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Italian Pages 132 Year 1995
Renzo e Vittorio Foa
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Interventi / 18
Renzo e Vittorio Foa
DEL DISORDINE E DELLA LIBERTÀ Padre e figlio tra incertezze e speranze
XK DONZELLI EDITORE
© 1995 Donzelli editore, Roma ISBN 88-7989-137-5
DEL DISORDINE E DELLA LIBERTÀ
Indice
4°)
. 1994
(N
No)
. Politica e giornalismo . La memoria e il quadrante dell’orologio . Rassegnarsi all’insicurezza? . Il nostro 1989: l’occasione smarrita (Chi(Sal
. La sinistra che non ha voluto governare
77
. Sinistra, libertà
89
. Alla ricerca della destra
103
. Il centro ritrovato
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E poi?
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https://archive.org/details/deldisordineedel0000foar
Del disordine e della libertà
Questo testo è stato licenziato per la tipografia il 2 gennaio 1995.
ur
DEL' DISORDINE: E DELLA LIBERTÀ
1. 1994
Vittorio Perché hai proposto un dialogo fra noi due?
Renzo Non vedi la confusione che c’è? E non vedi come tutto è cambiato e come continua a cambiare sempre più in fretta? È come se si fosse seduti davanti all’Italia e al mondo a fare zapping. Vittorio Zapping?
Renzo A giocare con il telecomando, saltando da un'immagine all'altra, ma sapendo che non ti puoi distrarre un istante, perché non riconosceresti più quello che hai lasciato un minuto prima. E poi mi interessa discuterne con te — ci conosciamo da quasi cinquant’anni — e cercare insieme qualche spiegazione. Hai una lunga vita politica e ne hai viste tante. Ma, soprattutto, abbiamo discusso molto in questo periodo e spesso abbiamo avuto opinioni diverse. Mi interessa vedere più da vicino la profondità del nostro dissenso. Vittorio I nostri dissensi più profondi vanno al di là della di-
versità di giudizio su quello che è stato il Pds o sul percorso accidentato che abbiamo vissuto nell’ultimo triennio. Sono convinto che il dissenso di fondo stia in un’idea diversa che tu hai sempre avuto della politica. Tra l’altro sei nato in una famiglia in cui c'erano anche forti ascendenze nella politica...
Renzo Lasciamo stare le ascendenze, il resto della famiglia. Di te hai parlato in un libro e quindi mi stai chiedendo di racconta9
Renzo e Vittorio Foa
re come ti ho visto e ti vedo diverso da me. Ho una risposta abbastanza semplice: sei sempre stato impegnato nella politica, tutto il tuo tempo di vita è stato dedicato alla politica e, ad essere più precisi, ad una politica tutta interna alle sue sedi preposte. Vittorio
Cosa vuoi dire con «sedi preposte»?
Renzo Voglio dire che dagli anni dell’attività cospirativa contro il fascismo a quelli del carcere, alla Resistenza, al Partito d’Azione, al Partito socialista, al sindacato hai sempre agito all’interno
dell’ufficialità. Di recente Indro Montanelli, all'incirca tuo coetaneo, ti ha definito «un eretico». Forse parlava di te per parlare anche di sé. Io credo che la tua eresia in ogni modoè stata tutta interna all’ufficialità della politica, alla sua ritualità, alle sue leggi e al suo linguaggio. Intendo dire la politica un po’ come momento separato dalla vita quotidiana, con tempi diversi, gironi di gusti e di consumi staccati da quelli delle persone comuni. Vittorio Ci ho pensato molto su. Renzo Tu appartieni alla prima classe dirigente della Repubblicitesne Mai istrattiscallegivio Brava ae dirigente certamente migliore di quelle successive, di quelle che abbiamo co-
nosciuto in questi anni. Per tante ragioni: intanto perché era stata selezionata attraverso lotte e ue
e, tra l’altro, una
parte importante di essa era caduta sui campi di battaglia. Poi perché eravate tutti più presi dal senso dello Stato che dal tornaconto personale. Però eravate molto diversi dalla gente comune nonostante che foste quasi tutti onesti, che andaste in giro normalmente, senza essere carichi di scorte, senza ostentare ricchezze e poteri. O — mi viene il dubbio— fonderasteni ni si proprio per questo. Ti sto mescolando agli altri e magari ti dà fastidio. Vittorio Non mi dà affatto fastidio.
Renzo Quando penso alla politica in senso stretto, mi viene in mente quella specie di tana di una classe dirigente che era il pa10
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lazzo dei deputati proprio all’inizio della via Cristoforo Colombo, dove abbiamo abitato per più di dieci anni. Pensa che quei politici, per aver casa, misero su all’inizio degli anni cinquanta una cooperativa, con appartamenti neanche giganteschi, un soggiorno, uno studio e tre camere. Un edificio direi modesto nel suo aspetto, nonostante che fosse molto grande: gli dava un tono dimesso la facciata ricoperta da un triste mosaico verdino, che spesso perdeva pezzi per colpa del traffico. Nella nostra scala, la D, c'erano il capo della Resistenza Ferruccio Parri, il segretario del Psi Pietro Nenni, il segretario del
Pri Ugo La Malfa, all’ultimo piano Walter Audisio, il capo partigiano che fucilò Mussolini, e accanto a lui Oreste Lizzadri, uno dei fondatori della Cgil. Vi aveva abitato, per poco tempo, perché poi era morto, anche Concetto Marchesi. C’era
Sandro Pertini, che diventò presidente della Repubblica. La personalità più importante era allora Giovanni Leone: quando fu eletto presidente del Consiglio misero un poliziotto fisso in portineria, prima non c’era sorveglianza. Anche la scala A era ben abitata. C’era Luigi Longo, allora vicesegretario del Pci, c’era Giuseppe Di Vittorio, segretario della Cgil, c’era Antonio Giolitti e se non sbaglio abitava lì anche il ministro democristiano Mattarella. Nelle altre scale c'erano altri personaggi come Giorgio Amendola e come il segretario della Cisl Giulio Pastore. Certamente dimentico un sacco di gente. Qualche anno fa ho incontrato Anna Giolitti e abbiamo rievocato quel
periodo di via Cristoforo Colombo. Ci era anche venuto in mente di scrivere un libro, avevamo pensato al titolo — Padri nostri, padri della patria — ma poi, giustamente, avevamo la-
sciato perdere. Quello che voglio dire è che allora la politica aveva nel suo insieme un aspetto migliore. Certamente quella classe dirigente è stata la più capace nell’Italia di questo secolo. Però forse nel suo modo di fare c’erano già i germi di quella separazione di cui abbiamo vissuto di recente le peggiori degenerazioni. O meglio, quel gruppo dirigente non creò gli anticorpi per bloccare quelle degenerazioni. Io non so bene come fossero i nostri vicini nella loro vita quotidiana. Forse anche per loro c’era solo la politica. Però ho il ricordo netto di come in te si rifletteva questa separazione. 11
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Vittorio
Come?
Renzo Un episodio preciso fu il tuo rifiuto categorico di avere in casa la televisione, che cominciava ad essere uno strumento di consumo di massa. Anna, mia sorella, ricorda che l’unico schiaffo che le hai dato nella sua infanzia è stato una volta che ha acceso la radio a tutto volume. Dunque il tuo anti-modernismo si estendeva perfino alla radio.
Vittorio Sii più esplicito nel tuo tentativo di parricidio. Renzo Che dici? Di quale parricidio stai parlando? Sei tu, piuttosto, il conte Ugolino. Vittorio Ma per te cos'era la politica? Renzo Non si parla di se stessi prima di aver compiuto i settant’anni. Vittorio Ma se mi critichi avrò ben diritto di chiedertelo.
Renzo È difficile parlare di canali o di strumenti diversi della politica. In fondo non è che li ho trovati. Semplicemente ho provato afar politica attraverso il giornalismo. Ho sempre pensato che la politica possa solo migliorarei suoi effetti se cessa di essere una cosa a sé e se invece entra nella pratica della vita della gente. Pensa al fastidio della politica che si autocelebra, pensa alle liturgie che ci hanno offerto nei decenni scorsi i grandi partiti o, peggio, pensa ai danni provocati da una politica che ha come fine solo quello del potere: Tangentopoli ne è l’esempio. Non mi è mai piaciuta quella politica che tu ai miei occhi hai rappresentato per tanti anni. Ma non mi pare il caso di aggiungere altro. Vittorio Avevi cominciato parlando della confusione e della rapidità... Renzo Non è una novità, succede da diversi anni, ma adesso tutto è sempre più veloce. Avevamo dimenticato la guerra in 12
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Europa e ce la siamo trovata sull’altra sponda dell'Adriatico e nella forma peggiore, con l’assedio delle città e il ritorno del-
l’idea che l’Altro, quello con la «a» maiuscola, ti è nemico.
Avevamo appena imparato ad apprezzare Gorbaciov e a sperare nella sua riforma che ci siamo trovati davanti la fine dell’Urss e Boris Eltsin. George Bush era stato appena proclamato il vincitore del lungo duello Est-Ovest, e uno sconosciuto governatore dell'Arkansas, Bill Clinton, è riuscito a prendere il suo posto. Quest'ultimoè già riuscito anche a perdere. In Italia, ancora tre anni fa 0 poco più, Craxi, Andreotti e Forlani di-
scutevano fra loro su come dividersi il Quirinale e Palazzo Chigi. Quando il giudice Di Pietro fece arrestare Mario Chiesa sembrava una qualsiasi storia di malaffare, la storia di un «ma-
riuolo», e invece via via sono spariti uomini e simboli della storia politica italiana. Allora ti saresti messo a ridere al solo pensiero che Silvio Berlusconi potesse scendere in politica e diventare presidente del Consiglio. E poi c’è perfino un’accelerazione del cambiamento. Sono già svaniti alcuni di coloro che con maggiore lucidità avevano aggredito il vecchio sistema politico: pensa a Mario Segni, pensa alle cadute e alle resurrezioni di Umberto Bossi, pensa ad Achille Occhetto. Forze politiche,
leaders, schieramenti appaiono, crescono, salgono e scendono, si compongono e si scompongono nel giro di pochi mesi. Abbiamo visto la Lega affermarsi, diventare forza trainante e poi perdere subito consensi e smalto. C’era un partito emarginato da sempre, il Msi, e da una settimana all’altra è diventato ri-
spettabile e votabile. Per mesi il Pds era apparso come l’asso pigliatutto, aveva aggregato l’alleanza progressista, l'aveva presentata come protagonista dell’avvio della seconda Repubblica. Nel giro di poche settimane da padrone del campo si è ritrovato in panchina, e poi, in pochi mesi, è riuscito a ritrovare un ruolo. Lo stesso Berlusconi si era presentato come uomo sperimentato e determinato e aveva sfondato nell’opinione pubblica per queste virtù. Poco dopo ha cominciato a traballare, a essere
incerto su tutto, come non era mai successo a nessun presidente del Consiglio. E si è giunti a chiedersi se addirittura non sia un ostacolo allo sviluppo della nuova destra. Stiamo parlando soltanto della politica e delle sue grandi tendenze; poi c’è tutto 13
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il resto, quello che vediamo cambiare — ed è tanto — ma anche
tutto ciò che cambia e di cui non ci accorgiamo. Con te voglio
discutere di questo, della svolta del 1994, della sconfitta subita dalla nostra sinistra e dal fatto nuovo della storia italiana, la nascita di una destra. Vittorio È vero, stiamo vivendo una rottura di cui non riuscia-
mo a misurare la qualità e l'ampiezza. E anche adesso, come in ogni fase di rottura, emerge con forza la percezione della continuità. Ripenso al 1945: stavamo costruendo la democrazia al posto del vecchio fascismo e ci sembrava che tutto 0 quasi tutto continuasse come prima: l’epurazione dei responsabili era fallita, la vecchia burocrazia imperversava, i tribunali davano sem-
pre ragione ai fascisti, i grandi capitalisti, quelli che Ernesto Rossi chiamava i «padroni del vapore» erano tornati tutti al loro posto. Era lo Stato centralizzato, lo storico Stato sabaudo. Gli stessi partiti di massa, la novità del dopo-fascismo, erano
visibili veicoli di centralismo. Poi naturalmente il nuovo è venuto, ma solo perché non era scontato e abbiamo lottato per averlo. Forse è sempre così: ottieni una novità, ma poi scopri che devi ancora conquistarla. Oggi la situazione è più complicata: se il vecchio era brutto, è brutto anche il nuovo. La destra
di Berlusconi, Bossi e Fini si è portata dietro i pezzi più squallidi del recente passato, la spartizione, la lottizzazione e l’arroganza del potere, che vuol dire il potere in sé. Berlusconi da presidente del Consiglio non ha mai detto una sola parola che significasse un indirizzo morale per il suo variegato governo. È in questo vuoto morale che sta una temibile contiguità con tentazioni autoritarie. E non vi è solo contiguità in casa nostra. La crisi dell’universalismo delle Nazioni Unite sembra rivelare una incapacità irreversibile, eterna, a rendere giustizia nel mondo.
Ti confesso che dopo la caduta del muro di Berlino avevo creduto che si fosse aperta una fase nuova, di interdipendenza, che
il nuovo rapporto fra America e Russia potesse estendersi a tut-
to il pianeta. Credevo che in qualche modo fosse arrivato il rifiuto della «somma zero». Renzo Cosa intendi per rifiuto della «somma zero»? 14
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Vittorio «Somma zero» è l’idea che un vantaggio possa nascere
solo da un danno dell’avversario. Il suo rifiuto fu chiaro, ad esempio, quando Bush mandò il segretario di Stato James Baker a far da mediatore tra le repubbliche baltiche e Gorba-
ciov, pensando che un successo americano dipendesse da un successo sovietico. Invece la «somma zero», che esprime l’ideo-
logia della guerra, è subito rinata con quello che per me è il male del nostro tempo, l’etnocentrismo in senso lato, la «purificazione etnica» e i suoi parenti più o meno stretti. E poi vi è la si-
nistra, che è in qualche modo il tormento della mia vita. La sinistra non solo come idee dotte ed elaborate, ma come mentalità, come pensieri che sono nella testa della gente, la sinistra che è insieme innovatrice e conservatrice, che è tesa verso
l'uguaglianza, ma è anche — e soprattutto è stata in questo secolo — lotta per la libertà. Renzo Insisto sulla rapidità con cui tutto cambia. Ho trovato una frase di Frangois Mitterrand, che sta per lasciare la presidenza dopo ben quattordici anni. Nel 1974 raccontò in un’intervista al «Nouvel observateur» come il gollismo avesse trattato l'opposizione: «È stata esclusa per quindici anni dalla presidenza delle commissioni parlamentari, non le è stata attribuita
alcuna relazione su un bilancio o su un progetto di legge, le sue proposte di legge non sono mai state messe all’ordine del giorno dei lavori dell’aula, i suoi emendamenti sono stati respinti senza neanche venir discussi, è stata incredibilmente maltrattata
alla radio-televisione nazionale e cancellata da quella regionale...». Lo scorso maggio, quando mi era capitata sotto gli occhi,
avevo avuto paura che questa frase potesse diventare, fra quindici anni, anche lo sfogo del capo dell’opposizione italiana. Che anche questa destra italiana fosse invincibile, come lo è stata per
tanto tempo quella francese. Ora non lo temo più. La situazione, considerata chiusa, si è riaperta, anche se è impossibile fare qualunque previsione.
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DEL DISORDINE E DELLA LIBERTÀ
2. Politica e giornalismo
Renzo C'è un’altra ragione per la quale ti ho proposto questo dialogo. Mi sono trovato, in questi anni, davanti alla crisi di una sinistra per la quale ho lavoratore.con laquale mi sono identificato e so che lo stesso discorso vale anche per te. Diciamo che non solo la mia, ma anche la tua sinistra oggi non c’è più. Sono cambiate tante cose, tanti punti di riferimento, perfino tanti avversari. Ne abbiamo discusso molto, anche se solo per telefono,
negli ultimi tempi, abbiamo avuto idee diverse su cosa stava accadendo e su dove si sarebbe finiti...
Vittorio Sì, quella che tu hai chiamato confusione e che anche io vivo come confusione, ma senza alcuna angoscia, nasce dal fatto che si sono oscurate alcune nozioni, che sembravano nette, come la destra, la sinistra e il centro. Poi ci sono mutamenti più profondi. Pensa a come sono cambiati il lavoro, la produzione e il consumo. Ma ce ne sono tanti altri: ci sono elementi
di confusione e di difficoltà molto aggravati nella comunicazione fra generazioni. Oggi per me è molto più difficile farmi capire quando racconto la mia esperienza a un giovane di vent'anni
di quanto non lo fosse qualche anno fa. Renzo E questo ti pesa?
Vittorio No, non mi pesa. Però ho una lunga storia alle spalle ed è interessante verificare la difficoltà di comunicarne la me-
moria ai più giovani. E se adesso, discutendo fra noi, vogliamo 17
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analizzare le luci e le ombre della situazione non dobbiamo tra-
scurare l’esperienza del passato. Ma non c'è solo il mio passato, Renzo, c’è anche il tuo. Possiamo anche non parlare delle no-
stre storie e capisco che tu non voglia farlo. Però dobbiamo sapere che ci sono, perché anche di questo stiamo parlando. Soprattutto tu che hai un’esperienza politica di un tipo un po’ particolare. Hai voluto ricordare che non sei un politico di professione, sei un giornalista. E hai sempre visto la politica sotto l’angolo del giornalismo. Ma il giornalismo cos'era? Era informazione, ma anche formazione. Ti sei trovato all’«Unità», un
giornale che certamente, rispetto al panorama del giornalismo comunista mondiale, rappresentava qualcosa di più di un puro organo di partito. Aveva un corpo giornalistico culturalmente preparato e orientato, ha avuto dei direttori di forte personalità. Ma era comunque uno strumento di trasmissione della volontà politica di una formazione che tra l’altro ha avuto notevoli componenti di settarismo. E via via hai lavorato dentro questo giornale per trasformarlo in strumento di elaborazione e di confronto. Con la progressiva consapevolezza che il lavoro di rielaborazione del giornale era un lavoro di rielaborazione politica, ma che il suo valore sulla politica nasceva proprio dal fatto che esistesse come esperienza giornalistica. Era l'autonomia dell’informazione quello che consentiva di avere un’influenza sulla politica e di diventare uno dei canali di elaborazione. Era un’operazione di ribaltamento del modo di far politica. Se non sbaglio la tua vita è stata questa. Renzo
Una curiosità: allora cosa ne pensavi?
Vittorio Non è una sovrapposizione del tempo. Non lo scopro adesso, il giudizio che davo allora del tuo lavoro non era diverso da questo. Aggiungo che la tua era una vita con molto travaglio e molte difficoltà, perché sul giornale si riflettevano le difficoltà del partito, un partito che aveva una lunghissima storia, che era — come dire? — condizionato dai suoi errori e
dalla sua gloria. Era la sua gloria l’impegno straordinario dei suoi militanti e dei suoi seguaci, ma ciò in qualche modo costi-
tuiva un limite alla sua creatività e alla sua apertura al mondo. 18
— Politica e giornalismo
I! giornale diventava un soggetto che doveva rivendicare l’autonomia proprio per servire la politica. Non so se, dicendo tutto questo, dico cose che si incontrano con la rappresentazione che ti dai del tuo lavoro. Credo che in ogni modo conviene riferirci alla rappresentazione della politica che ti sei dato. Nel caso del tuo lavoro politico, per quello che ne so io, hai avuto un doppio versante, con effetti molto duri. Da un Jarò
quello che io non ho nessuna esitazione a chiamare un grosso successo, nel senso che la linea di un giornale che non è cinghia di trasmissione ma soggetto di elaborazione, questa opera collettiva, sia pure in mezzo a contrasti di ogni genere, a ritorni indietro, a complicazioni, è passata, è riconosciuta come valida. Dall'altro lato, nello spenderti su questa linea, hai perduto la tua battaglia persoriale con il partito; ilpartito alla cui politica contribuivi attraverso la tua autonomia ha dovuto accettare l'autonomia rifiutando chi l’aveva organizzata. Quindi il tuo rapporto con il partito — quello che hai cercato di cambiare attraverso il giornale e che poi si è rivolto contro di te — è diventato un rapporto delicato e tutta la tua posizione personale verso il partito è stata fortemente influenzata da questa complicazione. Renzo D'accordo, l’ho già detto che non mi sono mai considerato un politico, ma un giornalista, e ho sempre considerato l'informazione non come uno strumento, bensì come un valore culturale, un valore della critica. Questo non significa che per me il giornalismo fosse estraneo alla politica. Al contrario, pensavo che fosse una forma migliore di politica, più autentica: in realtà il giornalismo, che pure condiziona la politica, ha finito con l’imitarla e non so chi ci abbia guadagnato. Prima hai parlato della sconfitta che ho subito nel rapporto con il partito. È vero. Su questo voglio dirti che c’è la legge oggettiva del logoramento individuale quando si compiono operazioni di quel tipo. È una legge a cui non si sfugge e che prevede un prezzo da pagare. Sai perché? Perché operazioni, come quella che ha riguardato «l’Unità», possono riuscire solo se la mediazione non è forte, non è intensa; non possono riuscire se invece la mediazione è eccessiva.
19
Renzo e Vittorio Foa
_:
Vittorio Cosa vuoi dire?
Renzo Voglio dire che la gerarchia delle notizie, il modo con cui trattare gli avvenimenti, i temi da proporre e la scelta delle firme per i commenti non potevano che essere decisi autonomamente in redazione, sulla base di una valutazione in cui non doveva predominare l’interesse di partito, cioè la posizione uffi-
ciale o, peggio, la propaganda. Voglio dire che chi faceva il giornale ne era responsabile nel bene e nel male. Naturalmente «l'Unità» è sempre stata più giornale che organo, anche nelle epoche di appannamento delle capacità critiche del Pci. E se era più giornale o più organo dipendeva molto dalle fasi che si vivevano, dal clima politico più generale, da cosa era in quel momento il partito, ma poi anche da chi ci lavorava, chi la faceva,
chi la dirigeva. Dipendeva infine dalle priorità che c’erano nel rapporto sempre tormentato con il Pci. Una modifica di questo rapporto avvenne a partire dalla metà degli anni ottanta, quando
le grandi sconfitte operaie e la perdita del governo delle grandi città furono il segno visibile della crisi, la crisi che era esplosa con la fine del compromesso storico e con lo strappo da Mosca. Il rapporto cambiò perché era il partito ad aver perso le sue ragioni, a stentare a trovarne altre, e il giornale aveva bisogno di essere se stesso, di contribuire ad una politica con il suo ruolo.
Chi faceva «l’Unità» in quell’epoca — non parlo di una generazione di giornalisti, perché sarebbe eccessivo, ma di un gruppo di persone grosso modo della stessa età ed essenzialmente con
un’esperienza giornalistica e non politica dominante alle spalle — si trovò davanti questo insieme di cose. Non era la prima volta; tante volte chi faceva «l'Unità» si era trovato davanti a problemi analoghi. Ma nel nostro caso il problema non era riducibile ad un adeguamento o ad una riforma grafica. Era necessaria una trasformazione radicale, una mutazione genetica.
Vittorio Che brutta parola...
Renzo La ricordo perché entrò nel gergo politico proprio grazie ad un editoriale dell’«Unità». Il suo titolo era // nuovo codi-
ce genetico del Pci e lo scrisse Ugo Baduel durante uno di quei 20
Politica e giornalismo
Comitati centrali di battaglia politica, ben prima della svolta del 1989. E infatti la trasformazione del giornale aveva ragioni analoghe e parallele a quelle che avrebbero dovuto portare il Pci ad essere un’altra cosa. Era certamente anche un modo diverso di pensare a come doveva cambiare la sinistra, sia nelle sue forme
organizzate che nei suoi obiettivi, nelle sue ispirazioni e così via. Il cambiamento del giornale avvenne seguendo queste strade, con una grande apertura culturale e con il tentativo di avere un proprio ruolo. Fu molto faticoso. Ci furono riunioni su riunioni e mesi di discussioni in tutte le sedi di partito solo per cambiare la dizione di «organo del Pci» in «giornale del Pci». Ripensandoci ora, è chiaro che fra le due parole non c’era alcuna differenza, il valore era solo simbolico. Ugualmente faticoso fu pubblicare il listino della Borsa: voleva dire intaccare la nostra diversità. La riforma grafica avvenne nell’aprile del 1987: nacque la seconda pagina con i commenti, mutò la gerarchia delle notizie, ci liberammo di quell’aspetto un po’ arcigno che avevamo e cominciammo ad aprirci ad altre culture. Fu un percorso lento, fino alla vera e propria esplosione del 1989, quando aprimmo le nostre pagine alla ricerca culturale e politica e ci buttammo ad informare sulla svolta. Con il tempo questo tentativo è riuscito, è vero. La condizione però perché si affermasse, era che nascesse davvero il Pds, cosa che invece non avvenne. Vittorio Come non è nato il Pds? Cosa vuoi dire?
Renzo Diciamo che è nato male o che non è nato come nuova
forza della sinistra. Il mutamento del ruolo dell’«Unità» poteva essere accettato bene e subito solo incontrando una sponda politica più forte, cioè se il Pds fosse riuscito a raccogliere allora idee ed
energie in misura tale da candidarsi sul serio a governare il paese. Non fu così e il contraccolpo fu duro. È vero che «l’Unità» non è tornata indietro, mentre invece sono convinto che al Pds è man-
cata la forza di essere conseguente alle attese di allora.
Vittorio Vorrei capire meglio alcuni punti. Intanto sull’informazione: forse una difficoltà personale non può essere dipesa
anche dal declino relativo della comunicazione scritta, della 24
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gloriosa carta stampata nella quale eri impegnato fin da ragazzino? Proprio perché tu non sei preso da forme di fobia senile
verso la televisione, proprio perché tu ne sai apprezzare il peso,
non può essere che la tua crisi sia come quella dei tanti che ve-
dono invecchiare i loro strumenti di lavoro? Non hai mai pensato anche tu di essere una vittima della civiltà dell’immagine?
Renzo Non ci avevo mai pensato. Però il dubbio me lo fai venire. Il problema è che noi della carta stampata sentiamo ciclicamente l’obbligo di rinnovarci, modernizzarci, rendere più peculiare e quindi più efficace il nostro ruolo. Ma tutto ciò è reso molto più complicato da tante cose: c’è la lotta con la concorrenza, c'è una sorta di «maso chiuso» dell’informazione che penalizza il soggetto debole, in questo caso la carta stampata, c’è il mutamento nelle abitudini dei consumi, anche quelli culturali,
con lo sviluppo della telematica... Vittorio Ma non credi che ci possa essere un ritorno alla carta stampata come il veicolo più favorevole all’elaborazione, rispetto all'immagine che ha una ricchezza di gran lunga superiore a quella della scrittura, ma può sollecitare l'emozione più che la riflessione? È possibile un ritorno a Gutenberg? Renzo Ma il problema è davvero quello di un’alternativa secca? Forse è invece quello dei diversi livelli di opinione pubblica che si raggiungono, di quanto incidono i giornali, quanto la televisione, quanto altre forme di comunicazione. E questo anche per ciò che riguarda la polemica sul dominio che si può ottenere tramite il controllo della tv, la polemica che investe Berlusconi. Non è un mistero che la formazione delle opinioni, sia col-
lettive che individuali, segua percorsi ben più complessi. Anche perché all’avvento di un fenomeno come quello televisivo — ma probabilmente avvenne già così con il cinema o con la radio — hanno corrisposto altri mutamenti, magari nella scuola, magari nella famiglia, con la trasformazione degli strumenti educativi.
La tv, è ovvio, ha un peso superiore a quello dei giornali. E non voglio tornare alle polemiche, che si sono aperte e alle quali ho partecipato, su quell’idea, secondo me sbagliata, di una tv «na22
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turaliter di destra» lanciata da Norberto Bobbio. Non darei però per scontato che gli strumenti capaci di stimolare riflessioni e critica abbiano già perso il duello con gli strumenti capaci soprattutto di sollevare emozioni. Vittorio Ma ci sono anche le storie personali con le loro memorie, la cui percezione cambia nel tempo. Vorrei parlare un po’ del tuo passato. Posso fare una verifica? Più di venti anni fa tu hai lavorato a lungo in Vietnam sotto le bombe americane. La nostra analisi era semplice: da una parte c’era l’imperialismo americano, dall’altra c’era un popolo che anelava alla libertà. Poi nel mondo, e anche in Vietnam, sono cambiate moltissime
cose e anche moltissime idee. Su quella vicenda io continuo ad avere le stesse idee. E tu?
Renzo Per me il Vietnam fu doppiamente importante. Lì ho conosciuto la guerra e mi ha colpito non tanto l’eroismo o l'aspetto catartico, quanto un’idea di straordinaria normalità. Questo è il vero pericolo della guerra: considerarla normale. Allora normale era la paura, o la paura di non aver paura, nor-
male era la sofferenza della gente, normali erano i bombardamenti delle città, normale era anche il fatto che lì c’era la guerra, mentre a poche centinaia di chilometri c’era un’altrettanto normalissima pace: insomma, la coesistenza tra pace e guerra. E poi il Vietnam fu molto importante per me, perché lì capii che non serviva a nulla l’arroccamento in una trincea ideologica. Era il 1972, il Vietnam era completamente isolato, abbandonato dall’Unione Sovietica brezneviana e dalla Cina ancora maoista,
con le coste bloccate dalla flotta americana e gli aerei che facevano quello che volevano. Insomma stava per perdere. Non perse solo perché riuscì a trasformare la guerra in politica e a tessere una grande rete di amicizie. Capii che c’era una sinistra non comunista che a un certo punto assunse un’importanza maggiore. Ricordo la sensazione di sicurezza che ricevetti incrociando per strada a Hanoi, dopo un bombardamento, l’am-
basciatore svedese. O un’analoga sensazione di sicurezza trasmessa dall’arrivo della prima delegazione governativa della Germania occidentale. Queste nuove amicizie avevano un sen23
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so; L’«internazionalismo proletario» stava diventando una formula vuota. Il ricordo che ho è questo. Poi il Vietnamè stato
un’altra cosa, è riuscito a perdere tutta la vittoria, mentre l’America è riuscita a trarre la lezione della sconfitta.
Vittorio Ancora una domanda sulla tua memoria. Alla fine del 1987 tu sei riuscito ad intervistare a Praga Alexander Dubcek, il grande leader della cosiddetta «primavera di Praga», la rivolta popolare antiburocratica del 1968. L'intervista all’«Unità» ebbe grande risalto sulla stampa internazionale. Il Partito comunista italiano si confermava alla testa delle tendenze di riforma. Poi si è usciti dal comunismo, ma i suoi eredi non sono stati i riformatori. Non solo Dubcek, ma lo stesso Gorbaciov sono scom-
parsi dalla memoria collettiva. Ma tu, adesso, se ripensi a quel viaggio a Praga, che suggestioni ne ricavi? Renzo Ripenso solo alla speranza che c’era allora di vedere quella sinistra — rappresentata da Dubcek, ancora perseguitato in patria, mentre il suo allievo Gorbaciov era alla testa dell’Urss — riuscire a governare coniugando le istanze sociali alla democrazia Ria Di uscire:così dalla sortà del'>alicito rele Fu una speranza vana. Ma ho anche io qualche domanda da porti: come pensi al tuo rapporto con il comunismo... Vittorio Sono sempre stato mosso da una convinzione: non ac-
cettavo nulla del pensiero comunista, ma pensavo che fosse necessario lavorare con i comunisti, perché pensavo che il comunismo fosse riformabile e, anzi, pensavo che nella sua base sociale, nella sua cultura non den ma in quella immanente
all’azione, potesse assumere i contenuti di libertà che mi erano cari, secondo la mia formazione culturale. Ero molto conforta-
to anche dall’esperienza dei miei maestri — Gobetti e Rosselli — i quali non avevano dubbi che bisognasse lavorare con i comuni-
sti per un potenziale di liberazione che, nonostante tutte le nefandezze, il mondo del socialismo reale aveva in sé. Invece que-
sti punti programmatici della mia vita si sono rivelati fallaci. Non solo il comunismo non si è riformato, ma è morto. Però non mi sento deluso. 24
Politica e giornalismo
Renzo Il problema non è la delusione. Cosa dovrei dire io? Tra l’altro mi viene in mente che fui proprio io ad insistere perché ti iscrivessi al Pds. Ti telefonai spesso da Rimini, da quel congresso del 1991. Fu il momento peggiore perché si partì con spaventose oscillazioni politiche sulla questione della guerra nel Golfo e con la clamorosa bocciatura di Occhetto. Ti telefonai anche quella mattina, mentre stavo andando a votare...
Vittorio Quel congresso a cui non fui presente, ma che seguii per radio, fu disastroso per il suo filo-vaticanismo, per la sua rozzezza dottrinaria, per le scelte sbagliate fatte in quasi tutti i campi. Però Occhetto ebbe il coraggio di far nascere il partito, cioè di non subire il ricatto della sinistra che non lo voleva. Io mi iscrissi, pur dichiarando pubblicamente il mio dissenso, solo
per solidarietà con l’uomo che aveva preso quella iniziativa e che si trovava come soverchiato dai suoi effetti. Trovavo ingiusta la punizione che gli veniva propinata. Volevo mandargli un telegramma, ma poi ho pensato che di telegrammi ne avrebbe ricevuti tanti e di richieste di iscrizione ben poche.
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DEL DISORDINE E DELLA LIBERTÀ
3. La memoria e il quadrante dell’orologio
Renzo Mi ha incuriosito una tua frase. Hai detto che è più difficile di quanto non lo fosse pochi anni fa farti capire da un giovane quando racconti la tua esperienza, quando cioè ti presenti come un protagonista o un testimone di un pezzo di storia. Una differenza di linguaggio e, forse, di schemi mentali non ba-
sta a spiegare questa difficoltà. A cosa ti riferivi? Vittorio Alla difficoltà di farmi capire o all’impressione di non farmi capire quando parlo di cose che nella mia vita sono state molto importanti. Penso, per dare due soli esempi, all’antifascismo e alla Resistenza e alle lotte operaie delle quali mi sono occupato per un lungo periodo della mia vita. Sono dovuto arrivare ad un’età molto avanzata per rendermi conto che i giovanissimi mi ascoltavano, ma che non dicevo nulla sui nodi della
loro vita. Non si realizzava quella forza della comunicazione che consiste nel sollecitare con la tua memoria i problemi di chi ti ascolta. Mi sono accorto solo in anni recenti che è difficile.
Forse questo dipende dal mio modo di parlare e di ricordare le cose importanti della mia vita. Renzo Ma non può dipendere anche da altro? Magari da un uso sbagliato della memoria. Hai parlato della Resistenza come di uno
dei momenti importanti della tua vita. E proprio sull’anniversario della Resistenza ha fatto leva la prima reazione della sinistra sconfitta da Berlusconi il 27 e il 28 marzo del 1994, con la manifestazione del 25 aprile a Milano. Era il tentativo di riaffermare la propria
identità, forse anche giusto, però mi è apparso uno dei tanti modi 27
Renzo e Vittorio Foa
un po’ declamatori di richiamarsi al passato, in particolare alla lotta di Liberazione, senza riuscire a trasmetterne valori e insegnamenti.
Vittorio L’iniziativa era stata proposta con l’idea un po’ ingenua che si potesse con una manifestazione di piazza cancellare il voto. Il risultato, al di là della riuscita materiale, non è stato
negativo. È stata la riaffermazione della presenza di qualcosa che non poteva essere dimenticata. Renzo Però quella manifestazione schiacciò la Resistenza su uno schieramento politico, la isolò a sinistra, in quel caso all’opposizione. Per me la Resistenza è un’altra cosa. Vittorio Tu come la ricordi?
Renzo Appartengo a quella fitta schiera di persone nate dopo la guerra. Quando ero ragazzino la Resistenza mi appariva un po’
una cosa di famiglia e un po’ un grande fenomeno di ribellione e di libertà, una lotta combattuta e vinta dalla sinistra, con dei valori
che però in quegli anni non servivano alla democrazia italiana. Mi accorsi, con stupore e soddisfazione, che quei valori non erano
solo della sinistra ma appartenevano alla storia patria quando mi ritrovai alla manifestazione celebrativa del decennale, nel 1955. Si
svolse a Roma, a Piazza Venezia, davanti al Milite ignoto. Mi ricordo che vi partecipò il presidente del Consiglio, che era allora Adone Zolì. Ci fu qualche fischio, ma per me quel momento segnò l’idea che la lotta di Liberazione era riconosciuta nel patrimonio nazionale. Vittorio Guarda che strano, per me la Resistenza ricordata nelle cerimonie ufficiali voleva dire che era stata annullata. Ci volle
il luglio del 1960 per rianimarsi. Ma tu eri già ragazzo. Renzo Ma tornò a presentarsi come sinistra.
Vittorio No, fu contro il governo Tambroni, che si reggeva su una maggioranza parlamentare di cui faceva parte il Msi. Quindi non
era solo sinistra.
28
La memoria e il quadrante dell’orologio
Renzo Fu però un momento molto particolare: il sussulto con cui si chiuse il centrismo e si aprì quel processo di modernizzazione e di sviluppo dell’Italia che coincide con il periodo del centro-sinistra. Un sussulto che vide in prima fila una generazione di giovani — furono chiamati i «ragazzi delle magliette a strisce» — che, come capita sempre, a un certo punto lanciano
pietre vere o ideali per dimostrare di esistere. In quel caso incrociarono le idee e i valori della Resistenza che tornarono a propagarsi. Si parlò molto di «nuova Resistenza», come se la generazione successiva, quella dei figli, dovesse riprendere un cammino interrotto nello spirito laico e nelle idee di libertà e di Gli anni sessanta sono stati forse il periodo più felice progresso. in cui la memoria della lotta di Liberazione è stata rinfrescata,
irrobustita, utilizzata in modo positivo. È stato il periodo in cui la Resistenza si è tra l’altro affermata come patrimonio nazionale. In quegli stessi anni, nella sinistra ci fu anche una discussione sulla sua attualità, sul suo carattere rivoluzionario, di clas-
se, oppure risorgimentale e unitario, quella discussione che ora è diventata materia di studio per gli storici. Poi però ha assunto una sorta di configurazione statuaria, è diventata un monumen-
to e basta, si è trovata privata della sua funzione. Tu non pensi che sia così? Vittorio Delle due critiche che fai — la Resistenza assimilata solo alla sinistra e la Resistenza ridotta a monumento - vorrei
parlare un momento della prima. Ho sentito di recente questa obiezione: la Resistenza e l’antifascismo più in generale vedono indebolito il loro senso di fondamento della Repubblica nel momento in cui vengono chiusi in una visuale di sinistra. In un orizzonte più ampio sono meglio riconoscibili come elemento costitutivo della democrazia italiana. C’è stato in noi certa-
mente un limite nel modo di pensare e di rappresentare la Resistenza. Intanto ne abbiamo sempre parlato come di un’esperienza militante, cioè di combattenti con le armi in mano o di
combattenti a rischio nell’organizzazione politica di una lotta
armata contro i tedeschi e i fascisti. Questo ha consentito ai critici, soprattutto di fonte cattolica, di dire che la Resistenzaè
stata fatta dalla cosidetta «zona grigia», dalle centinaia di miDO)
Renzo e Vittorio Foa
gliaia di persone che hanno aiutato in un modo o nell’altro chi lottava o che hanno salvato la gente in pericolo senza per questo essere combattenti o militanti. Insomma, la rappresenta-
zione di un movimento che non è l’avanguardia, ma qualcos'altro: qui si tocca un elemento di verità e l’averlo trascurato può avere indebolito il carattere costitutivo della Resistenza rispetto alla Repubblica. E non penso solo alla «zona grigia» prevalentemente cattolica, penso a tutta la grande area di persone che hanno sofferto cose diverse dai resistenti, cioè i deportati, i prigionieri, molte centinaia di migliaia di persone. Una storica, Anna Bravo, ha notato recentemente che la Resi-
stenza in qualche modo ha monopolizzato anche la storiografia, scolorendo una quantità di esperienze, di sofferenze e an-
che di resistenze individuali e collettive che ci sono state. È un insegnamento molto profondo, che va al di là della Resistenza,
è l’idea di non identificare la realtà con l’avanguardia. Secondo me la sinistra, nell’ansia di esaltare le esperienze più avanzate della nostra storia, quelle in cui il paese si è svegliato dal suo sonno e ha affermato la sua identità guardando al futuro, ha finito con il danneggiare anche se stessa. Renzo E sull’altro rischio di cui ho parlato, cioè la riduzione della memoria ad una sorta di statua? Rischio che non vale solo per la Resistenza... Vittorio Il valore della memoria consiste nel rimotivare la memoria stessa, cioè nel ritrovare oggi le ragioni — che so? — della difesa della libertà o della lotta per l'uguaglianza o per la ricerca della solidarietà. Se non ne rimotivo i valori, la spreco, la sciu-
po, la trasformo in un oggetto e non in un processo mentale. Renzo
Per te la memoria della Resistenza cos'è?
Vittorio Intanto la memoria della Resistenza è una straordina-
ria esperienza di gente che decide di fare qualcosa per sé e per tutti, che decide di non lasciarsi vivere, di non pensare alla vita come una chiusura in se stessi. Ricordo i resistenti come gente che fece una scelta per esistere collettivamente, senza scrupoli 30
La memoria e il quadrante dell’orologio
ideologici. Poi c’è l’altro aspetto: il recupero di un’identità ita-
liana. La Resistenza comincia con la dissoluzione dello Stato,
nel luglio-settembre del 1943, una dissoluzione che avrebbe potuto essere vissuta tranquillamente perchéi grandi attori della storia, cioè le grandi potenze, erano in movimento e stavano concludendo il loro scontro. Tutto quello che noi facevamo poteva apparire veramente superfluo. Mentre invece fare la guerra ai tedeschi e ai fascisti voleva dire affermare l’esistenza di un’Italia che aveva un’identità. Renzo Cosa arriva di tutto ciò alla generazione di coloro che oggi possono essere i tuoi nipoti? Vittorio Arriva poco. Qualcosa è arrivato dove esiste una memoria familiare, dove inonni hanno parlato ai nipoti. Vedi, però, una volta inonni raccontavano di essere andati in guerra: adesso non parlano o parlano meno. Perché? Forse perché sono nonni più giovani dei nonni di una volta, hanno altro da fare, non hanno tempo per ricordare. E poi probabilmente non parlano perché ai ragazzi non interessa sentire quello che diconoi loro nonni. Invece sarebbe importante sollecitare gli studenti a far parlare i nonni. So che in parecchie scuole si fa.
Renzo Può anche darsi che non parlino semplicemente perché quegli anni sono lontanissimi. Della seconda guerra mondiale ormai non c'è traccia. Il ricordo delle sofferenze è lontanissimo. Anchei segni materiali, le distruzioni, sono definitivamente
spariti trenta o quarant'anni fa con i] completamento della ricostruzione. A pensarci bene, a Roma c’è ancora qualche rudere a San Lorenzo. Ma quanti sono a identificare quelle case non ricostruite con i bombardamenti del ’43? Sai che sulla facciata di una palazzina a Porta San Paolo fino a qualche anno fa c'erano ancora i buchi aperti dalle schegge delle granate sparate 1°8 settembre? Può darsi che ci siano ancora, ma mi piacerebbe sapere quanti sono ad associare quei buchi all’inizio della Resistenza. Mentre invece della prima guerra mondiale restano quasi in ogni parco pubblico, in ogni quartiere, in ogni paese monumenti e Cippi. 31
Renzo e Vittorio Foa
Vittorio Vediamo un po?: quando io avevo l’età di tua figlia, per me quale era il corrispettivo della Resistenza? Avevo dodici anni nel ’22. Cinquant’anni prima era il 1872... Renzo Quindi l’indomani della presa di Roma, Porta Pia, il
completamento del Risorgimento. Forse però allora erano diversi i tempi della memoria, perché erano diversiitempi della comunicazione, della cultura.
Vittorio Ma l'accelerazione dei tempi della vita allontana o avvicina la memoria? Secondo me, la allontana. Il fatto che l’innovazione si stia accelerando in modo vorticoso, richiama l’inte-
resse sul passato o no? Può darsi che l'accelerazione della vita non riduca la ricerca della memoria, ma ne sposti contenuti ed interessi. C’è però un’altra possibilità. Se ti poni meno che in passato il problema di scegliere sul tuo futuro, perché hai l’impressione che il tuo futuro non sia deciso da te ma da altri, hai un interesse minore a ripercorrere il passato. Ho l’impressione — parlo dei giovani e dei giovanissimi — che vi sia un’idea del tempo che si può definire “digitale; Un orologio digitale ti dà solo l’istante, non vedi quella cosa straordinaria che è la lancetta: la
lancetta sul quadrante è ciò che ci consente di manovrare sul tempo, di pensare che c’è una continuità tra il passato, il presente e il futuro. Se, invece, cominci ad avere del tempo una vi-
suale più istantanea, secondo cui la vita la devi prendere come è oggi, perché tanto il domani non dipende da te, probabilmente anche il passato non ti interessa più. Renzo
No, la memoria c’è ancora. Cambia la sua forma. Un
esempio: la nostalgia non solo è una forma di memoria, ma ne è anche una parte fondamentale. Pensa a cosa è la memoria degli
anni sessanta, a come essa viene trasmessa, attraverso la musica, le canzoni, i vecchi miti, i cantanti, i calciatori, ai propri figli da
chi era giovane allora. E se la memoria avesse cambiato natura, se ci fosse una memoria delle epoche più che una memoria dei fatti? Vittorio Forse la nostalgia sì. Ma mi stavo ponendo un’altra domanda che riguarda un problema analogo a quello che si è 52
La memoria e il quadrante dell’orologio
posto con il film di Spielberg Schindler* list. Sono stato spesso
invitato nelle scuole a parlare di varie cose, dello sterminio degli
ebrei o della Resistenza o delle grandi lotte operaie. Io parlo, mi ascoltano direi con rispetto, qualche volta mi applaudono o si mettono a ridere se dico una battuta. Ma ho la sensazione come di produrre un’emozione, l’emozione di ascoltare un buon
vecchio che racconta quello che è successo a lui e ai suoi amici. E come se non ci fosse alcun nesso con il presente. Un po’ come nel caso del film di Spielberg. Lasciamo stare l’errore compiuto dalle scuole di mandare gli studenti a vederlo come se fosse una specie di compito. Il mio vero dubbio è un altro: Schindler's list ha certamente commosso chi lo vedeva e ha insegnato molte cose. Ma ha posto dei problemi ai ragazzi? Serve a poco o a nulla raccontare il valore dell’antifascismo, della Resistenza, della lotta per la libertà e la democrazia, riferendolo a
quella storia, a quel fascismo o a quel nazismo. Mentre invece quella memoria può aiutare se penso che il male di oggi è qualcosa di diverso dal male di allora, qualcosa che devo identificare e contro il quale sono convinto che si debba lottare. Penso, ad
esempio, alla «pulizia etnica». Ho letto che la scrittrice croata Slavenka Drakulic ha detto che il racconto di Primo Levi su Auschwitz non è servito a salvarli dalla guerra, che la memoria non è servita a nulla. Spero che la Drakulic abbia torto. Renzo Proprio mentre ti ascoltavo mi venivano in mente Sarajevo o, anche se è più lontano, il Ruanda. Però tu stai parlando di due ordini di problemi diversi. Non si può affidare la comprensione del presente solo alla memoria. In questo caso prima di pormi domande sulla memoria, mi chiedo perché certe
grandi catastrofi umane e politiche del presente non hanno posto dei problemi prima che avvenissero o anche al loro insorgere. Quanto tempo c’è voluto perché ci fosse una consapevolezza diffusa di quello che stava succedendo in Bosnia, dell’assedio
di Sarajevo? Ci sono voluti molti mesi...
Vittorio Tu non pensi che ricordare la passività con la quale è stato accettato Hitler negli anni trenta possa aiutarci a capire gli errori del presente nell’accettare l’emergere di questo odio etni99
Renzo e Vittorio Foa
co? Parlo non delle responsabilità di coloro che esercitano que-
sto odio omicida, ma delle nostre responsabilità nell’ accettarlo, di vedere accanto a noi queste cose € di non intervenire. Così come la responsabilità nei primi anni trenta di lasciare che Hitler venisse avanti e facesse quello che voleva.
Renzo È la «sindrome di Monaco», con cui si ricorda l'accordo raggiunto nella capitale bavarese, il 29 settembre del 1938, tra Hitler, Mussolini, il primo ministro britannico Chamberlain e il
capo del governo francese Daladier. Fu l’accordo grazie al quale le democrazie occidentali si illusero di aver salvato la pace consentendo alla Germania nazista l’annessione della regione dei Sudeti. In realtà dettero il via al conto alla rovescia della seconda guerra mondiale. Il «fantasma di Monaco» da allora segnala il pericolo di un atteggiamento remissivo verso le aggressioni. Negli anni più recenti fu evocata dalla Thatcher quando decise di mandare la flotta nell’Atlantico meridionale per riprendere le isole Falkland, occupate dal regime militare argentino. Edè stata anche evocata in modo più netto in occasione della guerra nel Golfo, proprio per sottolineare il pericolo di una mancata reazione militare all'occupazione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein. Del nazismo e di Hitler, ciò che viene ricorda-
to di più è proprio Monaco, cioè la nostra reazione. Meglio: la mancata reazione delle democrazie occidentali. Vittorio Allora ricordare il passato ha valore in quanto sl propongono dei nodi sul presente. Se no, può essere un’ emozione,
oppure anche un bel racconto che vivi, godi, dopo di che pensi ad altro. Ma la memoria può essere veramente richiamata per i nodi del presente? Questoè possibile sia per quello che riguarda la violenza, che èper l’appunto il ricordo del fascismo come violenza politica e civile, sia su tutta l’altra sfera, quella specifi-
camente sociale, quella del lavoro. Un secolo di storia del socialismo organizzato è la storia della lotta per uscire da una condizione di inferiorità. Poi almeno nel mondo industrializzato siamo usciti da quella condizione di inferiorità e ci è sembrato che il problema fosse risolto, invece non lo è perché ci sono altre tensioni, altri disagi, altre sofferenze che dobbiamo affrontare. 34
La memoria e il quadrante dell’orologio La memoria del movimento operaio ci può servire non a risol-
vere i problemi di oggi, ma a capire che quando c’è uno stato di
sofferenza c’è anche la possibilità di lottare per superarlo.
Renzo E pesante parlare al passato della memoria del socialismo. Vittorio Ci sono due posizioni. Una dice: tutto continua come prima. E una vecchia posizione di sinistra non riconoscere che le cose cambiano e pensare che gli schemi dell’azione restano gli stessi anche quando la realtà cambia. L’altra tentazione molto forte è quella di dire: adesso, con la fine del socialismo, è finito tutto, quella esperienza è cancellata, adesso i conflitti so-
no risolti. Questo è un vero e proprio azzeramento della memoria. Se il primo errore — quello di pensare che tutto continua — è ormai abbastanza screditato, il secondo errore — quello di dire che non c’è più tutto quello che si pensava una volta, visto che la realtà è cambiata - è molto diffuso e molto grave. Penso che la straordinaria esperienza di un secolo di socialismo, di un secolo di lotta di classe organizzata, con tutti i fallimenti e i successi che ha avuto, mi consente — se riesco a non
pensare di essere fermo a quei tempi — di riflettere sui nuovi nodi del disagio sociale, sull’incertezza della nostra vita, sulle sofferenze, nuove e soprattutto immateriali, che ci sono. Il socialismo è stato una lotta per ridurre la soggezione umana sul piano politico, sul piano economico, sul piano sociale e morale, la soggezione di grandi masse umane a pochi potenti. Il socialismo è stato questo, questa lotta ha avuto determinati risultati storici e ci dimostra che si possono contrastare le forme di disagio o di arbitrio o di prepotenza, che oggi però hanno altri aspetti. Allora dalla memoria delle lotte operaie — memoria che ho molto forte, perché essendo vissuto molto a lungo ricordo le più diverse, di carattere economico, di carattere politico o morale — traggo questo richiamo: cosa succede oggi? Superati quei vecchi problemi, quali sono le forme del disagio, dell’incertezza, di sfruttamento che dobbiamo affrontare? Ecco, credo che la memoria ci aiuti ad affrontare questi problemi come un dovere di nuova elaborazione, di rimotivazione dei
valori ideali. I valori ideali valgono in quanto vengono rimoti35
Renzo e Vittorio Foa
vati, cioè riferiti alla realtà che si vive. Questo èè per me fondamentale: non posso accettare né la pura continuità né la semplice cancellazione di quell’esperienza. Renzo C'è un altro argomento molto concreto,molto m controverso ma ancora in movimento. Parlo della democrazia politica, degli spazi che ha conquistato nel corso di questo secolo e soprattutto ora, dopo il 1989 e non solo nelle società dell’Est.
Vittorio La sinistra si è sempre impegnata per il diritto di voto, che significa aver riconosciuto il diritto di decidere il proprio futuro eleggendo propri rappresentanti in parlamento senza limiti di censo o di istruzione. I vecchi limiti di voto che consentivano alle classi privilegiate di consolidare il loro potere riguardavanoi soldi o l’alfabetizzazione. Poi c’era anche la discriminante sessuale: di qui la lotta complicata e controversa sul voto delle donne. Questo tipo di problemi è largamente risolto, non può venire in mente a nessuno di dire: 1 mio voto
vale doppio o tu non voti. Allora tutto è risolto? No. Ecco avanzare quella che è chiamata «democrazia a rischio etnico». Gli jugoslavi non avevano mai o quasi mai votato. Caduto il muro, caduto il comunismo, ecco una grandissima conquista. Votano. Risultato immediato: la conquista dell’indipendenza, la nascita di repubbliche democratiche. Altro risultato immediato: la discriminazione contro le minoranze, con la rapida
esaltazione dell’odio etnico. Allora resti angosciato dall’idea che la conquista del diritto di voto sia all’origine, in tempi brevissimi, di disastri terribili. Viene l’idea che sarebbe stato meglio che le repubbliche non fossero nate, che le maggioranze
non decidessero legalmente l’espansione dei loro poteri e così via. Però non è così: la conquista del diritto di voto e il sistema rappresentativo che su di esso si fonda sono solo un pezzo della democrazia. Se non si affronta nei suoi vari aspetti tutto l'universo della democrazia si corre il rischio di rinnegare proprio le sue conquiste storiche. È oggi chiaro che il diritto di voto ha valore se si accompagna con ZE diritti umani e con la costruzione degli strumenti per difenderli. Questo èun primo esempio di complicazione. 36
La memoria e il quadrante dell’orologio
Renzo Non sono d’accordo. L’accesso all’autodeterminazione
politica ha solo rivelato disastri che erano precedenti. Può darsi che la disgregazione sia stata resa più rapida dalle elezioni. Ma è da considerare il fatto che solo quando si è votato si sono potuti misurare in tutta la loro portata l’involuzione e il fallimento, che ha coinvolto perfino un socialismo blando come quello del-
l’autogestione. La dissoluzione della Jugoslavia èavvenuta nonostante l’avvio della democratizzazione.
Vittorio Vorrei approfondire questo punto: io sono democratico se faccio votare la gente, se consento alla gente di esprimere pubblicamente le sue opinioni, di scriverle, di dirle, di usare la televisione, eccetera. E poi di decidere. Oggi, con la sviluppo
della scienza e della tecnica, chi decide anche democraticamente, seguendo tutte le regole, decide anche per un'infinità di persone che non votano, che sono assenti, che sono i futuri e i lon-
tani. Sono due categorie di persone che all’inizio di questo secolo, o anche solo cinquant'anni fa, non erano toccate dalle decisioni di coloro che votavano. Si votava per la propria generazione e per la propria nazione. Oggi tutte le scelte che facciamo pesano sul destino dei nostri discendenti, la responsabilità verso il futuro e verso i lontani è incomparabilmente più alta di quanto non fosse in passato. Ricordo qui le belle pagine di Hans Jonas sul «principio responsabilità». Oggi qualunque decisione che riguarda l’impiego di forme distruttive di energia o la distruzione dell’ambiente tocca generazioni future o persone lontane. Questo vale anche per l'economia.
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