italiano, per esempio, non sa­ rebbe successo.

Dibattito della quarta giornata. Conclusioni (26 maggio) Sono state proiettate le prime due puntate di Atti degli Apostoli.

Menon - Per ragioni varie alcuni sono già partiti, altri sono in partenza. Siamo in pochi e prima di finire saremo ancora meno. Vorrei pregarvi di essere perciò suc­ cinti e precisi. Naturalmente gli interventi sono ancora liberissimi, e si può par­ lare sia delle due puntate di Atti degli Apostoli viste stamattina che di altro. Se poi qualcuno se la sente di avventurarsi in un giudizio complessivo e dell’opera di Rossellini e del dibattito così come si è svolto in questi giorni, lo faccia pure, an­ zi, sarebbe auspicabile. Due - Si tratterebbe di mettersi ora in posizione critica nei confronti della propria critica. Ma è chiaro che la cosa è difficile, perché l’esperienza è troppo vicina, ne siamo tutti più o meno coinvolti, e la materia è una sola, composta sia dai film che dal dibattito, cioè sia dal contributo di Rossellini che da quello di ciascuno di noi. Comunque, per quanto mi riguarda, vorrei soltanto dire che mi pareva di aver in­ dividuato un problema che sarebbe stato alla base di tutti i film, e cioè il dualismo costante fra razionale e irrazionale. Ho cercato di definire questo tema quando ho parlato di Viaggio in Italia, e dell’amore come forza feconda attraverso la quale il dualismo verrebbe superato. Ma ieri sera mi sono accorto che posto così il pro­ blema resta nel vago, o se vogliamo essere generosi resta suscettibile di troppo va­ ste complicazioni. A cambiare quella prospettiva in cui mi stavo adagiando è sta­ to l’altro film sulla coppia, Vanina Vanini, perché quando ho cercato di inscrivere in questo schema i due protagonisti lo schema non li conteneva più. Vanina nel perseguire e nel soddisfare l’amore e il desiderio per Pietro è terri­ bilmente lucida; Pietro persegue obiettivi storici e necessari ma tutto proiettato nel futuro, assolutamente visionario: la dicotomia fra razionale e irrazionale non esiste più, e non è che vi sia stato un super amento, perché Rossellini non dà sin­ tesi, lascia procedere gli avvenimenti, curioso di vedere dove porteranno. E in­ fatti, in realtà, fino a che punto esiste questa dicotomia, esistono addirittura que­ ste due tendenze, questi due atteggiamen ti? La sintesi non sarà la ricerca di una nuova razionalità? E questa ricerca non sarà la giustificazione e il fondamento dell’arte? Questa ricerca non è per caso simile alla lotta di cui parlava ieri sera Ve­ lati, nella quale si attuano complementarmente quei due modi di vivere che op­ poneva l’uno all’altro Aprà?

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Bianchi' — Ieri sera, in apertura di dibattito, alcuni hanno sottolineato l’identità fra Luigi XIV e Rossellini, e il dibattito poi ha portato molto lontano questo con­ cetto. E evidente che tra il modo di essere di Rossellini, di esprimersi -l’abbia­ mo visto molto bene l’altra sera, ma, giustamente, più quelli di noi che hanno cenato assieme a lui che gli altri presenti solo al dibattito -, e il suo modo di fare i film. La chiamerei “naturalità”. E altrettanto evidente che c’è una contraddi­ zione fra la sua ricerca e la indubitabile critica alla società e al sistema borghese e la utilizzazione che egli di questa società fa. Ma la soluzione della contraddizione sta appunto nel suo modo di essere. Ros­ sellini infatti è completamente borghese, vive in armonia con la classe e l’epoca cui appartiene. Solo che la borghesia non gli basta più e questo non bastargli vie­ ne fuori nel momento in cui fa dei film. Certamente tende al paradiso in terra , al mondo astorico, alla società senza clas­ si, ma non riconosce nella lotta di classe lo strumento sufficiente per arrivarci; non fa quindi un film da un punto di vista di classe. Detto questo, vorrei aggiungere che mi sono chiarito perché qualcuno ha parla­ to di cinema onirico, fantastico, e che ho capito anche, credo, quanto Rossellini non sia un autore naturalista. Il fatto è che più che un cinema di personaggi, que­ sto di Rossellini è un cinema di idee incarnate in situazioni. Più che determina­ re un personaggio (pensate a come recitano i suoi attori), segue l’idea nel suo percorso attraverso le situazioni. Per questo i personaggi possono rimanere so­ spesi, perché il percorso dell’idea continua. In Viaggio in Italia, per esempio, ai personaggi non succede niente, in fondo possono tranquillamente rimanere uguali a se stessi. E chiaro a questo punto anche che cosa significa l’uso del piano-sequenza: è la raggiunta omogeneità di una fase del percorso dell’idea; e all’interno del pianosequenza lo zoom e i movimenti di macchina danno il ritmo e le oscillazioni del percorso dell’idea rappresentata. E chiaro che un cinema così è un cinema sì della realtà, ma non certo un cinema naturalistico. Aprà — Godard dice [nella sua recensione di India MatriBhumi, in «Cahiers du Cinéma», n. 96, giugno 1959] che nel cinema di Rossellini l’immagine non è al­ tro che il complemento dell’idea che la provoca. Mi pare che tu abbia detto la stessa cosa, e una cosa molto esatta. Metani— Si è detto, ieri sera, che in Viva l’Italia Rossellini arriva al massimo dell’antiretorica utilizzando il massimo della retorica. In sostanza fa un’operazione pop, esibisce gli spettatori che si identificano nella retorica. C’è una scena, per esempio, in cui Garibaldi entra in un paese e parla al popolo. C’è in primo pia­ no il popolo di spalle, poi Garibaldi, e dietro di lui i soldati borbonici vinti, a cui

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Garibaldi offre di combattere con lui, ma quelli rifiutano e allora lui li caccia. Mentre Garibaldi retoricamente si sdegna, lo spazio dietro di lui rimane vuoto. Rossellini chiede che quello spazio venga riempito dallo spettatore che affolla la sala e che sta dietro gli spettatori di Garibaldi, quelli a cui sta parlando e che sta liberando. Cioè, Rossellini chiede al pubblico di essere intelligente. In Vanina Vaniniperò gli chiede molto di più, gli chiede di vivere secondo la sua realtà, il suo peso biologico, completamente. Come diceva Rossellini l’altra sera rispondendo a Beretta: «Lei crede che sia tanto facile vincere secondo la logi­ ca?». Comunque: «Ci rivedremo a Roma» dice Garibaldi alla fine del film, e a Roma arriva Pietro Missirilli, che alla fine muore ma è sempre vivo, e difatti ri­ torna come Luigi. Ora, per Stromboli e Viaggio in Italia io ho parlato di muro e di specchio. Per La presa del potere parlerei di vetro, il vetro dell’obiettivo della macchina da presa (lo specchio rimane, è quello delle gigantografie che gli servono per farci vede­ re Piazza del Popolo o Versailles o Gerusalemme [Melani allude qui al “trucco dello specchio” utilizzato a cominciare da Vanina VaniniL}. Il vetro è lì per gli spettatori che non hanno superato la forza cosmica di Vanina, cioè per la mag­ gioranza, è lì per la critica che non ci ha capito niente: per loro La presa del potere è semplicemente un film rigoroso sulla presa del potere, perché il loro atteggia­ mento è quello di “capire”. La forza e il peso biologico di Luigi XIV e degli Apostoli riesce a coglierli solo chi ha superato il vetro. Apra - Certo che per le tue vie “strane” hai chiarito perfettamente le ragioni per cui La presa del potere è tanto piaciuto alla nostra critica cosiddetta “razionalista”. Melani—Un’ultima cosa vorrei dire, e cioè che Atti degli Apostoli è veramente il film dell’eròtica della politica, cioè indica le azioni e il ritmo necessari per af­ frontare e risolvere il problema politico numero uno, la paura della morte.

LJngari- Abbiamo ormai sperimentato che all’opera di Rossellini si possono ap­ plicare gli schemi interpretativi più diversi. Niente di nuovo, se si pensa alle ana­ lisi fatte e che si possono fare dei film del cinema fantastico, dei film di Hitchcock per esempio. Ma quello che è sconcertante è che mentre quegli autori alla fin fi­ ne accettano di operare una riduzione della realtà al film, allo schermo, in Ros­ sellini questo non c’è. Non c’è solamente il continuo cambiamento del punto di vista ma anche il continuo scambio e rimando dell’immagine e dell’idea. Il pun­ to è che forse quell’altro cinema è un cinema essenzialmente di forme, mentre quello di Rossellini è anche un cinema, sì, di sostanze. Vorrei ora dire qualcosa Atti degli Apostoli, anche se sarebbe meglio, prima di parlarne, poterlo vedere tutto [la serie televisiva è in cinque puntate].

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Atti degli Apostoli inizia là dove gli altri film finiscono, da un miracolo. E il mira­ colo è la resurrezione del Cristo, un Cristo non diverso da Luigi XIV o dal futuro Caligola, che si è ammazzato da sé perché ha dato, come dice Caifa a un certo punto, risposte diverse da quelle che le domande richiedevano. Principalmente mi sembra un film erotico. Se è vero che il cerchio è l’aspetto totalizzante, il film mi sembra proprio la storia di un cerchio e della sua resistenza ad essere spezza­ to. Il discorso sull’erotismo, secondo Bataille, è il discorso sulla necessità di strin­ gersi contraddetta continuamente dalla necessità di separarsi. Gli Apostoli mi paiono una creatura sola, e infatti quando sono assieme sono invincibili (la co­ munione è allora il massimo dell’erotismo). La paura della morte e la mortalità per loro diventano possibili singolarmente, quando uno si stacca dal gruppo. MelamMa si separano per non correre il rischio di chiudersi. Allora la rivolu­ zione si storicizza. Zanichelli -Se. mi sforzo di pormi da un punto di vista sintetico mi pare di poter dire che il cinema di Rossellini va sotto il segno dello scambio fra la totale sem­ plicità e la totale complicità [complessità?]. Poi mi impressiona la complessità erotica di questo cinema: è inquietante che Rossellini, che mi sembra il regista più virile, nel senso della forza, della disponibilità verso la vita, affidi poi di pre­ ferenza l’incarnazione di sé a figure di donne, spesso le sue donne. Mi preoccu­ pavo, sere fa, che gli itinerari di questi personaggi si concludessero con uno scac­ co: ma è giusto così. Quando si ha una passione totale, esclusiva, vissuta a livel­ lo individuale, è inevitabile arrivare allo scacco, all’esilio.

Aprà - E come spieghi il fatto Aie Atti degli Apostoli, film della prassi, finisca anch’esso con uno scacco? Allora sono tutti film disperati di un filosofo esistenziale? Zanichelli—Perché è il momento del riepilogo, della sintesi, il punto di parten­ za per un’altra fase nuova. E la possibilità di intervenire per ristrutturare l’uomo: pensa al problema del lavoro in questo film, a come viene mostrato il lavoro.

Borti- La grandezza di Rossellini sta appunto nella sua totalità, nel suo essere in sintonia con la complessità della realtà. Forse quella retorica che è contempora­ neamente antiretorica può servire come formula interpretativa generale. L’uni­ verso biologico, con tutta la sua violenza, fa sì che ogni cosa sia anche il suo ri­ baltamento. Beretta - Scusate ma io resto del parere che forse era il caso di puntare più su una metodologia che analizzasse la struttura dei singoli film.

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Zanichelli — Questo avrebbe significato perdere la totalità dell’opera.

Aprà - Vedi, alcuni di noi hanno superato le metodologie di vario tipo perché si sono accorti che non servivano, anzi, che distraevano dall’opera. Se vuoi siamo in cerca di una metodologia e il rischio, va detto, è che forse non abbiamo voglia di trovarla. Però per qualsiasi discorso mi pare non si possa accusare nessuno di non essere partito, oltre che da se stesso, dai film. benvenuti -E del resto l’errore più grosso è quello di accostarsi alla realtà in ma­ niera superficiale, mentre bisogna andare sempre oltre, a stimolarci di continuo il cervello perché non si accontenti più. Facendo così abbiamo avuto un dibat­ tito che non ha portato al livellamento delle opinioni ma se volete a una compli­ cità di tipo particolare fra noi: ci siamo regalati le fantasie più sfrenate scaturite da un materiale che avevamo in comune. Abbiamo fatto cioè un lavoro colletti­ vo che ha aumentato ciascuno di noi come singolo individuo.

Aprà - Vorrei tornare a un dibattito più “cinematografico”, anche se saranno osservazioni più o meno slegate fra loro. Vanina Vanini, fin dalle prime inquadrature, mi ha fatto l’impressione di essere uno specchio infranto, e mi sono ricorda to della frase che c’è ne L’ora del lupo [Vargtimmen di Ingmar Bergman, 1967]: «Ecco, lo specchio si è spezzato ma i mille frammenti continuano a riflettere il vostro volto». E la cosa accade per ra­ gioni tecniche perfettamente individuabili: le inquadrature sono spezzate non nel loro momento di esaurimento; se un personaggio fa un certo percorso ci aspettiamo che la macchina lo segua e se la macchina invece lo abbandona noi ci accorgiamo della cosa, chi perché lo nota essendo abituato alla lettura dei testi ci­ nematografici, chi solo a livello inconscio. Un film, dunque, di frantumi, una se­ rie di frammenti che faticosamente tendono a unirsi, un film di crisi: e anche il “destino” del film sembra confermare questa impressione, tagliuzzato e mal­ trattato come è stato dal produttore. Tra questi frammenti si fa strada la tensio­ ne al piano-sequenza, che si realizza in tutte le scene erotiche, compresa quella della confessione di Vanina. Atti degli Apostoli è invece essenzialmente un film di piani-sequenza: dà l’impres­ sione di sicurezza, di armonia, di terrestre concretezza. Se per Vanina Vanim&àtgellini poteva parlare di ritmo del cuore, del sangue, qui si può parlare di ritmo del respiro umano. E l’uso che Rossellini fa dei totali e dei piani-sequenza è tal­ mente poco casuale che si può dimostrare con un esempio qualsiasi. Ricorderete la sequenza in cui si manda a chiamare Gamaliele che è intento ai sacrifici. Ebbe­ ne, quella scena, con l’enorme altare, i fuochi, gli animali sgozzati, avrebbe proprio “chiamato” il totale. Invece Rossellini spezza di continuo la sequenza, evita sia la spettacolarità che l’armonia e la continuità, filma da vari punti di vista, gira attor-

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no al grande altare senza mai riprenderlo per intero. E una sequenza frustrante, ed è disarmonica perché il tema, il momento sono disarmonici ideologicamente, po­ liticamente. Perché la realtà che viene mostrata è opposta a quella degli Apostoli. E l’universo di Caifa, rappresentato dal fuoco e dal montaggio, dal ritmo spezza­ to; mentre l’universo degli Apostoli è l’universo dell’acqua e del piano-sequenza. Questi universi contrapposti (ma sono poi due facce della stessa medaglia: il Dio dell’odio e il Dio dell’amore) sono unificati da Paolo. In fondo le prime due pun­ tate sono la storia di un’altra nascita, quella di Paolo. Sarà Paolo l’uomo nuovo? No, se lo troviamo alla fine [dell’ultima puntata] in prigione, un po’ come Irene, che scrive una delle sue lettere alle comunità cristiane. Una cosa mi ha colpito: che per la prima volta gli Apostoli sono gli Apostoli, cioè la rappresentazione è diretta, non si ricorre più al simbolo per raccontare l’osses­ sione della nascita del Cristo, che, ormai è chiaro, è centrale in Rossellini. Qui Cri­ sto è nato, è vissuto, è morto e risorto, e gli Apostoli sono uomini del “dopo”. In­ fine, è estremamente interessante la nota di Zanichelli su Rossellini regista “fem­ minile” , e mi stimola a una suddivisione, che vale naturalmente quello che può valere qualsiasi schematizzazione. Rossellini ha fatto una serie di film con degli “eroi”, dei personaggi-idea privilegiati, e sono quelli interpretati dalla Magnani e dalla Bergman da un lato e Viva l’Italia e La presa del potere dall’altro. Ora, sulla base dell’osservazione ovvia ma acuta che Rossellini è tanto Garibal­ di quanto Luigi XIV, potremmo dire che in questa successione di calvari Rossel­ lini prima fa portare la croce alle sue donne, con un meccanismo di proiezione, poi la porta da sé, con il meccanismo opposto, quello dell’identificazione. A questa suddivisione sfuggono da una parte i film collettivi, che sono Roma città aperta, Paisà, Francesco, Atti degli Apostoli. L’unico che sfugge del tutto, a sé, e non per caso (pensate a cosa ha significato nel nostro dibattito), è Germa­ nia anno zero. Ma c’è un altro grande film che sfugge: India MatriBhumi, il film più “autre” di Rossellini, quello che separa nettamente due fasi, che sta fra Viag­ gio in Italia e Viva l’Italia, il film spartiacque. Ebbene, nel film ultimo, quello dell’armonia raggiunta, il film della prassi e della meditazione, Atti degli Apo­ stoli, c’è la voce di Sonali, la moglie indiana, la donna che non era mai compar­ sa finora in nessun film. E c’è non solo nei titoli di testa ma in due momenti cru­ ciali di queste due prime puntate, i momenti della morte e della vita, del sacrifi­ cio e della nascita: quando Stefano, il protomartire, giace morto, lapidato da quelle pietre di cui parlava Rosati (le stesse che scateneranno nella terza punta­ ta una gran carica di polizia contro il popolo che vuole pane), e quando Paolo “apre gli occhi alla vita” dopo l’accecamento. Forse tutto questo è il segno di una maturità e una serenità raggiunte, di un su­ peramento della dicotomia fra razionale e irrazionale.

Velati - Mi sembra che l’idea di Paolo uomo nuovo, del film come nascita di Pao­

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lo, sia esatta. E corrisponde perfettamente anche su un piano esclusivamente storico. Infatti è Paolo che fa uscire la tradizione ebraica da Israele, che riesce a spezzare una tradizione millenaria e a uscire nel mondo. Menon—Certo, facendola prevalere, in veste cristiana, sulle altre religioni orientali che premevano sulle cadenti istituzioni religiose di Roma. Ma Paolo è anche colui che ripristina il Dio della vendetta e della potenza, che pone i germi della futura Chiesa Trionfante. In questo senso il finale è giustamente ambiguo e sospeso. Rosati — Mi ha colpito il riferimento di Aprà a India. Secondo me Rossellini, quando fa Viaggio in Italia, scopre che tutto quello che aveva non gli basta più e si fa prendere dalla voglia del passato (le statue, l’antro della Sibilla). Allora va in India, il paese vicino alla nascita del mondo, al paradiso terrestre, il paese della conoscenza e della verità. E da lì, con un cammino difficile ma coerente, che ar­ riva agli Atti degli Apostoli, il film del ritrovamento della materia, del nostro re­ spiro in sintonia col respiro del film.

Menon — Vanina Vanini è l’ultimo film passionale, torbido, in cui Rossellini si coinvolge, l’ultimo calvario, e rappresenta il massimo di rischio e di tensione, fi­ no all’intollerabilità (la protagonista di Una voce umana dice al telefono: «Lo so, è in tollerabile, ma non posso farci niente, non posso farne a meno»: è quasi una dichiarazione di poetica). Fino a Vanina Vanini c’è sempre questo curioso divin­ colarsi, questo contorcimento di continuo deluso per trovare uno spazio per sé. Abbiamo visto, nel cinema di Rossellini, tanti miracoli, o solitari o collettivi. Ne­ gli Atti degli Apostoli c’è un altro miracolo, nuovo: il ritrovamento dello spazio fra due creature umane, Pietro e lo storpio. Guardarsi negli occhi veramente, in massima tensione, guarire e guarirsi: questa è la rivoluzione. Contro questo “at­ to” scatta la reazione, e Pietro viene arrestato. E allora veramente, come dice Ferdinand-Pierrot [in Pierrot le fou, Il bandito delle undici, di Jean-Luc Go­ dard, 1965], bisognerebbe descrivere non le persone e le cose, ma lo spazio che c’è fra le persone e le cose, per poterlo superare. Dopo si può anche consacrare, e istituire il superamento, ma allora la comunio­ ne è veramente un atto erotico, comunione come atto d’amore, come ricordo di una persona amata, perché era il migliore., quello che sapeva andare più a fondo di tutti, mentre noi e gli altri siamo pieni di debolezze, di paure. Certo, il film è anche la storia di Paolo e della sua funzione; che sia anche un film su una rivoluzione tradita, o meglio sui conti della rivoluzione con la storia? A questo punto dovrebbe essere mio compito, visto che abbiamo finito, dare di questo seminario un giudizio politico, ma ci rinuncio volentieri, lasciandolo a ciascuno di voi, perché i problemi che il dibattito e i film hanno sollevato credo siano vivi e aperti in ciascuno di voi.

FOTOGRAMMI

Roma città aperta (1945).

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Paisà (1946), I ep. II ep., Ill ep.

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■■I Paisà (1946), IV ep., V ep, VI ep.

Germania anno zero (1948).

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Lamore (1948), I ep.: Una voce umana. Lamore (1948), II ep.: Il miracolo.

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Stromboli ( 1950).

Europa '57 (1952).

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Viaggio in Italia (1954).

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Viva l’Italia (1961).

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Vanina Vanini (1961).

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La prise depouvoir par Louis XIV ( 1966).

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Atti degli Apostoli (1968-69), I puntata. Atti degli Apostoli ( 1968-69), II puntata.

Maurizio Badiani *

Che cosa ho fatto dopo (il seminario)

Studiare a Pisa sulla fine degli anni Sessanta era stimolante ma non facile. Oc­ cupazioni e cortei rubavano il tempo agli esami che avrebbero dovuto portare al­ la laurea. Il mio cursus universitario fu perciò una specie di percorso a ostacoli con un traguardo raggiunto tardivamente - una laurea in legge con tanto di lo­ de - e una seconda, in storia dell’arte, mancata non per carenza di vocazione ma per vile necessità di mantenimento. A Firenze, dove mi ero trasferito per seguire una fidanzata e per fare delle ri­ cerche archivistiche inerenti alla laurea in giurisprudenza, mi fu offerta da un’a­ genzia locale, allora importante, la possibilità di entrare in pubblicità: cercava­ no un copywriter. Io non sapevo cosa volesse dire ma suonava meglio di “fatto­ rino”. Accettai con riserva (vero lusso da tempi di vacche grasse). Se il lavoro mi fosse piaciuto, sarei rimasto. Rimasi. Cinque anni, prima come “copy”, poi co­ me direttore creativo. Una carriera fulminante. I clienti erano belli, la remune­ razione buona, ma mi sentivo in provincia. E, soprattutto, mi mancava il cinema. Facevo troppo pochi “spot” (allora si chiamavano Caroselli). C’era una sola agenzia in Italia che si distingueva per la qualità dei commer­ cial che ideava: era la McCann, americana. In poco meno di un anno avevo an­ ch’io il mio ufficio alla McCann. Era nel centro di Milano. Ero al centro della pubblicità. Nell’agenzia più grande d’Italia. Credevano in me. Mi pagarono un corso di cinema alla New York University: quaranta giorni di sofferenza passati in mezzo a un’umidità allucinante e a mo­ viole che si mangiavano a uno a uno tutti i dentelli di scorrimento della pellico­ la dei corti che dovevano servire come prova d’esame. Quaranta giorni di sla­ lom tra “moccoli” e santa pazienza. Ma servirono a lubrificare qualche mecca­ nismo un po’ arrugginito e a rinfocolare la passione per le immagini in

^Pisano, nato nel 1947. Creativo pubblicitario. Una laurea in giurisprudenza e una honoris cau­ sa in comunicazione. Ha lavorato per importanti clienti in alcune delle maggiori agenzie inter­ nazionali. Ha fatto parte del consiglio direttivo dell’ADCl (Art Directors Club Italiano) ed è sta­ to per anni nel panel di giuria dei London International Advertising Awards. Per il suo lavoro creativo ha ricevuto decine di riconoscimenti nei più importanti festival dedicati alla pubblicità.

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movimento che evidentemente non si era mai spenta. Tornato, cominciai a vin­ cere premi su premi: quasi sempre per la TV. I clienti erano quanto di meglio un pubblicitario potesse sognare. Si chiama­ vano Martini, Coca Cola, Stefanel. Allora il mondo della pubblicità era eufori­ co e le agenzie facevano a gara a portarsi via i creativi di maggior talento. Restai fedele alla McCann per circa 11 anni. Poi cedetti anch’io alle lusinghe del mercato e tradii l’agenzia americana per una francese, la Publicis, che, nel frattempo, anche attraverso mirate operazioni di merging, era diventata a sua volta la numero uno. Anche in Publicis continuai a fare campagne che facevano contenti i clienti e a vincere premi che f acevano contento me. Sugli scaffali del mio ufficio c’è anche un Leone [una Palm a] del festival di Cannes vinto per un film Colgate: i neuroni serviti per crearlo, chissà, forse si erano incontrati tanto tempo prima, a un seminario a Pisa. Che cosa ho fatto prima (del seminario)

11 seminario su Rossellini che si tenne a Pisa nel 1969 è stato un po’ uno spar­ tiacque nella mia vita, e non credo solo nella mia. Ero uno dei partecipanti più giovani e più timidi. Osservavo, ascoltavo, raramente intervenivo. Facevo parte di un collettivo - parola molto in voga in quegli anni - che si chiamava CinemaZero. Il nome glielo avevo dato io: fu la mia prima prova come copywriter. Il gruppo, perché di un gruppo di amici si trattava, aveva in comu­ ne una passione per il cinema dai contorni indefiniti: chi lo concepiva come me­ ro strumento politico di intervento e di lotta, chi lo intendeva come territorio di sperimentazione creativa dove dare sfogo a vocazioni più o meno artistiche. Una cosa i due fronti avevano in comune: la pressoché assoluta, totale assenza di pre­ parazione tecnica. Sapevamo di cinema, ma non sapevamo “come” farlo. Nes­ suno di noi aveva mai tenuto in mano una cinepresa. Nessuno di noi aveva mai aperto un corpo macchina per provare a infilarci dentro mezzo metro di negativo. La passione era tutto. La tecnica zero. Cine­ maZero mi sembrò perciò una parola, oltre che appropriata, onesta. Oltretutto si prestava bene a dichiarare un inten to, di cui, da bravi sessantottini, eravamo tutti convinti: anche il cinema andava rifondato. Il cinema ripartiva con noi. Ci sentivamo dei nuovi Dziga Vertov armati di una gran voglia di sovvertire tecniche e principi. Il problema di come impressionare la pellicola fu l’ultimo che ci ponemmo. Il primo infatti fu come procurarsi una macchina da presa. Ci mancavano i soldi ma non le idee: ci iscrivemmo così tutti alla FEDIC (Federa­ zione Italiana Cineclub): come membri dell’associazione avremmo potuto usu­ fruire di una 16mm, male in arnese ma funzionante. L’ARCI ci avrebbe prestato un ufficio dove riunirci. Mario - il grande Mario - ci avrebbe messo a disposizione il suo bagaglio tee-

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nico di operatore. Già, perché senza Mario dove saremmo andati? Mario Ben­ venuti ha avuto due innegabili meriti. Uno grande: costituire per intero la no­ stra troupe tecnica (era operatore alla macchina, direttore della fotografìa, mon­ tatore, fonico, attrezzista). E uno più grande: inculcare il seme del buon cinema nel figlio Paolo, che tanti film di qualità ci ha regalato nel corso degli anni con straordinaria e mai disattesa puntualità. Mario era stato amico dei fratelli Taviani, con loro aveva fatto i primi passi co­ me operatore. In lui noi avevamo individuato la nostra troupe. Lui, in noi, ri­ trovava un pezzo di giovinezza. Il sodalizio poteva funzionare. Alle carenze economiche supplivamo con la fantasia: lo chassis di una Topo­ lino, reso un po’ più stabile da una damigiana piena d’acqua, serviva per realiz­ zare delle carrellate senza carrello. Un professore ospedaliero ci commissionò un film sul pronto intervento: co­ sa fare per salvare una vita in caso di incidente. Sullo schermo completamente nero, prima che comparisse il titolo di testa, ricordo il battito di un cuore che di­ ventava sempre più angosciante. Il film piacque e con i pochi soldi che arrivaro­ no dall’ospedale - nessuno di noi prendeva una lira - potemmo finanziare la no­ stra prima opera “ creativa” :La quinta stagione [1968]. Sceneggiatura e regia era­ no di Faliero Rosati. Faliero conosceva bene - credo fosse amico di suo padre - Valentino Orsini, regista pisano di spessore e di buona fama. Credo che sia stato lui a immettere nel ragazzo la passione per il cinema. La quinta stagione parlava della crisi di un in­ tellettuale che, tra esplicite citazioni di Allen Ginsberg e atmosfere scopertamente antonioniane, veniva murato vivo dalla fidanzata. Un modo indubbia­ mente inusuale di chiudere un finale aperto. Il secondo lavoro su commissione fu a favore dell’Associazione Italiana Spa­ stici. Era una delle prime volte che si affrontava apertamente il problema delle barriere architettoniche. Ne venne fuori un film duro, potente, impietoso, e an­ che la critica se ne accorse. Al Festival Nazionale dei Cineclub che si tenne a Montecatini e al quale - in quanto membri della FEDIC - fummo invitati a iscri­ vere i nostri lavori, il nostro gruppo ricevette una lunga serie di riconoscimenti: dal Premio Ferrania a quello della Critica Cinematografica Cattolica. I membri della giuria immaginarono - anche dal tono dei film - che fossimo tutti di sini­ stra, e prima di consegnarci il premio vennero a chiederci se lo avremmo accet­ tato. Ci consultammo: in fondo lo aveva accettato anche Pasolini poco tempo prima. Non ci dispiacque dire di sì. Ricevemmo anche il Gran Trofeo Challange come miglior cineclub d’Italia, premio che condividemmo orgogliosamente con un altro gruppo di giovani cineasti pisani. Perché, vi chiederete, mi dilungo a parlare del CinemaZero di Pisa? Perché è una piccola storia che nessuno ha mai scritto (allora non c’era Internet che diffonde anche la più piccola notizia) ma che ha costituito il punto di partenza

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indispensabile di percorsi personali diversi. Senza il CinemaZero, forse, Paolo Benvenuti non avrebbe fatto i suoi film, Faliero Rosati non avrebbe girato i suoi, e probabilmente anch’io - che comunque il cinema nella sua forma più nobile ho coscientemente tradito - non avrei mantenuto una frequentazione professiona­ le così lunga con il mondo delle immagini e della creatività. CinemaZero e Rossellini si sono incontrati, come dire?, naturalmente. Il se­ minario si svolse a Pisa e presenziare a tutte le proiezioni e alle discussioni che se­ guirono fu, per noi del Gruppo, un’opportunità troppo golosa, e geografica­ mente troppo vicina, per lasciarsela scappare. Cosa mi è rimasto dentro al cuo­ re o nella mente di quel seminario? Innanzitutto il rumore. O meglio “i” rumori che per la prima volta in vita mia scoprivo in presa diretta: lo strusciare delle se­ te e dei rasi dei grandi mantelli, lo stropiccio delle scarpe infiocchettate dei per­ sonaggi che si avvicendavano intorno al letto del re ne La prise de pouvoir par Louis XIV. Perla priva volta ho avuto la consapevolezza che, nel cinema, a volte, le parole non servono e il silenzio - che nella presa diretta è sempre impuro - può affa­ scinare come una musica. E poi, naturalmente, l’immagine di noi e Rossellini: noi giovani-giovani con tutta la nostra voglia di imparare, lì davanti all’albergo più lussuoso di Pisa, a parlare a tu per tu con questo uomo famosissimo sotto un cielo che, forse per l’occasione, mi sembrò più grande e stellato del solito. Era già in là con gli anni il grande regista, ma per come parlava - semplice, diretto, pieno di dubbi - “dentro” aveva la nostra stessa età. Milano, 7 gennaio 2009

Paolo Benvenuti *

Tutto cominciò con una crisi Tutto cominciò con una crisi. Dipingevo dall’età di sei anni. Dopo la Scuola d’Arte e il Magistero d’Arte a Firenze e dopo un tentativo all’Accademia di Bel­ le Arti interrotto dall’alluvione del 1966, a 20 anni avevo iniziato a esporre i miei lavori e a partecipare a varie mostre e rassegne. In pochi mesi avevo raccolto pre­ mi importanti e l’attenzione di Antonio Del Guercio, un famoso critico d’arte. Poi arrivò il ’68 con i suoi grandi interrogativi esistenziali. Perché e sopratutto per chi dipingere? Per la borghesia? Per il mercato? Nel dubbio posai i pennel­ li e chiusi lo studio. Vagavo senza meta per le strade di Pisa quando un giorno qualcuno mi disse che a Reggio Emilia l’ARCI organizzava un seminario di cine­ ma per giovani operatori culturali. Ci andai solo per cambiare aria. Fu l’espe­ rienza più straordinaria che a un ventenne in crisi poteva capitare. Essa cambiò radicalmente la mia vita. Grazie a Gianni Menon e Adriano Aprà, che avevano organizzato quel seminario, scoprii un cinema che andava percorrendo le stes­ se strade di ricerca e sperimentazione della pittura, le strade che anch’io avevo percorso fino a quel momento. Grazie a questa scoperta trovai soluzione alla mia crisi: dipingere con il cinema ! Non pi ù per la borghesia o per il mercato, ma per tutti. O meglio: per tutti quelli che avevano voglia di mettere in gioco le pro­ prie emozioni. Tornato a Pisa carico di entusiasmo, riunii gli amici con i quali condividevo le esperienze artistiche e li coinvolsi in una visione dei film più straordinari che avevo visto al seminario. Aprà e Menon avevano portato a Pisa, dietro mio invito, i film sperimentali della “Cooperativa Cinema Indipendente” e Li uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov. Senza il minimo bagaglio tec­ nico costituimmo l’indomani il “Gruppo Cinemazero”, decidendo di girare su­ bito un film anche noi. Faliero Rosati aveva già pronta una sceneggiatura. Pro­ vammo a girare qualche metro di pellicola ma fu un fiasco totale (vedi 11 primo ciacche, che allego). Mio padre Mario, che aveva iniziato a fare documentari fin dal 1941 e aveva lavorato con Valentino Orsini e con i fratelli Taviani, ci tolse di mano la cinepresa e ci insegnò a usarla correttamente, diventando così il nostro *Nato a Pisa nel 1946. Dopo alcuni cortometraggi e mediometraggi, ha realizzato come regi­ sta, da II bacio di Giuda ( 1988) a buccini e la fanciulla (2008), sei lungometraggi.

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primo maestro. H film di Faliero si intitolava La quinta stagione. Contempora­ neamente, nella stessa soffitta di Lungarno dove era ambientato quel film, io rea­ lizzai Il balla balla. Quell’estate producemmo poi il documentario didattico per infermieri Una vita chiama, prodotto dal prof. Mangiavacchi dell’Ospedale. Nell’autunno-inverno realizzammo Fuori gioco, prodotto dall’Associazione Spasti­ ci di Pisa, documentario che vinse un sacco di premi al Festival di Montecatini. Lavorare in collettivo significava soprattutto una continua rotazione di ruoli du­ rante la produzione dei film e così, uno dopo l’altro, ci improvvisavamo registi, operatori, truccatori, scenografi, elettricisti, macchinisti, montatori, eccetera. Una vera e propria palestra simile a certe “botteghe” rinascimentali. Durante le vacanze di Natale il Gruppo Cinemazero partecipò al completo al secondo se­ minario organizzato da Menon e Apra a Venezia. In quel seminario “scoprim­ mo”, tra i capolavori depositati nella cineteca della Mostra, Europa ’51 di Ro­ berto Rossellini. Un film che ci sconvolse tutti, letteralmente. Al ritorno, in tre­ no con Apra e Menon, decidemmo di organizzare un terzo seminario a Pisa sul cinema di Rossellini nella primavera del 1969, invitando anche il Maestro. L’in­ contro fortunato con Roberto Rossellini segnò il mio secondo, fondamentale, passaggio educativo. Fuori dal Cinema Mignon dove proiettavamo al pubblico pisano Europa ’51, seduto al bar davanti a un cappuccino, chiesi titubante al Maestro: «Ma come fa Lei a stabilire ogni volta dove va messa la cinepresa?». Era la domanda che, fin dall’inizio della mia esperienza, mi ero posto ogni volta che dovevo inquadrare qualcosa e filmarla. Non avevo mai trovato una risposta adeguata e ogni volta mi affidavo con malumore all’improvvisazione. Zavattini - che avevo incontrato qualche mese prima - mi aveva risposto che il mio era un falso problema: «Pensa come sarebbe bello poter legare la cinepresa alla coda di un cane!», mi aveva detto in tutta convinzione. E io, che venivo dalla pittura, precipitavo ancor più nella confusione. Era il senso stesso del fare cinema che, senza quella chiarezza di metodo, mi diventava estraneo, quasi nemico. Quando mi trovai di fronte Rossellini ebbi la certezza che Lui la risposta alla mia do­ manda ce l’aveva e poteva darmela. E infatti mi rispose: «Un soggetto può esse­ re ripreso da infiniti punti di vista, me ce n’è uno solo giusto, ed è quello che dà il maggior numero di informazioni allo spettatore». Scrissi quelle parole straor­ dinariamente illuminanti su un tovagliolino di carta che conservo ancora. E su questi due principi fondamentali, dipingere col cinema e inquadrare come di­ ceva Rossellini, ho costruito tutto il mio futuro di regista. Il primo ciacche

Quel giorno di primavera del 1968, se c’era il sole, l’appuntamento era allo Chalet del Salvini, sull’Arno; se pioveva, nulla. E quella mattina a Pisa splende­ va un bel sole! Alle undici eravamo tutti lì: la troupe completa. Il primo ciac, il

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primo giro di manovella doveva essere bagnato da un giro di spumante, così vo­ leva la tradizione, così era scritto nel manuale del cinema, così aveva dichiarato il nostro produttore! Già, perché c’era un vero produttore, col sigaro e la Giu­ lietta sprint: Carlo Alberto Bianchi (detto Cadetto). E quella mattina di sole Ae­ ravamo proprio tutti, lì, dentro lo Chalet, a guardar uscire dalla custodia di cuoio la Paillard lómm che aveva portato Andrea Duè. Gliel’aveva data la sera prima con mille raccomandazioni Sandra Lischi, la sua ragazza, dopo averla presa in prestito dallo zio. Sulla porta del locale Faliero Rosati, il regista, pensoso, osser­ vava con aria intellettuale la cinepresa in silenzio. Mentre Sergio Martelli, l’ope­ ratore, tentava di fissarla al cavalletto, Faliero si voltava a osservare il viale delle Piagge professionalmente, con le dita incrociate davanti agli occhi. Al banco c’e­ ra Roberto Salvini che ci guardava di sottecchi, perplesso. Una volta fissata sul cavalletto, la cinepresa si presentava veramente imponente: nera e argentea. Ave­ va sul davanti ben tre obiettivi sulla testa rotante: un grandangolo, un normale e un tele. Oltre a un mirino regolabile per la correzione del parallasse («E che ro­ ba è ’r parallasse?»). Ce l’aveva detto proprio quella mattina Sergio Pacinotti dal quale eravamo andati a farci mettere dentro la pellicola. Il Pacinotti aveva pre­ so una scatola di Ferrania lómm “invertibile bianco e nero”, ne aveva estratto una bobina da 30 metri ed era sparito nella camera oscura posta dietro il suo ne­ gozio di Corso Italia. E qui devo confessare che nessuno di noi aveva mai visto una vera cinepresa fino alla sera precedente, quando Sandra l’aveva portata a casa di Cadetto ben riposta nella sua valigia di cuoio. Massimo Bartolozzi aveva costruito un bellissimo ciac di legno con il battente incernierato; l’aveva dipin­ to a strisce bianche e nere che faceva davvero un bell’effetto. Lo teneva stretto sotto braccio, pronto all’uso (in verità nessuno di noi sapeva esattamente a cosa servisse e perché si doveva battere, ma così diceva il manuale...). Comunque, girare il nostro primo ciac dal Salvini era come annunciare alla città intera che Pi­ sa, da quel giorno, poteva contare su una vera Troupe Cinematografica, che Pi­ sa annoverava tra i suoi concittadini un Gruppo di veri registi: il Gruppo Cine­ mazero. Seri e professionali, guardavamo con sussiego le mamme, i bimbetti e i pensionati che ci osservavano curiosi. Mentre Maurizio Badiani, lo scenografo, sistemava un tavolino, due seggiole, una linda tovaglietta e un bicchiere proprio dinanzi all’ingresso del locale, Sergio, l’operatore, portava la cinepresa con tut­ to il cavalletto fuori dal bar, perché Faliero, salito sulla spalletta, aveva indicato col dito il punto esatto dove sistemarla. La voleva proprio sopra al muretto, pun­ tata contro l’ingresso del locale. Così, tappandosi con la mano l’occhio sinistro (che a me non sembrò per niente professionale) avvicinò il destro al mirino per osservare l’inquadratura. Ci pensò per bene poi scosse il capo. La cinepresa fu spostata avanti e indietro, sopra e sotto, oltre i vetri dello Chalet e dall’altra par­ te della strada, fino ai Vigili del Fuoco. Alla fine tornò al punto di partenza, so­ pra il muretto. Bene, eravamo pronti. Mancavano solo gli attori: Gigi Rinaldini

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(detto l’Alaindelon di via San Martino) e la bellissima Donatella Pardini. L’ap­ puntamento con loro era alle dodici e la sirena della Richard Ginori aveva suo­ nato già da un pezzo. Nonostante la sete, nessuno aveva osato toccare la bottiglia di Cartizze che il Salvini aveva appoggiato su un tavolino dentro il secchiello del ghiaccio. Cadetto Bianchi era stato categorico: «Si deve be’ soltanto dopo ave’ girato! Va bene?». Poi era andato a prendere gli attori con la sua Giulietta sprint. Finalmente un ruggito di Abarth 2000 ne annunciò l’arrivo. Il sottoscritto, con funzioni di aiuto regista, tirò fuori dalla cartella la sceneggiatura del film. Le in­ quadrature da girare quel giorno erano le seguenti: Inq. 1 - (Piano Ravvicinato) Una bellissima ragazza (Donatella), seduta al ta­ volino di un bar, beve annoiata il suo drink mentre osserva... Inq. 2 - (Particolare).. .lo scorrere lento del fiume. Inq. 3 - (Totale con Panoramica) In quel momento giunge dal viale alberato una potente auto sportiva. L’auto si ferma dinanzi al bar e ne discende (Gigi) un aitante giovanotto. Inq. 4 - (Primo Piano) Entrando nel bar egli nota la ragazza e le lancia uno sguardo ammirato. Inq. 5 - (Primissimo Piano) La ragazza sentendosi osservata solleva il viso a osservare il giovanotto... Eccetera, eccetera, eccetera... Faliero, che aveva riletto con attenzione (anche la sera prima) il suo manuale di regia, ci aveva spiegato che «nel cinema le in­ quadrature non si girano una dopo l’altra come sono scritte nel copione ma (chis­ sà perché) si parte da quella che ha il campo più ampio per finire con quella col campo più stretto». Alla luce di questa regola ferrea, la prima inquadratura da gi­ rare era quindi la n. 3. Dietro precise indicazioni della regia, il bel Gigi sale sul­ l’auto fiammante del produttore, ingrana la marcia e si allontana di alcune cen­ tinaia di metri. Compie un’inversione a U e attende il via, sgassando ripetutamente sull’acceleratore. Faliero grida: «Pronti, motore, ciac...» (il Bartolozzi si mette davanti alla cinepresa, batte rumorosamente l’attrezzo dove ha scritto col gesso 3/1 e si volta a guardare). «Levati!» grida l’operatore. Il Bartolozzi si toglie dalla visuale. La scena può avere inizio. «Via!». Smanacciando a più non posso, Faliero fa cenno al Gigi di partire. Premendo l’acceleratore, l’auto ha un sob­ balzo e si ferma. «Vai, l’ha ’ngorfata...». Gigi rimette in moto. «Ah no! Meno male...». Un paio di sgassate poi parte a tutta velocità. L’attore sa che si deve fermare in un punto preciso della strada per rimanere bene inquadrato al centro dell’immagine. Sembrava tutto chiaro invece si ferma tre metri prima. «Stop ! Stop! Stop!». Faliero è incavolato. Spiega di nuovo la scena all’attore che an­ nuisce serissimo. Gigi volta l’automobile e torna al punto di partenza. Bartoloz­ zi scrive col gessetto 3/2 sul ciac e si mette davanti alla cinepresa. «Pronti, mo­ tore. .. (la cinepresa riprende a ronzare), ciac. Azioneee!» La spider riparte rug­ gendo, si avvicina a forte velocità, poi rallenta, si accosta al muretto nel punto

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preciso. «Perfetto!». Il regista si volta sorridendo all’operatore: «Allora? Com’è venuta?». Sergio scuote il capo: «E finita la cari’a durante la ripresa... Bisogna rifalla». Mentre Sergio gira la manovella della carica a molla, Gigi torna con l’au­ to alla partenza. Ciac 3/3. «Pronti, motore, ciac, azione! ! !». Questa volta è per­ fetta: partenza, rallentamento, parcheggio nel punto esatto. Gigi scende dalla spider con fare sicuro e si avvia verso il bar Salvini. Di fronte all’ingresso nota la bella e ne rimane colpito. «Stop. Bravi! Ora si beve». Cadetto Bianchi stappa il Cartizze e lo versa nei calici. Tutti brindi amo al primo ciac del Gruppo Cine­ mazero: il futuro del cinema italiano. Sergio Martelli e il Bartolozzi si avvicina­ no confabulando. «Cosa c’è?» chiede allarmato Faliero. «Nulla... S’è finito la pelli’ola». «Finita? ! Com’è possibile? Ma quanto durano 30 metri di invertibile bianco e nero lómm? Sulla scatola c’è scritto: “3 minuti a 18 fotogrammi al se­ condo, oppure 2 minuti e Vi a 24 fotogrammi al secondo”». Il Cartizze ci va di traverso. «E ora che si fa?». Ci guardiamo l’un l’altro un po’ avviliti, poi qualcu­ no dice: «Vabbè, guardiamo almeno com’è venuta!». E così facciamo largo tra i calici, appoggiamo la Paillard lómm con delicatezza sul tavolino, ne apriamo lo sportello, estraiamo la pellicola dalla macchina e la solleviamo, traguardandola contro la luce del cielo: «Ma cazzo, un’ è venuto una sega! E tutta grigia: il Pacinotti ci deve ave’ rifilato della pelli’olaccia scaduta! ! !». PS. Dopo questa triste esperienza, decidemmo di accogliere nel Gruppo Cine­ mazero Mario Benvenuti. Pisa, 11 gennaio 2009

Carlo Alberto Bianchi *

Sono finalmente venuto in possesso di una fotocopia del Dibattito su Rossel­ lini tenutosi a Pisa nel maggio del 1969 di cui Gianni Menon, buonanima, volle lasciare testimonianza e di cui nel corso degli anni in diversi mi avevano parlato sostenendo che c’era stata una partecipazione da parte mia di cui non ricordavo, come non ricordo ora, praticamente niente. Certo, mi ricordo di aver incontrato Rossellini, di aver dialogato (?) con lui e di aver avuto l’impressione di trovarmi di fronte a un uomo notevole, fuori dagli schemi a cui ero abituato a riferirmi quando si trattava di “cineasti”; mi era sem­ brato una persona valida, lucida, consapevole di ciò che avrebbe comportato per il suo futuro quel suo essere un “maiale che si rotolava nel fango del suo castro” (come mi sembra di ricordare che disse), che scavava nella realtà del mondo in cui si trovava a vivere e che non si poteva esimere dal descrivere e analizzare con i mezzi che aveva a disposizione, tecnici e intellettuali, rispetto a entrambi i quali la storia ha dimostrato quanto egli fosse ingegnoso e innovativo; mi sembrava un borghese aperto, con pochi preconcet ti, con cui si poteva discutere di tutto, per­ ché le critiche da fare le sapeva anche lui, e inoltre era uno che dava l’idea chiara di quanto fosse pratica la sua professione, tanto che alle volte sembrava più un im­ prenditore innovativo che un regista cinematografico. Ripensando alla sua pro­ duzione, specialmente quella per la televisione, mi lascia sorpreso e perplesso (ma neanche troppo visti i tempi che corrono) che la RAI non ne abbia più riproposto l’intelligenza e la magnificenza, almeno che io sappia. Non sono un cinéphile, non lo sono mai stato, e la mia partecipazione dimen­ ticata a quel dibattito è stata un caso del destino, anche se devo dire che il cine­ ma è stato (ed è ancora, sia pure con modalità diverse) una delle costanti della mia vita, e ha contribuito in maniera importante alla mia educazione sentimen­ tale e civile negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, insieme a tutto il resto. Quando ero in collegio dai preti (alle medie) il più grande divertimento e go­ dimento era la domenica pomeriggio quando nella sala di proiezione mi trova­ vo a guardare il film che veniva proiettato (grazie a quella grande compagnia di distribuzione cattolica di cui non ricordo il nome [la Sampaolo Film]), sempre *Nato a Pisa nel 1942. Ingegnere.

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divertente, avventuroso e naturalmente edificante: era il riscatto dopo una set­ timana di studio, disciplina, messe mattutine e confessioni obbligatorie; il godi­ mento era completato dal cantuccio di pane svuotato e riempito con una coscia di coniglio “arrosto morto” disossata, che mi portava mia madre quando le per­ mettevano di venire in visita perché non ero in punizione. Mi ricordo pochi mo­ menti più belli. E quando ritornavo a casa in libera uscita, ormai privato dalla prigionia dei rapporti con i compagni delle elementari, come passare sabati e domeniche po­ meriggio se non correndo da un cinema all’altro per vedere il più possibile di quello che proiettavano? E d’estate tutte le sere in branco arrampicati su qual­ che albero a guardare di straforo quello che davano nei cinema all’aperto. Poi è sempre stato così: quando ci si voleva divertire con calma, staccarsi dal­ la vita quotidiana, vivere strane avventure, sdilinquirsi ammirando donne me­ ravigliose, vedere un mondo favoloso anche quando non si trattava di favole e provare emozioni che ci avrebbero segnato la vita, si andava al cinema e poi si di­ scuteva allo sfinimento di quello che avevamo visto, anzi del significato di quel­ lo che avevamo visto, perché c’era piaciuto o no; mai della tecnica e della forma: non eravamo dei cinéphiles, ci interessavano le storie e i personaggi... e poi ci si innamorava delle protagoniste, a volte ardentemente (una volta, nel collegio non più di preti in cui mi hanno sbattuto dopo l’espulsione dal primo, mi sono pic­ chiato con uno di Pistoia che sosteneva che la Lollo era più bella di Marilyn! ). Fin da allora il cinema ha sempre significato questo per la maggioranza di quelli della mia generazione, con il corollario che in vecchiaia si comincia a ca­ pire perché certe pellicole funzionano e altre no, e quanto la tecnica conta nel prodotto finito al di là della bontà del soggetto e della bravura degli attori; ma questo, molto tempo dopo quella primavera del 1969 quando si svolse il dibat­ tito di cui ci stiamo occupando.

Nel maggio del 1969 ero tardivamente siila fine del mio percorso universitario, stavo dando gli ultimi esami e lavorando a una interminabile tesi sperimentale che durava da quasi un anno e doveva essere consegnata per la laurea entro lu­ glio (come poi è successo). I miei compagni di liceo e di università erano spariti dalla circolazione, chi perché cominciava a lavorare e chi invece, più spesso, perché sequestrato dalla fidanzata. Pisa da tempo era una pentola in ebollizione dovunque, ma specialmente nel mondo universitario, sono cose risapute: tutti volevano fare i conti con il futuro che li aspettava, volevano determinarlo in prima persona e, visto che i partiti non erano stati in grado di dialogare con i più, ci stavamo muoven­ do con tutto lo slancio e la fantasia che tutti sappiamo o dovremmo sapere. Prima di decidere cosa fare da grande dovevo finire gli studi per non dare di­ spiacere a mia madre, ma sinceramente non me ne importava granché: il mondo

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accademico con cui avevo convissuto nel periodo universitario e soprattutto nel corso della tesi non mi attirava (malgrado qualcuno dei miei professori mi aves­ se proposto di restare, soprattutto perché essendo benestante potevo permet­ termelo, credo); meno ancora mi attirava l’idea di andare a fare l’ingegnere alla SNIA o alla Montecatini che inviavano proposte di colloquio. Se a questo si aggiunge che la prospettiva di cercare di piazzarmi in qualche modo nelle aziende (edili) che avevano reso agiata la mia famiglia non mi attira­ va e tanto meno mi attiravano le possibilità offerte dall’ambiente pisano, si può capire quale fosse il mio stato d’animo quando mi capitò, frequentando lo stori­ co bar “La Borsa”, di fare pian piano conoscenza con un gruppo di ragazzotti un po’ più giovani di me (4 o 5 anni a quell’età contano molto) e molto diversi da ciò che offriva la piazza: una miriade di puzzoncelli rocchettari e festaioli mischiati a monomaniaci fissati sullo studio, sul gioco d’azzardo o sulla militanza politica. Il movimento studentesco nascente, con l’impegno politico che richiedeva, stava divenendo sempre più incombente, inevitabile per chi avesse qualche sen­ sibilità sociale (e io ce l’avevo per averla assorbita nell’adolescenza da un gran­ de uomo politico socialista, dei cui figli, Mario e Paola, ero stato amico fraterno: si trattava di Agostino Viviani, che poi divenne, da Senatore, il Presidente della Commissione Giustizia del Senato e fu espulso dal Partito Socialista per essersi rifiutato di votare le famigerate leggi speciali, quelle che oggi, ancora vigenti, so­ no diventate più che normali, anzi da rivedere in peggio); ma per l’impegno po­ litico non ero ancora pronto: la tesi andava finita e la laurea conseguita; i pisani del mio ceto sociale si divertivano e sii organizzavano in modo che mi era estra­ neo; queste nuove conoscenze erano ai miei occhi molto meno impegnative (nel senso delle grandi “scelte” e del tempo che richiedevano: non mi ponevano autaut, anche perché non potevano permetterselo visto che ero più grande e so­ prattutto non ero in competizione su nulla che li interessasse). E loro erano tutti diversi tra di loro (lo sono ancora credo) ma legati da qual­ cosa (la scuola, la famiglia, le passioni; non lo so, non me lo ricordo e forse non l’ho mai saputo...); una specie di crogiolo di personalità in evoluzione che ap­ profittavano l’una dell’altra per divertirsi e per crescere. Per me, oltre a rappresentare un mondo nuovo, più vivace di quello a cui ero abituato e diverso da quello dei pisani normali, erano doppiamente divertenti perché, a parte una vaga passione politica, avevano interessi che non mi erano estranei: il cinema, la musica, la fotografia, certa letteratura... In particolare, a parte il divertimento cui si dedicavano tutti con impegno e grande ironia (scherzi, assalti notturni, ribòtte e discussioni animate...), Riccar­ do1, Antonio2 e Vincenzo3 erano fissati sulla musica; Maurizio4 e Massimo5 ave­ vano una passione: era la “roba”, le “ cose”, insomma gli oggetti, specialmente quelli con una storia; e poi c’erano Paolo6 e Faliero7, totalmente persi nel loro amore per il cinema (con tutto l’onere di una tradizione politica familiare che

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pesava loro sulle spalle e li esaltava) e innamorati, ciascuno, della più bella; anzi innamorati lo erano tutti, senza eccessivi problemi, anche se l’oggetto dell’inna­ moramento talvolta coincideva; c’era anche Daniel8, anche lui innamorato ma non confesso, la cui occupazione usuale era seminare zizzania dovunque, pro­ vocando situazioni spesso esasperanti ma anche (ancora una volta... come di­ rebbe Veltroni) quasi sempre esilaranti. Intorno a loro circolavano regolarmente una quantità di altri ragazzetti, e na­ turalmente giovinette, che facevano da cornice e partecipavano saltuariamente ai vari rituali...

In questa situazione è nato il “Cinemazero”. Grazie all’atmosfera avventurosa, alla passione di Paolo e Faliero e alla cu­ riosità di tutti gli altri, il Cinemazero ha cominciato a esistere, a produrre anche filmati, oltre che discussioni infinite, e da questa realtà è derivata la partecipa­ zione al dibattito su Rossellini. Del primo incontro su Rossellini di cui si parla nel libro, avvenuto nel dicem­ bre 1968 a Venezia, non ricordo niente perché non vi partecipai: c’erano cose roventi sul fuoco a Pisa e in Versilia, infatti alla Bussola successe quel che suc­ cesse, lasciando Soriano Ceccanti su sedia a rotelle; io non c’ero perché quella notte ero a Livorno per motivi personali, non proprio onorevoli in alcun senso, ma andai al Lido il giorno dopo, con l’unico amico che mi era rimasto dal pe­ riodo dell’università e delle feste in casa, Sergio Gasperi, anche lui buonanima, un compagno con cui si poteva discutere a giornate e nottate di tutto, anche del sesso degli angeli o della religiosità di Ingmar Bergman, mentre lui manteneva un aplomb da far invidia a Oscar Wilde; così quel primo dell’anno 1969 andammo a recuperare la 500 di alcuni compagni che c’erano statila sera prima e che, scap­ pando, l’avevano lasciata lì e avevano paura ad andarla a riprendere. Ecco dunque il contesto nel quale va piazzata la nostra partecipazione al di­ battito: esisteva il Cinemazero grazie alla passione di Faliero e Paolo, alla parte­ cipazione di tutti gli altri e al nostro “club ” (la soffitta di un antico palazzo vuo­ to sul Lungarno, bellissima, dove poteva succedere di tutto con tale assiduità che raramente qualcuno aveva pensato di utilizzarla come garsonnière, o scan­ natoio si diceva a quei tempi, a causa dei gravi rischi per la propria e altrui dignità e rispettabilità, che spesso è servito anche da set di ripresa). Esisteva un rappor­ to con l’ARCI pregnato dalla onnipresenza del movimento in atto, esistevano an­ che Aprà e soprattutto Menon che considerava con grande simpatia tutto que­ sto ambiente movimentato ed era sensibile, rigoroso e simpatico e quindi: di­ battito!, e pubblicazione dello stesso. Ora veniamo al seguito, come richiesto da Aprà. Alla fine di luglio 1969 mi sono laureato, con scarso punteggio, e ho chiuso con le seduzioni accademiche; per riprendermi dalla fatica mi sono autoindotto

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in semi coma alcolico per quindici giorni a Strangoli a casa di un altra amico tra­ vato nel movimento, Raffaele Fragola, anche lui compagno e neolaureato, il cui padre produceva un rosato di 17 o 18 gradi che si prestava ottimamente all’uopo. Smaltita la sbornia ci siamo recati a Parigi (ospiti del padre assente di Antonio) e sono stati quindici giorni di immersione nella Cinémathèque a guardare tutto quello che c’era in programma e a riflettere su cosa offriva il mondo a noi neo­ laureati. Quindi, accettato il nostro destino politico, ci siamo separati e io sono anda­ to a Roma a trovare Aprà, Menon e gli altri e ho raccontato a loro e a chi c’era che non mi pareva che il cinema fosse lo strumento con cui avrei potuto contribuire a fare quello che tutti avevamo in mente; anche se Lenin aveva capito che il ci­ nema sarebbe stato uno strumento fondamentale di educazione (e io me ne sen­ tivo un esempio), i tempi erano tali da esigere un impegno più diretto. Con questo era chiuso col cinema, con la possibilità di cambiare il mondo con quello strumento; perché per noi a quei tempi questo era il problema: cambiare il mondo e alla svelta! Ne è seguita la separazione da quel gruppo di ragazzetti e una lunga militanza politica nel corso della quale, e in funzione della quale, ne ho fatte di tutti i colori in giro per mezza Italia: ho anche fond ato insieme a Silvana Colizzi e a Sandro Zanon i “Circoli Ottobre”, ho incontrato un sacco di gente importante del cinema (Pasolini, Leone, Ferreri e molti altri) a cui ho chiesto soldi per le nostre attività e pubblicazioni, per fare quattrini per il partito: perché allora quello pensavamo di poter divenire, il partito che avrebbe raccolto le avanguardie espresse dal movi­ mento e che sarebbe stato in grado di guidare dal loro interno le masse al rove­ sciamento della falsa democrazia borghese e alla instaurazione di una diversa li­ bertà e razionalità che ci avrebbe resi tutti meno assoggettati e più felici. H cinema come impegno creativo in politica non faceva più parte dei miei interessi diretti, nemmeno come velleità, anche se intorno a me si muovevano Antonello Branca, Lionello Massobrio, Giovanni Bonfanti e molti altri che la pensavano diversamente; ma nel privato ha continuato a essere una costante: dal 1970 in poi credo di aver visto un film al giorno, ogni giorno alla ricerca di un po’ di pace, di svago, di qualcosa che ti lasciasse libero di pensare senza dover interloquire. Poi verso la metà degli anni Settanta quella esperienza politica si è conclusa in­ fruttuosamente, almeno per molti come me che non avevano ingenuamente in mente altro che il cambiamento totale, con la “casta” (ora va di moda il termine) dirigente che si riciclava dove poteva, grazie ai rapporti intrattenuti con il mon­ do politico-partitico-mediatico e con l’intellighenzia sinistrese, e che continua­ va a galleggiare più o meno felicemente piazzata in amministrazioni, giornali, te­ levisioni, sindacati, mentre i compagni meno arruffianati e forti finivano per ce­ dere alla violenza... o alla droga suicidandosi, metaforicamente e spesso fuor di metafora: una vera débàcle\

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Quella storia per me si è conclusa prima con l’abbandono di Napoli, dove ero rifinito dopo aver lasciato Roma e i Circoli a Sergio Martin, per mancanza di fon­ di (avevo finito i quattrini ereditati), poi con la trasferta nel Portogallo in piena rivoluzione, da cui sono tornato insieme a José (Zeca) Afonso, la voce del po­ polo portoghese che si stava disfacendo della dittatura e cantava Gràndola Vila Morena. Con Zeca, la moglie e il compagno chitarrista che li accompagnava ho fatto un lungo giro in auto per i Circoli del nord, concluso con una manifesta­ zione di solidarietà con il popolo portoghese in rivolta, bellissima ed enorme, tenutasi a Piazza del Popolo a Roma: per quanto mi riguarda, fu la fine dell’im­ pegno militante. Dopo c’è stata la necessità impellente di guadagnare di che vivere, e quindi l’insegnamento fino a quando non mi si è prospettata la possibilità di fare qual­ cosa di meno ripetitivo; dopo varie vicissitudini, mi sono ritrovato ingegnere iscritto all’albo e socio di vecchi carissimi compagni in una impresa edile, e in questi ruoli ho contribuito in quasi trent’anni a restaurare una parte importan­ te del patrimonio monumentale pisano, ma anche (come dice Veltroni) tosca­ no, cogliendo nel frattempo l’occasione per rovinarmi definitivamente con il Millibar, giudicato da molti il più bel locale della toscana litorale di quei tempi ma una totale rovina finanziaria malgrado il grande godimento degli avventori.

Fine della storia, per ora...

Tornando al cinema, purtroppo in tempi recenti la naturale misantropia, ag­ giunta allo stress del lavoro quotidiano sempre più indispensabile (anche in età avanzata - sic - la rivoluzione non paga la pensione! ), mi porta a guardare spes­ so film in televisione, per non correre il rischio di ritrovarmi coinvolto in qualche scocciante e sgradito incontro mondano. Talvolta però mi sono concesso qualche botta di pazzia come ai tempi dell’a­ dolescenza, e allora sono andato a qualche festival a fare una “full immersion” guardando cinque film al giorno, e per quattro o cinque giorni non esisteva altro; ma anche questo non è vero: l’ultima volta che sono stato a Venezia, accompa­ gnato da Pietro, mio figlio adolescente che fotografava tutti i divi in passerella, mi è capitato di incontrare con grande piacere Faliero, che era lì per motivi di la­ voro e che non vedevo da molti anni; ho rivisto anche Goffredo Fofi, che però non mi ha neanche cagato di striscio, avendo forse capito che non ero neanche un “analfabeta di ritorno” come mi aveva giudicato moltissimi anni prima a Mi­ lano ma probabilmente un analfabeta e basta, dal suo punto di vista. Quella volta è stata l’ultima e la più commovente, soprattutto perché ho in­ contrato Ferreri, con il quale in una saletta dell’Excelsior ci siamo divertiti a ri­ cordare un lungo inseguimento in autostrada, con la sua limousine guidata dal­ l’autista in livrea, per raggiungere in una stazione di servizio Dario Fo, che non voleva darci una risposta su un progetto di realizzazione di non so più quale ini-

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ziativa che li vedeva coinvolti entrambi: la storia testimonia che l’accordo non ci fu, il Maestro si ricordava con il suo abituale sarcasmo di quell’episodio e ci ri­ deva di cuore, sostenendo che Dario e Franca [Rame] viaggiavano sempre scor­ tati da un plotone di feddayn pronti a difenderli da ogni attacco da sinistra. Il giorno dopo fu proiettato Nitrato d’argento, la sua ultima opera, forse il suo te­ stamento, che mi commosse moltissimo; eravamo entrambi in sala e uscendo an­ dai a salutarlo e a ringraziarlo. E stata l’ultima volta che l’ho visto, poco tempo dopo morì divenendo anch’egli buonanima. Non so se andrò ancora a qualche festival.

P.S.: Spero di andare presto in pensione e di ritirarmi su un pezzo di terra che la mia compagna Elena ha previdentemente comprato molti anni or sono e che vorremmo divenisse il punto di partenza per quanto la vita vorrà ancora riser­ varci in giro per il mondo. Spero anche di poterci realizzare una piccola sala di proiezione... con in mezzo un bel biliardo da stecca. Pisa, 25 febbraio 2009

Note 1. Riccardo Cinti, ingegnere, architetto, urbanista e professore universitario. Suonava il contrabbasso. 2. Antonio Bianchi, leguleio, attualmente giudice del TAR. Suonava la batteria ed era, pro­ babilmente lo è ancora, uomo di grande spirito, ideatore di burle strepitose, talvolta racca­ priccianti. 3. Vincenzo Maxia, concertista e professore di Conservatorio. Suonava e suona il pia­ noforte. 4. Maurizio Badiani 5. Massimo Bartolozzi, architetto, urbanista, giocatore di golf e appassionato di enduro. 6. Paolo Benvenuti 7. Faliero Rosati 8. Daniel Emdin, ebreo errante, di cui si hanno saltuarie segnalazioni dalla Francia e dal­ l’india soprattutto; ho cercato senza successo di contattarlo e spero che si faccia vivo se legge queste righe.

Fabio Carlini *

Qualche sera fa ho incontrato il regista argentino Fernando E. Solanas. A Mi­ lano. Alla proiezione del suo ultimo film La proxima estación, un monumentale documentario di intervento sulla distruzione della rete ferroviaria argentina ad opera delle autorità governative. Abbiamo parlato molto. De L’ora deiforni, dei fratelli Taviani e dell’aiuto dato da Valentino Orsini per terminare quel film. An­ che delle sei pallottole sparate contro di lui a Buenos Aires all’inizio degli anni Novanta da avversari politici poco cinefili. Di Gianni Amico, di Tropici ( 1968) e di tanto d’altro. Poi improvvisamente Fernando, uomo di settant’anni dallo sguardo vispo e dal pensiero ferreo, ha detto basta, ieri era ieri e oggi è oggi. «Io sono ancora impegnato nel sociale», ha affermato con orgoglio, «sul fronte eco­ logico soprattutto, ma sempre dalla parte del popolo e del cinema». Non ci so­ no movimenti di zoom nel documentario, gli faccio notare. Solanas fa una smor­ fia : «Lo zoom non mi piace, lo detesto, ho fatto troppa pubblicità». Ma parlia­ mo di oggi, anzi di domani, insiste, «del prossimo lavoro che sto girando, a pezzi, da più di un anno ormai...». Parliamo di oggi. Anche noi. E tornare allo ieri, brutto segno di incipiente arrivo dell’atra senectus, ha senso solo se, come canta Jannacci, «abbiamo ancora qualcosa da aspettare». Ritorno come autocompia­ cimento, piacere della memoria, o forse perché, parafrasando una battuta de Tl grande freddo di Lawrence Kasdan, «ieri eravamo migliori di oggi»? Il conve­ gno di Pisa del 1969 su Rossellini è il reperto di un altro secolo, di altri giorni e altri sogni. Parliamo di oggi, anni in cui Rossellini e il cinema italiano di quel pe­ riodo vanno poco tra i giovani. Neanche si arrabbiano di fronte a Viaggio in Ita­ lia o Europa ’51, semplicemente per loro quei film non esistono, non sono cine­

*Nato nel 1946. Dapprima ricercatore in un Ente del MPI, poi sceneggiatore per il cinema (5 film) e la televisione (RAI/Mediaset: sit com, soap opera, film tv). Collaboratore di testate giornalistiche, organizzatore di manifestazioni e storico del cinema, ha scritto monografie su Alfred Hitchcock, Arthur Penn e John Ford, sul cinema di fantascienza e i film italiani anni Cinquanta. E in uscita presso l’editore Le Mani di Genova un saggio sui titoli di testa dei film [Popcorn Time. L’arte dei titoli di testa, 2009]. Attualmente insegna Storia del cinema e sce­ neggiatura presso la Nuova Accademia di Belle Arti di Milano e l’istituto Europeo di Design. Collabora con i Master dell’università Cattolica.

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ma che li riguardi. E hai voglia di dimostrare, sottolineare, lodare, paragonare. Non succede nulla, neanche il movimento di un sopracciglio. Il convegno di Pi­ sa del 1969 è archeologia e a me i reperti della mia vita mettono malinconia. Ini­ zio a viaggiare e finisce sempre che mi perdo in tristezze. Rarissimamente ho ri­ pensato a quei giorni passati a Pisa insieme a Rossellini. Ho preferito coltivare il generico ricordo di esserci stato, di aver conosciuto un grande regista e aver vin­ to le mie mille timidezze. Una furbizia, perché se si va a scavare dentro a ciò che ci ha affascinato ed è stato importantissimo per la nostra vita, la forza seduttiva di quei vecchi eventi inevitabilmente si ridimensiona. Gioventù, amore per il ci­ nema e rabbia. Ieri. E oggi? Milano, 26 novembre 2008

Andrea Duè

Adriano Aprà mi invita a riandare con la memoria ai giorni di fine maggio 1969, in cui partecipai al seminario su Rossellini che si tenne a Pisa. Rispondere all’invito non è facile, non solo e non tanto per l’ovvietà dei quarant’anni tra­ scorsi, quanto perché le persone che vi parteciparono come me, ma con molto più titolo, per la maggior parte non le he- più riviste; altri: il gruppo pisano, in particolare Faliero Rosati, gli spezzini Ferrini e Ungati, i “romani” Aprà e Me­ non ho seguitato a frequentarli per alcuni anni, per poi perderli completamen­ te di vista circa trent’anni fa. Di qualcuno conosco, a grandi linee, la successiva carriera professionale, come l’opera di sceneggiatore di Franco Ferrini o i bei film di Paolo Benvenuti; nel caso di Adriano Aprà, ho avuto occasione di rive­ derlo e di intrecciare con lui una conversazione circa un anno fa. Di alcuni altri, Menon, Ungati, Melani so che sono prematuramente scomparsi. Non mi sono mai occupato di cinema in modo professionale, l’ho amato mol­ to, come tanti della mia generazione, con ili gusto non ancora distrutto dalla vol­ garità televisiva, comunque abbastanza da studiarne le modalità e le strutture del linguaggio, e lo amo ancora, sebbene con l’inevitabile superficialità di chi ha la maggior parte del tempo impiegato in altro. Neppure sono stato tentato di scrivere sul cinema o sui film, semmai mi sarebbe probabilmente piaciuto di­ ventare autore di film, se le circostanze e le casualità della vita non mi avessero portato su altre vie. Il mio lavoro è di editore internazionale, autore di libri divulgativi e grafico. Sono un lettore e accumulatore di carta stampata, sebbene non nella misura del­ le mie brame. Le suggestioni e l’attività “visionaria”, nel mio lavoro, prendono le forme di progetti editoriali dalla complessa struttura grafica e illustrativa e dal costo relativo scoraggiante, che vengono proposti a una scelta editoria intema­ zionale, e che qualche volta si realizzano, e molte volte no. Sono nato a Pisa, e all’epoca del seminario su Rossellini avevo appena com­ piuto i diciannove anni, ero iscritto nell’ateneo pisano e, da qualche mese, face­ vo parte di un gruppo di sperimentazione cinematografica che si chiamava Ci­ nema Zero, e che veniva ospitato, ma non finanziato, dal locale circolo ARCI. Ero l’ultimo arrivato, con molte letture, e un’ignoranza pressoché completa intorno

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al cinema. In qualche modo il seminario fu dunque iniziatico per me, sebbene forse più nel senso dell’educazione sentimentale che in quello del metodo critico. Credo valga la pena ricordare che Pisa era allora un luogo di sperimentazio­ ne e di discussione continua. Da due anni era in prima linea nel rivolgimento po­ litico-generazionale conosciuto come il ’68, che a Pisa era cominciato nel ’67. Nel corso di quel 1969 il movimento, studentesco e non, si sarebbe precisato politicamente, assumendo l’identità di vari raggruppamenti, alcuni dei quali, che ebbero poi scarso rilievo, in rapporto più o meno dialettico con la sinistra del Partito Comunista Italiano e del PSIUP, altri, di cui il più importante fu Lotta Continua, in aperto dissenso e radicale contestazione della politica e della cul­ tura tradizionali della sinistra parlamentare. Allora, tutto era “politico”, anche se questa accezione risultava diversa per chi era implicato con poteri centrali o locali e per chi questi poteri contestava. In particolare era politico il dibattito, ed era politica la comunicazione, ogni co­ municazione, da quella di servizio a quella dell’arte. Pochi anni prima il Grup­ po ’63 aveva reso nota la politicità della letteratura, e riviste come «Quaderni Piacentini», «Quindici», «Cinema & Film» e altre si erano incaricate di divulgare la politicità di ogni attività umana, attingendo e usando come testi e bandiere soprattutto film, penso ad alcuni di Pasolini, di Godard, di Bellocchio, di Ber­ nardo Bertolucci, di Rossellini, di Truffaut, ma anche di Antonioni {Blow-up), di Carmelo Bene (Nostra Signora dei Turchi), dei Taviani e di altri, senza escludere Barbarella di Vadim e 2001 di Kubrick. E naturale che la categoria del “politico” abbia pervaso anche il seminario su Rossellini. E dichiarata in alcuni interventi, se ne lamenta una certa distanza in altri. Certo, quello che più mi colpiva in quella situazione era il tono “vitalistico”, oppure introspettivo, un essere “politici” a partire dal mettersi in gioco, talvolta dal mettersi in scena che, forse, sono la stessa cosa. In effetti, molti partecipanti in­ tervenivano parlando dei film non per analogie, o categorie critiche, né per ana­ lisi di struttura e di linguaggio, ma descrivendo le figure della propria immagina­ zione, così come il flusso dei film le aveva provocate, e quest’azione maieutica (si dava per scontato che l’autore del film ne fosse però inconsapevole) veniva espres­ sa spesso con emotività tipicamente esagerata. Mi sembra che questa fosse la ca­ ratteristica principale, nonostante che una buona dose di contenutismo vecchia maniera (col senno di poi) apparisse qua e là, più o meno camuffato. In qualche caso, però, il parlare sembrava aggiungere qualcosa ai film dal­ l’interno - i più esperti registravano queste impressioni nei dopocena -, così si diffondeva la sensazione che in qualche modo si partecipasse al “fare” cinema. Non so quanto ci fosse di narcisistico in questo, ma sembrava produttivo, e for­ se lo era. Anzi, forse fu l’unica cosa produttiva. Questo esperimento, assai poco scientifico, soprattutto perché non ripetibi­ le (partecipanti diversi avrebbero dato risposte diverse) allora soddisfaceva i più,

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affascinati dalla casualità dei risultati e dalle complesse risonanze fra le proprie parole e quelle di altri. In effetti, mi sembra di ricordare che fossero pochi i cri­ tici, o i riottosi, o i biasimatori. Apra e Menon, che - credo - erano i soli “pro­ fessionisti” e che avevano voluto e ben diretto il seminario, se ne dicevano stu­ piti, forse più di noi alle prime armi. Quando mi è giunta la richiesta di Aprii, ne sono stato sorpreso. Perché quel­ la discussione collettiva di tanti anni fa ha da essere rievocata e ripubblicata? Cre­ do che non si tratti solo di un doveroso omaggio agli amici scomparsi, in partico­ lare a Gianni Menon, che in quel seminari o si era tanto generosamente prodiga­ to. Certamente, nel libro che uscirà i promotori daranno le loro motivazioni, che adesso non conosco. Ho idea che, fra queste, ci sarà il riconoscimento di una at­ tualità di quel dibattito, non tanto, immagino, per il livello critico o la qualità del­ l’analisi, quanto per la libertà e la forma no n precostituita con cui si espresse. E al­ lora mi è sorta spontanea una domanda: diove è andata in tutti questi anni la cri­ tica cinematografica “militante” - diciamo - o forse il semplice “parlare di film” fuori dalle sedi istituzionali? Ho come la sensazione, spero sbagliata, di non ave­ re perso poi molto da quando, a metà degli anni Settanta, la persi di vista. Mi si pone anche un’altra domanda: quel lontano dibattito ha un’utilità di­ dattica oggi? Qualcuno discuterebbe di film, ma anche di qualsiasi altra cosa, in quel modo “buttando il cuore oltre l’ostacolo”? Può darsi che si facciano prati­ che ed esperimenti di questo tipo; lo ignoro. Ma per togliere un po’ di soggetti­ vità, e rimettere il cinema e i film al centro di una costruttiva discussione, credo che bisognerebbe oggi considerarne di più l’aspetto di risultato di un lavoro col­ lettivo e di un impegno industriale, e meno attività demiurgica del regista “uomo solo”, su cui proiettare le proprie emozioni, e la propria voglia di “fare” cinema. Firenze, 24 novembre 2008

Franco Ferrini

Sono nato nel 1944 a La Spezia, dove ho dato vita nel 1967 - o giù di lì, è pas­ sato tanto tempo -, insieme con il compianto Enzo Ungati, a un cineclub intito­ lato a Charlie Chaplin che pubblicava una rivistina con il SuperMedium dell’e­ poca, il ciclostile, cineclub facente capo all’ARCI. Questo mi ha permesso di conoscere l’allora segretario dell’ARCI Sez. Cultura, il compianto Gianni Menon - mi accorgo che queste noterelle stanno diventan­ do una lista di amici che non ci sono più - e pertanto di essere invitato ai semina­ ri di Reggio Emilia (marzo 1968), Venezia (dicembre 1968) e Pisa (maggio 1969). In tutte e tre le occasioni era presen te Adriano Aprà, giovane e prestigiosa fir­ ma di «Filmcritica», tra i fondatori della rivista di cinema più radicai chic del­ l’epoca, «Cinema & Film», corrispondente dei «Cahiers du Cinema», ecc. Adriano era amico e sodale di Gianni e ne colmava, come dire, le lacune. In­ somnia, aveva visto più film. Era la testa pensante, Gianni l’anima, il braccio. Inoltre c’era uno strano personaggio, Salvatore, un omiciattolo calvo malve­ stito (soprattutto perché si ostinava a indossare un completo grigio, sempre lo stesso, stazzonato e impillaccherato) che non c’entrava niente col cinema: era una specie di segretario di Gianni, con cui formava una strana coppia, essendo Gianni un omone di due metri. In quanto a noi, i seminaristi, gli abatini, tra i diciotto e i quarant’anni [sz?], eravamo la dimostrazione vivente di quella frase di Francois Truffaut, secondo la quale tutti hanno due mestieri, uno dei quali è quello di critico cinematografico. Venivano proiettati film, e noi ne parlavamo, ne discutevamo, li analizzavamo. Era il trionfo di quell’istituto che di lì a poco, secondo la legge delle mode, sarebbe venuto meno: il dibattito. Il canto del cigno, prima della fantozziana mazzata finale. Ricordo che il dibattito pisano su Rossellini si svolse veramente a briglia sciol­ ta. Veniva detto di tutto e il contrario di tutto e ancora di più, talvolta sino al de­ lirio. Il cinema di Rossellini venne definito non “germinale” ma piuttosto “sper­ matico”. E questo è solo un esempio, che mi riemerge dalle nebbie del passato. In taluni momenti il dibattito su Rossellini mi sembrava uno psicodramma, stupendamente officiato da Adriano e Gianni - più Salvatore, nell’ombra1 -, un atto unico scandito in più giornate: una dozzina di personaggi in cerca d’autore,

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e l’autore, con la A maiuscola, era Roberto Rossellini. Con i suoi film - taluni in­ clini al misticismo, altri al pathos della Storia nel suo farsi - era diventato il Re­ gista dei Registi, il Maestro, Quello Che Aveva Capito Tutto - specie in una cer­ ta ottica, la vulgata catto-marxiana-basagliana. Il ’68 era passato da poco. E for­ se era partito proprio da lì, da Pisa. Gianni era semplicemente in visibilio. Con la sua inclinazione al melodram­ ma, e a certe sue esuberanze, non esclusa quella alcolica, si trovava molto a suo agio in quell’“androceo”. Non c’erano donne2. Erano solo sullo schermo. E che donne! Magnani, Bergman, Ralli, Milo, Schiaffino, Rossi Drago, Elli Parvo... Io, lo confesso, ero un po’ a disagio. E non perché non c’erano donne - figu­ riamoci! La verità è che, come dissi forse con troppa franchezza -allora, non con­ dividevo quegli entusiasmi, o per lo meno non in quei termini. (Ma via, neanche una parola per lo sceneggiatore Amidei!). Avevo altri problemi. In realtà stavo male. Mi era venuto un mal di gola che peggiorava di proiezione in proiezione, di dibattito in dibattito, anche a causa della p erenne nuvolaglia di Gauloises Bleues che riempiva la sala - si poteva fumare allora, era veramente un’altra epoca. Dopo un giorno o due dovetti gettare la spugna: avevo la febbre alta. Salii sul primo treno e lasciai Pisa, dove potevo stare comodamente in un alberghetto courtesy of the ARCI -, e andai a curarmi a casa mia, a La Spezia. Così mi persi gli ultimi giorni. Qualcuno disse che mi ero ammalato di proposito. E forse non era del tutto nel torto. Mi dispiace, ma andò così. Sicuramente: sbagliavo. A Pisa, eravamo i più gran­ di “lettori” di film, i più grandi critici cinematografici non accademici, i veri in­ terpreti del vero e “spermatico” Rossellini, segno ne è che i nostri contributi cri­ tici - i miei limitati fortunatamente solo al primo, o ai primi giorni, grazie al mal di gola - hanno avuto già una pubblicazione sotto forma di libro, a cura di Gian­ ni Menon, nel lontano 1972, e stanno per averne ancora un’altra, dopo la bel­ lezza di 37 anni. Che cosa mi sono perso! In seguito, ho avuto la ventura di fare materialmente il cinema: sono diventa­ to uno sceneggiatore (mia madre avrebbe aggiunto “apprezzato” ), ho recitato in un film diretto da Mario Monicelli e ne ho diretto un altro [Caramelle da uno sconosciuto, 1987]. Come attore e come regista la mia carriera si è fermata a quelle uniche volte, ma come scrittore - seppure in quella forma spuria e difficile da definire che è la sceneggiatura - continuo a cavarmela. Ho scritto e sceneggiato una cinquantina di film, due dei quali con uno dei partecipanti al dibattito rosselliniano, Faliero Rosati: Morte di un operatore [1978], film tv, e Qualcuno in ascolto [1988], da lui diretti entrambi. E difficile dire se quelle giornate pisane - per me, solo una o due - abbiano avuto un’influenza su di me o sul mio futuro lavoro. Ma perché no? C’è un vec­ chio detto spezzino: «Tutto fa, diceva quello che pisciava in mare».

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Guarda caso, il soggetto che ho scritto per il film Minaccia d’amore [1988], un thriller diretto da uno specialista del genere, Ruggero Deodato, lontano quan­ to mai da Rossellini, prende spunto da una donna innamorata al telefono, pro­ prio come ne Ltz voix humaine di Jean Cocteau, che ho conosciuto attraverso la versione cinematografica di Rossellini, che vidi per la prima volta al Filmstudio 70, a Roma, con Adriano Apra e Gianni Menon. Gianni mi fece una testa così con la famosa liseuse di Anna Magnani. Non sa­ pevo nemmeno che cosa fosse una liseuse. L’ho imparato grazie a Gianni (che Dio gliene renda merito) e Adriano. E non solo quello. Grazie, ancora. E scusate. Roma, 11 dicembre 2008

Note 1. Ricordo anch’io questo Salvatore, un quarantenne (o più) siciliano di umili origini, ma era presente solo a Venezia e, forse, a Reggio Emilia. Sorpendeva per le sue reazioni “istintive”, da comunista “puro e duro”, e ricordo in particolare il suo accanimento nel contestare La terra tre­ ma come film “falso” su una realtà che lui conosceva assai bene. (Nota di Adriano Apra). 2. Ferrini ricorda male. Risulta che ci fosse una ragazza, Maria Teresa Mansueto, di cui il dibattito registra comunque solo un breve intervento nella prima giornata; ma anch’io, come Ferrini, ne ho cancellato la presenza. (Nota di Adriano Aprà).

Enrico Forti''

Nel 1969 erano i tempi dell’università. Ho fatto a Pisa un profondo e intenso volo su Roberto Rossellini. Alcuni flash. Un sera Rossellini è venuto tra noi, ha parlato a lungo ma una frase mi è ri­ masta impressa nella mente: «Io devo dire che sono sempre per i folli...». Siamo usciti e qualcuno di noi gli ha chiesto se aveva delle forme che tenessero lontano il male, e lui, vicino a noi, prese fuori dalla tasca un mazzo di chiavi e, legato so­ pra, c’era un cornetto. Da che cosa lo proteggeva? Lui affrontò il problema con Stromboli. Utopia e morte. Un film per cui ho intimamente pianto. Rossellini, quasi a risposta, disse: «Se ci si prendesse la briga di leggere il versetto della Bib­ bia su Stromboli, posto in esergo dopo i titoli di testa...: “Ho esaudito coloro che non mi chiedevano nulla, mi sono lasciato trovare da coloro che non mi cerca­ vano”». Era la sua risposta. Il mondo e il film si rimandano eternamente e infinitamente le loro immagini riflesse. Una volta Rossellini, reporter-viaggiatore, con una copia del film si incontrò con André Bazin, il vecchio dei «Cahiers du Cinéma», che interloquendo con lui balbettava e dimostrava di amare gli animali. Quella sera proiettavano lo scolvolgente Paisà, che identificava nel popolo la sensibilità rosselliniana (era una prima, novembre 1946). Bazin aveva prenotato per l’occasione la grande sala della Mai­ son de la Chimie a Parigi. Rossellini parlò brevemente, poi la folla compatta di operai, intellettuali, veterani della resistenza e prigionieri di guerra vide quello che il critico considerava il film più importante: e rivoluzionario mai realizzato. Ebbe­ ro anche il privilegio di vedere Bazin arrivare a questa conclusione quando le luci si riaccesero e lui tentò di rendere gli altri partecipi della sua emozione. Dopo l’atroce scena finale, Bazin era talmente commosso che balbettò in mo­ do quasi incomprensibile. Ripenso a Germania anno zero. Il gioco-calvario di Edmund. Film terribile, sbalorditivo, ma in fondo molto violento nella sua idea. E sconvolgente che un *Nato a Modena nel 1943, è stato insegnante e poi a Milano per quasi trent’anni ha fatto il “cor­ rettore”, mestiere che oggi non esiste più, infinei ha lavorato come giornalista “letterario”.

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ragazzino creda a tutto ciò che gli viene detto, che prenda tutto alla lettera, che viva nel mondo transitivo del “detto fatto” e ne muoia. E scolvolgente che nes­ suno lo ami perché lui è un rimorso vi vente, già un adulto, senza infanzia, senza un “giardino segreto”. Edmund è un puro vettore di comunicazione, uno che obbedisce al linguag­ gio come a un ordine. (Un maggior interesse per la specie umana che per il sog­ getto umano). A un certo punto Rossellini si allontana dal cinema quasi non avesse più il gu­ sto per la diversità del reale, ma avesse compreso la necessità di barattare tutte le tensioni contro una sola: quella della trasmissione obbligatoria. La televisione. Il cinema è l’infanzia. Là dove Rossellini “nell’abito senza cuciture del reale” lasciava entrare la pos­ sibilità del miracolo. Passare il tempo a vederlo passare. Mettersi al centro del campo in attesa che i personaggi passino davanti alla cinepresa, come per caso (Francesco giullare di Dio). In Viaggio in Italia Rossellini trasforma gli indifferenti in credenti. Per far ap­ parire il materiale umano non come un dato ma come una cosa vista. Riconosco un’eco di ciò che aveva scritto su La prise de pouvoir par Louis XIV: per un voyeur, tutto è spettacolo, solo da questo stesso spettacolo egli rimane escluso in virtù di un fenomeno misterioso, che solo lui conosce. Godard si considera più un artista, a Rossellini questo “status” fa orrore. Rossellini ci rimanda a tutto quello che non finisce mai, a tutto quello che va avanti nel tempo e nello spazio. Il generale Della Rovere è un film che riverbera, come in uno specchio, tutto il male del mondo, in bilico fra il presente e il pas­ sato, e si rivela come il più labirintico nella storia del cinema. In queste mie righe c’è molto André Bazin e soprattutto Serge Daney, di cui ri­ cordo la magnifica immagine in un suo libro, accovacciato per terra, col cappello a visiera, gli occhiali, le braccia intorno alle ginocchia, perso nei suoi pensieri. L’ho copiato, pensato e meditato. Modena, 3 dicembre 2008

Antonio Gentile *

Rileggere il Dibattito su Rossellini è stato un tuffo in un passato dimenticato. Dimenticato perché pesanti categorie ideologiche mi oscuravano una più ge­ nuina presenza e distorcevano la percezione degli eventi. Ho trovato di grande interesse la lettura del dibattito con la partecipazione di Rossellini: il modo “saggio” di rispondere a categorizzazioni di allora che certa­ mente oggi appaiono misere e improprie. Bello ed efficace questo passaggio: «Rossellini- Nessuno parte col proposito di sistematizzare l’errore, tutti par­ tono con la volontà precisa di non farne, ma poi gli errori si compiono lo stesso. Vede, per “istintivo” io intendo questo: mi voglio mettere in una posizione critica nei confronti del quadro generate dell’uomo e quindi tento di vederlo nelle sue reali prospettive, con tutti i rischi che questa operazione comporta, da una parte e dall’altra. Allora cerco di andare a scoprire la verità più piccola, più puntiforme, perché magari è quella che può servire per capire.

Beretta - Ma il discorso, così, resta nel vago. Quando io rivendico la neces­ sità di un atteggiamento razionale, non parlo mica dell’atteggiamento di chi sta fuori della realtà. I progressi sono scientifici, d’accordo, ma la scientificità è ra­ zionalità; mentre i suoi personaggi concludono nell’isolamento mistico.

Rossellini - Senta, ma lei crede che sia veramente tanto facile per un uomo vincere secondo la logica? Io credo, ed è un metodo come un altro, valevole per quelle che sono le mie possibilità ideologiche, che bisogna tentare diagnosi del­ la realtà così come la si avverte attraverso gli occhi della pelle». Mi spiace, a distanza di tanti anni, non aver visto allora la realtà circostante «attraverso gli occhi della pelle», troppo preso da una “logica razionale/politica” che oscurava altre dimensioni dell’essere.

*Nato a Bari nel 1945, nel 1969 era molto impegnato nel movimento studentesco e, solo a la­ tere, nell’ARCI. Ha insegnato storia e filosofia al Liceo Socrate di Bari. Ora è in pensione.

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Ho tuttavia, pur immemore di quell’incontro, visto spesso e commentato, con i miei studenti, La presa del potere da parte di Luigi XIV, Socrate, Blaise Pascal, Cartesius, perché certamente percepivo che arricchivano la didattica di Storia e Filosofìa nel mio insegnamento liceale. Per le ragioni dette declino l’invito a scrivere qualche pagina di ricordo: c’è troppa distanza! Non solo distanza temporale; anche distanza da quei miei interventi di allora. E quindi non ho più altro da dire: quello che per te/voi è giustamente un ri­ prendere, per me risulterebbe un riesumare il mio io-di-allora. E questo non è cosa piacevole, ma neanche utile. Bari, 11 novembre 2008

Alfredo Nascimbeni"

Non mi è mai stato facile ricordare quel corso a Pisa nell’ormai lontanissimo 1969. Forse perché non ho mai voluto eludere gli strappi e le antitesi che si è portato dietro e con i quali, talvolta, in maniera poi neanche tanto mediata, ho avuto a confrontarmi. Dover buttar fuori, anche per semplici assonanze o personali rimandi, ciò che ti ispirava un film, e in gruppo e sotto l’attenzione sorniona di sconosciuti, ave­ va a che fare con una confessione e contemporaneamente con un confronto. Una sorta di psicodramma su più piani al quale non solo non ero abituato, ma che consideravo, e forse tutt’ora considero, troppo letterario, vagamente mistico, un po’ impudico. Ricordo che non tutti avevano retto allo sforzo e al ribaltamento culturale. Mi è capitato alcune volte, nella mia attività, di voler applicare metodi analo­ ghi, un po’ “living”, non so bene con quali risultati, ma ciò mi ha dimostrato quanto profonda fosse stata la lacerazione (l’intervento chirurgico?) procurato. Ringrazio e mi sento debitore verso coloro che mi hanno dato l’opportunità di vedere qualche cosa (il miracolo?) con occhi nuovi e sottili temerarietà. Modena, 3 dicembre 2008

*Nato il 25-7-43 a Modena, laurea in matematica, insegnante e successivamente preside di scuo­ le superiori.

Faliero Rosati *

Nilalienum Scrivo mentre continuo a rileggere le pagine di quel giovane seminario. Non posso chiamarlo vecchio perché i suoi contenuti sono ancora attuali e perché il rinnovarsi del ricordo serve al futuro. Occorre una vita per diventare giovani, diceva Picasso. Ma poteva dirlo anche Rossellini. Ricordo che passai un paio d’ore, sii bar sul Lung’Arno, fuori dal cinema, in­ sieme a Rossellini. All’interno stavano proiettando Europa ’51, ma lui non volle vederne neanche un fotogramma. Mi disse che non aveva mai rivisto i suoi film. Erano il passato. E lui preferiva guardare avanti. Anch’io. Ma ora mi viene chiesto da Adriano di voltarmi indietro, per dire qualcosa di questi quarantanni. Avevo vent’anni e volevo fare cinema. Ora sono oltre i ses­ santa e vorrei ancora fare cinema, ma non ho più né tempo né voglia di supera­ re i mille ostacoli che ogni film comporta. Mi attrae di più la scrittura e la sua li­ bertà espressiva, che meglio coniugo con l’amore verso la vita, verso i paesaggi reali, i viaggi interiori ed esteriori. In mezzo, in mezzo a questi quarantanni, ci sono mille avventure, miraggi e tradimenti. I miraggi dello schermo, il piacere di aver realizzato alcuni sogni, i tradimenti della storia, e di me verso me stesso. Ho fatto e scritto cinema. Ho cercato di esprimere alcune emozioni e perso­ naggi, lavorando con piccoli e grandi budget. L’esperienza più intensa e più vera è stata il primo film, Morte di un operatore [1978], girato con poche lire e con poche persone. Quasi senza sceneggiatura. E con una libertà totale. Spesso, alle tre del pomeriggio, avevo già finito il programma della giornata e mi chiedevo: e ora cosa giro? Cosa posso aggiungere? Non è mai più successo. Nei film successivi la macchina organizzativa ed eco­ nomica era schiacciante. La mia natura introversa e “underground” era defor­ mata e travolta. Avevo fatto scelte rischiose. Cercavo l’epica più che la lirica, l’im­ magine più che la parola, personaggi e paesaggi di frontiera, viaggi straordinari

''Nato a Pisa nel 1946. Regista e sceneggiatore.

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in un paese che cerca l’ordinario, che ama specchiarsi nello strapaese. Amavo il cinema di Antonioni, di Kubrick, di Kurosawa, di Peckinpah... Maestri “sba­ gliati” per i tempi che correvano. Alla fine degli anni Settanta, con la fine della “commedia all’italiana”, sem­ brava essersi aperto un varco. Molti produttori cercavano sbocchi internazio­ nali e progetti più audaci. Ma invece si affermò improvvisamente un cinema di “cantautori” di se stessi. Con poche lire, tre battute e due camere e cucina si po­ tevano fare grandi profitti. Altro che la religiosità di Rossellini, la visionarietà di Antonioni, l’epica di Leone... Grande rispetto per gli esempi migliori, ma in generale era un cinema astuto, autoritario e autocompiacente. Raccontava un’Italia depressa, con un’ironia me­ lanconica che veniva applaudita dal cosiddetto “popolo della sinistra”. Un pal­ coscenico senza campi lunghi e senza orizzonti, in cui, io di sinistra, non mi ri­ conoscevo. In altri casi veniva premiata la roboante retorica sentimentale di fin­ ti film anni Cinquanta. O il noioso riproporsi, in un cinema di nicchia, di poetiche che a me apparivano inutili e stanche. Colpa mia certamente, ma non provavo nessuna emozione. Nessun rancore quindi, ma neppure nessuna compassione. Forse, l’immagine interna negativa che avevamo e abbiamo del nostro paese si era riversata nelle storie, nei personaggi, nei linguaggi. Ne uscivano mille eroi ridicoli, infelici o stereotipati, che si aggiravano incerti fra scenari e crisi senza fi­ ne. Oppure affondavano nella nostalgia dell’innocenza perduta. Tutto questo è durato fino alla metà degli anni Novanta. Intanto riuscivo a fare qualche film, vari documentari, molte sceneggiature, ma i progetti in cui credevo di più venivano regolarmente respinti. Per incom­ prensione, per mio difetto, per “fuori sync”. Mio o degli altri? Avevo ritrovato la mia strada, ma intanto era cambiato il mondo e, insieme all’alluvione televisiva, stava ormai dilagando un pragmatismo selvaggio. Ogni linguaggio o idea doveva appiattirsi su modelli preconfezionati. E si do­ veva cancellare ogni differenza, ogni trasgressione, ogni ricerca. “Nilalienum est”. Nulla di umano dovrebbe essere incomprensibile per l’uomo. Ma, certo, non è facile assistere a una così rapida regressione, al suicidio di un immaginario vasto e profondo. Alla distruzione di una ideologia intesa come sistema di rap­ presentazioni (immagini, miti, idee o concetti) dotato di una esistenza e di un ruolo storico nella società. Così è stato e così è. Lo sappiamo. Rossellini, Antonioni, Pasolini, Fellini... sono oggi personaggi del futuro. Ro­ ba da fantascienza. Allora, nel 1969, si cercava di capire il loro cinema per andare avanti, per crea­ re altri immaginari. Per trasmettere la “culla di spago”. Nessuno poteva sapere quale deserto ci aspettava. Ma, rileggendo le frasi di quel dibattito sulla cultura cinematografica del tempo, si intuisce che alcune crepe erano già presenti. In-

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dicativa era infatti la contraddizione e la confusa coesistenza di “realismo” e “na­ turalismo”. Così come ignorata e travisata era ed è tuttora la limpida differenza fra “liri­ ca”, “epica” e “dramma”. E oggi? E sotto gli occhi di tutti il profondo cambiamento di ogni paradigma. Di ogni DNA. E la condizione culturale, politica ed economica del paese mi dà scarso ot­ timismo. Non abbiamo più strade o autostrade, ma solo dei sentieri. Privatamente, segretamente... vorrei tornare a Dziga Vertov, all’adolescen­ za, all’impatto privato e segreto con varie realtà ed emozioni. Lo faccio e lo sto facendo, con la penna e con la mia videocamera in giro per il mondo. Appunti di viaggio, senza storia e senza fine. Senza la ricerca di alcuna visibilità. Mi piace e mi diverte, nell’assoluta libertà. Rossellini, quella sera sul Lung’Arno, disse anche che quando ci si sdraia su un prato, su una spiaggia o su un letto... il punto più vicino al sole è la “panza”. Roma, 19 dicembre 2008

Alfredo Rossi"

La Comune del vedere L’esistenza del cinema neorealista è tuttora, ma ancor più lo era alla fine degli anni Sessanta, il valore condiviso della repubblica cinematografica italiana. In particolare neorealismo e Rossellini erano una sorta di inscindibile binomio identitarie, in cui l’uno è stato sempre usato per fare aggio sull’altro. Se Rossel­ lini giustificava la valorizzazione di un’ipotesi cinematografica del discorso po­ litico sul reale (neorealismo), per converso la critica italiana, di sinistra, con im­ barazzo, si faceva carico di lui e della sua opera successiva alla “trilogia della guerra” {Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero) esclusivamente in ragio­ ne di una sua appartenenza fondativa alla fase mito-ideologica originaria. In altre parole, mentre in Francia il cinema ripartiva, con la nouvelle vague, da Wtfgg/o Italia per reinventare lo sguardo sul reale, in Italia si considerava il Rossellini successivo a Germania anno zero come un soggetto cinematografica­ mente e intellettualmente deviarne, disancorato da ogni referenza di partito e quindi non spendibile né in funzione critica né soprattutto politica. Nel 1966-67, tuttavia, nasceva una rivista che in modo sfrontatamente pro­ vocatorio dedicava la copertina del suo numero 1 a una scena de La prise de pouvoir par Louis XIV e fondava quindi la propria riflessione sul cinema a partire da quel Rossellini misconosciuto e scomunicato. «Cinema & Film» era il suo sfi­ dante titolo e gli amici del comitato direttivo erano Apra, direttore, Albano, Anchisi, Faccini, Martelli, Ponzi, Rispoli e Roncoroni. Al loro lavoro di équipe si do­ vette lo storico numero 2, dedicato al regista, in cui, oltre a letture linguistiche di sequenze di Viaggio in Italia, secondo le grammatologie di Metz e Pasolini, ap­ paiono saggi fondamentali tra cui, bellissimo, quello di Maurizio Ponzi Due o tre cose che so di Rossellini. In esso si collegava lo stile del regista a quello di Go­ dard, accomunati in un nuovo sentire il rapporto tra cinema e realtà. Già dunque con «Cinema & Film» 2 veniva strappato il sipario sul miscono-

*Nato a La Spezia nel 1947, vive a Lucca. Ha collaborato a «Cinema & Film», ha pubbli­ cato nella collana II Castoro Cinema de La Nuova Italia le monografie Elia Kazan ed Elio Pe­ tri, oltre a saggi su «Ideologie» e «Bianco e Nero».

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scimento della fase “oscura” rosselliniana e si proclama Europa ’51 come il film più nuovo e sovversivo del cinema italiano del dopoguerra Questa era la scena critica, avanzata, in cui si apre, nel 1969, la vicenda mini­ malista di un gruppo di ventenni che non avevano mai visto, in blocco, i film del regista (alcuni probabilmente non ne conoscevano neppure uno). Essi si riuni­ rono a Pisa, in un’atmosfera conventuale, per quattro giorni, per vedere e dire Rossellini. Era il terzo convegno a cui alcuni di loro partecipavano: lo scopo or­ ganizzativo era di costituire un gruppo omogeneo e qualificato di responsabili nell’ambito dell’ARCI-Settore Cinema, associazione satellite dell’allora PCI, di­ retta in quel periodo da Gianni Menon. Tutte le riunioni (Reggio Emilia, Vene­ zia e, appunto, Pisa) erano gestite dal punto di vista critico da Aprà che rappre­ sentava se stesso ma, quale direttore, anche la rivista di cui era la figura carisma­ tica. «Cinema & Film» era dunque, seppur non direttamente, il punto di riferimento critico-ideologico dell’operazione. Non riesco a immaginare quale impatto possa avere la rilettura di testi che te­ stimoniano di un’esperienza assai privata per molti, con interferenze a livello emozionale originate dalla situazione di chiusura logistica e temporale. Non ho un ricordo molto piacevole di quella situazione rituale. Ognuno di noi era gio­ cato diversamente: si agitavano in tutti ambizioni, frustrazioni e ansie espressi­ ve di fronte ai maitres del gioco, Apra e Menon. Questa precisazione è doverosa per far capire al nuovo lettore come, assieme a momenti alti, strutturati, in particolare dovuti agli interventi di Aprà, si incon­ trino, nei testi, anche imbarazzanti banalità o, peggio, balbettìi, afasie se non, per­ fino, piccole evenienze isteriche (cfr. l’apertura del dibattito del terzo giorno). Nonostante il mio odierno senso di lontananza emotiva dal fatto, rileggendo, nell’imminenza di questa nuova edizione del Dibattito su Rossellini, i testi di al­ lora e recuperando alla memoria atmosfere e sensazioni, credo che un qualcosa di ragguardevole, in quel luogo e in quella situazione, innaturale e medianica, si sia effettivamente prodotto. Questa cosa ritengo abbia avuto una valenza ideologica e critica che merita di essere ripercorsa più, od oltre, l’oggetto strettamente trattato, il cinema di Ros­ sellini, in relazione al fatto che, nell’occasione, affiorarono i sintomi di un più generale bisogno di misurarsi diversamente con il cinema. L’intero dibattito va letto, a mio parere, come il segno di una richiesta di nuova modulazione del de­ siderio schermico dettata dall’irrompere, non padroneggiato in quella fase, di istanze culturali e politiche che tendevano a travolgere ogni precedente ap­ proccio all’oggetto cinema, sia puramente cinéphile che linguistico-strutturalistico, di natura scientista. Le giornate del Dibattito risultano aver funzionato da involontaria scintilla di un più vasto incendio che ha coinvolto intellettualmente ed emotivamente gli intervenuti, cambiando la vita di molti, a partire dagli stessi Aprà e Menon, e an-

I59 che degli assenti (i redattori di allora di «Cinema & Film»), in quanto ciò che av­ venne in quelle giornate portò conseguenze su più versanti, come vedremo, ma soprattutto, ed è quello che ci interessa precipuamente, sul mutare del rappor­ to critico-politico col cinema. Tornando al convegno, va detto infatti che la situazione di intolleranza ritua­ le poneva i presupposti di una fecondazione multipla del discorso critico, accreditabile, in questo senso, a tutti, in quanto ognuno dei presenti tracimava nel­ l’oralità il seme, o meglio il sintomo del disagio, che tratteneva nella sua lingua. Le registrazioni comprovano l’instaurarsi, sempre più intenso, di una “spira­ le di parola”, quale oggettivazione di un cortocircuito psichico, inizialmente pro­ vocato (vedi interventi di Aprà e Menon al termine della prima giornata) ma che, alla fine, sommergeva tutti. Così Aprà, durante il dibattito del terzo giorno: «Devo innanzitutto dire che fino ad oggi io credevo di aver capito tutto di Rossellini». Questa erranza discorsiva stravolgeva, innanzitutto, il rapporto canonico con il cinema di Rossellini e lo feceva nell’unica maniera in cui opera il linguaggio: nel prodursi come effetto erotico, di trasmissione del desiderio. Ma a questo livello di coinvolgimento totalizzante si arrivò per gradi. La pri­ ma fase fu segnata da un passaggio critico metodologicamente scontato per al­ cuni, ma concepito e portato a termine con infantile efferatezza, ovvero l’inseri­ mento dei film in un contesto di universalità dell’immaginario cinematografico, in una filmoteca infinita di derivazione borgesiana. In questo non luogo del fan­ tastico, accanto a Germania anno zero si trovavano le pizze di Nosferatu, i film di Buster Keaton (Ferrini introduceva la categoria di “comico”) e poi, a ogni film successivo, si incontravano, nelle teche infinite, accostamenti sempre più arditi (Ungati proponeva quello tra Stromboli e Gli uccelli e, ancora, L’uomo cbe sape­ va troppo). Questo gioco del metamorfismo fiammeggiante provocava piccole contrazioni di risa nel volto austero del giovanissimo intellettuale Adriano, il quale gioiva della prospettiva possibile di diffusione, nel gruppo, di un dimen­ sione esoterica del vedere che già gli era propria. Ma la pratica delle letture trasversali portava sempre più a effetti di transfert, di proiezione erotizzata, attraverso un rapporto di “perdita” nel/del vedere, di vi­ sioni come appello amoroso all’oggetto. Non a caso da molti veniva lanciata la parola mitico/mistica “rivoluzione” (sia­ mo nel maggio del 1969). Le letture e le parole si facevano sempre più allucinate, in un crescendo di livello metaforico: le eroine di Stromboli o de 11 miracolo nel lo­ ro viaggio di allontanamento dal mondo erano soggettività marziane che partori­ vano V uomo nuovo, quello che farà la rivoluzione. Il cinema di Rossellini, per Aprà, era un razzo a più stadi (i film) verso gli spazi siderali di una dimensione spazio-temporale filosofica ateista: lo sguardo dalla montagna di Zarathustra. Ma tutto questo oltrepassava il legame d’oggetto col cinema di Rossellini e

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concerneva un trasferimento di modulazione del vedere che era il sintomo di bi­ sogni di natura culturale e, soprattutto, politica ideologicamente ulteriori ri­ spetto alla logica del discorso critico. Si è detto come la parola “rivoluzione” ricorra sistematicamente negli inter­ venti: come se quello che prima si è qualificato “gioco” fosse, in realtà, la ricer­ ca di una fondazione di una militanza radicale nel vivere il rapporto tra cinema, vita e azione, fondato sulla visceralità, sulla “pancia” (la pancia di Rossellini co­ me metafora), ovvero più sugli istinti e sui desideri che sulla ragione. Come se la razionalità marxista o gli strumenti di uno strutturalismo scientista non dessero risposte a un bisogno di adeguamento del bio-vedere rivolto a una prassi, nicciano-marxiana, di rifondazione catartica della genealogia dei valori. Diceva Adriano, intervenendo a conclusione dell’incontro con Rossellini, al ter­ mine della proiezione di Europa ’51: «I film di Rossellini ti guardano negli occhi. Quando un uomo ti guarda negli occhi o ci voltiamo e scappiamo o gli andiamo in­ contro e in quest’azione ci realizziamo. [...] La maggior parte del cinema italiano è un cinema di morti [...], è un cinema di pace, di pacificazione, mentre quello di Rossellini è un cinema di guerra, di guerriglia, di rivoluzione». H corpo-cinema fu trasformato in “corpo d’amore” e, come tale, usato erotica­ mente, oggetto di orgia del verbo, nel segno desiderante di una liberazione dalle so­ vrastrutture storico-critico-ideologiche che lo inumavano come “corpo morto”. H comuniSmo (da “La Comune” ) linguistico-isterico era portatore, dunque, di un appello desiderante che tracimava l’oggetto trasferendolo in un altrove che faceva saltare, al di là del bene e del male, i punti fermi del dibattito critico-filosofico-politico cui era arrivata l’avanguardia culturale di «Cinema & Film», di cui Adriano era il rappresentante, ma che, soprattutto, comportava un modo differente, di natura sovversiva, del situarsi vitale con il cinema. Questi sono i movimenti che a mio avviso si leggono come ipertesto di queste giornate. A livello di sintomo, evidentemente, in quanto il discorso si dipana sot­ to la spinta di mozioni non padroneggiate: esse sono un versante delle parole d’ordine della dissidenza sessantottina, mosse, a livello culturale, dalla rielabo­ razione del rapporto Marx-Freud e dallo sblocco ideologico dei testi di Nietz­ sche. E da ricordare che negli anni Sessanta si pubblicavano le opere complete di Freud, curate da Musatti, e di Nietzsche, tradotte da Colli e Montinari. Con quest’ultima si spalancarono le porte alla diffusione degli scritti degli intellet­ tuali francesi sul filosofo tedesco, da Bataille a Blanchot e Klossowski, da De­ leuze a Derrida, con interpretazioni eretiche, atee e matèrialiste, radicalmente ec­ centriche rispetto alla vulgata irrazionalistica dominante in Italia. Questi “fatti”, oggi dati per scontati, erano allora momenti di accensione men­ tale e vitale. E anche politica, in quella fase in cui l’“immaginazione al potere” (immaginazione nel senso sopraddetto, di “inconscio”, si intende) era una del­ le parole fondanti del dibattito filosofia/politica.

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Ecco la chiave per leggere, per capire i nessi “allucinati”, che oggi possono essere recepiti in modo derisorio, di una colleganza tra vite appena sbozzate di ragazzi e idee incendiarie che si voleva voracemente sussumere, pur manipo­ landole da apprendisti (parlo, ovviamente, di noi catecumeni). Il cinema di Rossellini fortemente anarchico, nel senso di non essere latore di fedi e di essere senza credenza, travolge la genealogia dei valori dati pur in una ap­ parente assenza di giudizio e si situa dalla parte dei folli, come il regista stesso di­ chiara, inaspettatamente e inequivocabilmente, durante il dibattito - proprio lui così “borghese” nella sua immagine pubblica. Folli non solo sul piano delle so­ litudini ascetiche e definitive {Stromboli, Europa ’51, Luigi XIV), ma anche su quello delle scommesse di collettivi, di gruppi portatori di istanze radicali, ov­ vero i folli in movimento di Francesco giullare di Dio, Viva l’Italia, Socrate e Atti degli Apostoli). Il suo cinema a colpi di martello, dunque, non poteva che fun­ zionare come superficie speculare in cui r appresentare e riflettere la doppia de­ siderala-. di appartenenza a una cultura di rottura con il marxismo feticista e fi­ deista del PCI e di ricerca di un nuovo spazio politico movimentista. Lo sforzo liberatorio, solitario, che accomuna le eroine rosselliniane nella sfe­ ra visionaria ed eversiva dell’esperienza interiore batailliana, che le fa apparire marziane — come spesso viene detto — rispetto all’universo della morale storiciz­ zata, doppiava la concezione di una nuova visione zarathustriana nei confronti del reale e del cinema, di rifondazione radicale dei valori. A proposito di Europa ’51 Paolo Benvenuti affermava: «E questo che dice il film: essere se stessi fino in fondo, anche a costo di essere considerati dei pazzi, dei santi o dei cretini». Introiezione della sovversione della follia nell’individuo e nel collettivo: ecco la scommessa radicale a cui aprivano queste visioni. Scrive Aprà in Oltre: l’uomo folle e il cinema siderale, citando Cocteau, poeta e regista visionario (numero 7-8 di «Cinema & Film», inverno-primavera 1969): «“L’evasione non ha niente a che fare con la vera poesia. E {'invasione che conta, [...] l’ipnosi collettiva di un pubblico che non svegliamo e che spingiamo a sprofon­ dare in se stesso [...] poiché, come diceva Goethe, è stringendosi contro se stessi che si rischia di incontrare delle anime fraterne”». Ancora: «E a Cocteau fanno coro Artaud, Breton, Bunuel: l’immaginazione sola rende conto di ciò che può es­ sere». Si delinea così nel campo del cinema la chance esistenziale di una militanza politica in un ambito di fratellanza visionaria: la Comune del vedere. La qual cosa, in quei giorni, poteva essere concepita come forma di svolta anarchista dei singo­ li e/o collettiva. Ne sono testimonianza gli appelli alla comunità socratica e apostolare dopo le proiezioni di Francesco, Socrate, Atti degliApostoli e Viva l’Italia [in realtà, né Francesco, né Socrate vennero proiettati in quell’occasione]. Rossellini come Francesco, Socrate, Paolo, Garibaldi: testimoni del tempo e modellatori di movimenti politici e spirituali nella storia. Con i presenti uniti nel transfert rosselliniano e nell’invocazione del passaggio all’azione.

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Ne conseguiva che, nelle quattro giornate del Dibattito, molti vissero la con­ densazione del sintomo isterico in una “appartenenza” a un corpo in movimen­ to e proprio questo percorso alcuni riproposero, poi, nel fuori, come momento di militanza culturale e politica nel reale. Questo riverbero nel reale, nella battaglia ideologica sessantottina, mi appare l’elemento che avvalora la ripubblicazione del testo e lo rende per qualche verso prezioso per chi si interessa alle spirali delle avanguardie culturali di quegli anni. Insomma, il volume che il nuovo lettore ha in mano è la testimonianza di un’i­ stanza di passaggio da una cinefilia illuminata e/o da un’avanguardia scientista al­ l’effetto di credenza nell’atto militante nel campo del cinema, sotto la spinta di categorie del vedere, del pensare e del vivere che tutto travolgevano. Su questo piano si apre un discorso che appartiene ai tragitti della critica cinematografica italiana e in particolare a quelli della ri vista che meglio l’ha rappresentata, «Cine­ ma & Film». Stiamo parlando della rivista che esprimeva al suo interno sia i valo­ ri massimi della cinefilia, di derivazione «Cahiers du Cinéma» anni Sessanta, sia quelli del lavoro teorico sul linguaggio, di derivazione strutturalista. Queste quat­ tro giornate sono state determinanti per la sua vita e hanno avuto molto a che fa­ re con il suo destino: ne hanno infatti spostato la barra critica su un piano diverso da quello analitico-semiotico strutturalista, di derivazione scientista, trasferen­ dolo in coinvolgimento da inventare tra militanza teorica e politica, come se l’as­ se fondante della ragion critica non offrisse più risposte all’assedio del reale. In questo senso l’appello a un rinnovamento nicciano del legame vita/cinema/politica, seppur controverso e contestabile, come lo sarà poi di fatto all’interno della redazione stessa, è stato un momento interpretativo del tutto originale nell’ambi­ to della critica, che certamente ha portato a nuove soglie del vedere e ha segnato una stagione di sollecitazioni mentali feconde ed eccentriche. Questo spostamento, di cui era interprete privilegiato Aprà, ha provocato un ricambio redazionale e generazionale (l’entrata di Menon, Ferrini, Ungari, Melani, Carlini e chi scrive) ma, nello stesso tempo, ha creatoi presupposti perla fi­ ne della rivista stessa. Quest’ultima considerazione ha ovviamente risvolti che in­ vestono più soggetti, ma mi pare si possa dire che proprio l’assunzione, da parte di Aprà, Menon e, poi, Ungari di quella militanza, che abbiamo cercato di de­ scrivere nella sua complessità, abbia creato la condizione di una scollatura teori­ ca interna alla rivista. Ciò è accaduto primariamente con parte della redazione originaria, successivamente con alcuni dei nuovi entrati (Ferrini e chi scrive) i quali, secondo le dinamiche delle scissioni ideologiche imperanti negli anni Set­ tanta, non essendo più in sintonia con il movimentismo, erede degli esiti e del cli­ ma del dibattito, accusavano quella “fase” di deriva spontaneista (chi si ricorda oggi di quella magica parola?) e si richiamavano a un ritorno a una “pratica teo­ rica” nel nome di un marxismo freudiano-lacaniano di elaborazione francese (quello su cui lavoravano, nello stesso periodo, anche i «Cahiers du Cinéma» di

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Comolli, Narboni, Bonitzer, Oudart, Daney, per intendersi, oltre che «Cinéthique»). Non è stato perciò un caso che l’annuncio, contenuto nella prefazione alla sceneggiatura di Atti degli Apostoli («Cinema & Film» n. 9), a diretto segui­ to del convegno pisano, di un numero dedicato alla “nuova prospettiva” critica su Rossellini non abbia avuto esito. Apra, che era, inequivocabilmente, la figura di riferimento della rivista, si è sempre più rappresentato, in quei primi anni Set­ tanta, nella “prassi”, gestendo a partire dal 1971, con Ungari, il Filmstudio 70, la saletta cinematografica romana diventata un centro culturale, e rivolgendo il suo primario interesse all’attività di diffusione alternativa di film. Lo stesso Adriano, in un’intervista del 2005, relativamente a questo forte passaggio della sua vita, parlando di Marco Melani, caro amico scomparso, il quale non ha quasi lasciato scritti, affermava: «Anch’io del resto non scrivevo più, pensavo fosse meglio far vedere, che è un altro modo di fare della critica». Ci sembra che anche l’elaborazione creatrice e innovativa della critica cine­ matografica italiana si fermi a questo punto di “impasse”, con la chiusura di «Ci­ nema & Film» e con la conseguente fine della forza vitale del lavoro teorico che le era propria, senza passi avanti ulteriori. Per queste non volute conseguenze la pubblicazione del Dibattito desta inte­ resse e lo stesso va attentamente letto. Tutto questo ho cercato di richiamare alla memoria per razionalizzare e far comprendere a chi ci leggerà il senso pesante, ol­ treché sul piano umano, su quello dell’elaborazione teorica sul cinema, di quelle giornate, che oggi si ripropongono in un clima critico e politico lontanissimo da quello, privo di ogni slancio vitale, corrotto dal sonno dell’assenza di rumori di battaglia, senza moralità leggendarie, in cui tutto è già stato fatto e detto, in cui i no­ stri “successori” operano esclusivamente come valorizzatovidi un nulla insensato in cui tutte le vacche sono luminescenti e in cui, per conseguenza, il cinema, o la vi­ ta, ritornano a essere desolatamente corpi morti. Del resto, così Freud nella Le­ zione 29, Revisione della Teoria del sogno, del 1932, ironizzava sui suoi successori: «I molti psichiatri e psicoterapeuti che cuociono la loro minestrina al nostro fo­ colare (senza essere del resto molto riconoscenti per l’ospitalità)...».

In questa scena critica di coscienze appagate noi, attori di psicodrammi di quarantanni fa, sembreremo fantasmi risibili di una morta stagione delle idee. Ma, chissà, forse per qualche raro lettore, altrettanto visionario, funzioneremo nello stesso senso in cui, allora, funzionarono i protagonisti dei film di Rosselli­ ni: ci vedranno come marziani. La decisione di Aprà di ripubblicare il Dibattito quarantanni dopo (una vita o due vite dopo) dimostra come siano inalterati in lui gli splendidi segni distintivi della fedeltà a se stesso, alla propria vicenda e ai propri entusiasmi. Come in definitiva sia rimasto marziano. E poiché tali ci pen­ siamo anche noi, in questa ultima follia siamo apertamente dalla sua parte e con orgoglio ci reimbarchiamo insieme sulla stultifera navis. Lucca, 18 dicembre 2008

Vincenzo Velati *

Avevo compiuto vent’anni nel 1968 ed ero iscritto alla Facoltà di Lettere. Ero stato spinto a scegliere la facoltà dal mio interesse per la Storia dell’arte. Gli an­ ni trascorsi al liceo classico erano stati pieni di interessi culturali e politici; gli studenti potevano frequentare gratuitamente, grazie agli abbonamenti intestati alla scuola, concerti e spettacoli. Era allora diffuso un interesse popolare per il ci­ nema e nei quartieri periferici c’erano cinema di seconda e terza visione a prez­ zi abbordabili che consentivano di vedere anche due o tre film in un pomeriggio. Con un gruppo di amici - ricordo soprattutto fra di loro Francesco e Felice Lau­ dadio e Silvia Napolitano (e cito solo loro e non altri perché avranno in seguito un rapporto professionale con il cinema) - si discuteva animatamente di cine­ ma, ma l’approccio tra noi era ambiguo: impressionisticamente qualitativo e ra­ zionalmente contenutistico. Giudicavamo elitari i programmi dell’unico cine­ club laico allora attivo, “Amici del cinema”, guidato da Vito Attolini. Io co­ munque volentieri collaboravo alla vendita degli abbonamenti e questo mi fece conoscere tra i miei compagni come un amante del cinema di qualità, sempre pronto, nei capannelli informali all’uscita, dopo le proiezioni, a discutere e a di­ fendere le scelte più ardite di Vito, contro chi voleva film di maggiore presa spet­ tacolare e meno ricercati. Mi ero iscritto qualche anno prima alla FGCI e frequentando la federazione del PCI, che ospitava i giovani nell’ultima stanzetta di una labirintica sede, avevo con Francesco Laudadio rimesso in funzione un vecchio proiettore cinemato­ grafico a lómm di vaga provenienza orientale e scoperto con trepidazione e stu­ pore, tra vecchie pizze abbandonate e documentari del dopoguerra, un film an­ cora visibile che iniziava con la voce di Ernest Hemingway: era Terra di Spagna [1937] di Joris Ivens. Quando dall’ARCI nazionale chiesero qualche nome di gio­ vani per partecipare a un seminario sul cinema a Reggio Emilia, l’ARCI di Bari, che allora quadri giovani non ne aveva, si rivolse alla FGCI e fummo inviati, se ri­ *Vincenzo (Enzo) Velati, nato a Bari nel 1948, ha insegnato Storia dell’arte nelle scuole se­ condarie superiori ed è oggi dirigente scolastico. È stato presidente dell’ARCl regionale puglie­ se e ha ricoperto cariche amministrative in vari organismi culturali della Regione. Si occupa, co­ me critico, di arte contemporanea e di fotografia.

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cordo bene, in due: io e Francesco Laudadio (o forse confondo, e prima ancora partecipammo a un altro incontro a Pontecagnano per la fondazione dell’Unione Circoli Cinematografici dell’ARCl). Di quell’incontro a Reggio Emilia ricordo il dibattito tra una componente movimentista, interessata a un uso strumentale del cinema come mezzo di comunicazione per orientare le masse, e quindi da depurare da influenze formalistiche dispersive piccolo borghesi (parlavamo pro­ prio così e citavamo Lenin appena possibile), alcune presenze autoriali divaganti (insolite per noi baresi), sperimentali, interessate al linguaggio e all’innovazione, e altre già vocate alla critica. Non potei partecipare al seminario di Venezia, ma i miei interessi si dividevano sempre tra cinema e impegno politico. Nell’estate del ’68 con Francesco e Silvia partimmo in autostop per il festival di Avignone, che inaugurava allora una sua se­ zione cinematografica, e poi per Parigi. Stavano allora asfaltando i pavé del Quar­ tiere Latino e restava, del movimento del Maggio, un banco con riviste studente­ sche nel cortile della Sorbona e qualche manifesto ai muri. Ma la Cinémathèque Fran^aise di Langlois era ben funzionante e vi passammo qualche pomeriggio. La partecipazione ai seminari e alle riunioni dell’ARCI-UCCA a Roma mi aveva fatto co­ noscere più da vicino Gianni Menon: ero molto incuriosito e attratto dai suoi oriz­ zonti culturali così diversi dai miei (la formazione milanese, la frequentazione del­ la Scala, l’amicizia con Carmelo Bene, il contatto con il mondo del cinema roma­ no) e partecipai molto volentieri con Antonio Gentile al seminario di Pisa nel 1969. Il ricordo che ho di quelle discussioni è un po’ incerto, ma rileggendo il volume pubblicato riemergono alla memoria anche i particolari non registrati nella tra­ scrizione e la mia tormentata sofferenza per le scelte che sentivo di dover fare. Il movimento studentesco barese era una esperienza di massa reale con qualche di­ visione organizzativa ma profondamente coinvolgente per centinaia e centinaia di giovani. La parte maggioritaria, nella quale: io e i miei compagni di cinema ci rico­ noscevamo, stava rapidamente orientandosi per scelte ideologiche rigidamente marxiste-leniniste con espliciti richiami all’ortodossia del regime albanese e della Cina maoista. L’approccio ideologico cominciava a pervadere ogni scelta esisten­ ziale e culturale, e l’interesse per l’arte, la cultura, il cinema veniva di fatto piegato ai principi superiori della lotta di classe e della ortodossia. Il seminario di Pisa in questo percorso rappresentò uno squarcio culturale per me fondamentale. Poter vedere di seguito tanti film di Rossellini e poterne discutere a lungo, sentendo esprimere pareri diversi ben argomentati, che rom­ pevano con gli schemi di analisi a me consueti, fu una esperienza estremamente coinvolgente. Agli inizi avevo un approccio classificatorio e categorizzante, ma la visione di Stromboli e Viaggio in Italia fu per me veramente importante. Pote­ vo operare in profondità un approccio di analisi linguistica che mi sembrò ben più produttivo del giudizio politico (il grimaldello ideologico che eravamo abi­ tuati a usare, e che rendeva così facile trovare la linea “corretta” su ogni aspetto

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dell’universo). Tornavano i conti con le letture dei primi numeri di «Cinema & Film» e di «Ombre Rosse» che giravano nei cinema e nell’università. Ma in ve­ rità la dissonanza cognitiva di quel seminario non £u “immediatamente” frut­ tuosa. Ero preso dal fondamentalismo della militanza politica; non trassi spun­ ti operativi da quelle discussioni e da quelle visioni (ah, l’incanto e lo stupore de La prise de pouvoirpar Louis XIVl ) e snobbai, con un intervento che mi fa anco­ ra oggi arrossire, l’incontro con Rossellini. Menon, che mi aveva capito, mi di­ ceva amichevolmente, con la franchezza culturalistica di quegli anni: «Devi sce­ gliere tra l’arte e la rivoluzione». Io ero preso dalla pienezza esistenziale della militanza politica nel movimento e volli lottare contro la fascinazione del lin­ guaggio, dell’arte e del cinema; tornato a Bari lasciai perdere i piaceri estetici. Arrivai persino a regalare la mia raccolta di riviste cinematografiche alla biblio­ teca dell’associazione Italia-Albania. Quando qualche anno dopo (rientrato nel PCI nel 1972) ripresi il lavoro cul­ turale, diventando un funzionario dell’ARCI, tornai a occuparmi di cinema. La riflessione sul seminario pisano e sulle idee elaborate in quel periodo furono fon­ damentali, e senza più remore banalmente contenutistiche organizzammo de­ cine di cineclub, partecipando a dibattiti, mettendo su una cineteca regionale e infine elaborando un metodo di lavoro e di organizzazione che poi si affermò in tutta Italia. In Puglia ci inventammo il coinvolgimento unitario dei gestori AGIS, degli enti locali e dell’associazionismo cinematografico locale per dar vita ai “Progetto cinema” che negli anni Settanta e Ottanta hanno permesso la tenuta e la crescita del pubblico cinematografico e successivamente la formazione di una leva di cineasti più giovani: fra tutti ricordo Maurizio Sciarra e Michele Buo­ no. L’ARCI spingeva perla costituzione di una mediateca pubblica e per una leg­ ge regionale sul cinema che alla fine fu varata e permise, tra le altre, le prime pro­ ve produttive, per conto dell’ARCI di Puglia, di Domenico Procacci e Oscar la­ russi (il corto Castelli in aria [1985]). Termino qui i ricordi personali: per notizie più dettagliate si possono consul­ tare i due volumi Cineasti di Puglia curati da Vito Attolini, Alfonso Marrese e Maria A. Abenante per le Edizioni dal Sud di Bari nel 2006 e 2007. Bari, 5 gennaio 2009

Mauro Zanichelli

Pisa, maggio del 1969. Giorni attesi per poter finalmente vedere l’“opera omnia” del regista più ama­ to, Rossellini, di cui avevamo compreso lo> spessore senza aver avuto l’occasione di approfondirne l’opera. Poi l’incontro con “cinemaniaci” di ogni parte d’Italia. Poi i film. Le lunghe discussioni, solo un po’ gravate dalle letture appena apprese, ma quanta voglia di conoscere! Che desiderio di andare oltre il recinto della cultura cinemato­ grafica ufficiale! Che belle serate a Pisa! La lettera di Apra, molto gradita, riporta il pensiero a quelle sere, a quell’e­ sperienza che ci ha resi più attenti al magnifico spettacolo che è il cinema. Oggi, richiamato a quei ricordi, provo nostalgia per un’epoca vissuta con ani­ mo aperto alle esperienze, nella consapevolezza che oggi quel tempo è definiti­ vamente trascorso, e che anche sul cinema gravano, troppo spesso, le difficoltà e le ripetizioni dell’età. Aprà ci invita anche a un “riassunto” delle nostre successive esperienze, quin­ di della nostra vita. In breve, nell’ottobre del 1969, fresco di laurea - sono nato nel 1943 -, gonfio di cinema e di politica, fui chiamato al servizio militare e ho su­ bito per 15 mesi l’inutilità della costrizione, allora obbligatoria. In seguito 10 an­ ni di insegnamento e poi fino ad oggi l’attività di libraio antiquario. Un modo, co­ me si suol dire, per unire l’utile al dilettevole. Conservo passione per il cinema, gli antichi testi alchemici e il pensiero orientale. La ragione per cui allora noi amici di Modena finimmo per ritrovarci a Pisa fe­ ce seguito alla meraviglia di aver incontrato i film di Rossellini in qualche cine­ ma d’essai dell’ARCI, allora di moda. Non conoscevamo tutti i film, ma avevamo colto la fisicità, la libertà di pensiero, l’umana compassione, la profonda com­ prensione della fragilità umana che emanavano dal suo cinema. Intrisi di politi­ ca come eravamo, ci parve di poter respirare aria fresca e non perdemmo l’oc­ casione del convegno. Ignari della tecnica cinematografica, dei piani-sequenza, dei movimenti di macchina etc., consideravamo i suoi film come il naturale pro­ sieguo delle letture fatte, come un invito ad approfondire la nostra esperienza di vita oltre gli steccati, allora forti, dell’ideologia e dell’impegno politico.

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Mi ero chiesto allora, e mi spiego meglio oggi, perché Rossellini fu così profondamente affascinato dall’india. Rivedendo i suoi film, mi accade spesso di pensare a Rossellini come a un saggio di antica sapienza, per dote di natura abi­ tuato allo sguardo compassionevole con cui i saggi inseguono lo svolgersi delle passioni e delle disavventure umane. Richiamato a quel tempo, ritorno col il ricordo al cielo stellato bS Stromboli e alla geometrica potenza del potere di Luigi XIV, al mistero corale della proces­ sione in Viaggio in Italia e anche al rispetto di Rossellini per la superstizione ri­ velato quando, una sera, sul lungarno a Pisa, rispose a noi, curiosi di sapere se dietro tanta lucidità si celava l’angoscia del mistero, con l’immagine di un cor­ netto portafortuna che portava sempre con sé. Oggi, mi piace pensare che forse Rossellini sorriderebbe nel vedere quella combriccola di affezionati che, non tutti purtroppo, a distanza di anni si ritro­ vano a ricordare con affetto alcuni giorni di “full immersion” nelle sue opere. Sono grato a quel tempo e a Rossellini che, ancora oggi, ci accompagna come un caro amico che il cinema ci ha regalato. Modena, 26 novembre 2008

Per un cinema etico Goffredo Fofi

Ricordo benissimo il libretto, poco più di un opuscolo, della Samonà & Savelli [a cui erano collegato le edizioni Partisan] sugli incontri rosselliniani organizza­ ti da Gianni Menon in Toscana, e quel misto di simpatia e diffidenza che la sua lettura suscitò in me. Partiamo dalla diffidenza. Non so quanto potrà interessare gli storici del ci­ nema e della cultura italiana dei roventi anni del “movimento”, in genere po­ chissimo attendibili per chi quegli anni ha ’vissuto, ma interessa me, e tanto mi ba­ sta. Capire le contraddizioni del passato e “fare autocritica” è, se non altro, un at­ to di giustizia, qualcosa che al passato dobbiamo, quantomeno a coloro che in quel passato abbiamo avuto vicino o con cui ci siamo scontrati, dall’interno tut­ tavia di opzioni di cambiamento, di rinnovamento e, sì, di “rivoluzione”. La domanda che mi pongo è: perché diffidavamo di Rossellini, in una certa parte della giovane critica che si voleva parte concreta del “movimento” ? Ci so­ no più risposte possibili. Dico le mie impressioni a ritroso, ma cercando di evi­ tare il senno del poi. La prima è senza dubbio politica: Rossellini piaceva a troppi, aveva amici ed estimatori a sinistra, al centro, a destra. Su questa non insisto, anche se la riten­ go una ragione importante. La seconda: non guardava al cinema nelle sue potenzialità artistico-politiche - e per noi allora tutto era o doveva essere politica, tutto “al servizio della rivo­ luzione” -, e anzi aveva rinnegato il cinema per la televisione, di cui considera­ va le enormi potenzialità pedagogiche, in una chiave che andava all’opposto di quella, per esempio, di Pasolini, con la quale, nonostante altre riserve, ci sem­ brava più ovvio concordare. Noi, intendo' l’area di «Ombre Rosse», credevamo nel cinema “della negazione”, che aiutasse a demistificare e distruggere gli ido­ li borghesi, e nel cinema “militante”, che diffondesse messaggi e modelli di ri­ volta alla società borghese. La terza: Rossellini era il maestro riconosciuto delle nouvelles vagues e di quel­ la corrente della critica italiana (per un certo tempo essa si volle anche, appros­ simativamente, creativa) che era cresciuta in «Filmcritica» e si espresse poi in «Cinema & Film»; non li consideravamo dei nemici, ma dei rivali sì, e ce ne era soprattutto estranea la loro religione del cinema, quella sorta di mistica che pro-

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dusse critici interessanti ma poco “socializzabili”, con i quali era possibile in­ contrarsi soltanto nell’amore per certi autori, letti bensì da angolature molto di­ verse, e sul terreno del comune ripudio per il cinema ufficiale (e in particolare per quello, che era stato e sarebbe stato ancora molto a lungo maggioritario e dominante, proposto e difeso dalla sinistra ufficiale, d’area comunista e, in com­ butta con quella, socialista). A queste ragioni ne aggiungo una quarta, più insidiosa e nascosta e la meno giustificabile di tutte: nonostante tutto, la mala lezione di «Cinema Nuovo» ave­ va lasciato in qualcuno di noi - in me senz’altro - delle tracce, nonostante le boc­ cate di libertà respirate altrove, da Kracauer e da certi americani (non solo criti­ ci di cinema, va da sé): Edmund Wilson come Charles Wright Mills come Dwight MacDonald, o sul fronte, diciamo così, di una critica sociologica e an­ tropologica alla francofortese, che ci sembrava per molti aspetti più radicale e aperta, e non solo “dentro il film”, di quella parigina. Di queste tracce ci si libe­ rava con una certa, sarcastica aggressività, ma non fu facile liberarsene, per chi, come me, era cresciuto negli anni Cinquanta (e che nell’area di «Ombre Rosse» era già un vecchio...). E queste tracce implicavano la diffidenza verso Rosselli­ ni, nonostante che, per la mia personale esperienza di spettatore, Germania an­ no zero e soprattutto Europa ’51 fossero stati da subito, visti da ragazzo, un vero e proprio choc emotivo, ed Europa ’51 resti ancora il film italiano del dopoguerra che io preferisco, assieme a 11 grido, Bellissima e Due soldi di speranza (che mi aprì, assieme alla lettura di Carlo Levi, alla curiosità e all’amore per il Sud). Vedo dall’opuscolo menomano che Europa ’51 fu anche il film che più colpì i fortunati ragazzi radunati a discutere su e con Rossellini, tutti dentro il ’68 e le sue esigenze di novità ma, per loro fortuna, non prevenuti, disposti al confron­ to - anche se non del tutto liberi, ma a me sembra più un pregio che un limite, dalle suggestioni politiche “d’epoca” e da quel tipo di spavalderia che riguarda­ va un po’ tutti, nella generazione, nella convinzione di essere i portatori del nuo­ vo, le avanguardie di un mondo migliore, di giustizia sociale. E infatti Europa ’51 il film che considero tuttora il più rivoluzionario di Ros­ sellini, quello che vedeva più avanti e più a fondo, il suo massimo atto di sfidu­ cia nella società e di ricerca e proposta di un altro modo di essere e di agire. L’in­ segnamento di Simone Weil, per esempio, vi è oggi enormemente più palese che al tempo. E se è impressionante vedere quanto profonda fosse in Rossellini e nel­ la sua eroina la comprensione e la non-accettazione delle regole e dei modelli che le nuove società postbelliche, capitaliste o comuniste, semplicemente im­ ponevano, lo è ancora di più constatare come l’esempio di Irene sia altrettanto intollerabile nella società “globale” di oggi. Europa ’51 è il film che i giovani di allora non devono dimenticare ed è il primo tra i film che essi hanno il dovere di far circolare tra i giovani di oggi.

Leggere oggi i verbali, il resoconto di questi incontri, ci dà l’idea di quanto il mondo sia cambiato. In peggio. Ci dà l’idea di anni di eccezionale fiducia nella possibilità di costruire un nuovo mondo, una nuova società. Dentro la quale si credeva che il cinema, liberato dalla pesantezza degli apparati e delle tecniche e soprattutto dalle costrizioni che lo vedevano soltanto come merce, e in quanto forma di intrattenimento uno strumento per l’alienazione di massa e la manipo­ lazione delle coscienze, potesse dare un contributo centrale di conoscenza e di trasformazione, di liberazione. Nulla è più come allora. Ma non è affatto para­ dossale constatare quanto gli insegnamenti centrali di Rossellini, la sua libertà creativa e la sua testardaggine pedagogica , ci sono oggi più vicini che mai. E più utili oggi che allora, a saperli intendere adeguatamente, e cioè riportandoli alle due vie che un tempo separarono i suoi giovani spettatori ribelli, le cui accen­ tuazioni sull’estetico e sul politico oggi sembrano ricongiungersi in un progetto che se è, purtroppo, più difensivo che offensivo, è forse più etico che estetico e più etico che politico. Roma, 3 marzo 2009

La scelta dell’indisciplina Sandra Lischi

Era per me l’ultimo anno di liceo, avevo 18 anni, e in quel mese di maggio 1969 mancava pochissimo agli esami di maturità. Forse per questo non riuscii a parte­ cipare assiduamente al dibattito su Rossellini, a cui invece erano sempre presen­ ti i miei amici più grandi, quelli che già frequentavano l’Università e che mi rac­ contavano nei dettagli, con occhi luminosi, le ore appassionanti di quelle discus­ sioni. Ricordo che però un pomeriggio ce la feci ad andare aU’allora Istituto (oggi Dipartimento) di Storia dell’Arte dell’Università, dove si svolgevano le proiezio­ ni e parte del dibattito, nella grande aula a piano terra con le finestre sul chiostro verdeggiante del Museo di San Matteo. Mi restò impressa la concentrazione di tutti, l’ansia di parlare e partecipare, la passione, e mi sentii orgogliosa (allora, ma anche poco tempo dopo, quando uscì il libro) per l’acume critico e la tensione poetica e politica dei miei amici. Fra questi c’erano Andrea Duè, che allora era il mio ragazzo, Paolo Benvenuti, Faliero Rosati. Con loro e con altri, già nell’estate 1968, avevo partecipato alle proiezioni della “Rassegna del Cinema Libero” a Tirrenia (Alfredo Leonardi, Roberto Faenza, ma anche i fratelli Taviani) e avevamo condiviso giornate accese e turbolente di discussioni e contestazioni. E poi c’era la nostra “aula di cinema”, che era rappresentata dalla sala del Mignon, sul Lun­ garno (dove in quei giorni si svolse l’incontro con Rossellini dopo la proiezione di Europa ’51), e da qualche sala parrocchiale col suo cinefonim. Quel pomeriggio, il passaggio attento in quell’aula è stato uno dei momenti decisivi per le mie scelte successive: non volevo perdere la passione che vi avevo respirato, volevo continuare a capire il cinema con quella tensione vitale e con quella capacità di scavo (nel film e in se stessi, allo stesso tempo), con quello sguardo morale e politico, limpido e visionario. Poco dopo mi sarei iscritta all’Università e posso dire che da quell’aula non sono più uscita. Dopo l’estate entrai a far parte del gruppo del “Cinema Zero”, con Paolo Ben­ venuti, Sergio ed Eleonora Martelli, Faliero Rosati e altri (aveva la sua sede nei locali dell’ARCI di Pisa). Con Rosati e la sua ragazza, Maria Grazia Bruzzone (det­ ta Zaza), e con Andrea Duè passammo un’intera estate a esercitarci con una vec­ chia Bolex (non ricordo se era proprio quella di mio nonno, cineamatore, o se ac­ quistata da poco da Faliero), tenendo sempre a portata di mano un pesante ma­ nuale di istruzioni. Anche Mario Benvenuti, bravissimo cineoperatore e padre di

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Paolo, collaborava alla nostra istruzione tecnica (ma resistevamo un po’ alla sua impostazione classica). Poco dopo da quel gruppo nacque il “Collettivo Speri­ mentazione Audiovisivi”, che rispetto al “Cinema Zero” si proponeva un’atten­ zione maggiore ai nuovi linguaggi e alle “nuove tecnologie”. Il Collettivo si riu­ niva qua e là, ne faceva parte anche Franco Ferrini, e producemmo vari testi di teoria e di analisi, varie traduzioni complicate da «Communications» e molte, moltissime discussioni. Quel dibattito su Rossellini non solo mi aveva definitivamente convinta a se­ guire studi di cinema ma aveva anche aperto la strada, nella nostra città e per me, a una lunga serie di occasioni formative insieme rigorose ed “eretiche”. Ri­ cordo i cicli di film organizzati, da lì in poi, da Gianni Menon al cinema Mignon; ma anche una splendida retrospettiva Dreyer curata da Aprà (con cui trascor­ revo intere mattinate alla moviola dell’istituto di Storia dell’Arte analizzando in quadratura per inquadratura il film visto la sera prima in proiezione); e poi le rassegne underground (fra cui quella dedicata, nella saletta dell’ARCI, a Piero Bargellini), quelle del cinema fatto dai bambini con Marcello Piccardo, Teresa Mattei e i film di Monte Olimpino; e i tanti incontri con Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. Fino al gruppo “Fotogramma Fucsia” (Anita Piemonti, Paola Lu­ carelli, Maria Meucci, oltre a me), che organizzava cicli di film di donne registe all’ARCI; e infine alla gloriosa sala del cineclub “Arsenale”, che divenne ed è an­ cora un punto di riferimento imprescindibile. E l’Università? L’Università di Pisa era stata la prima, nell’Italia del dopo­ guerra, a creare una cattedra di cinema (con Luigi Chiarini); quando mi iscrissi io, nell’autunno 1969, a pochi mesi da quel dibattito, l’insegnamento era tenu­ to da Raffaele Monti, finissimo critico e storico dell’arte: «Siete troppi - ci disse il primo giorno di lezione in quella famosa aula —. Dobbiamo dividerci e lavora­ re per gruppi. Chi di voi è disposto a coordinare?». Naturalmente ad alzare la mano velocissimi fummo noi (Faliero, Zaza, Andrea, io, e qualche altro). Si an­ dava in giro a riprendere la città con la Bolex, provando il piano-sequenza, le ri­ prese alla Vertov (anche stesi sui binari della stazione), realizzando qualche cor­ to muto (le bobine forse ci sono ancora, da qualche parte). Eugenio Luporini, docente di Storia dell’Arte medioevale e moderna, formava intanto, pionieristi­ camente, gruppi di studio sulla televisione. Mi laureai nel 1973 con lui, sulle pri­ me esperienze video, e posso dire che la mia formazione cinematografica è stata accademicamente un po’ anomala, complici anche le turbolenze sessantottine: studi per lo più storico-artistici; i gruppi di studio di cui sopra; autoformazione in vivacissimi festival e rassegne; autoapprendimento pratico. All’approccio cui Menon e Aprà ci avevano iniziato con le giornate rosselliniane si erano affianca­ ti, per il nostro piccolo gruppo, anche studi di semiotica audiovisiva e linguisti­ ca alla Scuola estiva di Urbino; mettevamo costantemente a confronto metodi di­ versi, non sempre contrastanti (basti pensare alla pacifica e feconda convivenza

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di studi semiotici e di critica appassionata e viscerale nella rivista «Cinema & Film», nostra compagna di viaggio in quegli anni). Mi colpisce, nel rileggere oggi le pagine di quel dibattito, che si sia trovato il tempo e l’attenzione (24 ore di analisi e discussioni!) per un esame così ap­ profondito, film per film, persona per persona; l’importanza di un approccio che rifugge sia dai contenutismi e ideologismi di una vecchia critica che dalle metodologie di sezionamento minuzioso del “testo”. Serpeggia nelle discussio­ ni il sentimento di una critica personale e insieme politica, in cui il “critico” si espone, si mette allo scoperto, azzarda ma con lo sguardo ben attento, dichia­ rando la parzialità del proprio approccio e rifiutando, quindi, strumenti “aset­ tici” e “oggettivi” di analisi. Un critico il più delle volte “amateur”, nel senso al­ to e appassionato cui alludeva Stan Brakhage quando, proprio in quegli anni, difendeva il cineamatore. Da qui la critica cui i “rosselliniani” di quei giorni furono sottoposti da due as­ sistenti universitari di cinema, non identificati nel volume, i quali volevano ri­ portare la discussione a un impossibile ordine, a categorie e schemi critici con­ solidati, disciplinati, rassicuranti. «Noi stiamo parlando del cinema di un matto con l’atteggiamento di matti», risponde loro, polemicamente, Aprà. Da quell’aula, dicevo, non sono più uscita. Dopo gli studi universitari ci sono rimasta come borsista, poi ricercatrice, oggi professore associato. Il mio primo, vero corso di cinema dopo tanti piccoli seminari l’ho dedicato, in quella stessa aula, a Rossellini; nei primi anni Novanta Gil Rossellini è venuto in quell’aula a mostrarci le lezioni americane e Le Centre Georges Pompidou, l’ultimo film del padre, un documentario di mediometraggio; in anni più recenti Aprà ha mo­ strato a Pisa il suo bel film-saggio Rossellini visto da Rossellini (1992). E ricordo il garofano rosso che Paolo Benvenuti mi regalò, tornato dai funerali di Rossel­ lini: l’ho conservato a lungo. E naturalmente serbo il ricordo affettuoso di quel­ li che non ci sono più: Marco Melani, Gianni Menon, Enzo Ungari, con cui do­ po quel dibattito si strinsero legami di dialogo o complicità, di festival in festival, di rassegna in rassegna. «Nei film di Rossellini - dice in questo dibattito Enzo Ungari - vi sono dei per­ sonaggi che segnano l’inizio di qualcosa, qualcosa di diverso e di “oltre”...». Be­ ne, non so se sia per quelle lontane giornate, ma credo di aver sempre tentato di seguire e studiare il cinema in questi inizi e in questo “oltre”; cercandone (anche nel video) le “indiscipline”. Che del resto mi stanno simpatiche anche nella vita. Pisa, 15 febbraio 2009

Di quale Rossellini parliamo? Michele Guerra

A parlarmi del Dibattito su Rossellini è stato per primo e in più riprese Paolo Benvenuti. Raccontando di sé, dell’inizio della sua carriera, o meglio della defi­ nitiva intuizione di una strada da prendere, Benvenuti torna sempre a quei gior­ ni pisani, in cui aprì gli occhi su un cinema sconosciuto e frainteso e comprese quale atteggiamento avrebbe dovuto caratterizzare il suo lavoro di cineasta. Chi ha occasione di vedere Benvenuti al lavoro con gli allievi della scuola di cinema in cui insegna coglie una reciprocità, una pariteticità di rapporti appresi tanti anni prima in un dibattito di poche giornate e qualche anno dopo sul set de L'età di Cosimo de’Medici come assistente volontario. L’atteggiamento maieutico benvenutiano - affinato negli anni anche grazie alla frequentazione di Danilo Dolci - è di marca rosselliniana e la sua bontà era balenata agli occhi del giovane pit­ tore del 1969 proprio durante il dibattito su Rossellini. La fortuna ha voluto che un giorno io trovassi su uno scaffale di una libreria che tratta libri vecchi nella mia città il piccolo volume che già andavo mitizzan­ do e in poche ore lo leggessi restando come interdetto. Vi ritrovavo perfetta­ mente quello che mi aveva detto Paolo — una democraticità interpretativa fi­ nanche sconcertante, una libertà culturale quasi anarchica, che sfondava argini che nessuno, tra i partecipanti, pareva comunque interessato a fissare -, ma mi interrogavo sul valore effettivo di quella testimonianza all’interno di quello che oggi è a livello internazionale il dibattito su Rossellini. E evidente che chi è nato dieci anni dopo la pubblicazione di questo libro e ha studiato cinema all’università all’interno di curricula accademici assai consoli­ dati sia dal punto di vista storico che teorico debba restare interdetto di fronte a questa trascrizione, oppure significa che la sua educazione cinematografica non è stata perfettamente formata dall’accademia. Che questo sia un bene o un male non è una questione che ci riguarda ora, tanto più quarantanni dopo que­ gli anni caldissimi in cui un gruppo di «carbonari» - come li ha chiamati Aprà che di quella carboneria è stato uno dei capi1 - si è riunito per parlare di Rossel­ lini e ha finito per capire che Rossellini vuole dire una serie di questioni inim­ maginabili e non tutte esplicitabili. Bisogna considerare alcune cose che per quelli della mia generazione sono per lo meno difficili da pensare. La prima di esse riguarda le possibilità di fruizione

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dei film. Gianni Menon nella sua introduzione sottolinea molto opportunamen­ te che in occasione del seminario rosselliniano «i film furono “visti”». Ora, an­ che oggi vedere un film non significa automaticamente averlo “visto”, ma nel 1969 poteva accadere che film anche notissimi, di cui si era letto in abbondanza e di cui magari si era anche parlato per non dire scritto, non si fossero mai potuti vedere. Per la gran parte dei giovani partecipanti al seminario fu quella la prima occasione per vedere i film di Rossellini - di cui, come dicevo, un Benvenuti ave­ va un’idea del tutto scorretta - e lo stesso Menon racconta le sue fatiche per po­ ter accedere alla filmografia del regista e fruirne. La copia in pellicola del film di­ ventava in sé un qualcosa di unico, cui si legava una condizione di visione non sempre ottimale - Roma città aperta che “salta” in continuazione, eppure pro­ prio questa frammentarietà involontaria dà spazio a riflessioni interessanti e unica diventava pure la visione, unica e indimenticabile, mitica come si evince dalle reazioni degli spettatori sui quali per forza grava l’influenza di un determi­ nato contesto. Queste primissime considerazioni mi hanno fatto pensare che le mutate - e per fortuna incommensurabilmente migliorate - condizioni di frui­ zione del film siano già di per sé una causa dell’impossibilità di assistere a un di­ battito di questo tipo oggi. Il fatto che l’home video permetta una visione priva­ ta, reiterata, psicologicamente imprecisa ma filologicamente precisissima - al­ meno per un buon numero di film - comporta un processo analitico individuale che solo in pochi casi trova modo di esser messo a confronto coi processi altrui. In seconda battuta, va detto che a noi oggi è consegnato un Rossellini “mor­ to”, e sottolineo questo suo attributo proprio pensando a quanto il vitalismo ros­ selliniano ha interessato i giovani convenuti a Pisa. Il Rossellini che si studia og­ gi è passato per le maglie della storiografia del cinema e per quelle della teoria del film e, per quanto rimanga a tutt’oggi l’oggetto più scivoloso nella storia del ci­ nema italiano, è pur sempre il “padre Adamo” dalla cui costola - in maniera non proprio consensuale - è venuto tutto il cinema italiano dal dopoguerra in su. Si badi che è giusto avere “incasellato” Rossellini, occorre un punto d’appoggio più o meno convenuto per poter rilan ciare lo studio di un artista, soprattutto se si vuole dare una base a una disciplina: tutti sappiamo, poi, che c’è sempre, in qualunque settore, una vulgata da rimettere costantemente in gioco e talora da contestare con veemenza. Ma in quel 1969 Rossellini era “vivo” - posso solo im­ maginare l’emozione che provarono i ragazzi al vederlo in carne ed ossa al cine­ ma Mignon - e soprattutto non era un autore su cui sbilanciarsi con sicurezza: in Italia non era affatto compreso, era una sorta di rinnegato che aveva perso l’ani­ ma - o non l’aveva mai avuta - e l’anima per la critica più influente dal 1952 era l’ideologia. Ci si sbilanciava invece in Francia, dove alcuni giovani - non così giovani come quelli di Pisa - avevano deciso di guardare il cinema diversamen­ te: i «Cahiers du Cinéma» vengono più volte richiamati nel seminario e la loro at­ tenta lettura è testimoniata anche dai rapporti che si istituiscono tra Rossellini e

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alcuni altri degli auteurs rilanciati dai francesi. Ecco, le analisi che emergono nel­ le pagine del dibattito assomigliano molto ai raids - come li chiamava Christian Metz - dei redattori dei «Cahiers»: liberi, personali, insofferenti e nella maggior parte dei casi del tutto procedenti da quello che parafrasando Barthes potrem­ mo dire «le plaisir du film», cioè la gioia che dà infine lo schermo, felicità dei «bambini lasciati liberi», come scrisse senza vergogna Menon. C’è - ed è ricercata - un’asistematicità critica che sfiora la disorganizzazione, per cui gli interventi di Aprà e Menon devono allungarsi più degli altri per ov­ viare alle conseguenze più estreme di una tale scelta. Del resto ci si pronuncia apertamente contro la terminologia, contro l’insegnamento e la metodologia, per quanto uno dei due moderatori - Adriano Aprà - dirigesse al tempo una ri­ vista tutt’altro che aterminologica o ametodologica: è chiaro che questo intento, questo programma, è pensato per facilitare gli interventi di persone che non so­ no tenute a possedere tali requisiti, ma è altresì vero che questa appare una scel­ ta essenzialmente oppositiva rispetto a un’inerzia critica che andava combattu­ ta anche con un pizzico di disfattismo. Non posso non immedesimarmi nel giovane universitario che prende la pa­ rola per difendere i suoi studi e reclama un approccio testuale che non può che essere fuori luogo in quel particolare simposio, esattamente come fuori luogo sarebbero molti degli interventi qui trascritti in un convegno accademico - che è appunto un convegno e quasi mai un dibattito. Tuttavia non possiamo non re­ gistrare quanto, poco prima della fine del seminario, osserva Aprà: «Se vuoi sia­ mo in cerca di una metodologia e il rischio, va detto, è che forse non abbiamo vo­ glia di trovarla». Voglia, appunto. Quel che mi appare rivoluzionario alla lettu­ ra - e che in parte mi sembra perso - è questa forma edonistica di visione, molto francese, che va a caccia spudoratamente di una jouissance contro Vengagement più retrivo e censorio; è in questa direzione che si spiegano quelle metafore pe­ ricolose - al di là dei rimandi “geometrici” che suggeriscono - che tirano in cau­ sa l’erezione, l’eiaculazione, il coito. Certo, in più punti qualunque studioso di cinema cresciuto nell’ultimo quin­ dicennio ravviserà le carenze che nell’ottica dei moderatori dovevano garantire il giusto grado di libertà e spregiudicatezza al dibattito, ma è anche vero che la mole pazzesca di suggestioni che rimangono alla fine della lettura sarebbe forse stata contenuta da un eccesso di ortodossia; e il risultato più importante - e cla­ moroso - riguarda la complessità di una figura indigesta come quella di Rober­ to Rossellini data in pasto a un gruppo di giovani intellettuali assai ideologizza­ ti nell’Italia del 1969 - e che da essi giung a la condanna per una fetta importan­ te di critica cinematografica nazionale è un fatto più che notevole. Quale Rossellini prende forma durante la discussione? Un Rossellini simboli­ sta e sacrale (Forti), magico (Zanichelli), sentimentale e individualista (Gentile), di spiccata religiosità (Duè), di apparente sciatteria e normalità (Benvenuti), un­

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derground, nel senso più libertario e democratico del termine (Melani), comico (Ferrini), mai neorealista (Ungari), fantastico e perfino fantascientifico (Rosati e poi più precisamente Aprà, cui molti si accodano2), di un erotismo libero (Aprà), demoniaco (Velati), marxista (Zanichelli), cattolico (Beretta), terroristico (Aprà, con una provocazione che sortisce, mi pare, l’effetto desiderato), pop (Melani). Può un uomo essere tutte queste cose, alcune delle quali oltretutto in stridente contraddizione? La domanda dovrebbe essere posta in modo differente: posso­ no i film di un unico regista portare gli spettatori a ritenerlo tutte queste cose? Già si capisce meglio cosa intendeva Menon quando notava che un tale dibattito non avrebbe funzionato con nessun regista italiano che non fosse Rossellini. Se ho voluto richiamare tutti i giudizi che sono stati di volta in volta proposti è per dare proprio l’idea della “bella confusione” del seminario. E potrei poi elencare alcuni dei nomi di intellettuali, artisti e pensatori che vengono man ma­ no accostati a Rossellini: Vittorini, Pavese, Godard, Thomas Mann, Ibsen, Ejzenstejn, Brakhage, Kubrick, Celine, Pound, Wagner, Nietzsche, Rimbaud, Marx, Socrate, Murnau, Hitchcock, Hawks. Troppa carne al fuoco, naturalmente. La prudenza che oggi ci viene suggeri­ ta da una tradizione di studi che ha galoppato veloce come il proprio oggetto, i partecipanti al seminario non la posseggono: un po’ perché in gran parte la tra­ dizione di studi, soprattutto per quel che concerne il cinema italiano e la sua gra­ duale riscoperta, era di là da venire - anche se non di molti anni -, un po’ perché di veri studenti di cinema a Pisa non ce n’erano molti, un po’ perché in quegli an­ ni in Italia tenevano ancora banco figure di teorici che oggi vanno conosciuti, ma che si ritrovano assai di rado coinvolti nei nuovi dibattiti che non siano ri­ considerazioni storiche. Aprà, con un piglio fin troppo severo ed evidentemen­ te necessario e funzionale a quel clima, li definisce «cadaveri» - Chiarini, Bar­ baro, Aristarco -, nel senso viscontiano: i cadaveri al cimitero. Dunque, per riuscire a ottenere un risultato come quello che si auspicavano gli organizzatori del dibattito su Rossellini bisognava abbandonare la boria da cineforum, il sussiego da tavola rotonda, ma anche avere il coraggio del rifiuto integrale degli studi sul film - e per quanto sia palese che «Cinema & Film» rappresenti il punto di riferimento su suolo nazionale per i più brillanti di que­ sti giovani, va detto che anche le proposte di quella rivista vengono lasciate da parte. Si direbbe che a Pisa ci si è comportati esattamente come avrebbe volu­ to Rossellini, ci si è accostati ai suoi film come forse ci si accostava lui, lui che nello stesso anno della pubblicazione di questo dibattito, in una breve premes­ sa alla stampa in un unico volume delle sceneggiature desunte di Roma città aperta, Paisà e Germania anno zero, sosteneva che fosse di fondamentale im­ portanza in un film come in qualunque altra indagine «partire dal fenomeno ed esplorarlo e far scaturire da questo liberamente tutte quante le conseguen­ ze, anche politiche»3.

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Tutte le conseguenze - anche politiche - vengono fuori dal seminario pisano ed essendo tutte è inevitabile che qualcuna vada accantonata, ma se si scorre an­ cora la lista di giudizi dati di Rossellini viene la voglia di mettercisi sistematicamente e di riannodare fili che vennero lasciati sciolti. E tuttavia chi ha una mini­ ma dimestichezza con la letteratura rosselliniana troverà qui intuizioni che poi hanno avuto notevole fortuna critica: penso ai rapporti con la commedia del­ l’arte già in Roma città aperta, alla interpretazione “siderale” di Germania anno zero, Stromboli, Viaggio in Italia — col che le trilogie di comodo vacillano -, agli aspetti rivoluzionari di uno dei film meno capiti come Europa ’51 o alla rivalu­ tazione di un film quasi non più ricordato come Vanina Vanini. Si consideri il fatto che, a parte l’interessamento vario delle riviste, al momento del dibattito esistevano soltanto due studi monografici su Rossellini: il libricino di Massimo Mida nella Piccola Biblioteca di Cinema di Guanda - la cui prima edizione è del 1953 e in cui si sostiene una grave involuzione stilistico-tematica a partire da Stromboli — e il Roberto Rossellini di Mario Verdone nelle Editions Seghers del 1963; e nel seminario, naturalmente, non se ne dà conto. Senza bisogno di essere laudator temporis acti, posso dire che il rimpianto maggiore che lascia questo dibattito su Rossellini riguarda la fine di un altro di­ battito, meno amichevole e conviviale, quale quello che derivava dalle diverse linee culturali delle riviste, riviste che non erano lette solamente dagli addetti ai lavori, ma avevano una penetrazione molto più capillare. Un dibattito veramente antagonistico e non semplicemente agonistico, che era in grado, pur nella con­ trapposizione - «Cinema Nuovo» e «Cinema & Film» sono nomi che rimanda­ no a un ben più complesso panorama culturale, fatto di altri soggetti non nomi­ nati nel dibattito, ma avvertibili -, di dare un senso positivamente politico a cer­ te domande. E non so dire se oggi manca di più la politica o l’autore, l’una e l’altro slegati da un imprendibile Zeitgeist. Credo di capire però che questo misterioso Rossellini, questo strano alchimi­ sta4 alla cui bellezza bisogna addestrarsi con pazienza, non si comprenda meglio alla fine del dibattito, oppure se ne comprenda giusto la forza debordante - il che è già qualcosa. Posso immaginare che ripartendo da Pisa le idee fossero con­ fuse e solo qualcuno ha avuto poi il tempo di farle decantare e renderle produt­ tive. Nel secondo numero di «Cinema & Film» - uscito nella primavera del 1967 e dunque due anni prima del dibattito - si trova un focus su Rossellini. Maurizio Ponzi vi scrive che il parlare di Rossellini in quel momento deriva da «un biso­ gno, forse ingenuo da confessare, di ridefinire il cinema, dal bisogno di sottoli­ neare, scegliere, rifiutare»5. Questo bisogno, rintracciabile anche nel seminario di Pisa, viene però subito dopo le Premesse sintagmatiche ad un’analisi di “Viag­ gio in Italia” e in un numero il cui editoriale sostiene la volontà di proporre «un avvio metodologico allo studio del cinema», pur giocando, poco oltre, a con­ traddirsi: «Bisogna imparare a leggere, per poi, casomai, dimenticare alfabeto,

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grammatica, sintassi.» Questi sono i fermenti di una vicenda culturale che la mia generazione può solo studiare e ricostruire criticamente. Tra le tante cose che hanno da dire quarantanni dopo quelle giornate, c’è anche quel senso di in­ compiutezza: che sia il risultato cui si ambiva? Parma, 22 dicembre 2008

Note 1. A. Aprà, In viaggio con Rossellini, Falsopiano, Alessandria 2006, p. 99. 2. Tag Gallagher, nella sua monumentale biografìa rosselliniana, dà spazio a questa lettu­ ra emersa proprio dal seminario pisano, e mi pare che sia uno degli studiosi che più volentie­ ri rimanda al Dibattito su Rossellini. Cfr. T. Gallagher, The Adventures ofRoberto Rossellini. His Life and Films, Da Capo Press, New York 1998, pp. 248-249. 3. R. Rossellini, Idintelligenza del presente, in Id., La trilogia della guerra, a cura di Stefano Roncoroni, Cappelli, Bologna 1972, p. 13, ora anche in R. Rossellini, Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di A. Aprà, Marsilio, Venezia 1987, p. 403. E nel suo intervento al dibattito Rossellini sottolinea come la sua idea di film «didascalico, o didattico» consista in null’altro che «far presenti i vari lati del problema». 4. Un’immagine, questa, che mi viene ispirata dalle parole rapite di Piero Bargellini nella sua incursione al seminario: «[Rossellini] toglie il tempo cinematografico, muta il ritmo cine­ matografico per trasformare il rapporto con lo spettatore in uno scambio che avviene sul sin­ cronismo perfetto fra le onde emesse dal cuore dello spettatore e le onde emesse dalla mate­ ria cosmica di cui è [fatto] il film.» 5. M. Ponzi, Due o tre cose su Roberto Rossellini, «Cinema & Film», n. 2, primavera 1967, p.209.