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Italian Pages 248 [244] Year 2016
DE CUIUS HEREDITATE AGITUR Il regime romano delle successioni
In copertina: Canova, Critone chiude gli occhi a Socrate, ante 1793 (Fondazione Cariplo).
SALVATORE PULIATTI
DE CUIUS HEREDITATE AGITUR Il regime romano delle successioni Estratto da A. Lovato - S. Puliatti - L. Solidoro
Diritto privato romano
G. Giappichelli Editore – Torino
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http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-0258-3
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Indice pag.
Premessa 1. 2.
3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.
16. 17.
Successione ereditaria Evoluzione storica 2a. Regime decemvirale 2b. Regime postdecemvirale 2c. L’ultima età repubblicana 2d. Il regime in età del Principato e tardoimperiale Concetti fondamentali Hereditas Presupposti della successione ereditaria Capacitas e indegnità Acquisto dell’eredità Effetti dell’acquisto ereditario Hereditatis petitio Coeredità Accrescimento Scioglimento della comunione ereditaria Bonorum possessio Collazione Successio ab intestato 15a. Nozioni preliminari e sistema civile 15b. Innovazioni pretorie 15c. Senatoconsulti e legislazione imperiale 15d. Successione del padre 15e. Sistema giustinianeo Successione testamentaria. Il testamento, nozione e caratteri Forme
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pag. 18. 19. 20. 21. 22.
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26. 27. 28.
Forme speciali di testamento Apertura del testamento Invalidità e inefficacia Revoca Contenuto del testamento. Heredis institutio 22a. Institutio ex re certa 22b. Modalità dell’istituzione 22c. Sostituzioni Limiti alla libertà di testare 23a. Regime pretorio 23b. Querela inofficiosi testamenti 23c. Successione necessaria del patrono I legati 24a. Tipi di legato ed evoluzione storica 24b. Soggetti 24c. Oggetto 24d. Acquisto 24e. Elementi accidentali 24f. Azioni e garanzie spettanti al legatario 24g. Accrescimento 24h. Limitazioni e riduzioni dei legati 24i. Nullità 24l. Prelegato Fedecommessi 25a. Fedecommesso universale 25b. Sostituzioni fedecommissarie Altre disposizioni del testamento Successioni straordinarie e in assenza di eredi Codicilli
Fonti
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Premessa Questo volumetto, estrapolato da A. Lovato, L. Solidoro, S. Puliatti, Diritto privato romano, Torino, Giappichelli, 2014, vuole offrire una sintesi del diritto ereditario romano nel suo sviluppo storico, fornendo un utile sussidio alla esposizione della materia delle successioni nell’ambito dei corsi di Diritto romano. Alla trattazione degli istituti si accompagna un’ampia antologia delle fonti volta a consentire approfondimenti esegetici e percorsi seminariali.
De cuius hereditate agitur. Il regime romano delle successioni 1. Successione ereditaria “L’eredità non è altro che la successione nella situazione giuridica complessiva del defunto”: la definizione, tratta dal commento del giurista Gaio all’Editto pro1 vinciale , evidenzia efficacemente come la morte di un soggetto non estingua l’insieme delle situazioni giuridiche che a lui fanno capo. Anzi, problema comune a tutti gli ordinamenti giuridici di ogni epoca è proprio quello di determinare la sorte dei rapporti, soprattutto di carattere patrimoniale, riferibili al defunto. Questi infatti, di norma, si trasferiscono in capo ad altri soggetti, che pertanto subentrano, succedono (successio), come precisa il brano di Gaio, al precedente titolare. Il termine successio, muovendo dall’accezione generica di “anSuccessio. Nozione dare al posto di altri”, assume peraltro nel linguaggio giuridico una valenza più generale, non strettamente legata alla morte di una persona, indicando il subentro di un soggetto nelle posizioni giuridiche così attive (diritti soggettivi) come passive (doveri giuridici) di un altro senza che queste mutino la loro identità. Esso, più in particolare, può riguardare il subingresso in un complesso di rapporti unitariamente considerati, ossia quella che viene indicata A titolo universale come successio in universitatem o universum ius; ovvero, specie nelle fonti di età tarda, di solito in connessione con la specificazione del rapporto nel quale si succede, il subentro in singole posizioni soggettive (adquiA titolo particolare rere singulas res), ossia la c.d. successione a titolo particolare. Mentre quest’ultima ha per oggetto (per l’intero o per una quota) singoli determinati rapporti, colui che subentra in universum ius prende il posto del precedente titola2 re (come ben sottolinea Cicerone che, con riferimento alla successio mortis causa, affermava: ad vicem eius, qui vita migravit accedat, “venga al posto di colui che è defunto”) sostituendolo (per l’intero o per una quota) nella titolarità del comples1
D. 50.16.24 (Gai. 6 ad ed. prov.): Nihil est aliud ‘hereditas’ quam successio in universum ius quod defunctus habuit. Cfr. pure D.50.17.62 (Iul. 6 dig.). 2 Cic. de leg. 2.19.48.
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so dei rapporti giuridici trasmissibili che a questi facevano capo. Lo stesso Gaio nelle sue Istituzioni, dopo aver trattato dei modi Modi di acquisto di acquisto delle singole cose, si occupa dei modi mediante i quali per universitatem esse si acquistano in blocco (per universitatem appunto) e precisa che tale acquisto si realizza in caso di eredità, bonorum possessio (possesso dei beni), bonorum venditio (vendita all’incanto dei beni), adrogatio e conventio in manum. Quindi il passaggio in blocco, e in dipendenza di un unico atto, dell’intera e identica situazione giuridica patrimoniale da un soggetto a un altro, che i classici indicano con l’appellativo di successio in universum ius, può aver luogo non solo in dipendenza della morte di un soggetto (come nei casi di hereditas e bonorum possessio), ma, come sottolinea il giurista, anche tra vivi. È questa una particolarità propria dell’esperienza giuridica romana: mentre infatti il solo caso di successione universale ammesso dal nostro ordinamento vigente è quello a causa di morte, nel diritto romano erano ammessi casi di successione universale inter vivos, iure civili (dal lato attivo soltanto) nei casi di adrogatio e di conventio in manum di donne sui iuris, iure praetorio nel caso di bonorum venditio. Di tutti i modi di acquisto per universitatem solo hereditas e bo- Successio norum possessio configurano, dunque, un acquisto a causa di morte mortis causa e solo di queste ci si occuperà quindi nel seguito. Se infatti successio, in generale, indica la trasmissione di situazioni giuridiche da un soggetto a un altro, con l’espressione successione mortis causa si fa riferimento in particolare al subentrare di una o più persone nella situazione giuridica di un soggetto defunto (de cuius, espressione ellittica per is de cuius hereditate agitur, ossia “soggetto della cui eredità si tratta”). A succedere mortis causa a titolo universale sono, secondo il si- Hereditas stema del ius civile, gli heredes, ed hereditas è il complesso delle situazioni giuridiche soggettive che fanno capo al defunto nelle quali l’erede o gli eredi subentrano. Essa finisce con l’essere considerata entità giuridica a sé (nomen iuris), distinta dai singoli elementi che vanno a comporla (cose, corpora e rapporti giuridici, iura), suscettibile di incrementi e diminuzioni e in cui le passività possono anche superare le attività (precisa infatti il giurista Ulpiano che “l’eredità è 3 un’entità giuridica che ricomprende in sé incrementi e diminuzioni”) , e a sua volta Pomponio afferma: “Il termine eredità ricomprende anche l’eredità passiva: 4 si tratta infatti di una entità giuridica come la bonorum possessio” . Essendo l’acquisto ereditario una fattispecie di successione universale, esso non può riguardare che il trasferimento di quanto già è del de cuius, realizzando un’ipotesi di acquisto a titolo derivativo in relazione al quale opera il principio nemo plus iuris in alium transferre potest quam ipse habet, in forza del quale il de cuius non può trasmettere per successione più di quello che già gli appartiene. 3
D.50.16.178.1 (Ulp. 49 ad Sab.): ‘Hereditas’ iuris nomen est, quod et accessionem et decessionem in se recipit. D.50.16.119 (Pomp. 3 ad Q. Muc.): ‘Hereditatis’ appellatio sine dubio continet etiam damnosam hereditatem: iuris enim nomen est sicuti bonorum possessio. 4
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2. Evoluzione storica 2a. Regime decemvirale Le nostre conoscenze in materia di successione non hanno fonti più risalenti della legge delle XII Tavole, la codificazione antichissima dei mores primitivi che risale all’attività del decemvirato legislativo, magistratura straordinaria (composta da dieci membri) che quel codice aveva predisposto intorno alla metà del V sec. a.C. (451-450). A chiarire il regime successorio arcaico e lo stretto legame di questo con l’esigenza di garantire la sopravvivenza della compagine familiare, in particolare delle famiglie patrizie, le uniche per cui si presentava pressante la necessità di preservare il sostrato patrimoniale e religioso che ne costituiva il fondamento, stanno due versetti del Codice decemvirale: V. 3, che recita uti legassit suae rei, ita ius esto, “come avrà disposto in relazione ai suoi beni, così sia il diritto”, e V.4.5, ove si stabilisce si intestato moritur cui suus heres nec escit, agnatus proximus familiam habeto, si agnatus nec escit, gentiles familiam habento: “se muore senza testamento colui che non ha eredi propri, l’agnato prossimo abbia il patrimonio familiare, se non ha agnati, i gentiles abbiano il patrimonio familiare”. In particolare il secondo versetto, nello stabilire le categorie dei successibili, regola esplicitamente la chiamata degli agnati (parenti collaterali per linea maschile) e dei gentiles (appartenenti al più ampio raggruppamento di familiae indicato con il termine gens), ma ricorda solo implicitamente, dandola per presupposta, quella dei sui, ossia dei figli in potestà dell’ereditando (coloro cioè che, alieni iuris, sarebbero divenuti sui iuris con la morte di questi). Eppure la norma delle XII Tavole in esame (V.4.5), e ancor più esplicitamente l’interpretatio giurisprudenziale posteriore, lasciano chiaramente intendere che erano proprio questi gli eredi primi chiamati e che solo in assenza di essi dovevano venire alla successione agnati e gentiles, ossia le due categorie successive, espressamente ricordate dal testo decemvirale. Ebbene, l’omissione di una norma esplicita sulla successione dei sui non può considerarsi mero difetto di tecnica legislativa, ma piuttosto conferma del fatto che nella considerazione sociale, al di fuori e prima della stessa sanzione normativa, questi erano gli eredi preferiti nella successione al de cuius. Nulla era necessario statuire esplicitamente, ma era sufficiente un richiamo implicito, dato che il radicamento nella società del diritto dei sui era così profondo da esser considerato espressione naturale delle ragioni del sangue e dei vincoli parentali. Del resto ciò corrispondeva bene ai caratteri della famiglia romana arcaica (familia proprio iure, composta da padre, madre e diretti discendenti): questa era organismo unitario e tendenzialmente perpetuo, i cui continuatori naturali erano proprio i discendenti (ossia i figli nati da iustae nuptiae di un individuo maschio appartenente alla familia). Era a loro che spettava amministrare il patrimonio familiare e attendere ai culti domestici, assicurando così la preservazione degli elementi materiali e dei sostrati religiosi che assicuravano identità e sopravvivenza dello stesso istituto familiare. A questi presupposti economico-sociali ed etico-religiosi si adegua il regime
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ereditario, facendo dei sui, ossia dei figli sotto la immediata potestà del de cuius, prima ancora che gli eredi, i continuatori naturali della familia in forza del vincolo parentale che li unisce all’interno di essa. Ed è proprio in conseguenza di questo vincolo che essi non solo sono eredi del padre, ma lo sono auto- Sui come heredes maticamente e necessariamente senza bisogno di accettazione o necessarii possibilità di rinuncia (e in questo senso sono appunto denominati heredes necessarii). Del resto che nel regime della eredità arcaica siano i figli (sui) a dover venire alla successione del de cuius con preferenza rispetto agli altri successibili è testimoniato altrettanto chiaramente dal secondo dei versetti citati delle XII Tavole (V, 3 uti legassit suae rei, ita ius esto). Come suggerito dall’espressione legare ivi adoperata, esso infatti non avrebbe avuto come scopo quello di fondare l’istituto testamentario consentendo al de cuius di designare, con apposito atto – testamentum appunto – , un erede e assumere altre minori disposizioni mortis causa, quanto piuttosto quello di ammettere, riconoscendone la validità, disposizioni a titolo particolare (da cui poi l’espressione legatum di età storica). Quel Legare suae rei versetto non assegnava quindi una piena e illimitata libertà di disporre al de cuius, come ritenuto dalla posteriore elaborazione giurisprudenziale, ma anzi ne sanzionava una facoltà limitata avente a oggetto non il patrimonio del paterfamilias nel suo complesso (c.d. familia), ma quell’insieme limitato di cose che la norma decemvirale indicava come suae rei del disponente, ossia quei beni che avevano più diretto riferimento alla persona del de cuius costituendone i mezzi per sopperire alle ordinarie necessità (vesti, armi, cavalli e altre cose mobili). Si evidenzia così come la finalità perseguita fosse quella di non indebolire la consistenza del patrimonio familiare. I lasciti particolari (legata), destinati a persone diverse dagli eredi, potevano avere a oggetto solo beni determinati; la familia invece, ossia il patrimonio del paterfamilias nel suo complesso, era riservato ai figli (sui), a sottolineare ancora una volta la posizione privilegiata loro assegnata nel sistema successorio arcaico. La civiltà del V sec. a.C. ammetteva dunque che dati beni fossero nella assoluta disponibilità del pater, che in ordine a essi avrebbe potuto provvedere o inter vivos, per scopi di liberalità (donazione delle armi o del cavallo) o di necessità (assicurare un beneficio alla moglie non in manu), o mortis causa con disposizioni particolari (legata) a essi relative, ma tutto ciò senza che ne risultasse intaccata l’essenza del patrimonio familiare, destinato ad assicurare la continuità della famiglia nella persona dei sui. La possibilità di testare e le modalità secondo cui questa si realizzava risultavano, viceversa, piuttosto presupposte che regolate dal testo delle Dodici Tavole che, nel versetto esaminato in precedenza (V. 4.5), nell’indicare i soggetti chiamati si limitava a sottolineare come questi potessero venire alla successione in mancanza appunto di testamento (si intestato moritur). A questa assenza di indicazioni del testo decemvirale consente peraltro di sopperire la più tarda testimonianza delle Istituzioni gaiane (metà circa del II sec. d.C.). In esse il giurista dell’età degli Antonini ci informa come le più antiche forme di testamento utilizzate (e dunque
8 Testamentum calatis comitiis come forma di adrogatio
quelle presupposte dal testo decemvirale) fossero quelle comiziali, ossia realizzate davanti all’assemblea del popolo (comitia curiata) appositamente convocato (oltre che in via eccezionale, per i militari, davanti all’esercito schierato pronto per la battaglia: testamentum in procinctu). Tali forme, peraltro, presentavano singolari punti di contatto e in sostanza ricalcavano quelle utilizzate per l’antico rito della adrogatio, atto attraverso il quale un soggetto sui iuris si sottometteva alla potestà di un altro entrando a far parte della sua familia. Anche questo rito antichissimo si svolgeva infatti davanti all’assemblea del popolo, dato che l’estinguersi di un nucleo familiare (quello che faceva capo al soggetto arrogato) e l’assunzione di esso all’interno di un altro comportava conseguenze rilevanti sul piano economico, sociale e religioso, tali da coinvolgere l’intera civitas (spostamenti di risorse, modificazione della consistenza dei gruppi, estinzione dei sacra). Il fatto che la forma più antica di testamento, quello davanti ai comizi riuniti (calatis comitiis), ricalchi quelle modalità fa supporre che anche dal punto di vista sostanziale non dovesse esserci grande distanza quanto alle finalità perseguite. Ciò lascia presumere che il testamento comiziale si configurasse dunque come una sorta di adrogatio (atto cioè di adozione di un estraneo in qualità di figlio) e che di esso il pater potesse servirsi, sia pure in via eccezionale, in caso di assenza di discendenti maschi, per assumere un estraneo nella condizione di filius. Semmai l’unico elemento differenziale, peraltro affermatosi in progresso di tempo, stava nel fatto che, mentre l’adrogatio produceva effetti immediati, questi erano ritardati alla morte del pater in caso di testameno comiziale. Quel che rileva però è il dato di fondo, che risulta confermato dalla assimilazione sostanziale dei due istituti (adrogatio e testamentum calatis comitiis), ossia come fossero proprio i figli gli eredi che in età arcaica il sentire sociale considerava come i naturali continuatori della persona del pater e coloro cui era riservato il complesso del patrimonio familiare. Questo insieme di beni, che era rimesso alla disponibilità del Familia come pater, è indicato nella legislazione decemvirale con il termine famipatrimonio familiare lia, che pertanto sta a designare tanto la comunità di persone libere che si stringe attorno alla persona del pater quanto il sostrato economico di quella comunità, ossia il patrimonio familiare in senso più strettamente inteso. Di esso fanno parte, oltre agli immobili, i beni destinati allo scambio e, tra essi, il bestiame prima (pecus nella lingua latina), i beni mobili e in specie il denaro poi, cui per estensione è riservata la denominazione specifica di pecunia. Ma anche questi – e dunque la pecunia nel suo complesso – concorrono a comporre il patrimonio familiare e dunque finiscono per essere assorbiti nel termine comprensivo familia che le XII Tavole si limitano a utilizzare per indicare l’insieme dei beni facenti capo al de cuius. Sarà soltanto più avanti, sul finire della Repubblica, quando il denaro avrà ormai definitivamente assunto il ruolo di unità di misura dei valori all’interno di una economia sempre più centrata sullo scambio, che il termine pecunia assumerà un valore equivalente a familia, trovando sempre più ampia diffusione nelle leggi e nella pratica. In questo quadro anche l’espressione familia pe-
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cuniaque, ricorrente nell’uso comune in età postdecemvirale, più che indicare elementi contrapposti, riferentisi alla distinzione tra res mancipi e nec mancipi, appare espressione comprensiva volta a descrivere il tutto attraverso l’indicazione delle parti componenti e dunque ancora una volta la familia nel suo insieme. Questa è oggetto di successione, ed è questa che spetta in prima battuta ai discendenti del de cuius. Essi sono infatti, come sottolinea Gaio, sui heredes, ossia 5 heredes domestici , stanno con il pater, sottostanno alla sua potestas, in conformità all’uso del termine suus che indica in genere i dipendenti, i seguaci di una persona, e vivono nella sua casa. È in conseguenza di questa comunità di vita domestica, che li rende quodammodo domini, ossia quasi titolari del patrimonio familiare già in vita del de cuius, che essi debbono venire alla successione di questo, e con preferenza rispetto agli altri chiamati. La loro è una continuatio Continuatio dominii più che una hereditas vera e propria, e il suo fondamento è dominii dei sui in un’idea di famiglia come nucleo compatto di cui sono ugualmente partecipi avente potestà (ossia pater familias) e soggetti a potestà (filii familias), amministratore dei beni domestici e amministrati. Di qui l’acquisto necessario (senza possibilità di rinuncia) dei sui heredes e le limitazioni, in presenza di questi, delle facoltà di disporre mortis causa del pater familias (cui avrebbe corrisposto analogo divieto di alienazione per atto inter vivos degli immobili, in particolare dell’heredium, così chiamato perché destinato appunto a passare all’erede, 6 secondo l’attestazione di Varrone . Al pater è riservata la sola facoltà di provvedere in merito alla sua res, ossia ai beni di sua stretta pertinenza, esclusa ogni possibilità di privare gli heredes sui delle loro aspettative successorie in merito alla familia (in particolare, come visto sopra, ricorrendo alla diseredazione o alla nomina di eredi estranei, data l’impossibilità di servirsi del testamentum calatis comitiis a scopo di adozione in presenza di sui). Ma la stessa solidarietà familiare e la forza del vincolo parentale che determinano la particolare collocazione dei sui nel regime della successione arcaica spiegano anche la posizione e le modalità dell’acquisto ereditario di Acquisto necessario agnati e gentiles. A norma infatti del versetto delle Dodici Tavole di agnati e gentiles V. 4.5, sopra ricordato, in mancanza di sui a venire alla successione è l’agnatus proximus, la cui presenza esclude quella dell’agnato di grado più remoto e, in assenza anche di questi, sono chiamati i gentiles, cui l’eredità viceversa è devoluta collettivamente. Di entrambe queste categorie si dice che familiam habento, ossia che abbiano il patrimonio ereditario, mentre è ai sui che nel testo 5
Gai 2.157: sui … heredes ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quodammodo domini existimantur: unde etiam si quis intestatus mortuus sit, prima causa est in successione liberorum, “si chiamano eredi propri, perché sono eredi di casa, ed anche in vita del genitore in certo modo sono considerati padroni: per cui, anche se uno sia morto senza testamento, il primo titolo alla successione l’hanno i discendenti”; cfr. pure D.28.2.1 (Paul. 2 ad Sab.). 6 Varr. de re rust. 1.10.2: …Bina iugera quod a Romulo primum divisa dicebantur viritim, quae heredem sequerentur, heredium appellarunt; “gli appezzamenti di due iugeri che si dice Romolo abbia per primo diviso individualmente, seguendo l’erede sono chiamati heredium”.
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decemvirale è riservata la qualifica di heredes. Questo potrebbe lasciar supporre una diversità di posizione nel regime della successione arcaica tra agnati e gentiles da un lato e sui dall’altro. In realtà sono le stesse esigenze di preservazione degli elementi economici ed etico-religiosi del nucleo familiare a far ritenere che la posizione dei primi non dovesse differire gran che da quella dei secondi. In mancanza di sui restava pur sempre appannaggio degli altri appartenenti al nucleo familiare provvedere a gestire le risorse economiche e i culti della comunità domestica: questo spiega come presumibilmente anche il loro acquisto fosse, come quello dei sui, necessario. Ciò è testimoniato dal carattere tassativo della stessa espressione familiam habento, che fa pensare a un acquisto automatico, che prescinda cioè da un atto di accettazione; dalla regola per cui l’agnato prossimo esclude il più remoto, che sembra lasciar presupporre la definitività dell’acquisto del primo senza possibilità di rinuncia; dall’attribuzione della tutela legittima all’agnato prossimo ipso iure senza necessità di accettazione e con la sola possibilità di effettuare in iure cessio (ossia cessione di diritto o potere già acquistato); e in ultimo dall’assenza in età arcaica di istituti idonei a sopperire alla situazione di vacanza ereditaria (assenza di eredi), alla quale si intese far fronte appunto attraverso la necessaria attribuzione agli agnati. Un regime dunque, quello della eredità decemvirale, che nel suo complesso poggia su un concetto di famiglia come entità unitaria e solidale e giustifica l’attribuzione agli appartenenti al gruppo familiare dell’hereditas nel suo insieme di aspetti patrimoniali e religiosi. È in particolare dal vincolo di solidarietà familiare destinato a proseguire di generazione in generazione, assicurando la conservazione e insieme la persistenza del gruppo, che discendono gli aspetti più caratteristici del regime ereditario decemvirale che si sono venuti delineando. Anzitutto è il legame faSolidarietà familiare miliare, prima ancora che quello parentale, a determinare la devocome presupposto luzione dell’eredità (come testimonia l’appartenenza ai sui degli del regime adottati, non legati da un vincolo parentale se non fittizio). Quesuccessorio sta spetta infatti ai sui proprio per la loro appartenenza alla familia 7 proprio iure e spetta agli agnati in quanto componenti la familia communi iure . Il vincolo parentale viene in considerazione, ma in via mediata, in quanto l’agnatio è fondamento dell’appartenenza alla familia proprio iure, mentre il vincolo di parentela puro e semplice, la cognatio, non ha rilevanza alcuna in materia ereditaria. E che l’eredità sia una vicenda familiare che spetta in primo luogo agli appartenenti alla familia è dimostrato dalla disciplina del regime dei rapporti che a questa fanno capo. L’hereditas coinvolge infatti tutti gli elementi della vita familiare, quelli patrimoniali, i sacra, il diritto al sepolcro, il patronato e l’insieme dei rapporti obbligatori che facevano capo al de cuius (dei quali erano trasmissibili quelli 7
Famiglia allargata che unisce tutti coloro che conservano precisa memoria della discendenza da un capostipite comune e possono ricostruire con esattezza le linee di parentela. Per sui ed agnati, in particolare, come indisponibile e necessaria è l’appartenenza al gruppo familiare così pure necessaria e indisponibile è la chiamata all’eredità.
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da atto lecito, esclusi quelli da delitto). Dei più rilevanti tra questi l’erede proprio, ossia il suus, è compartecipe già durante la vita del padre: così di quelli patrimoniali, in ordine ai quali ha una sorta di comunione familiare (consortium ercto non cito, ossia ‘proprietà non divisa’); dei sacra, dei quali condivide i riti; del patronato, che in quanto fondato su una quasi agnazione (il patrono era infatti considerato quasi padre del liberto in quanto, non permettendo la servitù legami parentali, solo al patrono poteva esser attribuita quella qualità) non può essergli tolto. Questa partecipazione ai più rilevanti rapporti del gruppo già in vita Sui come del pater comporta che questi non possano che spettare ai filii (sui) continuatori alla morte di quello. Ed essi più che subentrare al pater, succedere a questo, ne sono piuttosto, come visto, i continuatori, sono essi in sostanza gli eredi cui è rimesso assicurare la continuità familiare. Diversa la posizione degli agnati: anche questi subentrano per il vincolo che li unisce all’interno del nucleo familiare (sia pure allargato: familia communi iure), ma in quanto parenti in linea collaterale, già dotati di propria autonomia giuridica, non partecipano dei rapporti facenti capo al paterfamilias, né assicurano la persistenza dell’orAgnati come ganismo familiare (che si spezza in mancanza di sui). Essi sono successori piuttosto dei successori, in quanto subentrano in rapporti di cui non sono mai stati compartecipi, assicurandone la sopravvivenza sul presupposto di quella solidarietà agnatizia che non permette che i beni del de cuius vadano dispersi e li attribuisce al gruppo di cui il defunto faceva parte. Se con i sui dunque più che una successio si realizza una continuazione della familia, è con l’eredità agnatizia che il concetto di successione in quanto tale trova più compiuta affermazione. 2b. Regime postdecemvirale A questo regime, ancora improntato al carattere chiuso e patriarcale della familia primitiva, rilevanti trasformazioni vengono apportate in età postdecemvirale, soprattutto grazie all’interpretazione giurisprudenziale, come conseguenza dell’allentarsi dei vincoli che avevano costituito il fondamento della disciplina precedente. Mentre infatti il regime dell’eredità arcaica si svolgeva tutto all’interno dell’istituto familiare e costituiva espressione precipua del principio di solidarietà, per cui alla prosecuzione dei rapporti che facevano capo al paterfamilias erano chiamati necessariamente (e senza possibilità di rinuncia) anzitutto i figli in potestà (sui) in quanto naturali continuatori e compartecipi della familia (specie se rimasti uniti nel consortium domestico), e in secondo luogo gli agnati, componenti il nucleo allargato e come tali successori nei rapporti della familia al fine di evitarne la dispersione, a una attenuazione del principio di compartecipazione domestica (riferibile ai sui) e a un superamento della solidarietà agnatizia si rivolge invece il regime postdecemvirale. Da un lato si ammette infatti, a temperamento della compattezza della familia proprio iure, che il pater possa fare della testamento in favore di estranei, anche in presenza di sui, attraver- Superamento solidarietà agnatizia so il ricorso a un nuovo tipo di atto privato, la mancipatio familiae,
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destinata col tempo a trasformarsi in vero e proprio testamento; dall’altro si spezza il vincolo di solidarietà agnatizia consentendo agli agnati di evitare gli effetti dell’acquisto necessario col permettere il trasferimento ad altri dei loro diritti (in iure cessio hereditatis), differenziando così la loro posizione da quella dei sui. In conseguenza di queste trasformazioni il potere di disposizione del pater nell’ambito della successione per testamento subisce un significativo rafforzamento. Esso non risulta più rigidamente limitato dalla presenza di sui (rendendosi possibile un sempre più frequente ricorso alla nomina di eredi estranei), di modo che le basi stesse dell’antica solidarietà familiare ne risultano intaccate. Ma ancor più rilievo assume il superamento dei vincoli di solidarietà agnatizia nell’ambito della successione senza il testamento. Una volta venuta meno, infatti, la considerazione dell’agnatio come segno e fondamento dell’appartenenza a un gruppo familiare (familia communi iure) e ridotta essa a puro e semplice legame di parentela, viene altresì a mancare ogni giustificazione alla condizione preferenziale accordata agli agnati e, risultando la loro posizione analoga a quella degli altri parenti, vengono a crearsi i presupposti per una effettiva rilevanza della cognatio, ossia della parentela di sangue in quanto tale. In connessione a risultare scosso è il principio stesso della necessarietà dell’acquisto ereditario: questo, giustificato con riferimento ai sui dalla loro qualità di continuatori naturali della familia del pater, non ha più ragion d’essere in confronto agli agnati, per i quali si impone (come per gli eredi estranei) il diverso principio della volontarietà dell’acquisto, determinando in conseguenza l’affermarsi dei nuovi istituti della accettazione e della rinuncia all’eredità. Si tratta di sviluppi la cui evoluzione, avvenuta nell’arco di secoli, può peraltro essere ricostruita nelle linee essenziali del suo svolgimento storico. E intanto, quanto all’ampliamento dei poteri di disposizione del pater nell’ambito della successione testamentaria, questi trovano fondamento proprio nelle nuove forme di testamento che andarono affermandosi in età postdecemvirale. Alle forme pubblicistiche del testamentum calatis comitiis e del Nuove forme testamento in procinctu (davanti all’esercito schierato) si sostituidi testamento scono infatti le due forme private della mancipatio familiae e del testamentum per aes et libram (che della prima costituisce sviluppo ed evoluzione). Le ragioni di questo cambiamento sono da rintracciarsi nel lavorio della giurisprudenza pontificale che, di fronte alla utilizzabilità limitata delle forme arcaiche di testamento (attraverso le quali era solo possibile creare una fittizia discendenza in mancanza di sui), si era avvalsa della facoltà di interpretatio ad essa riservata per adattare le forme di un istituto arcaico, quale l’antico negozio formale e solenne di mancipatio, a scopi nuovi, che non fossero quelli del semplice trasferimento inter vivos di beni. Vari erano i presupposti che stimolavano tale evoluzione: anzitutto ragioni di opportunità, legate da un lato alla possibilità di consentire a chi si trovasse in imminente pericolo di vita e non potesse attendere la convocazione dei comizi (che avveniva in date predeterminate e fisse, il 24 marzo e il 24 maggio) di
Rafforzamento del potere del pater
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poter fare ugualmente testamento, dall’altro alla necessità di provvedere alle istanze del ceto plebeo, per il quale era difficile l’accesso alle forme comiziali di testamento (data la sua tendenziale estraneità alle forme assembleari arcaiche). A queste, altre ragioni di carattere più strettamente sostanziale si aggiungevano: la necessità per il pater di provvedere a persone prive di diritti successori secondo il sistema arcaico, quali le vedove (sposate sine manu e quindi senza forme certe di sostentamento), ovvero l’esigenza di stabilire un trattamento differenziato in caso di pluralità di sui, senza obbedire al regime paritario della successione ab intestato. E ancor più si faceva sentire l’esigenza di consentire che il pater potesse istituire eredi soggetti estranei anche in presenza di sui, accanto a essi o in loro sostituzione. Tutto questo implicava una profonda evoluzione verso forme testamentarie che permettessero al de cuius di disporre a suo piacimento dell’intero patrimonio familiare con eventuale esclusione dei sui, e il cui fulcro fosse l’istituzione di erede. I fondamenti di tale sviluppo possono rintracciarsi nella stessa legislazione delle XII Tavole e risiedevano, in particolare, in due noti versetti, quello sulla nuncupatio, ossia sulle dichiarazioni orali all’interno dei negozi formali e solenni, per cui ciò che era affermato dalle parti era vincolante per esse (VI.1: Cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto, ossia “quando si ponga in essere un negozio formale di obbligazione – nexum – o un atto traslativo di proprietà – mancipium – , come la lingua ha detto solennemente, così sia il diritto”), e quello sul legato, che sanciva la possibilità per il de cuius di disporre con apposita dichiarazione del suo patrimonio personale (V. 3: Uti legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius esto, cioè “ come il testatore ha disposto a titolo particolare – legassit – in ordine al suo patrimonio o ha disposto in ordine alla tutela, così sia il diritto”). Era in particolare dal primo che derivava la possibilità di un più largo impiego della mancipatio. Con esso si sanciva infatti la vincolatività delle clausole accessorie, ossia degli accordi privati stabiliti in occasione della conclusione dei negozi solenni dell’antico ius civile (fuori dallo schema tipico dell’atto). Da qui traeva origine l’istituto della mancipatio familiae: in forza di esso il Mancipatio familiae pater che intendeva disporre del proprio patrimonio, e che nel rito della mancipatio assumeva il ruolo di mancipio dans, alienava fiduciariamente (nummo uno, ossia a prezzo simbolico) la familia a un mancipio accipiens, cui era riservata la denominazione di familiae emptor. Questi ne acquistava la titolarità soltanto fiduciaria, che non gli consentiva di disporre dei beni, ma che aveva solo scopo di custodia (Gaio usa il termine custodela) al fine di realizzare l’incarico affidato dal mancipio dans. Questo era precisato nelle leges mancipii, clausole accessorie che integravano il contenuto della mancipatio e la cui vincolatività era appunto sancita dal versetto delle XII Tavole sopra richiamato (VI.1: uti lingua nuncupassit …). Era in base a esse che il mancipio accipiens sarebbe stato tenuto a distribuire le sostanze dopo la morte del disponente. L’atto era dunque inter vivos, ma le disposizioni dettate dal pater familias erano destinate a esser attuate dopo la sua morte e dunque erano mortis causa. D’altra parte il fondamento di tale efficacia stava proprio nel secondo versetto delle XII Tavole sopra richiamato (V. 3 uti
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legassit …). Con esso si era già consentito al pater familias di dettare disposizioni in ordine ai suoi beni personali per il tempo successivo alla sua morte: naturale che ne potesse derivare anche l’efficacia mortis causa delle disposizioni accessorie dettate in sede di mancipatio familiae. Dalla natura di questa, quale negozio fiduciario, discendeva anche la particolare posizione del familiae emptor. Questi non 8 rivestiva ancora, come sottolineato da Gaio , la qualità di erede, ma era loco heredis, non riceveva il patrimonio alla morte del pater familias per tenerlo per sé, ma per disporne secondo quanto prescritto dal mancipio dans. La facoltà di disporre del pater (mancipio dans) non poteva però essere illimitata: il contenuto della mancipatio familiae, in particolare, non poteva violare del tutto i diritti che l’antico sistema successorio riconosceva ai sui, non doveva cioè essere apertamente contra legem. Di qui una limitazione che in età classica sarà puntualizzata nella regola per cui sui aut instituendi aut exheredandi sunt, ma che già nell’età considerata si do9 veva tradurre in una certa salvaguardia del diritto dei sui . Questa disciplina non si estendeva però ai rapporti non patrimoniali (in particolare culti familiari) facenti capo al pater familias, che rimanevano estranei a ogni atto dispositivo di questi e riservati alla cerchia dei familiari in quanto tali. Più avanti, nel corso della stessa età preclassica, il regime della Testamentum mancipatio familiae subisce una radicale trasformazione, che porta per aes et libram al testamentum per aes et libram. In esso la forma esteriore rimane quella precedente (mancipatio): il familiae emptor, tuttavia, non è più il protagonista dell’atto, ma diventa un soggetto fittiziamente adibito a consentire il mantenimento della struttura esterna adottata per esso (mancipatio). L’atto risulta essere ormai di disposizione unilaterale mortis causa da parte del testatore e ha il proprio centro nella heredis institutio, che ne costituisce caput et fundamentum. L’origine di tale clausola (nomina di erede) rimane incerta: si può tuttavia supporre con qualche verisimiglianza che avesse un precedente, già in seno alle forme 10 arcaiche di testamento , nella clausola che consentiva al testatore di conferire a un estraneo il potere di familiam habere al posto dell’agnatus proximus e dei gentiles, la cui posizione, nel frattempo, si era andata progressivamente assimilando a quella dei sui heredes. Sorgeva così la caratteristica relazione inscindibile tra testamentum ed heredis institutio, cui conseguiva che, come la mancipatio familiae non poteva stare senza familiae emptor, così il testamentum per aes et libram non poteva esistere senza heredis institutio. Ma come in quella (mancipatio familiae) la facoltà di disposizione del de cuius non poteva essere senza limiti, così nel testamentum 8
Gai 2.103. Del resto, già con riferimento al testamento calatis comitiis inteso come forma di adrogatio, l’impossibilità di testare in presenza di sui trovava giustificazione nella salvaguardia che in favore di questi era stabilita nel regime stesso della adrogatio, della quale era esclusa l’applicazione – Gell. 5.19.6 – nel caso in cui l’arrogante fosse ancora capace di generare o, a fortiori, avesse già figli. 10 Forse già nel testamentum calatis comitiis in conseguenza dell’applicazione del versetto delle XII Tab. 5.3 sui legati e le altre disposizioni minori. 9
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per aes et libram a essere erede, cioè successore a titolo universale, anche in presen11 za di sui, poteva essere un estraneo, purché il suus venisse però diseredato . Nonostante tale vincolo, la facoltà di disposizione riconosciuta al testatore a seguito di tale sviluppo risultava particolarmente ampia. Superati i limiti della disciplina decemvirale, riconosciute nuove forme di testamento e attraverso queste una più efficace possibilità di dettare criteri per la propria successione, il testatore poteva ormai esercitare una larga discrezionalità, istituendo eredi estranei con i sui e al posto dei sui e soprattutto lasciando legati, ossia disposizioni relative a singoli cespiti, capaci di assorbire tutto o gran parte dell’asse ereditario, generando quel pericolo di vanificazione dell’istituzione stessa di erede (rendendo cioè inane il nomen heredis, come affermato da Gaio 2.224) che sarà a base delle disposizioni restrittive (dei legati) adottate in seguito. Tale ampliamento dei poteri restava comunque circoscritto alla sfera patrimoniale: negli altri ambiti invece, e in particolare in quello dei sacra, rimaneva intangibile il diritto dei familiari, determinando così un diversificarsi del regime ereditario. Mentre infatti degli aspetti patrimoniali si occupava il pater disciplinando quella che si configurava come una vera e propria successio nei rapporti che a lui facevano capo, gli altri rapporti erano sottoposti a una mera continuità riservata agli appartenenti al nucleo familiare. Ciò senza che venisse intaccata la natura di atti di disposizione totale delle nuove forme di testamento. Già per la loro forma esterna, e in particolare per il contenuto della dichiarazione resa dal familiae emptor che riguarDelazione dava l’intero patrimonio del disponente, esse si manifestavano in- testamentaria e fatti come atti relativi alla successione del de cuius nella sua inte- ab intestato: rezza. E questo non poteva che importare riflessi di grande rilievo incompatibilità sul regime successorio. Se infatti il testatore non avesse inteso disporre con l’heredis institutio dell’intero suo patrimonio, non vi sarebbe stato comunque spazio per una delazione parziale a favore degli eredi ab intestato, dato che la disposizione totale sarebbe comunque risultata dalle formalità esterne che costituivano la caratteristica propria dell’atto testamentario. Da qui lo spazio per l’affermarsi progressivo di nuovi principi e in particolare della regola che vietava il concorso fra forme diverse di delazione; in base a essa nemo pro parte testatus pro 12 parte intestatus decedere potest , nessuno, cioè, può morire in parte secondo quanto disposto nel suo testamento in parte in base a quanto stabilito dalla legge. Se al superamento del vincolo di compartecipazione familiare avevano concorso le nuove forme di testamento e la possibilità in esse prevista della exheredatio dei sui, ad attenuare il legame di solidarietà agnatizia contribuisce un altro istitu11
Egli doveva cioè essere espressamente escluso con una solenne dichiarazione imperativa del pater familias, elaborata già dall’interpretatio pontificale, che sottraeva a tutti o alcuni sui heredes tale qualifica e i cui precedenti forse risalivano ad analoga dichiarazione inserita nel testamentum calatis comitiis, come premessa all’adrogatio mortis causa di un estraneo. 12 Cfr. in proposito Cic. de inv. 2.21.63; D. 50.17.7 (Pomp. 3 ad Sab.); I. 2.14.5.
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to, presente ancora in età classica e ricordato da Gaio : quello della in iure cessio hereditatis (“cessione di eredità davanti al magistrato”). Esso in età classica permetteva al delato ex lege (cioè al chiamato non ancora accettante, privo della qualità di suus heres) di trasferire ad altri l’hereditas a lui deferita, di modo che il cessionario diventasse erede e quindi titolare di tutti i diritti nonché responsabile per i debiti. Il meccanismo era quello della in iure cessio, per cui di fronte alla rivendica del cessionario esercitata nelle forme della hereditatis petitio (azione di rivendica dell’eredità) l’alienante non si opponeva, consentendo così l’addictio da parte del magistrato. Questo regime, se da un lato consente di meglio spiegare la posizione successoria rivestita in età arcaica dagli agnati, perché solo alla luce di quella se ne possono comprendere le particolarità, dall’altro è presupposto dell’ulteriore sviluppo della disciplina a essi applicata in età postdecemvirale. Sotto In iure cessio il primo profilo l’istituto della in iure cessio presentava infatti una hereditatis grave incongruenza, che solo il regime arcaico della successione degli agnati consentiva di spiegare. La possibilità per il cedente di trasferire in capo al cessionario il diritto ereditario (ius hereditarium) urtava infatti, almeno apparentemente, secondo il regime operante in epoca classica, contro un ostacolo di fondo: egli avrebbe dovuto trasferire una titolarità che, in quanto delato (e quindi semplice chiamato non accettante), non aveva ancora acquistato, in contrasto con i presupposti propri della in iure cessio, che richiedeva che il cedente avesse il diritto che intendeva trasferire (o fosse in grado di costituirlo, es. usufrutto). In realtà questa singolarità trova spiegazione nelle particolarità proprie del Eredi necessari ed regime arcaico, in cui l’agnatus proximus assumeva la veste di gaeredi volontari rante della preservazione della familia (in mancanza di sui) e, dunque, acquistava ipso iure l’hereditas (in analogia a quelli). In quanto divenutone titolare, egli poteva dunque senza difficoltà cederla ad altri. Questa disciplina costituisce peraltro il presupposto di una importante evoluzione del sistema successorio. Il regime privilegiato della in iure cessio hereditatis, che permetteva al delato ex lege di trasferire l’eredità come tutto, si giustificava infatti con l’esigenza di liberare l’agnato prossimo dal peso dell’acquisto necessario, consentendogli di trasferire l’hereditas all’agnato meno prossimo, o a chiunque fosse disposto ad acquistarla. Egli, in sostanza, a differenza del suus, non assumeva più la veste di continuatore necessario della familia, determinando così l’affermarsi di una diversa concezione che sempre più andava prescindendo dalla salvaguardia dei vincoli familiari. Se la mancipatio familiae e il testamentum per aes et libram permettevano l’istituzione di eredi estranei, l’applicazione della in iure cessio hereditatis portava in età postdecemvirale a consentire all’agnato di allontanare da sé un’eredità non gradita. E questo, rompendo il nesso in origine imprescindibile tra familia ed hereditas, toglieva giustificazione all’acquisto necessario per essi previsto. Heredes necessarii restavano, in questo quadro, solo i sui (e gli schiavi ma13
Gai 3.85, 86 e 87.
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nomessi nel testamento e istituiti eredi), mentre agli agnati spettava ormai la qualità di eredi volontari. Assumono conseguentemente rilievo gli istituti dell’accettazione e rinuncia dell’eredità. Essi, inutili nel regime della mancipatio familiae per cui il familiae emptor era tenuto a trasmettere solo con atti inter vivos i beni ereditari, trovano spazio con l’affermarsi del testamentum per aes et libram come negozio mortis causa cui il chiamato non suus può aderire o meno, e hanno applicazione anche in relazione alla delazione ab intestato a seguito della possibilità per gli agnati di venire o meno alla successione del de cuius. Si sviluppano così diverse forme di accettazione dell’eredità: dalla semplice presa di possesso di cose ereAccettazione ditarie, la c.d. aditio hereditatis, alla pro herede gestio, consistente dell’eredità nel compimento di atti di gestione del patrimonio ereditario, alla dichiarazione verbale solenne di voler accettare l’eredità costituita dalla cretio. L’affermarsi di tali forme di accettazione e la presenza conseguente di eredi volontari portò però in evidenza un altro problema senz’altro risalente, ossia quello della usucapione delle cose ereditarie. Poteva infatti accadere che altri, in assenza di una presa di possesso da parte degli eredi chiamati, si appropriasse dei beni ereditari. Ma questo, giusta l’applicazione delle regole della usuca- Usucapio pro herede pione ordinaria, che in presenza dei requisiti di possesso, tempo e assenza di furto consentiva l’acquisto di singole cose ereditarie e non dell’hereditas nel suo complesso, avrebbe comportato un grave problema. Il terzo estraneo infatti, che avesse posseduto per il tempo richiesto, avrebbe usucapito, ma in quanto divenuto titolare di singoli beni non avrebbe assunto gli oneri ereditari, che avrebbero continuato a gravare sugli eredi se esistenti, ovvero sarebbero rimasti inevasi in caso di eredi rinuncianti o non accettanti. Proprio la necessità di ovviare a tali inconvenienti e di evitare che, nell’incertezza circa l’accettazione da parte degli eredi volontari (agnati non sui ed estranei), l’hereditas potesse rimanere vacante con conseguente pregiudizio per la continuazione dei sacra familiari portò la giurisprudenza alla introduzione di un nuovo istituto, l’usucapio pro herede appunto. Con questa, infatti, che si compiva in un anno e aveva a oggetto l’hereditas come complesso unitario, si poté porre rimedio a quelle difficoltà, garantendo da un lato la soddisfazione delle aspettative dei creditori ereditari, cui in ogni caso l’usucapiente, quale erede, avrebbe dovuto far fronte, e dall’altro limitando le conseguenze del possibile verificarsi della vacanza ereditaria coll’assicurare comunque un successore universale capace di proseguire nei rapporti anche non patrimoniali facenti capo alla familia. Il tutto a completamento di uno sviluppo che, intendendo ovviare allo stato di incertezza determinato dal frequente ricorrere di eredità vacanti o giacenti in conseguenza di una sempre più ampia presenza di eredi volontari – effetto dell’accentuarsi della distinzione tra questi, agnati o estranei che fossero, e gli heredes necessarii (sui e schiavi manomessi) – , può ritenersi concluso alla metà del III sec. a.C., dato che un decreto in materia di sacra, ricordato
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da Cicerone , di Tiberio Coruncanio, primo pontefice massimo plebeo nel 254 a.C., ne dava per presupposta l’esistenza. Sarà soltanto nel momento in cui, intorno alla metà del II sec. a.C., alla responsabilità personale per debiti si sostituirà la nuova forma della responsabilità patrimoniale (per cui i creditori potranno ottenere la bonorum venditio del patrimonio ereditario indipendentemente dalla presenza di un erede) che muterà la struttura stessa dell’istituto, il cui effetto non sarà più quello di fare acquistare l’hereditas nel suo complesso e conseguentemente il titolo di erede (affinché ci fosse chi potesse rispondere dei debiti ereditari), ma quello di procurare l’acquisto di singoli beni ereditari con la finalità di esercitare una forma di coazione indiretta a una sollecita aditio ed evitare così il pro15 trarsi della giacenza ereditaria . L’allentarsi dei legami che in antico stabilivano una stretta correlazione tra fenomeno successorio e vincoli familiari già evidente in tutto lo sviluppo del sistema ereditario descritto, e in particolare nel regime della usucapio pro herede, trova poi ulteriore espressione nel regime dei sacra. Anche per questi una serie di decreti dei pontefici, risalenti al periodo fra III e II secolo a.C. (Tiberio Coruncanio e P. Mucio Scevola, cfr. infra), sanciscono il progressivo allargamento degli onerati al di fuori della cerchia strettamente familiare, a ricomprendere un novero sempre più ampio di soggetti estranei. E se in origine la legittimazione ai Regime dei sacra sacra spettava agli heredes in quanto questi erano i più stretti familiari del de cuius e la religione era familiare, già intorno alla metà del III sec., con il primo decreto pontificale attribuito a Tiberio Coruncanio (254 a.C., durante la prima guerra punica in cui molti romani morirono e si rese necessario provvedere a un numero sempre più ampio di eredità vacanti e alla conseguente sorte dei sacra) questa venne estesa oltre quella cerchia, a ricomprendere, in assenza di eredi, l’usucapiente pro herede e i legatari. Con il secondo decreto dei pontefici, attribuito a P. Mucio Scevola (130 a.C. circa), quel distacco si rese ancora più evidente e marcato e, in assenza degli ordinari soggetti tenuti (eredi e legatari), l’onere dei sacra venne posto a carico degli usucapienti singoli beni ereditari o del bonorum emptor o dei debitori liberati. L’esigenza di assicurare che i sacra non venissero abbandonati impone dunque ai pontefici di basarla su nuovi presupposti e questi vengono individuati nel semplice dato della percezione del patrimonio ereditario o di parti di esso. A ogni acquisto o lucro derivante dal compendio ereditario i pontefici legano l’onere dei sacra, nel disperato tentativo di mantenere viva una tradizione che, nonostante gli 14
Cic. de leg. 2.21.52. Se da un lato, poi, a vanificare ulteriormente la finalità originariamente perseguita interverrà agli inizi del Principato il regime pubblicistico dei beni vacanti introdotto dalla lex Iulia che li destinava all’erario, dall’altro un qualche spazio di applicazione all’istituto come modo di acquisto della hereditas nel suo complesso sarà conservato, sul finire della Repubblica, nel regime della bonorum possessio, per cui il successore con titolo meramente pretorio potrà diventare dominus ex iure quiritium delle cose ereditarie in un anno, in forza appunto della usucapio pro herede. 15
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sforzi, appariva già indebolita, dato che molti tra i romani consideravano ormai una fortuna l’hereditas sine sacris e tentavano, quando potevano, di sottrarsi agli oneri imposti dai pontefici. 2c. L’ultima età repubblicana Se l’allentarsi dei rapporti legati alla solidarietà familiare segnava lo sviluppo degli istituti successori in senso sempre più marcatamente estraneo al rispetto degli stretti vincoli che da quei legami discendevano, questo non poteva comportare che l’ampia discrezionalità di disporre riconosciuta progressivamente al de cuius (salvo il vincolo puramente formale della istituzione o diseredazione dei sui) potesse essere accettata senza limiti. La necessità di salvaguardare l’integrità del patrimonio familiare e di garantirne la trasmissione ai figli, che di norma ne costituivano i naturali continuatori, non mancò infatti di farsi sentire, sino a imporre una serie di vincoli che sul finire della Repubblica trovarono la loro esplicitazione in alcuni plebisciti. Con essi si imposero limiti alla libertà di dialla libertà sporre per legati, stabilendo prima con una lex Furia (di data sco- Limiti di disporre nosciuta ma probabilmente da attribuirsi agli inizi del II sec. a.C.) che questi non potessero superare i 1000 assi, poi con una lex Voconia (del 169 a.C.) che al destinatario dell’atto di liberalità non potesse spettare più di quanto conseguito dall’erede e infine con una lex Falcidia del 40 a.C. che il testatore non potesse disporre in legati per più di tre quarti del suo patrimonio, ferma restando l’attribuzione all’erede del residuo quarto. Con una specifica disposizione della lex Voconia si intervenne poi in materia di heredis institutio, vietando ai cittadini che avessero un patrimonio di almeno 100.000 assi di istituire eredi le donne. Al di là dei provvedimenti specifici nuova era la ratio che ispirava queste disposizioni. Ed essa, oltre o più che nell’arcaica tutela della familia in funzione di una continuità della comunità domestica, era da rintracciarsi nell’esigenza economica di salvaguardia del patrimonio contro dissipazioni e spese eccessive in funzione della conservazione della sua integrità. Emblematica in questa direzione la disposizione della lex Voconia sull’esclusione delle donne: si voleva così impedire, col pretesto della loro dissennatezza, che ingenti patrimoni finissero nelle loro mani. Le liberalità (legati) disposte in maniera eccessiva disperdevano il patrimonio, danneggiando in particolare i figli in quanto successori del padre, gravavano eccessivamente gli eredi rendendo inutile la loro stessa institutio (almeno fino a che ai sui non fu riconosciuto lo ius abstinendi, per gli altri era sufficiente la facoltà di rinuncia), mettevano in pericolo la stessa efficacia dei testamenti, gratificavano beneficiari che spesso ricevevano senza merito. Contro questi inconvenienti si dirigono le disposizioni ricordate, nella prospettiva più generale di una disciplina dell’assoluta libertà di disporre del de cuius cui sotto profili diversi e con ancora maggiore efficacia altri istituti cercheranno di imporre limiti più penetranti (bonorum possessio contra tabulas e querela inofficiosi testamenti, su cui infra). Ma non sono solo gli ampi poteri riconosciuti in età postdecemvirale al testa-
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tore a suscitare la necessità di una disciplina rinnovata sul finire della Repubblica. In quell’età si manifesta infatti un’esigenza altrettanto avvertita di superamento dei condizionamenti imposti dal formalismo arcaico, in particolare riguardo al testamento, e la necessità di un nuovo ordinamento della successione ab intestato capace di distaccarsi dalle antiche idee di solidarietà familiare, che avevano circoscritto l’hereditas all’interno della familia (sui e agnati) o della gens, per assicurare un diritto di successione a soggetti che quel vincolo avevano rotto (figli emancipati) o del quale non erano stati in senso stretto partecipi (cognati, estranei alla qualifica agnatizia). Protagonista di questo sviluppo è il pretore, che attraverso un Bonorum possessio istituto di origine processuale, la concessione del possesso dei beni (bonorum possessio), accorda a chi l’avesse sollecitata una tutela provvisoria e possessoria. L’istituto è introdotto inizialmente con funzioni adiutorie, con lo scopo cioè di assicurare a chi sostenesse di essere erede (in forza di un testamento che lo istituiva tale o di un vincolo di agnatio che lo legava al defunto) l’immissione nel possesso dei beni ereditari senza dover affrontare l’onere di esperire la più complessa azione di rivendica dell’eredità (hereditatis petitio). Ma ben presto esso acquista funzioni suppletorie e correttive, in sintonia con le più efficaci attività svolte dal pretore. Si concede così la possibilità di richiedere la tutela possessoria (da esercitarsi attraverso l’interdetto quorum bonorum – “di quei beni” – per il recupero del possesso) non solo a chi riteneva di essere erede secondo il diritto civile, ma anche a chi non aveva titolo nemmeno apparente secondo quel diritto, assumendo solo la figura di successore pretorio. È servendosi di questo strumento che il pretore riuscì a venire incontro alle esigenze di superamento dell’opprimente formalismo e del prevalente carattere familiare che ancora erano propri del regime successorio. Da un lato, infatti, egli concedeva la bonorum possessio secondo le tavole testamentarie (secundum tabulas) a chi presentasse un testamento che risultasse da un atto scritto, sigillato da sette testimoni, senza il rispetto di tutte le altre formalità previste per le forme civili di testamento (che in quanto gesta per aes et libram richiedevano l’osservanza delle formalità proprie di questi atti), dando avvio così alla nuova forma del testamento pretorio; dall’altro, rompendo l’opprimente cerchia della solidarietà familiare, concedeva una bonorum possessio sine tabulis (cioè sostanzialmente ab intestato, ossia al di fuori dell’esistenza di un testamento) ai figli emancipati e poi anche agli altri parenti privi di qualifica agnatizia (cognati), sancendo di fatto la caduta degli 16 antichi vincoli familiari e gentilizi . Non mancava tuttavia, in questo insieme di 16
Così risulta dalla testimonianza di Cic. in Verr. 2.1.45.117; 46.118; 47.124 circa l’Editto in materia di bonorum possessio di fine Repubblica, che si sarebbe articolato sulle seguenti tre clausole: I. Si de hereditate ambigitur et tabulae testamenti obsignatae non minus multis signis quam e lege oportet ad me proferentur, secundum tabulas testamenti potissimum possessionem dabo. II. Si tabulae testamenti non proferentur, tum uti quemque potissimum heredem esse oportet, si is intestatus mortuus esset, ita secundum eum possessionem dabo. III. Cum hereditatis sine testamento aut sine lege petitur possessio, si qua mihi iusta causa vide-
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interventi, una particolare attenzione al mantenimento e al rafforzamento di precisi limiti alla libertà di disporre, realizzata imponendo al testatore l’obbligo di istituire o diseredare nel testamento non solo i sui ma tutti i figli, anche quelli non più soggetti alla sua potestà in quanto emancipati, obbligo sanzionato attraverso la concessione di un’apposita bonorum possessio contra tabulas ai figli indebitamente preteriti. Certo il sistema civile aveva ancora la prevalenza, almeno in questa fase, e l’istituito in un testamento pretorio doveva cedere agli eredi civili ab intestato (bonorum possessio sine re), così come gli emancipati, al pari dei cognati, erano ammessi alla successione ma solo in mancanza di eredi civili. Tuttavia un nuovo ordine successorio, più libero, si andava affermando, per trovare poi agli inizi del Principato sanzione definitiva e in esso alcuni cardini del regime precedente risultavano ormai superati: il testamento, da negozio della sfera familiare, diventa atto di disposizione del patrimonio cui la presenza di sui non è di ostacolo, e di conseguenza è riconosciuta, sia pure con limitazione, la libertà testamentaria. D’altro canto l’eredità non è più legata indissolubilmente alla famiglia e ciò comporta che l’acquisto, quando gli eredi non sono appunto nel novero dei familiari (cioè sui), costituisce un atto volontario (suscettibile di accettazione o di rinuncia). Nel contempo l’eredità si distacca sempre più dagli antichi aspetti sacrali e religiosi per assumere una connotazione strettamente patrimoniale: hereditas est pe17 cunia, affermerà Cicerone sul finire della Repubblica . Spezzatasi così l’idea del condominio familiare, il pater ne è considerato unico titolare, di modo che ormai nei confronti dell’eredità è possibile concepire solo una successione e non una continuazione di rapporti (rispetto ai quali si vantava una precedente contitolarità). 2d. Il regime in età del Principato e tardoimperiale Con l’avvento del Principato si perfezionano queste linee di tendenza, senza trasformazioni radicali. Continuano a rafforzarsi i limiti alla libertà di disporre da un lato attraverso il freno imposto alle manomissioni testamentarie dalle leggi Fufia Caninia (2 a.C.) ed Aelia Sentia (4 d.C.), dall’altro con il precisarsi nella prassi del tribunale dei centumviri, competente per le liti ereditarie, della querela inofficiosi testamenti, singolare rimedio processuale fondato sull’espediente retorico, affermatosi sul finire della Repubblica, che dovesse considerarsi nullo, in quanto contrario all’officium pietatis incombente al testatore nei confronti dei suoi più stretti congiunti, il testamento che senza alcun valido motivo li avesse esclusi dalla successione. In quest’età riceve inoltre, sia pur lentamente, il suo definitivo regolamento la bonorum possessio, prima attraverso la sistemazione di tutte le varie bitur esse, possessionem dabo, per cui la bonorum possessio avrebbe dovuto essere assegnata per la prima clausola all’istituito in un testamento pretorio se esistente, per la seconda all’erede ab intestato civile – sui, agnati e gentili – in assenza di testamento e per l’ultima a chi il pretore ritenesse di attribuirla secondo equità – cognati –. 17 Cic. Top. 6.29.
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clausole dell’Editto con la ‘codificazione’ di questo operata intorno al 130 d.C. dal giurista Salvio Giuliano, poi grazie alle importanti riforme realizzate da Antonino Pio, che segnano l’affermarsi della preferenza accordata ai sucAttenuazione cessori pretori sugli eredi civili (bonorum possessio cum re). Anche i del formalismo residui dell’antico formalismo conoscono un’ulteriore attenuazione, in larga misura attraverso l’interpretazione sempre più libera della volontà testamentaria da parte della riflessione giurisprudenziale, ma soprattutto con il riconoscimento dei nuovi istituti del fedecommesso e del codicillo ad opera della cognito extra ordinem imperiale. Il primo, basato su una raccomandazione del tutto informale rivolta all’erede o al legatario di eseguire una prestazione a favore dell’onorato, si presenta come istituto più agile e comprensivo rispetto al legato, superando le limitazioni per questo fissate; il secondo si affianca al testamento, come documento scritto contenente le volontà del de cuius, ma ne costituisce una forma più libera e più rispondente a nuove esigenze (non si richiede la necessità della heredis institutio, si consente la revocabilità non formale e l’ammissibilità di più codicilli tutti ugualmente efficaci se non incompatibili tra loro). Entrambi questi istituti permettono dunque di superare molte delle angustie dell’antico ordinamento, consentendo di dare seguito alla volontà del de cuius senza i vincoli imposti dal ius civile e non richiedendo il rispetto dei principi di tipicità e di forma da questo prescritti. A questo processo di sviluppo e trasformazione non manca di concorrere anche il senato con proprie disposizioni. Così ancora nel senso dell’attenuazione dei rigori formali, superando il criterio della tipicità dei legati, interviene tra il 54 e il 68 d.C. il senatoconsulto Neroniano, disponendo una sorta di conversione del legato (iure civili) nullo, mentre all’attenuazione dei vincoli agnatizi ancora sussistenti si indirizzano i senatoconsulti Tertulliano (117-138 d.C.) e Orfiziano (178 d.C.) con l’ammissione del reciproco diritto di successione tra madre e figli. Ulteriori progressi segna il periodo postclassico anzitutto, quanto alla successione legittima, con il sempre più ampio riconoscimento della cognatio, l’attenuazione delle differenze di trattamento successorio tra parenti in linea femminile e in linea maschile, il miglioramento delle aspettative ereditarie della madre rispetto ai figli, l’ammissione della parentela anche solo naturale e in particolare della successione dei figli illegittimi; quanto alla successione testamentaria, con l’abolizione di ogni residuo formalismo dapprima con le disposizioni di Costanzo (in particolare con quelle relative alla soppressione di ogni rigore formale per heredis institutio e legati), poi con gli interventi giustinianei, cui si aggiunge un sempre più ampio riconoscimento della capacità patrimoniale dei filii familias, che acquistano capacità di disporre e acquistare per sé mortis causa. Ma in quest’età il persistere del sistema successorio pretorio accanto a quello civile e il moltiplicarsi degli atti mortis causa e delle disposizioni per essi previste, provocando l’intrecciarsi e il sovrapporsi di figure tra loro assai simili, non potevano che portare a difficoltà e incertezze, facendo emergere l’esigenza di un avvi-
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cinamento e semplificazione che superasse questi inconvenienti. Cominciato già in epoca del Principato e continuato sotto il Tardo Impero, questo processo sfocia in età giustinianea nella tendenziale assimilazione tra hereditas e bonorum possessio e nel superamento delle diversità prive di sostanziale fondamento.
3. Concetti fondamentali Le linee dello sviluppo storico del sistema successorio appena descritte sono accompagnate dal precisarsi di alcuni concetti fondamentali sui quali è opportuno ora soffermarsi. Si è visto come preoccupazione costante dell’ordinamento giuridico alla morte di una persona fisica, soggetto di diritto, sia quella di determinare la sorte dei rapporti giuridici trasmissibili a essa riferibili, attraverso l’individuazione di soggetti che possano assumerne la titolarità. A questa esigenza risponde il diritto ereditario, che non è altro che quella branca del diritto privato che intende appunto regolare i rapporti giuridici di un individuo dopo la sua morte. In generale questi, come noto, non si estinguono, ma si trasferiscono ad altri soggetti. Compito del diritto ereditario è quindi quello di disciplinare tale passaggio, ossia la successio. Il 18 trasferimento di posizioni soggettive può avvenire, come già evidenziato, con riferimento a singole situazioni giuridiche (in singulas res) o in relazione al complesso dei rapporti attivi e passivi di un soggetto (successio in universum ius o per universitatem, come precisato dalle fonti). Sebbene i romani conoscessero forme di successione universale tra vivi, la forma più importante, ben presto rimasta l’unica in conseguenza dell’estinguersi di queste, era tuttavia quella che si realizzava mortis causa, ossia in dipendenza della morte di un soggetto. Essa si verificava quando, alla morte di una persona, uno o più soggetti (eredi) subentravano come se non vi fosse interruzione alcuna, per l’intero o per una quota, nel complesso dei rapporti (trasmissibili) attivi e passivi che facevano capo al defunto, assumendone l’identica posizione. Dicono infatti le fonti che “tutta l’eredità, anche se sia stata adita con ritardo, si acquista dal momento della morte 19 (del dante causa)” e che “quasi tutti i diritti degli eredi esistono come se gli ere20 di li avessero acquistati nel medesimo momento della morte (del dante causa)” . In conseguenza i beni ereditari e le relazioni giuridiche esistenti si trasmettono al successore com’erano quando la loro titolarità spettava al defunto: osserva infatti 18
Rispetto ad esso il soggetto che trasferisce la posizione giuridica è il dante causa, colui che riceve, invece, il successore o avente causa. Nel caso poi si tratti di successione nel lato attivo di una posizione giuridica soggettiva, l’acquisto compiuto da colui che subentra al posto del precedente titolare costituisce quello che (con terminologia moderna) si suol definire acquisto a titolo derivativo. 19 D. 50.17.138 pr. (Paul. 27 ad ed.). 20 D. 50.17.193 (Cels. 38 dig.).
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il giurista Ulpiano (fine II sec. d.C.) che “consta che all’erede spetta il medesimo 21 potere e gli stessi diritti del defunto” . A succedere mortis causa a titolo universale è, secondo il ius civile, l’heres, ed hereditas è l’insieme delle posizioni giuridiche in cui questi subentra al defunto (dante causa o ereditando o de cuius).
4. Hereditas Si è detto che l’hereditas è il complesso delle situazioni giuridiche soggettive che facevano capo al de cuius. Di essa era aspetto essenziale, già al tempo delle XII Tavole, la natura patrimoniale, tant’è che l’espressione familia, utilizzata nel testo decemvirale per designarla, identificava appunto il sostrato patrimoniale che contribuiva a sostenere la comunità domestica. Del resto come complesso o massa di beni la individuavano le correlate espressioni pecunia e familia pecuniaque. Più avanti nel tempo, sul finire della Repubblica, a seguito dell’intensificarsi dei traffici commerciali, quel carattere si accentua fino a diventarne connotazione esclusiva. Nella concezione dei giuristi classici l’hereditas si caratterizza in Hereditas particolare quale insieme unitario, dotato di propria individualità come universitas e destinato a essere considerato come entità giuridica astratta (no22 men iuris) , distinto dai singoli elementi che lo compongono. Essa costituisce dunque una universitas, complesso unitariamente considerato di corpora (beni in proprietà) e iura (diritti), punto di riferimento autonomo di rapporti giuridici (usucapio pro herede, in iure cessio hereditatis, hereditatis petitio), che rimane uguale a se stesso pur nel variare delle entità che ne fanno parte (e in cui le passività avrebbero potuto anche superare le attività). Si tratta in particolare di una universitas iuris, distinta come tale dalla universitas facti (che si concreta in un insieme di cose, come una nave), così come dalla universitas personarum (come una corporazione o un municipium). Tale configurazione si rafforza poi nel diritto postclassico e giustinianeo, ove si generalizzano le espressioni universitas, universum ius, mentre la concezione della continuità tra la persona del defunto e quella dell’erede si consolida portando a identificarli come una persona sola. Dell’hereditas fa parte il complesso dei rapporti giuridici riferiContenuti bili al de cuius, fatta eccezione per quelli di carattere personale, che dell’hereditas si estinguono con la morte del titolare o non possono trasmettersi. In particolare erano esclusi dall’hereditas in quanto intrasmissibili la patria potestas, la manus e la tutela. Si trasferivano invece il mancipium sui filii familias altrui, il dominium sugli schiavi, i diritti reali che facevano capo all’ereditando e in particolare il diritto di superficie, l’enfiteusi, il ius in agro vectigali e le operae servorum (con esclusione di quelli di carattere personale come l’usufrutto, l’uso e l’abitazione, che si estinguevano con la morte del titolare). Le servitù si trasferiva21 22
D. 50.17.59 (Ulp. 3 disp.). D. 50.16.119 (Pomp. 3 ad Q. Muc.).
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no con il fondo cui inerivano e i diritti reali di garanzia (pegno e Possesso ipoteca) con il credito garantito. Quanto al possesso, posta la configurazione di esso come res facti, sarebbe stata necessaria un’apposita apprensione dello stesso per realizzarne il trasferimento (non essendo sufficiente il fatto in sé della successione ereditaria), ma questa venne esclusa per gli heredes necessarii, considerati quodammodo domini del patrimonio familiare già in vita del de cuius, mentre continuò a essere richiesta per gli heredes voluntarii, vista la non automaticità per essi dell’acquisto ereditario. Questi peraltro, una volta divenuti eredi e acquistato il possesso dei beni ereditari, furono considerati, ai fini dell’usucapione e della difesa possessoria, quali continuatori del possesso del de cuius, con le medesime caratteristiche (buona o mala fede) che questo aveva presso di lui (successio possessionis). Circa i rapporti di obbligazione, la trasmissibilità, esclusa in un primo tempo in considerazione del carattere personale del vincolo obbligatorio, viene a essere ammessa non appena a prevalere è la natura essenzialmente patrimoniale di quel rapporto. Tra le obbligazioni risulta in particolare trasmissibile la stipulatio di dare, ma non quella di fare (anche se poteva estendersene il vincolo agli eredi nel negozio stipulatorio). Inoltre risultano in genere trasmissibili i contratti (e le relative posizioni giuridiche), eccetto quelli in cui ha rilievo la persona del contraente (intuitu personae) come la società, il mandato (la locazione in determinati casi). Non sono trasmissibili le azioni penali dal lato passivo e dal lato attivo se sono vindictam spirantes. Collegati all’hereditas, anche se in certo qual modo indipendenti da essa, sono poi alcuni elementi extrapatrimoniali che, in quanto legati alla comunità domestica, si trasmettono ai più stretti familiari del de cuius (fossero o non fossero eredi) quali continuatori della familia, a preferenza degli estranei (anSacra e ius sepulchri che se eredi). Così i sacra familiaria, ossia i culti delle divinità domestiche cui attendeva il pater familias, andavano in origine ai discendenti e solo a seguito di un decreto del collegio dei pontefici, risalente alla metà del III sec. a.C. (età di Tiberio Coruncanio, pontifex maximus nel 254), passarono agli eredi indipendentemente se sui o extranei (e pure se divenuti tali per usucapio pro herede) onde evitare che in assenza di discendenti venissero abbandonati. Questa di23 sposizione trovò poi conferma in epoca classica , almeno finché a quel culto si prestò ossequio, ossia fino a che non venne vietato, con il decadere del paganesimo, dagli imperatori postclassici. In secondo luogo strettamente legato all’ambito dei rapporti familiari è anche il ius sepulchri, avente ad oggetto il sepolcro come luogo destinato alla sepoltura (res religiosa, extra commercium, inalienabile e inusucapibile) e consistente nel diritto del fondatore di esservi seppellito e di seppellirvi chi egli volesse. Questo ius (inalienabile e inusucapibile come la res religiosa che ne era oggetto) spettava in un primo tempo ai discendenti (anche se emancipati, diseredati o astenuti dall’eredità paterna): si avevano allora i c.d. sepulchra 23
Arg. ex P.S. 4.3.3.
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familiaria (qualificati come tali del fondatore generalmente con iscrizione sullo stesso monumento funebre). Più avanti, in età repubblicana avanzata, esso fu attribuito anche agli eredi qua tales (anche se estranei) e si parlava in questo caso di sepulchra hereditaria. Tale disciplina, conservata a lungo nel tempo, subì poi con Giustiniano una profonda revisione pervenendosi a una fusione dei due regimi, riconoscendo cioè ai discendenti, anche se astenuti dall’eredità paterna, il diritto al sepolcro ereditario e viceversa agli eredi, anche se estranei, quello ai sepulchra 24 familiaria . Da ultimo, connesso con la comunità domestica e dunque destinato a rimanere all’interno di essa onde contribuire a sostenerne le necessità, è anche il diritto di patronato. Esso, consistente nell’obsequium, nella reverentia e nelle operae libertorum, alla morte del patrono non si estingueva, ma si trasmetteva ai suoi discendenti in quanto tali, fossero o meno eredi (e pertanto anche se diseredati o astenuti dall’eredità paterna o emancipati). A questa valenza patrimoniale dell’hereditas, intesa come cosa Hereditas come complessa, universitas, si accompagna nelle fonti romane un seius successionis condo, diverso significato che la identifica come ius hereditarium o successionis, ovvero come diritto soggettivo dell’erede all’hereditas intesa come universitas. Questo è almeno quanto emerge da un brano delle Istituzioni di Gaio, il quale afferma che “sono cose incorporali quelle che non si possono toccare, quali sono quelle che consistono in un diritto, come l’hereditas, l’usufrutto, le obbliga25 zioni in qualsiasi modo contratte” . Per il giurista, dunque, l’hereditas come l’usufrutto sono res incorporales, iura, diritti aventi ad oggetto cose corporali. Tra questi diritti il ius successionis non altro indica che la titolarità di una hereditas. Si tratta di una nozione, questa, ben presente ai giuristi romani (Sabino, Ulpiano) e che trova espressione sul finire dello sviluppo dell’esperienza giuridica romana in una chiara definizione di Teofilo, giurista di età giustinianea, il quale nella sua Parafrasi delle Istituzioni di Giustiniano afferma: “L’hereditas è un diritto costituito in certi modi, percepito con la mente, e che mi rende in una sola volta padrone di un patrimonio già appartenente ad altri” (Theoph. Paraphr. a I. 2.2.1.).
5. Presupposti della successione ereditaria Perché una persona possa diventare erede acquistando la titolarità dell’hereditas occorrono determinati presupposti sui quali occorre ora soffermarsi. È necessario anzitutto che intervenga la morte di un soggetto capace di avere eredi, dal momento che hereditas vivi non datur (‘non è possibile eredità di chi è vivo’), secondo una massima elaborata dagli interpreti sulla Morte
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Cfr. in argomento CI. 3.44.4, 8 e 13 di A. Severo, Filippo l’Arabo e Diocleziano degli anni 223, 244 e 294; D. 11.7.6 (Ulp. 25 ad ed.). 25 Gai 2.14.
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scorta del pensiero di Labeone (giurista augusteo), per il quale “nessuno può am26 ministrare come erede in vita di colui i cui beni sono da amministrare” . Dal momento che è dalla morte che dipende la successione ereditaria, spetta all’erede provarla. Esistono peraltro alcuni casi in cui, disponendo il diritto l’estinzione giuridica (non fisica) di un soggetto come conseguenza di una pena comminata, la successione resta esclusa. Così in caso di deportazione, sorta di morte civile, dal 27 momento che tutti i beni sono confiscati in conseguenza della condanna , o ancora in caso di servitus poenae, visto che essa concreta una specie di schiavitù comminata come effetto di condanna penale. Dato però che è la morte a determinare la successione eredita- Commorienza ria, è interesse del diritto stabilire, in caso di commorienza, quale dei soggetti defunti sia morto prima. A risolvere i dubbi in proposito intervengono la riflessione giurisprudenziale e la legislazione imperiale, che si avvalgono di apposite presunzioni. In particolare nel caso di morte di un padre e di un figlio nel medesimo tempo si distingueva a seconda che il figlio fosse pubere o impubere e si riteneva che il figlio fosse premorto al padre se impubere, dopo questo se 28 pubere . Nel caso, prospettato dal giurista Trifonino, in cui un padre fosse morto in guerra assieme al figlio, nel dubbio se dar preferenza alla successione materna, sul presupposto che il figlio fosse morto dopo il padre, o alla successione degli agnati, considerando il figlio premorto, l’imperatore Adriano aveva deciso per la presunzione di premorienza del padre al figlio, onde favorire le aspettative succes29 sorie della madre . Oltre alla morte di una persona capace di avere eredi, altri presupposti debbono però verificarsi perché si abbia successione ereditaria. Occorre in particolare che ricorra l’esistenza di una chiamata all’eredità, la capacità di succedere in capo all’erede e infine, normalmente, l’accettazione dell’eredità. Quanto alla chiamata all’eredità o delazione (delatio hereditatis), Delazione essa consiste nella offerta (delatio da deferre = offrire) della hereditas perché questa possa essere acquistata dall’erede. Sottolinea infatti Terenzio Clemente, giurista romano del II sec. d.C., che “si considera deferita una hereditas 30 quando si può acquistare attraverso la adizione” . Dunque la delazione è propriamente la possibilità di acquistare offerta all’erede, ossia la sua chiamata a succedere in luogo del soggetto defunto. Essa poteva avvenire o in forza di una norma di diritto oggettivo (legge delle XII Tavole, editto del pretore, senatoconsulto, costituzione imperiale) o in conseguenza della libera manifestazione della volontà dell’ereditando espressa tramite testamento. Nel Titoli di delazione 26
D. 29.2.27 (Pomp. 3 ad Sab). D. 48.20.7.5 (Paul. l. sing. de port.). 28 D. 34.5.9(10).4 (Tryph. 21 disp.); D. 34.5.22(23) (Iav. 5 ex Cass.); D. 34.5.23(24) (Gai. 5 ad leg. Iul. et Pap.); D. 23.4.26.5 (Papin. 4 resp.). 29 D. 34.5.9(10).1 (Tryph. 21 disp.). 30 D. 50.16.151 (Ter. Clem. 5 ad leg. Iul. et Pap.). 27
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primo caso si aveva delazione legittima (ex lege) o intestata (ab intestato, cioè senza testamento), nell’altro delazione testamentaria (ex testamento). La morte di un individuo genera infatti una situazione di incertezza circa la sorte del suo patrimonio. Questa può essere risolta dall’ordinamento giuridico o disciplinando direttamente le conseguenze di quella vacanza con lo stabilire chi debba essere il successore del defunto, o lasciando che sia la volontà del defunto stesso a disporre il regime della successione. Da ciò consegue che la qualifica di erede può derivare dal diritto oggettivo o dalla volontà dell’ereditando che, con testamento, nomina il suo successore universale (ossia la chiamata può avvenire, come sottolineato, per legge o per testamento). Non costituisce un terzo tipo di delazione la c.d. successione neSuccessione cessaria o contro il testamento, che si attua (a partire da fine Renecessaria pubblica) quando determinati soggetti, stretti congiunti del testatore, da lui esclusi dall’eredità, sono chiamati alla successione anche contro la sua volontà. In questo caso, infatti, non si ha un diverso tipo di delazione, distinta da quella testamentaria e legittima, ma nient’altro che una specie di questa, essendo i più stretti congiunti, esclusi dal testatore, chiamati appunto in forza di legge. Il diritto romano non conosce invece, quale distinta causa di dePatti successori lazione, quelli che i giuristi dell’età intermedia indicano come patti successori. Si trattava di convenzioni aventi finalità diverse: una parte si obbligava a istituire erede l’altra (patto istitutivo, nullo perché vincolava la volontà del promittente e quindi ne limitava la libertà testamentaria; si poteva attuare anche mediante la conclusione di apposita stipulazione penale: “… se non mi nominerai 31 erede, prometti di darmi cento?”) ; oppure le parti convenivano che una sarebbe stata erede dell’altra (patto acquisitivo, nullo perché il diritto romano conosce solo il testamento come atto idoneo a nominare eredi; ad es. marito e moglie concludono un patto vice testamenti, per cui il marito dovrebbe conseguire, alla mor32 te della moglie, tutti i beni di lei) ; ovvero una parte rinunziava a una successione non ancora aperta (patto rinunziativo, nullo perché non si può disporre di un’eredità non ancora deferita); o disponeva, vendendola o donandola, dell’eredità che sperava di acquistare ex testamento o ab intestato da un terzo vivente (nullo 33 perché “non è corretto negoziare dell’eredità di un soggetto vivente” ; patto, quest’ultimo, considerato invece valido nel diritto giustinianeo a condizione che l’ereditando fosse consenziente perdurando in questa sua volontà fino alla morte). Si tratta in tutti questi casi di convenzioni che, pur valide secondo le consuetudini dei paesi di cultura ellenistica, contrastano con i principi propri del diritto successorio romano: in particolare sono considerate nulle perché in opposizione con la libera revocabilità delle disposizioni di ultima volontà e quindi con la libertà di disporre mortis causa. 31
D. 45.1.61 (Iul. 2 ad Urs. Fer.): si heredem me non feceris, tantum dare spondes? CI. 5.14.5, a. 290. 33 D. 36.1.28.4 (Iul. 40 dig.): non probe de hereditate viventis pueri aget. 32
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Tra le due cause di delazione, legittima e testamentaria, esiste Incompatibilità secondo il sistema del ius civile una naturale incompatibilità, nel tra diversi titoli senso che nei confronti di una stessa persona non si può avere per di delazione 34 una parte successione testamentaria e per l’altra ab intestato : pertanto, finché era possibile la delazione testamentaria, non si apriva quella intestata. Si trattava di una regola applicata così rigorosamente che, se il testatore avesse disposto solo di una quota dell’eredità (es.: Tizio sia mio erede per la metà), non si sarebbe aperta per la quota restante la successione ab intestato, ma tutta l’eredità sarebbe spettata all’erede testamentario. Questa incompatibilità tra le due delazioni subisce peraltro, sul finire dell’epoca classica, talune eccezioni e in particola35 re non opera in relazione al testamento militare . Per il carattere strettamente personale della delazione essa, per Intrasmissibilità della 36 il ius civile, non può essere trasmessa all’erede del chiamato . La delazione regola si applica in particolare nei confronti degli heredes voluntarii, che vengono alla successione a seguito di apposito atto di accettazione: se questi muoiono prima di aver accettato, la delazione non passa ai loro eredi. Questi ultimi acquisteranno l’eredità del loro dante causa, ma non quella a questo devoluta e da lui non accettata. Il problema non si pone invece per i cosiddetti heredes necessarii, per i quali delazione e accettazione coincidono, subentrando essi automaticamente e necessariamente al de cuius. Più avanti nel tempo, ma ancora in epoca classica, la regola subì qualche temperamento per ragioni di equità, in relazione ad alcune ipotesi per cui non si poteva far carico al chiamato di non aver accettato tempestivamente l’eredità a lui devoluta (come nel caso del sc. Silaniano, per cui era vietato ai chiamati di adire prima che fosse stata espletata la quaestio servorum, cioè la tortura dei servi per ricavarne indizi circa il colpevole dell’uccisione del dominus: se il chiamato fosse morto nel frattempo senza aver accettato, ai suoi eredi si dava la possibilità di avvalersi come utiles delle azioni spettanti al dante causa). Ulteriori attenuazioni vennero poi disposte in epoca postclassica: così si ammise la trasmissione della delazione al pater nel caso il figlio infans fosse morto entro i sette anni senza che il padre avesse potuto accettare per lui 37 (transmissio ex capite infantiae) ; e Teodosio II concesse la trasmissione della delazione ai propri discendenti da parte dell’erede testamentario ex quota istituito da un ascendente e morto prima dell’apertura del testamento e quindi nell’impossi38 bilità di accettare (transmissio Theodosiana o ex iure sanguinis) . Infine con l’in34
I. 2.14.5: neque enim idem ex parte testatus et ex parte intestatus decedere potest, ossia: “né infatti lo stesso soggetto può morire in parte secondo il testamento in parte secondo la legge”. 35 D. 29.1.6 (Ulp. 5 ad Sab.); D. 29.1.37 (Paul. 7 quaest.). 36 Giustiniano ripete ancora la regola affermando: hereditatem … nisi fuerit adita, transmitti nec veteres concedebant nec nos patimur (CI. 6.51.1.5, a. 534). 37 CI. 6.30.18, a. 426. 38 CI. 6.52.1, a. 450.
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troduzione a opera di Giustiniano della c.d. transmissio Iustiniana si generalizza il principio della trasmissibilità della delazione, avendo l’imperatore disposto che, se l’erede legittimo o testamentario muore prima dell’accettazione, si trasmette ai suoi eredi la facoltà di accettare o rinunciare all’eredità, purché essa venga esercitata entro un anno a decorrere dal giorno in cui il chiamato ha avuto notizia della delazione o dal giorno della delazione se non ne ha avuto notizia. La delazione ereditaria, com’è intrasmissibile mortis causa, così In iure cessio non può, in linea di principio, trasferirsi per atti inter vivos. Tuthereditatis tavia l’erede volontario ab intestato, prima di accettare l’eredità, può compierne una in iure cessio a favore di altra persona che assumerà la qualità di erede in forza del rito compiuto. Gaio precisa che “l’eredità è suscettibile unicamente di cessione davanti al pretore. Dunque quando l’erede legittimo di una successione ab intestato cede davanti al pretore questa eredità prima di adirla, ossia prima di accettarla, e quindi prima di essere erede, il cessionario diventa erede 40 come se fosse stato chiamato all’eredità dalla legge” . L’istituto, così disciplinato, non costituisce peraltro una vera ipotesi di trasmissione della delazione, dal momento che il cessionario non subentra nella chiamata del de cuius, ma diventa erede proprio in conseguenza della in iure cessio sulla base della finzione (come sottolinea Gaio) di una apposita chiamata ex lege. Presupposto ne era, peraltro, che essa si realizzasse prima dell’accettazione: se interveniva infatti dopo che il chiamato, erede volontario, legittimo o testamentario che fosse, aveva accettato, essendo questi divenuto definitivamente erede (semel heres semper heres) non avrebbe potuto trasmettere il titolo di erede e avrebbe in conseguenza trasferito i corpora hereditaria singolarmente (Gaio dice: “come se ad uno ad uno venissero ceduti davan41 ti al pretore”) . Non avrebbe avuto nessun effetto invece la cessione dell’eredità compiuta dall’erede testamentario volontario prima dell’accettazione, oltretutto perché la sua chiamata era fondata da parte del testatore su un rapporto intuitu 42 personae, e neppure, almeno per i sabiniani , quella compiuta dall’heres necessarius, che diventava erede ipso iure senza bisogno di accettazione e dunque non 43 avrebbe potuto cedere la qualifica (di erede) ormai acquistata . La in iure cessio 39
CI. 6.30.19, a. 529. Gai 2.34-35. 41 Questi inoltre sarebbe rimasto responsabile per i debiti ereditari, mentre si sarebbero estinti i crediti con conseguente lucro dei debitori ereditari. 42 Mentre per i proculiani avrebbe prodotto gli stessi effetti di quella effettuata dall’heres voluntarius dopo l’accettazione 43 Gai 3.85-87. La soluzione proposta dalle fonti per il delato ex testamento trova altresì giustificazione, secondo autorevole dottrina (P. VOCI, Diritto ereditario romano, I, Milano 1967, pp. 98-103), nei presupposti stessi della in iure cessio, la quale richiede che il cedente possa disporre del diritto (proprietà, usufrutto) che trasferisce. Ora il delato ex testamento che non abbia accettato non è ancora titolare dell’hereditas che intende trasferire e dunque il suo atto di cessione non può avere alcun effetto. Eccezionale è viceversa il regime del delato ex lege, il quale pure, non avendo acquistato il ius hereditatis, nulla potrebbe trasmettere. Se a lui si consente di compiere la in iure cessio con effetto è perché, secondo lo 40
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hereditatis scompare in epoca postclassica con il decadere dell’istituto di cui era stata applicazione (in iure cessio), anche se qualche traccia di sopravvivenza rimane 44 ancora nel Corpus iuris . Si è osservato che la delazione ereditaria normalmente si apre alla morte dell’ereditando; ciò non si verifica però sempre, potendo in taluni casi accadere che essa si apra in un momento successivo. In particolare questo avviene quando la delazione è subordinata a condizione, ossia di- Delazione condizionata pende dal verificarsi di un evento futuro e incerto, o è sottoposta a termine. Nel caso che il verificarsi della condizione dipenda dal fatto che una persona non tenga un determinato comportamento (es.: non contragga un secondo matrimonio: condizione potestativa negativa) è noto come, per evitare che la disposizione mortis causa (prima il legato poi, in epoca classica, l’istituzione di erede) restasse senza effetto, si escogitò il particolare espediente della cautio muciana, per cui l’istituito avrebbe acquistato ugualmente il lascito, salvo dover prestare apposita cautio con cui garantire la restituzione nel caso in cui fosse stato posto in essere l’atto o il comportamento vietato. Perché potesse sussistere delazione ereditaria e questa avesse ef- Delazione fetto occorreva altresì la capacità dell’ereditando di trasmettere e ab intestato: capacità dell’erede di acquistare il complesso delle posizioni giuridiche sog- dell’ereditando gettive che componevano l’hereditas. Presupposto necessario era dunque il possesso tanto da parte dell’uno (ereditando) quanto dell’altro (erede) della capacità giuridica, ossia di quella attitudine a essere titolare di diritti e di obblighi che conseguiva al possesso dei tria status (libertà, cittadinanza, status familiae). Eccezione si fece per i postumi, ossia per i nascituri, che poterono essere chiamati alla successione anche se non ancora nati, purché già concepiti al tempo della morte dell’ereditando (di qui la massima conceptus pro iam nato habetur, ossia “il concepito si deve considerare come già nato”). Essi sarebbero però divenuti eredi studioso, con “delato ex lege” si intende nelle fonti in particolare l’agnato prossimo e, nel regime arcaico, questi acquistava ipso iure e dunque poteva trasferire ad altri il diritto di cui già era titolare. Quanto alle ragioni per cui gli si consente l’in iure cessio, queste stanno, secondo Voci, nella necessità di evitare l’arcaico regime dell’acquisto necessario, trasferendo l’hereditas all’agnato meno prossimo o a chiunque fosse disposto ad acquistarla. E poiché si tratta di trasferire l’hereditas nel suo complesso, si fa eccezione al regime ordinario e con la in iure cessio gli si consente di trasferire non le singole cose, ma l’hereditas considerata fittiziamente come un complesso unitario. Venuto meno il sistema arcaico, quel regime (della in iure cessio concessa al delato ex lege e avente a oggetto l’universitas) persiste onde evitare che, non volendo l’agnato prossimo venire alla successione del de cuius e non potendo gli agnati successivi venire in luogo di quello (mancando la successio graduum), l’eredità vada deserta. Ormai però il cessionario acquista un diritto (il ius hereditatis) che il cedente non aveva ancora acquistato. Fuori da questa eccezione per il delato ex lege (che secondo il regime arcaico era erede e dunque titolare del diritto che trasferiva), in tutti gli altri casi in cui un erede già tale compie una in iure cessio, questa non può sortire che l’effetto di trasferire non il titolo di erede, ma le singole cose ereditarie. Il cessionario del delato ex lege è peraltro equiparato da Gaio all’erede ex lege anche per consentire il subentro nella custodia dei sacra familiaria che altrimenti non avrebbero avuto un continuatore. 44 D. 44.4.4.28 (Ulp. 76 ad ed.).
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e avrebbero potuto acquistare l’hereditas con la nascita. Nella successione ab intestato la capacità giuridica dell’ereditando era richiesta al momento della morte, mentre quella degli eredi doveva sussistere al tempo della delazione e per gli eredi volontari perdurare ininterrottamente fino al momento dell’accettazione. Non potevano avere eredi gli schiavi, ma il cittadino catturato dal nemico, e dunque servus hostium, per la fictio legis Corneliae (del tempo di Silla) si considerava morto al tempo della cattura e dunque ancora libero. Erano esclusi dalla possibilità di avere successori ab intestato anche gli stranieri (in quanto privi di status civitatis), i condannati a pena perpetua o a morte e i filii familias (salvo che da età postclassica per i bona adventicia e in diritto giustinianeo per il peculio castrense). Quanto alla capacità del soggetto chiamato a succedere ab inte… e dell’erede stato, questa, in deroga ai principi del ius civile antiquum, era riconosciuta, in forza del sc. Orfiziano, al filius familias nei confronti della propria madre; spettava al captivus, che fosse rientrato in patria, iure postliminii ed era riconosciuta a particolari tipi di corporazioni come i municipia (città dotate di autonomia amministrativa) e ai collegia (associazioni con scopi diversi o corporazioni di mestiere) nei confronti dei propri liberti. Nella successione testamentaria in capo all’ereditando, oltre la capacità giuridica, che doveva sussistere al tempo della perfezione del testamento e durare ininterrottamente fino alla morte, era richiesta anche la capacità di agire, da possedere all’atto della perfezione del testamento (testamenti factio attiva). Testamenti factio attiva Fin dal tempo di Augusto tuttavia, in deroga al requisito della capacità giuridica, poterono disporre per testamento del peculium castrense e poi, con Giustiniano, anche del peculium quasi castrense i filii familias. Era ritenuto valido il testamento del cittadino romano morto captivus (in deroga al principio per cui la capacità giuridica deve sussistere fino alla morte) in virtù della fictio legis Corneliae (dal momento che lo si considerava morto al tempo della cattura e quindi ancora libero), ovvero iure postliminii se rientrato in territorio patrio. Quanto alle donne sui iuris, escluse dalla testamenti factio attiva in quanto considerate prive di capacità di agire, poterono tuttavia fare testamento prima con l’auctoritas del tutore fiduciario, poi, a partire da Adriano, con l’auctoritas del comune tutor mulieris o, sempre in età classica (in forza della lex Iulia et Papia Poppaea dell’età di Augusto), anche sine tutoris auctoritate per le donne con ius liberorum; infine in età postclassica la capacità fu riconosciuta a tutte quante le donne sui iuris intellettualmente capaci. Erano esclusi dalla testamenti factio attiva anche gli impuberi, i prodigi e i furiosi, tranne che questi si trovassero in momenti di lucido intervallo. Circa la capacità giuridica richiesta per essere eredi nelle sucTestamenti cessioni testamentarie (testamenti factio passiva), questa doveva esfactio passiva sere posseduta nei tre momenti distinti della perfezione del testamento, della morte dell’ereditando e, per gli eredi volontari, dell’accettazione del-
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l’eredità (poteva peraltro mancare nell’intervallo tra essi) . Potevano tuttavia essere ugualmente istituiti i filii familias (immediatamente soggetti alla patria potestas del testatore) e i servi, sebbene mancasse loro la testamenti factio passiva al tempo della perfezione del testamento, dato che questi sarebbero divenuti giuridicamente capaci alla morte dell’ereditando. Anche gli schiavi e i filii familias altrui, che acquistavano al proprio dominus o pater familias, potevano essere istituiti eredi, dato che era alla capacità dell’avente potestà e non alla loro che si guardava per decidere della validità dell’istituzione di erede. Sebbene fossero considerate come persone incertae, e in quanto tali prive di testamenti factio passiva, si riconobbe a municipia e coloniae la capacità di essere istituiti eredi nei testamenti dei propri liberti (capacità più ampiamente riconosciuta in epoca postclassica anche a piae causae, chiese, civitates). Limitazioni invece incontrava la testamenti factio passiva dei latini e delle donne in conseguenza della lex Voconia. Quanto alle conseguenze della mancanza dei requisiti di capa- Difetto di capacità cità richiesti, la successione era esclusa in difetto di capacità giuridica dell’ereditando al tempo della morte, non essendovi posizioni giuridiche da trasmettere, mentre in assenza di testamenti factio attiva al tempo della perfezione del testamento, risultando questo nullo, si apriva la successione ab intestato. Il difetto di capacità (giuridica) degli eredi ne implicava l’esclusione dalla successione. Nei loro confronti non aveva luogo alcuna delazione né testamentaria né ab intestato, solo che, mentre nella successione testamentaria al posto dell’istituito (incapace) sarebbe venuto l’eventuale sostituto (se indicato), o gli altri coeredi se esistenti (in forza di ius adcrescendi), ovvero in mancanza di questi o in caso di istituzione di un unico erede (incapace) per l’intero si sarebbe dato corso alla successione ab intestato, nel caso si fosse trattato di successione legittima e la capacità fosse venuta meno prima dell’accettazione si deve ritenere che, in mancanza di accrescimento a favore di coeredi, subentrasse il chiamato di grado immedia46 tamente successivo in deroga al divieto di successio graduum .
6. Capacitas e indegnità Dalla nozione di capacità come ordinariamente intesa secondo le comuni concezioni giuridiche occorre tener distinto l’istituto della capacitas, che pur richiamandone la terminologia ha connotazione e regime particolari. Esso è da ricondurre alla legislazione matrimoniale augustea e in particolare alle disposizioni della lex Iulia de maritandis ordinibus del 18 a.C. e della lex Papia Poppaea del 9 d.C. (unitariamente denominate lex Iulia et Papia) e Lex Iulia et Papia 45
I. 2.19.4: media tempora non nocent, ossia: “i periodi intermedi non nuocciono”. Questo dunque nel caso di erede volontario la cui capacità fosse venuta meno dopo la delazione ma prima dell’accettazione, perché in caso di incapacità al tempo della delazione non vi sarebbe stata nessuna chiamata. 46
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risponde agli scopi di politica matrimoniale (rivolti a favorire e ridare dignità alle unioni nuziali) e di incremento demografico perseguito da quelle leggi. In base ad esse erano infatti esclusi dalla possibilità di succedere ex testamento in tutto o in parte quanti erano considerati privi del requisito della capacitas. Il termine indica 47 alla lettera “capacità di acquisto effettivo” e si tratta di un requisito che doveva sussistere, di regola, al momento della morte del testatore e la cui assenza causava per l’appunto l’impossibilità di acquistare (ossia di capere, nel linguaggio delle leggi). L’eredità non poteva dunque essere deferita all’heres nominato ex testamento, se questi era privo dei requisiti richiesti (incapax), di conseguenza essa quasi cadeva dalle mani del chiamato nel momento stesso in cui stava per essere acquistata, e il 48 lascito diventava caducum, quasi che ceciderit ab eo . Ciò è quanto si suole indicare con l’espressione incapacitas che è l’impossibilità di capere, cioè di prendere quanto devoluto. Tra assenza di testamenti factio (passiva) e incapacitas esistono 49 dunque profonde differenze. Se entrambe escludono infatti la delazione , in mancanza di testamenti factio l’eredità si devolve ai chiamati in sottordine secondo lo schema ordinario: sostituti, coeredi con diritto di accrescimento, eventuali eredi legittimi; in assenza di capacitas, invece, quanto non acquistato si devolve alle persone indicate dalle leggi. Inoltre mentre la testamenti factio si richiede nei tria momenta ed è indipendente dalla volontà del chiamato, la capacitas per i non coniugati si può acquistare nei 100 giorni dalla morte del testatore. Visto che la disciplina disposta dalle leggi matrimoniali augustee si riferisce in particolare alle successioni testamentarie, occorre ora precisare che le sue disposizioni operano qualunque sia la natura del lascito: a titolo universale o particolare, sia dunque che si tratti di eredità, legati o fedecommessi. Erano considerati non capaces i caelibes, le persone cioè non coniugate ma in età matriCelibi e orbi moniale (ossia gli uomini tra i 25 e i 60 anni e le donne tra i 20 e i 50) e gli orbi, cioè i coniugati senza prole, ma mentre per i primi l’incapacitas era totale, per gli altri era della metà di quanto disposto in loro favore. Le leggi con50 templavano anche la figura del pater solitarius , ossia del vedovo con figli da precedente unione, per il quale peraltro non risulta la misura della incapacità, e i coniugi nei reciproci rapporti successori, per i quali si stabilisce che possano ricevere per testamento non più di 1/10 dell’asse ereditario in assenza di figli comuni. Quanto non acquistato dai non capaces diventava caducum ed era devoluto in primo luogo ai coeredi con figli, poi ai legatari con figli: in difetto andava all’aerarium populi romani e in seguito (non oltre l’età di Caracalla) al fisco. La leg47
D. 50.16.71 pr. (Ulp. 79 ad ed.): capere cum effectu accipitur. Tit. ex corp. Ulp. 17.1. 49 In questo senso P. VOCI, Diritto ereditario romano, I, Milano, 1967, 433 e A. BURDESE, Manuale di diritto privato romano, Torino, 1977, 672, i quali sostengono che anche in caso di incapacitas non ci sia delazione. Contra B. BIONDI, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1972, 681-682, il quale ritiene che la nullità della chiamata sia solo successiva. 50 Tit. ex corp. Ulp. 13. 48
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ge non si applicava alle successioni tra parenti in linea retta entro il terzo grado (avo, padre e figlio), i quali non solo non perdevano quanto loro lasciato (in quanto non cadevano nello stato di incapacitas), ma potevano anche acquistare per accrescimento i caduca. In ogni caso il regime dei caduca non trovava applicazione in confronto delle disposizioni nulle ab initio (che si considerarono pro non scriptae), nell’ambito della successione ab intestato (in questa si applicava il ius antiquum, cioè l’ordina51 rio regime dell’accrescimento) e negli acquisti ex testamento militis . Per la persecuzione dei caduca era previsto un apposito rimedio giudiziale, la caducorum vindicatio, da esercitarsi nelle forme della cognitio extra ordinem. Agli inizi del III sec. d.C., superati gli scopi di carattere demografico, una costituzione di Antonino Caracalla (212-217 d.C.) provvide ad accentuarne le finalità di incremento della cassa pubblica. Essa infatti tolse l’acquisto a favore dei soggetti capaces (coeredi e legatari con figli) e stabilì che, in assenza di ascendenti o discendenti del defunto entro il terzo grado, il lascito caduco andasse al fisco. L’affermarsi della dottrina cristiana che esaltava il valore della continenza e del celibato contribuì poi al definitivo superamento della disciplina caducaria che, da sempre osteggiata, cadde in età del tardo impero in parte per desuetudine e in parte per espressa abrogazione. A decretare la fine di quel regime fu Giustiniano che, 52 con una apposita costituzione , lo abrogò ripristinando fondamentalmente, riguardo alla sorte delle quote vacanti, il regime comune del diritto di accrescimento fra coeredi (ius antiquum). Regime diverso dalla capacitas presenta l’indegnità. Essa costi- Indegnità tuisce una qualifica di riprovazione comminata, per varie mancanze, ai destinatari di disposizioni mortis causa vuoi ex testamento vuoi ab intestato. Introdotta in maniera disorganica nel corso dell’età del Principato per effetto di senatoconsulti e costituzioni imperiali, poteva trovare applicazione anzitutto nei confronti dell’uccisore dell’ereditando, di colui che gli avesse impedito di far testamento o di mutarlo, ne avesse contestato lo status personale, avesse omesso la persecuzione penale dei suoi uccisori e in una serie numerosa di altre ipotesi che potevano concretare gravi mancanze verso l’ereditando o contro la volontà testamentaria di questi. L’indegnità non impediva la delazione (come in caso di assenza di capacitas), né la possibilità dell’acquisto ereditario, ma l’indegno non poteva trattenere quanto acquistato (secondo il noto brocardo: indignus potest capere sed non potest retinere). L’eredità o le quote devolute potevano essergli sottratte in un primo tempo dall’aerarium e successivamente, da età classica avanzata (forse da 51
Il regime così disposto andò peraltro progressivamente estendendosi fino a ricomprendere ipotesi di mancato acquisto ereditario diverse da quelle relative alla capacitas (si parlò in particolare di disposizioni in causa caduci con riferimento a disposizioni invalide per fatti accaduti tra la perfezione del testamento e la morte dell’ereditando, quando ad es. l’erede, dopo la perfezione del testamento, premuore al testatore). 52 CI. 6.51.1, De caducis tollendis, a. 534.
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Antonino Pio), dal fisco attraverso un procedimento extra ordinem di vindicatio assimilabile a quello di vindicatio caducorum. In quanto poteva venire alla delazione e acquistare quanto a lui devoluto, l’indignus era erede e restava tale anche dopo l’azione dell’erario e del fisco (semel heres semper heres), ma il pretore avrebbe denegato le azioni che gli sarebbero spettate o che sarebbero spettate contro di lui, rendendo così inutile il titolo di heres conseguito.
7. Acquisto dell’eredità 53
In relazione all’acquisto dell’eredità Gaio distingue tre categorie di eredi : gli eredi necessari, i sui et necessarii e gli eredi estranei. Erede necessario è lo schiavo manomesso dal dominus nel teEredi necessari stamento e nello stesso istituito erede. È chiamato così perché diventa erede necessariamente e automaticamente alla morte del de cuius, senza necessità di accettazione né possibilità di rinuncia, indipendentemente dalla sua volontà. Precisa Gaio: “erede necessario è il servo istituito erede con libertà, così chiamato dunque in quanto, sia che voglia sia che non voglia, in ogni modo dopo 54 la morte del testatore immediatamente diventa libero ed erede” . Heredes sui et necessarii sono i familiari immediatamente sottoposti alla potestas o alla manus dell’ereditando, destinati a diventare sui iuris con la sua morte (figli e figlie, ulteriori discendenti e donne in manu). Ad avere heredes sui erano pertanto solo le persone di sesso maschile, le uniche capaci di patria potestas e manus. Secondo la precisazione di Gaio si chiamano heredes sui, o di diritto proprio, perché sono “eredi domestici”, ossia compartecipano già in vita del padre della gestione del patrimonio familiare tanto da essere considerati, almeno in punto di fatto, quodammodo domini. Anch’essi succedono automaticamente e senza possibilità di rinuncia e dunque sono eredi necessari sia che la successione sia testamentaria che ab intestato. Dice Gaio: “eredi sui e necessarii sono il figlio e la figlia, il nipote e la nipote ex filio e tutti gli altri che stavano sotto la potestà del defunto. Ma perché il nipote e la nipote siano sui (eredi propri) non basta che fossero in potestà del nonno al momento della morte, ma bisogna anche che il padre loro, vivo suo padre, abbia cessato di essere erede proprio (suus) o perché tolto di mezzo dalla morte o perché liberato per qualsivoglia motivo della potestà; allora infatti il nipote o 55 la nipote subentrano nel luogo del padre loro” . Acquistando l’eredità ipso iure in conseguenza della particolare posizione familiare rivestita questi eredi non solo non possono rinunciare a essa, ma non debbono neppure accettarla. Solo nel caso in cui il testatore avesse istituito il suus con la clausola si volet l’acquisto ereditario 53
Gai 2.152-163. Gai 2.153. 55 Gai 2.156. 54
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sarebbe stato rimesso alla volontà del chiamato . L’accettazione dell’eredità era invece richiesta come necessaria Eredi volontari per i c.d. heredes voluntarii. Erano questi i chiamati non immediatamente sottoposti alla potestas del de cuius al momento della morte (ossia i non sui che non fossero neanche schiavi istituiti eredi cum libertate) che in quanto tali, poiché estranei alla familia proprio iure dicta dell’ereditando, erano per l’appunto indicati come heredes extranei. Si potevano dare eredi volontari tanto nella successione ex testamento quanto nella successione ab intestato e in quest’ultima a rivestire quella qualifica erano anzitutto gli agnati non sui, cioè i parenti in linea collaterale del de cuius. Gaio precisa in proposito: “gli altri eredi, che non sono sottoposti al testatore, si chiamano eredi estranei. Così, tra l’altro, i discendenti che non sono sotto la nostra potestà sono considerati estranei quando li Accettazione 57 istituiamo eredi” . L’eredità civile si acquistava agli eredi volonta- dell’eredità ri tramite accettazione (aditio hereditatis) e dunque per essi – a differenza che per gli eredi necessari – il momento dell’acquisto era distinto da quello della delazione. L’accettazione dell’eredità civile poteva avvenire tramite una solenne dichiarazione orale (cretio) o attraverso semplici atti di ge- Cretio stione del patrimonio ereditario (pro herede gestio). Nel primo caso, con la cretio cioè, aveva luogo una dichiarazione formale e solenne, da realizzarsi di regola davanti a testimoni, con la pronuncia di parole determinate, della volontà di accettare. Essa si utilizzava quando potessero sorgere dubbi sull’accettazione, ma più spesso, nelle successioni testamentarie, quando era richiesta dal testatore affinché l’eredità venisse accettata con sollecitudine. Egli poteva allora apporre all’istituzione di erede la condizione che l’istituito accettasse entro un certo termine – d’ordinario 100 giorni – utilizzando le forme della cretio, ossia pronunciando le seguenti parole: “poiché P. Mevio mi ha istituito erede nel suo testamento, accetto quell’eredità”. Tale forma poteva essere utilizzata per effettuare un’accettazione espressa anche dal delato ex testamento cui non fosse stata imposta e, con espressione equivalente, anche dal delato ex lege. La fissazione del termine (100 giorni), che di solito accompagnava la cretio, era anch’essa disposta con parole predeterminate, secondo lo schema: “Tizio sia erede ed accetti nei prossimi 100 gior58 ni. Che se così non avrai accettato, sii diseredato” . A tale formula poteva essere aggiunta o meno la clausola “nei quali (giorni) saprai e potrai” con la conseguenza che, nel caso fosse stata inserita, si sarebbe avuta la cretio vulgaris, nella quale il tempo richiesto si contava dal giorno in cui l’erede aveva avuto notizia dell’istituzione e poteva accettare nella forma dovuta, mentre nel caso fossero state omesse si sarebbe avuta la cretio continua, nella quale i giorni si sarebbero contati senza interruzione dalla morte del testatore. La cretio inoltre poteva essere accompagnata dalla clausola di diseredazione in caso di mancata accettazione nelle forme pre56
D. 28.5.87(86) (Maec. 7 fideic.). Gai 2.161. 58 Gai 2.165. 57
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viste, e si sarebbe avuta la cretio perfecta: invece la cretio imperfecta non prevedeva tale clausola (e dunque non contemplava la diseredazione), con la conseguenza di permettere al delato l’acquisto dell’eredità anche tramite pro herede Pro herede gestio gestio. Quest’ultima forma di accettazione (c.d. tacita) si realizzava attraverso atti di gestione del patrimonio ereditario, ossia come precisa Gaio: 59 "nell’usare delle cose ereditarie come se si fosse eredi” (es.: esigere un credito o pagare un debito ereditario), o comunque tramite comportamenti c.d. concludenti dai quali fosse possibile dedurre implicitamente e necessariamente la volontà di accettare (es: manomettere un servo). Nel corso dell’età classica se ne amplia peraltro la nozione fino a far rientrare nella pro herede gestio l’accettazione espressa ma non formale dell’eredità (aditio nuda voluntate) che invece nel diritto giusti60 nianeo, scomparsa la cretio (abolita nel 407 da Arcadio, Onorio e Teodosio II) , si contrappone alla pro herede gestio, di modo che (in quel diritto) l’heres voluntarius acquista ormai l’eredità in base a dichiarazione espressa o tacita di volontà, realizzando nel primo caso aditio hereditatis e nel secondo pro herede gestio. Per la validità dell’adizione, oltre all’esistenza della delazione Requisiti di validità (non si poteva accettare prima dell’avvenuta delazione e dunque dell’accettazione prima della morte dell’ereditando) e alla capacità del delato, si richiedeva che l’accettante avesse sicura conoscenza (certa scientia) della delazione e della causa di questa (testamento valido o successione legittima, afferma infatti Paolo che: “affinché qualcuno, compiendo pro herede gestio, acquisti l’eredità, deve sapere in 61 base a quale causa questa gli spetti”) . L’acquisto ereditario avveniva poi nella misura della delazione disposta in favore del chiamato, indipendentemente da una sua diversa dichiarazione di volontà. L’adizione dell’eredità doveva infatti essere pura e semplice e, pertanto, non poteva essere parziale né sottoposta a condizioni o termini (per la cretio ciò discendeva anche dal fatto che si trattava di actus legitimus). Essa in diritto classico (e in riguardo all’eredità civile) doveva essere posta in essere personalmente e, consistendo in una manifestazione di volontà, non poteva compiersi da pupilli (purché infantia maiores) o donne sotto tutela sine tutoris auc62 toritate; se il chiamato era un filius familias o uno schiavo altrui occorreva l’ordine (iussum) o l’assenso del paterfamilias o del dominus dato che a costoro andava l’acquisto ereditario (in età postclassica peraltro si andò riconoscendo ai filii la capacità di acquistare per sé). Prodighi e minori di 25 anni accettavano personalmente e senza assistenza di curatori (a differenza dei furiosi cui era interdetto adire tranne che durante i lucidi intervalli, almeno secondo quanto disposto da Giusti63 niano) . La necessità che l’accettazione fosse fatta personalmente, attenuata già in età postclassica, venne poi meno in diritto giustinianeo, che ammise l’aditio effet59
Gai 2.166. Cfr. pure P.S. 4.8.23. CI. 6.30.17. 61 D. 29.2.22 (Paul. 2 ad Sab.) 62 Anche in questo caso purché infantia maior. 63 CI. 5.70.6, a. 530. 60
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tuata sia attraverso rappresentante legale (avente potestà per il filius e tutore per il 64 pupillo anche infante) che volontario . Da quanto detto appare chiaro peraltro che il mancato rispetto dei requisiti richiesti per esser l’accettazione sottoposta a termini o condizioni o per non essere stata compiuta personalmente o per esser stata fatta prima della delazione aveva come conseguenza, almeno in diritto classico, la inefficacia dell’aditio hereditatis. Il ius civile non stabiliva alcun termine entro il quale l’eredità Spatium deliberandi doveva essere accettata, a meno che il termine fosse stato fissato dal testatore, cosicché il chiamato poteva adire fino alla sua morte. Per evitare peraltro che i rapporti ereditari restassero troppo a lungo in sospeso con possibile danno ai terzi (in particolare ai creditori ereditari) intervenne il pretore, concedendo al chiamato, su istanza degli interessati (creditori in particolare), uno spatium deliberandi (di regola 100 giorni), trascorso il quale senza che fosse intervenuta accettazione il delato era considerato rinunciante (in tal caso, iure praetorio, la delazione sarebbe passata ai delati di grado successivo e, in assenza di questi, si sarebbe proceduto alla bonorum venditio dei beni ereditari). Tale disciplina fu però oggetto di radicale revisione nel diritto giustinianeo, che invertì le conseguenze dell’inutile decorso del tempo stabilendo che il giudice ordinario potesse concedere un termine massimo di nove mesi e l’imperatore quello di un anno: trascorsi 65 inutilmente tali periodi, il chiamato doveva considerarsi accettante . Come era libero di compiere o meno l’aditio, così l’erede vo- Rinunzia lontario poteva anche rinunziare all’eredità. Nessuna particolare formalità era richiesta: il ripudio era tuttavia nullo se compiuto con l’aggiunta di termini o condizioni. Col ripudio (espresso o tacito) da parte degli eredi volontari e in assenza di accrescimento o ulteriore delazione l’eredità andava deserta e, in caso di passività, poteva aprirsi la procedura esecutiva a carico del defunto.
8. Effetti dell’acquisto ereditario La natura giuridica della successione ereditaria (successio in lo- Confusione ereditaria cum defuncti) implicava che, con l’accettazione dell’eredità, la situazione giuridica del defunto si fondesse con quella dell’erede (se sui iuris e già dotato di un patrimonio proprio), realizzando la cosiddetta confusione ereditaria. L’erede subentrava dunque non solo nei rapporti attivi che facevano capo al de cuius, ma anche nei debiti di questi e, se le passività eccedevano l’attivo ereditario, ne doveva rispondere ultra vires hereditatis e dunque con il proprio patrimonio. D’altra parte i creditori del defunto e quelli dell’erede diventavano tutti creditori 64
Giustiniano, riconosciuta ai filii capacità patrimoniale con la titolarità dei bona adventicia, ammise anche che questi, purché puberi, potessero prescindere nell’accettare l’eredità dallo iussum paterno, richiesto invece ancora per gli impuberi infantia maiores. 65 CI. 6.30.22.13, a. 531.
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di quest’ultimo con un’unica massa patrimoniale da aggredire. Tale confusione poteva dunque comportare effetti pregiudizievoli sia per l’erede, tenuto a far fronte illimitatamente ai debiti del defunto, che per i creditori del defunto (obbligati a concorrere con i creditori dell’erede, eventualmente anche nel caso in cui fosse questi a esser titolare di un patrimonio passivo), ma anche per i creditori dell’erede (costretti a concorrere con i creditori del defunto quando questi aveva lasciato un’eredità passiva). Certo gli eredi volontari avrebbero potuto sottrarsi a tale responsabilità semplicemente non accettando l’eredità, con la conseguenza che i creditori avrebbero agito esecutivamente sul patrimonio del defunto. Ma ciò poteva risultare offensivo per la memoria di questi, dato che la bonorum venditio sarebbe avvenuta a suo nome con conseguente infamia a suo carico, e non convenire ai creditori ereditari che avrebbero perso la possibilità di rivalersi sul patrimonio dell’erede. Per ovviare a tutti questi inconvenienti, e in particolare per evitare che l’erede fosse indotto a non accettare onde eludere la responsabilità illimitata posta a suo carico e i creditori del defunto dovessero subire le conseguenze della confusione ereditaria, furono escogitati una serie di appositi rimedi (mentre nessun rimedio fu concesso ai creditori dell’erede sul presupposto che l’erede, accettando l’eredità, non fa altro che contrarre nuovi debiti come è lecito a ogni debitore). Per quanto riguarda l’erede non si trattava peraltro di rimedi legali contro la responsabilità illimitata, sconosciuti al diritto classico, ma di accordi rimessi all’iniziativa privata. E in particolare tra delato e creditori del defunPactum ut to poteva convenirsi il pactum ut minus solvatur, in forza del quale minus solvatur il chiamato concordava con i creditori che, una volta acquistata l’eredità, avrebbe pagato solo una quota dei debiti del defunto. In conseguenza se, dopo l’accettazione, i creditori avessero chiamato in giudizio l’erede per pretendere l’intero importo dei loro crediti, la loro azione sarebbe stata paralizzata dall’exceptio pacti conventi opponibile dall’erede (in quanto il concordato realizzato sarebbe stato nient’altro che una forma di pactum de non petendo pro parte). Accanto a questo l’altro rimedio che il chiamato avrebbe potuto utilizzare (per evitare la responsabilità illimitata per i debiti ereditari) era l’aditio manAditio mandato dato creditorum, per cui il chiamato avrebbe accettato ma dietro creditorum mandato dei creditori ereditari, con la conseguenza che, se fosse stato costretto a pagare oltre i limiti dell’attivo, per i danni e le spese che avesse sostenuto avrebbe potuto rivalersi (come d’ordinario nel rapporto di mandato) 66 con l’actio mandati contraria contro i creditori mandanti . Rimedio legale contro la responsabilità illimitata dell’erede era Beneficium inventarii invece il beneficium inventarii, la cui introduzione a opera di Giustiniano si rifà a una precedente disposizione dell’imperatore Gordiano che aveva 67 limitato la responsabilità dei militari intra vires hereditatis . Il beneficium è disposto da Giustiniano a favore di tutti gli eredi che se ne fossero voluti avvalere (ed 66 67
D. 2.14.7.17-18 (Ulp. 4 ad ed.). Cfr. pure D. 2.14.7.19.8 (Ulp. 4 ad ed.). CI. 6.30.22 pr., a. 531.
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era obbligatorio in particolare per gli eredi sottoposti a tutela). In forza di esso il chiamato che avesse iniziato l’inventario dei beni ereditari entro 30 giorni dalla notizia della delazione e lo avesse concluso nei 60 giorni successivi o nel termine di un anno, qualora si fosse trovato lontano dalla maggior parte dei beni ereditari, avrebbe evitato gli effetti della confusione ereditaria e avrebbe risposto dei debiti ereditari solo nei limiti dell’attivo (intra vires hereditatis). L’inventario, per assicurarne la regolarità, doveva essere compiuto alla presenza di un notaio (tabularius) e con l’intervento dei creditori e dei legatari o, in loro assenza, di tre testimoni e doveva essere sottoscritto dall’erede. Se redatto fraudolentemente, l’erede sarebbe stato tenuto per il doppio del valore dei beni a esso sottratti. In conseguenza dell’accettazione con il beneficio d’inventario l’erede avrebbe pagato (nei limiti dell’attivo) i creditori e i legatari secondo l’ordine di presentazione, senza alcun riguardo ad eventuali cause di prelazione (l’istituto era infatti introdotto a beneficio dell’erede e a lui non interessava la situazione dei creditori); ai creditori ipotecari era tuttavia riservato il diritto di rivalersi contro gli altri creditori già soddisfatti e a questi era data la possibilità di rifarsi contro i legatari (i creditori erano infatti preferiti ai legatari). Essendo evitata, come effetto del beneficio, la confusione ereditaria, la posizione dell’erede rimaneva distinta da quella del defunto ed egli conservava gli stessi diritti che aveva verso questi, di modo che poteva far valere i crediti che vantava verso il defunto ed agire per le spese sostenute nei confronti della massa ereditaria (spese per funerale, insinuazione del testamento, redazione dell’inventario). Non poteva giovarsi del beneficium inventarii chi avesse richiesto un tempus ad deliberandum. A integrare l’insieme dei rimedi così disposti per il caso di here- Restitutio in integrum ditas damnosa (ossia oberata da passività) stava poi, nei limitati casi in cui era ammessa, la possibilità del ricorso alla restitutio in integrum. Di essa poteva giovarsi il minore di 25 anni purché ne sussistessero i presupposti e, in base una costituzione di Adriano, il maggiore di età (25 anni) che fosse incorso in er68 rore scusabile circa l’effettiva consistenza dell’eredità . Se con i rimedi ora visti era tutelata la posizione dell’erede contro una hereditas damnosa, a subire pregiudizio dalla confusione ereditaria potevano anche essere i creditori del defunto nel caso in cui fosse il patrimonio dell’erede ad essere oberato dai debiti ed essi dovessero subire la concorrenza dei creditori di questi. Per ovviare a questo inconveniente furono introdotti i rimedi della separatio bonorum e della satisdatio suspecti heredis. La prima era accordata dal preto- Separatio bonorum re, con un apposito decretum, ai creditori del defunto che l’avessero richiesta in sede di esecuzione personale contro l’erede entro un termine che, nel diritto giustinianeo, era di cinque anni dall’adizione. In virtù di essa, la massa dei beni ereditari, tranne quelli già alienati in buona fede dall’erede, veniva riservata ai creditori del defunto e ai legatari di modo che questi potessero soddisfarsi con preferenza, e soltanto dopo che questi fossero stati soddisfatti l’eventuale re68
Gai 2.163.
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siduo veniva devoluto ai creditori personali dell’erede . In età classica si discuteva se i creditori separatisti, non interamente soddisfatti, potessero soddisfarsi altresì sul patrimonio dell’erede: alcuni lo negavano per la ragione che la separazione da 70 essi richiesta li escludeva dal patrimonio dell’erede , altri lo consentivano, anche 71 se solo dopo che i creditori personali dell’erede fossero stati soddisfatti . Nel caso in cui, invece, non fosse stato ancora avviato il procedimento esecutivo contro l’erede, i creditori del defunto potevano chiedere al pretore che l’erede, la cui situazione patrimoniale o il cui comportamento doloso suscitava perSatisdatio plessità, di prestare la satisdatio suspecti heredis, ossia la promessa in suspecti heredis forma di stipulatio (avallata da garanti) di pagare i debiti ereditari, minacciando l’avvio della procedura esecutiva in caso di mancata prestazione. Se poi l’erede non avesse trovato garanti a causa della sua povertà, gli veniva imposto 72 un divieto di alienazione dei beni ereditari . Se quelli visti erano i rimedi disposti per il caso di hereditas damnosa nei confronti degli eredi volontari, pregiudizi non minori potevano verificarsi riguardo agli heredes necessarii. Questi diventavano necessariamente e automaticamente eredi alla morte del de cuius e dunque non avrebbero potuto evitare gli effetti della confusione ereditaria. Ove l’hereditas fosse stata damnosa essi sarebbero stati in conseguenza esposti all’azione esecutiva dei creditori ereditari senBeneficium abstinendi za potersi sottrarre a essa. Per evitare tali conseguenze intervenne il pretore, concedendo in particolare per il caso di heredes sui et necessarii, ossia dei familiari (filii familias e donne in manu) immediatamente sottoposti alla potestas o alla manus del de cuius e che sarebbero diventati sui iuris con la sua morte, il bene73 ficio di astenersi (beneficium o potestas abstinendi) . Per esso il suus che non avesse realizzato alcun atto di disposizione o appropriazione dell’eredità o che comunque non avesse manifestato la sua volontà di mantenerla (il suus cioè che avesse 74 evitato di se immiscere hereditati) , pur conservando (iure civili) la qualità di erede non avrebbe subito la procedura esecutiva, che si sarebbe invece svolta a nome del 75 defunto con conseguente proscriptio, bonorum venditio e infamia a suo carico . 69
D. 42.6.6.1 pr.-1 (Iul. 46 dig.). D. 42.6.1.17 (Ulp. 64 ad ed.) Per sottrarsi al principio avrebbero dovuto dimostrare di aver chiesto la separazione per errore scusabile e ne avrebbero dovuto ottenere la rescissione. 71 D. 42.6.3.2 (Papin. 27 quaest.). Nel caso poi che più fossero i creditori del defunto e alcuni avessero chiesto la separazione e altri no, gli effetti della separazione si sarebbero prodotti solo a favore di coloro che l’avevano richiesta, mentre gli altri avrebbero concorso con i creditori dell’erede (D. 42.6.1.16, Ulp. 64 ad ed.). 72 D. 42.5.31 pr. e 3-4 (Ulp. 2 de omnib. trib.). 73 Gai 2.158. Cfr. pure Gai 2.160. 74 D. 29.2.57 pr. (Gai. 23 ad ed prov.). Per il termine che il pretore poteva fissare su richiesta dei creditori ereditari, entro il quale il suus dovesse pronunziarsi, salvo perdere il beneficio: D. 28.8.7 pr. (Ulp. 60 ad ed.). 75 D. 11.1.12 pr. (Paul. 17 ad ed.), che precisa: “il pretore non considera come erede colui che si è astenuto” e in conseguenza non gli concedeva le azioni che sarebbero spettate in suo favore o contro di lui. 70
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Proprio per evitare queste conseguenze, l’ereditando che avesse il fondato timore che la sua eredità potesse essere passiva poteva istituire erede un proprio servo e contemporaneamente manometterlo nel testamento. Questi, alla morte del testatore, sarebbe divenuto heres necessarius (anche se non suus) e non potendo giovarsi del beneficium abstinendi, riservato ai sui, avrebbe subito egli stesso proscriptio e 76 bonorum venditio, con conseguente infamia, senza poterla evitare . Per venire incontro anche alla situazione di questi soggetti, esposti senza colpa ai rigori della procedura esecutiva ereditaria, intervenne, peraltro, nuovamente il pretore facendo ricorso all’istituto della separatio bonorum, consentendo così che la bonorum venditio venisse limitata al patrimonio ereditario e conservando agli schiavi istituiti 77 eredi cum libertate quanto acquistato dopo la morte del proprio padrone . Se a queste conseguenze della confusione ereditaria si era cercato di porre rimedio con gli espedienti ora visti, occorre però ancora ricordare come effetto importante di essa fosse anche la estinzione delle relazioni giuridiche antitetiche esistenti tra ereditando ed erede. Così, per effetto di confusione, si estingueva l’obbligazione quando l’erede subentrava come creditore nello stesso rapporto di cui era debitore, ovvero cessava la servitù per essere l’erede, proprietario del fondo servente, subentrato nella titolarità del fondo dominante e anche l’usufrutto veni78 va meno se l’erede succedeva al nudo proprietario . Ma soprattutto per effetto dell’acquisto ereditario, e in partico- Semel heres lare con l’accettazione per l’erede volontario e automaticamente semper heres per effetto della delazione per l’erede necessario, si conseguiva il titolo di erede e questo, una volta acquistato, non poteva più essere ceduto in 79 conformità al principio semel heres semper heres . Nel caso degli eredi volontari l’accettazione e l’acquisto eredita- Eredità giacente rio potevano però non essere immediati. In tal caso, in assenza di eredi necessari, fino all’adizione dell’eredità da parte dell’erede o di alcuno degli eredi volontari si creava una situazione di pendenza durante la quale il patrimonio ereditario si trovava privo di titolare: al proposito i romani parlavano di hereditas iacens, intendendo per tale il patrimonio ereditario nel lasso di tempo intercorren80 te tra la morte dell’ereditando e l’acquisto dell’eredità da parte dell’erede . Durante la giacenza il patrimonio ereditario e il complesso degli elementi che lo 81 componevano era considerato nullius , in conseguenza chiunque se ne fosse ap76
Gai 2.154. Gai 2.155. 78 Quanto alle situazioni concorrenti si sarebbe realizzata la estinzione del rapporto relativo a quella tra le due che fosse risultata dipendente rispetto all’altra, come ad es. per quella di garante rispetto a quella di debitore principale. 79 D. 28.5.89(88) (Gai. l. sing. de cas.). 80 D. 43.24.13.5 (Ulp. 71 ad ed.): hereditas iacebat; si considerava giacente anche l’eredità fino a che non fosse nato un postumus suus o non si fosse avverata la condizione imposta al suus nel testamento. 81 Gai 2.9. 77
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propriato, anche se in malafede, non avrebbe commesso furto e se ne avesse usato per un anno, prima che l’erede ne avesse preso possesso, nel diritto più antico sarebbe diventato erede per usucapione (usucapio pro herede, che prescindeva da iusta causa e buona fede in ragione delle esigenze di continuità religiosa ed economica che la ispiravano). In seguito però questa usucapio fu considerata improba e lucrativa e non si ammise più che si potesse usucapire l’eredità nel suo complesso (considerata ormai cosa incorporale, universitas e come tale inusucapibile), ma 82 soltanto le singole cose ereditarie . Nella considerazione dei giuristi peraltro si venne affermando la precisa tendenza a ritenere l’eredità giacente un’entità unitaria e indipendente, simile al peculio e alla dote, di cui si doveva assicurare la preservazione e consentire l’eventuale incremento in vista dell’acquisto da parte dell’erede. I rapporti giuridici esistenti erano pertanto conservati pur in assenza di titolare e se ne potevano aggiungere di nuovi dato il riconoscimento dell’hereditas iacens come entità capace di acquistare e indebitarsi, specie a seguito dell’attività degli schiavi ereditari ovvero per effetto di meri fatti giuridici quali la produzione di frutti o il compiersi dell’usucapione anteriormente iniziata. Si trattava di una considerazione unitaria che aveva fondamento in costruzioni dottrinali ispirate a concezioni teoriche differenti: mentre infatti parte dei giuristi si basava (per affermare quella costruzione unitaria) sulla finzione della successione immediata dell’erede, come se l’hereditas avesse un titolare fin dalla morte del de cuius, facendo retroagi83 re l’atto di accettazione , una diversa corrente facente capo a Giuliano, divenuta maggioritaria, si basava sulla finzione dell’hereditas come persona, continuatrice 84 del defunto e come lui titolare del patrimonio ereditario . Nonostante questa concezione, tuttavia, non si pervenne a individuare nell’eredità giacente una persona giuridica a sé stante e anche nel diritto giustinianeo, che la considerava come do85 mina, quella concezione non trovò affermazione come principio generale . Ad amministrarla di solito provvedeva un servo ereditario, ma il magistrato (pretore), generalmente su istanza e nell’interesse dei creditori ereditari, avrebbe potuto anche nominare un curatore. All’acquisto ereditario infine potevano accompagnarsi effetti miEffetti minori nori: a seguito di esso anzitutto prendevano efficacia le minori didell’acquisto sposizioni mortis causa, come legati, fedecommessi, manomissioni. L’erede era poi tenuto per le spese funerarie (o con actio funeraria per il rimborso di esse a chi le aveva sostenute), doveva sostenere le spese inerenti l’apertura e la pubblicazione del testamento e quelle relative alla confezione dell’inventario. In82 Gai 2.56-57. Per meglio tutelare il futuro erede, inoltre, un senatoconsulto emanato sotto Adriano ne permise la revoca in caso di possessore di mala fede concedendo all’erede una hereditatis petitio utilis, mentre Marco Aurelio fece della presa di possesso di singole cose appartenenti all’eredità giacente un nuovo crimine, il crimen expilatae hereditatis. 83 D. 45.3.28.4 (Gai 3 de verb. obl.). 84 D. 30.116.3 (Flor. 11 inst.). Cfr. pure D. 41.1.34 (Ulp. 4 de cens.). 85 I. 3.17 pr.
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fine su di lui gravava l’imposta di successione che, fissata da Augusto nel 5% del capitale (lex de vicesima hereditatum del 6 d.C.) ed elevata al 10% da Caracalla, 86 non era più applicata in età giustinianea .
9. Hereditatis petitio Quanto alla difesa dell’eredità, all’erede era riconosciuto un apposito rimedio: l’hereditatis petitio. Si trattava di un’actio in rem e in particolare di una vindicatio hereditatis. Nell’antico processo delle legis actiones essa era esercitata nelle forme della legis actio sacramento in rem con vindicatio riferita non a singole res ma all’in87 tera eredità (l’attore affermava infatti: hereditatem meam esse) e giudizio (su quale sacramentum fosse iustum e quale iniustum) rimesso al tribunale dei centumviri. Tale forma è conservata anche dopo le leges Iuliae iudiciariae in conseguenza della 88 conservazione della competenza del tribunale centumvirale . In prosieguo di tempo, e comunque già dall’età preclassica, si poté agire nelle nuove forme dell’agere in rem per sponsionem (con sponsio praeiudicialis e relativa legis actio sacramento in personam) con decisione sempre affidata ai centumviri e, affermatosi il processo formulare, mediante formula petitoria analoga a quella della rei vindicatio, con menzione, nell’intentio, dell’hereditas al posto delle res. In origine competeva soltanto all’erede civile contro chiunque Legittimati possedesse anche un solo bene ereditario, sia che costui, interroga- attivi e passivi to in iure circa il suo titolo, si qualificasse erede – possessor pro herede – (fosse egli in buona o mala fede circa la legittimità di quel titolo, almeno 89 secondo l’opinione dei proculiani avversata dai sabiniani) , sia che non allegasse alcuna giustificazione del suo possesso, dichiarando semplicemente possideo quia 90 possideo (possessor pro possessore) . Era invece esclusa, almeno per tutta l’età classica, la legittimazione passiva di chi avesse addotto a fondamento del suo possesso un titolo particolare come la compravendita, la donazione o la dote (possessor pro emptore, pro donato, pro dote), dato che contro di lui si sarebbe dovuto far ricorso 91 alla rei vindicatio e non all’hereditatis petitio . Per il Sc. Giuvenziano del 129 d.C. (emanato in tema di caducorum vindicatio sotto Adriano, quando uno dei consoli era Celso figlio, ossia Publio Giuvenzio Celso, e il cui regime era poi stato esteso, in epoca classica, per via di interpretazione giurisprudenziale alla hereditatis peti86
CI. 6.33.3 pr., a. 531, che stabilisce: “è venuta meno dal nostro ordinamento la vicesima eredita-
ria”. 87
Gai 4.17. Gai 4.31. 89 Gai 4.144: “si ritiene possedere come erede tanto chi è erede, quanto chi erede si considera” e D. 5.3.11 pr. (Ulp. 15 ad ed.). 90 D. 5.3.11.1, 12 e 13 pr. (Ulp. 15 ad ed.). 91 CI. 7.34.4, a. 294. 88
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tio) poteva essere convenuto altresì qui dolo desiit possidere, ossia chi avesse abban92 donato dolosamente il possesso al fine di sottrarsi all’esperimento dell’azione ed anche, secondo qualche opinione giurisprudenziale, chi liti se obtulit, ossia chi avesse accettato dolosamente il processo a scopo dilatorio pur sapendo di non essere possessore (per distogliere l’erede dal vero possessore che avrebbe potuto in93 tanto usucapire) . A questi soggetti potevano aggiungersi, come legittimati passivi, il possessore di frutti ereditari e quanti tenessero, in luogo di cose dell’hereditas, il ricavato della loro vendita o l’aestimatio del loro valore ottenuto a seguito di giudizio. L’instaurazione del processo, come nelle altre actiones in rem, non poteva esser ostacolata, cosicché, se il convenuto possessore non avesse Regime della assunto la defensio rifiutandosi alla litis contestatio, egli sarebbe stahereditatis petitio to costretto a cedere il possesso (dell’eredità), concedendo il pretore (all’attore) l’interdictum quam hereditatem (restitutorio) con cui si intimava al convenuto la restituzione, in assenza della quale questi sarebbe stato condannato a dare l’equivalente di quanto avrebbe dovuto pagare se soccombente (nella azione ereditaria). La hereditatis petitio, come le altre azioni reali, era un’actio arbitraria con clausola restitutoria o condanna pecuniaria (solo nel regime della cognitio essa poteva concludersi con una condanna in forma specifica). L’oggetto della restitutio, come dell’eventuale aestimatio, era determinato con riferimento al momento della litis contestatio e comprendeva l’hereditas come cosa unica e complessa, ossia come universitas, nella sua piena estensione, comprensiva non solo delle cose di cui il de cuius avesse la proprietà civile o pretoria, ma anche di quelle su cui esercitasse usufrutto o pegno o delle quali fosse detentore (cose date in pegno al defunto 94 o in deposito o comodato) . Inoltre, in contrasto con le regole proprie delle actiones in rem per cui il convenuto risponde del suo comportamento doloso o colposo successivo all’instaurazione del giudizio ed è tenuto a restituire i frutti percepiti dopo la litis contestatio, il regime della hereditatis petitio, quale si precisa dopo il Sc. Giuvenziano, rende responsabile il possessore e lo considera tenuto anche per fatti anteriori alla litis contestatio. Così egli dovrà restituire, al fine di sottrarsi alla condanna pecuniaria, anche i frutti precedenti alla lite (litis contestatio), 95 dato che essi accrescono l’eredità (fructus omnes augent hereditatem) ; il prezzo di cose ereditarie vendute o viceversa le cose acquistate con denaro ereditario (sempre che il negozio fosse vantaggioso per l’eredità, altrimenti sarebbero rimaste oggetto di restitutio e pertanto di stima le cose ereditarie vendute o rispettivamente 96 il denaro ereditario speso) , ciò anche se vendita e acquisto avessero avuto luogo 97 ante litem contestatam; l’oggetto di crediti ereditari riscossi e più in generale tut92
D. 5.3.20.6c (Ulp. 15 ad ed.). D. 5.3.13.13 (Ulp. 15 ad ed.). 94 D. 5.3.19 pr. (Paul. 20 ad ed.). 95 D. 5.3.20.3 (Ulp. 15 ad ed.). 96 D. 5.3.20 pr.-2 (Ulp. 15 ad ed.). 97 D. 5.3.31.5 (Ulp. 15 ad ed.). 93
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to ciò di cui il convenuto si fosse arricchito in relazione al possesso e alla disposizione di cose ereditarie (aggravamenti erano previsti per il possessore di malafede 98 che doveva rispondere dei danni arrecati anche prima dell’inizio del processo) . 99 Quanto al regime delle spese, questo era analogo a quello della rei vindicatio . Proprio per questo insieme di obblighi l’hereditatis petitio era considerata avere una connotazione propria, distinta dalle altre actiones in rem in quanto compor100 tante talune praestationes personales . Ciò si riflette sul diritto giustinianeo, nel quale la hereditatis petitio è inclusa tra i giudizi di buona fede e per le sue caratteristiche non è più definita actio in rem, ma actio mixta (tam in rem quam in personam). Cambia anche il rito processuale utilizzato, che è ormai quello della cognitio extra ordinem, mentre scompare del tutto l’interdictum quam hereditatem.
10. Coeredità Se più erano gli eredi chiamati alla medesima hereditas, con l’acquisto si verificava un fenomeno di contitolarità per quote che dava vita alla coeredità. La disciplina ricalcava nelle sue linee generali quella della comunione ordinaria, anche se l’oggetto era più complesso essendo costituito non da un bene singolo o da più beni determinati, ma da quel complesso unitariamente considerato, anche se non precisamente definito, di posizioni giuridiche che era l’hereditas intesa come universitas. E anzitutto, data proprio l’eterogeneità dei rapporti che potevano concorrere a comporre l’hereditas, la coeredità era riferita propriamente ai beni di essa, consisteva nella comunione di cose ereditarie, mentre i crediti e i debiti ereditari ne erano esclusi. Secondo una norma delle XII Tavole (5.9) essi infatti dovevano imputarsi direttamente agli eredi in proporzione delle quote spettanti, si dividevano cioè tra i coeredi di modo che ciascuno sarebbe stato tenuto o avrebbe potuto esigerli solo per la sua quota, divenendo così le obbligazioni, che facevano capo al de cuius, obbligazioni parziarie. Eccezione era fatta per le obbligazioni indivisibili, che seguivano invece il regime delle obbligazioni solidali elettive. Sulle cose ereditarie invece, mentre in antico tra gli heredes sui che venivano alla successione del de cuius si costituiva una comproprietà plurima integrale nelle 98
D. 5.3.27 pr. (Ulp. 15 ad ed.). D. 5.3.38 (Paul 20 ad ed.); erano in particolare deducibili, tramite exceptio doli, le spese necessarie o utili effettuate dal possessore di buona fede sulle cose ereditarie prima della litis contestatio. 100 D. 5.3.25.18 (Ulp. 15 ad ed.). L’hereditatis petitio concorreva elettivamente con le azioni spettanti all’erede in base ai singoli rapporti rientranti nell’hereditas (azioni per crediti ivi ricompresi, rei vindicatio), di modo che l’esperimento dell’una escludeva le altre. A evitare tuttavia che con l’esperimento di un’azione particolare venisse dedotta in giudizio anche la questione della spettanza dell’eredità (impedendo così la successiva esperibilità dell’hereditatis petitio), alla formula di queste azioni (particolari) veniva premessa una praescriptio: quod praeiudicium hereditati non fiat, di modo che il giudice potesse limitare il suo accertamento al singolo diritto fatto valere senza decidere della questione relativa alla spettanza dell’eredità. 99
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forme del consortium ercto non cito, successivamente, venuto meno il consortium e le prerogative degli heredes sui e ammessi gli extranei, si determinava una comunione per quote ideali (pro indiviso) che seguiva le regole generali del condominio: ciascun coerede avrebbe potuto disporre o agire in difesa delle cose comuni 101 solo pro parte, in relazione, cioè, alla sua quota . Le quote potevano essere uguali, come avveniva nella successione legittima, ovvero disuguali come nella successione testamentaria, potendo il testatore assegnare quote diverse, specie in presenza di pluralità di eredi.
11. Accrescimento Il regime della coeredità implicava anche la disciplina della sorte del lascito devoluto al coerede nel caso in cui questi non fosse venuto alla successione del de cuius, ossia in particolare la disciplina del diritto di accrescimento. Con tale termine si intende in generale l’aumento della quota ereditaria per cui taluno è stato originariamente istituito o delato (ex testamento o ab intestato). L’accrescimento può infatti verificarsi anzitutto, fuori dell’ipotesi di coeredità, quando il testatore non ha assegnato tutto il patrimonio ereditario e perciò l’erede (unico) o gli eredi 102 istituiti vedono accrescere le loro quote con la quantità non assegnata . Più spesso però ricorre in ipotesi di comunione ereditaria. Qui però l’istituto (che, con riferimento alla comunione in generale, ricorre quando in presenza di determinate circostanze la quota di un contitolare si acquista da altri) si presenta con modalità diverse da quelle che ricorrono in materia di comproprietà. Mentre infatti nella comproprietà l’accrescimento ha luogo quando un comproprietario già tale rinunzia o comunque perde, senza trasmetterla ad altri, la sua quota, nella coeredità esso interviene quando il chiamato non ancora erede non acquisti (per rinunzia, incapacità, premorienza od altro) la quota a lui devoluta di modo che questa si accresce in proporzione agli altri chiamati accettanti. Nei confronti di un coerede già tale sarebbe infatti impossibile l’accrescimento dato che ciò presupporrebbe il venir meno della qualità di coerede, con conseguente perdita della quota, in contrasto con il principio semel heres semper heres. Le ragioni dell’affermarsi dell’istituto discendono da un lato dal principio della proprietà plurima integrale proprio dell’antico consortium (ercto non cito), per cui al venir meno di un contitolare non può che consolidarsi la posizione degli altri sull’intero, e dall’altro nell’incompatibilità tra la delazione testamentaria e legittima e nell’impossibilità nella successione ab intestato della successio graduum vel ordinum, principi che escludono per un verso l’operare di altro titolo di delazione (rispetto a quello previsto) e per l’altro quello di chiamati ulteriori. Ciò spiega il 101 102
Così pure i bonorum possessores. Cfr. D. 5.4.1 pr. (Ulp. 5 ad ed.). I. 2.14.5.
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carattere automatico dello ius adcrescendi, per cui in caso di coeredità (come del resto di comproprietà) il coerede che acquista la sua quota non può non conseguire ipso iure anche quanto da altri non acquistato, che si accrescerà con oneri e 103 vantaggi conseguenti . Non poteva invece darsi accrescimento in caso di eredi necessari, per la ragione evidente che, diventando questi necessariamente e automaticamente eredi sin dal momento della delazione (normalmente coincidente con la morte del de cuius), non si poteva verificare quella vacanza (per mancato acquisto) della quota ereditaria che è presupposto dell’applicazione dell’istituto. Il diritto di accrescimento si applicava tanto alla successione legittima quanto a quella testamentaria, e con riguardo a quest’ultima operava sia con riferimento all’istituzione di erede che in relazione ai legati. Nella successione ab intestato si verificava quando, non acquistando qualcuno tra più delati della stessa classe o grado la 104 propria quota, questa si accresceva in parti uguali alle quote degli altri ; nella successione testamentaria quando, avendo il testatore assegnato l’intero asse ereditario a più coeredi con determinazione di quote, qualcuno dei chiamati non acquistava, 105 di modo che la quota non acquistata si accresceva proporzionalmente agli altri . Questa disciplina, che costituisce il regime ordinario, subisce mo- Chiamata congiuntiva dificazioni in caso di chiamata congiuntiva, ossia quando più persone sono chiamate dal testatore a una medesima quota (o all’intera eredità). In queste ipotesi l’accrescimento non avviene in favore di tutti i coeredi, ma solo di quelli chiamati coniunctim (ad es. alla medesima quota: se vengono istituiti eredi Caio per metà e Mevio unitamente a Sempronio per l’altra metà, la quota non acquistata da Mevio si accresce solo a Sempronio e non a Caio in conseguenza del collegamento particolare istituito tra Mevio e Sempronio). La chiamata congiuntiva (coniunctio) può realizzarsi in forme diverse: re et verbis, quando la chiamata nella stessa quota avviene con un’unica disposizione (es.: Tizio e Caio siano eredi per la metà), ovvero re tantum, quando interviene con disposizioni distinte (Tizio sia erede per la metà, Seio sia erede nella stessa quota che ho attribuito a Tizio). Non costituisce invece vera e propria coniunctio e non produce effetti sulla disciplina dell’accrescimento, che opera come d’ordinario in favore di tutti i coeredi, quella realizzata verbis tantum, che si ha quando più persone vengono chiamate assieme (con un’unica disposizione), ma per quote distinte (non nella stessa quota o nell’intera eredità). In questo caso la congiunzione è infatti puramente formale 106 e non produce gli effetti suoi propri . 103
D. 29.2.35 pr. (Ulp. 9 ad Sab.). Il chiamato accettante non potrà neanche rinunciare senza rinunciare anche alla propria quota originaria. 104 Tit ex corp. Ulp. 26.5. Cfr. pure I. 1.3.4.4. 105 Così, ad es., essendo l’asse ereditario di 100 e avendo il testatore nominato quattro eredi di modo che A fosse istituito per 50, B per 25, C per 12,5, D per 12,5 e avendo A rifiutato, la nuova distribuzione avveniva in proporzione di quanto in precedenza disposto, attribuendo 50 a B e 25 per uno a C e D. 106 D. 28.5.64(63) (Iav. 1 ex Cass.). Cfr. pure D. 50.16.142 (Paul. 6 ad leg. Iul. et Pap.).
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Se in queste ipotesi il regime dell’accrescimento subisce limitazioni, a esso non si fa viceversa luogo quando al coerede si preferisce persona diversa e, in particolare, in caso di successione testamentaria quando il testatore avesse indicato un substitutus (che subentrasse all’erede istituito in caso di mancato acquisto di questi, c.d. sostituzione volgare) o nel caso trovasse applicazione successio in locum (c.d. diritto di rappresentazione, applicato nella successione ab intestato) ovvero, nei limiti in cui fu ammessa, trasmissione della delazione. Deroga al regime dell’accrescimento trovava luogo infine (nell’ambito della successione testamentaria) in caso di applicazione della legislazione caducaria augustea. Questa, destinata in origine a stabilire la sorte dei lasciti ex testamento privi di effetto per incapacitas del destinatario, aveva successivamente esteso la sua applicazione a tutti i casi di invalidità delle disposizioni testamentarie per eventi (di qualsiasi natura: morte, incapacità, mancato avveramento della condizione apposta) determinatisi dopo la perfezione del testamento. In conseguenza, a parte i casi in cui il mancato acquisto fosse dipeso da nullità originaria della disposizione (es.: istituzione di erede a favore di una persona già morta; disposizione pro non scripta) per i quali si applicava il regime normale dell’accrescimento, negli altri casi in cui il mancato acquisto fosse intervenuto per invalidità sopravvenuta dopo la perfezione del testamento ma prima della morte del testatore (es.: premorienza di un erede istituito; c.d. disposizioni in causa caduci) o dopo la morte di questi (caduca, es.: inefficacia della delazione per morte, rinuncia, incapacità) il regime applicabile era quello della legislazione caducaria che, almeno dopo Caracalla (abolito il privilegio degli eredi e legatari liberos habentes), prevedeva che i caduca si devolvessero agli ascendenti e discendenti entro il terzo grado e, in mancan107 za di questi, al fisco . Nel diritto postclassico e giustinianeo le disposizioni caducarie vengono peraltro progressivamente meno e Giustiniano le abolisce del tutto dichiarando di tornare all’antico ius adcrescendi (in favore di tutti i coeredi), mantenendo unicamente in vigore il principio che colui il quale acquista una quota per accrescimento sopporta non solo gli oneri ereditari generali in proporzione accresciuta alla nuova quota, ma anche quegli oneri che dal testatore erano stati 108 imposti nominatim all’erede la cui quota veniva acquistata per accrescimento . Regime particolare riguardava poi l’indegnità cui non si applicava né l’accrescimento né i regimi sostitutivi (sostituzione, trasmissione della delazione) dato che quanto era disposto in favore dell’indegno era confiscato. Il ius adcrescendi aveva luogo peraltro anche tra collegatari, ma per la disciplina in proposito si rinvia alla trattazione relativa ai legati.
Deroghe al regime dell’accrescimento
107 108
Tit. ex corp. Ulp. 17.2. Cfr. CI. 6.51.1.2-2, a. 534 de caducis tollendis.
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12. Scioglimento della comunione ereditaria Si è visto che quando più eredi concorrono alla medesima eredità, fintantoché questa non è divisa, si costituisce tra loro una comunione, in cui ciascuno è titolare di una quota ideale. Questa comunione poteva cessare in qualsiasi momento o 109 in via convenzionale, per accordo tra i coeredi , o in via giudizia110 familiae ria attraverso l’esercizio della azione di divisione ereditaria , actio Actio erciscundae 111 familiae erciscundae , risalente all’età delle XII Tavole, la cui denominazione arcaica (facente riferimento alla familia come entità patrimoniale) significa: “azione per la divisione dell’eredità”. Essa spettava agli eredi reciprocamente tra loro ed era esperibile, nell’antico processo delle legis actiones, attraverso 112 la legis actio per iudicis arbitrive postulationem , e, dopo le leggi Giulie giudiziarie, nelle nuove forme del processo formulare. Il regime era simile a quello dell’actio 113 communi dividundo e, come in quella, la formula attribuiva al giudice (arbiter) il potere di procedere ad adiudicationes e condemnationes. Proprio per questo nel diritto giustinianeo era considerata un’azione mista, tanto reale quanto personale 114 ed era inclusa tra le azioni di buona fede . In relazione ad essa il giudice (arbiter), procedendo alla divisione, doveva distribuire i cespiti ereditari in lotti di valore più o meno corrispondente a quello delle quote ideali assegnate ai singoli coeredi. L’adiudicatio, ossia la pronuncia con cui l’arbiter assegnava i lotti così dispo115 sti, non aveva valore retroattivo e produceva effetti costitutivi della proprietà o di eventuali altri diritti reali (il giudice infatti poteva distribuire tra i coeredi un usufrutto di cui il testatore avesse legato la nuda proprietà, oppure poteva, per eguagliare le quote, attribuire a un coerede la nuda proprietà e costituire ex novo a favore di un altro un usufrutto, ovvero ancora costituire servitù per consentire una adeguata utilizzazione dei fondi risultanti a seguito della divisione). Il giudice do109
Ciò avveniva di norma attraverso appositi atti traslativi con cui, ad es., uno tra i due condomini faceva in iure cessio della propria quota di eredità all’altro e questi gli trasferiva in cambio, in proprietà esclusiva, la metà concreta del bene comune. 110 Questa era la modalità più frequente secondo il giurista Paolo (15 ad Sab.) D. 8.2.26. 111 D. 10.2.2 pr. (Ulp. 19 ad ed.): “Attraverso l’azione di divisione delle cose ereditarie si divide l’eredità”, erciscere infatti è utilizzato nel senso di dividere. L’azione era duplex dal momento che ciascuna parte assumeva al tempo stesso la veste di attore e convenuto (D. 10.2.3, Gai. 7 ad ed. prov.). Non si richiedeva che a essa partecipassero tutti i coeredi (D. 10.2.4, Ulp. 19 ad ed.), ma se qualcuno di essi non interveniva non restava pregiudicato dall’assenza, dato che avrebbe potuto sempre domandare la divisione come se la precedente non fosse avvenuta, forse a seguito di restitutio in integrum (cfr. CI. 3.36.17, a. 293). 112 Gai 4.17. 113 Quest’ultima era di introduzione più recente, sarebbe stata disposta infatti attraverso una più tarda lex Licinnia. Cfr. Gai 4.17: “… circa la divisone dell’eredità tra coeredi la medesima legge delle XII Tavole comandò che si agisse per richiesta di giudice. La stessa cosa fece la legge Licinnia se si agiva per dividere una cosa comune”. 114 I. 4.6.20. 115 Tali effetti sarebbero stati di ius civile se il iudicium era legitimum, di ius honorarium se il iudicium era imperio continens.
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veva anche disporre gli eventuali conguagli necessari per equilibrare le quote in 116 caso di sproporzione (conseguente, ad es., alla assegnazione di beni indivisibili) e provvedere alla regolazione dei conti fra i coeredi in relazione alle obbligazioni sorte a causa della comunione e riguardanti le spese, i danni e i frutti. Un coerede poteva infatti aver sostenuto spese, o raccolto frutti in misura eccedente la propria quota o cagionato danni alle cose ereditarie. Sugli eventuali rimborsi od obblighi di risarcimento decideva appunto il giudice con apposite condemnationes. Alle stesse necessità i coeredi potevano peraltro provvedere in via convenzionale garantendo l’assolvimento degli adempimenti necessari con stipulationes, in mancanza delle quali sarebbe intervenuto il pretore con la concessione di apposite actiones in 117 factum (poi divenute actiones praescriptis verbis nel diritto giustinianeo) . In ogni caso il giudice dell’azione di divisione ereditaria doveva tener conto di una serie di circostanze che rendevano la sua attività molto più complessa di quella del giudice della divisione ordinaria. E nell’assegnazione dei cespiti alle singole quote egli avrebbe dovuto anzitutto tener conto della divisio parentis inter liberos, ossia della ripartizione già operata dall’ereditando che avesse diviso le cose tra i figli, ovvero dei prelievi (praeceptiones) da esercitarsi sull’asse ereditario da parte dei singoli coeredi prima ancora della divisione in conseguenza di legati per praeceptionem ovvero di institutio ex re certa.
13. Bonorum possessio Il regime della successione universale mortis causa secondo il ius civile, ossia della hereditas, fin qui descritto, nonostante una sensibile evoluzione interna e un progressivo adeguamento dei suoi istituti continuava a risentire, ancora in età repubblicana avanzata, dei caratteri originari che lo avevano connotato nell’epoca più antica. Esso presupponeva ancora una struttura familiare patriarcale basata sulla parentela agnatizia e il vincolo di potestà ed era regolato da un sistema ristretto di norme e formalismi che progressivamente finirono per essere percepiti come insufficienti o ingiusti. Così, secondo il sistema delle XII Tavole, alla successione intestata del de cuius dovevano venire in primo luogo i figli in potestà (sui), in difetto di questi, l’agnato prossimo ovvero i gentili. Ma questo sistema, modellato su una società primitiva, con relazioni parentali limitate al ristretto gruppo domestico, non poteva certo risultare adeguato alle più mature esigenze e alle più complesse relazioni familiari della tarda repubblica. In esso non trovava spazio la parentela di sangue in quanto tale, vuoi per linea maschile vuoi per linea femminile (cognatio), da esso erano esclusi i figli emancipati in quanto estranei alla familia 116
I. 4.17.4. Il giudice poteva anche stabilire la vendita della cosa comune e dividere il ricavato tra i coeredi, disponendo, in caso, un’asta (licitatio) cui potevano esser ammessi i soli coeredi o anche estranei (CI. 3.37.1, a. 213). 117 CI. 3.36.23, a. 294.
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del pater, in esso non avevano riconoscimento i rapporti successori tra madre e figli, non esistendo nei matrimoni sine manu (sempre più frequenti) alcun vincolo di parentela tra loro. D’altra parte il rigoroso formalismo testamentario non lasciava spazio alcuno a modalità diverse di manifestazione delle disposizioni di ultima volontà. Proprio per ovviare a questi inconvenienti e dunque in funzione correttiva e suppletiva, ma ancor prima per rendere più agevole l’applicazione del ius civile, ossia con finalità adiutoria (secondo le direttive di massima dell’azione pretoria 118 enunciate da Papiniano) , intervenne in età repubblicana avanzata il pretore, creando un proprio sistema successorio che venne ad affiancarsi a quello dello ius civile. Non potendo derogare alle norme del diritto civile e non potendo creare 119 eredi, come precisato da Gaio , il pretore, avvalendosi dei poteri giurisdizionali a lui conferiti, in vista dell’adeguamento delle antiche norme alle nuove concezioni sociali, operò attraverso la concessione del possesso dei beni ereditari (bonorum possessio) secondo criteri da lui stesso fissati. È noto come già nell’antico processo delle legis actiones, e in Origini processuali particolare nel campo delle azioni reali che utilizzavano il rito della legis actio sacramenti in rem, il pretore procedesse, in chiusura della fase in iure, a dicere vindicias, ossia all’assegnazione a una delle parti in lite del possesso provvisorio della cosa controversa. Analogamente in caso di controversia de hereditate (esperita per rivendicare la proprietà di res hereditariae e, più in generale, per far valere la qualità di erede da parte di un soggetto privo del possesso delle res hereditariae) il pretore, a seguito di una cognizione sommaria, poteva assegnare il possesso delle res controversae (bonorum possessio) a una delle parti, rimanendo impregiudicato l’esito del giudizio. L’istituto trovò applicazione anche nella successiva procedura dell’agere in rem per sponsionem e nel più recente processo formulare, in relazione al quale il pretore procedeva all’assegnazione del possesso provvisorio (ormai in avvio – e non più in chiusura – della fase in iure) a colui che gli appariva come il più probabile erede civile o che, dichiarandosi tale, offriva le migliori garanzie di restituzione dei beni in caso di soccombenza. Ma in progresso di tempo, sul finire della Repubblica, il pretore iniziò a concedere la bonorum possessio non solo a chi potesse esibire un titolo civile con cui giustificare la sua pretesa all’eredità o, assumendosi erede, desse le migliori garanzie di restituzione, ma anche a chi, indipendentemente dalle regole dello ius civile, egli riteneva più opportuno venisse alla successione del de cuius. Applicando l’istituto in modo estensivo, il pretore finì con l’attribuire la bonorum possessio a categorie di persone che per il diritto civile sarebbero state escluse dall’eredità. E ciò anche fuori dell’esercizio dell’hereditatis petitio e indipendentemente dalla necessità di determinare (attraverso l’attribuzione della bonorum possessio) chi dovesse sostenere il giudizio nel 118 119
D. 1.1.7.1 (Papin. 2 defin.). Gai 3.32: “il pretore non può creare eredi”.
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più comodo ruolo di convenuto, e cioè indipendentemente dall’esistenza di una controversia attuale. Così l’istituto, nato in ambito processuale, e a questo legato per una lunga parte della sua vicenda storica, andò perdendo quella sua originaria connotazione per assumere valenza sostanziale, divenendo, durante il Principato, un vero e proprio sistema di successione ereditaria, attuato per il tramite dell’assegnazione del possesso dei beni del de cuius. Le regole in proposito, fissate inizialmente negli editti dei pretori (che indicavano quali soggetti e in quale ordine avrebbero potuto aspirare alla bonorum possessio), si andarono progressivamente sviluppando e precisando fino a trovare, all’inizio del Principato, una sistemazione compiuta nella redazione giulianea dell’Editto perpetuo (130 d.C.), salvo ricevere, più avanti nel tempo, ulteriori importanti modifiche ad opera di interventi imperiali (in particolare di Antonino Pio). Come però il pretore non poteva invalidare situazioni giuridiche riconosciute dallo ius civile, ma solo paralizzarne la realizzazione sul piano processuale (attraverso exceptio, denegatio actionis o viceversa ignorandone l’esistenza tramite restitutio in integrum), così egli non poteva costituire situazioni rilevanti per il ius civile. Poteva cioè creare un sistema successorio parallelo a quello del diritto civile, ma non a esso equivalente. Egli quindi non avrebbe potuto creare eredi, ma soltanto bonorum possessores, rimanendo la qualifica di heres riservata, per tutta l’età classica, al successore universale secondo il diritto civile, mentre quella di bonorum possessor designava il successore universale Bonorum possessor pretorio. Alla distinzione formale corrispondeva peraltro un diverloco heredis so regime sostanziale: mentre infatti l’erede civile acquistava il dominium delle cose ereditarie e poteva avvalersi della tutela apprestata dallo ius civile esperendo l’hereditatis petitio, al bonorum possessor il pretore attribuiva un potere di fatto sui corpora hereditaria, ossia il semplice possesso di essi (in bonis habere), utile ai fini dell’usucapione. Egli poteva peraltro, attraverso il possesso indisturbato per il tempo richiesto (che era di un anno, trattandosi di usucapio pro he120 rede), acquistare (per usucapionem) la proprietà civile dei corpora hereditaria . Ove poi fosse stato privato del possesso dei beni ereditari prima del compimento del termine ad usucapionem, gli era concessa un’actio ficticia, analoga alla Publiciana, per il recupero di essi. Per ottenere inoltre la restituzione dei beni ereditari da chi li possedesse senza titolo, al bonorum possessor era concesso un rimedio più rapido ed efficace dell’azione reale, ossia un apposito interdetto (adipiscendae possessionis) da esercitarsi in luogo della hereditatis petitio (riservata all’erede civile) e che, come quella, aveva per oggetto l’eredità nel suo complesso (interdictum quorum bonorum). In relazione agli altri rapporti che facevano capo al compendio ereditario (debiti e crediti in particolare) al bonorum possessor e contro di lui il pretore concesse le stesse azioni che sarebbero spettate a favore e contro l’erede civile, 121 adattate tramite finzione che egli fosse erede . 120 121
Gai 3.80. Gai 4.34.
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In conseguenza di tale riconoscimento e dell’attribuzione di posizioni di vantaggio e di svantaggio analoghe a quelle dell’erede civile, la giurisprudenza, sebbene riconoscesse la diversità della situazione del bonorum possessor in quanto fondata sulla concessione pretoria, finì per assimilarne la posizione, dal punto di vista sostanziale, a quella dell’erede, di modo che egli fu considerato velut heres, loco here122 dis , vero e proprio successore universale nel complesso dei rapporti giuridici che 123 facevano capo al de cuius, concepiti come universitas in analogia alla hereditas . L’esistenza di due sistemi successori paralleli e interferenti tra Funzione adiutoria loro, hereditas da un lato e bonorum possessio dall’altro, pose però il della bonorum problema della loro coesistenza e della disciplina dei rapporti reci- possessio proci. Il sistema pretorio era certamente sorto per sorreggere (adiuvare) il sistema civile e finché operava in questa direzione non si generavano ragioni di contrasto. Poteva infatti essere interesse dell’erede civile (testamentario o ab intestato) chiedere, esponendo sommariamente il proprio titolo (esibendo un testamento o attestando la propria qualità di suus o di agnato), la bonorum possessio dei beni ereditari. Egli avrebbe sommato in tal modo la qualifica di heres e di bonorum possessor potendo avvalersi, ove necessario, oltre che dei rimedi apprestati dallo ius civile (a tutela dell’erede e tra essi in particolare l’hereditatis petitio), della più rapida ed efficace tutela pretoria fornita dall’interdictum quorum bonorum che per sua stessa natura consentiva un più celere recupero dei beni ereditari eventual124 mente posseduti da altri senza titolo . In tal modo ne sarebbe risultata agevolata la posizione dell’erede civile, che altrimenti avrebbe dovuto far ricorso all’esperi125 mento della hereditatis petitio per il recupero dei beni ereditari . Ma al di fuori di questi casi il pretore si dispose ad accordare la bonorum possessio anche a chi, pur non essendo erede civile, egli reputava per ragioni di equità degno di venire alla successione del de cuius o in aggiunta agli eredi civili, e dunque posposto a essi (funzione suppletiva della bonorum possessio), o a preferenza di questi (e dunque con funzione correttiva rispetto allo ius civile). Così egli, elaborando un proprio sistema successorio in assenza di testamento, suppletiva concedeva una bonorum possessio sine tabulis (senza le tavole del te- Funzione o correttiva stamento) secondo un ordine che se da un lato teneva conto del sistema antico dello ius civile, dall’altro lo integrava o lo correggeva. Se infatti nel122
Gai 3.32 (cfr. I. 3.9.2). Così pure Gai 4.34. D. 50.16.208 (Afric. 3 quaest.). 124 Gai 3.34. 125 Se peraltro il richiedente l’interdetto quorum bonorum, preteso erede civile, non avesse avuto un valido titolo di legittimazione, il possessore avrebbe potuto non ottemperare all’interdetto e far valere le proprie ragioni nel giudizio instauratosi sul procedimento interdittale ottenendo l’assoluzione e conservando così il possesso dei beni ereditari. In ogni caso anche dopo l’assegnazione del possesso dei beni ereditari il bonorum possessor, preteso erede civile, avrebbe dovuto cedere il possesso dei beni all’effettivo erede, nel caso in cui non fosse riuscito a provare il suo titolo, o all’erede avente un titolo poziore rispetto al suo. 123
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la prima classe dei liberi (stabilita dal pretore in luogo della classe dei sui dell’antico sistema delle XII Tavole) erano ricompresi i discendenti in potestà già contemplati nell’antico diritto civile, di essa facevano tuttavia parte anche i figli emancipati, esclusi dal sistema dello ius civile in quanto non più inseriti nella familia del de cuius alla sua morte. Anche a questi il pretore concedeva una bonorum possessio in assenza di testamento (sine tabulis), ma, mentre quella concessa ai discendenti in potestà (sui) aveva una mera funzione adiutoria dal momento che questi erano già eredi per il diritto civile (e avevano già la tutela civilistica della hereditatis petitio cui ora si aggiungeva quella pretoria), quella concessa ai figli emancipati, esclusi dal sistema civilistico, aveva una funzione correttiva dal momento che provvedeva a sanare una stortura dello ius civile che, nella sua rigida concezione potestativa del vincolo familiare, escludeva i figli emancipati dalla successione ab intestato del de cuius (in quanto non più sui heredes per lo ius civile). Funzione adiutoria aveva anche la bonorum possessio sine tabulis Bonorum possessio concessa alla seconda classe dei legitimi, dato che di essa facevano sine tabulis parte gli stessi appartenenti alla classe degli agnati previsti dal sistema civile. A una finalità suppletiva corrispondeva invece la bonorum possessio (sine tabulis) concessa agli appartenenti alle ultime due classi (del sistema pretorio) dei cognati e unde vir et uxor (marito e moglie), dato che queste, non previste dal sistema dello ius civile, comprendevano nuove figure di successori che venivano chiamate dopo che si fossero esauriti gli eredi civili. Oltre alla predisposizione di un sistema di successione in asBonorum possessio senza di testamento il pretore si dispose ad accordare una bonorum secundum tabulas possessio secundum tabulas (secondo le tavole del testamento) nei casi in cui un testamento vi fosse, ma non corrispondesse alle prescrizioni dello ius civile (che, come visto, prevedeva l’utilizzo delle forme della mancipatio) e dunque fosse da considerare nullo (con conseguente apertura della successione intestata). Anche questa poteva peraltro corrispondere a una funzione adiutoria o correttiva. Se la bonorum possessio secundum tabulas fosse stata concessa agli stessi eredi ab intestato (secondo le regole della successione legittima fissate dallo ius civile) in conseguenza della nullità del testamento, essa avrebbe avuto una funzione adiutoria, mentre avrebbe avuto una funzione correttiva in caso inverso. Così, ad esempio, se gli eredi istituiti in un testamento invalido iure civili, ma valido iure praetorio perché redatto per iscritto e suggellato da 7 testimoni (condizioni minime richieste dal pretore per la validità dell’atto), fossero stati diversi da quelli che avrebbero dovuto succedere iure civili ab intestato in conseguenza della nullità del testamento, la bonorum possessio concessa dal pretore agli istituiti nel testamento (valido iure praetorio), escludendo i successori ab intestato, avrebbe avuto una funzione correttiva. In conseguenza dell’ampliarsi della possibilità di disporre per Bonorum possessio testamento del de cuius, alla già prevista tutela civilistica delle aspetcontra tabulas tative dei più stretti congiunti (attuata in via formale attraverso l’obbligo della espressa istituzione o diseredazione pena l’invalidità del testamento) il pretore aggiunse un proprio sistema di tutela attuata tramite la concessione
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di un’apposita bonorum possessio contra tabulas (possesso dei beni contro le tavole del testamento). Anche questa peraltro poteva assolvere a una funzione adiutoria o correttiva. Così se fossero stati preteriti (cioè dimenticati) i discendenti in potestà (sui heredes) che il testatore avrebbe dovuto in base alle regole dello ius civile istituire o diseredare (successione necessaria formale) onde evitare la nullità del testamento, la bonorum possessio contra tabulas (contro le disposizioni del testatore) concessa dal pretore avrebbe avuto funzione adiutoria in quanto essa sarebbe stata accordata agli stessi soggetti (discendenti in potestà, ossia sui heredes) che sarebbero venuti alla successione del de cuius (in base alle regole della successione ab intestato) in conseguenza della nullità del testamento. Ove invece fosse stato preterito un emancipato, per il quale pure il pretore (ma non il ius civile) aveva imposto un obbligo di menzione, la bonorum possessio contra tabulas accordata dal pretore avrebbe assolto a una funzione correttiva dato che gli emancipati non erano sui heredes (discendenti in potestà del de cuius) e, secondo il ius civile, non sarebbero venuti alla successione ab intestato di questi in conseguenza della invalidità (iure praetorio) del testamento. Da quanto detto emerge peraltro come la concorrenza tra eredi Rapporti civili e successori pretori potesse generare conflitti e in ogni caso tra eredi civili e determinasse la necessità di stabilire un ordine di preferenza tra gli bonorum possessores uni e gli altri. Tali conflitti, in un primo tempo limitati, riducendosi la concessione della bonorum possessio a una funzione meramente suppletiva, operando a favore di nuove categorie di successori non contemplate dallo ius civile solo a condizione dell’assenza di eredi civili, divennero più frequenti via via che la bonorum possessio assunse una funzione correttiva. In particolare in caso di successione ab intestato poteva sorgere conflitto ove il de cuius avesse lasciato un figlio emancipato e un fratello, perché mentre per il diritto civile erede sarebbe stato quest’ultimo, agnato prossimo del de cuius, per il pretore, viceversa, a venire alla successione avrebbe dovuto essere il figlio emancipato, anteposto secondo il sistema pretorio agli agnati (collocati nella seconda classe dei legitimi) in quanto assegnato alla categoria dei liberi (prima classe del sistema pretorio). Nell’ambito della successione testamentaria, poi, conflitto poteva generarsi tra gli eredi istituiti in un testamento invalido iure civili (per mancanza dei requisiti richiesti), ma valido come testamento pretorio, e gli eredi ab intestato che sarebbero venuti alla successione del de cuius al posto di quelli indicati in conseguenza della invalidità civile del testamento. Ma più in generale conflitto poteva sorgere non solo tra successori pretori e successori civili (come negli esempi sopra richiamati tra figlio emancipato e fratello o tra istituito in un testamento pretorio ed eredi civili ab intestato) per stabilire quale dovesse venire con preferenza alla successione del de cuius, ma anche tra gli stessi eredi civili nel caso in cui solo alcuni e non altri avessero chiesto la bonorum possessio e la conseguente tutela pretoria. Si è visto come in particolare quest’ultima (interdictum quorum bonorum) venisse concessa dal pretore sulla base di un sommario esame delle ragioni (priorità del titolo) del richiedente. Si poteva così generare un contrasto tra eredi civili e in particolare tra
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quanti, pur avendo ottenuto la bonorum possessio, non avevano una posizione poziore rispetto ad altri e quanti, semplici eredi in conseguenza di accettazione dell’eredità non avendo richiesto la bonorum possessio, vantavano purtuttavia un titolo di priorità, come nel caso in cui uno zio paterno del de cuius (agnato di terzo grado), bonorum possessor, si fosse trovato a concorrere con un fratello di questi (agnato di secondo grado), semplice erede. A disciplinare tutte queste situazioni un contributo fondamentale venne fornito dal pretore il quale, non potendo intervenire sul piano sostanziale abrogando il ius civile, operò sul piano processuale paralizzandone l’applicazione in modo da far prevalere i propri eredi o gli eredi che secondo il proprio sistema successorio avrebbero dovuto avere priorità. E il mezzo utilizzato fu ancora una volta l’exceptio (doli generalis), che nei casi esaminati il figlio emancipato (bonorum possessor sine tabulis) avrebbe potuto opporre all’hereditatis petitio del fratello del defunto e gli eredi istituiti in un testamento valido iure praetorio avrebbero potuto opporre ai successori ab intestato. Mentre nell’ultimo dei casi esaminati la bonorum possessio accordata all’erede civile meno prossimo in grado (anche secondo il sistema pretorio, in quanto zio del defunto) avrebbe dovuto cedere alla hereditatis petitio dell’erede poziore (fratello del de cuius). Ne risultava così un sistema complesso, articolato su una scala di priorità in cui la bonorum possessio avrebbe potuto far conseguire o meno la possibilità di trattenere quanto devoluto. E mentre in un primo tempo la preferenza venne accordata agli eredi civili che avrebbero comunque prevalso sui successori pretori (di modo che ad esempio l’erede legittimo civile sarebbe stato preferito all’istituito in un testamento meramente pretorio), presto si cominciò a distinguere caso da caso, apparendo iniquo al pretore che l’erede civile dovesse comunque prevalere sul bonorum possessor. In conseguenza la giurisprudenza iniziò a distinguere tra bonorum Bonorum possessio possessio cum re e sine re a seconda che in caso di conflitto si desse cum re e sine re al bonorum possessor la possibilità di prevalere o meno sull’erede 126 civile e dunque di trattenere quanto assegnato . Perciò nel caso esaminato di conflitto tra fratello del de cuius, erede civile, e zio paterno, anch’egli heres, ma al tempo stesso bonorum possessor in forza della concessione pretoria, la bonorum possessio di quest’ultimo sarebbe stata sine re (senza effetto) perché i beni assegnati potevano essergli tolti a vantaggio dell’erede civile che vantava un titolo poziore rispetto al suo anche in base al sistema pretorio, mentre nel caso di successione intestata del fratello del de cuius, erede civile, e del figlio emancipato, bonorum possessor, data la priorità di quest’ultimo nell’ordine pretorio, la possessio accordatagli non avrebbe potuto essergli tolta dall’heres civile, sarebbe cioè stata cum re. Nel corso della stessa età classica, e in particolare a partire da Antonino Pio (138-161 d.C., che ammise la prevalenza dell’istituito con testamento meramente pretorio rispetto agli eredi 127 ab intestato civili) , si pervenne infine a un’integrazione tra sistema civile e sistema 126 127
Tit ex corp. Ulp. 28.13. Gai 2.120.
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pretorio, di modo che di fronte a un erede civile che nel sistema edittale (cioè stabilito dal pretore) apparteneva a una categoria successiva finì con il prevalere comunque il bonorum possessor che avesse un titolo poziore, la cui possessio sarebbe stata pertanto cum re, con effetto, in quanto non avrebbe potuto essergli sottratta. L’attribuzione della bonorum possessio, pur avvenendo secondo le medesime cause di delazione (testamentaria o ab intestato) previste dallo ius civile, per cui, come si è visto, si distingueva tra una bonorum possessio secundum tabulas (secondo il testamento), sine tabulis (senza testamento) e contra tabulas (contro il testamento, sottospecie della precedente), seguiva però regole proprie, per alcuni aspetti sconosciute allo ius civile e fissate in un’apposita clausola edittale, Edictum successorium il c.d. edictum successorium (D. 38.19). La chiamata dei successibili si verificava infatti bensì per categorie (come nel ius civile), ma (diversamente da questo) per una durata limitata nel tempo: un anno per i figli e i genitori del de cuius e 100 giorni per gli altri chiamati, termini che decorrevano normalmente dalla morte dell’ereditando per la categoria prima chiamata, dalla scadenza del 128 termine assegnato alla categoria precedente per chiamati ulteriori . Entro questi termini gli appartenenti a ciascuna categoria avrebbero dovuto chiedere di essere ammessi alla bonorum possessio, ma se li avessero fatti decorrere inutilmente, senza che fosse stata presentata la richiesta (petitio o agnitio bonorum possessionis), questa sarebbe stata loro preclusa e avrebbe avuto luogo (diversamente dallo ius civile che non ammetteva successio ordinum vel graduum) il passaggio di grado, ossia l’istanza sarebbe spettata alla categoria successiva. A tal fine erano anzitutto ammessi alla bonorum possessio (secundum tabulas) gli eredi iscritti in un testamento valido secondo lo ius civile o il diritto pretorio (se esistente); ove però questi non avessero presentato istanza nel termine per essi previsto, questa sarebbe spettata ai successibili ab intestato (bonorum possessio sine tabulis) iniziando dalla classe dei liberi, primi nell’ordine edittale, per passare poi (ove questi avessero lasciato decorrere inutilmente il termine) agli appartenenti alla seconda classe dei legitimi e via via alle classi successive (cognati, vir et uxor; in mancanza si sarebbe proceduto alla bonorum venditio dei beni ereditari). Era chiaro peraltro che l’istanza presentata entro i termini dagli appartenenti a una categoria precedente avrebbe escluso quelli delle classi successive. In ogni caso un’istanza era comunque necessaria per ottenere la Acquisto della concessione della bonorum possessio dato che questa non spettava au- bonorum possessio 128
Tit. ex corp. Ulp. 28.10: “La bonorum possessio è data ai genitori e ai figli entro l’anno da quando potevano chiederla, agli altri entro cento giorni”. Il computo avveniva secondo il criterio del tempo utile, calcolando cioè solo i giorni in cui il diritto avrebbe potuto esser fatto valere. Prima della scadenza del termine il chiamato avrebbe potuto rinunziare o astenendosi dalla richiesta al pretore – bonorum possessionis petitio – ovvero attraverso un atto di ripudio, anche non formale (D. 38.9.1.6, Ulp. 49 ad ed.). Non poteva aversi invece rinunzia alla bonorum possessio decretalis, disposta dal pretore a seguito di apposita causae cognitio, ossia di indagine di merito sull’opportunità di concederla, in quanto questa si considerava acquistata al momento stesso dell’emanazione del decretum del magistrato (D. 38.9.1.7, Ulp. 49 ad ed.).
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tomaticamente (come l’eredità civile agli eredi necessari), ma andava chiesta (petitio) al pretore (risultando così i successori pretori tutti volontari), il quale poteva 129 concederla (datio) in conformità alle previsioni edittali . Queste contenevano la disciplina generale dell’istituto e il pretore si limitava ad applicarne le disposizioni al caso concreto sulla base di una sommaria valutazione della domanda e degli eventuali documenti ai quali questa si appoggiava. La concessione avveniva poi attraverso la semplice sottoscrizione del documento (libellum) esibito dal privato (concessione de plano). Accanto a questa bonorum possessio c.d. Bonorum possessio edictalis perché concessa in applicazione delle clausole generali conedictalis e decretalis tenute nell’Editto, il pretore poteva accordare, anche al di fuori delle previsioni edittali, quando ragioni di equità lo richiedessero (o apposite disposizioni di legge ne avessero rimesso a lui la concessione in base a un apprezzamento discrezionale), una bonorum possessio c.d. decretalis perché disposta in forza di un apposito provvedimento (decretum) adottato ad hoc. Così, osservava il giuri130 sta Ulpiano , in caso di incertezza circa la possibilità di succedere dei figli alla madre ex Sc. Orfiziano essendo dubbio lo stato di lei (se madre di famiglia o ancora figlia di famiglia) causa l’assenza di notizie sulla sorte del padre (di lei) prigioniero di guerra, onde evitare il perdurare dello stato di incertezza e l’impossibilità per i figli (in caso di morte) di trasmettere ai propri eredi il diritto all’eredità materna, il pretore poteva intervenire accordando, dopo apposito esame (causae cognitio), una bonorum possessio che, in quanto concessa in base alle peculiarità del caso concreto e disposta in forza di un apposito provvedimento (decretum) del magistrato, era detta appunto decretalis. E non poteva che essere tale in quanto attribuita al di fuori delle previsioni edittali. Hereditas e Qualunque fosse la causa della bonorum possessio, resta comunbonorum possessio que il fatto che, essendo la posizione del bonorum possessor analoga a quella dell’erede civile, non poteva che esistere una fondamentale coincidenza nei contenuti e nel regime sostanziale tra hereditas e bonorum possessio. In conseguenza anche questa, così come l’hereditas, ricomprendeva, nonostante il termine bona potesse far pensare a entità patrimoniali meramente attive, un insieme unitariamente considerato di posizioni giuridiche attive e passive e dunque concreta131 va, come la giurisprudenza non mancò di sottolineare, un’universitas, uno ius . La disciplina che ne seguiva rispecchiava in buona sostanza quanto disposto per l’hereditas e a trovare applicazione erano le medesime regole fissate per stabilire i requisiti di capacità, il regime di capacitas e indegnità, la disciplina di comunione, accrescimento e divisione: notevoli differenze esistevano invece, come visto, quan129
Mentre peraltro l’accettazione dell’hereditas andava fatta personalmente, la richiesta (petitio) della bonorum possessio poteva esser compiuta anche a mezzo di rappresentante: mandatario o anche negotiorum gestor. In quest’ultimo caso l’acquisto si sarebbe prodotto dalla ratifica. In caso di bonorum possessio devoluta ad incapaci si applicavano regole analoghe a quelle stabilite per l’accettazione dell’eredità. 130 D. 38.17.1.1 (Ulp. 12 ad Sab.). 131 D. 37.1.1 e 3 pr.-2 (Ulp. 39 ad ed).
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to a delazione – edictum successorium – e acquisto. Questa analogia di disciplina, peraltro, non superava la diversità dei due istituti (hereditas e bonorum possessio), che per tutta l’epoca classica continuarono a essere considerati come distinti in conseguenza del permanere della contrapposizione tra ius civile e ius honorarium. La situazione mutò però in epoca postclassica; ve- Disciplina postclassica e giustinianea nuta meno la giurisdizione pretoria e abolito il processo formulare venivano a cadere le ragioni della conservazione di una distinzione che non aveva più effettiva giustificazione. Diocleziano distingue ancora tra le due figure (he132 reditas e bonorum possessio) e il diritto giustinianeo della Compilazione, rifacendosi al materiale classico, conserva terminologia e trattazione separata per le due forme di successione, ma ormai la distinzione rimane solo formale mentre il re133 gime giuridico volge verso una sostanziale unificazione . In questo processo evolutivo un ruolo rilevante giocano gli interventi imperiali di età postclassica che, se da un lato attenuano il rigore dei termini fissati dall’edictum successorium per la agnitio bonorum possessionis, dall’altro ne alterano la natura di richiesta rivolta al magistrato per assimilarla a una manifestazione (espressa o tacita che fosse) di ac134 cettazione . Con Giustiniano poi, venuta meno la distinzione tra proprietà civile e bonitaria e definitivamente superata (pure se formalmente mantenuta) la contrapposizione tra azioni civili e pretorie, si assiste a una completa fusione dei due istituti e al bonorum possessor, designato ormai come honorarius successor, è attri135 buita la proprietà (dominium) e non il semplice possesso dei corpora hereditaria e a lui è riconosciuta la titolarità effettiva (e non solo in via utile) degli altri rapporti giuridici trasmissibili che facevano capo al de cuius.
14. Collazione Strettamente legato alla successione pretoria era l’istituto della collazione. Il termine indica un conferimento di beni non appartenenti all’eredità fatto da un coerede in favore di un altro. L’istituto fu introdotto dal pretore nelle due forme della collatio bonorum e della collatio dotis, e venne successivamente Collatio bonorum modificato dal diritto postclassico e giustinianeo. La collatio bonorum venne istituita per ovviare alle iniquità che altrimenti sarebbero derivate dal 132
CI. 6.58.4, a. 290. Così in I. 2.10.3 si afferma: “A poco a poco tanto per la condotta degli uomini quanto per gli interventi delle costituzioni cominciò a congiungersi in unità il diritto civile e pretorio”. 134 Numerosi sono i provvedimenti che intervengono in proposito: CI. 6.9.8 a. 320 e 9 (probabilmente di Costanzo del 339); CI. 6.23.19.3 (di Onorio e Teodosio del 413); CTh. 4.1.1 (di Teodosio e Valentiniano del 426); Nov. Valent. 21.1.5 del 446; CI. 5.70.7.3a (di Giustiniano del 530); I. 3.9.12. 135 A meno che la bonorum possessio fosse stata accordata a persona sostanzialmente non legittimata, nel qual caso questa non avrebbe acquistato la proprietà immediatamente, ma solo a seguito di usucapione e sempre che l’avente diritto non rivendicasse. 133
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sistema della bonorum possessio ab intestato (sine tabulis e contra tabulas). Il pretore chiamava infatti a questa i liberi come tali, indipendentemente se sui o figli emancipati. Ciò poteva dar luogo a una palese ingiustizia in relazione alla successione paterna: gli acquisti compiuti dai sui in vita del pater andavano infatti all’avente potestà, contribuendo a incrementare il patrimonio ereditario, e alla morte del pater avrebbero dovuto essere divisi tra sui ed emancipati. Gli acquisti degli emancipati, invece, restavano a questi dal giorno in cui erano usciti dalla patria potestas e su di essi non avrebbero concorso i sui poiché non entravano a far parte del patrimonio paterno e dunque della massa ereditaria da dividere. Per ovviare a questa situazione intervenne il pretore imponendo agli emancipati la collatio bonorum, ossia l’obbligo di conferire quanto avessero acquistato dopo l’emancipazione, come se (fictio) fossero rimasti nella condizione di sui e i loro beni fossero andati al pater. L’istituto aveva quindi l’obiettivo di parificare i figli emancipati e quelli rimasti in potestà del pater e interveniva solo a favore dei sui e a carico degli eman136 cipati, non invece tra emancipati . Essa aveva luogo nella bonorum possessio ab intestato, non invece in quella testamentaria (secundum tabulas) e non vi era tenuto l’emancipato che non avesse domandato la bonorum possessio, appunto perché non concorreva sul patrimonio paterno. Solo infatti se l’emancipato intendeva dividere i beni paterni con i fratelli sarebbe stato tenuto alla collatio: se invece non gli fosse convenuto entrare nella divisione (perché rischiava di conferire più di quanto avrebbe potuto ricavare dall’eredità) non avrebbe chiesto la bonorum possessio e nulla sarebbe stato tenuto a conferire (ma nulla avrebbe ricevuto). L’emancipato non doveva procedere alla collatio per quegli acquisti che si ritenevano inerenti alla sua persona o che non sarebbero stati acquistati dal pater, come il peculium castrense e la dote. Gli acquisti andavano conferiti dal giorno dell’emancipazione a quello della morte del pater, dal momento che oltre questi limiti la condizione di sui e quella degli emancipati era identica. La collazione non si poteva attuare in sede di giudizio divisorio, dato che questo aveva per oggetto i beni ereditari (e tali non erano quelli dell’emancipato). Essa si realizzava pertanto mediante 137 cautiones (de conferendis bonis), ossia per mezzo di stipulationes , rafforzate da garanti, con cui l’emancipato prometteva a ciascuno dei sui una quota del suo patrimonio, detratto il passivo, da valutarsi boni viri arbitratu (la quota si ricavava divi138 dendo il patrimonio dell’emancipato tra questo e i sui) . La collatio poteva farsi anche per imputazione ovvero trasferendo effettivamente ai sui quanto l’emancipato era tenuto a conferire (collatio re, che consentiva a questi – emancipato –, avendo già 139 conferito, di partecipare integralmente alla divisione del patrimonio paterno) . 136
Ancora Coll. 16.7.2. Cfr. pure D. 37.6.1 pr. (Ulp. 40 ad ed.). Agli inizi dell’età postclassica, sulla base del regime classico, Tit. ex corp. Ulp. 28.4. Cfr. pure D. 37.6.5.1-3 (Ulp. 79 ad ed.) e P.S. 5.9.4. 138 D. 37.6.1.24 (Ulp. 40 ad ed.). Cfr. pure D. 37.6.2.3 (Paul. 41 ad ed.). 139 Che si dovesse procedere alla collatio solo quando la bonorum possessio concessa agli emancipati venisse a peggiorare la condizione dei sui afferma D. 37.6.1.5 (Ulp. 40 ad ed.). 137
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All’attività del pretore si deve anche l’introduzione della collatio Collatio dotis dotis che, pur avendo natura simile alla precedente, presenta caratteri propri tali da porre i presupposti di importanti sviluppi della collatio in sé. Essa riguardava la figlia, sia sua che emancipata, cui il pater o altri avessero costituito dote (dos profecticia o adventicia). Questa, sciolto il matrimonio, andava restituita a lei (essendo morto il pater) con il risultato che di essa si avvantaggiava solo la figlia, costituendo in sostanza la dote un bene proprio di questa. Pertanto, sia che si fosse trattato di figlia emancipata sia di figlia sottoposta a patria potestas, apparve equo che conferisse la dote qualora avesse chiesto la bonorum possessio (ab intestato o contra tabulas). Questo obbligo poggiava però su un presupposto diverso da quello operante in relazione alla collatio dell’emancipato, in quanto aveva fondamento sulla appartenenza della dote alla donna, indipendentemente dal fatto che la figlia fosse emancipata o in potestate. Si affermava così il concetto, che doveva portare a una successiva più radicale trasformazione dell’istituto, per cui la collatio corrispondeva alla finalità di pareggiare non tanto la posizione di sui ed emancipati quanto quella dei figli in relazione alle liberalità ricevute dal pater. Per quanto riguardava poi la figlia emancipata, una volta introdotta la collatio bonorum, la collatio dotis non richiedeva l’assunzione di un apposito impegno, rientrando nell’obbligo di conferimento dei crediti a carico dell’emancipato (tra i 140 quali era ricompreso senz’altro anche quello alla restituzione della dote) . La filia sua, ancora in potestate alla morte del pater familias, fu invece costretta dal pre141 tore ad apposita collatio (dotis) che si attuava mediante cautiones con cui assumeva l’impegno verso gli altri discendenti dell’ereditando di trasferire loro una quota dei beni dotali una volta che questi le fossero stati restituiti (ovvero il diritto alla re142 stituzione una volta sciolto il matrimonio) , in modo da assicurare uguaglianza di trattamento tra fratelli e sorelle. In linea con questa finalità dell’istituto la restituzione andava effettuata agli altri discendenti tanto sui che emancipati, ma ai sui la figlia doveva conferire la dos profecticia e quella adventicia, realizzando la prima una diminuzione del patrimonio paterno e quindi ereditario di cui solo la figlia si avvantaggiava e determinando la dos adventicia un acquisto di cui solo essa si giovava con esclusione dei fratelli. Agli emancipati invece, in forza di un rescritto di Gordiano, la figlia doveva conferire solo la profecticia, per la stessa ragione della diminuzione del patrimonio paterno in precedenza indicata e per la disparità tra 143 fratelli che si realizzava in tal modo, in relazione alle liberalità ricevute dal pater . 140
D. 37.7.2 (Gai. 14 ad ed prov.). La collatio dotis si attuava re, ossia attraverso consegna immediata del bene, anche mediante cessione dell’azione di restituzione in caso di matrimonio già sciolto al tempo della morte dell’ereditando. 142 Di norma la collatio dotis doveva avvenire contestualmente alla datio bonorum possessionis, ma se la figlia avesse ottenuto la bonorum possessio prima di dotem conferre, il pretore, finché essa non avesse ottemperato, le avrebbe denegato le azioni e gli altri rimedi giudiziari a lei spettanti quale bonorum possessor. 143 L’esclusione degli emancipati dalla collatio della dos adventicia corrispondeva del resto alla loro esclusione dalla collazione da parte di altri emancipati relativamente a beni non provenienti dall’ereditando: la parità da assicurare era in relazione al patrimonio paterno. Su queste limitazioni cfr. CI. 6.20.4 (a. 239). 141
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Un’ulteriore svolta nello sviluppo dell’istituto fu segnato da un rescritto di Antonino Pio che impose la collatio dotis, in sede di giudizio di divisione dell’eredità, pure alla figlia che non avesse chiesto la bonorum possessio, ma venisse alla successione 144 come erede civile . La collatio dotis non costituiva così più un istituto strettamente legato al diritto onorario e iniziava ad acquistare valore per il diritto civile. In età postclassica l’istituto della collatio subì altri profondi muRegime postclassico tamenti: da un lato, a seguito dell’affermarsi della capacità patrimoniale dei filii familias – cui spettavano ormai oltre il peculio castrense anche quello quasi castrense, i bona materna e materni generis e infine ogni acquisto non proveniente dal pater familias –, vennero a essere superate le ragioni che stavano alla base della collatio bonorum e dell’onere imposto agli emancipati; dall’altro si sviluppò l’idea, che aveva trovato spazio nella collatio dotis (specie profecticia), dell’esigenza di assicurare parità di trattamento tra i discendenti per ciò che riguardava gli acquisti (liberalità in particolare) provenienti dal patrimonio paterno. In conseguenza, a seguito di una serie di disposizioni emanate da Teodosio I a 145 Giustiniano, il regime della collatio trovò un nuovo definitivo assetto . Essa prescindeva ormai dalla bonorum possessio (a seguito della fusione tra questo istituto e l’hereditas) ed era posta a carico e rispettivamente a vantaggio dei discendenti (donde la denominazione moderna di collatio descendentium) senza distinzione di linea (paterna o materna), sia che si fosse trattato di sui che di emancipati. Dovevano essere conferite la dote, la donazione nuziale, la donatio ad emendam militiam, ossia quella disposta per ottenere un pubblico impiego (erano escluse quelle per spese di mantenimento e di studio). Quanto alla donazione ordinaria il donatario era tenuto alla collazione in due soli casi: a seguito di obbligo impostogli dal donante nell’atto di liberalità, o se altri coeredi fossero a loro volta tenuti a collazione di dote o di beni oggetto di donazione nuziale. La collatio era ancora ammessa limitatamente alla succesione ab intestato almeno sino alla Nov. 18.6 di Giustiniano del 536: con questa disposizione infatti l’imperatore ne estese l’onere anche alla successione testamentaria. Il regime era meramente dispositivo, poteva cioè essere modificato dall’ereditando che poteva imporre la collatio a chi non vi era tenuto o dispensarne chi vi era obbligato. L’onere del conferimento doveva ancora essere attuato, secondo il regime classico, mediante cautiones.
15. Successio ab intestato 15a. Nozioni preliminari e sistema civile Il regime della successione ereditaria di un soggetto che muoia senza aver fatto testamento è quello che nei suoi caratteri e nella sua evoluzione meglio riflette le 144 145
D. 37.7.1 pr. (Ulp. 40 ad ed.). Cfr. in proposito il titolo 6.20 del Codice di Giustiniano.
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trasformazioni intervenute nello sviluppo storico dell’organismo familiare romano. È noto come questo da ristretta comunità domestica, basata su un rigido vincolo parentale di carattere agnatizio, abbia progressivamente assunto i caratteri di organismo più ampio, in cui il vincolo familiare ha finito per identificarsi con la generica relazione di sangue, ossia con il rapporto di cognatio. A queste trasformazioni ha corrisposto l’evoluzione della successione senza il testamento e, sebbene la disciplina per essa dettata dal diritto civile facesse leva, ancora in epoca classica, sopra la concezione arcaica della famiglia basata sul vincolo potestativo di soggezione al pater, con l’affermarsi dello ius honorarium prima e della normazione imperiale poi, ad imporsi, improntandone la disciplina, è stata la nuova concezione della famiglia fondata sui legami di sangue e sulla parentela naturale, che ha finito poi con il prevalere in diritto postclassico e giustinianeo. Numerosi sono gli esempi trasmessici delle fonti (es.: causa Cu- Apertura della riana) che dimostrano con quanta facilità un testamento potesse successione essere impugnato e invalidato ovvero potesse risultare viziato da ab intestato nullità. In questi casi, ossia in ipotesi di invalidità del testamento (per mancanza dei requisiti richiesti o per cause sopravvenute) o di revoca da par146 te del testatore, si apriva appunto la successione ab intestato . Lo stesso avveniva quando l’ereditando fosse morto senza testamento e nel caso dell’erede testamentario volontario che non avesse accettato l’eredità. In quest’ultima ipotesi infatti il testamento, pur valido, sarebbe stato inefficace con conseguente apertura della successione intestata. Mentre però di norma la chiamata alla successione ab intestato coincideva con la morte del de cuius, nel caso di mancata accettazione o di rinuncia da parte dell’erede volontario la chiamata si produceva da questo momento o da quando il testamento era dichiarato inefficace. Situazione analoga si verificava in caso di bonorum possessio dal momento che i successori pretori ab intestato sarebbero stati chiamati alla bonorum possessio sine tabulis (secondo l’editto successorio) solo dopo trascorsi inutilmente i termini fissati agli istituiti per chiedere la bonorum possessio secundum tabulas e, nell’ambito della stessa bonorum possessio sine tabulis, i chiamati degli ordini successivi avrebbero potuto compiere l’agnitio solo dopo scaduti i termini fissati per gli appartenenti alle classi precedenti (ammettendo il diritto onorario delazioni successive in forza del principio della successio graduum vel ordinum). La successione senza testamento, nell’originario sistema civili- Sistema delle stico, era regolata dalla legge delle XII Tavole che, sul fondamento XII Tavole dell’agnazione e della gentilità, stabiliva che in difetto di testamento dovessero venire alla successione del de cuius anzitutto gli heredes sui, in mancanza di questi gli agnati di grado più vicino e, ove questi fossero assenti, i gentili (XII Tav. 5.4-5). Nonostante la legge decemvirale subordinasse la successione intestata all’assenza di testamento, si è già rilevato come ragioni legate alle difficili e 146
I. 3.1.7. Cfr. pure D. 28.2.9.2 (Paul. 1 ad Sab.).
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limitate possibilità di convocazione delle assemblee del popolo (comizi curiati che si riunivano due volte l’anno) e dell’esercito, la cui presenza era necessaria per il compimento delle formalità richieste, facciano pensare piuttosto a una priorità della successione legittima su quella testamentaria. In particolare poi la posizione privilegiata accordata dal codice decemvirale ai sui fa ritenere che questi fossero in origine i soli possibili eredi (tra l’altro erano gli unici ad essere designati come tali nella legge delle XII Tavole, visto che degli altri successibili questa si limitava ad affermare che 147 familiam habento). Essi erano, spiegava Gaio , in quanto discendenti del de cuius, domestici heredes, eredi di casa, e vivo quoque parente quodammodo domini existimantur, ossia in qualche modo “padroni” ancor vivo il genitore. Proprio la posizione da essi rivestita nella comunità domestica prima ancora della morte del de cuius ne faceva i naturali eredi: erano essi che provenivano dalla famiglia, che costituivano i continuatori di una proprietà esistente e, in quanto tali, erano essi, in certo qual modo, “eredi di se stessi” (donde il loro nome). Situazione, questa, che rifletteva un assetto arcaico in cui i beni erano messi in comune e gestiti nelle forme del consortium in seno alla famiglia. In questo assetto, dunque, con la qualifica di heredes sui si indiHeredes sui cavano i discendenti immediatamente sottoposti alla potestas del de cuius al momento della sua morte e che sarebbero divenuti sui iuris in conseguenza di questa. E anzitutto i figli in potestate, sia maschi che femmine, non importa se naturali o adottivi, a meno che non fossero usciti dalla potestas del de cuius al momento della morte in conseguenza di emancipazione o adozione o, per le figlie, di matrimonio cum manu (con esclusione in ogni caso dei figli illegittimi). Accanto a essi veniva la moglie in manu, dato che (in conseguenza della conventio in manum che aveva accompagnato l’unione nuziale) era loco filiae rispetto al marito. E inoltre i nipoti e pronipoti ex filio (i nipoti ex filia venivano alla successione del loro pater), che avrebbero partecipato quali sui heredes alla successione dell’avo paterno (divenendo contemporaneamente sui iuris) se il padre fosse premorto all’avo o uscito dalla potestà di questi a seguito di capitis deminutio anche 148 minima (emancipazione) . Analogamente la nuora in manu succedeva tra i sui solo se il marito fosse premorto al suocero (in quanto loco neptis rispetto a que149 sti) . La captivitas del figlio, però, non comportava la successione dei nipoti, dato che essa costituiva un semplice stato di pendenza. In forza di interpretazione estensiva della norma delle XII Tavole (4.4), per cui sarebbe da considerarsi legittimo il figlio che fosse nato entro 10 mesi dalla morte del padre, nel novero dei sui vennero anche ricompresi i postumi sui, cioè i concepiti ma non ancora nati al momento della morte del paterfamilias, che con la nascita sarebbero caduti sotto Priorità della successione ab intestato
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Gai 2.157. Gai 3.2. 149 Gai 3.3. 148
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la sua immediata potestas se questi fosse stato ancora in vita . Tutti i sui succedevano in parti uguali e l’attribuzione delle quote avveniva per stirpi, il che vuol dire che, in caso di premorienza di figli, i nipoti (e le nipoti) sarebbero subentrati globalmente nella quota che sarebbe spettata al loro ascendente se questi fosse stato ancora in vita. L’eredità quindi si sarebbe divisa non secondo il numero degli eredi esistenti (due figli e tre nipoti da un terzo fratello premorto = cinque quote), cioè per capita (teste), ma in base alle stirpi rappresentate (tre fratelli = tre quote di cui una da dividersi in parti uguali fra i tre nipoti del fratello premorto). Trovava cioè applicazione il criterio della successio in locum (analoga alla rappresentazione del nostro codice civile: artt. 467-468) per cui i ni151 poti subentrano al posto e nella stessa quota dell’ascendente premorto . I sui heredes, come sottolineato, succedevano automaticamente e necessaria152 mente senza necessità di accettazione e senza possibilità di rinuncia : essi potevano solo giovarsi in caso di hereditas damnosa, ossia oberata di passività, del beneficium abstinendi che il pretore poteva concedere loro. In conseguenza se un pater avesse voluto escludere un suus heres dalla propria successione avrebbe dovuto procedere attraverso una espressa exheredatio (diseredazione), ossia esplicitando chiaramente la sua volontà di non averlo come heres: la praeteritio, ovvero l’omissione di un heres suus, avrebbe invece reso nullo il testamento, dal momento che questi possedeva per sé il titolo di heres fin tanto che il pater non glielo avesse tolto. Occorre infine rilevare che sui heredes si potevano avere solo in presenza di un ereditando di sesso maschile; alla successione intestata delle donne, che non potevano esercitare potestà familiari, erano immediatamente chiamati gli agnati. In assenza di sui, secondo la norma più volte ricordata delle XII Agnati Tavole (5.4), l’eredità era per l’appunto devoluta all’adgnatus pro153 ximus, ossia al parente più stretto in linea maschile . A questa categoria appartenevano gli agnati non sui (dato che questi ultimi erano già considerati nella 150
Gai 3.4: “Anche i postumi, che se fossero nati in vita dell’ascendente sarebbero stati in sua potestà, sono eredi propri”. Cfr. pure D. 38.16.3.9 (Ulp. 14 ad Sab.). 151 Gai 3.7-8: “Quando ci sono un figlio o una figlia e nipoti maschi o femmine nati da un altro figlio, sono chiamati all’eredità insieme: il più vicino di grado non esclude quello di grado ulteriore. Invero sembrava equo che i nipoti o le nipoti succedessero nel luogo e nella porzione del padre loro... e poiché si riteneva giusto che i nipoti o le nipoti, e così i pronipoti o le pronipoti, succedessero nel luogo del loro genitore, parve opportuno che l’eredità si dividesse non per capi, ma per stirpi: cosicché un figlio prendesse metà dell’eredità e due o più nipoti nati da un altro figlio prendessero l’altra metà ...”. 152 Cfr. Gai 2.157 e D. 28.2.11 (Paul. 2 ad Sab.). 153 Secondo la definizione di Gaio (3.9-10) erano agnati coloro che erano legati da una parentela legittima che passava attraverso parenti di sesso maschile, ossia coloro che sarebbero stati sottoposti a una medesima potestà se il comune paterfamilias non fosse morto. In sostanza si intendevano con tale termine i discendenti da un comune capostipite maschio, attraverso altri maschi, sempre che il vincolo di agnatio non si fosse spezzato per capitis deminutio, anche minima (in conseguenza, ad esempio, di emancipatio o di adoptio).
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prima classe dei successori ab intestato contemplati dallo ius civile antiquum) e 154 pertanto solo i parenti in linea collaterale e maschile: i fratelli e le sorelle del sui iuris defunto; gli zii e i nipoti ex fratre, cioè dal lato del fratello (ma non i nipoti ex sorore, provenendo da padre estraneo), così come i cugini, ma non le zie paterne (parenti di terzo grado) e le nipoti ex fratre (anch’esse di terzo grado), dato che le agnate non vennero ammesse alla successione ab intestato oltre il secondo grado 155 (sorelle) . A succedere ab intestato quali agnati erano anche la madre e i Madre e figli figli reciprocamente, purché la madre fosse sposata cum manu, dato che essa, filiae loco rispetto al marito, era considerata alla stregua di sorella ri156 spetto ai propri figli . La legge delle XII Tavole precisava però che a venire alla successione intestata del de cuius dovesse essere l’agnato prossimo: in forza di questo principio il più vicino in grado escludeva il più remoto. In conseguenza se vi erano più agnati (es.: fratelli) del medesimo grado, questi succedevano tutti nella stessa misura e l’eredità si divideva per capi, ma se a concorrere erano agnati di grado diverso (es.: un fratello e i figli di un fratello premorto), a succedere era solo l’agnato di grado più prossimo (il fratello e non i nipoti) non avendo luogo neppure quella successio in locum (o rappresentazione) che operava nella classe dei sui. Nel caso poi che l’adgnatus proximus per morte o rinuncia non avesse acquistato, l’eredità non era comunque devoluta né all’agnato più remoto e neppure ai gentili: lo ius civile non ammetteva infatti né successio graduum (passaggio al chiamato meno prossimo) né 157 successio ordinum (subentro della classe successiva, ad es.: gentili) . Non facendosi luogo a chiamata ulteriore, l’eredità sarebbe rimasta vacante. E ad evitare la grave situazione che così si veniva a creare potevano soccorrere solo gli istituti della in iure cessio hereditatis e della usucapio pro herede. Particolare disciplina era poi riservata dalle XII Tavole (5.8) alLiberti e patrono la successione intestata dei liberti. Nel caso in cui questi non avessero fatto testamento e non avessero avuto sui heredes, al posto dell’adgnatus pro158 ximus succedeva il patrono (o la patrona) e, in caso di premorienza di questo, i 159 160 suoi discendenti legittimi maschi (anche se diseredati) . Una regola analoga valeva anche per i manomessi a seguito di procedimento di emancipazione: ad es154
Consanguinei, cioè nati dallo stesso padre dell’ereditando. Gai 3.9-10. Cfr. anche Gai 3.23. 156 Gai 3.14. 157 Gai 3.11-12. 158 Gai 3.40. 159 Gai 3.45. 160 Gai 3.58. Dal momento che la delazione del patrono e relativi sui teneva il posto di quella degli agnati dell’ingenuus ad essa si applicava il medesimo regime, in particolare non vi si ammetteva successio graduum e successio in locum e avveniva per capi, anche quando più patroni fossero stati proprietari per quote del medesimo schiavo manomesso, e mai per stirpi: Gai 3.59 e 61. 155
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si, in caso di morte senza discendenti e senza testamento, succedeva il padre quale 161 parens manumissor . Mette appena conto di rilevare, infine, che la successione degli agnati era diversa da quella dei sui anche per ciò che essi erano eredi volontari ed avrebbero dovuto compiere valido atto di accettazione per venire alla successione del de cuius. In assenza di agnati, all’eredità erano chiamati i gentiles, ossia Gentiles gli appartenenti alla medesima gens del defunto, intendendosi per tali coloro che si ritenevano discendere da un leggendario capostipite comune non più vivente, la cui unica traccia della comune origine era data dall’utilizzo del medesimo nomen gentilicium. In età classica la chiamata dei gentili, essendo defi162 nitivamente venuta meno l’organizzazione gentilizia, non esisteva ormai più . In ogni caso finché a essa si fece luogo i gentili, in quanto eredi volontari, per acquistare quanto loro devoluto avrebbero dovuto compiere valido atto di accettazione, come gli agnati, e in assenza di successio ordinum (successione delle classi) sarebbero stati chiamati all’eredità solo in mancanza di questi. 15b. Innovazioni pretorie Verso la fine della Repubblica, con la progressiva valorizzazione Iniquità del della cognatio (parentela di sangue), il sistema dello ius civile anti- sistema civile 163 quum apparve per certi aspetti iniquo alla coscienza sociale . Infatti tra marito e moglie e tra madre e figli, se il matrimonio era sine manu, non era riconosciuto alcun diritto di successione. Inoltre i figli emancipati e quelli dati in adozione, non più in potestate, erano esclusi, in conseguenza della rottura del vincolo di agnatio, dalla successione paterna come da quella di fratelli e sorelle, né questi succedevano a fratelli e sorelle emancipati o dati in adozione. D’altra parte, cosa ancor più grave, in quel sistema rigidamente patriarcale nessun riconosci164 mento era assegnato alla parentela per linea femminile . Proprio per correggere “le rigide disposizioni delle XII Tavole”, il pretore predispose un nuovo ordine di chiamata all’eredità, che superando l’antico vincolo agnatizio dava più ampio ri165 conoscimento alla parentela basata sul semplice vincolo di sangue (cognatio) . Egli riconobbe quattro classi di successibili alle quali, in mancanza Bonorum possessio di testamento, avrebbe concesso il possesso dei beni ereditari (bo- sine tabulis norum possessio sine tabulis). L’oggetto di tale bonorum possessio, che in origine poteva essere costituito solo da beni corporali, venne progressivamente estendendosi attraverso la concessione di azioni “adattate” e rimedi pretori, 161
Quanto alla successione del liberto ex lege Iunia Norbana, i suoi beni erano devoluti al patrono iure peculii e non iure hereditatis. 162 Gai 3.17. 163 Gai 3.18. 164 Gai 3.24. 165 Gai 3.25: “Ma queste iniquità dell’ordinamento sono state corrette dall’editto del pretore”.
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fino a ricomprendere tutto il complesso dei rapporti giuridici attivi e passivi (debiti e crediti) che facevano capo al de cuius. L’istituto, inoltre, distaccandosi dall’ambito processuale, venne progressivamente assumendo la connotazione di un vero e proprio sistema successorio. Alla bonorum possessio sine taLiberi bulis degli ingenui erano chiamati anzitutto i liberi, ossia tutti i figli tanto in potestate quanto emancipati e in particolare i sui (discendenti in potestate), già ricompresi nella prima classe del sistema dello ius civile antiquum, e assieme a loro coloro che erano usciti dalla patria potestas (in base alla fictio della lo166 ro soggezione alla potestà del pater al tempo della sua morte: c.d. fictio suitatis) , ossia i figli emancipati dal de cuius e quelli dati in adozione e poi emancipati dall’adottante di modo che fossero sui iuris al momento della morte dell’ereditando. Non rientravano invece nella classe dei liberi i figli adottivi dell’ereditando, che egli avesse in seguito emancipato (in quanto usciti dalla famiglia del padre adottivo e chiamati alla successione del padre naturale) e neppure i figli dati (dal de cuius) in adozione e non emancipati (dall’adottante), dato che questi sarebbero 167 venuti alla successione dell’adottante . Nella classe dei liberi della bonorum possessio sine tabulis la successione aveva luogo per stirpi e non per capita e dunque in essa trovava luogo successio in locum o “rappresentazione”, con conseguente chiamata alla bonorum possessio dei discendenti ex filio in luogo dell’ascendente premorto o capite minutus o rinunciante. Nella stessa classe dei liberi posizione identica era infine assegnata ai figli (e discendenti ex filio) postumi: anche a questi spettava una quota e, se il pretore avesse provveduto a effettuare la datio possessionis agli altri richiedenti prima della loro nascita, la quota a essi assegnata sarebbe 166
Gai 3.26. Qualche inconveniente poteva verificarsi in caso di chiamata dei sui insieme agli emancipati. La chiamata di questi (emancipati) poteva infatti dar luogo a un contrasto tra ius civile e ius honorarium qualora l’emancipato avesse lasciato suoi figli sotto la potestà dell’emancipante (si osservi però che il nipote emancipato restava escluso dal padre suo rimasto in potestà dato che il sistema pretorio prevedeva i nipoti solo in caso di premorienza di figli); infatti, alla morte di quest’ultimo, secondo lo ius honorarium (dovendosi prescindere dalla soggezione alla potestas paterna) avrebbe dovuto succedergli il figlio in quanto liber ad esclusione dei nipoti (in quanto appartenenti alla stessa stirpe ma ammessi dopo il pater), per il ius civile invece avrebbero dovuto succedere i nipoti, in quanto sui, ad esclusione del figlio (non più in potestà). Per ovviare a questo possibile contrasto, una clausola edittale (edictum de coniungendis cum emancipato liberis suis) dovuta a Giuliano (nova clausula Iuliani) stabilì che l’emancipato dovesse essere chiamato alla bonorum possessio insieme con i propri figli in una sola quota, dividendosi poi questa a metà tra l’uno (emancipato) e gli altri (suoi figli). Un esempio può forse aiutare a chiarire il complesso meccanismo della successione nella classe dei liberi. Supponiamo che morendo intestato il de cuius lasci: un figlio Tizio; due nipoti, Lucio e Vero, figli di Sempronio, a sua volta figlio premorto del defunto; un figlio emancipato, Giulio, e due figli di questo, Caio e Seio, rimasti sotto la potestà del nonno; tre nipoti Paolo, Virginia e Livia, figli di Pietro emancipato premorto. Dopo l’editto di Giuliano l’eredità si sarebbe divisa in quattro parti: la prima sarebbe andata a Tizio; la seconda a Lucio e Vero in rappresentazione del padre Sempronio premorto; la terza per metà a Giulio (figlio emancipato) e per metà ai suoi figli rimasti in potestà dell’avo, Caio e Seio (in conseguenza dell’applicazione dell’editto di Giuliano); la quarta a Paolo, Virginia e Livia un terzo ciascuno, in rappresentazione del padre Pietro, emancipato premorto. 167
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stata accantonata (in attesa della nascita) e affidata all’amministrazione di un curator ventris (bonorum possessio ventris nomine). In mancanza di liberi, o in difetto di richiesta da parte loro, il Legitimi pretore accordava la bonorum possessio sine tabulis agli appartenenti alla seconda classe del sistema da lui predisposto, quella dei legitimi, che comprendeva gli eredi chiamati dal ius civile in base alle norme delle XII Tavole e secondo l’ordine da queste disposto (sui, agnati, gentiles). Tuttavia, poiché i sui rientravano nella prima categoria dei liberi e i gentiles erano ormai scomparsi, questa classe si riduceva ai soli agnati. Nonostante questo risultato pratico, peraltro, i sui, appartenendo già alla prima classe dei liberi, risultavano chiamati nel sistema pretorio due volte, nella prima e nella seconda classe e, in quanto agnati più vicini all’ereditando, con precedenza rispetto agli altri chiamati. Alla classe dei legitimi il pretore applicava le stesse norme che regolavano la delazione civile: 168 quindi anche qui, nonostante qualche diversa opinione giurisprudenziale , operava il divieto della successio graduum (tra agnati di grado diverso), per cui l’agnato prossimo escludeva definitivamente il più remoto, e, in caso di più agnati del medesimo grado, la divisione aveva luogo per capi. Nell’età del Principato poi, in conseguenza del riconoscimento ai senatoconsulti del valore di leggi, la qualifica di legitimi venne estesa anche agli eredi creati dai sc. Tertulliano e Orfiziano (madre e figli reciprocamente). In assenza di liberi e di legitimi (o in mancanza di richiesta da Cognati parte loro), la bonorum possessio sine tabulis spettava ai cognati, cioè 169 ai parenti di sangue in genere (con esclusione del vincolo derivante da contu170 bernio, ossia la c.d. parentela servile) vuoi per linea maschile vuoi per linea femminile. Anzi, nel sistema della bonorum possessio il termine cognati venne quasi a identificare la parentela femminile (anche se come cognati potevano chiedere la bonorum possessio pure i parenti per linea maschile), a evidenziare che le ragioni storiche dell’istituto stavano proprio nell’aver ampliato il concetto di parentela, ammettendo al fenomeno successorio anche quella in linea femminile. In questa categoria succedevano i discendenti, gli ascendenti e i collaterali sino al sesto grado e del settimo solo i figli di cugini, con preferenza per quelli di grado più pros171 simo al defunto . Anche fra i cognati infatti il più vicino escludeva il più remoto, 168
Gai 3.28. D. 38.8.2 (Gai. 16 ad ed. prov.). 170 Per il diritto infatti non valevano i rapporti di parentela contratti in schiavitù (erano infatti considerati figli della schiava manomessa solo quelli nati dopo la manomissione e non quelli procreati durante la schiavitù). Inoltre la parentela extramatrimoniale non contubernale (c.d. filii vulgo quaesiti, ossia illegittimi) era considerata solo nella linea femminile, in rapporto cioè alla madre e ai parenti materni e non al padre e ai parenti paterni. Il figlio naturale dunque avrebbe potuto succedere alla madre, alla zia materna, etc., ma non al padre, allo zio paterno, etc. Cfr. D. 38.8.2 (Gai. 16 ad ed prov.). 171 D. 38.8.1.3 (Ulp. 46 ad ed.): “Questa bonorum possessio, che viene data sulla base di questa clausola dell’Editto, comprende i cognati fino al sesto grado e del settimo i figli di cugini”. Dunque se A fosse stato l’ascendente comune di B e C, suoi figli; D ed E fossero stati suoi nipoti; F e G suoi pronipoti e 169
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ma se il più vicino veniva a mancare o non chiedeva la bonorum possessio entro i termini stabiliti era ammessa – a differenza che tra gli agnati della classe dei legitimi, per i quali valevano le regole dello ius civile – la chiamata del più lontano (successio graduum). Tra più cognati di pari grado, poi, l’attribuzione aveva luogo 172 per capita (eccetto che tra i liberi che fossero venuti alla successione pretoria quali cognati avendo fatto decorrere inutilmente i termini per la petitio bonorum possessionis, in quanto per essi l’attribuzione era per stirpi). Data l’ampia estensione del concetto di parentela sotteso alla nozione di cognatio è opportuno sottolineare come in essa (cognatio) rientrassero anche gli appartenenti alle due classi anteriori, i liberi e gli agnati: infatti anche questi erano parenti. Ma se essi fossero venuti alla successione come puri e semplici cognati, avrebbero dovuto subire il concorso o la precedenza dei cognati di grado eguale o anteriore (così i figli avrebbero concorso con i genitori dell’ereditando, essendo entrambi parenti di primo grado e gli agnati meno prossimi avrebbero dovuto cedere il posto ai cognati più prossimi). La terza classe pretoria era poi la sede naturale del riconoscimento delle reciproche aspettative successorie tra madre e figli e in essa avevano posto altresì i collaterali che per capitis deminutio avessero perduto la qualifica di agnati (la co173 gnatio infatti non veniva meno per capitis deminutio minima) . La nozione di cognatio era infatti più ampia di quella di agnatio e la comprendeva in sé: essa, come osservava il giurista Paolo, era il genus mentre l’agnatio costituiva la spe174 cies . E pur essendo la cognatio parentela di sangue a essa era equiparata la paren175 tela adottiva . L’adottato era infatti agnatus di tutti gli agnati del padre adottivo e agnato con lui; ma l’agnatio, come sottolineato da Paolo, era anche cognatio, e quindi faceva sì che l’adottato rientrasse anche nella terza classe del sistema preto176 rio. Alla medesima classe apparteneva infine anche il postumus cognatus . In assenza di cognati o in mancanza di richiesta da parte loro il Marito e moglie pretore chiamò alla bonorum possessio sine tabulis il coniuge superstite, purché unito da legittimo matrimonio al momento della morte dell’eredi177 tando, indipendentemente dall’esistenza di conventio in manum (vir et uxor) . Innovazioni di rilievo furono poi apportate dallo ius honoraLiberti rium alla successio dei liberti, per la quale l’Editto dispose la concessione del possesso dei beni secondo sette classi di successori: liberi, legitimi, co178 gnati, familia patroni, patronus patroni, vir et uxor, cognati manumissoris . Di queI il figlio di pronipote, il massimo consentito sarebbe stato che I ereditasse da F e viceversa in quanto figli di cugini (7° grado). 172 D. 38.8.1.10 (Ulp. 46 ad ed.). 173 Gai 3.27. 174 D. 38.10.10.4 (Paul. l. sing. de grad.). 175 Cfr. D. 38.8.1.4 (Ulp. 46 ad ed.): “L’adozione crea cognazione …”. 176 D. 38.8.1.8 (Ulp. 46 ad ed.). 177 D. 38.11.1 pr. (Ulp. 47 ad ed.). 178 Tit. ex corp. Ulp. 28.7. Si ricordi che per il liberto, in quanto schiavo manomesso, non potevano
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ste classi le prime tre e la sesta erano comuni agli ingenui e ai liberti. Nella classe dei liberi erano ricompresi i figli del liberto, ma se questo avesse come sui solo figli adottivi o persone in mano (cioè discendenti non naturali) alla sua successione erano chiamati, insieme con questi, per la metà del patrimonio il patrono (non la patrona) e i figli (non le figlie) di lui (cui quindi spettava una boBonorum possessio 179 norum possessio dimidiae partis) . Diversa risultava anche la com- dimidiae partis posizione della seconda classe, quella dei legitimi, ossia dei chiamati secondo il ius civile: di essa infatti facevano parte, oltre i sui del liberto, il patrono (o patrona) e i sui del patrono, tenendo conto, come osservato, che se i sui del liberto non erano figli naturali con essi concorrevano il patrono (e non la patro180 na) e i figli di lui (ma non le figlie) per la metà . Nella terza classe (unde cognati) erano ricompresi i parenti del liberto e nella quarta (familia patroni) gli ulteriori membri della famiglia del patrono non ricompresi nella seconda classe (e il patrono stesso o la patrona e i figli di lui se avessero subito una capitis deminutio minima). Della quinta e settima classe (esclusive ai liberti come la quarta), infine, facevano parte rispettivamente il patrono del patrono (e i suoi figli o parentes, evidentemente sul presupposto che il caso si riferisse all’ipotesi che il patrono fosse a sua volta un liberto) e, quanto alla settima, i cognati del manomissore (tra i quali, per la prima volta, erano ricompresi i figli e ulteriori parenti della patrona). A questa disciplina ulteriori innovazioni furono apportate dalla legislazione successiva, che con la lex Aelia Sentia del 4 d.C. regolò la successione dei mano181 messi di condotta turpe , con la lex Papia del 9 d.C. modificò le regole della delazione alla bonorum possessio sine tabulis del liberto (non della liberta) con patrimonio di almeno 100.000 sesterzi (riservando una quota virile al patrono chiama182 to assieme ai liberi del liberto che non fossero in numero superiore tre) e con la valere i comuni principi della successione degli ingenui: egli non poteva avere quindi né agnati né gentili e dei successibili dello ius civile potevano subentrargli ab intestato i soli filii in potestate. D’altronde non spezzandosi del tutto il rapporto con l’antico dominus, accanto alla successione dei figli aveva riconoscimento quella del patrono e della sua famiglia. E se ancora secondo il regime delle Dodici Tavole i beni del liberto andavano ai sui o si devolvevano al patrono o alla famiglia di questi, agnati (discendenti in primo luogo) e gentili, più spazio venne accordato nel regime pretorio ai parenti del liberto. 179 Gai 3.41. 180 Nel caso poi che il patrono fosse un extraneus manumissor, ossia chi avesse acquistato fiduciariamente per mancipatio dal pater il figlio a scopo di emancipazione e lo avesse manomesso, erano chiamati, a preferenza di questi, il padre e la madre, il figlio e la figlia, l’avo e l’ava, il nipote e la nipote, il fratello e la sorella di quello (c.d. decem personae). Cfr. Coll. 16.9.2. 181 La legge attribuì ad essi la condizione di peregrini dediticii, stabilendo che se manomessi in forme civili si applicassero a essi le stesse regole della delazione intestata valide per il liberto cittadino, mentre se manomessi in forme pretorie trovassero luogo le regole della delazione intestata del liberto latino ex lege Iunia. 182 La disposizione attribuiva inoltre alla patrona, se ingenua con due figli e se liberta con tre, la stessa situazione fatta al patrono in base alle disposizioni edittali, e se ingenua con tre figli, la medesima situazione di cui godeva il patrono in base alle disposizioni della legge Papia. Situazione identica a quella del patrono avevano inoltre i figli e discendenti ex filio di lui, mentre analoga a quella della patrona era la situazione delle figlie del patrono.
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lex Iunia Norbana del 19 d.C. disciplinò infine la devoluzione dei beni dei manomessi in forme pretorie (latini Iuniani) stabilendo che alla loro morte essi tor183 nassero iure peculii all’antico padrone o agli eredi anche estranei di lui (disciplina poi modificata dal sc. Largiano, del 42 d.C., che dispose dovessero venire alla successione del latino Iuniano prima il patrono, poi i figli purché non disere184 dati nominatim e infine gli eredi estranei) . In complesso una disciplina, questa della successione intestata del liberto, che, se ancora nella regolamentazione pretoria confermava il ius civile chiamando il patrono nella classe dei legitimi, presentava tuttavia uno sviluppo storico che, col progressivo affermarsi dei rapporti di sangue, tendeva a dare prevalenza alla famiglia del liberto in contrapposto a quella del patrono, anche se il rapporto di patronato rimaneva così radicato nella coscienza giuridica romana da trovar spazio ancora nel diritto giustinianeo, ove il diritto del patrono prevaleva ancora sul diritto del coniuge superstite e dei collaterali del liberto. Giustiniano aveva infatti stabilito (superando l’eredità il valore di cento aurei) il seguente ordine di successori: anzitutto i discendenti del liberto, poi i nipoti ex filio ed ex filia, i fratelli e le sorelle, il padre e la madre del liberto (purché non più schiavi alla morte del liberto); quindi il patrono (e la patrona) e i suoi discendenti (maschi e femmine); a questi seguivano i collaterali del liberto fino al quinto grado, e infine il coniuge 185 superstite . Quanto descritto costituiva il sistema pretorio ed esso, se da un lato presupponeva il sistema civile, dall’altro lo integrava e lo correggeva. Quanti erano chiamati dalle disposizioni dello ius civile antiquum erano contemplati dal sistema pretorio, ma in più questo teneva conto della parentela di sangue in quanto tale (cognatio), contemplata indipendentemente dalla agnatio, e uno spazio, sia pur residuale, era riservato ai rapporti successori tra marito e moglie, purché uniti da vincolo legittimo, anche in assenza di conventio in manum. Ma al pretore si doveva pure l’edictum successorium e in forza di esso l’introduzione della successio ordinum e graduum che il ius civile escludeva. Attraverso questi sviluppi il regime della bonorum possessio si era andato articolando, contemperando al proprio interno “cose vecchie e cose nuove”. 15c. Senatoconsulti e legislazione imperiale La riforma della successione legittima, iniziata attraverso le modifiche introdotte dall’Editto, è continuata, una volta esauritasi la spinta propulsiva del diritto pretorio a seguito della codificazione adrianea, dalla normazione senatoria e imperiale, sempre più volta a imporre la prevalenza dei vincoli di sangue e della pa183
Significativa testimonianza della precisa consapevolezza delle peculiarità tecniche della fattispecie e degli espedienti utilizzabili in proposito forniscono le spiegazioni di Gaio (3.56). 184 Gai 3.63. 185 CI. 6.4.4.10, a. 531; I. 3.7.3; 3.9.5-6.
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rentela naturale sopra il vincolo agnatizio. Gli interventi erano frammentari, determinati da singoli casi, e le innovazioni, pur rispondendo a esigenze sociali avvertite e alla necessità del superamento di incongruenze e iniquità, stentavano a formare un sistema organico con i precedenti sviluppi. In questo quadro una delle istanze maggiormente sentite era quella di una più adeguata disciplina dei rapporti successori tra madre e figli. Questi, ammessi nel sistema dello ius civile solo nei limiti in cui si potesse configurare una relazione di agnatio (tra madre e figli) in conseguenza della conclusione di un matrimonio cum manu, avevano trovato più ampio riconoscimento nel diritto pretorio che, oltre ad ammetterli nella classe dei legitimi, ove ricorressero i medesimi presupposti richiesti dallo ius civile (agnatio e manus sulla madre), aveva dato loro riconoscimento nella terza classe, quella dei cognati. Ciò peraltro non senza gravi inconvenienti: in assenza di vincolo agnatizio, infatti, la successione tra madre e figli sarebbe stata relegata a una classe in ogni caso successiva rispetto a quella degli agnati (e dunque avrebbe avuto luogo 186 dopo uno zio paterno o un nipote ex fratre, che erano legitimi) . Ad ovviare a questi inconvenienti, favorendo il superamento dell’arcaica concezione rigidamente agnatizia del vincolo familiare, intervennero in età classica due senatoconsulti: il sc. Tertulliano di età adrianea (117-138 d.C.), che provvi- Sc. Tertulliano de a regolare la successione della madre ai figli, e il sc. Orfiziano, emanato sotto Marco Aurelio (178 d.C.), riguardante la successione dei figli alla madre. Per il primo la madre era chiamata alla successione dei figli sui iuris (non importa se iusti o vulgo concepti) indipendentemente dal vincolo agnatizio, a condizione però che, in ossequio alle finalità di incremento demografico perseguite dalla lex Iulia et Papia, fosse dotata di ius liberorum (avesse cioè tre figli se ingenua, quattro se liberta). A lei erano preferiti i liberi del figlio defunto (figli e loro discendenti), il pater (quale parens manumissor, purché naturalis e non adoptivus) e i fratelli legati da vincolo di agnatio (concorreva per la metà con le sorelle di 187 lui), ma non gli altri agnati sui quali dunque prevaleva . Il sc. Sc. Orfiziano Orfiziano viceversa chiamò i figli come tali (iusti o vulgo concepti cioè illegittimi) all’eredità civile della madre sui iuris con preferenza su chiunque 188 altro . Essendo peraltro i due senatoconsulti fonti di ius civile, madre e figli chiamati all’eredità in applicazione della disciplina da essi dettata erano reciprocamente eredi civili (heredes) e in quanto tali vennero soltanto riconosciuti iure praetorio nella classe dei legitimi. Innovazioni Dopo tali disposizioni la legislazione imperiale postclassica in- postclassiche tervenne ripetutamente in proposito mirando a disimpegnare la successione della madre dal ius liberorum. Costantino dispose che la madre priva di tale ius potesse ereditare un terzo dei beni del figlio (concorrendo con tutti gli 186
Limitazione, questa, conseguenza della posizione preminente accordata alla famiglia originaria della donna rispetto alla sua stessa discendenza. 187 Tit. ex corp. Ulp. 26.8. 188 Cfr. D. 38.17.1 pr. (Ulp. 12 ad Sab.).
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agnati dal terzo grado in poi, cioè a partire dagli zii paterni del defunto, cui sa189 rebbero andati i residui due terzi) . A seguito di ulteriori disposizioni imperiali 190 che avevano applicato estensivamente la disposizione di Costantino , Giustinia191 no infine rese indipendente la successione della madre dal ius liberorum . In conseguenza essa succedeva con gli agnati collaterali (fratelli e sorelle e a preferen192 za degli altri) . Accanto alla sistemazione dei rapporti successori tra madre e figli, a confermare la tendenza della legislazione postclassica ad accordare maggior riconoscimento alla cognazione stavano alcune disposizioni in tema di successione tra fratelli assunte sotto Anastasio. Con esse si ammise che potessero succedere tra di loro fratelli e sorelle emancipati insieme con quelli non emancipati, sebbene in una quota 193 minore . La differenza di quota fu abolita da Giustiniano: la cognazione assumeva così maggior rilievo, trovando spazio anche nella linea collaterale. 15d. Successione del padre Prima di esaminare gli ulteriori sviluppi del sistema successorio occorre tuttavia soffermarsi sulla posizione del padre rispetto ai figli, dato che, non essendo questa regolata da norme particolari, ma dalle generali norme che disciplinano la successione ereditaria, non emerge chiaramente evidenziata dal quadro precedentemente tracciato. In particolare le aspettative successorie del padre mutavano in relazione allo status dei figli. Se questi erano morti ancora in potestà del pater che sopravviveva loro, trovandosi essi ancora nella condizione di alieni iuris e non potendo avere un patrimonio proprio (né eredi), la successione del pater era esclusa. Solo in caso di filius familias miles dotato di peculio (castrense) che non avesse fatto testamento il pater poteva acquistarne i beni, ma iure peculii e non iure successionis. Se viceversa erano stati emancipati, il padre che li aveva liberati acquistava la condizione di patrono e come tale veniva alla successione civile del figlio emancipato dopo i sui di questi (nessun altro agnato poteva partecipare alla successione dell’emancipato perché la capitis deminutio subita lo rendeva estraneo alla famiglia di origine). Nel sistema pretorio il pater (quale parens manumissor) veniva dopo i liberi dell’emancipato, ma prima dei cognati e in particolare dei fratelli. In caso poi il figlio fosse sui iuris indipendentemente da emancipazione (per morte dell’avo che aveva emancipato il pater, divenendo in questo caso i nipoti rimasti sotto la potestà di quello – cioè dell’avo – sui iuris alla sua morte e liberi dalla potestà del pater, che in conseguenza dell’emancipazione non poteva acquistare potestà su 189
CTh. 5.1.1 di Costantino, a. 321. CTh. 5.1.2 di Valente, a. 369 e CTh. 5.1.7 di Valentiniano III, a. 426. 191 CI. 8.58.2, a. 528; 6.56.7, a. 528. 192 In quanto già ricondotta alla seconda classe dei successori pretori, ossia ai legitimi. 193 I. 3.5.1. Della costituzione di Anastasio è rimasta solo la parte in CI. 5.70.5 (senza data); essa è ricordata in CI. 5.30.4, a. 498 dello stesso imperatore e venne in seguito riformata da CI. 6.58.15.1b del 534. 190
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di loro), ovvero il pater avesse perso i diritti di patronato (perché ad esempio dopo aver emancipato il figlio si fosse fatto adottare, restandone privo per capitis deminutio minima), il padre poteva succedere solo come cognatus (in quanto questo era l’unico vincolo che li legava) all’interno della terza classe dei successori pretori e dunque dopo i liberi del figlio e i legitimi, ossia i fratelli di questo (che, solo però nel primo caso, continuavano a rivestire la qualità di legitimi in quanto, non essendo intervenuta emancipazione, non si era rescisso il vincolo di agnazione che li legava al fratello divenuto sui iuris). 15e. Sistema giustinianeo La legislazione tardoimperiale, specie dopo Costantino, modificò più volte il regime anteriore, sempre però in maniera disorganica, attraverso disposizioni episodiche e contingenti, che intervennero su singoli aspetti dando vita a un sistema complesso, fatto di norme di origine diversa, talvolta in contrasto tra loro. Di questo sistema recava traccia ancora la Compilazione giustinianea, che conservava una molteplicità di disposizioni stratificatesi nel tempo, ponendo all’interprete difficili problemi di coordinamento. In ogni caso, pur all’interno di questa congerie di norme, alcune linee di tendenza ben definite si vennero affermando in seno alla legislazione postclassica. E se da un lato si assistette a un proDisciplina gressivo processo di avvicinamento tra hereditas e bonorum posses- postclassica sio, dall’altro si affermò, come visto, l’orientamento a rivalutare la cognatio rispetto all’agnatio pervenendo al riconoscimento di una sempre più ampia assimilazione tra parentela femminile e maschile (così per una disposizione di Valentiniano, Teodosio e Arcadio del 389 potevano venire in posizione di parità 194 alla successione dell’avo tanto i nipoti ex filio quanto quelli ex filia) . Ma fu più in generale tutta la posizione successoria delle donne a essere migliorata e a conoscere una sensibile trasformazione. Così, pur con qualche resistenza ancora 195 all’inizio del periodo postclassico , vennero a esser superate le limitazioni alla successione ab intestato delle donne (ristretta al secondo grado nella classe degli 196 agnati, limitazione conservata dal pretore in quella dei legitimi) , si puntò ad affrancare la posizione successoria della madre rispetto ai figli dallo ius liberorum, e con Giustiniano si riconobbe l’aspettativa della vedova in condizione di indigenza a un quarto dell’eredità del marito benestante (sino a un limite massimo di 100 libbre d’oro) se concorreva con estranei (quarta della vedova povera) e, comunque, a una quota in piena proprietà pari a quella dei figli del marito se concorreva 194
CTh. 5.1.4 = CI. 6.55.9, cfr. pure I. 3.1.15. Nel senso dell’assimilazione indicata particolare rilievo rivestì anche la disposizione di Anastasio che ammetteva alla successione intestata fratelli e sorelle del de cuius, pure se emancipati, a preferenza degli agnati di grado più lontano, richiamata in precedenza e menzionata in I. 3.5.1, poi confermata da Giustiniano in CI. 6.58.15.1b del 534. 195 P.S. 4.8.20 e Coll.16.3.20 su cui G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano3, Milano 1991, 936. 196 Il limite fu abolito definitivamente da Giustiniano con CI. 6.58.14 pr.-5 del 531.
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con loro o in usufrutto se si trattava di figli comuni . Nel contempo migliorava la condizione successoria dei figli illegittimi, le cui aspettative erano riconosciute nel sistema classico della successione intestata solo rispetto alla madre (con Giustiniano 198 erano chiamati alla successione paterna assieme alla madre concubina) e si aprivano spazi al riconoscimento della cognatio servilis nella successione dei liberti a scapito delle aspettative del patrono e dei suoi discendenti (che con Giustiniano sono posposti ai figli, nipoti ex filio ed ex filia, fratelli e sorelle, padre e madre del liberto). Ma fu soprattutto con Giustiniano che il sistema della succesRegime giustinianeo sione ab intestato conobbe una profonda risistemazione. Con le Novv. 118 del 543 e 127 del 548 egli tracciò le linee di una nuova e organica disciplina fondata sulla cognatio o parentela di sangue, sul superamento della distin199 zione tra linea maschile e femminile, tra parentela adottiva e parentela di sangue , tra emancipati e non. I successori erano divisi in quattro classi tra le quali era ammessa successio ordinum. Nella prima classe erano chiamati i figli di ambo i sessi qualunque fosse la loro condizione, sia che fossero in potestà o emancipati, legitti200 mi, legittimati o adottivi . Erano chiamati altresì i discendenti di grado ulteriore (in linea maschile e femminile), solo però qualora mancasse il discendente che li precedeva, di modo che i nipoti potevano succedere solo in caso di premorienza del proprio genitore (figlio del de cuius; c.d. successio in locum o diritto di rappresentazione). In presenza di discendenti di pari grado la divisione avveniva per capi; ove viceversa i discendenti fossero di grado diverso (come nel caso in cui concorressero figli e nipoti venuti in rappresentazione) la divisione aveva luogo per stirpi. In mancanza di discendenti erano chiamati alla seconda classe del sistema ab intestato giustinianeo gli ascendenti, paterni e materni, in concorso con fratelli e sorelle germani (nati, cioè, dallo stesso padre e dalla stessa madre), e i loro figli venuti in rappresentazione (per premorienza dei genitori, fratelli o sorelle del de cuius). Quando concorrevano solo ascendenti, questi succedevano secondo il criterio della prossimità di grado, cosicché il prossimo escludeva il più remoto. Se vi erano più ascendenti dello stesso grado la divisione avveniva per capi se appartenenti alla stessa linea, se di linea diversa (maschile e femminile) ognuna di esse conseguiva la metà e all’interno di ciascuna la divisione si faceva per capita (così, ad es., se il de cuius lasciava avo paterno e avi materni l’asse andava per metà all’avo paterno e per l’altra metà in parti uguali agli avi materni). Quando viceversa a venire nella seconda classe erano solo fratelli e sorelle questi dividevano per capi, salvo che trovasse applicazione il diritto di rappresentazione in favore dei loro figli 197
Cfr. Nov. 53.6, a. 537 e Nov. 117.5, a. 542. Nov. 18.5, a. 536 e Nov. 89.12.4, a. 539. 199 Equiparate in caso di adoptio plena, equiparazione limitata però alla successione del figlio al padre adottivo in caso di adoptio minus plena, per la quale era esclusa la possibilità opposta, cioè di successione del padre rispetto al figlio. 200 I naturali succedevano solo alla madre. 198
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(ma non di ulteriori discendenti), nel qual caso la divisione avveniva per stirpi. Se poi si verificava concorso tra ascendenti e fratelli e sorelle germani la divisione avveniva per capi; e nel caso con gli ascendenti venissero figli di fratelli e sorelle premorti a questi andava solo la quota che sarebbe spettata al genitore premorto. Nella terza classe erano chiamati i fratelli e le sorelle unilaterali (cioè che avevano in comune solo il padre o la madre, indicati, oggi, come consanguinei i primi e uterini i secondi) con divisione per capi e possibilità di rappresentazione (successio in locum) in favore dei figli (ma non di ulteriori discendenti) e conseguente divisione per stirpi. La quarta classe infine comprendeva tutti gli altri cognati (parenti in linea collaterale) che succedevano per capi secondo il criterio della prossimità della parentela per cui il prossimo escludeva il più remoto e senza limitazioni di grado (anche oltre il sesto). Nessuna modifica era invece apportata alla posizione del coniuge superstite per il quale, non essendo contemplato nella Nov. 118, continuava ad applicarsi la bonorum possessio unde vir et uxor che lo collocava all’ultimo posto del sistema successorio. Quanto alla successione del liberto, come accennato in precedenza, a questa era chiamato, in assenza di figli (ulteriori discendenti, fratelli e sorelle, padre e madre di quello, almeno se l’eredità superava i 100 aurei), il patrono. La presenza di appartenenti a una classe escludeva la chiamata della successiva, ma era ammessa la successio ordinum e nell’ambito della quarta classe anche la successio graduum. Questo sistema introdotto da Giustiniano fu di grande importanza. Esso contribuì alla semplificazione del precedente complesso ordinamento, determinando il definitivo superamento del dualismo tra hereditas e bonorum possessio (ormai si parlava solo di hereditas) e gettando le basi di un più ordinato e moderno sistema 201 di successione intestata . Quanto alla sorte dell’hereditas nel caso che nessun erede o bonorum possessor l’avesse acquistata, ne era prevista la bonorum venditio da parte dei creditori del defunto per soddisfarsi su di essa e, in assenza di istanze dei creditori, la devoluzione dell’eredità vacante (bona vacantia) prima all’erario (lex Iulia de maritandis ordinibus del 18 a.C.) poi, dall’età di Caracalla, al fisco, salvo, in età postclassica, il privilegio accordato alle comunità od organismi cui il defunto apparteneva di 202 subentrare nei bona vacantia in luogo del fisco . 201
Si ricordino, a complemento della disciplina della successione ab intestato qui esposta, anche le due forme di successione speciale introdotte, già in età classica, da Antonino Pio e Marco Aurelio. Con la prima si riservava un quarto del patrimonio del pater adrogans – sia che questi avesse fatto o meno testamento – all’impubere arrogato e poi emancipato ancora impubere (quarta divi Pii; cfr. I. 1.11.3); con la seconda si disponeva che, in presenza di un testamento rimasto inefficace nel quale fossero state disposte valide manomissioni, i servi manomessi nel testamento o anche un terzo estraneo (ove l’eredità fosse andata deserta e come tale destinata alla bonorum venditio) potessero chiedere e, previa cautio di adempimento in favore dei creditori ereditari, ottenere l’addictio dei beni del testatore (addictio bonorum libertatum conservandarum causa) in modo tale da consentire l’efficacia delle manomissioni testamentarie disposte. 202 Così potevano subentrare: l’unità di appartenenza in caso di soldati, le curie in caso di curiales; le corporazioni in caso di navicularii o fabricenses; le chiese o monasteri in caso di vescovi, chierici o monaci.
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16. Successione testamentaria. Il testamento, nozione e caratteri Il testamento era l’atto più importante che un cittadino romano potesse com203 piere come privato: con esso egli poteva disporre delle proprie sostanze per il tempo successivo alla morte, indicando chi avrebbe potuto subentrargli nella titolarità delle posizioni giuridiche che a lui facevano capo (nomina di erede) e dettare quelle minori disposizioni patrimoniali (legati) o personali (come tutoris datio o manomissioni) che riteneva opportune. Giuristi, eruditi, filosofi ne Rilevanza sociale attestano il grande rilievo nella società romana sin dai tempi più del testamento antichi e la larghissima diffusione presso le classi elevate. La successione testamentaria, si è visto, non era la più antica: più risalente era la successione legittima, dato il ruolo rivestito nella famiglia arcaica dai fili familias come continuatori della persona del de cuius e contitolari, già in vita del pater, del patrimonio familiare. Ma che il testamento costituisse significativa esternazione delle prerogative del cittadino lo attesta non solo la sua risalenza, che ne colloca l’uso e il riconoscimento giuridico già in età anteriore alle XII Tavole, ma la considerazione da cui esso fu circondato, che ne faceva conforto per il tempo della morte 204 (solacium mortis) e reputava “orribile evenienza una morte intestata”. Seneca, in particolare, ci dà testimonianza dello spazio occupato nella sensibilità sociale romana, prima ancora che in quella giuridica, dall’attività di testare. Il filosofo osservava: “quanto tempo passiamo a lungo, in segreto, discutendo quanto e a chi 205 daremo ... mai siamo più oculati nel dare” , rilevando la partecipazione e il coinvolgimento emozionale che accompagnavano la redazione del testamento. Del resto della centralità del ruolo a esso assegnato sono testimonianza i dibattiti di cui recano traccia le declamazioni dei retori, le arringhe degli oratori e le controversie senza fine che animavano le discussioni tra giuristi, di cui le loro opere conservano ampia memoria. Fra le numerose fonti che di quell’importanza sociale e culturale recano traccia un posto di primo piano riveste Plinio il Giovane (I sec. d.C.), che offre indicazioni significative del rilievo assegnato al testamento nella cerchia delle classi abbienti che costituivano lo sfondo delle sue epistulae: il retore 206 ricorda come si indossassero gli abiti più eleganti quando lo si leggeva , come 207 esso apparisse “specchio ... dei costumi” e lo si comunicasse e discutesse pubblicamente, si curasse il suo contenuto aggiornandolo periodicamente e ci si preoccupasse delle disposizioni a favore di parenti o familiari o delle ricompense 203
Il termine deriva etimologicamente da testes, testimoni, data la costante necessità della loro presenza alla redazione dell’atto a fini di memoria e di autenticazione. Certamente falsa è invece l’etimologia riportata da I. 2.10 pr., per cui testamentum ex eo appellatur, quod testatio mentis est, ossia “il testamento si chiama così perché è una attestazione di volontà”. 204 Quint. Decl., 308. 205 Sen. de benef. 4.11.4-6. 206 Plin. Ep. 2.20. 207 Plin. Ep. 8.18.
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da riconoscere agli schiavi. Un sentimento diffuso della rilevanza dell’atto trovava riconoscimento nella società romana e ne costituiva una costante sin dagli inizi della Repubblica. Secondo il pensiero romano, infatti, il testamento era l’atto solenne, di ultima volontà, mediante il quale si nominava un erede (ossia un soggetto che succedesse al de cuius nel complesso dei rapporti dei quali Contenuto questo era titolare): era in forza di quell’atto che il de cuius poteva del testamento 208 garantire la sopravvivenza della familia attraverso l’individuazione di chi ne potesse sostenere le sorti alla propria morte. Questa era la ragione di fondo della precedenza accordata alla successione testamentaria rispetto a quella legittima e della particolare concezione romana per cui quella per testamento rappresentava la forma ordinaria di successione (a differenza che presso altri popoli antichi), costituendo ipotesi ben rara che il paterfamilias morisse senza testamento. Ma era questa anche la ragione per cui, a differenza degli altri atti privati, si affermava con risolutezza essere interesse generale l’esatta esecuzione della volontà del testatore (“è interesse pubblico che abbiano esito le ultime volontà degli uo209 mini”) e se ne favoriva la preservazione attraverso il riconoscimento di un apposito favor testamenti. Anche quando, tuttavia, quella concezione venne superata e il testamento assunse un contenuto più ampio e più vario che non si riassumeva nella sola heredis institutio (comprendendo legati, manomissioni, nomine di tutori, fedecommessi), la rilevanza di esso come strumento di disciplina della sorte dei rapporti giuridici facenti capo al de cuius non venne meno, anzi trovò espressione nelle rinnovate definizioni che ne proposero i giuristi romani. A venire in rilievo era, secondo le nuove concezioni, la funzione dell’atto come strumento di disposizione mortis causa dell’insieme eterogeneo dei rapporti che al de cuius si riferivano, basato essenzialmente sulla voluntas testantis. E se per Modestino il testamento costituiva, in particolare, “manifestazione secondo il diritto della nostra volontà circa ciò che 210 si intende fare per il tempo successivo alla morte” , per i Tituli ex corpore Ulpiani, operetta della prima età postclassica composta su materiali giurisprudenziali classici, esso era “un’espressione della nostra volontà, conforme al diritto e resa 211 solennemente perché valga dopo la nostra morte” . In entrambi i casi l’accento è posto sulla voluntas e sulla testatio: era infatti alla solenne manifestazione di volontà resa dinanzi a testimoni che si affidava il potere di stabilire che cosa dovesse avvenire dopo la morte del de cuius dei rapporti che rientravano nell’ambito del suo potere di disposizione. Alla luce di queste definizioni risultava chiaro quali fossero i ca- Natura ratteri secondo i quali l’istituto testamentario si era venuto asse208
Il riferimento è all’espressione considerata non solo sotto il profilo personale ma in particolare sotto quello patrimoniale e religioso (culto delle divinità domestiche). 209 D. 29.3.5 (Paul. 8 ad Plaut.). 210 D. 28.1.1 (Mod. 2 pand.). 211 Tit. ex corp. Ulp. 20.1.
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stando: esso consisteva, almeno nella sua forma postdecemvirale, in una dichiarazione unilaterale di volontà resa solennemente davanti a testimoni con cui si istituivano eredi e si disponeva mortis causa del proprio patrimonio. Più che un negozio giuridico esso costituiva pertanto un atto che poteva conteCaratteri nere più negozi di cui almeno uno, l’istituzione di erede (heredis institutio), non poteva mancare, pena la radicale nullità dell’atto. Alcuni caratteri ne costituivano le specifiche peculiarità, contribuendo a distinguerlo da altri atti giuridici. Il testamento era anzitutto istituto iuris civilis e dunque riservato ai cittadini romani, almeno fino alla Constitutio Antoniniana del 212 d.C. che, estendendo la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’Impero, aveva in pratica fatto venir meno quel privilegio. Prima di allora i peregrini avrebbero potuto testare e ricevere per testamento, ma secondo la propria legge nazionale. Esso era altresì atto personalissimo, anzi era l’atto più personale che contemplasse l’ordinamento giuridico. La volontà, dunque, doveva essere manifestata personalmente dal testatore con esclusione di qualsiasi intermediario, fosse questo un nuncius o un rappresentante. In conseguenza gli incapaci non potevano far testamento, mentre di norma era loro consentito compiere negozi tramite rappresentanti. In particolare il pupillo non poteva fare testamento neppure mediante l’auctoritas tutoris. Eccezione più apparente che reale era quella della donna pubere, cui era riconosciuto il potere di testare tutore auctore: per essa infatti l’autorità tutoria si riduceva a una mera formalità, specie dal momento in cui le fu riconosciuta la possibilità di scegliersi il tutore. Neppure la possibilità per il paterfamilias di disporre sostituzione pupillare (v. infra) costituiva eccezione al principio, dal momento che, se è vero che per mezzo di essa il pater nominava un sostituto (erede) al proprio figlio per il caso che questi morisse impubere e dunque faceva testamento anche per il figlio, è anche vero che l’eredità del figlio si considerava come parte di quella del pater. È inoltre al carattere essenzialmente personale dell’atto che si doveva l’inammissibilità del testamento congiuntivo, cioè di due persone in un unico documento, e del testamento reciproco, ossia del testamento 212 congiuntivo nel quale due persone si istituissero eredi reciprocamente . Il carattere personale del testamento non escludeva però che a scrivere il documento potesse essere materialmente altra persona, come nel testamento per aes et libram quando vi era nuncupatio di rinvio o si trattava di un vero e proprio testamento scritto. Quel che importava infatti era che la volontà provenisse dal testatore, mentre la documentazione poteva anche essere opera di un terzo (diversamente se la manifestazione di volontà non fosse stata del testatore il testamento sarebbe stato falso e quindi nullo e il responsabile sarebbe incorso nel crimen falsi). 212
Eccezione fu introdotta in proposito nel 426 da Valentiniano III – Nov. Valent. 21.1 – con l’ammettere testamento reciproco tra coniugi, sia pure in via di privilegio imperiale da concedersi caso per caso. La costituzione non fu però recepita nel Corpus iuris.
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Ma il testamento era anche atto formale: per esser valido dove- Atto formale va esser fatto secondo le forme stabilite dalla legge. Si parlava di 213 214 contestatio sollemniter facta e di sollemniter complere per indicare la necessità del rispetto delle formalità prescritte. Queste potevano essere diverse a seconda delle diverse epoche storiche e dei diversi ordinamenti giuridici (ius civile; ius honorarium), ma erano pur sempre richieste, non ammettendosi la libera manifestazione della volontà testamentaria, e andavano rispettate, costituendo garanzia della serietà della volontà del disponente. In quanto posto in essere attraverso la manifestazione di volon- Atto unilaterale tà di un solo soggetto il testamento era altresì atto unilaterale. Nessun incontro con altra volontà era richiesto (come nel contratto o nel patto) né a realizzarlo valeva l’accettazione da parte dell’erede perché questa, necessaria affinché l’erede potesse acquistare (almeno quanto all’heres voluntarius), non era richiesta per l’esistenza giuridica dell’atto e intervenendo dopo la morte del testatore non poteva certo concretare alcuna forma di accordo con la volontà del defunto. Semmai una parvenza di bilateralità trovava riconoscimento in età arcaica con riferimento ai tipi più antichi di testamento che si realizzavano nelle forme della mancipatio, ossia di un atto bilaterale. Ma quel carattere già residuale nel testamentum per aes et libram, per il quale la mancipatio era mero espediente formale per rendere possibile l’espressione della volontà testamentaria del de cuius (attenuando così in radice il carattere bilaterale proprio dell’atto), era ormai superato nel testamento pretorio che, come vedremo, per la validità richiedeva solo un documento scritto su qualsiasi materiale portante i sigilli dei sette testimoni. Soprattutto però il testamento era atto mortis causa: esso cioè Atto mortis causa era destinato ad aver efficacia con la morte del de cuius ed era atto essenzialmente revocabile potendo il disponente modificare la propria volontà fino all’ultimo istante della vita, revocando il testamento già fatto. È il giurista Ulpiano in età tardoclassica a fissare il principio col sottolineare che “la volontà del 215 defunto è mutevole fino all’ultimo istante di vita” . Esaminati i caratteri propri del testamento appare ora oppor- Unicità tuno ricordare alcune peculiarità che hanno contribuito a definirne la figura. Anzitutto dal principio della unità della chiamata (alla successione), per cui era esclusa la possibilità di concorso tra successione testamentaria e successione legittima, derivava il principio della unicità del testamento, che escludeva la possibilità del concorso tra più testamenti anche se tra loro non incompatibili. Il testamento posteriore, se valido, annullava dunque il precedente. Nella redazione doveva essere rispettato il principio dell’unità dell’atto. Il compi- Unitas actus mento delle formalità previste andava effettuato senza interruzio213
Tit. ex corp. Ulp. 20.1. D. 28.4.4 (Papin. 6 resp.). 215 D. 34.4.4 (Ulp. 33 ad Sab.): ambulatoria enim est voluntas defuncti usque ad vitae supremum exitum. 214
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ni, retaggio questo della contestualità propria della mancipatio utilizzata per il testamento (solo con Giustiniano si ammise la possibilità di qualche breve interruzione per bisogni urgenti o casi imprevisti). Quanto poi alla manifestazione di volontà essa doveva essere resa palam, in modo tale cioè che i testimoni potessero udirla. Era però consentito che il testatore chiarisse la sua volontà Lingua purché non ne mutasse il contenuto. La volontà testamentaria doveva essere completa: il testatore, cioè, doveva dichiarare tutto ciò che intendeva stabilire. Un semplice schema o progetto di testamento non avrebbe avuto valore neppure come codicillo. In merito infine al mezzo espressivo da impiegare, poiché il testamento era atto iuris civilis, la lingua da usarsi era di norma il latino. Solo in età postclassica avanzata l’uso del greco fu concesso attraverso apposite di216 sposizioni imperiali .
17. Forme Dell’importanza che il testamento riveste per la comunità civi- Testamentum ca sono testimonianza le precise formalità richieste per la sua reda- calatis comitiis zione. Secondo quanto riferisce Gaio nelle sue Istituzioni due era217 no le forme utilizzate in età arcaica : il testamentum calatis comitiis (davanti ai comizi convocati) e in procinctu. Il primo, come visto, consisteva in un atto formale, compiuto oralmente davanti ai comizi curiati (presieduti dal pontefice massimo, che a questo scopo si riunivano due volte l’an- Testamentum in procinctu no, il 24 marzo e il 24 maggio), con cui il testatore affidava solennemente le sue ultime volontà alla memoria di tutti i concittadini. Con esso il testatore più precisamente designava (almeno in origine), attraverso la costituzione di una discendenza fittizia, colui che in qualità di erede avrebbe dovuto suben218 trargli nella titolarità dei rapporti giuridici che a lui facevano capo. All’atto il popolo partecipava in qualità di testimone onde sopperire alle difficoltà di un’epoca che non conosceva l’utilizzo di atti scritti. Il secondo, il testamento in procinctu, intendeva venire incontro alle esigenze dei militari e consisteva in una dichiarazione solenne e formale, resa dinanzi all’esercito schierato e pronto per la battaglia (in procinctu, ossia “sul piede di guerra”), con cui il soldato affidava le sue ultime disposizioni al populus, rappresentato dai compagni d’arme, i cui membri fungevano così da testimoni. Entrambe queste forme presentavano però un inconveniente: erano di uso limitato perché richiedevano la presenza del popolo sotto 216
Già Alessandro Severo peraltro aveva consentito l’uso della lingua greca per l’istituzione di erede: la sua concessione si limitava però solo ai cittadini romani d’Egitto (cfr. PER = Papirus Erzherzog Rainer 1705). Una più ampia generalizzazione del beneficio si deve all’epoca postclassica come testimoniato da Nov. Theod. 16.8 = CI. 6.23.21.6, a. 439, per cui cfr. infra nt. 310. 217 Gai 2.101. Evidente era in ogni caso il carattere pubblicistico di entrambe le forme. 218 In assenza di sui, la funzione era, infatti, analoga a quella dell’adrogatio.
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forma di esercito in armi o la riunione dei comizi, possibile solo in certi giorni dell’anno. Gaio attesta pertanto come alla sua epoca quelle forme fossero ormai 219 cadute in desuetudine: il testamentum calatis comitiis forse già sul finire dell’età arcaica, in connessione con la sostituzione delle antiche curie con i 30 littori che le rappresentavano, e quello in procinctu in età repubblicana avanzata (metà del II sec. a.C.), dal momento che Cicerone ricorda come al suo tempo non costituisse 220 che un lontano ricordo storico . A sostituirle provvedono per gradi nuove forme di testamento che acquistano man mano sempre maggiore diffusione fino a soppiantare le precedenti. Esse trovano spazio dapprima come meri espedienti escogitati dalla giurisprudenza pontificale per consentire di testare a quanti non potessero per ragioni di tempo o di circostanze far ricorso alle usuali forme del testamentum calatis comitiis e di quello in procinctu. Ma l’avvalersi di nuove forme, staccate dalla partecipazione popolare, è giustificato altresì dall’esigenza di superare i gravi inconvenienti legati non solo alla eccessiva macchinosità delle forme arcaiche di testamento, ma alle limitazioni ad esse inerenti, che comportavano l’impossibilità di testare per i plebei e le donne (esclusi come tali dai comitia curiata e dall’esercito) e rendevano difficilmente conciliabili le forme pubblicistiche adottate con il carattere sempre più marcatamente privato e patrimoniale dell’hereditas. Ciò comportò l’abbandono di quelle forme e il ricorso all’uti- Mancipatio familiae lizzo di un negozio formale e solenne dell’antico ius civile, la mancipatio, originariamente adibito a funzioni di alienazione e, per lo scopo, adattato a fini successori nelle forme della mancipatio familiae. Con esso, secondo Gaio, il paterfamilias che volesse disporre dei propri beni e, sentendosi in imminente pericolo di vita, non potesse avvalersi delle forme usuali di testamento, faceva mancipatio del proprio patrimonio (familia) ad un amico, al quale affidava, attraverso 221 apposita rogatio , l’incarico di eseguire la propria volontà trasferendo, in tutto o 222 in parte, dopo la propria morte i singoli cespiti alle persone da lui indicate . Il negozio aveva carattere fiduciario e l’amicus (persona di fiducia), detto familiae emptor (cioè “colui che acquista la familia” nonostante la gratuità dell’atto, sicché 223 si poté discorrere in proposito di imaginaria venditio) , diveniva immediatamente titolare di quanto a lui trasferito, anche se non poteva disporne già in vita del mancipante senza incorrere in grave ipotesi di reato (probabilmente furto). Era 219
Gai 2.102-103. Cic. de nat. Deor. 2.3.9. Cfr. pure Velleio Patercolo Hist. Rom. 2.5.3. 221 Formalmente si trattava di una preghiera, concretante in realtà una vera e propria lex mancipii. 222 Gai 2.102: “Colui che non aveva fatto testamento né a comizi convocati né in procinto, se era oppresso dal timore di morte improvvisa, dava in mancipio a un amico la sua familia, cioè il suo patrimonio, e lo pregava di quel che a ciascuno voleva fosse dato dopo la sua morte. Questo testamento è detto per rame e bilancia, ovviamente perché si compie con una emancipazione”. 223 I. 2.10.1. 220
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infatti alla morte del mancipio dans che egli sarebbe stato tenuto, in forza del vincolo della fides che lo legava a quest’ultimo, a trasferire i cespiti ereditari alle persone indicate dal mancipante, realizzando così gli scopi successori voluti. Il negozio attuava però un trasferimento inter vivos, una alienazione attuale del patrimonio; per trasformarlo in un atto di disposizione unilaterale mortis causa, ossia in un vero e proprio testamento, si dovette attendere la modificazione della mancipatio familiae nella nuova forma del testamentum per aes et Testamentum libram. Questo cambiamento costituisce un esempio istruttivo di per aes et libram come la prassi, guidata dalla giurisprudenza, senza intervento legislativo, potesse soddisfare le nuove esigenze che si venivano prospettando. Il presupposto giuridico del cambiamento venne rintracciato in due disposizioni delle XII Tavole. Con la prima (XII Tab. 5.3: uti legassit super pecunia tutelave suae rei ita ius esto, in cui legare assumeva il valore di legem dicere, ossia di dettare disposi224 zioni) si forniva pieno riconoscimento giuridico al potere del disponente di 225 stabilire la sorte della sua res imprimendole in modo unilaterale la destinazione voluta (su di essa la giurisprudenza riponeva il fondamento della latissima potestas 226 di disporre per testamento) . Con la seconda (XII Tab. 6.1: cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto) si attribuiva efficacia vincolante, uguale a quella del diritto (ita ius esto), alle dichiarazioni orali (nuncupationes), fatte nell’atto stesso della mancipatio. Attraverso queste disposizioni si ponevano dunque le basi per la trasformazione della mancipatio familiae in un vero è proprio testamento. Da un lato infatti si riconosceva la latissima potestas del de cuius di disporre unilateralmente de re sua e dall’altro si assegnava valore vincolante alle dichiarazioni 227 (nuncupationes) inserite nella mancipatio. Ciò determinò l’affermarsi di una nuova forma privata di testamento, il testamentum per aes et libram, che costituì per tutta l’epoca classica il testamento tipico dello ius civile. Per raggiungere questo risultato occorreva però modificare gli effetti traslativi immediati propri dell’antica mancipatio familiae e a ciò si provvide mediante un apposito adattamento del relativo formulario che rese particolarmente evidente il carattere fittizio della mancipatio e dell’acquisto operato dal familiae emptor. Questo infatti, pur dichiarando, come in ogni mancipatio, dinanzi ai cinque testimoni, cittadini romani e puberi, e al libripens di acquistare, per mezzo del bronzo e della bilancia, la familia pecuniaque (patrimonio) del mancipio dans, precisava la propria affermazione dichiarando di assumerne per suo incarico (mandatela) la custodia (custodela mea) allo scopo di consentirgli di far testamento (quo tu iure testamentum facere possis 224
Tit ex corp. Ulp. 11.14. Forse anche al di fuori del campo delle disposizioni mortis causa. 226 D. 50.16.20 (Ulp. 12 ad ed.). 227 Non sappiamo se ciò sia avvenuto ad opera della giurisprudenza pontificale o della prima giurisprudenza laica. Cfr. Gaio (2.103) . 225
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secundum legem publicam) . Ciò conferiva all’atto il carattere di testamento, rendendo chiaro che il familiae emptor non acquistava più, alla morte del disponente, la proprietà dei beni ereditari. Questi non era più erede o loco heredis come nella mancipatio familiae, ma semplice figurante reso indispensabile per la realizzazione del rito. Ad acquistare realmente era la persona indicata nella nuncupatio effettuata in seno alla mancipatio dal testatore. Questi infatti dopo che il familiae emptor aveva compiuto le proprie affermazioni e toccato la bilancia con un pezzetto di bronzo che consegnava al testatore, a sua volta, tenendo in mano le tavole del testamento, effettuava la dichiarazione orale (nuncupatio) di voler testare, rinviando per il contenuto delle disposizioni al documento scritto che esibiva senza peraltro procedere a darne lettura ai testimoni (“secondo quello che sta scritto in queste tavole cerate io do, io lego, io faccio testamento e voi, o Quiriti, prestatemi testimonianza”). Il testatore peraltro, oltre che riferirsi alla sua volontà espressa nelle tabulae, poteva anche esporre oralmente il contenuto del testamento, dando così vita, accanto a un testamento in cui le formalità orali erano integrate dal documento scritto contenente la sostanza delle disposizioni dettate dal de cuius (nun229 cupatio di rinvio) , a un testamento totalmente orale (con nuncupatio totale), forse la forma originaria, ma in seguito rimasta in vita solo per ragioni di necessi230 tà . Quel che in ogni caso era imprescindibile era la dichiarazione orale (nuncupatio). Da essa derivava la validità del testamento (per aes et libram), mentre le tabulae septem signis signatae (ossia le tavole con il sigillo dei testimoni) avevano un’efficacia meramente integrativa (o probatoria) e da sole non costituivano testamento. In conseguenza del rilievo assunto dalla nuncupatio gli effetti si ricollegavano ormai a questa dichiarazione unilaterale, mentre la mancipatio si riduceva a una mera forma, mantenuta dicis causa propter veteris iuris imitationem (come mera formalità a scopo di imitazione dell’antico diritto), per giustificare cioè la nuncupatio del testatore (ossia quella solenne dichiarazione accessoria alla mancipatio che consentiva la diretta attribuzione della familia all’erede). In conseguenza di questa trasformazione il familiae emptor non acquistava più nulla di quanto era del testatore, neppure temporaneamente, né l’atto produceva effetti prima del venir meno di questi. Era con la morte del testatore che il testamentum per aes et li231 bram aveva efficacia, dando vita a una vera e propria delazione ex testamento . 228
La formula pronunciata dal familiae emptor era la seguente: “dichiaro che la tua familia e la tua pecunia sono in mia custodia, su tuo mandato; esse sono acquistate da me con questo bronzo per consentirti di fare testamento secondo legge”. Per il rito del testamentum per aes et libram cfr. Gai 2.104. 229 Questa forma era assai pratica perché consentiva di soddisfare l’esigenza di segretezza e al contempo di garantire la maggiore sicurezza probatoria richieste dall’atto. 230 Svet. Vita Hor. “… morì … avendo dichiarato apertamente Augusto erede non avendo forze sufficienti per predisporre le tavole del testamento”. 231 In conseguenza dell’acquisita natura di atto di disposizione unilaterale mortis causa esso ampliò il suo oggetto, potendo riguardare cose e diritti, questi ultimi invece intrasmissibili per mancipatio. Si è visto come la nuncupatio potesse essere tutta orale o di rinvio. In alcuni casi tuttavia la forma orale era
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Da questi presupposti e in particolare dalla forma del testamentum per aes et libram con nuncupatio di rinvio, che prevedeva la redazione in iscritto sulle tavolette cerate della volontà del testatore, trasse vita, più avanti nel tempo, sul finire della Repubblica, una nuova forma di testamento che, in quanto frutto dell’intervento del pretore, è indicato come testamento pre232 torio . Sotto l’aspetto formale questo costituiva una semplificazione del testamento civile, in quanto veniva liberato dal rituale della mancipatio, divenuta una mera formalità estranea all’essenza stessa del testamento; sotto l’aspetto sostanziale, in contrapposto ai testamenti comiziali e al testamentum per aes et libram, produttivi di effetti di ius civile e dell’attribuzione del titolo di heres, fondava la delazione alla bonorum possessio secundum tabulas (secondo le tavolette del testamento). Questa era concessa dal pretore, a colui che fosse indicato come erede, dietro presentazione di un semplice documento scritto (non importa se di pugno del testatore o meno) septem signis testium signatum, ossia chiuso e sigillato attraverso il contrassegno (signum) di sette testimoni (cui in progresso di tempo si richiese al233 tresì di apporre, accanto al sigillo, la propria sottoscrizione o adscriptio) . Questo requisito non costituiva certo una novità, dato che il numero di sette ricalcava quello dei partecipanti alle formalità della mancipatio, richieste per il testamentum per aes et libram, alle quali intervenivano i cinque testimoni, il libripens e il familiae emptor. D’altra parte già con riferimento al testamentum per aes et libram (con nuncupatio di rinvio) era uso del testatore fare apporre alle tabulae, una volta legate con un linum, i sigilli (e poi le adscriptiones) dei cinque testimoni, del libripens e del familiae emptor, cui ormai si riconosceva la funzione sostanziale di testimoni. Così facendo si raggiungeva il risultato di rendere il testamento (per aes et libram) valido sia per il diritto civile che per il diritto pretorio. Questa prassi (del rispetto dei requisiti di entrambe le forme), largamente attestata, corrispondeva bene alle ragioni che avevano ispirato l’inserimento nell’Editto pretorio della clausola concernente la concessione della bonorum possessio secundum tabulas, che consistevano da un lato nel rendere più semplice la prova dell’esistenza di un testamento idoneo ai fini della concessione della bonorum possessio, e dall’altro nel consentire di preservare comunque la validità di un testamento, pur se nullo iure civili per mancato rispetto del rito. In ultima analisi l’intervento del pretore, pur non realizzando trasformazioni radicali, finiva per rafforzare la rilevanza del testamento nel sistema successorio romano. Certo la bonorum possessio concessa in presenza
Testamento pretorio
l’unica possibile, come in ipotesi di testatore privo di mani (D. 28.1.10, Paul. 3 sent.). Non potevano essere adibiti come familiae emptor, libripens e testimoni il non cittadino, le donne, l’impubere, il muto, il sordo, il pazzo, il prodigo e l’improbus intestabilisque. Cfr. Tit. ex corp. Ulp. 20.7; I. 2.10.6 e per altre esclusioni Gai 2.105-106. Tutte le formalità richieste, inoltre, dovevano essere compiute in successione secondo il principio della unitas actus, come affermato in D. 28.1.21.3 (Ulp. 2 ad Sab.), ove si precisava: “È necessario compiere l’atto testamentario in un’unica soluzione …”. 232 La denominazione non è propriamente delle fonti, ma ad esse riconducibile come risulta da P.S. 4.8.2 e I. 2.10.2, per il cui testo cfr. infra, nt. 234. 233 Gai 2.119; cfr. pure Cic. in Verr. 2.1.117; D. 37.11; D. 28.1.22.4 (Ulp. 39 ad ed.).
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di un testamento valido solo iure praetorio era in origine sine re, nel senso che l’heres scriptus godeva di protezione solo se non ci fosse stato un erede civile ab in234 testato, ma con Antonino Pio, come visto, anche questo limite fu superato , potendo l’heres scriptus opporre l’exceptio doli alla hereditatis petitio dell’heres ex lege 235 (bonorum possessio cum re) . Più avanti, in età postclassica, l’evoluzione si indirizzò a com- Forme postclassiche porre il dualismo tra testamento pretorio e testamento civile, eliminando in primo luogo ogni traccia dell’antico formalismo. Sino agli inizi del IV sec. d.C., tuttavia, si continuò a far ricorso al testamentum per aes et libram con nuncupatio di rinvio, completato con i sigilli e le sottoscrizioni dei cinque testimoni, del libripens e del familiae emptor (o quanto meno si continuò ad aggiungere al documento testamentario la clausola che il rito aveva avuto luogo, anche se questo in realtà non era avvenuto). Con Costantino, per effetto Costantino delle istanze dei provinciali, specie di lingua greca, tutti ormai cives romani e partecipi del ius civile ma estranei, per mentalità e cultura, ai formalismi da questo imposti, ci si allontanò definitivamente da quei riti, la mancipatio venne soppressa e con essa la relativa nuncupatio e il testamento civile venne assimilato a quello pretorio, tranne che per il numero dei testimoni, fissato in cinque per 236 quello civile e in sette per quello pretorio . È tuttavia a Teodosio Teodosio II II che si deve, nel 439, una risistemazione complessiva della materia e un più deciso avvicinamento delle diverse forme. In una costituzione genera237 le in argomento venne infatti disposto che il testamento potesse essere scritto od orale, ma sempre con l’intervento di sette testimoni. In caso di testamento scritto (dal testatore o da altri) il disponente avrebbe presentato il documento che lo conteneva ai testimoni e aggiunto la propria firma dinanzi a loro (cui non era necessario far conoscere il contenuto dell’atto); dopo di lui avrebbero firmato i testimoni, apponendo successivamente all’esterno i propri sigilli. In caso di testamento orale, abbandonata a partire da Costantino la necessità di mancipatio e nuncupatio totale, si richiese solo l’enunciazione della propria volontà da parte del testatore dinanzi a testimoni, che dal numero di cinque furono portati da Teodosio II appunto a sette come nel testamento scritto. In questo stesso periodo si affermò anche quella particolare forma di testamen234
Gai 2.120. Se poi fossero esistiti due testamenti, uno civile e l’altro pretorio, si sarebbero dovuti considerare come aventi pari efficacia, di modo che, per quanto riguarda la revoca, si sarebbe dovuto applicare il principio generale che il testamento posteriore revoca il precedente (D. 28.3.2, Ulp. 2 ad Sab.). 236 Cfr. Euseb. de vita Const. 4.26 e l’accenno di Costanzo nel 339 in CI. 6.23.15. Si può supporre che sino alla riforma di Teodosio II del 439 testamento civile e pretorio continuassero a distinguersi per la diversa natura attribuita alla scrittura: probatoria nel caso del testamento civile, ad substantiam nel caso del testamento pretorio. 237 Nov. Theod. 16.2 e 6 = CI. 6.23.21.pr. e 4, a. 439. La disposizione precisa inoltre (§1) che, ove il testatore fosse stato analfabeta o impossibilitato a sottoscrivere, al posto del testatore la firma avrebbe potuto essere apposta da un ottavo testimone. 235
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to privato e scritto che è indicato come testamento olografo (cioè scritto di suo 238 pugno dal testatore). Riconosciuto in Occidente da Valentiniano III nel 446 , ma ignorato nel diritto del Corpus iuris (la costituzione di Valentiniano non fu accolta nel Codice di Giustiniano), ebbe ampia fortuna in Occidente, come te239 stimoniato dalla lex Romana Burgundionum . Per esso si ammetteva la possibilità di fare a meno dei testimoni se il documento era scritto e sottoscritto dal testatore. Il diritto giustinianeo apportò ben poche innovazioni a questo Giustiniano regime. Le forme di testamento restarono sostanzialmente due: orale e scritta. La prima consisteva in una dichiarazione orale fatta dinanzi a sette testimoni riuniti contemporaneamente in modo da poter ascoltare la dichiarazio240 ne del testatore . La seconda consisteva in un documento, contenente la volontà del disponente, scritto dallo stesso testatore e da lui sottoscritto (forma olografa) o redatto da un terzo (sotto dettatura del testatore che lo sottoscriveva: forma allo241 grafa) sempre con l’intervento di sette testimoni i quali, a loro volta, dovevano sottoscrivere e apporre i loro sigilli, formalità questa da compiersi senza interruzione in rispetto del requisito della unitas actus. Si realizzava in questo modo quella fusione (in unam consonantiam iungi) tra ius civile e ius honorarium che nelle sue Institutiones l’imperatore riconosceva come frutto di prassi e legislazione postclassiche e che, consentendo il superamento delle diversità dei regimi, dava vita a quello che Giustiniano definiva uno ius tripertitum, risultando la disciplina disposta per il testamento scritto ormai basata sul contemperamento dei requisiti richiesti dallo ius civile (che imponeva la presenza dei testimoni) dallo ius honorarium (che stabiliva il numero dei testimoni e la necessità di sigilli) e dalle costituzioni impe242 riali (che disponevano la necessità della firma del testatore e dei testimoni) . Accanto a queste forme private il diritto postclassico riconosceva però anche il testamento pubblico nelle due forme del testamentum apud acta e principi oblatum, il primo consistente in una dichiarazione orale resa dinanzi ad un pubblico funzionario (autorità giudiziaria o municipale) e presso questo registrata, il secondo in un documento scritto affidato all’imperatore con apposite preces e cu243 stodito in archivio dal magister libellorum . Attraverso l’ammissione di questi nuovi tipi si realizzava pertanto una varietà di forme che, pur nell’eterogeneità dei regimi, testimoniava della esigenza stessa del testamento come strumento di disciplina della sorte dei rapporti giuridici facenti capo al de cuius, dimostrando la rilevanza assunta dall’atto di ultima volontà nella mentalità romana. 238
Nov. Valent. 21.2. Lex Rom. Burg. 45.1. 240 I. 2.10.14. 241 Il testatore doveva in questo caso anche scrivere di sua mano il nome dell’erede o degli eredi. 242 I. 2.10.3. 243 È in particolare agli imperatori Onorio e Teodosio II che si deve la disciplina di queste forme con la costituzione in CI. 6.23.19 pr.-1 del 413. 239
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18. Forme speciali di testamento Accanto alle forme considerate, che si possono definire ordinarie, il diritto romano, specie nell’ultima epoca, riconobbe altresì alcune forme speciali di testamento che presentavano la caratteristica comune di derogare in certo qual modo alle formalità necessarie (talvolta, come nel caso del testamentum militis, ruri anche al regime ordinario), importandone talvolta un aggravamento Testamentum conditum e ma più spesso un alleggerimento, in considerazione di ragioni di tempore pestis opportunità pratica o di favore ovvero di maggiore garanzia in relazione alle condizioni personali del testatore. Nel novero di queste figure speciali rientrava anzitutto il testamentum ruri conditum, disciplinato da Giustiniano, il quale dispose che quando il testamento era fatto in campagna bastavano cinque testimoni ove non fosse possibile trovarne sette, e che se alcuni di essi non sapessero o non potessero scrivere gli altri sottoscrivessero per loro (salvo richiedere in tal caso che tutti i testimoni fossero a conoscenza del contenuto del testamento e lo con244 fermassero con giuramento alla morte del testatore) . Altra figura oggetto di disciplina speciale era quella del testamentum tempore pestis, ossia predisposto in tempo di epidemia; una costituzione di Diocleziano stabilì che in caso di pericolo per i testimoni di contrarre contagio non occorreva che i testi fossero presenti contempo245 raneamente, né che gli stessi si trovassero in contatto diretto con il testatore . Altre forme speciali erano: 1) il testamentum parentis inter liberos, disposto dal testatore a favore soltanto dei propri figli, per cui, secondo il definitivo re- Testamentum parentis gime giustinianeo che modificò le precedenti disposizioni di Co- inter liberos stantino e di Teodosio II e Valentiniano III, i genitori potevano testare in favore dei propri figli senza intervento di testimoni purché il testamento fosse autografo e il testatore scrivesse di propria mano la data, il nome degli eredi e 246 le quote loro assegnate senza far uso di cifre o di abbreviazioni ; 2) il testamento 247 248 del cieco, regolato da Giustino I e in seguito da Giustiniano , del cieco per il quale oltre i sette testimoni si richiedeva la presenza di un notaio (tabularius o, in mancanza, di un ottavo testimone) che doveva redigere in iscritto, alla presenza dei testi, la volontà del disponente e firmare e sigillare assieme a questi il documento, ovvero in alternativa si prevedeva che il testatore facesse leggere dal notaio o dall’ottavo testimone agli altri testi presenti il testamento già fatto scrivere, che andava poi anch’esso firmato e sigillato da testi e notaio; 3) il testamento dell’analfabeta, che richiedeva la presenza di un ot- dell’analfabeta 249 tavo testimone che sottoscrivesse per il testatore ; 4) il testamento 244
CI. 6.23.31.2-4, a. 534. CI. 6.23.8 pr.-1, a. 290. 246 Nov. 107.1, a. 541. 247 CI. 6.22.8, a. 521. 248 I. 2.12.4. 249 Nov. Theod. 16.3 di Teodosio II e Valentiniano III. 245
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a favore della Chiesa e delle opere pie, per il quale la forma era libera: non si richiedeva infatti il rispetto delle comuni formalità, dato che già Costantino aveva stabilito che in tali disposizioni liber sit stilus et li250 cens (ossia che fosse libera e discrezionale la forma) ; 5) il testaTestamentum militis mentum militis, che piuttosto che una forma speciale di testamento doveva considerarsi come un regime speciale testamentario, riconosciuto ai milites a titolo di privilegio personale in considerazione del loro status. Quest’ultima forma aveva origine piuttosto recente, non presentando alcuna connessione con l’arcaico testamentum in procinctu, dal quale lo distinguevano non solo forme e regime ma le stesse finalità perseguite. Fu introdotto da talune concessioni temporanee operate da Cesare e ripetute poi durante il I sec. d.C. da Tito e Domiziano, e finì per consolidarsi con la plenissima indulgentia disposta da Nerva, ripetuta 251 anche da Traiano . Con tali concessioni, prima personali poi generali, si dispensavano i militari, in considerazione della loro simplicitas, dall’osservanza delle forme testamentarie comuni, consentendo loro di testare ‘come volevano e come 252 potevano’” (quomodo velint vel quomodo possint) , ossia nelle forme più varie (scritte o orali) che, di regola, rispecchiavano quelle dei loro paesi di origine, essendo l’esercito romano ormai composto in gran parte da elementi non romani. Era sufficiente quindi che risultasse in qualsiasi modo, anche se diverso dal testamento tipico dello ius civile o da quello pretorio, che il soldato aveva voluto testare e che aveva effettivamente disposto dei suoi beni. Il privilegio, per tutta l’epoca classica, si applicava a tutti i militari, di terra e di mare, dall’arruolamento e fino al congedo, anzi perdeva efficacia solo dopo un anno che il servizio era cessato (in caso di honesta missio, ossia di congedo onorevole; ove invece si fosse trattato di missio ignominiosa, ossia di espulsione dall’esercito per indegnità, il testamentum 253 militis perdeva efficacia immediatamente) . Le concessioni imperiali, traendo giustificazione dalla simplicitas del militare, dapprima riguardavano solo la forma, ma ben presto, per salvaguardare la volontà del disponente su cui si fondava l’efficacia dell’atto, finirono per intaccarne anche la sostanza, comportando una profonda deviazione dai principi del diritto comune disciplinanti la successione romana, fino al punto che Caracalla, non senza esagerazione, affermò che i testamenti militari iuris vinculis non subiciantur (ossia che “non sono sottoposti alle
a favore della Chiesa
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CTh. 16.2.4 e per le Opere pie Nov. Marc. 5.2; CI. 1.2.14 dell’imperatore Leone e CI. 1.2.25 (26).2 di Giustiniano. 251 D. 29.1.1 pr. (Ulp. 45 ad ed.). 252 Gai 2.114 253 Cfr. D. 29.1.42 (Ulp. 45 ad ed.) e Tit. ex corp. Ulp. 23.10. Il privilegio era esteso anche ai non militari al seguito dell’esercito che fossero morti in territorio nemico (D. 29.1.44, Ulp. 45 ad ed.), ma fu ristretto da Giustiniano ai soli militari occupati in spedizione (CI. 6.21.17, a. 529). Ciò determinò una profonda modificazione della natura dell’istituto che da privilegio legato allo stato personale del miles si trasformò in una benigna concessione per i militari in guerra. Era altresì ammesso che il testamento redatto nelle forme ordinarie potesse convertirsi in testamento militare per successiva assunzione del testatore nella milizia (D. 29.1.9.1, Ulp. 9 ad Sab.).
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regole del diritto”, anche se ciò non voleva dire che potessero valere sine observatione 254 legum, ossia se contrari alle norme) . Si introdussero dunque in relazione al testamentum militis nuove regole e deviazioni dalle antiche concezioni, obliterando principi arcaici che l’evoluzione successiva finì per superare anche rispetto ai testamenti comuni, facendo così di questa forma (com’era stato per il testamento pretorio) un importante fattore di trasformazione e di mutamento dei precetti tradizionali. In particolare, con riferimento al testamentum militis si ammise la possibilità di concorso tra successione testamentaria e successione legittima in deroga al principio 255 nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest ; si consentì istituzione di erede ad tempus e sotto condizione risolutiva in deroga al principio semel heres sem256 per heres ; si ammise istituzione di erede ex re certa in contrasto con il carattere 257 universale della successione ereditaria ; si stabilì che la preterizione dei sui non 258 rendeva nullo il testamento ; si escluse l’esperibilità contro di esso della querela 259 inofficiosi testamenti ; si dispose che non trovasse applicazione la lex Falcidia de le260 gatis e neanche la cosiddetta legislazione caducaria ; si consentì che il militare potesse disporre con un testamento dei beni acquistati in occasione del servizio militare (bona castrensia) e con altro testamento degli altri beni, come se si fosse trattato di due eredità distinte e l’erede che fosse succeduto in una di esse non dovesse ri261 spondere dei debiti o esigere i crediti relativi all’altra .
19. Apertura del testamento Una volta redatto il testamento, o meglio le tabulae relative, si provvedeva alla custodia. Questa avveniva depositandole o presso un soggetto fidato o in un tem262 pio o, in caso di testamenti pubblici, presso l’ufficio chiamato a riceverli . La lex Iulia de vicesima hereditatum del 6 d.C., l’editto del pretore e altre norme successive regolavano le procedure da seguirsi per l’apertura del testamento alla morte del de cuius. Anzitutto chi lo aveva in custodia doveva consegnarlo perché si potesse procedere all’apertura: l’obbligo era sanzionato da un apposito interdetto de 263 tabulis exhibendis . L’apertura doveva avvenire statim, dopo la morte del testato254
CI. 6.21.3, a. 213 e D. 49.17.19.2 (Triph. 18 disp.). D. 29.1.6 (Ulp. 5 ad Sab.) 256 D. 29.1.15.4 (Ulp. 45 ad ed.) e 29.1.19.2 (Ulp. 4 disp.). 257 D. 29.1.19.1-2 (Ulp. 4 disp.) 258 D. 38.2.12 pr. (Ulp. 44 ad ed.). 259 D. 5.2.27.2 (Ulp. 6 opin.). 260 D. 29.1.17.4 (Gai. 15 ad ed. prov.). 261 Si stabilì inoltre che alcuni incapaci iure communi potessero ricevere dal militare (Gai 2.110) e che non valessero le incapacità stabilite dalla lex Iulia et Papia (Gai 2.111). 262 D. 31.77.26 (Papin. 8 resp.); 43.5.5 (Iav. 14 ex Cass.). 263 D. 43.5.1 pr. (Ulp. 68 ad ed.); cfr. pure CI. 8.7 255
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re e comunque entro un lasso di tempo non superiore ai cinque giorni (tranne 264 casi eccezionali) davanti a un’autorità pubblica competente quale il pretore, 265 la curia cittadina, o, in provincia, il preside . Questa, avuto il testamento, 266 doveva convocare i testimoni e richiedere il riconoscimento dei sigilli , dopodiché si procedeva alla materiale apertura delle tabulae che erano lette pubblicamente (recitatio testamenti) redigendo processo verbale di quanto avvenu267 to . Una volta pubblicate le tabulae erano rimesse alla custodia di un erede o di un tempio, ovvero, in età tardoimperiale, più frequentemente di un ufficio 268 pubblico .
20. Invalidità e inefficacia Manca presso i giuristi romani una elaborazione dottrinale unitaria della invalidità del testamento e neppure esiste una terminologia costante, ricorrendo spesso nelle fonti espressioni diverse per indicare violazioni delle norme circa la validità dell’atto. Così ad esempio si qualificava iniustum o non iure factum il testamento per cui non si fossero rispettate le forme previste o mancasse la testamenti factio 269 del disponente o dell’erede ; nullius momenti o inutile quello viziato per preteri270 zione di sui ; irritum il testamento inizialmente valido ma poi divenuto nullo 271 per perdita della testamenti factio da parte del disponente o dell’erede ; destitutum o desertum quello in cui l’erede rinunciava o moriva prima di aver accettato 272 (o comunque prima del testatore) ; ruptum il testamento invalido per sopravvenien273 za di postumus che il testatore non aveva contemplato . Terminologie distinte, queste, ma che convergevano nell’indicare fattispecie producenti tutte l’identico effetto dell’invalidità del testamento. Questa poteva essere totale o parziale, ossia riguardare l’atto in Invalidità totale sé (incapacità del disponente, difetto di forma) o una singola die parziale sposizione in esso contenuta (incapacità dell’onorato). Nel primo caso a cadere era tutto il testamento, nel secondo la singola disposizione (salvo 264
Cfr. in proposito P.S. 4.6.3; D. 40.5.26.3 (Ulp. 5 fideic.). P.S. 4.6; D. 29.3; CI. 6.32; CTh. 4.4.4 di Arcadio del 397 = CI. 6.23.18 e documenti in FIRA, III, p. 151 e 171. 266 D. 29.3.4 (Ulp. 50 ad ed.). 267 Cfr. FIRA, III, p. 175 ss. 268 D. 10.2.4.3 (Ulp. 19 ad ed.); D. 29.3.3 (Gai. 17 ad ed. prov.); P.S. 4.6.1. 269 Gai 2.115; D. 28.3.1 (Papin. 1 defin.), ove il giurista Papiniano propone una classificazione delle diverse forme di invalidità. 270 Gai 2.123. 271 Gai 2.145-146 fornisce una chiara testimonianza delle difficoltà incontrate dalla giurisprudenza romana nel definire una terminologia distinta e peculiare per ciascuna delle fattispecie considerate. 272 I. 3.1.7 e 8. 273 Gai 2.130-134. 265
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che la nullità riguardasse la heredis institutio nel qual caso per lo ius civile cadeva tutto il testamento, mentre in seguito, in età giustinianea, si ammise che perma274 nesse la validità delle altre disposizioni in esso contenute) . Così ad esempio se esistevano vizi di forma il testamento non era valido né erano vali- immediata e mediata de le sue singole disposizioni, ma se il testatore avesse disposto in legato di una cosa extra commercium sarebbe stata quella sola disposizione a essere invalida e non l’intero testamento (si osservi poi che in conseguenza delle incompatibilità tra delazione testamentaria e delazione legittima in genere l’invalidità era generale, eccezionalmente parziale). In alcuni casi, come visto, tuttavia l’invalidità non era prodotta da un vizio del testamento in sé (difetto di forma, c.d. invalidità immediata), ma da un difetto concernente l’istituzione di erede (c.d. invalidità mediata): questo si verificava quando era assente o affetta da vizi (anche di forma) la heredis institutio o la exheredatio (ciò dal momento che nessun testamento poteva considerarsi valido in difetto di valida heredis institutio). L’invalidità poteva essere altresì iniziale o successiva, a seconda iniziale e successiva che la causa determinante fosse già presente al tempo della perfezione del testamento o intervenisse in seguito. In particolare poteva essere di entrambe le specie l’invalidità per incapacità: essa poteva infatti essere iniziale quando a fare il testamento fosse uno schiavo che si credeva libero o ad essere istituito fosse un erede incapace (al momento del testamento), ma poteva anche essere successiva (e il testamento diventare nullo) in caso il testatore avesse subito una capitis deminutio dopo la perfezione del testamento o l’erede fosse divenuto incapace dopo la perfezione e prima della morte del testatore. Era successiva anche l’invalidità conseguente a revoca e quella per sopravvenienza per sopravvenienza di un filius: più precisamente poteva trattarsi di filius di un discendente naturale, ovvero di un suus, sopravvenuto dopo la perfezione del testamento che non fosse stato in esso previsto per essere istituito o diseredato, ovvero poteva trattarsi più propriamente di un postumus, ossia di un soggetto nato dopo la morte del testatore e che con la nascita sarebbe caduto sotto la sua potestà se il testatore fosse stato ancora in vita (c.d. inva275 lidità agnatione postumi) . L’invalidità per sopravvenienza di un suus venne gradualmente estesa anche oltre l’ambito della filiazione naturale a ricomprendere anche i figli adottivi o le donne su cui il testatore avesse acquistato la manus, rientrando anche questi soggetti nella categoria dei sui (c.d. invalidità quasi 276 agnatione postumi) . Si è finora discorso di invalidità: si tenga però presente che cosa distinta è l’inefficacia. Un testamento invalido è anche inefficace, ma si può avere un testamento inefficace perfettamente valido, come nel caso in cui l’erede non abbia an274
Nov. 1.1.2, a. 535; 115.3.15; 4.9, a. 542. Gai 2.130-131. 276 Gai 2.138-139. 275
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cora accettato l’eredità o all’heredis institutio sia apposta una condizione finché questa non si sia avverata. Al fine di ovviare a possibili cause di invalidità (del testamenConversione del to), il testatore poteva peraltro prevedere disposizioni di convertestamento invalido sione, in particolare facendo ricorso alla cosiddetta clausola codicillare. Con essa il testatore disponeva che, nel caso in cui il testamento non fosse stato valido come tale, potesse valere almeno come codicillo. Era però necessario, in presenza di un testamento invalido, che ci fosse un’apposita dichiarazione del testatore – contenuta nel testamento stesso o in un codicillo – che disponesse direttamente o indirettamente in tal senso, non operando la conversione ipso iu277 re . In questo caso l’invalidità del testamento avrebbe determinato l’apertura della successione ab intestato ed esso – testamento – allora avrebbe assunto il valore di codicillo ab intestato, con la conseguenza che l’heredis institutio si sarebbe trasformata in fedecommesso universale a carico del successore ab intestato; i legati in fedecommessi di cose singole; le manomissioni dirette in manomissioni fede278 commissarie .
21. Revoca Tra le cause di invalidazione successiva particolare rilievo assumeva inoltre la revoca. Essa aveva il suo fondamento nella natura stessa del testamento. In quanto atto di ultima volontà, ciò che assumeva valore era solo il supremum o ultimum iudicium, ossia l’ultima volontà del testatore. In conseguenza egli era libero fino all’ultimo istante di vita di modificare le sue disposizioni, revocandole. Questo è quanto esprime un noto testo ulpianeo che afferma essere “mutevole la volontà del defunto fino all’ultimo istante di vita” (ambulatoria enim est voluntas defuncti 279 usque ad vitae supremum exitum) . Anzi, la possibilità di revoca era così essenziale che il disponente non poteva porre limiti a se stesso, risultando inefficace ogni 280 eventuale clausola di irrevocabilità . Secondo il ius civile il testamento già perfezionato (post perfecRegime del ius civile tionem o consummationem), proprio in quanto appartenente alla categoria degli atti solenni, poteva essere revocato solo da un testamento posteriore valido anche se eventualmente non produttivo di effetti (ciò in applicazio281 ne della formalistica regola del contrarius actus) . Proprio in quanto successivo 277
D. 28.6.41.3 (Papin. 6 resp.); 29.7.1 (Ulp. 4 disp.). D. 29.7.2.4 (Iul. 37 dig.); 28.3.12.1 (Ulp. 4 disp.); 36.1.30 (Marc. 4 inst.). 279 D. 34.4.4 (Ulp. 33 ad Sab.) che gli interpreti hanno riferito all’ambito successorio pur riguardando in realtà la materia della donazione tra coniugi. 280 D. 32.22 pr. (Herm. 4 ep.). 281 Gai 2.144; I. 2.17.2. Se il secondo testamento fosse risultato invalido (c.d. testamentum posterius imperfectum), il primo testamento sarebbe rimasto in essere, ma essendo chiaro che il testatore non lo 278
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(e pertanto espressione dell’ultima voluntas del de cuius) il secondo avrebbe revocato il primo, dal momento che non era ammissibile che vi fossero due testamenti validi rispetto alla stessa persona. Non sarebbe viceversa stata sufficiente una semplice dichiarazione di revoca (contraria voluntas) che non si fosse tradotta in un nuovo testamento e neppure un altro atto qualsiasi che denotasse inequivocabilmente tale volontà, come la cancellazione di disposizioni o addirittura la distruzione del documento (tavolette cerate), dato che la validità del testamento civile (testamentum per aes et libram) stava non nella scrittura, ma nella dichiarazione orale resa dinanzi a testimoni. Era infatti nella nuncupatio che si riteneva fosse assorbita la sostanza dell’atto nonostante che in essa (nuncupatio) si facesse, di norma, generico riferimento a quanto contenuto nelle tavolette testamentarie. Il testamentum per aes et libram rimaneva dunque, nonostante il sempre più ampio ricorso alla documentazione scritta, atto orale e come tale la cancellazione o la distruzione del documento come pure la rimozione dei sigilli non ne poneva in discussione la validità, tranne rendere più difficile la prova delle disposizioni in esso contenute (la distruzione del documento che forniva la prova – tavolette cerate – non metteva infatti in discussione la validità dell’atto, 282 ma rendeva solo più difficile all’erede la prova del contenuto) . La redazione del testamento non sempre si risolveva in un so- Cancellazione o lo atto ma spesso era frutto di più interventi, anche distanti nel revoca della tempo, che portavano il testatore a rivedere ed aggiornare le sue heredis institutio 283 disposizioni . Prima dunque di perfezionare il testamento egli poteva intervenire su di esso modificandone le disposizioni o attraverso la loro cancellazione o disponendone la revoca. Gli effetti erano però diversi per il ius civile a seconda che si fosse trattato dell’una o dell’altra di tali modifiche se queste avessero riguardato la heredis institutio. In particolare la volontaria cancellazione del nome dell’erede (ante consummationem testamenti) aveva pieno valore revocatorio e la disposizione si sarebbe considerata pro non scripta (certo doveva comunque rimanere il nome di almeno un erede, altrimenti il testamento non 284 avrebbe potuto reggersi) ; viceversa la semplice dichiarazione di revoca (es.: Tizio, che sopra ho nominato erede, non sia più erede) non avrebbe avuto nessun effetto per il ius civile (si sarebbe considerata per non scritta in ossequio al 285 favor testamenti, tranne il caso del testamentum militis) . La regola vigente nel regime civilistico era infatti sintetizzata nella massima hereditas adimi non potest (ossia “l’eredità non può essere sottratta”), che chiaramente affermava il princivoleva più, sia per il diritto civile che per il diritto pretorio, l’eredità sarebbe stata sottratta all’erede colpendolo con una sanzione di indegnità che avrebbe portato alla confisca del patrimonio. Cfr. D. 34.9.12 (Papin. 16 quaest.). 282 Gai 2.151. 283 Sen. de benef. 4.11.4 s. 284 D. 37.11.8.3 (Iul. 23 dig.). 285 D. 28.4.1.4 (Ulp. 15 ad Sab. Per il testamentum militis cfr. D. 29.1.17.2 (Gai. 15 ad ed. prov.).
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pio della irrevocabilità dell’istituzione di erede se non tramite perfezione di un nuovo testamento. Questi principi affermati dallo ius civile subirono però progresDisciplina pretoria sive e rilevanti eccezioni, in particolare a opera del pretore. Soprattutto venne a essere spostato il fondamento della revoca, che si trasferì dal piano formale (della confezione di un contrarius actus) al piano sostanziale del mutamento della volontà del testatore. In conseguenza si vennero affermando regole diverse, ispirate alla libera revocabilità del testamento in conseguenza del modificarsi della volontà del testatore. E queste trovarono il proprio terreno di affermazione proprio nell’ambito dello ius honorarium. Posto che anche iure praetorio il testamento successivo avrebbe revocato il precedente, si deve tener presente che il pretore, ai fini della concessione della bonorum possessio secundum tabulas, richiedeva un documento scritto, chiuso e sigillato da sette testimoni, mostrando così di considerare il testamento come un atto essenzialmente scritto (in cui sigilli e scrittura erano elementi essenziali, richiesti ad substantiam). Ciò comportava che la alterazione o distruzione del documento (o la semplice effrazione dei sigilli), purché volute dal testatore, avrebbero annullato per sé la validità del testamento pretorio, con la conseguenza che il pretore, anziché concedere la bonorum possessio secundum tabulas agli eredi istituiti nel testamento revocato, avrebbe attribuito la 286 bonorum possessio sine tabulis ai successori (pretorii) ab intestato (bonorum possessio che, inizialmente sine re, sarebbe divenuta cum re con Antonino Pio, prevalen287 do sulle pretese degli eredi testamentari) . Quanto alla cancellazione dell’istituzione di erede nel documento, il pretore intervenne ribadendo, in conformità allo ius civile, che la disposizione dovesse considerarsi pro non scripta se la cancellazio288 ne fosse intervenuta prima della perfezione del testamento ovvero che essa invalidasse il testamento pretorio se intervenuta dopo la perfezione di esso, in quanto, presupponendo la rottura dei sigilli, ne avrebbe violato i requisiti di forma (richie289 sti ad substantiam) ; conseguenze diverse si sarebbero avute per il ius civile, secondo il quale la cancellazione post perfectionem non avrebbe avuto alcun significato dal momento che, in base alle regole di quello, un testamento perfetto pote290 va esser mutato solo da un altro testamento . Con l’avvento del tardo impero si registrarono significativi muRegime tamenti. Scomparso ormai il testamento civile, la disciplina si ventardoimperiale 286
D. 37.11.1.10-11 (Ulp. 39 ad ed.). Gai 2.151 a. 288 D. 37.11.8.3 (Iul. 24 dig.). 289 Il pretore avrebbe potuto però limitarsi, in base alla considerazione della effettiva volontà del de cuius, a ritenere come inficiata da indegnità la sola istituzione di erede cancellata (come attestato da D. 28.4.3 pr., Marcell. 28 dig., e D. 34.9.16.2, Papin. 8 resp.) e a considerare il resto della disposizione testamentaria come ugualmente voluta dal de cuius e dunque a non concedere la bonorum possessio sine tabulis ai successori ab intestato o quanto meno a non concederla cum re. 290 Al più ne sarebbe seguita una statuizione di indegnità per l’erede istituito: CI. 6.35.4, a. 223. 287
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ne allineando a quella fissata dal pretore. Il testamento poteva essere revocato da un successivo testamento valido (in particolare nel caso di testamento orale) o nel caso in cui fosse redatto in forma scritta (essendo questa considerata ad substantiam) anche attraverso alterazione o distruzione del documento. Una disposizione 291 di Teodosio II e Valentiniano III , accolta poi da Giustiniano, attribuì altresì efficacia revocatoria al successivo testamento anche se invalido purché vi venissero istituiti soggetti che avevano diritto a succedere ab intestato e risultasse confermato nel suo contenuto dalla deposizione giurata di cinque testimoni (alla successione sarebbero allora venuti gli eredi ab intestato, ma non in forza del secondo testamento in quanto invalido ed avente solo effetti revocatori, ma del titolo posse292 duto per legge) . Nel diritto giustinianeo infine il testamento poteva essere revocato tramite un qualsiasi atto o comportamento indicativo di una contraria voluntas e dunque tramite un nuovo testamento valido, ovvero con un nuovo testamento invalido ma avente i requisiti previsti dalla disposizione di Teodosio II e Valentiniano III, ovvero anche attraverso una mera dichiarazione verbale resa davanti a tre testimoni o dinanzi a un apposito ufficio (apud acta) quando fossero trascorsi 10 anni dalla perfezione del testamento o, infine, attraverso la volontaria distruzione del 293 documento a opera del testatore .
22. Contenuto del testamento. Heredis institutio Il contenuto del testamento ha conosciuto una progressiva modificazione che, muovendo da un nucleo ristretto, ha portato all’ampliamento del suo oggetto fino alla ammissione di numerose ed eterogenee disposizioni. Mentre da principio il testamento conteneva solo l’istituzione di erede (e forse la nomina di tutore), in progresso di tempo nuove disposizioni si sono aggiunte a quella, che rimaneva clausola fondamentale e unicamente necessaria. Il principio seguito era, anche in questo caso (come nel campo delle servitù), quello della tipicità, potevano cioè essere introdotte solo quelle disposizioni (tipiche per l’appunto) via via riconosciute e ammesse. All’inizio del Principato il novero di queste si era ormai precisato a ricomprendere: legati, manomissioni di schiavi, nomina di tutori, diseredazione di sui, fedecommessi (quando questi furono riconosciuti nella cognitio extra ordinem imperiale). Nonostante questa pluralità di disposi291
Nov. Theod. 16.7, a. 439 (= CI. 6.23.21.5). In questo caso invece per il diritto classico, come visto (nt. 281), il primo testamento sarebbe rimasto valido, ma risultando chiara la volontà del testatore di revocarlo, l’erede scritto nel primo testamento sarebbe stato considerato indegno. 293 CI. 6.23.27 pr.-2 (a. 530). La disposizione giustinianea rivedeva una precedente disposizione di Teodosio II e Onorio del 418 (CTh. 4.4.6) che più recisamente stabiliva l’inefficacia del testamento decorsi dieci anni dalla sua confezione. 292
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zioni e l’applicazione di regimi diversi in relazione alle peculiarità di ciascuna, il ruotare di esse intorno alla istituzione di erede e la comune derivazione dalla volontà del de cuius confermavano il carattere unitario del testamento. Questo poggiava sulla heredis institutio che, un tempo contenuto unico dell’atto, diventò poi fondamento e base di qualsiasi disposizione, tanto che, mentre Heredis institutio queste potevano mancare, non ci poteva essere testamento senza istituzione di erede. Il giurista Papiniano, sul finire dell’età classica, affermava in 294 proposito che il testamento “prende forza dall’istituzione di erede” , e Gaio precisava che essa costituiva caput et fundamentum totius testamenti (ossia “principio e 295 base di tutto il testamento”) . In forza di questa concezione, accolta dai giuristi, la validità di tutte le disposizioni dipendeva da quella della heredis institutio, che ne costituiva appunto il fondamento (fundamentum) e che proprio per questo do296 veva precedere (caput) le altre . Ciò comportava che, qualora mancasse la istituzione di erede o questa non fosse fatta nelle debite forme (cioè fosse nulla), nessuna disposizione potesse valere e il testamento fosse quindi nullo. A questa preminenza sostanziale corrispondeva la priorità formale dell’heredis institutio: essa poteva essere contenuta solo in un testamento (un atto che non contenesse heredis institutio non era testamento ma codicillo) e andava scritta prima di ogni altra di297 sposizione . Qualsiasi disposizione che eventualmente la precedesse era dunque da considerarsi nulla (ovvero, se riversata in un documento, si aveva per non scritta). Il rigore del principio civilistico venne però progressivamente attenuandosi ad opera della giurisprudenza e della normazione imperiale; si ammise così che la he298 redis institutio potesse essere preceduta da altre disposizioni (ad es. tutoris datio) 299 e che il legato potesse inserirsi tra le varie istituzioni di erede . In alcuni casi peraltro erano le peculiarità degli istituti a comportare deroghe al principio; così se il dominus manometteva il suo schiavo e lo istituiva erede, gli era consentito di scrivere la formula della manomissione prima della heredis institutio (uno schiavo 300 infatti non poteva essere erede senza essere stato prima liberato) . Il principio venne poi superato in diritto giustinianeo, per il quale l’istituzione di erede pote301 va essere preceduta da altre disposizioni . È da osservare peraltro che non meno rilevante era l’efficacia della heredis institutio per gli effetti del testamento: se nessuno degli eredi istituiti avesse acquistato l’eredità (testamentaria), questo avrebbe 294
D. 29.7.10 (Papin. 15 quaest.) Gai 2.229. 296 D. 28.4.3 pr. (Marcell. 29 dig.): “Non può valere quel testamento, che manchi di istituzione di erede” e D. 28.6.1.3 Mod. 2 pand.): “Senza l’istituzione di erede, nulla di quello che è scritto nel testamento vale”. 297 D. 28.5.1 pr. (Ulp. 1 ad Sab.) “Colui che fa testamento ‘per lo più’ deve iniziare dalla heredis institutio”. 298 Gai 2.231. 299 Si ammise inoltre, già in età classica, che fossero validi, anche se disposti prima dell’istituzione di erede, pure la exheredatio e i fedecommessi: cfr. D. 28.5.1 pr. (Ulp. 1 ad Sab.); Tit. ex corp. Ulp. 22.8. 300 Gai 2.186; D. 28.5.9.14 (Ulp. 5 ad Sab.). 301 I. 2.20.34. 295
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infatti comportato l’inefficacia di ogni altra disposizione (legati, manomissioni) e, in ultima analisi, dello stesso testamento (alcune deroghe furono però introdotte già in età classica a opera del pretore e della legislazione imperiale). Si è visto che la heredis institutio costituiva il contenuto “necessa- Forme rio e sufficiente” del testamento; proprio per la sua importanza e per la ponderatezza che richiedeva nel testatore era prevista per essa l’uso di forme 302 solenni (sollemni more facta, la qualificava Gaio) . Doveva infatti essere disposta mediante l’impiego di parole determinate che attribuivano espressamente al destinatario la qualità di heres (chiarendo così che si trattava della designazione di un 303 successore diretto a titolo universale) e in forma imperativa, con l’utilizzo del verbo essere al modo imperativo (Titius heres esto) ovvero con l’impiego del verbo iubeo (Titium heredem esse iubeo), a denotare la risolutezza della volontà del testa304 tore . Il rispetto di questi requisiti costituiva presupposto indispensabile per pervenire a una agevole distinzione tra eredi e legatari; una volta che questi fossero stati osservati nessuna indagine infatti si imponeva sulla volontà del defunto, essendo sufficiente far riferimento al dato estrinseco e immediatamente percepibile delle forme usate dal testatore: era erede colui al quale questi avesse attribuito il titolo di heres, indipendentemente dal contenuto della disposizione, legatario (o altro) chiunque non avesse tale qualifica. Già in diritto classico si assistette però a una progressiva attenuazione di questo rigore formale, anzitutto mediante l’ammissione di formule differenti da quella tipica (es. Titium heredem instituo o facio, peraltro non da tutti accolte, e nel 305 tardo diritto classico, Titium hereditatis meae dominus esto) ; inoltre attraverso la possibilità di utilizzo di forme ellittiche caratterizzate dalla omissione delle parole heres (Titius esto) o esto (Titius heres), giustificata dalla finzione che il testatore avesse scritto meno di quanto dichiarato, ossia che la dichiarazione orale (nuncupatio) resa nel testamentum per aes et libram avesse fatto riferimento anche a quanto omes306 so nella documentazione probatoria offerta dalle tavole testamentarie . A favorire questo cambiamento, d’altra parte, contribuì anche il diritto onorario con il superamento delle formalità richieste per lo stesso testamento. In tutto questo processo di alleggerimento rimase tuttavia salda la necessità del ricorso alla forma imperativa, essendo questa indispensabile per distinguere la istituzione di erede dal fedecommesso, disposto invece in forma precativa (non si ammetteva quindi 307 la validità della forma Titium heredem esse volo) . 302
Gai 2.115-116. L’istituzione richiedeva che la persona fosse individuata o individuabile. Il nome dell’erede doveva essere indicato dal disponente non ammettendosi la determinazione di un terzo. 304 Gai 2.117. 305 D. 28. 5.49 pr. (Marc. 4 inst.) 306 Così secondo la dottrina del giurista (di inizio Principato) Sabino riportata da Ulpiano D. 28.5.1.5 (Ulp. 1 ad Sab.). 307 Gai 2.117 cfr. supra nt. 305. 303
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Al definitivo superamento del rigore formale si provvide infine in età postclassica. Fu l’imperatore Costanzo a disporre in proposito stabilendo, con una costituzione inserita nel Codice giustinianeo e quindi mantenuta nel diritto del Corpus iuris, che l’istituzione di erede potesse farsi con qualsivoglia espressione (quibuscumque verbis), purché risultasse in 308 maniera inequivoca la volontà di indicare un erede . Il principio così affermato trovò poi pieno accoglimento in diritto giustinianeo. In conseguenza del superamento dei requisiti formali anche il problema della identificazione dell’erede diventò una questione di volontà. Essa non poteva più avvenire infatti in base alle formule o alle espressioni usate dal testatore, ma in base alla sostanza delle disposizioni e alla volontà in esse espressa. Erano eredi, quindi, coloro ai quali, con qualsiasi espressione, il testatore avesse attribuito il complesso o una quota parte dei rapporti ereditari; erano legatari invece coloro che acquistavano singoli rapporti (o un insieme di rapporti non però unitariamente inteso) facenti capo al de cuius. Man mano poi che la solennità della heredis institutio venne ad essere superata anche la necessità del ricorso alla lingua latina per esprimerla in termini appropriati finì per essere abbandonata. Già Alessandro Severo aveva concesso ai cittadini romani d’Egitto l’utilizzo del greco e in età postclassica il beneficio venne ad 309 essere generalizzato con una serie di disposizioni imperiali in proposito . Quanto infine alla necessità che l’istituzione di erede fosse contenuta nel testamento, già nel diritto classico si ammise che il testatore potesse riservarsi di dichiarare in un momento successivo il nome dell’erede istituito (nel testamento) e ciò portò a consentire che esso potesse essere indicato anche in un documento se310 parato che poteva anche essere un codicillo . L’istituzione di erede poteva esser fatta a favore di una o più Unicità e pluralità persone. Se fosse stata istituita una sola persona questa avrebbe di eredi acquistato l’intero patrimonio ereditario, viceversa, in caso di istituzione di più soggetti, questi sarebbero divenuti contitolari per quote o parti ideali del patrimonio ereditario, inteso come universitas, dando luogo a una c.d. coeredità testamentaria. Il patrimonio ereditario, considerato nel suo complesso, era indicato con il termine asse (as), espressione che denominava l’antica moneta romana utilizzata nelle primitive transazioni, e come questa veniva ripartito, ai fini del computo delle quote, in 12 parti chiamate once (unciae; sistema duodecimale). Ciascuna frazione dell’asse, cioè del complesso ereditario, recava una propria deno311 minazione: così uncia era 1/12 dell’asse; sextans 2/12; quadrans 3/12 e così via .
Superamento del rigore formale
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CI. 6.23.15 pr.-1 del 339 d.C. erroneamente attribuita a Costantino. Nov. Theod. 16.8 = CI. 6.23.21.6 di Teodosio II e Valentiniano III del 439. Cfr. in proposito anche supra nt. 217. 310 D. 28.7.10 pr. (Ulp. 8 disp.). 311 Le altre denominazioni utilizzate erano le seguenti: triens 4/12; quincunx 5/12; semis (cioè semi as) 6/12 (semiasse); septunx 7/12; bes (cioè bis triens) 8/12; dodrans (cioè de asse quadrans) 9/12; dextans 309
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Il testatore poteva peraltro compiere un frazionamento dell’asse con criteri diversi; niente era di ostacolo infatti a che egli assegnasse 2/10 a un erede e 8/10 a un altro. In ogni caso heres ex asse era l’erede per l’intero, heres ex quota quello per una quota ideale, indivisa e in sé non determinata, del patrimonio ereditario (inteso come comprensivo di attivo e passivo). Quest’ultimo non diversamente dall’heres ex asse era successore a titolo universale (in universum ius); tuttavia, mentre l’heres ex asse subentrava nell’intera hereditas, l’heres ex quota succedeva in una quota parte del patrimonio. In caso di pluralità di eredi il testatore poteva non procedere ad assegnazione di quote e in questo caso l’hereditas (o meglio l’asse) si sarebbe divisa in parti 312 uguali . Se peraltro egli avesse proceduto all’attribuzione di quote potevano darsi diverse ipotesi. In caso infatti avesse distribuito l’intero asse, ciascun coerede avrebbe conseguito la quota assegnatagli; ove invece non l’avesse esaurito, gli eredi istituiti avrebbero conseguito anche quanto non distribuito secondo i principi propri dell’accrescimento (ius adcrescendi), a meno che il disponente non avesse stabilito 313 diversamente . Qualora poi il testatore, nell’assegnazione delle quote, avesse ecceduto l’ammontare dell’asse, le singole quote si sarebbero ridotte proporzional314 mente , almeno fino a Giustiniano, il quale dispose invece che non si dovessero diminuire proporzionalmente le quote, ma che si dovesse presumere che il dispo315 nente avesse inteso diminuire, con la successiva disposizione, quelle precedenti . In caso poi il testatore avesse istituito alcuni eredi con assegnazione di quote e altri senza, se con le quote assegnate non fosse stato esaurito l’intero asse eredita316 rio, gli eredi sine parte avrebbero conseguito in parti uguali quanto residuato . Ove invece l’istituzione cum parte avesse esaurito l’intero asse ereditario, allo scopo di ammettere anche gli eredi designati sine parte si sarebbe raddoppiato contabilmente (fittiziamente, cioè in sostanza si sarebbe diviso in due metà) l’asse ereditario (ex asse fit dupondium), di modo che una parte andasse agli eredi istituiti con assegnazione di quote, in proporzione di quanto (ossia delle quote) attribuito, 317 e l’altra in parti uguali agli altri coeredi . Qualora infine il testatore con assegna(cioè dempto sextante 10/12; deunx (cioè dempta uncia) 11/12. Cfr. in proposito D. 28.5.51 (50).2 (Ulp. 6 reg.); D. 28.5.13.1 (Ulp. 7 ad Sab.); I. 2.14.5; Varr. de ling. lat. 5.169 s. 312 Ciò è almeno quanto risulta da I. 2.14.6. 313 Così I. 2.14.5. Cfr. pure in precedenza D. 36.1.30 (29) (Marc. 4 instit.); 31.69 pr. (Papin. 19 quaest.). 314 È quanto si può ricavare da I. 2.14.7. Cfr. anche D. 28.5.13.4-6 (Ulp. 7 ad Sab.). 315 CI. 6.37.23, a. 530. In conseguenza se il testatore avesse assegnato a Caio 8 once (8/12) e a Tizio 6 once (6/12), secondo la regola classica Caio avrebbe avuto 8/14 e Tizio 6/14, mentre, secondo la modificazione giustinianea, la prima attribuzione a Caio sarebbe diminuita di 2/12 come conseguenza della seconda, di modo che a Caio sarebbero andati 6/12 e a Tizio 6/12, ossia la metà per ciascuno. 316 I. 2.14.6. 317 I. 2.14.6. Così se il testatore avesse detto Tizio sia erede per 1/3, Mevio per 2/3, Sempronio e
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zione di quote avesse superato l’intero asse ereditario e vi fossero ancora eredi sine partibus, l’asse si triplicava (tripondium) ovvero si moltiplicava ancora, determinando una riduzione proporzionale delle quote assegnate in modo da far posto 318 agli eredi sine parte . 22a. Institutio ex re certa Poteva accadere che il testatore istituisse l’erede o taluno degli eredi stabilendo che dalla successione fosse detratta una certa res (ossia una cosa determinata, c.d. institutio detracta certa re) o, al contrario, disponendo che la successione avesse per oggetto una cosa determinata o un complesso di cose determinate (c.d. heredis institutio ex certa re, es. Tizio sia erede per il fondo Corneliano, Caio per il fondo Semproniano). Entrambe queste istituzioni sarebbero state nulle Regime dello per il ius civile in quanto contraddittorie per il contrasto tra l’asseius civile gnazione del titolo di heres e l’aggiunta della menzione della certa res, non potendo essere heres colui che succedeva in una singola cosa o in un 319 complesso di cose (non inteso come frazione dell’asse) o con esclusione di esse, ma soltanto chi succedeva in universum ius defuncti (ossia nel complesso delle posizioni giuridiche del defunto) o in una quota parte di esso. Questa dovette essere la soluzione più antica, ma successivamente prevalse, prima per Regime della 320 l’istituzione detracta certa re ad opera di Aquilio Gallo , poi per prima età classica 321 l’institutio ex re certa ad opera di Sabino , la diversa soluzione, ispirata al favor testamenti (che importava favore per la heredis institutio), che l’istituzione dovesse considerarsi valida e non apposta la menzione della certa res, con la conseguenza che l’erede acquistava l’intera eredità o la quota per lui disposta. Il ricorso a questa ardita finzione (che si collocava accanto alle Papiniano analoghe proposte dallo stesso Sabino in tema di condizioni impossibili, per cui esse erano da considerare non scritte e, a proposito del termine apposto alla istituzione di erede, questo era da intendere come non aggiunto), pur mirando a salvare la heredis institutio, eliminando quanto vi contraddiceva, non 322 perveniva però al risultato di rispettare la volontà del testatore . Per raggiungere Caio siano eredi, metà dell’asse sarebbe andata a Tizio e Mevio secondo le quote stabilite dal testatore; l’altra metà agli eredi sine parte che l’avrebbero divisa in misura uguale”. 318 D. 28.5.17.3 (Ulp. 7 ad Sab.) e I. 2.14.8. 319 Ad es. i praedia rustica od urbana cfr. D. 29.1.17 (Gai. 15 ad ed. prov.); un fondo D. 28.5.1.4 (Ulp. 1 ad Sab.), i bona castrensia D. 10.2.25.1 (Paul. 23 ad ed.). 320 D. 28.5.75 (74) (Lic. Ruf. 2 reg.). 321 D. 28.5.1.4 (Ulp. 1 ad Sab): “Se qualcuno fosse istituito solo in un fondo, la istituzione vale, eliminata la menzione del fondo”. Cfr. supra nt. 321. 322 Che il ricorso a quell’espediente e la conservazione della istituzione di erede non fosse che una applicazione del favor testamenti è confermato d’altra parte dal fatto che nel caso di exheredatio ex certa re la conseguenza era viceversa la nullità della disposizione (nonostante fosse anch’essa contraddittoria), dal momento che si partiva dal principio opposto, cioè che exheredationes autem non essent adiuvandae, cioè
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questo obiettivo un ulteriore passo avanti fu compiuto dalla tarda giurisprudenza classica che, per il tramite di Papiniano, propose un efficace correttivo. In ipotesi di istituzioni di più eredi ex re certa, la menzione di questa, da considerare inesistente per salvare l’istituzione di erede (di modo che gli eredi finivano per essere considerati istituiti per quote in ossequio al favor testamenti), avrebbe dovuto essere tenuta in considerazione nel giudizio di divisione dall’arbiter dell’actio familiae erciscundae, il quale avrebbe dovuto assegnare a ciascuno le cose indicate dal testato323 re nel procedere alla distribuzione tra gli eredi dell’asse ereditario . Così facendo si perveniva a realizzare la volontà effettiva del defunto, che aveva dimostrato di preferire che ogni erede avesse singoli beni specificati piuttosto che una quota di tutti. E anche se in alcune decisioni giurisprudenziali l’assegnazione di beni determinati (intesi come sorta di patrimoni distinti) era considerata come fatta ai fini dell’istituzione in parti uguali, era riservato pur tuttavia al giudice dell’azione divisoria assegnare a ogni erede le componenti del patrimonio in cui era stato 324 chiamato . Una successiva evoluzione si realizzò, sempre in epoca classica, con l’affermarsi dell’istituto del fedecommesso. Grazie ad esso fu possibile al disponente costringere l’erede ex certa re ad accontentarsi solo di questa. Ciò si otteneva imponendogli l’obbligo di restituire l’eredità al fedecommissario (terzo o eventuale erede 325 legittimo), trattenendo però per sé solo la certa res . Questi principi, più avanti nel tempo, furono riaffermati in una costituzione di Gordiano, che ribadiva che l’istituito in cosa determinata dovesse essere considerato erede a tutti gli effetti, salvo che nella divisione ereditaria avrebbe ottenuto 326 solo la cosa assegnata . Giustiniano infine, per il caso in cui il testatore avesse istituito taluno soltanto dei coeredi ex certa re e gli altri no, stabilì che quelli istituiti in beni determinati dovessero essere considerati Disciplina giustinianea come legatari. Ai fini della legittima (che non poteva essere soddiche le diseredazioni, che fanno venir meno l’istituzione mettendo in pericolo lo stesso testamento, non fossero da favorire. In proposito D. 28.2.19 (Paul. 1 ad Vitell.). 323 Papiniano assimilava l’ipotesi a un prelegato. Cfr. D. 28.5.79 pr. (Papin. 6 resp.) e D. 28.5.35 pr. (Ulp. 4 disp.): “Un tale nominò due eredi, uno dei beni provinciali, l’altro dei beni situati in Italia…affermavo che delle cose indicate potesse essere istituito erede né l’istituzione dovesse considerarsi inutile, ma fatta in modo tale che rientrasse nei compiti del giudice procedente alla divisione far conseguire a colui che era istituito in cosa determinata nient’altro che la cosa per la quale era stato istituito”. La soluzione così adottata non incideva però sulla responsabilità per debiti e sulle pretese per i crediti ereditari; per questi gli eredi sarebbero stati tenuti e avrebbero agito, come di norma, in proporzione delle quote implicitamente assegnate. 324 Cfr. D. 28.5.9.13 (Ulp. 5 ad Sab.) e D. 28.5.10 (Paul. 5 ad Sab.). Così ad es. se il testatore aveva due masse di beni una situata in Italia e l’altra in Gallia e preferiva che ciascuno degli eredi ne avesse una piuttosto che la metà di tutte e due, avrebbe potuto procedere a distribuirle e il giudice in sede di divisione avrebbe assegnato a ciascuno quella attribuita dal testatore. 325 D. 31.69 pr. (Papin. 19 quaest.). Attraverso questo espediente si conseguiva il risultato di soddisfare la volontà del testatore che intendeva attribuire all’erede proprio il bene specificamente indicato. 326 Cod. Greg. 3.8.1, a. 243.
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sfatta se non a titolo di eredità) la istituzione ex re certa si sarebbe considerata co327 me istituzione di erede e l’istituito avrebbe acquistato in forza di accettazione e avrebbe goduto come gli altri eredi del diritto di accrescimento, ma in quanto legatario le azioni ereditarie non sarebbero state esperibili da lui e contro di lui, rimanendo debiti e crediti ereditari a carico solo degli eredi ex quota (di modo che 328 si dava luogo a un regime ibrido oscillante tra eredità e legato) . Nel caso poi l’institutio ex re certa fosse stata disposta in un testamentum militis, già il diritto classico disponeva che l’erede così istituito conseguisse solo quanto assegnatogli, mentre per il resto (in assenza di altri eredi istituiti) si sarebbe dovuto far luogo alla delazione intestata in deroga al divieto del concorso fra dela329 zioni (nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere potest) . 22b. Modalità dell’istituzione Si è visto come a fondamento del testamento stesse la volontà del disponente. Il rilievo da essa assunto, man mano che si andava abbandonando il rigido formalismo dell’età arcaica, è testimoniato dalle definizioni delle fonti che, pur sottolineando la necessità del rispetto delle forme richieste per il compimento dell’atto, mettevano in risalto la centralità della 330 voluntas o mens testantis . Da essa era fatta dipendere l’efficacia del testamento e ad essa si doveva dare piena attuazione. In conseguenza era sulla ricerca della voluntas testantis che, in epoca classica, si incentrava l’attività degli interpreti nella prospet331 tiva di ricostruirne il contenuto effettivo . Proprio in considerazione del ruolo rivestito è naturale che per essa si richiedesse la presenza di determinati requisiti. Anzitutto, dato il carattere personale del testamento, doveva provenire dal disponente, esclusa qualsiasi partecipazione di volontà estranea (solo in sede di documentazione ossia nella scrittura dell’atto poteva intervenire un terzo). Ciò è quanto esprimeva l’antica regola per cui la volontà del disponente doveva essere per se firma e non ex alieno arbitrio pendere, cioè 332 risultare per sé stessa salda e non dipendere dall’arbitrio di altri . Ma quella volontà doveva essere altresì seria, effettiva, completa. Doveva con-
Voluntas testantis: requisiti
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Nov.115.3 pr.; 4; 5 pr., a. 542. CI. 6.24.13, a. 529. 329 D. 29.1.6 (Ulp. 5 ad Sab.) e 10.2.25.1 (Paul. 23 ad ed.). 330 I verba vennero dunque ad essere considerati nient’altro che mezzi di manifestazione della volontà: così il giurista Celso, facendo propria l’impostazione di Tuberone, affermava essere la voluntas prior atque potentior, ossia prima e più importante, delle parole, sebbene non potesse avere efficacia se non manifestata. Cfr. D. 33.10.7.2 (Cels. 19 dig.). 331 Giustiniano arriverà ad affermare che è necessario seguire in omnibus testatoris voluntatem, cioè che la volontà del testatore va rispettata in ogni circostanza (CI. 6.37.23.2a, a. 530 e 6.27.5.1b, a. 531). 332 D. 28. 5.32 pr. (Gai. 1 de testam. ad ed. praet. urb.). Il principio non era tuttavia applicato in maniera assoluta, ammettendosi ad es. che il lascito di alimenti avvenisse pro arbitrio vestro, cioè rimettendone agli eredi la determinazione: D. 34.1.5 Mod. 10 resp.). 328
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tenere l’indicazione precisa delle persone a cui favore si disponeva o delle cose che si attribuivano. Di norma ciò avveniva con l’utilizzo del nome o della denominazione comunemente assegnata, ma si poteva realizzare anche per mezzo di apposita demonstratio, ossia attraverso indicazioni che servissero a consentirne l’identifi333 cazione . Conseguenza ne era che quando non fosse possibile individuare la persona a cui favore il testatore aveva voluto provvedere, la disposizione dovesse con334 siderarsi nulla . La volontà testamentaria poteva peraltro determinarsi liberamente non solo quanto alle singole disposizioni che ne costituivano il contenuto, ma anche aggiungendo ad esse quelle modalità che si potevano apporre ai negozi giuridici, purché compatibili con le singole disposizioni adottate. Il testatore Condizioni apposte poteva in conseguenza subordinare l’istituzione di erede all’avvera- alla istituzione 335 mento di una condizione sospensiva . In tal caso la chiamata al- di erede l’eredità si sarebbe verificata quando si fosse avverata la condizione: solo dopo questo momento infatti avrebbe potuto intervenire l’accettazio336 ne . Pendente la condizione, il pretore avrebbe però potuto concedere all’erede una bonorum possessio secundum tabulas, qualora questi avesse prestato cauzione (cautio) di restituire (al chiamato ulteriore) nel caso che la condizione non si fosse verificata o egli fosse morto prima che essa si verificasse. Ad ogni modo, pendente la condizione, morto il chiamato, la sua posizione non si trasmetteva agli eredi (contrariamente a quanto avveniva per i rapporti nascenti da negozi inter vivos per i quali la trasmissibilità era operante), dato il principio generale delle intrasmissi337 bilità della delazione ereditaria . Regime particolare era poi riservato a talune 338 condizioni . Così quelle impossibili o illecite apposte all’istituzione di erede erano considerate, almeno dai sabiniani (contro l’opinione opposta dei proculiani), come non apposte (pro non scriptae) e l’istituzione, dunque, era valida ed effica333
Ove però si fosse trattato di falsa demonstratio, ossia di indicazione non rispondente a verità, questa non avrebbe nociuto se la individuazione della persona o del bene risultasse altrimenti precisata e non si trattasse di causa o motivo erroneo per sé determinante della disposizione (nel qual caso ne sarebbe conseguita l’inefficacia). Cfr. D. 35.1.40.1 (Iav. 2 ex post. Lab.). 334 D. 34.5.10 (11) pr. (Ulp. 6 disp.). 335 Anche i figli in potestate, ossia i sui, potevano essere istituiti eredi sotto condizione sospensiva, purché si fosse trattato di condizione potestativa dal momento che altrimenti il testamento non sarebbe stato valido (D. 28.5.4 pr., Ulp. 4 ad Sab.), potendo risultare frustrato il principio per cui i sui dovevano essere istituiti eredi o diseredati ove non si fosse verificata la condizione, il cui avveramento non dipendeva dalla volontà dell’istituito. 336 D. 28.3.16 (Pomp. 2 ad Q. Muc.). 337 Perché la disposizione avesse efficacia era in ogni caso necessario che la condizione si verificasse secondo la volontà del disponente, costituendo questa il presupposto determinante di tutte le disposizioni soggette a condizione, dal momento che in condicionibus primum locum voluntas defuncti optinet eaque regit condiciones (ossia la volontà del defunto tiene il primo posto in materia di condizioni e le regge, D. 35.1.19 pr., Ulp. 5 disp.). 338 Per le condizioni potestative negative e il connesso regime della cautio muciana si veda in precedenza la trattazione riservata alle condizioni.
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ce . La regola, che già Gaio non sapeva spiegare , trovava la sua giustificazione non tanto nello spirito di liberalità, che di solito anima le disposizioni mortis causa (dato che quella regola non trovava applicazione con riferimento alla donazione), quanto nell’intento di salvaguardarne l’efficacia, che suggeriva un’opportuna deviazione dai rigorosi principi applicati negli atti inter vivos. Relativamente alle condizioni impossibili la regola si applicava a quelle assolutamente tali, ma non a quelle impossibili solo temporaneamente o relativamente alla persona dell’onorato o il cui verificarsi fosse soltanto difficile. L’istituzione di erede non poteva invece essere sottoposta (salvo Condizione risolutiva 341 che nel caso di testamentum militis) a termini iniziali o finali né e termine 342 a condizione risolutiva . Le ragioni stavano, quanto al termine iniziale, nell’immediatezza del trapasso ereditario (per cui non si giustificava una temporanea vacanza in presenza di un chiamato già individuato) e, quanto al termine finale e alla condizione risolutiva, nella perpetuità della qualità ereditaria, secondo il principio semel heres semper heres (per cui l’erede una volta tale resta 343 erede per sempre) . Ove poi il termine (iniziale o finale) e la condizione risolutiva fossero stati apposti si sarebbero considerati come non scritti e l’istituzione pura e valida. Oltre a condizioni e termini anche il modus poteva essere apposto all’istituzione di erede. In questo caso l’erede avrebbe potuto adire l’eredità, ma sarebbe stato tenuto ad eseguire l’incarico, potendo esservi costretto da coeredi, 344 terzi estranei, sostituti, attraverso gli appositi mezzi processuali predisposti .
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Le illecite erano in origine solo rimesse (remissio) caso per caso dal magistrato (pretore) che poteva dispensare l’onorato dall’adempierle (di modo che egli acquistava come se la condizione non fosse apposta) per evitare che questi fosse indotto a compiere il fatto illecito o turpe, ossia contrario alla legge o alla morale, pur di acquistare il lascito. In seguito, consolidatesi le ipotesi di remissione e venuto meno il potere discrezionale del magistrato, si verificò un avvicinamento del regime a quello delle condizioni impossibili (Papiniano arrivò a considerare come impossibile il fatto illecito o turpe, D. 28.7.15, Papin. 16 quaest.: contra bonos mores fiunt, nec facere nos posse credendum est) cosicché in alcuni testi di Giustiniano (CI. 6.41.1.1, a. 528; I. 2.20.36) finirono per essere assimilate condizioni impossibili, illecite e turpi, considerate tutte come non scritte. 340 Gai 3.98 affermava per l’appunto che “a fatica se ne poteva rintracciare una giustificazione idonea”. La regola è poi ribadita in I. 2.14.10. 341 D. 29.1.15.4 (Ulp. 45 ad ed.): “Un militare può istituire l’erede per un certo tempo e un altro dopo un certo tempo o sotto condizione sospensiva o risolutiva”. 342 D. 28.5.34 (Papin. 1 defin.); Gai 2.184; I. 2.14.9. Solo quando fu riconosciuto il fedecommesso fu possibile fare disposizioni temporanee: il disponente, istituito un erede, gli poteva infatti imporre di restituire in tutto o in parte l’eredità ad un terzo sotto condizione sospensiva in modo che, verificatasi la condizione, si risolveva l’acquisto dell’erede e acquistava efficacia quello del fedecommissario. 343 Cfr. D. 28.5.89 (88) (Gai. l. sing. de cas.). 344 Si ricordi che la manomissione disposta nel testamento sotto condizione sospensiva dava luogo alla condizione di statuliber. Questo, secondo i Sabiniani, durante la pendenza sarebbe appartenuto all’erede, mentre secondo i proculiani non sarebbe stato in proprietà di nessuno (Gai 2.200).
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22c. Sostituzioni Con l’espressione heres substitutus si intendeva l’erede designato in luogo del primo. Il diritto romano conosceva due forme di sostituzione, costituenti istituti molto diversi tra loro: la sostituzione volgare e quella pupillare. La prima realizzava un’ipotesi di istituzione di erede sotto condizione sospensiva ed Sostituzione volgare era indicata con il termine di (sostituzione) ‘volgare’ perché, a dif345 ferenza di quella ‘pupillare’, di frequente e comune applicazione , essendo apponibile ad ogni istituzione di erede, chiunque fosse l’istituito. Essa consisteva nella nomina di un erede che doveva subentrare a quello istituito nel caso che costui non potesse (casus impotentiae) o non volesse (casus voluntatis) acquistare l’eredi346 tà , perché premorto allo stesso testatore o non accettante, o per altre cause (es. incapacità) escluso dalla possibilità di essere erede (secondo la forma: ‘istituisco erede Tizio, se egli non sarà erede, istituisco erede Caio’). Essa, di solito, era collegata con la cretio e, cioè con l’imposizione all’erede istituito di accettare l’eredità entro un determinato termine, trascorso il quale senza che fosse intervenuta accet347 tazione sarebbe divenuto erede il substitutus . Accanto a un erede di primo grado, rappresentato dal primo istituito, si poteva avere dunque un erede di secondo grado, il sostituto, o di ulteriore grado in caso di sostituzioni successive. Il testatore poteva infatti disporre una sostituzione di secondo o di terzo grado, ossia la nomina di un secondo sostituto (o di un terzo) per il caso che il primo (o il secondo) sostituto non avesse acquistato l’eredità (poteva anche aversi la sostituzio348 ne di un erede a più, ovvero di più eredi a uno solo) . La chiamata del substitutus era autonoma rispetto a quella dell’istituito, avvenendo per un titolo suo proprio. Il substitutus, quindi, non succedeva nella posizione dell’erede istituito, infatti la 349 quota ereditaria poteva esser diversa per l’uno e per l’altro , l’istituzione pura e 350 l’eventuale sostituzione condizionata (o viceversa) , e solo a partire da un’oratio Severi i legati a carico della quota dell’erede istituito gravavano anche sulla quota del sostituto, salva la prova di una contraria volontà del testatore. La sostituzione 351 volgare poteva essere disposta nel testamento anche prima dell’istituzione ed escludeva il diritto di accrescimento (dato che questo presupponeva una quota vacante e non era tale quella che avrebbe dovuto essere attribuita al sostituto). 345
Gai 2.181; I. 2.15; D. 28.6; CI. 6.26. Ove il testatore avesse disposto per una sola delle due ipotesi si discuteva tra gli interpreti se si dovesse ritenere ricompresa anche l’altra e in assenza di una indicazione precisa nelle fonti si ritiene che la questione dovesse risolversi in linea di interpretazione di volontà come disposto in generale da Alessandro Severo (CI. 6.24.3, a. 223). 347 Gai 2.174; I. 2.15 pr.. La sostituzione poteva dunque essere disposta all’infinito e si poteva avere anche una sostituzione reciproca (eosque invicem substituo), cfr. infra nt. 350. 348 I. 2.15.1. 349 Gai 2.174 e I. 2.15 pr., per cui supra nt. 348. 350 D. 28.5.74 (73) (Gai. 13 ad leg. Iul. et Pap.). 351 D. 28.5.28 (Ulp. 5 ad Sab.). 346
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Accanto alla sostituzione volgare il diritto romano disciplinava, già dalla fine della Repubblica, quella forma diversa, dotata di proprio regime peculiare, che era la sostituzione pupillare. Questa si aveva quando il padre nominava un erede (substitutus) al proprio figlio, per il caso che questi 352 morisse ancora impubere e quindi incapace a far testamento . Lo scopo che si perseguiva con l’istituto era di impedire che, morto il figlio ancora impubere, si aprisse la successione legittima. Il padre stesso, in sostanza, designava un erede al proprio figlio, scegliendo colui che gli appariva più idoneo e in sostanza faceva testamento per lui. Per la validità della disposizione era necessario che, al momen353 to della morte, il pater avesse la patria potestas sul filius (che sarebbe diventato sui iuris con la morte di quello e quindi titolare di rapporti trasmissibili) e che avesse redatto un testamento valido in quanto, se il pater non avesse fatto testamento per sé, non lo avrebbe potuto fare per l’impubere, dato che il testamento 354 pupillare era considerato parte del testamento paterno . Di norma il padre nel proprio testamento nominava erede il figlio e gli sostituiva la persona da lui scel355 ta . La conseguenza era che se il figlio fosse morto impubere, si sarebbe deferita al sostituto non solo l’eredità del pater, ma anche quella del filius (ovviamente se 356 il filius fosse morto dopo raggiunta la pubertà sarebbe caduta la sostituzione) . L’ipotesi più frequente presupponeva dunque che il filius (istituito erede del pater) succedesse a questi divenendo sui iuris e che morendo impubere (e quindi nell’impossibilità di far testamento), onde evitare la successione intestata, a lui subentrasse il substitutus, erede designato al filius dal pater stesso. Questi poteva peraltro anche diseredare il figlio (nominando altri come eredi) e ugualmente
Sostituzione pupillare
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Gai 2.179. D. 28.6.2 pr. (Ulp. 6 ad Sab.). Cfr. pure D. 28.6.41.2 (Papin. 6 resp.) e per l’eccezione disposta in caso di testamentum militis D. 29.1.41.4 (Tryph. 18 disp.). 354 D. 28.6.2.1 (Ulp. 6 ad Sab.). Si ammise peraltro che la istituzione di erede e la nomina del sostituto pupillare si potessero fare in due tavole distinte (tabulae superiores o priores e rispettivamente tabulae inferiores o posteriores appartenenti allo stesso documento o anche a documenti perfezionati in tempi diversi) che, però, erano considerate collegate e in rapporto di subordinazione tra loro di modo che l’istituzione dell’erede del pater doveva precedere nonché esser valida ed efficace perché potesse avere effetto quella dell’erede del figlio. Gai 2.181, cfr. pure D. 28.6.2.4 (Ulp. 6 ad Sab.), 28.6.16.1 (Pomp. 3 ad Sab.), 28.6.20.1 (Ulp. 16 ad Sab.) e I. 2.16.2. 355 Ciò peraltro non era prescritto potendo il figlio non esser istituito erede dal pater (in particolare nel caso che lo avesse diseredato) dato che la sostituzione pupillare riguardava l’intero patrimonio del pupillo. Gai 2.182. 356 Formalmente dunque il testamento era uno solo, ma nella sostanza si avevano due testamenti: uno del pater, l’altro del filius (Gai 2.180). Ulpiano affermava: licet unum testamentum sit, alia tamen atque alia hereditas est (ossia “sebbene uno sia il testamento, tuttavia c’è una e un’altra eredità”: D. 18.4.2.2, Ulp. 49 ad Sab.). E in effetti se l’eredità del pupillo era di norma tutt’uno con quella del pater, tuttavia esse potevano venir in considerazione come entità distinte. Così ad es. il sostituto poteva accettare l’eredità dell’impubere e rinunziare a quella paterna (D. 28.6.12, Papin. 3 quaest. o viceversa D. 36.1.28 (27).2, Iul. 40 dig.), ovvero non venire in considerazione l’eredità paterna come nel caso di diseredazione del filius. 353
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nominare un sostituto a quest’ultimo, dato che scopo dell’istituto era pur tuttavia quello di provvedere alla successione del figlio (morto impubere) e alla destina357 zione del patrimonio di questi . Quanto alle forme la sostituzione pupillare seguiva uno schema preciso il cui tenore era il seguente: Titius filius meus heres esto (testamento paterno); si filius meus intra pubertatem decesserit, Caius heres esto (so358 stituzione pupillare) . La formula, per il suo tenore letterale, presupponeva che il filius impubere, nominato erede, succedesse al pater e che, morendo impubere, venisse in suo luogo il substitutus. Se però l’impubere fosse premorto al pater si poneva il grave problema del valore della sostituzione pupillare, ossia se questa potesse valere come sostituzione volgare (non avendone il pater disposta una per il caso in cui il figlio non fosse divenuto suo erede) di modo che il sostituto venisse 359 direttamente all’eredità (del pater) in luogo del figlio istituito . La questione, discussa davanti al tribunale dei centumviri, competente per le liti ereditarie (c.d. 360 causa Curiana del 93 a.C. circa) da un lato dal giurista Q. Mucio Scevola (contrario alla considerazione come sostituzione volgare di quella pupillare) e dall’altro dall’oratore Licinio Crasso (favorevole alla conversione in base a una interpretazione più libera fondata sulla prevalenza della voluntas sui verba), fu decisa, a seguito di un intenso dibattito, nel senso (voluto da Licinio Crasso) della ammissibilità della conversione e la decisione così assunta trovò in seguito conferma precisa nella legislazione imperiale a opera di una costituzione di Marco Aurelio e 361 Lucio Vero . Le caratteristiche evidenziate ponevano comunque la sostituzione pupillare in una posizione di singolarità rispetto ad alcuni principi cardine della successione ereditaria e in particolare di quella testamentaria. Essa importava infatti, nella sostanza, eredità successiva, contro il principio che la escludeva: era infatti di norma erede prima il figlio e poi (alla morte di questi) il sostituto in relazione alla stessa hereditas (che comprendeva quella del pater); il pater poi, facendo in certo senso testamento anche per l’impubere, contravveniva anche al carattere personalissimo 357
D. 35.2.11.7 (Papin. 29 quaest.). Gai 2.179 cfr. supra nt. 353. Si noti che concretandosi la sostituzione in una heredis institutio doveva essere disposta nella forma per questa dovuta e non poteva esser contenuta in un codicillo. Come si è osservato (Gai 2.181 cfr. supra nt. 355), per evitare che il pupillo potesse correre pericoli (ad opera del sostituto) si adottò inoltre la prassi di scrivere la sostituzione pupillare in una parte del documento testamentario destinata a restare chiusa e quindi segreta fin quando il pupillo non fosse divenuto pubere o non fosse morto prima. 359 Gaio in proposito precisava che se il figlio non diventava erede perché premorto al pater, il sostituto sarebbe stato erede del padre, ma se fosse diventato erede e fosse morto impubere, il sostituto sarebbe stato erede dello stesso figlio (Gai 2.180). In quest’ultimo caso il sostituto avrebbe acquistato non solo la eredità del padre, ma anche tutto ciò che il figlio avesse acquistato dopo la morte del pater. Per questo Gaio osservava, come sottolineato in precedenza (nt. 356), che esistevano in certo modo due testamenti: quello del padre e quello del figlio, o meglio un testamento per due eredità (D. 18.4.2.2, Ulp. 49 ad Sab.). 360 Cic. de orat. 1.39.180, 1.57.242-244; Brutus 52-53.194-198; Top. 10.44. 361 D. 28.6.4 pr. (Mod. l. sing. de heur.). 358
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dell’atto. Queste particolarità trovavano tuttavia giustificazione da un lato nella portata della patria potestas e dall’altro nel favor testamenti e nel valore vincolante riconosciuto alle disposizioni volte a tutelare la propria situazione patrimoniale. Da quest’ultimo punto di vista, in sintonia con il disposto delle XII Tavole che attribuivano piena efficacia (ita ius esto) alla tutela suae rei (Tit ex corp. Ulp.11.14: uti legassit super pecunia tutelave suae rei ita ius esto), la sostituzione pupillare costituiva un utile strumento di preservazione e destinazione del patrimonio, impedendo che questo andasse agli eredi legittimi (del filius), riservandolo a colui che il pater avesse ritenuto più idoneo. Ciò giustificava anche il favor testamenti accordato, dato che la violazione del carattere personalissimo dell’atto (il pater faceva testamento anche per il figlio) trovava ragion d’essere nella medesima esigenza di escludere la successione legittima. Quanto poi alla inammissibilità di eredità successive, si deve osservare come nessun contrasto si avvertisse con quel principio, dato che anche dopo la morte del pater e finché il figlio fosse rimasto impubere il patrimonio si sarebbe considerato in certo senso come ancora del pater. Rifacendosi al modello della sostituzione pupillare, GiustiniaSostituzione no introdusse infine, sulla scorta di precedenti classici, una nuova quasi pupillare figura di sostituzione ad exemplum appunto di quella pupillare, tradizionalmente chiamata sostituzione ‘quasi pupillare’ (o ‘esemplare’ in quanto ad exemplum pupillaris substitutionis). In forza di essa ogni ascendente tanto paterno quanto materno (si prescindeva infatti del requisito della patria potestà cosicché anche una donna poteva disporre la sostituzione) poteva nominare nel proprio testamento un erede (substitutus) al discendente (di norma dopo averlo istituito almeno nella quota legittima) infermo di mente (furiosus o mentecatto, pubere o impubere, ma in ogni caso impossibilitato a far testamento) per il caso che questi morisse senza aver riacquistato la sanità mentale. Il substitutus doveva essere scelto dal testatore preferibilmente tra i discendenti sani di mente dell’infermo e, in mancanza, tra i fratelli e le sorelle di lui, riacquistando libertà di scelta solo in assenza di questi congiunti. L’istituto, sorto in epoca imperiale a seguito di 362 concessioni disposte caso per caso dal principe , assunse carattere stabile e gene363 rale solo nel diritto giustinianeo .
23. Limiti alla libertà di testare Sin da età risalente era riconosciuta al paterfamilias ampia libertà di disporre del patrimonio familiare. Il giurista Pomponio (II sec. d.C.), ancora in età classica, ricordava come le XII Tavole avessero attribuito al disponente una latissima potestas, ma come questa fosse stata in seguito limitata (egli affermava infatti: “la 362
D. 28.6.43 pr. (Paul. 9 quaest.), riguardante la sostituzione disposta dal pater per il proprio figlio muto, pure se pubere. 363 CI. 6.26.9, a. 528 e I. 2.16.1.
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frase della legge delle XII Tavole ‘come ha disposto (legassit) delle sue cose (suae rei) così sia il diritto’, sembra possedere un significato molto ampio: di istituire erede, di dare legati e di manomettere, così come di nominare tutori; tuttavia quel significato è stato ristretto dalla interpretazione delle leggi e dall’autorità dei 364 fondatori del diritto”) . A produrre quella limitazione aveva contribuito in maniera decisiva quel residuo dell’antica concezione della indisponibilità mortis causa da parte del pater dei beni della familia che aveva il proprio fondamento nella destinazione di essi ai sui in quanto naturali e necessari continuatori della comunità familiare. Ciò aveva determinato l’esigenza che non venissero trascurati quei congiunti che il sentire sociale considerava più strettamente legati al de cuius, e in primo luogo i sui che il pater non avrebbe potuto dimenticare nel Successione contro suo testamento. A questo corrispondeva la cosiddetta “successione il testamento o necessaria” o “contro il testamento”, per mezzo della quale il dirit- necessaria to civile riconosceva una preferenza ad alcuni congiunti del testatore, per lo stretto vincolo di parentela che li legava a quello, che si trasformò ben presto in un diritto a succedergli (in una quota determinata) anche contro la sua volontà, con la conseguenza che se il testatore avesse violato tale diritto si davano appositi rimedi per salvaguardarlo. Questi erano diretti contro la validità del testamento e delle disposizioni in esso inserite in modo tale da salvare le aspettative – poi le quote – dei congiunti indicati dalla legge, ossia dei c.d. ‘legittimari’. I moderni parlano in proposito di “successione legittima”, a indicare che è la legge a determinare i soggetti aventi diritto ad essere contemplati, ma anche (con riferimento al medesimo istituto) di “successione necessaria”, dal momento che interviene sempre necessariamente per il fatto stesso che esistono determinati congiunti. I romani non avevano invece una denominazione particolare in quanto l’istituto si era formato indirettamente, attraverso interpretazioni ed espedienti che ne avevano determinato la configurazione. Anche l’espressione “eredi necessari” (che talvolta si utilizzerà nel seguito della trattazione) aveva in senso proprio, in seno al sistema successorio romano, un significato tecnico preciso che nulla aveva a che vedere con l’istituto considerato, indicando gli eredi che succedevano necessariamente e automaticamente anche contro la loro volontà e non l’aspettativa riconosciuta e tutelata dei più stretti congiunti ad essere considerati nel testamento. L’istituto in ogni caso si è sviluppato per gradi attraverso una complessa evoluzione storica di cui occorre ora ricostruire i passaggi. Nel diritto romano più antico e nell’ambito dello ius civile l’istituto della ‘legittima’, da intendersi quale riserva di una quota di eredità, come visto, non esisteva, né era previsto alcun vincolo sostanziale alla facoltà di disporre per testamento. Come residuo dell’antica indisponibilità mortis causa in Sui heredes aut caso di presenza di sui era stabilito solo un limite di carattere pu- instituendi sunt aut ramente formale (alla libertà di disporre per testamento), sintetiz- exheredandi 364
D. 50.16.120 (Pomp. 5 ad Q. Muc.).
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zato dalla massima, elaborata dalla giurisprudenza pontificale, sui heredes insti365 tuendi sunt vel exheredandi . In base a essa i sui dovevano essere menzionati nel testamento per essere istituiti o diseredati, non potendo esservi omessi (praeteriti) pena l’invalidità dell’atto. Con la istituzione il paterfamilias non avrebbe fatto altro che confermare quella qualità di heredes che proveniva loro dalla stessa condi366 zione di sui , intervenendo al più (con effetti costitutivi) per differenziare tra essi le quote che sarebbero loro spettate ex lege, mentre tramite la exheredatio avrebbe tolto al suus quella qualifica, con disposizione di tale gravità da non giustificare 367 alcuna interpretazione conservativa . Qualora invece li avesse omessi (praeteriti) il testamento sarebbe stato nullo, totalmente o parzialmente, e si sarebbe aperta la successione ex lege cui i sui avrebbero necessariamente preso parte. Questo sistema non intaccava nella sostanza la libertà di disporre del paterfamilias né importava alcun obbligo di riservare ai più immediati discendenti (sui) una quota dei beni ereditari (legittima in senso sostanziale): richiedeva infatti solo che il testatore menzionasse i sui (cioè non li trascurasse) anche solo per diseredarli, dato che la contemplazione del suus era requisito di efficacia del testamento e lo rendeva inattaccabile, anche se poi il suus diseredato nulla avrebbe acquistato. È per questo che gli interpreti qualificano questo sistema come successione necessaria ‘formale’: si trattava, infatti, di una garanzia di mera forma (concretantesi nel diritto dei più stretti congiunti ad essere menzionati per essere istituiti o diseredati) che nulla assicurava circa la partecipazione sostanziale (ossia in una quota) 368 alla successione del disponente . Quanto poi alla istituzione era sufficiente che questa ci fosse, mentre nulla importava l’entità della quota attribuita dato che, in assenza di una riserva in senso sostanziale, ciò che interessava per assicurare la validità (e la salvezza) del testamento era l’istituzione in sé e non la quota attribuita (che poteva essere e spesso era di entità minima per frustrare le aspettative dei più stretti congiunti e assicurare più ampia libertà di disposizione al testatore). L’istituzione inoltre, per garantire l’efficacia del testamento, doveva essere effettiva, fatta puramente e semplicemente (e in progresso di tempo, con l’attenuarsi delle antiche forme, anche senza particolare solennità) o sotto condizione potestativa; non valeva invece una istituzione disposta in modo tale da frustrarne nella pratica l’efficacia (una istituzione sotto condizione casuale o mista non avrebbe infatti giova369 to dato che il mancato avveramento avrebbe escluso dall’eredità il suus, vanificando l’istituzione che avrebbe assunto dunque carattere puramente fittizio, tradu365
Tit. ex corp. Ulp. 22.14; Gai 2.123. D. 28.2.9.2 (Paul. 1 ad Sab.). 367 D. 28.2.19 (Paul. 1 ad Vit.): “… le diseredazioni invece non devono essere favorite”. 368 La qualifica di successione necessaria “formale”, a ben guardare, non appare peraltro neppure del tutto appropriata, dato che in caso di diseredazione nessuna successione ci sarebbe stata e in ipotesi di preterizione, aprendosi la successione ab intestato in conseguenza della nullità del testamento, il preterito avrebbe preso quanto a lui devoluto ex lege. 369 D. 28.5.87 (Marc. 7 fideic.). 366
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cendosi nella sostanza in una diseredazione, peraltro invalida in quanto implicita). La exheredatio, viceversa, proprio per la sua gravità, doveva es- Diseredazione sere adottata nel testamento, in forma imperativa e solenne, con una formula inversa a quella usata per la heredis institutio (ad es. Titius filius meus 370 371 exheres esto ; era nulla, contrariamente alla institutio, la exheredatio ex certa re) . Per essa si fece distinzione a secondo che riguardasse i filii sui (iam nati), i ceteri sui (iam nati) o i postumi. I primi (figli maschi in potestà del testatore al momento del perfezionamento del testamento) dovevano essere diseredati con indicazione specifica (nominatim; ciò non voleva dire che si dovesse indicare il diseredato con il nome proprio, menzionandolo esplicitamente: Titius filius meus exheres esto, bastava anche che si indicasse la qualifica sufficiente a identificarlo, ad es. se il te372 statore aveva un solo figlio era sufficiente che si dicesse: filius meus exheres esto) . L’omissione (praeteritio) determinava la nullità del testamento, che non poteva 373 essere sanata nemmeno se il figlio fosse morto prima del padre . L’effetto della invalidità era l’apertura della successione ab intestato, alla quale i preteriti avrebbero partecipato nella qualità di sui heredes. I ceteri sui, invece, che ricomprendevano tutti gli altri sui (ossia Ceteri sui le figlie in potestate, i nipoti ex filio di ambo i sessi posti sotto l’immediata potestà del testatore per essere il pater premorto o emancipato e la uxor in manu) potevano essere diseredati con una formula generica complessiva 374 (inter ceteros; ad es. ceteri omnes exheredes sunto) . L’omissione (praeteritio) non rendeva però nullo il testamento che rimaneva, sia pur parzialmente, valido con la conseguenza del concorso dei preteriti con gli eredi istituiti per una quota corrispondente a quella di questi, se si trattava di sui (si divideva in tal caso l’asse ereditario in tante porzioni quanti erano i sui e tra essi si comprendeva anche il praeteritus, cui sarebbe andata quindi una porzione corrispondente a quella degli altri), ovvero per la metà dell’asse ereditario se si fosse trattato di extranei (l’eredità in questo caso si sarebbe divisa in due parti di cui una sarebbe andata agli eredi istituiti e l’altra ai preteriti). Ciò comportava una sostanziale deroga al principio dell’incompatibilità tra delazione testamentaria e ab intestato, ma già in età classica si preferì non riconoscerla, considerando i preteriti (che succedevano con gli 370
Il ricorso alla forma imperativa venne peraltro meno, più avanti nel tempo, con la medesima costituzione di Costanzo che attenuò le formalità richieste per l’istituzione di erede. Con Giustiniano poi essa poteva esser disposta con qualsiasi forma che manifestasse chiaramente la volontà del testatore (CI. 6.28.33, a. 531). Alla diseredazione in ogni caso non potevano esser apposti termini o condizioni, pena la nullità. 371 D. 28.2.19 (Paul.1 ad Vit.), su cui supra nt. 368. 372 Cfr. Gai 2.127, Gai 2.132 e I. 2.13.1. 373 Così almeno secondo la prevalente teoria sabiniana avversata dai proculiani e poi accolta da Giustiniano. Cfr. Gai 2.123; I. 2.13 pr. 374 Sul finire dell’età tardoimperiale, però, Giustiniano, senza distinzione tra figli e figlie e tra figli e nipoti, stabilì che la diseredazione dovesse essere disposta in ogni caso nominatim (CI. 6.28.4.6 del 531 e I. 2.13.5), disponendo per tutti la nullità del testamento in caso di preterizione.
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istituiti) alla stregua di eredi istituiti nel testamento e ponendo a loro carico i le375 gati in rapporto alla quota ereditaria a essi attribuita . Per prevenire le cause di rottura del testamento i giuristi classiPostumi ci (specie in occasione del commento alla lex Iunia Vellaea del 2628 d.C.) ammisero anche la possibilità di istituire o diseredare i postumi. La categoria aveva subito nel corso del tempo, a partire dalla fine della Repubblica, un progressivo ampliamento fino a ricomprendere una molteplicità di soggetti. Nel novero dei postumi sui rientravano infatti non solo i discendenti che fossero nati dopo la morte del testatore, ma, per estensione, anche quelli che fossero venuti in 376 essere dopo la perfezione del testamento . L’estensione si era rivelata necessaria per impedire che il testamento cadesse in caso di sopravvenienza di un figlio dopo la redazione di esso. Per evitare questo e per non costringere il testatore a rifare il testamento, si ammise che egli potesse istituire o diseredare anche questi soggetti, come quelli nati dopo la morte del testatore. I postumi sui dovevano essere diseredati: se di sesso maschile, nominatim, altrimenti (ex lege Iunia Vellaea purché onorati di legati) anche inter ceteros. La preterizione determinava in ogni caso nullità 377 totale del testamento dal momento dell’acquisto della qualità di suus (testamentum ruptum); se tuttavia il postumo, divenuto suus dopo la redazione del testamento, fosse morto prima del testatore, il pretore avrebbe ridato valore al testamento invalido concedendo la bonorum possessio secundum tabulas all’erede istitui378 to . In caso poi di acquisto della potestà su di un estraneo tramite adozione o conventio in manum dopo la perfezione del testamento, non giovavano ad impedirne la nullità (almeno sino ad età classica avanzata) né diseredazione né istituzione 379 preventiva . 23a. Regime pretorio Anche in questa materia si ebbe, sul finire dell’età repubblicana, l’intervento del pretore con funzione adiutoria e suppletiva rispetto al sistema civile. Per que375
Gai 2.124. Cfr. pure Gai 2.128. In particolare rientravano nella categoria anzitutto i figli del testatore nati dopo la morte di lui e, per assimilazione dovuta al giurista Aquilio Gallo, i nipoti, il cui pater fosse premorto al testatore, nati dopo la morte di quest’ultimo (c.d. postumi aquiliani: D. 28.2.29 pr., Scaev. 6 quaest.). In seguito per effetto di disposizioni normative e di interventi giurisprudenziali nel novero dei postumi vennero ricompresi i figli nati prima della morte del testatore, ma dopo la perfezione del testamento (c. d. postumi Velleiani primi: D. 28.2.29.11-12, Scaev. 6 quaest.) e i discendenti nati prima della perfezione del testamento, ma divenuti sui (per premorienza dal pater) tra perfezione del testamento e morte del testatore (c.d. postumi Velleiani secundi: D. 28.2.29.13-14, Scaev. 6 quaest.), e per estensione operata dal giurista Salvio Giuliano i predetti discendenti anche se nati dopo la perfezione del testamento (e successivamente divenuti sui a seguito di premorienza o emancipazione del pater: D. 28.2.29.15, Scaev. 6 quaest.). 377 Gai 2.130-132. Cfr. pure I. 2.13.1. 378 D. 28.3.12 pr. (Ulp. 4 disp.). 379 Gai 2.138-140. 376
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sto a dover essere contemplati per essere istituiti o diseredati erano gli appartenenti alla prima classe dei successori ab intestato, ossia i sui. Ma quando il pretore chiamò alla successione gli emancipati, accordando loro la bonorum possessio sine tabulis, sembrò opportuno estendere il principio civilistico anche a questi soggetti e siccome essi erano parte della più ampia categoria Liberi dei liberi, che comprendeva anche i sui e costituiva la prima classe del sistema pretorio, furono i liberi che iure praetorio il testatore dovette istituire o diseredare (con la conseguenza che i sui, ossia gli eredi civili, potevano vantare un doppio titolo – quello civile e quello pretorio – per essere istituiti o diseredati). Le forme richieste per la diseredazione che nel sistema civile si diversificavano secondo che si trattasse di sui o di ceteri sui, nel sistema pretorio si modificavano invece in rapporto alla diversa distinzione tra liberi di sesso maschile e liberi di sesso femminile. I primi, se non istituiti eredi, dovevano essere diseredati nominatim, le 380 donne anche inter ceteros . Il mancato rispetto del principio che imponeva la necessaria contemplazione dei liberi per istituirli o diseredarli, ossia la praeteritio di essi, legittimava questi a rivolgersi al pretore, il quale avrebbe conBonorum possessio 381 cesso una bonorum possessio contra tabulas . In forza di essa i libe- contra tabulas ri preteriti sarebbero stati ammessi a succedere nella quota che sarebbe loro spettata ab intestato (e insieme con loro gli eventuali altri liberi istituiti 382 eredi nel testamento) . Figli, figlie e nipoti si sarebbero in conseguenza diviso l’asse per capi o per stirpi, secondo le circostanze. Questo almeno fino a una disposizione di Antonino Pio che, intervenendo in proposito, modificò il regime nel senso che non si potesse conseguire con la bonorum possessio più di quanto sarebbe spettato secondo il regime civile. Il sistema pretorio infatti favoriva le figlie (come la moglie e i nipoti), che avrebbero finito per conseguire di più (attraverso la bonorum possessio loro concessa) di quanto sarebbe loro spettato per diritto civile. In base a quest’ultimo sistema esse, se preterite (in quanto rientranti tra i ceteri sui), potevano conseguire solo metà del patrimonio in caso di concorso con extranei istituiti; con il sistema pretorio, invece, avrebbero comunque avuto diritto a una quota (corrispondente a quella a esse spettante ab intestato) sull’intero asse ereditario. Ad ovviare a questo inconveniente era diretta appunto la disposizione antoninia383 na, che attribuiva alla figlia non più di quanto disposto dallo ius civile . La bonorum possessio contra tabulas poteva esser richiesta non solo dai figli preteriti (ipsi committunt edictum), ma altresì dai liberi istituiti nel testamento in cui 380
Si ricordi peraltro che Giustiniano nel 531 richiese in ogni caso la diseredazione nominativa. Gai 2.135. Cfr. pure D. 37.4.1 pr.-2 (Ulp. 39 ad ed.); Tit. ex corp. Ulp. 22.23. 382 Mentre la praeteritio di sui, infatti, importava per il ius civile la nullità del testamento, per il sistema pretorio (bonorum possessio contra tabulas) il testamento restava valido, solo che ai liberi preteriti (in particolare agli emancipati) si accordava la bonorum possessio contra tabulas (in conseguenza il testamento sarebbe risultato invalido iure civili nel caso di preterizione di liberi sui ovvero inefficace iure praetorio nel caso di preterizione di liberi non sui). 383 Gai 2.125-126. 381
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altri liberi fossero stati preteriti (commisso per alium edicto). Anche i liberi istituiti, infatti, potevano avere interesse a giovarsi dei benefici di essa (bonorum possessio contra tabulas) evitando gli effetti del testamento. Se un figlio fosse stato istituito in una quota minima (ad es. 1/12) e l’altro preterito, anche il primo si sarebbe avvantaggiato della bonorum possessio che il pretore avrebbe potuto concedere dato che essa sarebbe stata accordata in parti uguali a entrambi, facendogli conseguire 384 più di quanto avrebbe ottenuto per testamento . La bonorum possessio contra tabulas poteva chiedersi ancor prima che qualcuno 385 degli eredi civili avesse accettato l’eredità ; essa era infatti richiesta non contro qualcuno ma, sottolineano le fonti, contra ipsum testamentum. In ogni caso non era ammesso alla bonorum possessio contra tabulas il legittimato che in qualche modo avesse dato seguito alla volontà testamentaria (ad esempio accettando un 386 legato disposto in suo favore) . Quanto agli effetti della praeteritio questi erano diversi a seconda Effetti della che il testamento fosse o meno invalido iure civili; nel primo caso praeteritio (se, ad esempio, fosse stato preterito un figlio suus) cadeva tutto il testamento e le disposizioni in esso contenute, nel secondo caso, invece (se fosse stato omesso, ad es., un figlio emancipato), talune di esse restavano valide, come 387 388 le manomissioni, le sostituzioni e la nomina dei tutori (quanto ai legati dovevano eseguirsi, per disposizione del pretore, quelli disposti a favore di ascendenti e 389 discendenti o il legato di dote a favore della moglie o della nuora del testatore) . 23b. Querela inofficiosi testamenti Il sistema civile e pretorio sin qui considerato sanzionava la praeteritio dei sui e 390 dei liberi , ma non assicurava a essi alcun diritto alla successione in senso ‘materiale’ del testatore, ossia a ottenere una quota dell’asse ereditario. Le limitazioni imposte alla libera disponibilità del testatore erano infatti puramente formali: ba384
D. 37.4.8.11 (Ulp. 40 ad ed.). Analogamente sarebbero stati ammessi alla quota spettante ab intestato anche i liberi diseredati in un testamento che, per praeteritio di liberi rientranti nella categoria dei sui, risultasse già invalido iure civili: D. 28.2.32 (Marc. 2 reg.). 385 In caso di preterizione di liberi non sui, rimanendo iure civili valido il testamento i sui istituiti avrebbero infatti potuto venire alla successione del de cuius, rimanendo ai successori pretori (emancipati) preteriti il rimedio della bonorum possessio contra tabulas. 386 D. 37.4.14 (Afric. 4 quaest.). 387 In particolare quelle pupillari: D. 28.6.34.2 (Afric. 4 quaest.). 388 Analogamente restava valida anche la diseredazione eventualmente disposta: D. 37.4.8 pr. (Ulp. 40 ad ed.). 389 Cfr. il titolo De legatis praestandis contra tabulas bonorum possessione petita in D. 37.5. 390 Le conseguenze, come si è visto, erano la nullità o inefficacia del testamento e la possibilità di conseguire iure civili o iure praetorio in tutto o in parte quanto sarebbe spettato ab intestato. Nonostante questo obiettivo (assicurare la partecipazione all’asse ereditario) fosse simile tanto per la disciplina della praeterito quanto per l’istituto della ‘legittima’, che con la querela inofficiosi testamenti si andava a delineare, tuttavia i due istituti rimasero sempre distinti tanto da coesistere fino a Giustiniano.
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stava istituire i sui o i liberi in una quota anche minima o diseredarli espressamente (senza bisogno di motivazione alcuna) per salvare il testamento. Ma questo non assicurava a quei soggetti alcuna sostanziale aspettativa successoria sul patrimonio 391 del testatore . Ciò non destava particolare preoccupazione in età risalente, quando la probità dei costumi e la forza dei principi tradizionali rendevano rare le diseredazioni ingiustificate e portavano a considerare i discendenti come i naturali successori del pater. Man mano che quelle concezioni si andarono stemperando, dovette però apparire sempre più urgente salvaguardare le aspettative dei più stretti congiunti ponendo limiti sostanziali alla facoltà di disporre del testatore. Per venire incontro a queste esigenze non si intervenne attraverso la legge, ma si operò per via di interpretazione facendo ricorso, sul finire della Repubblica, a un espediente retorico escogitato dagli oratori davanti al tribunale dei centumviri, competente per le liti ereditarie. Si pensò, cioè, che il testatore il quale, senza giusti motivi, non avesse lasciato alcuna parte del suo patrimonio ai più vicini parenti non avesse osservato quel dovere fondamentale di affetto (officium pietatis) che doveva avere verso di essi. Il testamento in conseguenza, redatto senza rispettare quel dovere, fu considerato inofficiosum, contrario all’officium, ossia al dovere che il testatore aveva verso i familiari più vicini (e in ultima analisi come proveniente da persona non sana di mente). Si ammise quindi che i più stretti congiunti del testatore, da lui ingiustamente diseredati o anche semplicemente trascurati, potessero impugnare il testamento come invalido davanti al tribunale dei centumviri, sul presupposto fittizio che questo fosse stato fatto da un infermo di mente, e far392 ne dichiarare la nullità . Si considerava appunto come se il disponente fosse 393 privo di testamenti factio e alla conseguente nullità del testamen- Testamento to si faceva seguire l’apertura della successione ab intestato. Il mez- inofficioso zo utilizzato allo scopo era quel particolare rimedio giudiziale che, in quanto rivolto a impugnare il testamento come inofficiosum, recava la denominazione di accusatio o querela inofficiosi testamenti, configurata dalle fonti, proprio per le finalità perseguite, come una particolare petizione di eredità volta a conse394 guire la quota spettante ab intestato . Il procedimento si svolgeva, almeno agli 391
Oltretutto quei limiti non riguardavano la madre rispetto ai figli né questi rispetto a quella non rientrando né tra i sui né tra i liberi e neppure, per la stessa ragione, i fratelli e le sorelle reciprocamente. 392 D. 5.2.2 (Marc. 4 inst.), D. 5.2.3 (Marcell. 3 dig.), P.S. 4.5.1, e per la considerazione del testamento inofficioso come offesa per i congiunti esclusi D. 5.2.4 (Gai. l. sing ad leg. Glitiam) e D. 5.2.8 pr. (Ulp. 14 ad ed.). Per la considerazione sub colore insaniae del testamento inofficioso ancora in età giustinianea cfr. Iust. Inst. 2.18 pr. 393 D. 5.2.17.1 (Paul 2 quaest.). 394 Il rimedio andò peraltro acquistando una sua autonoma configurazione ad opera di interventi del pretore e della legislazione imperiale. In particolare il pretore intervenne agevolando la posizione di quanti (anche non eredi civili, e quindi non legittimati ad utilizzare la petizione di eredità a quelli riservata) intendessero impugnare il testamento come inofficioso concedendo una bonorum possessio litis ordinandae gratia che, se non attribuiva loro nelle more della lite alcun possesso, consentiva però ad essi di partecipare al giudizio davanti al tribunale centumvirale nel più comodo ruolo di convenuti.
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inizi, secondo il rito della legis actio sacramenti in personam, sulla base di una sponsio praeiudicialis con la quale l’erede istituito prometteva di pagare Querela inofficiosi una somma di denaro per il caso che il testamento fosse risultato testamenti 395 inofficiosum . Già però durante il Principato venne esteso anche a questa materia l’impiego della cognitio extra ordinem ed abbiamo testimonianza di numerosi casi in cui gli imperatori intervennero per giudicare in proposito. L’azione andava esperita, in origine e per lungo tratto dello sviluppo storico dell’istituto (almeno per buona parte del Principato) davanti allo speciale collegio giudicante dei centumviri. Ciò valeva per gli eredi civili e per i residenti in Roma, 396 data la limitata competenza territoriale di quel tribunale ; per i successori pretori e nelle province, forse in seguito a una lex Glitia, a giudicare sarebbe stato invece il tribunale dei septemviri in Roma e il preside nelle province (questa molteplicità di giurisdizioni era destinata però a scomparire sul finire dell’epoca classica e di essa non si trova più traccia in epoca giustinianea). Legittimati a proporre la querela erano i soli congiunti del teLegittimazione attiva statore che per gli stretti vincoli di parentela sarebbero stati chiamati a succedergli ab intestato, iure civili o pretorio, e anzitutto i figli (sui ed emancipati), in mancanza o nell’inerzia loro gli ascendenti, altrimenti i fratelli e le so397 relle , che non avessero conseguito con una qualsiasi disposizione mortis causa una quota (portio debita) dell’asse ereditario e sempre che non esistesPortio debita 398 sero giuste cause di esclusione dalla successione . Non potevano dunque avvalersi della querela i congiunti che avessero ricevuto mortis causa dal testatore almeno un quarto di quanto sarebbe loro spettato ab intestato, a somi399 glianza della quarta Falcidia (de legatis) . La portio debita, che doveva esser lasciata libera da qualunque onere, andava calcolata sul patrimonio netto del de cuius (ossia sul solo attivo con deduzione dei debiti del de cuius e delle spese funerarie), come esistente al momento della morte. Per evitare però che questi potesse diminuirlo in vita con atti di liberalità in frode ai ‘legittimari’, a partire da Ales395
Gai 4.95. Il rito (anche se poi adattato nelle forme dell’agere in rem per sponsionem) fu mantenuto ancora nel terzo secolo. 396 I centumviri non potevano avere una competenza territoriale più estesa di quella del pretore. 397 D. 5.2.1 (Ulp. 14 ad ed.); cfr. pure D. 5.2.31 pr.-1 (Paul. l. sing. de sept. iud.). In ogni caso si tenga presente che i discendenti escludevano gli ascendenti e questi i collaterali. 398 Per il caso che peraltro ad esercitare la querela fossero solo alcuni dei legittimati o che solo alcuni vincessero la lite si dispose che i querelanti vittoriosi avrebbero avuto la quota loro spettante ab intestato e gli eredi testamentari avrebbero trattenuto il resto (in violazione della incompatibilità tra titoli di delazione diversi) col risultato che anche i legati e i fedecommessi eventualmente disposti avrebbero avuto effetto pro parte (le manomissioni per intero): D. 5.2.15.2 (Papin. 14 quaest.); D. 31.76 pr. (Papin. 7 resp.); CI. 3.28.13, a. 239. 399 D. 5.2.8.6 (Ulp. 14 ad ed.). Poiché l’esperimento della querela importava iniuria per il defunto, essa era esperibile solo quando gli aventi diritto non avessero ottenuto nulla dal de cuius ad altro titolo: non era però necessario che la quota fosse attribuita a titolo di heredis institutio, potendo esser disposta anche tramite un legato di valore equivalente o una donatio mortis causa, ma non con una donazione inter vivos.
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sandro Severo la legislazione imperiale concesse (ai danneg- Querela inofficiosae 402 giati) la querela inofficiosae donationis o dotis , con la quale pote- donationis va chiedersi l’annullamento della donazione o dote che in qualche 403 modo potessero considerarsi lesive delle aspettative alla portio debita . La legittimazione attiva alla querela inofficiosi testamenti era strettamente personale, avendo fondamento in un atto considerato arrecante iniu404 Legittimazione ria al querelante . Passivamente legittimati erano, di regola, gli passiva 405 eredi testamentari che avessero accettato l’eredità . Ad essa non era peraltro possibile ricorrere quando si avevano altri mezzi a disposizione contro il testamento, come la bonorum possessio contra tabulas. Inoltre dalla querela era escluso il ricorrente che avesse in qualche modo dato seguito alla volontà testa406 mentaria (ad es. accettando un legato) . La facoltà di agire si prescriveva in cin407 que anni a decorrere dall’adizione dell’eredità da parte dell’erede istituito . 408 Riconosciuta l’inofficiosità del testamento, questo era iure civili rescisso e si apriva la successione ab intestato con la conseguenza che il querelante vittorioso acquistava non la porzione riservata (portio debita, 1/4 di quella intestata), ma 409 l’intera quota ab intestato . In conseguenza se il testatore avesse lasciato la ‘legit400
D. 31.87.3 (Paul. 14 resp.). La disposizione imperiale consisteva in un rescritto con il quale l’imperatore intendeva risolvere il caso singolo sottoposto alla sua valutazione concedendo all’interessato di agire extra ordinem contro il donatario per la revoca (nel caso di specie) solo parziale della donazione, ma, in quanto provvedimento proveniente dalla volontà imperiale, esso acquistò ben presto portata e valore generale. 401 Cfr. le costituzioni del titolo CI. 3.29 ove si parla di ‘donazioni inofficiose’. 402 Il termine non è delle fonti, ma si è affermato nella tradizione romanistica come conseguenza dell’essere il rimedio estensione analogica dei principi propri della querela inofficiosi testamenti. 403 L’annullamento (o la riduzione) si operava non proporzionalmente, ma partendo dall’ultimo atto di liberalità e risalendo ai precedenti fino ad integrazione della ‘legittima’ (dal momento che l’annullamento poteva darsi contro donazioni e costituzioni di dote qualora tali atti, nel momento in cui si compivano, importassero lesione della portio debita: CI. 3.29.7, a. 286; F.V. 280). Esso non si praticava ove il de cuius avesse lasciato comunque la legittima nel testamento o il patrimonio si fosse accresciuto per nuovi incrementi (Nov. 92, a. 539). 404 D. 5.2.8 pr. (Ulp. 14 ad ed.). Cfr. supra nt. 393. 405 D. 5.2.8.10 (Ulp. 14 ad ed.): “… prima della adizione della eredità non spetta la querela …”. Eccezionalmente peraltro essa poteva darsi anche contro il fedecommissario universale, il bonorum possessor contra tabulas, il fisco: CI. 3.28.1, a. 193; D. 5.2.16.1 (Papin. 2 resp.); CI. 3.28.10, a. 223. 406 D. 5.2.10.1 (Marcell. 3 dig.). 407 D. 5.2.8.17 (Ulp. 14 ad ed.). 408 Si adottarono tuttavia misure di favore (per consentire la conservazione delle disposizioni a loro vantaggio) per legatari, fedecommissari e servi manomessi nel testamento rescisso, cui si consenti di intervenire nel giudizio di inofficiosità e proporre appello in caso di sospettata collusione tra le parti. Alle disposizioni in loro favore era riconosciuta validità anche in caso l’inofficiosità fosse stata pronunciata contro l’erede testamentario assente dal giudizio (D. 49.1.5.1-2, Marc. 1 de app.; D. 49.1.14 pr.-1, Ulp. 14 ad ed.) e il giudizio fosse stato instaurato e proseguito con successo dopo la scadenza del termine quinquennale (D: 5.2.8.17, Ulp. 14 ad ed.). 409 D. 5.2.8.16 (Ulp. 14 ad ed.). Nel caso però che l’azione fosse stata respinta il querelante avrebbe perso tutte le liberalità disposte in suo favore nel testamento, che sarebbero andate al fisco.
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tima’ (portio debita), il ‘legittimario’ nulla avrebbe potuto domandare, mentre in caso contrario, rescisso il testamento, sarebbe succeduto ab intestato nell’intera quota spettantegli (col risultato che avrebbe tratto singolare vantaggio dall’aver avuto meno della portio debita rispetto al legittimario cui questa fosse stata integralmente lasciata, che di quella avrebbe dovuto accontentarsi). La pronuncia di inofficiosità in ogni caso operava solo a favore e contro coloro che 410 avevano partecipato al giudizio e non faceva stato nei confronti degli altri eredi . Giova infine ricordare come la querela fosse un rimedio contro un testamento (iure civili o iure praetorio) valido ed efficace; essa dunque sarebbe risultata superflua se il testamento fosse stato per sé invalido o l’erede istituito non avesse acqui411 stato l’eredità . Con l’avvento dell’età postclassica la procedura si stabilizzò Regime postclassico nelle forme della cognitio extra ordinem e vennero introdotte varie innovazioni che contribuirono a modificare e precisare il regime dell’istituto. Si è visto come alla pronuncia di inofficiosità conseguisse la rescissione totale del testamento. Quest’effetto apparve però eccessivo qualora il testatore avesse lasciato una porzione dei propri beni a titolo di ‘legittima’, risultata poi insufficiente per mero errore materiale (ad es. di calcolo). Onde impedire che gli eredi necessari potessero far cadere il testamento e succedere ab intestato nell’intera quota ad essi spettante, approfittando del lapsus del testatore, l’imperatore Costanzo adottò una nuova disposizione consentendo che il ‘legittimario’ potesse ottenere un’integrazione, da realizzarsi arbitratu boni viri, della quota attribuita che fosse risultata inferiore al dovuto (esercitando la c.d. actio ad supplendam 412 legitimam) . Già prima si era peraltro provveduto a confermare la legittimazione attiva dei genitori alla querela e con Costantino si era precisata anche quella dei fratelli e sorelle, ammessa purché consanguinei (nati dallo stesso padre e agnati), qualora gli 413 eredi istituiti (ad essi preferiti) fossero persone turpi . Le riforme più profonde e la sistemazione definitiva dell’assetto Disciplina giustinianea della successione necessaria sono però opera di Giustiniano. A lui e actio ad implendam 414 legitimam si deve, sulla base di precedenti postclassici , la definitiva introduzione dell’actio ad implendam legitimam, per cui l’erede che fosse stato istituito in una quota inferiore alla portio debita (ora chiamata legitima) non avrebbe potuto più impugnare il testamento provocandone la caduta (tramite 410
La querela inoltre non era ammessa contro il testamentum militis: D. 5.2.8.4 (Ulp. 14 ad ed.). D. 37.4.8 pr. (Ulp. 40 ad ed., supra nt. 389); CI. 6.28.4.4, a. 531. 412 CTh. 2.19.4 a. 361. Cfr. pure P.S. 4.5.7. Sulla necessità di tener conto ai fini del computo della portio debita anche di dote e donazioni obnuziali (non anche di altre donazioni inter vivos) aveva già disposto nel 479 Zenone (CI. 3.28.29). 413 CTh. 2.19.1 = CI. 3.28.27, a. 319. 414 Cfr. il provvedimento di Costanzo in CTh. 2.19.4, ricordato supra nt. 413. 411
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l’esperimento della querela inofficiosi testamenti), ma agire soltanto per l’integra415 zione della quota . Con la Nov. 18 dell’anno 536 egli poi, per favorire i legittima- Nov. 18 ri, provvide a rivedere l’entità della portio debita ad essi riservata, elevandola, in favore dei soli figli, da un quarto a un terzo della quota che sarebbe spettata ab intestato o alla metà se quest’ultima (quota ab intestato) fosse stata inferiore a un quarto del patrimonio ereditario per la presenza di più di quattro figli. Gli interventi più importanti in materia furono però realizzati Nov. 115 da Giustiniano con la Nov. 115 del 542. In questa si stabilì che la quota legittima dovesse essere lasciata ad ascendenti e discendenti mediante here416 dis institutio (ossia istituendoli eredi) , altrimenti la mancata istituzione avrebbe costituito per sé sola lesione dei diritti degli eredi necessari ed essi sarebbero stati ammessi all’esercizio della querela inofficiosi testamenti anche se la portio debita fosse 417 stata lasciato loro in altro modo . In caso di istituzione in quota inferiore alla legittima, ascendenti e discendenti sarebbero stati invece esclusi dalla querela e avrebbero potuto esigere solo l’integrazione della quota loro spettante tramite l’esercizio dell’apposita actio ad implendam legitimam. Quanto alla disciplina dell’esclusione dalla successione, anche questa costituì oggetto di minuziosa regolamentazione da parte della Nov.115. Per escludere i figli e i genitori dall’eredità non era più richiesta una diseredazione esplicita, ma 418 dovevano essere chiaramente indicati i motivi che la giustificavano . I motivi di esclusione erano tassativamente indicati dalla costituzione, che li fissava in 14 per discendenti (offesa grave, attentato alla vita, accusa criminale, etc.) e 8 per gli ascendenti (attentato alla vita, concubinato con la nuora, impedimento a far testamento, etc.). Impugnato il testamento attraverso l’esercizio della querela sarebbero cadute le istituzioni di erede in esso disposte, ma, secondo la disciplina di Nov. 115, questo non avrebbe comportato l’inefficacia delle altre disposizioni testamentarie, come i 415
CI. 3.28.30, a. 528. Cfr. pure CI. 3.28.31 e 32, a. 529. La disciplina di Nov.115 non toccava, invece, la posizione di fratelli e sorelle, che pertanto rimaneva invariata secondo il regime precedente tranne che per la necessità dell’esistenza del vincolo di agnatio, non più richiesto nel diritto giustinianeo. 417 L’istituzione non doveva peraltro essere necessariamente per tutta la quota, potendo il resto essere attribuito ad altro titolo, es. legato. 418 Una esclusione immotivata avrebbe infatti consentito il ricorso alla querela inofficiosi testamenti. Circa le forme sarebbe stata possibile una esclusione implicita così formulata: “poiché i miei figli non hanno cercato di riscattarmi dalla prigionia, nomino erede Tizio, cui debbo il riscatto”. Si tenga peraltro presente che con Nov. 115 Giustiniano ha inteso coordinare i due istituti della exheredatio e della querela inofficiosi testamenti nel senso che gli eredi necessari avevano in ogni caso diritto ad essere istituiti e ad ottenere la legittima, salvo che intervenisse la exheredatio del testatore che, peraltro, poteva esser fatta solo per i motivi stabiliti dalla legge (in mancanza di diseredazione motivata o in caso di preterizione sarebbe dunque spettata loro la querela inofficiosi testamenti ovvero, ove istituiti in quota inferiore a quella dovuta, l’actio ad implendam). 416
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legati. D’altra parte la dichiarazione di nullità del testamento giovava a tutti i danneggiati dal testamento inofficioso, anche se non avessero esercitato l’azione. 23c. Successione necessaria del patrono Anche al patrono era riconosciuta una particolare aspettativa in ordine alla 419 successione del liberto . A provvedere in proposito fu il pretore, che intervenne accordandogli una tutela non soltanto formale. Non sarebbe infatti valsa una semplice diseredazione ad escludere il patrono dalla successione del proprio liberto. Se questi fosse morto senza figli (naturali in potestate e non, comunque nati da iustae nuptiae) o li avesse diseredati, doveva infatti lasciare al pa420 421 Portio debita trono (non alla patrona ), la metà dei suoi beni (portio debita) . Ove non l’avesse fatto sarebbe intervenuto il pretore, concedendo al patrono una bonorum possessio contra tabulas dimidiae partis per la metà del paBonorum possessio trimonio del liberto, che gli avrebbe comunque fatto ottenere 422 dimidiae partis quanto non attribuitogli da questi . Nessuna bonorum possessio dimidiae partis sarebbe spettata invece al patrono rispetto alla successione della liberta di cui avesse avuto la tutela. Questa infatti, come tutte le donne, avrebbe potuto far testamento solo con l’autorizzazione del tutore, ma dato che questo era il patrono, egli non avrebbe mai concesso l’auctoritas qualora non fosse stato sod423 disfatto dal testamento della liberta . Per evitare poi che il liberto attraverso atti di disposizione diminuisse le ragioni successorie del patrono, il preActio Fabiana e tore provvide concedendo due azioni (pretorie e arbitrarie), l’actio Calvisiana Fabiana (in caso di successione testamentaria) e Calvisiana (per la successione ab intestato), dirette alla revoca degli atti di disposizione compiuti. Giustiniano infine intervenne in proposito escludendo la successione contro il testamento del patrono (o della patrona) qualora il liberto avesse lasciato un patrimonio inferiore ai 100 aurei e ammettendola (ridotta però a un terzo dell’asse ereditario) solo qualora il patrimonio avesse un valore superiore e il liberto fosse 424 morto senza discendenti .
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Analoga aspettativa (bonorum possessio contra tabulas), in presenza degli stessi presupposti, era riservata al parens manumissor rispetto ai beni del figlio emancipato. 420 Gai 3.49. 421 Al posto del patrono premorto erano chiamati alla successione del liberto i figli maschi di lui. Ulteriori disposizioni a favore dei patroni vennero fissate dalla lex Iulia et Papia Poppaea: Gai 3.42. 422 Gai 3.41. Cfr. pure D. 38.2. Anche il patrono che si fosse giovato delle operae liberti sarebbe stato escluso dalla bonorum possessio dimidiae partis: P.S. 3.2.5 = D. 37.14.20 (Paul. 3 sent.). 423 Gai 3.43. 424 I. 3.7.3. Tra i discendenti utili ai fini della esclusione delle aspettative del patrono andavano considerati anche quelli nati prima che l’ereditando avesse acquistato la libertà, non invece i diseredati.
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24. I legati 24a. Tipi di legato ed evoluzione storica Il legato, nel suo assetto definitivo risultante dal diritto giusti- Nozione nianeo, è una disposizione mortis causa (di ultima volontà) a titolo 425 particolare (contenuta in un testamento o in un codicillo confermato) attribu426 tiva di determinati diritti o cose determinate , posta a carico dell’erede (onerato) e a vantaggio delle persone (legatario o onorato) indicate dal testatore. La definizione così formulata è frutto di un lungo sviluppo storico e di un graduale processo di avvicinamento e unificazione tra disposizioni (successorie) distinte. Il ius civile, infatti, non conosceva il legato come istituto unitario, ma singoli tipi di legato secondo la tendenza prevalente del diritto romano a privilegiare il criterio della tipicità su quello della formulazione di categorie generali. Gaio infatti, nel suo manuale, non offriva alcuna nozione dell’istituto, ma si limitava a precisare, in 427 avvio della sua trattazione, che quattro erano, all’epoca sua, i genera legatorum . Solo in età successiva, sul finire dell’epoca classica, si registrano alcuni tentativi dei giuristi di fornire una definizione dell’istituto. Così Fiorentino affermava che legatum est delibatio hereditatis, qua testator ex eo, quod universum heredis foret, alieni quid collatum velit (“il legato è un prelievo dall’eredità con cui il testatore vuole 428 che sia attribuito a qualcuno qualcosa del complesso che sarà dell’erede”) . Il legato sarebbe stato dunque, secondo il giurista, una sottrazione dall’eredità, un suo impoverimento, in senso soprattutto economico, a scapito dell’erede. Ma questa definizione, valida per il legato traslativo, non risultava applicabile al più recente legato di obbligazione, che poteva avere ad oggetto anche cose altrui o un fare o non fare. A sua volta Modestino sottolineava che legatum est donatio testamento relicta (“è una donazione lasciata per testamento”) mettendone in luce l’elemento di liberalità, ma senza precisare quegli elementi di identificazione che consentisse429 ro di distinguere il legato dalle altre disposizioni testamentarie . Nella più tarda Epitome Ulpiani, infine, si definiva il legato quod legis modo, id est imperative, testamento relinquitur (“ciò che a somiglianza della legge, cioè in forme imperative, è lasciato per testamento”), sottolineando le modalità esteriori che dovevano ca430 ratterizzare la disposizione, ma senza precisarne i contenuti . Si trattava nel com425
Gai 2.270 a. Non costituiscono legato alcuni casi di acquisto mortis causa indipendenti da una disposizione attributiva, come quelli conseguenti a una disposizione del testatore si Titio dederit, “se avrà dato a Tizio”, dato che in forza di essa il legatario non ha diritto di ricevere, ma è solo in facoltà dell’onerato dare, o quelli conseguenti alla disposizone di un modus. 427 Gai 2.192: “I generi di legati sono quattro …”. 428 D. 30.116 pr. (Flor. 11 inst.). 429 D. 31.36 (Mod. 3 pand.); simile, anche se parzialmente temperata, la definizione di I. 2.20.1: “Il legato è, per così dire, una donazione lasciata dal defunto”. 430 Tit ex corp. Ulp. 24.1. 426
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plesso di definizioni approssimative, che rispecchiavano solo qualche aspetto dell’istituto, denotando uno sforzo verso una configurazione unitaria che faticava ad affermarsi. Questi tentativi in sostanza mettevano in luce come ancora sul finire dell’epoca classica un concetto generale non esistesse e come a prevalere fosse ancora la visione parziale incentrata sui singoli genera legatorum. Del resto questa situazione corrispondeva allo sviluppo lento dell’istituto che solo col tempo aveva conosciuto un processo di avvicinamento tra i vari tipi progressivamente affermatisi. Quanto alle origini, il riconoscimento di valore giuridico al leOrigini e fondamento gato è certamente risalente, ma probabilmente non coevo a quello del testamento se si ammette che questo in origine poteva contenere solo la heredis institutio. Tuttavia già in epoca predecemvirale era stato riconosciuto, ad opera della giurisprudenza pontificale, un ampliamento della facoltà di disposizione del testatore che aveva portato ad ammettere che il testamento potesse contenere anche disposizioni particolari. Il fondamento dell’istituto fu però ritrovato dalla giurisprudenza successiva nel noto versetto delle XII Tavole uti legassit super pecunia tutelave suae rei, ita ius esto (“come avrà disposto a titolo particolare dei beni mo431 bili o della tutela dei suoi beni, così sia il diritto”) . Esso riconosceva al paterfamilias la possibilità di disporre a titolo particolare con effetto vincolante delle cose mobili facenti parte del suo patrimonio personale. Ciò conseguiva al noto principio per cui le dichiarazioni solenni rese nella mancipatio (e conseguentemente anche nella mancipatio familiae, forma arcaica di testamento) fuori dallo schema tipico dell’atto (leges mancipii) avevano il valore di legge (leges privatae) e dunque dovevano esser considerate come vincolanti da coloro che erano tenuti ad osservarle (onerati). Partendo da questi presupposti si pervenne a un sempre più ampio riconoscimento dell’istituto e a una progressiva articolazione di esso in figure distinte fino a pervenire ai quattro tipi conosciuti, ciascuno caratterizzato da forma ed effetti propri. L’ampio ricorso che se ne fece a partire dalla media Repubblica, mettendo però a rischio l’efficacia delle istituzioni di erede, sollecitò una sempre più stringente normazione volta a limitarne gli effetti e una sempre più attenta considera432 zione da parte di giuristi, pretore e legislazione imperiale . A seguito di questa paziente opera di riflessione e sistemazione il legato si presentava, già nella prima età classica, articolato secondo i quattro tipi indicati da Gaio: per vindicationem, per damnationem, sinendi modo e per praeceptionem.
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XII Tab. 5.3, richiamato in D. 50.16.120 (Pomp. 5 ad Q. Muc.) a fondamento di ogni disposizione testamentaria tanto a titolo universale che particolare, in Gai 2.224 come presupposto quanto meno di legati e manomissioni testamentarie; in Tit. ex corp. Ulp. 11.14 per la tutoris datio testamentaria. 432 Ciò risulta anche dall’ampiezza della trattazione dedicata ai legati (e insieme con loro ai fedecommessi) nel Digesto di Giustiniano, cui l’opera riservava sei libri (30-35), e nelle Istituzioni di Gaio, ove essi occupavano ben 54 paragrafi (2.192-245, mentre ai fedecommessi erano dedicati i paragrafi 2.246-289).
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Il legato per vindicationem, forse l’originaria forma riconosciuta Legato 433 434 dalle XII Tavole , era quello disposto con formule che espri- per vindicationem mevano, in maniera imperativa, la diretta trasmissione della proprietà di una cosa da parte del testatore al legatario o la costituzione di un diritto 435 reale a favore di questi (servitù e usufrutto o diritti affini) . Esso aveva quindi effetti reali, sicché il legatario acquistava immediatamente il diritto di proprietà o il diritto reale su cosa altrui disposto in suo favore e poteva senz’altro convenire in giudizio l’erede con la rei vindicatio (di qui la denominazione) o con la petitio ser436 vitutis o ususfructus , senza necessità di un atto traslativo (o costitutivo) da parte 437 dell’erede, e ciò non appena l’erede istituito avesse accettato l’eredità . Data la particolare natura del legato (immediatamente traslativo di proprietà o costitutivo di diritti reali) per la sua validità si richiedeva che il testatore fosse, al momento della redazione del testamento e in quello della morte, proprietario della cosa oggetto del legato (salvo che si fosse trattato di cose fungibili, per le quali era suffi438 ciente che fossero del testatore al momento della morte . Il legato per damnationem era invece legato a effetti obbligatori. Legato Doveva esser disposto con la formula: heres meus damnas esto (“il per damnationem mio erede sia tenuto”) seguita dall’indicazione del legatario e dell’oggetto della prestazione (es. Titio hominem Stichum dare, cioè “a dare a Tizio l’uomo Stico”; formule alternative erano: dato, facito o heredem meum dare iu439 beo) . Con esso il testatore imponeva all’erede l’obbligo di compiere una prestazione della più varia natura (dare, fare, non fare, in origine pagare una somma di 440 denaro) a favore del legatario . Ne nasceva un’obbligazione a carico dell’erede (a questo alludeva la formula damnas esto, da cui il legato derivava la sua denominazione) e a favore del legatario, in cui debitore era l’erede e creditore il legatario, 433
Tit. ex corp. Ulp. 19.17. La formula tipica utilizzata era: Titio fundum Cornelianum do lego (“do e lego a Tizio il fondo Corneliano”), ma ammesse come equivalenti erano anche le formule Titium sumito (“Tizo acquisti”) e sibi habeto (“abbia”) o capito (“prenda”) e per i diritti reali limitati: Titio ius utendi fruendi fundo Corneliano do lego (“do e lego a Tizio il diritto di usufrutto sul fondo Corneliano”). 435 Gai 2.193. 436 Gai 2.194. 437 Circa il tempo e il modo di acquisto del legato per vindicationem esisteva una controversia tra le due scuole dei Sabiniani e dei Proculiani: mentre i primi ritenevano avvenisse immediatamente all’atto dell’accettazione da parte dell’erede, anche a insaputa del legatario, salvo il diritto di costui di rifiutare il legato, i Proculiani ritenevano che il legatario acquistasse solo se volesse. L’imperatore Antonino Pio (138-161) adottò la soluzione dei Proculiani anche se, poi, non prevalente. Cfr. Gai 2.195 per il testo infra nt. 509. 438 Gai 2.196. 439 Gai 2.201. 440 Per la molteplicità dei suoi possibili contenuti teneva un posto simile a quello della stipulatio nell’ambito dei negozi inter vivos. Da Giustiniano venne poi ricompresa tra le obligationes quasi ex contractu (I. 3.27.5). 434
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sanzionata come ogni altra obbligazione con una actio in personam, analoga all’actio ex stipulatu, detta actio ex testamento, con intentio certa o incerta secondo il 441 contenuto del legato . Dall’originaria possibilità riconosciuta al legatario nel sistema delle legis actiones di agire per l’adempimento contro l’erede, in quanto considerato già damnatus, direttamente con la legis actio per manus iniectionem, derivava poi la soggezione dell’actio ex testamento alla regola della litiscrescenza per cui l’erede avrebbe potuto essere condannato in duplum se (in particolare in 442 caso di legato di res certa) avesse negato infondatamente . Per la sua natura obbligatoria poteva avere ad oggetto non solo cose del testatore ma anche dell’erede o di un terzo. In quest’ultimo caso l’erede era tenuto ad acquistare la cosa altrui per 443 trasferirla al legatario e, ove ciò non fosse stato possibile, a pagarne l’aestimatio . Pure il legato sinendi modo aveva effetti obbligatori. Si costituiLegato sinendi modo va mediante una formula simile a quella del legato per damnationem (tanto che è stato considerato una forma attenuata di quello) disposta secondo lo schema: heres meus damnas esto sinere (“il mio erede sia tenuto a permette444 re”; ma ammessa era anche la forma: sinito) . Anch’esso importava il nascere di un’obbligazione a carico dell’erede e a favore del legatario, ma questa, anziché consistere in un dare o in un facere, aveva ad oggetto solo un non facere (obbligazione negativa), ossia un permettere (sinere, da cui la sua denominazione) che il legatario facesse qualcosa, ad es. prendesse la cosa attribuitagli dal disponente. Potevano esser legate cose del testatore o dell’erede, purché in loro proprietà al mo445 mento della morte del testatore , non di un terzo, dato che l’erede nulla avrebbe avuto da permettere in relazione a queste. Il legato sinendi modo quindi da un lato aveva una sfera più ampia del legato per vindicationem, potendo riguardare anche una cosa dell’erede, dall’altro più ristretta di quello per damnationem in quanto ne 446 erano escluse cose di terzi . Alla parte iniziale della formula (sopra ricordata) che obbligava l’erede a un pati (sopportare), seguiva l’indicazione della prestazione imposta a favore del legatario e la formula nel suo complesso. In caso, ad es., che oggetto della prestazione fosse lo schiavo Stico risultava del seguente tenore: heres meus damnas esto sinere Lucium Titium (legatario) hominem Stichum sumere sibique habere (“il mio erede sia tenuto a permettere che Tizio prenda e tenga per sé lo schiavo Stico”). In conseguenza della presa di possesso il legatario avrebbe ac441
Gai 2.204. Gai 2.282; 4.9. 443 Gai 2.202; 2.203; 2.283: . 444 Gai 2.209. 445 Si ammise peraltro che potesse esser legata anche cosa divenuta dell’erede dopo la morte del testatore: Gai 2.211 e 212. Poteva esser oggetto di un legato sinendi modo anche il contenuto di un usufrutto o di una habitatio e comportare pertanto per l’erede l’obbligo di Titium sinere fundo uti frui o Titium sinere in illa domo habitare quoad vivet (D. 33.2.14, Cels. 18 dig.; D. 33.2.15, Ulp. 21 ad Sab. Secondo P.S. 3.6.11 poteva riguardare anche la liberazione da un debito). 446 Gai 2.210. 442
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quistato la proprietà se si fosse trattato di res nec mancipi, il possesso ad usucapionem se si fosse trattato di res mancipi (un fondo, uno schiavo, etc.). Si tenga presente che se, viceversa, il legato fosse stato disposto per damnationem, l’erede, tenuto a dare, avrebbe dovuto compiere l’atto traslativo idoneo (es. traditio o mancipatio). Ciò costituiva una rilevante differenza tra i due tipi di legato. In seno alla giurisprudenza classica tuttavia si affermò una decisa tendenza ad avvicinare le due figure (sinendi modo e per damnationem) ammettendo che l’erede dovesse, nell’ipotesi considerata, non solo permettere, ma altresì trasferire la proprietà della 447 cosa legata compiendo gli atti idonei allo scopo . La differenza tra i due tipi di legato si veniva in tal modo a dissolvere in quanto, obbligando l’erede a compiere gli atti idonei al trasferimento, anche l’obbligazione del legato sinendi modo si sarebbe trasformata da negativa in positiva (come quella del legato per damnationem). Al legatario era concessa un’actio in personam, l’actio ex testamento, con intentio incerta in quanto rivolta contro l’erede per costringerlo a permettere che il legatario potesse compiere l’azione prevista. Il legato per praeceptionem era un legato di proprietà, poteva Legato quindi avere ad oggetto solo cose del testatore. La formula relativa per praeceptionem richiedeva l’uso dell’imperativo praecipito, preceduta dal nome del legatario e dall’indicazione dell’oggetto legato, secondo lo schema: Titius heres fundum Cornelianum precipito (“l’erede Tizio prenda con preferenza il fondo Corneliano”). Poteva esser disposto dapprima solo a favore di un coerede (almeno 448 secondo l’orientamento seguito dai Sabiniani) , al quale la cosa o il diritto reale 449 oggetto del lascito sarebbe stato assegnato preventivamente (ossia prima della vera e propria divisione tra i coeredi della massa ereditaria) con deduzione dall’intera hereditas (praecipere significava infatti “prendere con diritto di precedenza”) ad opera dell’arbiter familiae erciscundae, che glielo avrebbe attribuito in for450 za di adiudicatio in sede di giudizio di divisione dell’eredità . L’oggetto del legato per praeceptionem – a differenza di quello del prelegato – si considerava sottratto all’eredità (in favore dell’erede legatario che lo cumulava alla propria quota) prima della divisione. Esso serviva dunque ad aggiungere un beneficio oltre la quota del coerede. Contro l’interpretazione che il legato per praeceptionem potesse essere stabilito solo in favore di un coerede i giuristi della scuola proculiana ritennero, tuttavia, che esso potesse disporsi anche a favore di persone diverse dagli 447
Gai 2.213 e 214. Per il caso di legato disgiunto della medesima cosa, cfr. Gai 2.215. Gai 2.216. 449 L’assegnare prima si giustificava in quanto altrimenti il bene avrebbe dovuto esser ripartito per quote fra i coeredi, mentre il testatore voleva che fosse interamente di uno solo di essi. Oggetto del legato poteva peraltro anche non essere un bene corporale con conseguente trasferimento della proprietà, Pomponio infatti ricorda come il legato potesse essere impiegato per liberare uno dei coeredi da un debito verso l’ereditando (quod mihi debet praecipito, ossia “ti assegno con precedenza ciò che mi devi”) o per attribuire a uno di essi un credito dell’ereditando verso un altro coerede (D. 10.2.42, Pomp. 6 ad Sab.). 450 Gai 2.219. 448
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eredi (cioè a favore di estranei) e in tal caso valesse come un comune legato per vindicationem, ritenendo superflua anche la sillaba prae facente parte della denominazione. La tesi proculiana trovò poi accoglimento in una costituzione di Adriano e in conseguenza il legato per praeceptionem subì un processo di unificazione 451 che lo portò a confondersi con quello per vindicationem . Questa tendenza verso il superamento delle distinzioni tra i diversi tipi di legato si accentuò nel corso dell’età classica. Ciascuno dei quattuor genera legatorum aveva origine, forma e regime giuridico diverso. E se il legato per vindicationem aveva un precedente storico nell’antichissimo istituto della donatio mortis causa (destinata a beneficare taluno dopo la morte del donante senza attribuire la qualità 452 di erede) tanto da essere definito donatio testamento relicta , il legatum per damnationem si riallacciava alla natura originaria di raccomandazione (rimessa alla fides del familiae emptor) delle disposizioni del testamentum per aes et libram e ne presupponeva la progressiva assunzione di carattere obbligatorio con il relativo vincolo per l’erede di eseguire le volontà del testatore. A questi fondamenti si connettevano anche le altre due forme di legato, ricollegandosi il legato sinendi modo alle stesse basi del legato per damnationem (entrambi produttivi di effetti obbligatori) e quello per praeceptionem al legato per vindicationem, adattato al fine della sua applicazione al coerede. Non esisteva dunque per i tipi fondamentali di legato (vindicationem e damnationem, cui si ricollegavano gli altri due) alcun rapporto di derivazione reciproca e non esisteva un concetto unitario di legato, ma singoli tipi originariamente e singolarmente riconosciuti come tali e ciascuno dotato di propri caratteri e regime giuridico. Questo però generava difficoltà e possibilità di errori, frequente Accostamento delle causa di invalidità, specie quando a disporre fossero testatori poco diverse figure di legato esperti di diritto. Sin dagli inizi dell’età classica cercò di intervenire in proposito la giurisprudenza, in via di interpretazione, procedendo all’accostamento delle quattro figure di legato. Così il legato per praeceptionem venne accostato a quello per vindicationem quando si ammise che potesse essere disposto anche a favore di estranei (inizialmente, come osservato, poteva essere stabilito solo a favore di eredi; entrambi i legati peraltro avevano effetti reali) e quello sinendi modo al legato per damnationem (ambedue produttivi di effetti obbligatori) quando si riconobbe che anche nel primo l’erede fosse tenuto al compimento dell’atto traslativo. Ma anche rispetto ai due tipi fondamentali (per vindicationem e per damnationem) si avviò un processo di avvicinaRepetito legati mento ricorrendo spesso il testatore, per evitare ogni possibile nullità derivante da vizi di forma, alla pratica della repetitio, ossia alla riproduzione dello stesso legato in altra forma (ovvero alla combinazione insieme delle formule del legato per vindicationem e di quelle del legato per damnationem, es: do lego he451 452
Gai 2.221. D. 31.36 (Mod. 3 pand.); I. 2.20.1.
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resque meus damnas esto dare) . Così ad es. Tizio, che avesse voluto lasciare un legato a Caio, usava a questo scopo la formula per vindicationem, ma ripeteva la stessa disposizione con quella del legato per damnationem: in questo modo non si avevano due legati, ma uno solo, o quello di proprietà o quello di obbligazione, e si raggiungeva tuttavia lo scopo di ottenere una disposizione comunque efficace, giacché se il legato non fosse stato valido come legato per vindicationem, per vizio di forma, sarebbe valso in ogni caso come legato per damnationem o viceversa. Questo processo di unificazione (già evidente nell’uso della re- Sc. Neronianum petitio) si accelerò a metà del I sec. d.C. per effetto del sc. Neronianum, emanato in data incerta sotto Nerone. In virtù di esso il legato iure civili invalido vitio verborum, perché disposto dal testatore con la formula di un tipo di cui non ricorrevano nella fattispecie i requisiti, doveva considerarsi come disposto con la formula idonea perché valesse (proinde ac si optimo iure relictum esset, cioè “come se fosse stato lasciato validamente”) e, in pratica, come se disposto nella forma del legato per damnationem, che era quella che, per i suoi caratteri ed effetti, era suscettibile di più larga applicazione. Così il legato di cosa altrui, invalido se disposto per vindicationem (perché poteva avere ad oggetto solo cose del testa454 tore), avrebbe dovuto considerarsi come fatto per damnationem e quindi valido . Si realizzava così un fenomeno di conversione negoziale (attuata ipso iure), stabilendo (legislativamente) che un legato nullo per vizi di forma si dovesse conside455 rare valido come corrispondente al tipo per cui poteva valere . Attraverso questa disposizione il senatoconsulto Neroniano determinava una rilevante valorizzazione della volontà del disponente in confronto alle parole usate, segnando una progressiva decadenza delle forme stabilite. La disposizione ormai era efficace non per la formula adoperata, ma per quello per cui poteva valere in relazione alla volontà del testatore e al contenuto del lascito. Il diritto postclassico proseguì su questa strada favorendo il Regime postclassico processo di unificazione. A seguito dell’abolizione delle forme so- e giustinianeo lenni decretata da Costanzo nel 339, la varietà dei genera legato456 rum venne a essere superata . Era ormai la natura del lascito e la volontà del testatore a decidere degli effetti della disposizione, ossia se questa avesse efficacia reale o meramente obbligatoria. Se il testatore avesse legato una cosa propria, il legatario ne avrebbe acquistato la proprietà, mentre avrebbe potuto vantare solo un credito verso l’erede se la cosa fosse stata di altri. 453
Cfr. FIRA, III, p. 133 ss.; per la repetitio: D. 5.2.13 (Scaev. 3 resp.); 34.3.28.2 (Scaev. 16 dig.); 32.95 (Maec. 2 fideic.) e per le combinazioni di formule: D. 33.7.12.43 (Ulp. 20 ad Sab.); 32.30.1 (Lab. 2 post. a Iavol. epit.); 34.3.31.4 (Scaev. 3 resp.); 31.66.5 (Papin. 17 quaest.). 454 Gai 2.197. Cfr. pure Gai 2.212 per cui supra nt. 446; Gai 2.218 in tema di legato per praeceptionem e Tit. ex corp. Ulp. 24.11a. 455 Si è peraltro supposto che dapprima in base al Sc. Neroniano il legatario potesse agire non con azione civile, ma con azione pretoria ficticia. 456 CI. 6.37.21, a. 339.
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La definitiva fusione dei vari tipi di legato si realizzò però con Giustiniano che, riaffermando il principio della libertà di forma stabilito da Costanzo, riconobbe che ogni legato avesse comunque efficacia obbligatoria, cui si potevano aggiungere effetti reali quando, nel caso di specie, ne ricorressero i presupposti (ossia se, ad es., la cosa appartenesse al testatore e questi non ne avesse escluso l’efficacia reale a favore del legatario). Di qui la possibilità del concorso alternativo tra actio in rem (vindicatio) e actio in personam (ex testamento) contro l’erede, cui si aggiunse la concessione di una ipoteca legale a favore del legatario sui beni eredi457 tari spettanti all’onerato a garanzia dell’adempimento del legato . Si perveniva così, a seguito di un lungo sviluppo storico, al concetto di legato come istituto unitario e ciò spiega come nel Digesto fossero cancellati – anche in conseguenza dell’ulteriore fusione tra legato e fedecommesso – i residui riferimenti classici ai vari tipi di legato. 24b. Soggetti In ordine al legato tre sono i soggetti che vengono in considerazione: il disponente; il legatario od onorato, che è colui che riceve il legato; l’onerato, che è colui a carico del quale il legato è posto. Disponente, in diritto classico, era solitamente il testatore, che Disponente doveva possedere la capacità di disporre per testamento (testamenti factio attiva). In diritto giustinianeo poteva essere anche il disponente un codicil458 lo come conseguenza dell’intervenuta equiparazione tra legati e fedecommessi e del fatto che questi ultimi potevano essere disposti fuori del testamento, in un codicillo appunto. Legatario od onorato era il beneficiario del lascito per il quale Legatario od onorato si richiedeva, come per l’erede istituito, la testamenti factio passi459 460 va (escluse erano in diritto classico le persone incertae e, in quanto assimilati, i 461 postumi e le corporazioni) . Nei confronti dell’onorato (legatario) trovavano ap457
I. 2.20.2. In questo caso il disponente non necessariamente era il testatore, come nel caso, ad es., di codicillo ab intestato. 459 I. 2.20.24: “Si può legare soltanto a coloro con i quali si ha testamenti factio”. Era pertanto nullo il legato in favore dello schiavo del proprio erede e quello a vantaggio dello schiavo proprio se nello stesso testamento non ne fosse stata disposta la manomissione. 460 Gai 2.238. 461 Cfr. Gai 2.242. Tali divieti furono poi progressivamente superati, per i postumi sui già in età repubblicana (una volta ammesso che essi potessero essere istituiti o diseredati; il divieto rimase per i postumi alieni: Gai 2.240); agli inizi dell’epoca classica per le civitates in base a una disposizione di Nerva, poi confermata da un senatoconsulto dei tempi di Adriano (Tit. ex corp. Ulp. 24.28) e per i collegia da un senatoconsulto dei tempi di Marco Aurelio (D. 34.5.20, Paul. 12 ad Plaut.), tanto che in età postclassica corporazioni, in specie religiose, e piae causae potevano sia essere istituite eredi che acquistare mediante legati. In generale per le personae incertae il divieto fu in parte abolito in età giustinianea (CI. 6.48.1, a. 528-529 e I. 2.20.27). 458
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plicazione le disposizioni delle leggi caducarie (lex Iulia et Papia) concernenti la capacitas e quelle di senatoconsulti e costituzioni imperiali comminanti l’indignitas. A rivestire la qualità di legatario non sempre era la persona indicata formalmente dal disponente, ma in taluni casi – designati come di legato indiretto – era piuttosto la persona a cui effettivo vantaggio andava l’attribuzione. Così, ad es., se il testatore legava a un esattore delle tasse (publicanus) quanto dovutogli da Tizio a titolo d’imposta, legatario non sarebbe stato il publicanus, formalmente indicato 462 come tale, ma Tizio a cui vantaggio andava in realtà la disposizione . Si potevano avere più collegatari nel caso in cui il legato fosse stato disposto a favore di più persone; ciascuno di essi avrebbe acquistato la contitolarità di quanto legato e così in caso di legato per vindicationem di cose corporali sarebbe dive463 nuto comproprietario e viceversa concreditore in caso di legato per damnationem . Ove però il legato fosse stato disposto alternativamente a favore di più persone (es. si Titio aut Seio, utri heres vellet, legatum relictum est) non si sarebbero avuti più 464 collegatari, ma uno solo avrebbe avuto l’intera prestazione . Giustiniano stabilì però che tutti avessero diritto in parti uguali alla prestazione come se nel legato 465 fosse stato scritto et invece di aut . Il legato avrebbe potuto anche essere disposto a 466 favore di un coerede e allora si sarebbe avuto un prelegato ; non era escluso nep467 pure che il disponente nominasse un sostituto al legatario . Onerato del legato era l’erede, nei limiti però dell’attivo eredi- Onerato 468 tario (e in ogni caso fatta salva la quota a lui riservata ex lege Falcidia). In caso di più eredi il legato poteva essere posto a carico di uno solo o di alcuni di essi e in ogni caso chi ne fosse stato onerato non ne avrebbe risposto oltre i limiti della sua quota (avrebbe avuto natura di obbligazione parziaria quella 469 posta a carico di più eredi onerati del medesimo legato per damnationem) . Ove i legati avessero ecceduto quel limite (della quota assegnata o intaccato la quota 462
D. 32.11.22 (Ulp. 2 fideic.). In relazione al legato per damnationem inoltre bisognava distinguere a seconda che lo stesso oggetto fosse stato legato a più persone coniunctim o disiunctim: nella prima ipotesi ciascun legatario sarebbe divenuto concreditore di una quota (obbligazione parziaria), nel secondo avrebbe avuto diritto all’intero (secondo i principi dell’obbligazione solidale cumulativa attiva). 464 D. 31.16 (Cels. 16 dig.). 465 CI. 6.38.4, a. 531. 466 Il termine praelegatum non si ritrova nelle fonti che peraltro parlano di praelegare. Cfr. in proposito: D. 33.8.10 (Pomp. 7 ad Sab.); 30.17.2 (Ulp. 15 ad Sab.) e 18 (Iul. 31 dig.) e D. 30.34.11 (Ulp. 21 ad Sab.). Sull’istituto e sui rapporti con il legato per praeceptionem cfr. infra p.190. 467 D. 31.50 pr. (Marcell. 28 dig.): “Come agli eredi si può nominare un sostituto così (lo si può fare) anche per i legatari”. 468 D. 35.2.11.5 (Papin. 29 quaest.): “… in base a nessun testamento si è tenuti ad eseguire oltre l’attivo ereditario …”. Cfr. pure D. 35.3.1.12 Ulp. 79 ad ed.) e D. 39.6.17 (Iul. 18 dig.). Dunque prima occorreva soddisfare i creditori e poi, nei limiti dell’attivo residuo, i legatari. 469 D. 30.124 (Nerat. 5 membr.). Non si sarebbe trattato di obbligazione parziaria in caso di obbligazione indivisibile e di legato posto a carico di più eredi alternativamente. 463
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riservata) sarebbero stati ridotti proporzionalmente e sarebbero stati del tutto nulli in caso di hereditas damnosa. Questo evidenzia come il legato costituisse in sé un peso, una diminuzione a 470 carico dell’onerato che subiva una menomazione in conseguenza di esso . Questa poteva consistere nell’obbligo di eseguire la prestazione richiesta in caso di legato di obbligazione, nel sopportare la menomazione disposta in caso di legato di proprietà o costitutivo di diritto reale. Il peso o l’onere in cui si concretava il legato fu però gradatamente considerato non come gravante su un soggetto determinato, ma come posto a carico dell’eredità in quanto tale. Ciò comportò, a partire dall’età dei Severi, che l’onere del legato, anche se imposto personalmente all’erede istituito, potesse passare al sostituto, in caso quello non venisse alla successio471 ne ; analogamente in caso di lascito caduco o sottratto all’indegno, i legati a carico della quota non acquistata vennero a gravare su chi avesse diritto a conseguir472 la o in ultima analisi sul fisco (come pure i lasciti rimasti vacanti) e così pure in caso di accrescimento furono addossati al coerede che si fosse giovato dello ius 473 adcrescendi (le quote si acquistavano cioè cum onere suo). Alla fine dello sviluppo, in diritto giustinianeo, a seguito della fusione tra legato e fedecommesso, la cerchia degli onerati si allarga e a poter essere gravati sono ormai tanto l’erede testamentario come quello legittimo (in conseguenza della possibilità di disporre del legato anche in un codicillo – ab intestato – come avveniva per il fedecommesso, cui oramai il legato era equiparato), nonché lo stesso 474 legatario (sublegato) e in genere chiunque acquisti mortis causa . 24c. Oggetto L’oggetto del legato poteva essere il più vario: poteva consistere in qualsiasi entità patrimoniale, corporale o incorporale, semplice o complessa; poteva essere 475 una cosa presente o futura (era valido il legato per damnationem di cosa futura) , 470
A sottolineare questo aspetto le fonti usavano l’espressione legare ab seguita dall’indicazione dell’onerato. 471 D. 30.74 (Ulp. 4 disp.). In precedenza, nella stessa situazione (come in quella di accrescimento), il lascito si estingueva. 472 Per i lasciti caduchi cfr. Tit. ex corp. Ulp.17.3; per quelli spettanti all’indegno D. 30.50.2 (Ulp. 24 ad Sab.) e per quelli vacanti D. 30.96.1 (Iul. 39 dig.). In forza di clausole edittali gravavano sull’erede istituito, che anziché adire ex testamento avesse accettato ab intestato, legati, fedecommessi o manomissioni disposti a suo carico (forse mediante la concessione di azioni fittizie: in proposito cfr. i brani in D. 29.4) e analogamente era tenuto ad adempiere i legati disposti in favore di ascendenti e discendenti l’emancipato preterito che avesse ottenuto la bonorum possessio contra tabulas (D. 37.4). 473 Ciò in forza di un rescritto di Settimio Severo per cui cfr. D. 31.29.1 (Cels. 36 dig.); D. 31.61.1 (Ulp. 18 ad l. Iul. et Pap.). 474 In diritto giustinianeo erano validi anche i legati da attuarsi dopo la morte dell’erede onerato in precedenza considerati nulli (Cfr. Gai 2.232). 475 I. 2.20.7.
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propria o altrui, purché non extra commercium né già in proprietà del legata477 rio . Poteva concretarsi nella creazione di diritti a favore del legatario (sia reali che di credito) oppure nella modificazione (trasferimento di proprietà o diritti di 478 credito) o estinzione di quelli esistenti . In ogni caso requisiti e contenuti dovevano essere quelli richiesti per il tipo di legato posto in essere. Così l’oggetto dei legati con effetti reali (per vindicationem e per praeceptionem) doveva essere determinato o determinabile e le prestazioni dovute nel legato per damnationem consistere in un dare o in un facere e avere quei caratteri di liceità, possibilità, determinatezza e determinabilità propri di ogni prestazione oggetto di obligatio. In rapporto all’oggetto si vennero a delineare talune figure particolari. Il legato di cosa altrui, cui si è in precedenza accennato, poteva Legato di cosa altrui avere ad oggetto la cosa di un terzo o dell’onerato. Nel primo caso il legato era valido se il disponente sapeva che la cosa era del terzo, altrimenti sa479 rebbe stato nullo a meno che disposto a favore dei più stretti congiunti del te480 statore . Per darvi esecuzione l’onerato avrebbe dovuto acquistare la cosa del terzo e consegnarla a legatario; poteva però liberarsi, ove lo preferisse, anche pagan481 do l’aestimatio, cioè il valore oggettivo del bene . Se la cosa era dell’onerato il legato era sempre valido, anche se il disponente riteneva essere propria la cosa che 482 in realtà apparteneva all’onerato . Poteva essere oggetto del legato una res determinata solo nel Legato di genere genere, come derrate, denaro o altro e allora la scelta delle cose comprese nel genus sarebbe spettata al legatario, se si fosse trattato di legato per vindicationem, sarebbe spettata all’onerato, se il legato fosse stato per damnationem. Legato alternativo era, invece, quello che aveva ad oggetto due Legato alternativo o più cose, delle quali una sola era sufficiente per l’esecuzione. Anche in questo caso peraltro la scelta spettava al legatario, se il legato era per vindi483 484 cationem , all’onerato se il legato era per damnationem . Figura distinta, anche se apparentemente assimilabile a quelle Legatum optionis precedenti (legato di genere e legato alternativo) era quella del legatum optionis. Questa fattispecie era ricondotta dalla giurisprudenza classica al
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I. 2.20.4. I. 2.20.10. 478 Era nullo il legato poenae nomine coercendi heredis causa: cfr. Gai 2.235. 479 Cfr. Gai 2.202 e I. 2.20.4 supra nt. 444 e 477. 480 CI. 6.37.10, a. 227. 481 Gai 2.262. 482 D. 31.67.8 (Papin. 19 quaest.). 483 D. 31.19 (Cels. 36 dig.). Se il legatario però fosse morto prima di operare la scelta questa sarebbe passata agli eredi. 484 Giustiniano dispose che la scelta dovesse spettare al legatario in ogni caso, salvo disposizione contraria del testatore: cfr. I. 2.20.22. 477
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tipo del legato per vindicationem . Oggetto di esso era la scelta (optio) fra più cose, tutte appartenenti al testatore – in diritto classico solo schiavi – affidata di norma al legatario (salvo che il testatore l’avesse rimessa a un terzo) secondo la formula: optionem do lego. Ed era appunto il fatto che oggetto del legato fosse la scelta stessa che costituiva la peculiarità di esso e lo distingueva in particolare da quello alternativo con facoltà di scelta al legatario, che aveva invece ad oggetto cose o prestazioni in quanto tali e non la scelta in sé. Questa doveva essere effettuata 486 con pronunzia solenne, rientrante tra gli actus legitimi , e aveva valore acquisitivo (della proprietà dell’oggetto su cui la scelta era caduta, così come avveniva per la cretio), e non di semplice manifestazione di volontà, come la scelta nel legato alternativo. La optio era irretrattabile, intrasmissibile agli eredi (si estingueva se il legatario fosse morto prima di aver fatto la scelta) e poteva farsi solo dopo 487 l’accettazione dell’eredità . Il pretore, analogamente che per l’accettazione, poteva fissare un termine entro cui il legatario doveva operare la scelta con la conseguenza che, se questo fosse trascorso inutilmente, l’onerato (di norma l’erede) avrebbe ripreso la facoltà di disporre delle cose su cui poteva esercitarsi l’optio che si sarebbe, in conseguenza, concentrata solo su quelle residue. Al di fuori di questa ipotesi ogni atto di disposizione compiuto dall’erede sulle cose oggetto di pos488 sibile scelta era considerato come non effettuato . In ogni caso per consentire l’esercizio dell’optio da parte del legatario che ne fosse impedito gli era data una actio ad exhibendum con cui ottenere l’esibizione in iure delle cose su cui la scelta avreb489 be dovuto operarsi . Il legatum optionis subì una profonda riforma in età giustinianea, orientata ad eliminarne ogni peculiarità assimilandolo al legato alternativo di scelta attribuita al legatario. In conseguenza venne, tra l’altro, ammessa la trasmissibilità agli eredi della facoltà di opzione (come in qualsiasi legato alternativo o di genere) ed eliminate le limitazioni operanti in epoca classica quanto all’oggetto (solo schiavi del testatore) che poteva ormai appartenere a qualunque ge490 nere . Figura particolare di legato era anche quella del legatum partiLegatum partitionis tionis che la giurisprudenza classica ricollegava, come specie, al legatum per damnationem. Aveva ad oggetto una quota di eredità ed era disposto 491 secondo la formula: heres meus cum Titio hereditatem meam partitor . In conseguenza l’erede era tenuto a dividere l’eredità con il legatario nella misura fissata. Quest’ultimo rimaneva tuttavia legatario nonostante in realtà acquistasse una quota di 485
Tit. ex corp. Ulp. 24.14; cfr. pure il titolo D. 33.5. D. 50.17.77 (Papin. 28 quaest.). 487 D. 33.5.16 (Ter. Clem. 15 ad l. Iul. et Pap.). Cfr. pure I. 2.20.23. 488 D. 40.9.3 (Gai. 2 de leg. ad ed. urb.). 489 D. 10.4.3.6 (Ulp. 24 ad ed.). Così pure D. 10.4.3.10 (Ulp. 24 ad ed.). 490 CI. 6.43.3, a. 531. 491 Tit. ex corp. Ulp. 24.25. 486
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eredità. Proprio per questo si è supposto che il legatum partitionis fosse stato introdotto per aggirare la disposizione della lex Voconia, che vietava ai possessori di patrimoni di 100.000 assi o più (iscritti nella prima classe dei comizi centuriati) di istituire donne quali eredi. In quanto produttivo di effetti obbligatori, l’erede era tenuto a trasferire al legatario quote (di proprietà) dei beni ereditari nella misura voluta dal disponente. Quanto ai crediti e ai debiti ereditari, questi andavano all’erede, secondo le regole della successione ereditaria, ed erano intrasmissibili, onde, perché passasse al legatario anche una quota di questi (in adempimento del legato, che era un legato di quota di eredità), si procedeva mediante reciproche stipulationes tra erede e legatario, chiamate partes et pro parte, con cui da un lato il legatario prometteva di indennizzare l’erede, nella misura della quota fissata, per i debiti ereditari che questi avesse dovuto pagare e dall’altra l’erede si impegnava a trasferire al le492 gatario quanto dei crediti riscossi corrispondesse alla quota legata (data però la macchinosità del sistema i sabiniani avanzarono la tesi che il legatario potesse ot493 tenere solo la stima in denaro della quota attribuitagli ). Il legatum partitionis, che già in età classica aveva scarsa utilizzazione data la possibilità di avvalersi, con risultati equivalenti, del più comodo fedecommesso universale, conobbe ancor più limitata applicazione in diritto giustinianeo, assorbito proprio dal fedecommesso. Accanto a quelle finora considerate, altre figure di legato si aggiungevano in considerazione della molteplicità dei contenuti (aventi ad oggetto anche cose incorporali) che ne potevano formare oggetto. Così poteva aversi legato di un credi494 to che il testatore avesse verso un terzo (legatum nominis) . Era Legatum nominis disposto nelle forme del legatum per damnationem e importava per l’erede l’obbligo di cedere il credito al legatario, avvalendosi dei mezzi usuali di 495 trasmissione delle obbligazioni . Per agevolare il legatario nella riscossione del credito una costituzione di Diocleziano concesse a questi un’actio utilis nei con496 fronti del debitore . Tuttavia, se il credito fosse stato inesigibile, il legato sarebbe stato inefficace. Distinto da questo era poi il legato di cosa dovuta al testatore – legatum rei debitae – , perché oggetto del legato non era il credito, ma la stessa cosa. In età avanzata esso fu però equiparato al legato di credito, con la conseguenza che era inefficace quando la cosa non fosse dovuta. Oggetto di legato poteva anche essere l’estinzione di un debito Legatum liberationis che il legatario avesse verso il testatore. Si aveva in tal caso legatum liberationis che si riconduceva al legatum per damnationem, imponendo all’onerato di non esigere il credito (il debitore-legatario avrebbe potuto difendersi, se del 492
Tit. ex corp. Ulp. 25.15. Cfr. pure Gai 2.254. D. 30.26.2 (Pomp. 5 ad Sab.). 494 I. 2.20.21. 495 D. 30.105 (Iul. 1 ex Min.). 496 CI. 6.37.18, a. 294. 493
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caso, con exceptio doli), ovvero obbligandolo a compiere l’atto che importava estin497 zione del debito (acceptilatio o pactum de non petendo) . Il testatore poteva pure legare, per damnationem, un proprio Legatum rei debitae debito verso il legatario (legatum debiti). Il legatario avrebbe avuto in sostanza lo stesso credito che vantava già in precedenza verso il defunto. Siccome però una seconda obbligazione di identico contenuto tra le stesse persone era da considerarsi inutile, il legato sarebbe stato valido solo se avesse importato per il legatario un vantaggio rispetto alla sua precedente posizione creditizia (ad 498 es. se nel legato fosse caduta la condizione presente nel credito originario . Si attuava così una sorta di novazione in quanto alla precedente obbligazione tra de499 funto e legatario se ne sostituiva una nuova tra erede e legatario . Oggetto di legato poteva anche essere la restituzione da parte del marito della dote dovuta alla moglie. Si realizzava in tal modo una sorta di legatum debiti 500 avente ad oggetto il credito di restituzione della dote . Solo che, Legatum dotis comportando il legatum dotis una tutela più vantaggiosa (actio ex testamento) rispetto all’ordinaria actio rei uxoriae (non sarebbero state opponibili le retentiones previste per questa), non si sarebbe posto per esso, a differenza di 501 quanto visto per il legatum debiti, alcun problema di validità . Poteva peraltro essere disposto per damnationem anche un vero e proprio legato di costituzione di dote (anch’esso denominato legatum dotis). La costituzione avrebbe avuto luogo in favore del marito (legatario) anche se alcuni giuristi riconobbero direttamente 502 alla moglie l’actio ex testamento, considerandola effettiva beneficiaria . Si ricordi tuttavia come fossero nulli i legati destinati ad avere attuazione post 503 mortem heredis (non più però con Giustiniano) e quelli disposti poenae nomine 504 coercendi heredis causa . 24d. Acquisto Dies cedens e dies veniens
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Circa l’acquisto del legato si distinguevano due momenti: quello della morte del testatore (dies cedens, spostato dalla lex Iulia et 505 Papia o da senatoconsulti successivi all’apertura del testamento
D. 34.3.8 pr. (Pomp. 6 ad Sab.) e D. 34.3.3.3 (Ulp. 23 ad Sab.). D. 34.3.11 (Iul. 33 dig.). 499 I. 2.20.14. 500 Il legatum dotis poteva esser disposto anche con effetti reali nelle forme del legatum per praeceptionem (cfr. D. 33.4, Afric. 5 quaest. per l’uso delle espressioni praelegare dotem o relegare dotem). 501 Tra le due azioni un intervento pretorio, mediante l’editto de alterutro, dispose un concorso alternativo (l’editto fu abolito da Giustiniano con CI. 5.13.1.3a, del 530). 502 D. 23.3.48.1 (Iul. 2 ad Urs. Fer.) e D. 30.69.2 (Gai. 2 de leg. ad ed. praet.); D. 35.1.71.3 (Papin. 17 quaest.). 503 Gai 2.232, cfr. supra nt. 475. 504 Gai 2.235, cfr. supra nt. 479. 505 Tit. ex corp. Ulp. 24.31 498
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e riportato da Giustiniano alla precedente scadenza temporale ), e quello dell’accettazione da parte dell’erede (dies veniens). La motivazione di questa distinzione risiedeva in una ragione pratica: il legato si acquistava, secondo il ius civile, come qualsiasi altra disposizione testamentaria, con l’accettazione dell’eredità da parte dell’erede (voluntarius; il problema non si poneva per l’heres necessarius dato che, acquistando questo necessariamente e immediatamente alla morte del testatore, il legato sarebbe stato comunque efficace). Ora se questa tardava a intervenire o non poteva aver luogo per pendenza di una condizione apposta alla istituzione, il legatario, impedito all’acquisto del legato, ove fosse defunto (dopo la morte dell’ereditando, ma prima dell’accettazione dell’heres voluntarius), nulla avrebbe potuto trasmettere ai propri eredi (data la generale intrasmissibilità delle situazioni di mera aspettativa vista già in tema di delazione). Per ovviare a questo inconveniente la giurisprudenza fin dall’età repubblicana aveva però escogitato un efficace espediente: il diritto (al legato), pur non ancora acquistato, si fissava in capo al le507 gatario a partire dal dies cedens , con la conseguenza che esso sarebbe stato trasmissibile agli eredi del legatario se questi fosse morto prima che l’eredità fosse accettata, l’acquisto però diventava effettivo e il diritto al legato poteva esercitarsi (divenendo esigibile) da parte del legatario o del suo erede dal dies veniens, ossia dall’accettazione dell’eredità (o dall’avverarsi della condizione o dal sopraggiungere del termine per i legati sotto condizione o termine). Dal momento in cui il dies cedit, dunque, il legato era certamente attribuito al legatario, onde se egli fosse morto prima del dies veniens si sarebbe trasmesso ai suoi eredi, ma questa situazione non determinava un acquisto definitivo e poteva cadere con la mancata accettazione. Solo dal momento in cui questa fosse intervenuta il legatario, o il suo erede, diventava effettivo titolare del diritto trasmesso e poteva farlo valere con le azioni relative. In ordine poi alla necessità di una manifestazione di volontà Acquisto ipso iure del legatario per l’acquisto del legato si è visto in precedenza come prevalse la tesi che tanto per il legato per vindicationem come per quello per dam506
CI. 6.51.1.1c, a. 534. Ovvero in capo all’avente potestà su di lui, se il legatario era alieni iuris: D. 36.2.5.7 (Ulp. 20 ad Sab.). Si osservi però che in ipotesi di legato sospensivamente condizionato (dato che per principio i rapporti sotto condizione dipendenti da negozi mortis causa non si trasmettevano agli eredi in pendenza di questa) il dies cedens avrebbe coinciso con l’avverarsi della condizione (D. 36.2.5.2, Ulp. 20 ad Sab.); analogamente in caso di termine dies cedebat con la scadenza del termine. In caso poi di legato di usufrutto (o diritto affine), poiché tale diritto non era trasmissibile agli eredi, il dies cedens era lasciato decorrere dal momento dell’acquisto ereditario (D. 7.3.1.2, Ulp. 17 ad Sab. e V.F. 60); quanto al legatum optionis, dato che questo presupponeva una scelta personale e intrasmissibile, il dies cedens era fatto coincidere con il giorno dell’avvenuta scelta (I. 2.20.23). Nel caso poi di legato al servo manomesso nel testamento o legato per vindicationem ad altri il dies cedens coincideva con quello dell’adizione dell’erede, dato che da questo momento egli sarebbe stato libero e avrebbe potuto acquistare o sarebbe divenuto del terzo e questi acquistare quanto a lui devoluto. 507
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nationem l’acquisto avvenisse ipso iure con l’acquisto ereditario da parte del509 l’erede , salvo possibilità di ripudio (con effetto retroattivo) da parte del legatario. In caso però di legato (sia a effetti reali che obbligatori) sottoposto a condizione, l’acquisto sarebbe avvenuto all’avverarsi di questa; ove però si fosse trattato di legato per vindicationem, pendente condicione secondo i sabiniani, la cui tesi prevalse, la cosa sarebbe stata dell’erede, per i proculiani avrebbe dovuto conside510 rarsi res nullius . Quanto poi all’apposizione di un termine, il legato per vindicationem si acquistava al legatario allo scadere di questo; quello per damnationem nel momento dell’acquisto ereditario ma con esigibilità rinviata alla scadenza del 511 termine (dies veniens) . Una volta divenuto efficace il legato produceva gli effetti suoi Effetti propri che potevano essere, a seconda del tipo posto in essere, reali od obbligatori ed il legatario avrebbe avuto a disposizione, secondo i casi, l’actio in rem o l’actio in personam per far valere il suo diritto (in diritto giustinianeo questa diversità di effetti discendeva non più dal tipo di legato o dalla formula adoperata, ma dalla volontà del disponente e dalla natura della disposizione). Oltre a utilizzare le azioni messegli a disposizione, il legatario, per far valere il suo diritto, non poteva però immettersi direttamente nel possesso della cosa legata, diversamente l’erede avrebbe potuto chiedere contro di lui l’interdetto restitutorio quod legatorum (rimedio concesso in origine al bonorum possessor, cui il legatario non 512 avrebbe potuto sottrarre il possesso, e in età classica o dopo esteso all’erede) . Quanto alla responsabilità dell’onerato per l’adempimento del legato, questo 513 in origine rispondeva solo per dolo , ma ben presto anche per colpa o negligen514 za . Come criterio per determinare il grado di responsabilità pare si facesse ri515 corso a quello della utilitas , ossia si valutava se l’onerato avesse ricevuto o no un beneficio dal testamento: nel primo caso avrebbe risposto per dolo e colpa, nel secondo solo per dolo. 24e. Elementi accidentali Anche al legato, come visto, poteva essere apposta una condizione, un termine o un modo. Se il legato era sotto condizione o a termine, il pretore imponeva 508
Così, con riferimento al legato per vindicationem, i sabiniani, la cui tesi prevalse in età classica avanzata, nonostante fosse avversata dai proculiani, e fu poi seguita da Giustiniano. Cfr. Gai 2.195. 509 Nel primo caso (legato per vindicationem) il legatario avrebbe acquistato il diritto reale trasmesso, nel secondo il diritto di credito. 510 Gai 2.200. 511 D. 36.3.9 (Paul. 12 ad Sab.). 512 D. 43.3.1.1-2 (Ulp. 67 ad ed.); cfr. pure CI. 8.3. 513 D. 30.53.9 (Ulp. 25 ad Sab.). 514 D. 30.47 (Ulp. 22 ad Sab.). 515 Per lo meno in età giustinianea.
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all’onerato di prestare al legatario , a garanzia del suo diritto (e contro i rischi di 517 insolvenza), una cautio legatorum servandorum causa e, in caso di rifiuto, immetteva il legatario nel possesso dei beni ereditari a scopo di garanzia (missio in 518 possessionem) . Quanto all’efficacia di condizioni risolutive e termini finali apposte a legati, questa, forse riconosciuta in età classica iure praetorio (concedendo all’onerato possibilità di opporre exceptio doli all’azione del legatario), venne san519 cita legislativamente da Giustiniano . Una particolare specie di legato sotto condizione sospensiva era poi configurata dalla disposizione con la quale il testatore, dopo aver legato una res in favore di taluno, legava la stessa cosa ad altri per il caso che quello non l’avesse acquistata: questa ipotesi realizzava in pratica una 520 sorta di sostituzione volgare in materia di legati . 24f. Azioni e garanzie spettanti al legatario Si è visto come in età classica le azioni spettanti al legatario va- Regime classico riassero secondo il tipo di legato. In particolare si ricorda come dal legato per vindicationem sorgesse a favore del legatario un’azione reale con cui, in caso di legato di proprietà, egli avrebbe ottenuto, oltre la cosa, i frutti dal mo521 mento dell’adizione dell’eredità . Nel legato per damnationem spettava invece al legatario contro l’erede inadempiente l’actio ex testamento, certi, se il legato era di cosa determinata, incerti se il legato era di un incertum e la prima in duplum se il 522 convenuto avesse negato infondatamente il diritto dell’attore (infitiatio) . Pure per il legato sinendi modo soccorreva l’actio ex testamento (che però non era mai in 523 duplum in quanto sempre incerta) . L’azione, infine, per far valere il legato per 524 praeceptionem era l’actio familiae erciscundae . Nel diritto giustinianeo, avvenuta l’unificazione di regime tra i Disciplina vari tipi di legato, rimase la distinzione tra actio in rem e actio in giustinianea personam, ma questa, come già sottolineato, non dipese più dalle diverse forme dei legati e dalle parole usate dal de cuius, ma dalla volontà del disponente e dal tenore delle disposizioni. A tutela dei diritti del legatario erano previste inoltre particolari forme di garanzia. Così, a parte quelle disposte per i legati sotto condizione o termine (cautio legatorum servandorum causa ed eventuale missio in possessionem delle cose eredita516
In particolare in caso di legato per damnationem. D. 36.3.1 pr. e 1 (Ulp. 79 ad ed.). 518 D. 36.3.2 e D. 36.4.5 pr. (Ulp. 52 ad ed.) 519 CI. 6.37.26, a. 532 in tema di termine finale, ma sicuramente estensibile al caso di condizione risolutiva. 520 D. 31.50 pr. (Marcell. 28 dig.). 521 Gai 2.194 cfr. supra nt. 437. 522 Gai 2.204; 2.282 e 4.9 per il caso di infitiatio; cfr. supra nt. 442 e 443. 523 Gai 2.213 cfr. supra nt. 448. 524 Gai 2.219 cfr. supra nt. 451. 517
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rie), un provvedimento di Caracalla concesse al legatario rimasto insoddisfatto, entro sei mesi dalla citazione in giudizio dell’onerato, una speciale Missio antoniniana immissione nel possesso dei beni dell’erede (missio antoniniana) 525 con la facoltà di soddisfarsi con la percezione dei frutti di essi . Giustiniano poi vietò all’erede la vendita e l’ipoteca della cosa legata, escludendo anche l’usucapio526 ne e introdusse, a garanzia del legatario, un’ipoteca legale sui beni che all’onera527 to fossero pervenuti dal testatore . 24g. Accrescimento Anche nell’ambito dei legati poteva aver luogo accrescimento. Perché si verificasse occorreva che il de cuius avesse legato a più legatari il medesimo oggetto e uno di essi fosse incapace o rinunziasse. Non si applicava una disciplina unitaria, ma le regole erano diverse in considerazione dei diversi tipi di legato e a seconda che il legato fosse stato disposto coniunctim (con unica proposizione: Titio et Seio hominem Stichum do lego) o disiunctim (con proposizioni distinte: Titio hominem do lego; Seio eundem hominem do lego). Se il legato era per vindicationem (o per praeceptionem) e fosse Legatum stato legato senza attribuzione di quote il medesimo oggetto a più per vindicationem collegatari con unica disposizione (coniunctim) o, secondo la giurisprudenza classica avanzata, anche con disposizioni distinte (disiunctim), in caso per una qualsiasi ragione uno di questi non avesse acquistato, la quota o parte vacante si sarebbe accresciuta ipso iure, in parti uguali, ai collegatari che non avesse528 ro ripudiato . Qualora invece il legato fosse stato per damnationem (o sinendi Legatum modo) non avrebbe avuto luogo accrescimento: se infatti disposto per damnationem coniunctim a favore di più collegatari l’obbligazione si sarebbe frazionata in tante parti quanti erano i legatari (damnatio partes facit), sarebbero cioè sorte tante obbligazioni parziarie (come se si avessero tanti legati distinti aventi ciascuno ad oggetto una quota) e mancando uno dei collegatari l’onerato semplicemente non avrebbe pagato la quota e questa sarebbe rimasta nell’eredità (in hereditate remanet); se invece fosse stato disposto disiunctim, sarebbe sorta un’obbligazione cumulativa, cioè si sarebbe dovuto corrispondere il tutto a ciascuno, ma, trattandosi del medesimo oggetto, a uno sarebbe spettata la cosa all’altro l’aestimatio, con la conseguenza che se fosse mancato uno dei legatari la cosa si sarebbe dovuta corrispondere al legatario rimasto, mentre l’erede non avrebbe pagato l’aestimatio (ma anche in questo caso non si sarebbe verificato accrescimento per525
D. 36.4.5.16 (Ulp. 52 ad ed.). CI. 6.43.3.2a e 4, a. 531. 527 I. 2.20.2 e CI. 6.43.1, a.529. Cfr. supra nt. 458. 528 Gai 2.199. Cfr. pure D. 32.89 (Paul. 6 ad leg. Iul. et Pap.). 526
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ché il legatario rimasto avrebbe acquistato la stessa cosa che gli sarebbe spettata 529 anche in presenza del collegatario) . A questo regime apportò deroga la legislazione caducaria augu- Leggi caducarie stea, che intervenne in materia di legati come era intervenuta nel campo dell’eredità. Per essa venne modificato il regime ordinario dell’accrescimento (in conseguenza dei requisiti di capacitas da essa fissati anche per il legata530 rio) per cui la quota non acquistata dal collegatario coniunctus incapax doveva esser devoluta, nell’ordine, al collegatario coniunctus qui liberos habet, agli heredes 531 liberos habentes, ai legatarii liberos habentes, infine allo Stato . Con Giustiniano il regime così disposto venne però nuovamente Disciplina 532 riconsiderato nel senso di un ritorno all’antico sistema . L’impe- giustinianea ratore infatti abolì le disposizioni di quelle leggi stabilendo che, scomparsi ormai i tipi di legato, l’accrescimento fosse sempre possibile per qual533 siasi legato, tanto se la cosa fosse stata legata coniunctim che disiunctim . 24h. Limitazioni e riduzioni dei legati È noto come in età repubblicana l’uso di disporre legati nel proprio testamento con una certa ampiezza avesse trovato particolare favore, cosicché il testatore poteva giungere ad esaurire, prevedendoli, tutto il suo patrimonio, lasciando all’ere534 de niente più che il nudum nomen heredis . Agli inizi del II sec. a.C. si cominciò pertanto a sentire l’esigenza di limitare questa pratica per arginare i gravi inconvenienti che ne sarebbero potuti derivare: da un lato infatti l’erede che, per rispetto alla volontà del testatore, avesse accettato l’eredità oberata di legati non solo avrebbe potuto non acquistare nulla, ma avrebbe assunto in proprio la responsabilità per i debiti ereditari; dall’altro, se non avesse accettato, avrebbe reso inefficaci i legati stessi e, inoltre, avrebbe fatto aprire la successione ab intestato contro la volontà del testatore. Certo, in questa situazione, doveva apparire opportuno al testatore, per evitare che cadessero i legati, lasciare qualcosa all’erede onde spingerlo ad accettare, ma nessuna necessità giuridica lo costringeva a ciò, restando assoluta la libertà di disporre. Per circoscrivere questa facoltà intervennero varie leggi comiziali limitatrici delle disposizioni attributive di legati, allo scopo di evitare la caduta del testamento per effetto della rinunzia dell’erede. Le prime leggi in proposito (lex Furia e lex Voconia) avevano però un obiettivo limitato. Ricollegandosi alla legislazione repressiva del lusso, miravano soltanto a proibire i legati di ammontare eccessivo piuttosto che ad assicurare all’erede una quota del patrimonio eredita529
Gai 2.205. Ciò anche in caso di legato per damnationem a seguito di estensione giurisprudenziale. 531 Gai 2.206-208. 532 In particolare si trattava di quello del legato per vindicationem. 533 I. 2.20.8. 534 Gai 2.224. 530
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rio. Oltre a ciò non comportavano neppure l’invalidità dei legati attribuiti in de535 roga alle loro disposizioni, rientrando tra le leggi minus quam perfectae . In particolare la lex Furia testamentaria, del II sec. a.C., stabilì che, eccettuati i parenti 536 fino al sesto grado e per il settimo i figli di cugini , nessuno poLex Furia tesse ricevere legati superiori a 1000 assi, consentendo all’erede di testamentaria procedere immediatamente in via esecutiva (manus iniectio pura) contro il legatario per il quadruplo dell’ammontare da lui conseguito al di sopra 537 del limite fissato . In seguito la lex Voconia del 169 a.C. stabilì che nessun legatario 538 potesse ricevere più dell’erede . Anche questa disposizione si riLex Voconia velò tuttavia scarsamente efficace assegnando all’erede apparentemente qualcosa dell’asse ereditario, ma in realtà assicurandogli solo una quota minima, per lo più irrisoria, potendo il testatore distribuire il patrimonio in numerosissimi legati ciascuno dei quali non superasse la quota lasciata all’erede. Solo con la lex Falcidia del 40 a.C., che fece cadere in desuetudine le due leggi precedenti, il problema fu effettivamente risolto. Essa mirò infatti ad Lex Falcidia evitare che il patrimonio ereditario andasse esaurito in legati e stabilì a questo scopo che il testatore non potesse disporre con legati di più di tre quarti dell’asse ereditario, di modo che un quarto dell’attivo (quarta Falcidia) fos539 se in ogni caso riservato all’erede (o agli eredi) . Se il testatore avesse ecceduto detto limite, i legati avrebbero dovuto essere ridotti proporzionalmente, risultan540 do ipso iure invalidi per l’eccedenza se il loro oggetto fosse stato divisibile , spettando viceversa all’erede l’exceptio doli contro il legatario che, in caso di oggetto indivisibile, avesse chiesto l’adempimento integrale del legato senza provvedere al 541 rimborso dell’eccedenza . Ai fini del calcolo della quarta si considerava il patrimonio ereditario al netto, dedotti cioè i debiti, con riferimento al tempo della morte del testatore. La quarta Falcidia doveva pervenire all’erede iure hereditario, 542 conseguentemente legati e donazioni mortis causa non si computavano in essa . Per tutta l’epoca classica le disposizioni della lex Falcidia furono considerate inderogabili, perché, mirando a tenere in piedi con l’heredis institutio l’intero testamento, garantivano l’efficacia delle altre disposizioni in esso contenute. Quando però queste cominciarono a rendersi indipendenti dalla heredis institutio, acquistando una maggiore autonomia, anche la funzione della quarta cominciò a deca535
Tit. ex corp. Ulp. 1.2. F.V. 301. 537 Gai 4.23. 538 Gai 2.225-226. La disposizione pare fosse rivolta in particolare ai cittadini iscritti nella prima classe del censo, cfr. in proposito Cic. in Verr. 2.1.43.110. 539 Gai 2.227. Cfr. pure D. 35.2.1 pr. (Paul. l. sing. ad leg. Falc.). Si noti che il regime della lex Falcidia non si applicava al testamentum militis. 540 D. 35.2.73.5 (Gai. 18 ad ed. prov.). 541 D. 35.2.16 pr. (Scaev. 3 quaest.). 542 I. 2.22.2 e 3. 536
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dere. Essa rimase peraltro in vigore per tutto il restante svolgimento del diritto romano e anzi costituì la base del diverso istituto della ‘legittima’ (portio debita), che proprio alla misura della quarta si rifece. Nel diritto postclassico e giustinianeo Falcidia era appunto denominata anche la quarta riservata agli eredi necessa543 ri , talché essa finì con l’avere due applicazioni distinte: da un lato servì per indicare la riduzione a favore degli eredi necessari e la portio debita loro spettante, dall’altro la riserva a favore di qualsiasi erede contro disposizioni a titolo particolare che eccedessero il quarto. Nel diritto giustinianeo tuttavia le disposizioni della lex Falcidia, anche se mantenute, conobbero una qualche atte- Regime giustinianeo nuazione. Giustiniano infatti stabilì che esse potessero essere derogate per volontà del testatore, disponendo che questi potesse espressamente to544 gliere all’erede il beneficio della quarta Falcidia . 24i. Nullità La nullità del legato si verificava anzitutto in dipendenza della nullità del testamento e della heredis institutio. In particolare con riferimento a questa il legato in un primo tempo era nullo se mancava l’istituzione o l’accettazione dell’erede. Successivamente, con l’autonomizzarsi del legato dalla heredis institutio, questo poteva rimanere valido anche se quella fosse stata nulla, purché la causa di nullità non 545 investisse tutto il testamento . Accanto a queste potevano aversi Nullità iniziale cause di nullità particolari dello stesso legato e queste, come per il o successiva testamento, potevano essere iniziali o successive: le prime operavano sin dal momento in cui il legato veniva disposto (per mancata osservanza, ad es., delle forme prescritte se non era possibile la conversione ex Neroniano, per essere l’oggetto extra commercium o immorale, illecito, impossibile o già di proprietà del legatario), le seconde si verificavano successivamente (es. la cosa diventava fuori commercio). Potevano essere totali o parziali a seconda che Totale o parziale la nullità colpisse tutto il legato o solo una parte di esso, come nel caso della lex Falcidia. Potevano operare ipso iure o ope exceptionis a seconda che 546 fossero riconosciute dallo ius civile o dal diritto pretorio per mezzo di exceptio doli . Per giudicare della validità di un legato occorreva fare riferi- Regula Catoniana mento al momento in cui era stato disposto. Secondo la regula Catoniana, formulata verosimilmente in età repubblicana da Marco Porcio Catone figlio (morto intorno all’anno 154 a.C.), infatti, un legato inizialmente nullo, os543
CTh. 16.8.28, a. 426 e CI. 3.28.31, a. 528 e 36 pr-1, a.531. Nov. 1.2.2, a. 535. 545 Così ad es. in forza di apposite clausole edittali sarebbero rimasti validi i legati disposti se l’erede istituito avesse omesso di adire ex testamento e avesse accettato l’eredità ab intestato e, per disposizione risalente ai tempi di Antonino Pio, la cancellazione del nome dell’erede avrebbe potuto comportare indegnità per questo, ma non avrebbe intaccato il testamento e le disposizioni in esso contenute. Cfr. p. 125 e nt. 291. 546 Cfr. supra p. 186. 544
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sia tale al momento della confezione del testamento (es. legato per vindicationem di cosa altrui) non diventava valido se, prima della morte del disponente, fosse cessata la causa di nullità (nell’esempio precedente la cosa fosse diventata del testatore). In altri termini era negata la convalida del legato inizialmente nullo, che pertanto restava tale in qualunque tempo fosse intervenuta la morte del testatore. Affermava infatti il giurista Celso: “il legato invalido se il testatore fosse morto al tempo della confezione del testamento, non vale in qualunque momento sia mor547 to” . La regola tuttavia non fu applicata rigidamente e anzi fu oggetto di interpretazione restrittiva, tanto che Celso poteva affermare che in quibusdam falsa est (ossia che “in alcuni casi risultava non vera”): non si applicava infatti ai legati 548 condizionali e a quelli in cui il dies cedens intervenisse dopo la morte del testatore . Il legato, una volta disposto, poteva essere revocato come tutto Modalità di revoca il testamento. Ciò poteva aver luogo anzitutto se veniva revocato il testamento in cui era contenuto. Quando però si ammise che potessero coesistere più testamenti, qualora contenessero disposizioni tra loro compatibili (e il legato si rese indipendente dalla heredis institutio), la revoca non fu più conseguenza inevitabile della semplice redazione di un nuovo testamento, ma divenne disposizione autonoma (ademptio legati), potendosi realizzare in conseguenza sia mediante revoca totale del testamento che mediante disposizione particolare. Quest’ultima 549 aveva luogo iure civili quando il testatore effettuava nello stesso testamento ma prima di completarlo, ovvero in un codicillo confermato, una dichiarazione espressa formale di revoca, utilizzando all’uopo una formula oppoRevoca tacita sta a quella con la quale era stato disposto il legato (es. Titium fundum Cornelianum non do non lego per il legato per vindicationem, ovvero ne 550 dato per il legato per damnationem) . Si ammise peraltro che la volontà di revoca potesse risultare anche dalla semplice cancellazione del legato; osservava infatti il giurista Paolo in proposito che “non esisteva differenza tra cancellare e revocare 551 ciò che si era scritto” . Un caso particolare di revoca con effetti civili era poi costituita Translatio legati dalla c.d. translatio legati. Per effetto di essa il testatore trasformava il legato in un altro, facendo sì che in conseguenza il primo restasse estinto (si poteva avere, ad es., quando si trasferiva il beneficio da un legatario a un altro – a persona in personam –; ovvero quando si trasformava il legato di una cosa in quello di un’altra, mutando l’oggetto – res pro re – ; o un legato puro veniva trasformato in un legato condizionale – quod pure datum est transfertur sub condicione – ; 547
D. 34.7.1 pr. (Cels. 35 dig.). D. 34.7.1.1-2 (Cels. 35 dig.).; cfr. pure D. 34.7.3 (Papin. 15 dig.) e 4 (Ulp. 10 ad Sab.): “Si concorda che la regula di Catone non concerne le istituzioni sotto condizione”. Per l’inapplicabilità anche al legato di usufrutto cfr. D. 7.3.1.1-4 (Ulp. 17 ad Sab.). 549 D. 30.14 pr. (Ulp. 15 ad Sab.). 550 Tit. ex corp. Ulp. 24.29. 551 D. 34.4.16 (Paul. l. sing. de iure cod.). 548
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o ancora quando si modificava l’onerato – ab eo qui dare iussus est transfertur ut alius det – ). Mentre però l’ademptio in sé produceva solo effetto revocatorio, la translatio produceva anche effetti positivi, determinando il sorgere di un nuovo 552 legato al posto del precedente . Accanto alle forme ora viste, dagli inizi dell’età classica (e poi Revoca legale più diffusamente in epoca postclassica), sull’esempio del regime disposto per i fedecommessi, si cominciò ad ammettere che la revoca potesse attuarsi mediante una libera manifestazione del testatore, anche realizzata in forma tacita, ossia mediante atti o comportamenti che lasciassero presumere inequivocabilmente la volontà di revoca. Il legato sarebbe rimasto in questi casi valido iure civili, ma il pretore avrebbe concesso all’erede exceptio doli contro il legatario che 553 avesse chiesto l’adempimento del legato contro la volontà del disponente . La revoca tacita generava però spesso gravi problemi di interpretazione intesi a riscontrare l’effettiva esistenza di una voluntas adimendi nel testatore. Così, ad es., i casi di alienazione della cosa legata e di riscossione di un credito in genere importavano volontà di revoca, ma si poteva provare fossero stati dettati da finalità diverse, come nel caso l’alienazione fosse stata fatta per necessità o la riscossione del 554 credito per evitare la insolvenza del debitore o la prescrizione . In talune circostanze inoltre il legato era revocato senz’altro per il sopravvenire di determinate circostanze (c.d. revoca legale). Qui la volontà del testatore non era oggetto di interpretazione, ma le si attribuiva un valore univoco, invariabilmente diretto alla revoca della disposizione (ad es. qualora tra testatore e legatario fossero intervenute, posteriormente alla confezione del testamento, gravissime ra555 gioni di inimicizia , ovvero se il testatore avesse qualificato ingrato il legatario in 556 un successivo testamento) . Con il diritto giustinianeo infine vennero aboliti i residui formalismi della revoca espressa e superata la distinzione tra efficacia iure 557 civili e iure praetorio . 24l. Prelegato Si trattava di una figura particolare di legato (il termine praelegatum, peraltro, non è presente nelle fonti) disposto a favore di un coerede e a carico dell’eredità 558 (o meglio degli altri coeredi) . Esso poteva essere ordinato con una qualsiasi del552
D. 34.4.6 pr. (Paul. 5 ad leg. Iul. et Pap.). Cfr. Gai 2.198. Cfr. pure D. 44.4.4.10 (Ulp. 76 ad ed.). 554 Cfr. D. 32.11.12-13 (Ulp. 2 fideic.) e 34.4.18 (Mod. 8 diff.). 555 D. 34.4.22 (Papin. 6 resp.). 556 D. 34.4.13 (Marc. 6 inst.). Cfr. pure D. 34.4.29 (Paul. 3 sent.). 557 I. 2.21 pr. 558 Esso andava pertanto distinto dal legato a favore di un coerede, ma a carico esclusivo di altro coerede che si aveva quando il testatore avesse imposto al secondo di dare al coerede una cosa propria o procurargli una cosa altrui. 553
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le forme di legato . Il prelegato sarebbe stato efficace solo per quanto disposto a carico degli altri coeredi dato che, pur gravando su tutta l’eredità e quindi anche sul coerede legatario, che avrebbe dunque dovuto prestare a se stesso in proporzione della sua quota, non essendo questo possibile data l’inammissibilità di un legato a favore dello stesso onerato, giusta la regola heredi a semetipso legari non 560 potest , il prelegato sarebbe stato invalido e quindi nullo nei limiti della quota 561 per cui il prelegatario era erede . Da quanto osservato discendeva peraltro che se il prelegatario non avesse acquistato l’eredità (restando gravati solo gli altri coeredi e non verificandosi più incompatibilità tra la posizione di onerato e onorato) 562 avrebbe avuto diritto a conseguire l’intero legato .
25. Fedecommessi Il fedecommesso si afferma progressivamente come atto di disposizione mortis causa a forma libera consistente in una preghiera o raccomandazione (rogatio) rivolta dal de cuius all’erede (legittimo o testamentario) o al legatario di compiere una prestazione determinata (di dare o di fare) a 563 favore della persona indicata, detta fedecommissario . Il ricorso a petizioni o richieste di questo tipo risaliva indietro nel tempo e aveva trovato espressione già nella rogatio dell’antica mancipatio familiae. Mentre però questa, Origine inclusa in quell’atto formale e solenne (mancipatio), aveva piena efficacia giuridica in forza delle disposizioni delle XII Tavole (e in particolare del versetto cum nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto) la roNozione
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In particolare poteva esser disposto anche nelle forme del legato per praeceptionem, ma in questo caso l’erede sarebbe stato autorizzato dall’arbiter familiae erciscundae a prelevare preventivamente la cosa dalla massa ereditaria prima che questa fosse divisa. Di norma esso era però dato nelle forme del legato per vindicationem e anzi questo era il modo normale dopo la intervenuta assimilazione del legato per praeceptionem a quello per vindicationem. 560 Tit. ex corp. Ulp. 24.22. 561 Si ritiene peraltro che in conseguenza l’erede non avrebbe acquistato meno di quanto voluto dal disponente perché avrebbe avuto a titolo di legato quanto posto a carico degli altri coeredi in proporzione delle loro quote e a titolo di eredità nella misura della sua quota. Secondo altra opinione, viceversa, la parte nulla si sarebbe accresciuta agli altri coeredi in proporzione delle loro quote (D. 30.34.11, Ulp. 21 ad Sab.; D. 30.116.1, Flor. 11 inst.). In particolare se la stessa cosa fosse stata prelegata a più coeredi, ciascuno avrebbe acquistato la parte nulla del prelegato dell’altro in proporzione inversa alle quote ereditarie attribuite. Così secondo l’esempio di D. 30.34.12 (Ulp. 21 ad Sab.), se a Tizio istituito per 11/12 e a Caio per 1/12 fosse stata prelegata la stessa cosa, poiché il legato sarebbe stato nullo per la quota di eredità, quanto al primo (Tizio) sarebbe stato nullo per 11/12 e questa quota si sarebbe acquistata all’altro coerede, quanto al secondo (Caio) per 1/12 e questa porzione si sarebbe acquistata a Tizio di modo che quest’ultimo avrebbe ottenuto 1/12 della cosa legata e Caio 11/12. 562 D. 30.17.2 (Ulp. 15 ad Sab.) e 18 (Iul. 31 ad Sab. Cfr. pure D. 30.34.11 per cui supra a nt. 562. 563 Tit. ex corp. Ulp. 25.1. Nel caso più frequente si trattava di ritrasferire (restituere), in tutto o in parte, la quota ereditaria o il legato.
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gatio in oggetto, fatta fuori del testamento, imponeva un mero obbligo morale il cui adempimento era affidato alla fides dell’onerato (fidei commissum). E che questa fosse l’origine dell’istituto è attestato ancora in età giustinianea dal disposto delle Istituzioni imperiali, che espressamente dichiaravano come i prima fideicommissorum cunabula a fide heredum pendent (ossia che “i fondamenti dei fede564 commessi dipendevano dalla fides degli eredi”) . Il ricorso a questa particolare disposizione mirava all’inizio, sul finire della Repubblica, a raggiungere scopi altrimenti vietati e in specie trovava giustificazione nel fine di eludere ostacoli e di565 vieti derivanti dal regime dei legati. Anzi, secondo Gaio , l’origine dell’istituto sarebbe stata nell’intento di rendere efficaci disposizioni mortis causa a favore di stranieri – i peregrini erano incapaci di acquistare tramite legati – o di altre persone prive di testamenti factio passiva e quindi incapaci di ricevere direttamente per eredità o legato; inoltre trovava applicazione per aggirare la legislazione caducaria 566 augustea e consentire di disporre in favore di celibi o di coniugati senza prole e per superare i limiti alla facoltà di disporre tramite legato imposti dalla lex Furia e Voconia (ma vi si faceva ricorso anche per far pervenire vantaggi a città o ad altre personae incertae). Dal momento però che in origine dal fedecommesso non sorgeva alcun obbligo giuridico per l’onerato, in quanto l’adempimento della volontà del defunto dipendeva esclusivamente dalla lealtà di quello (onerato), si venne progressivamente affermando l’esigenza di una più efficace tutela Augusto e la tutela che non fosse quella puramente riposta nella fides. A ciò provvide del fedecommesso Augusto, costringendo colui al quale era stata rivolta la preghiera o raccomandazione ad eseguirla, riconoscendo così valore giuridico all’istituto. La coazione si attuava extra ordinem, cioè al di fuori della ordinaria procedura formulare, legittimando il beneficiario (fedecommissario) a proporre la petitio fideicommissi, cioè la formale richiesta giudiziale di adempimento. Competenti a interporre la loro autorità per ottenere, nei singoli casi, l’esecuzione dei fedecommessi furono dapprima, sotto Augusto, i consoli in Roma. A questi Claudio sostituì due pretori creati appositamente allo scopo, detti appunto praetores fideicommissarii, ridotti a uno da Tito. In provincia a giudicare era invece il go567 vernatore . Il nuovo istituto ebbe ben presto ampia diffusione, assumendo un’importante funzione e una vasta portata in quanto più agile e di più larga applicazione rispet568 to al legato. Gaio parlava di latior causa e Giustiniano di pinguior natura in 564
I. 2.23.12. Gai 2.285: “Gli stranieri, ecco, potevano prendere i fedecommessi, e fu forse questa l’origine dei fedecommessi (tanto che alcuni studiosi pensano che esso sia sorto sulla base di modelli greci). Ma ciò fu vietato; ed ora, per una orazione del divino Adriano, fu fatto un senatoconsulto, perché quei fedecommessi fossero rivendicati al fisco”. 566 Gai 2.286, testo infra nt. 582. 567 Gai 2.278. Cfr. pure I. 2.23.1 e D. 1.2.2.32 (Pomp. l. sing. ench.). 568 Gai 2.289. 565
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confronto al legato . Rispetto a questo infatti esso era anzitutto Forme libero da ogni requisito di forma e di tipicità. Mentre il legato si stabiliva usando imperativis verbis (si trattava infatti di ordini che il disponente impartiva all’erede), il fedecommesso era in forma di preghiera, ossia precativis verbis. Per esso si usavano espressioni che indicavano richiesta o preghiera appunto, come fidei tuae committo, peto, rogo, volo o simili (non però espressioni di sem570 plice raccomandazione come commendo, o indeterminate come relinquo) e la formula completa era di norma: “ti chiedo e prego, L. Tizio, che appena tu possa 571 adire la mia eredità tu la renda e restituisca a C. Seio” o “voglio che quando il 572 mio erede Tizio sarà morto, la mia eredità appartenga a P. Mevio” . La lingua adoperata poteva essere quella latina, ma era ammesso anche l’uso di quella greca 573 o di altra qualsiasi . In ogni caso non si richiedevano parole o forme speciali. Poteva essere disposto per iscritto in un testamento anche prima dell’istituzione 574 di erede, ovvero in un codicillo, confermato e non (ovvero ab intestato) , ma anche nuda voluntate (oralmente) e perfino nutu, cioè con semplici Disciplina postclassica 575 cenni del capo . Più avanti in epoca postclassica venne introdotta qualche limitazione, avendo richiesto Costantino la forma propria dei codicilli per il fedecommesso anche orale, ma questa restrizione venne attenuata dalla concessione fatta da Giustiniano all’onorato di deferire all’erede, in caso di fedecommesso privo delle forme prescritte, un giuramento da cui si faceva dipendere la va576 lidità del lascito stesso . Revoca Com’era libera la forma della disposizione del fedecommesso altrettanto lo era quella della revoca, che poteva essere espressa o tacita (ossia attuata nuda voluntate ovvero tramite atti incompatibili con l’intento di mantenere 577 la disposizione) . A disporre il fedecommesso doveva essere chi fosse dotato di testamenti factio attiva anche se non facesse testamento (in questo caso però la disposizione fede578 commissaria sarebbe coesistita con una successione ab intestato) . Gravato poteva essere chiunque ricevesse qualche vantaggio Onerato dall’eredità e in particolare l’erede testamentario, un legatario, un fedecommissario, ma anche l’erede ab intestato (non presupponendo il fedecom569
I. 2.20.3. Gai 2.249. Cfr. pure Tit. ex corp. Ulp. 25.2; P.S. 4.1.5-6. 571 Gai 2.250. 572 Gai 2.277. 573 Gai 2.281. 574 Gai 2.270a. 575 P.S. 4.1.6a. 576 I. 2.23.12 e CI.6.42.32, a. 531. 577 Cfr. D. 32.18 (Pomp. 1 fideic.). 578 Gai 2.270. Cfr. pure Tit. ex corp. Ulp. 25.4. 570
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messo un testamento) e perfino lo Stato al quale fosse devoluto il patrimonio ere579 ditario in mancanza di eredi . Onorato del fedecommesso (fedecommissario) era in origine Onorato chiunque (anche privo di testamenti factio passiva e in particolare, come visto, anche uno straniero o un incapace, tale anche per le leggi caducarie 580 augustee) , ma progressivamente limiti vennero introdotti, già in età classica, per assimilare il regime dei fedecommessi a quello dei legati. Così ad un Sc. Pega581 siano si dovette l’applicazione dei limiti derivanti dalle disposizioni caducarie e a senatoconsulti dell’età di Adriano l’estensione (ai fedecommessi) dell’incapacità di acquistare degli stranieri (peregrini) già disposta per i legati (con conseguente 582 devoluzione del lascito al fisco) e la nullità dei fedecommessi a favore di perso583 nae incertae e di postumi alieni (prima, viceversa, ammessi; inoltre anche gli onorati di fedecommessi potevano esser colpiti da indegnità). Quanto al contenuto, l’oggetto del fedecommesso poteva essere Oggetto il più vario: con esso si poteva stabilire la restituzione di tutta o di parte di un’eredità (fideicommissaria hereditas o fedecommesso universale), acquisti a titolo particolare o manomissioni di schiavi (non si poteva però disporre la 584 nomina di tutore ). Circa gli effetti, questi erano in origine strettamente obbligatori Effetti e consistevano nel sorgere di una obbligazione a carico dell’onerato e a favore del fedecommissario avente ad oggetto l’adempimento della presta585 586 zione imposta . Già in età classica , tuttavia, a tale efficacia si apportarono alcune deroghe, almeno per quanto riguardava il fedecommesso particolare, mediante concessione (al fedecommissario) di missio in rem contro il terzo che con587 sapevolmente avesse acquistato l’oggetto del fedecommesso dall’onerato . Data l’efficacia meramente obbligatoria del fedecommesso il suo regime si assimilava (specie per quel che riguardava il fedecommesso a titolo particolare) a quello del legato per damnationem, con particolare riferimento alle cose o diritti che ne po579
Gai 2.271; D. 31.77.1 (Papin. 8 resp., per il donatario mortis causa) e D. 30.114.2 (Marc. 8 inst., per il fisco). 580 Gai 2.274-275. 581 Gai 286-286a. 582 Gai 2.285: cfr. supra nt. 566 per il testo. 583 Gai 2.287. 584 Gai 2.289. 585 Si trattava di un’obbligazione di incertum, da valutarsi secondo equità ad analogia delle obbligazioni tutelate attraverso bonae fidei iudicia. Cfr. I. 2.20.3. 586 Si suppone dall’età degli Antonini, II sec. d.C. 587 Tale missio fu però in seguito abolita da Giustiniano come tenebrosissimus error: cfr. P.S. 4.1.15; CI. 6.43.1.1, a. 529; CI. 6.43.3.2, a. 531. Anche per il fedecommesso universale e per quello di libertà, come si vedrà in seguito, si pervenne però, già in età classica, all’abbandono dell’efficacia meramente obbligatoria.
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tevano formare oggetto così come per le modalità di acquisto ed accrescimen589 to . Esisteva peraltro una rilevante differenza tra le due figure: mentre il legato (per damnationem) poteva gravare solo sull’erede, il fedecommesso poteva gravare sia sull’erede che sul legatario (come nel caso in cui il testatore avesse legato a Tizio il fondo Tuscolano insieme pregandolo, con fedecommesso, di restituirlo do590 po un certo tempo a Caio) . Quanto al momento dell’efficacia, questo dipendeva di norma Efficacia dall’acquisto dell’onerato (dies veniens), ma se il fedecommissario fosse morto prima dell’acquisto da parte di questi (diversamente da quanto avveniva per i legati) avrebbe trasmesso ai suoi eredi il diritto al lascito (a condizione che l’onerato avesse acquistato) a decorrere dal dies cedens, coincidente di solito con la morte del disponente (era ovvio però che se il fedecommesso fosse stato sottoposto a condizione sospensiva o a termine, il dies cedens, come nei legati, avrebbe coinciso con l’avveramento della condizione o del termine). Queste e altre diversità non tolgono che il regime dei fedecomDifferenze dal legato messi, man mano che se ne fissava la disciplina giuridica, si andasse assimilando a quello dei legati (con cui esisteva stretta analogia) onde evitare ogni possibile frode e la facile elusione delle regole stabilite per quelli. Gaio attestava che in principio esistevano molte differenze, ma che alcune di queste erano venu591 te meno all’epoca sua . Nonostante la precisazione del giurista, rilevanti diversità continuavano a connotare, in epoca classica, il regime dei due istituti, differenziandoli tra loro. In particolare mentre il legato si poteva disporre solo per testamento, il fedecommesso si poteva imporre anche senza di esso e anche a carico 592 degli eredi legittimi ; il legato non poteva essere disposto a carico di un legata593 rio, il fedecommesso poteva esserlo ; il legato si doveva disporre usando la lingua latina, per il fedecommesso si poteva usare qualunque lingua e non era neces594 sario il rispetto di forme precise ; il fedecommissario poteva essere un soggetto 595 incapace (non si richiedeva per lui testamenti factio passiva), il legatario no ; infine, sotto il profilo processuale, mentre il legato si faceva valere mediante la pro596 cedura formulare, il fedecommesso era tutelato extra ordinem . 588
Gai 2.260-262. Si distaccava da quella disciplina (del legato per damnationem) in quanto si ammetteva la validità del fedecommesso destinato a valere post mortem heredis (su cui vedi infra a proposito di sostituzione fedecommissaria), mentre permanaeva anche per il fedecommesso l’invalidità di quello imposto poenae nomine. Cfr. Gai 2.277. 590 Era tuttavia fatta salva l’applicazione della disciplina prevista per i legati in caso di accrescimento o sostituzione volgare. 591 Gai 2.284. 592 Gai 2.270, cfr. supra nt. 579. 593 Gai 2.271, cfr. supra nt. 580. 594 Gai 2.281 per il cui testo cfr. supra nt. 574. 595 La testamenti factio richiesta era quella attiva del disponente: Tit ex corp. Ulp. 25.4. 596 Gai 2.278, cfr. supra nt. 568. 589
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Al di là di queste differenze il regime dei due istituti registrava però molteplici, rilevanti convergenze come conseguenza del processo di progressiva estensione della disciplina fissata per i legati. Ciò si verificava per l’applicazione (estesa ai fe597 decommessi) dei divieti di capere disposti dalla lex Iulia et Papia , del regime 598 della quarta Falcidia (riservata agli eredi) , delle incapacità di peregrini, personae 599 incertae, postumi alieni , della sanzione di indegnità e per la possibile applicazio600 ne della cautio legatorum servandorum causa . Queste assimilazioni testimoniavano della diffusione e della importante funzione assunta dall’istituto in epoca classica. Grazie a esso era stato possibile non solo superare i rigori dell’antico formalismo, ma anche ampliare il contenuto stesso del testamento: applicato infatti agli istituti tradizionali aveva permesso il raggiungimento di scopi estranei allo ius civile. Aveva consentito la concorrenza tra la successione legittima e quella per volontà del disponente come conseguenza della possibilità di imporre il fedecommesso anche all’erede legittimo, e aveva favorito l’affermarsi di una distinzione tra disposizioni dirette e fedecommissarie: le prime efficaci senz’altro, le altre solo per il tramite di un’altra persona (del primo tipo era l’istituzione di erede di una persona, disposizione che operava per sé; del secondo tipo era l’obbligo imposto all’erede di restituire l’eredità ad altri che richiedeva la cooperazione dell’erede per realizzare una succesione universale); aveva inoltre permesso la possibilità di configurare – come vedremo – disposizioni successive per cui l’eredità (tramite sostituzione fedecommissaria) avrebbe potuto trasmettersi per più soggetti successivamente. Naturale che proprio per la sua vasta portata si sentisse l’esigen- Equiparazione za di precisarne la disciplina e di avvicinarla a quella dei legati. Il fra legati e processo, iniziato in epoca classica, trovò definitivo completamen- fedecommessi to in età postclassica a seguito del generalizzarsi della cognitio extra ordinem (che sostituì la procedura formulare in precedenza applicata ai legati), del superamento delle forme solenni previste per i legati (ad opera di Costanzo), della progressiva assimilazione di codicillo e testamento (che faceva venir meno la preferenza accordata al primo come sede – privilegiata – per le disposizioni fedecommissarie). Fu però Giustiniano, alla fine dello sviluppo, a sancire l’avvenuta equiparazione, da un lato unificando i mezzi di tutela a disposizione di legatario e fedecommissario, concedendo a entrambi, ove le circostanze lo consentissero, un’azione reale (con conseguente abolizione del ricorso alla missio in rem, ossia alla im601 missione nel possesso, in precedenza accordata) accanto a quella personale , dal597
Gai 2.286 e 286a relativi all’applicazione del divieto del Pegasiano. Cfr. supra nt. 567 e per il testo 582. 598 Gai 2. 234. 599 Gai 2.285 e 287 per cui cfr. supra nt. 566 e 584. 600 Cfr. D. 36.3. Si tenga conto peraltro come anche ai legati si estesero norme proprie dei fedecommessi, come ad es. per quanto riguardava le forme della revoca (divenuta libera per entrambi). 601 CI. 6.43.1.1, a. 529.
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l’altro statuendo ufficialmente l’omologazione dei due istituti col collocare all’inizio del trentesimo libro dei Digesta (De legatis et fideicommissis) un frammento ulpianeo che nella versione (alterata) giustinianea affermava come ormai per omnia exaequata sunt legata fideicommissis, ossia come fossero ormai equiparati legati e 602 fedecommessi . 25a. Fedecommesso universale Fedecommesso universale era quello che aveva per oggetto l’eredità o una quota di essa. Trovò riconoscimento a partire dal Principato per ovviare alla impossibilità di una sostituzione di erede, ossia di nominare erede un altro al posto del primo istituito in caso del verificarsi di un termine o 603 di una condizione dopo l’acquisto della qualità di erede da parte di questi . Esso aveva un precedente nel legatum partitionis e consisteva nell’incarico affidato all’erede legittimo o testamentario (heres fiduciarius) di restituire ad altri (fideicommissarius), dopo averla acquistata, tutta l’eredità o una quota di essa, sia in vi604 ta del fiduciario che dopo la sua morte . Il fedecommesso in esame tuttavia ur605 tava contro un ostacolo di carattere generale . Importando l’obbligo di restituire l’eredità al fedecommissario, avrebbe dovuto comportare anche il trasferimento della qualità di erede, ma questo non era possibile dato che il ius civile non ammetteva che la qualità di erede potesse trasmettersi ad altri (data la regola semel 606 heres semper heres) . Per consentirne la realizzazione, giurisprudenza e legislazione dovettero dunque ricorrere a espedienti appositi che, senza infrangere i principi, consentissero di dare piena attuazione alla disposizione. In particolare per il trasferimento dei corpora hereditaria l’erede, pur rimanendo tale iure civili, avrebbe dovuto far ricorso a una vendita fittizia dell’eredità 607 (mancipatio nummo uno) . Quanto ai crediti e debiti ereditari, data l’intrasmissibilità in linea di massima per atto tra vivi (vista la mancanza di un istituto apposito), si sarebbe provveduto con stipulazioni reciproche (stipulationes emptae et venditae hereditatis): l’erede avrebbe promesso al fedecommissario di restituirgli quanto riscosso dei crediti ereditari ed eventualmente di cedergli le azioni spettantigli contro i debitori ereditari (nominandolo cognitor o procurator in rem suam); Nozione
602
Cfr. pure I. 2.20.3. Gai 2.184. 604 Gai 2.277. Il fedecommesso universale con termine iniziale post mortem heredis, peraltro, importando nella sostanza la nomina di un successore universale al proprio erede – che avrebbe dovuto conservare per restituire – urtava contro i principi propri dell’hereditas e in particolare contro il carattere personalissimo del testamento e trovò riconoscimento solo per analogia alla sostituzione pupillare e nella forma di quella che si indica come sostituzione fedecommissaria. 605 Ciò indipendentemente dalle difficoltà specifiche del fedecommesso universale post mortem heredis. 606 Si è visto infatti come anche l’in iure cessio hereditatis si applicasse all’erede ab intestato prima dell’accettazione e quindi non comportasse il trasferimento della qualità di erede. 607 Gai 2.252 e Fr. August. 2.66-67. 603
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il fedecommissario avrebbe a sua volta promesso all’erede di tenerlo indenne per quanto questi fosse stato costretto a pagare o avesse adempiuto in buona fede per i debiti ereditari e di difenderlo (come cognitor o procurator in rem suam) dalle 608 azioni intentate dai creditori ereditari . Nonostante questi espedienti, tuttavia (in conseguenza del principio sopra visto della intrasmisibiltà della qualità di heres), erede restava pur sempre l’onerato, mentre il fedecommissario non era altro che acquirente a titolo particolare del patrimonio ereditario. Proprio in quanto erede onerato quello avrebbe, sia pur formalmente (data la difesa delle stipulationes ricordate), dovuto continuare a rispondere dei debiti ereditari e oltre a ciò, in forza del fedecommesso, sarebbe stato tenuto a restituire l’eredità. Avrebbe in conseguenza dovuto sopportare gli oneri relativi senza conseguire, in ultima analisi, vantaggio alcuno. Per evitare questi effetti molto spesso, dunque, l’erede fiduciario era indotto a non accettare l’eredità, ma questo provocava inevitabilmente la caduta dello stesso fedecommesso. Per superare questa situazione intervenne la legislazione da un lato cercando di rendere sempre meno gravosa la posizione dell’erede istituito (favorendone l’accettazione), dall’altro assimilando sempre più la posizione del fedecommissario universale a quella dell’erede. A Sc. Trebellianum provvedere in proposito fu in primo luogo il Sc. Trebelliano del 56 d.C., emanato sotto Nerone, che consentì il trapasso in blocco del patrimonio ereditario (al fedecommissario) con un atto unico di cessione. Ciò comportò, come conseguenza (della restitutio hereditatis), la concessione al fedecommissario e contro di esso (come utiles) delle azioni che sarebbero spettate pro e contro l’erede (in base alla fictio che egli fosse erede), rendendo così superflue le reciproche sti609 pulationes . Al fedecommissario e contro di lui vennero in sostanza date actiones utiles modellate sulle azioni direttamente spettanti pro e contro l’erede. Questo produsse due ordini di conseguenze: da un lato il fedecommissario cessò di essere considerato acquirente a titolo particolare dell’erede per divenire heredis loco. In conseguenza a lui si accordarono le tipiche azioni ereditarie, come la hereditatis petitio fideicommissaria, analoga alla hereditatis petitio dell’erede civile (D. 5.6), nonché contro i coeredi (e i cofedecommissari) l’actio familiae erciscundae utilis, 610 analoga all’azione divisoria del diritto civile . Dall’altro risultò attenuata la posizione di successore universale dell’erede onerato, per un verso non rispondendo più questi per i debiti ereditari, avendogli concesso il pretore un’exceptio contro l’azione dei creditori ereditari, e per l’altro non potendo più far valere pretese ereditarie essendo riconosciuta (dal pretore) ai debitori ereditari apposita exceptio contro l’azione dell’erede. A integrare la disciplina così disposta intervenne tra il 69 e 70 Sc. Pegasianum d.C. il Sc. Pegasianum, emanato sotto Vespasiano, allo scopo di indurre l’erede onerato ad accettare. Esso infatti riconobbe a questi il diritto di 608
Gai 2.251 e 252. Gai 2.253. 610 D. 10.2.40 (Gai. 2 fideic.). 609
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trattenere un quarto dell’eredità (quarta Pegasiana) e stabilì che il pretore potesse 611 costringere l’onerato ad accettare onde assicurare l’efficacia del fedecommesso . Questo senatoconsulto introdusse un regime articolato e complesso che, se in parte conservò vigore al Trebelliano (che continuò ad applicarsi, con conseguente passaggio delle azioni, nel caso in cui il defunto avesse disposto il fedecommesso 612 conservando all’erede onerato la quarta Falcidia) , in larga misura ne abrogò le disposizioni ripristinando il sistema (precedente al Trebelliano) delle reciproche stipulationes. Tale sistema trovava applicazione quando il de cuius non avesse ri613 spettato la quarta Falcidia : l’erede onerato avrebbe potuto ugualmente accettare e trattenere la quarta, come suo diritto ex Pegasiano, ma l’avrebbe acquistata a titolo di erede, e come erede sarebbe stato considerato; dunque il fedecommissario non avrebbe potuto che essere nella condizione di un legatario di pars e poiché, appunto, era loco legatarii e non heredis, non avrebbe potuto avvantaggiarsi del passaggio delle azioni. L’erede sarebbe rimasto formalmente creditore e debitore nei confronti dei terzi e tra lui e il fedecommissario si sarebbero interposte solo le 614 stipulazioni partis et pro parte . Se poi l’erede non avesse voluto accettare e fosse stato costretto dal pretore – secondo il disposto del Pegasiano – non avrebbe avuto diritto alla quarta e si sarebbe tornati alle actiones utiles secondo il regime del 615 Trebelliano . Ciò dimostra come i presupposti dei due senatoconsulti fossero profondamente diversi: mentre la disciplina del Trebelliano muoveva infatti dalla considerazione del fedecommissario come loco heredis, il Pegasiano, continuando a riservare all’onerato la qualità di erede sia pure per la quarta a lui riservata, non poteva che considerare il fedecommissario come legatarii loco. A superare questo dualismo, che già Papiniano definiva come Regime giustinianeo captiosum, provvide Giustiniano operando una fusione tra le disposizioni dei due senatoconsulti per ristabilire un regime unitario. Da un lato 611
Gai 2.254. Gai 2.255. 613 Era in questo caso, infatti, che il regime del Pegasiano cominciava ad avere efficacia. Finché infatti l’ereditando rispettava la quarta, per questa quota l’erede restava titolare e il fedecommissario, ex Trebelliano, era loco heredis per la quota restante di modo che per quella quota egli poteva esperire in via utile (in base alla fictio che egli fosse erede) le stesse azioni che sarebbero spettate a questi. Ove invece l’ereditando non avesse rispettato la quarta, l’erede poteva pretenderla per sé e ottenerla, ma il fedecommissario sarebbe stato considerato ex Pegasiano alla stregua di un legatario, onorato di un legatum partitionis, con conseguente deroga al regime che voleva gli oneri a carico dell’erede e conseguente ripartizione di questi tra erede e legatario attraverso il regime delle stipulationes partis et pro parte. Quando dunque la quarta era violata il Pegasiano rimetteva il fedecommesso nel regime dei legati (Falcidia), assicurando così all’erede almeno il vantaggio della quota risevata (anche se accompagnato dal complesso regime delle stipulationes reciproche), ma quando quella violazione non ci fosse stata non c’era ragione di aggravare al situazione dell’erede e si faceva luogo al regime delle azioni utiles ex Trebelliano. Quando poi l’adizione dell’erede onerato fosse stata coatta, per evitargli ulteriori fastidi non si poteva che considerarlo estraneo all’eredità, trasmettendo tutte le azioni in capo al fedecommissario (heredis loco). 614 Gai 2.256. Gai 2.254. Gai 2.257. 615 Gai 2.258. 612
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infatti egli, messo da parte il sistema delle stipulationes reciproche ex Pegasiano, ridiede vigore al regime delle azioni utili del Trebelliano statuendo che pro e contro il fedecommissario potessero esercitarsi direttamente (era infatti ormai venuta meno in età giustinianea la distinzione tra azioni directae e utiles) le azioni spettanti pro e contro l’erede, dall’altro confermò (ex Pegasiano) l’applicabilità ai fedecommessi (universali e particolari) della quarta Falcidia e del principio dell’accet616 tazione coattiva imposta all’erede . Ciò che però più rileva è che alla fine di questo sviluppo, attraverso il sapiente processo di omogenizzazione realizzato dall’imperatore, nel diritto giustinianeo il fedecommissario universale era ormai a tutti gli effetti erede, sebbene in grado successivo, cioè dopo l’onerato. Quanto all’acquisto, come per il legato, non era richiesta al fedecommissario l’accettazione, ma questi aveva diritto di pretendere dall’onerato la restitutio hereditatis, con conse617 guente immissione nel possesso . 25b. Sostituzioni fedecommissarie A completare la disciplina sin qui tracciata del regime del fedecommesso occorre ricordare anche la figura della c.d. sostituzione fedecommissaria. In proposito si deve anzitutto richiamare quanto si è detto della disciplina della sostituzione 618 “volgare” . Con essa il disponente nominava un sostituto per il caso che il primo istituito non potesse o non volesse venire alla successione del de cuius. Nell’ambito della disciplina del fedecommesso (con riferimento al fedecommesso da 619 eseguirsi post mortem heredis) si poteva tuttavia anche disporre che il sostituto acquistasse non al posto della persona prima indicata, ma dopo di lei: all’avveramento di una condizione, alla scadenza di un termine, o – e questa era l’ipotesi più rilevante – alla morte del primo designato. Questi, in tal caso, sarebbe stato tenuto a conservare per restituire, avrebbe cioè potuto godere per un certo tempo di quanto a lui devoluto, ma non avrebbe potuto disporne, dovendo restituire nel momento indicato. Appare evidente la differenza con la sostituzione “volgare”: in questa il sostituto subentrava solo se il primo istituito non acqui- Rapporti con la stava, nella c.d. sostituzione fedecommissaria il sostituto veniva sostituzione volgare alla successione dopo di quello (primo indicato). Si aveva in que- e pupillare sto caso una disposizione successiva, nel senso che produceva effetti prima nei confronti di una persona e successivamente (al verificarsi della condizione o del termine o alla morte di quella) di un’altra. Ciò spiega perché gli inter616
I. 2.23.7. D. 36.1.38 (37) pr. (Ulp. 16 ad ed.). 618 Tale disciplina era applicabile peraltro anche nell’ambito dei fedecommessi, restando in ogni caso possibile disporre che a un primo fedecommissario se ne sostituisse un altro per il caso che quello non acquistasse quanto disposto in suo favore. 619 Cfr. Gai 2.277 sopra richiamato a nt. 589. In proposito si ricordi come in materia di fedecommessi non trovasse applicazione la regola propria dei legati che negava validità al lascito destinato a gravare sugli eredi dell’onerato. 617
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preti abbiano parlato a questo proposito di ordo successivus per precisare l’essenza dell’istituto. Da questo punto di vista esso si accostava alla sostituzione pupillare, dato che anche in questa il sostituto poteva prendere solo dopo la morte (nello stato di impubere) del figlio istituito, tanto che Gaio osservava che nei confronti degli eredi estranei, cui non si poteva applicare la sostituzione pupillare, si sarebbero raggiunti i medesimi effetti facendo ricorso alla sostituzione fedecommissa620 ria . La sostituzione fedecommissaria divergeva però da quella (sostituzione pupillare) perché, mentre in essa il pupillo era erede e poteva disporre dell’eredità, nella sostituzione fedecommissaria il primo indicato doveva conservare per restituire. L’istituto inoltre, pur costituendo applicazione del regime dei fedecommessi (che, come visto, prevedevano di norma, in capo all’erede o al legatario, un obbligo di restituzione), si discostava da questo in quanto la restituzione non doveva avvenire immediatamente, ma di norma alla morte del primo designato o al verificarsi di una condizione o di un termine; in ogni caso la conseguenza era pur sempre che il primo indicato acquistava effettivamente quanto disposto in suo favore, e non solo formalmente come l’erede o il legatario fiduciario. Si tenga presente inoltre che l’ereditando poteva disporre non solo che il primo indicato, ma anche che l’eventuale sostituto dovesse conservare per restituire ad altro sostituto. Vi sarebbero così state più disposizioni successive che avrebbero avuto, cioè, pienamente effetto nei confronti di una persona e, dopo questa, a favore di altre. Una particolare applicazione della sostituzione fedecommissaFedecommesso ria che trovò larga diffusione nel diritto intermedio è quella del di famiglia c.d. fedecommesso di famiglia (fideicommissum familiae relictum). Esso aveva lo scopo di far restare nell’ambito di un medesimo nucleo familiare, per un tempo anche indefinito, il patrimonio ereditario o singole cose. In forza di esso l’istituito, il fedecommissario, ed eventualmente dopo di lui il sostituto (e così via anche per successive generazioni), tutti facenti parte della famiglia del disponente, erano tenuti a conservare il patrimonio ereditario o le singole cose assegnate, per trasferirle alla loro morte a persone appartenenti alla medesima fami621 glia . Si realizzava così un vincolo obiettivo che escludeva la facoltà di disporre e che poteva durare per più generazioni: si venivano infatti ad avere più disposizioni successive tutte regolate unicamente dalla volontà del primo disponente per cui in caso di eredità, ad esempio, questa si sarebbe indefinitamente trasmessa non per legge o per disposizione dei singoli eredi, ma per volontà di quello. Un limite era tuttavia imposto a quel vincolo dal divieto, applicato ai fedecommessi, di la620
Gai 2.184 (cfr. per il testo supra nt. 343); Diocleziano precisava, a riprova, che la sostituzione pupillare disposta post pubertatem si dovesse intendere come sostituzione fedecommissaria (CI. 6.26.8.2, a. 293). 621 D. 31.69.3 (Papin. 19 quaest.): fratre herede instituto petit, ne domus alienaretur, sed ut in familia relinqueretur, ossia “un testatore istituì erede suo fratello e lo pregò di non alienare la casa, ma di lasciarla a qualcuno della famiglia”. L’indicazione poteva anche essere precisata attraverso la specificazione del vincolo di parentela richiesto, come nel caso si fosse disposto che si trattasse del figlio primogenito. Cfr. pure D. 31.32.6 (Mod. 9 reg.)
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sciti a favore di personae incertae . Per esso si richiedeva che i sostituti fossero tutti viventi alla morte dell’ereditando (salvo ammettere alla petitio fideicommissi anche i figli dei fedecommissari viventi al tempo della morte del disponente). Ma è con Giustiniano che si impone un vincolo più preciso. L’imperatore infatti dopo aver abolito quel limite (e in particolare il divieto di lasciti a favore di personae incertae, facilitando così la trasmissione per più generazioni) nella Nov. 159 (a. 555) intervenne più decisamente, circoscrivendo alla quarta generazione l’ambito del fedecommesso di famiglia. Alle figure sin qui considerate si aggiunge inoltre, formando Fedecommesso oggetto di specifica disciplina, quella del fedecommesso de residuo. de residuo Questo aveva come oggetto ciò che residuava dell’eredità (quidquid de hereditate supererit). In conseguenza il fiduciario avrebbe potuto disporre dell’eredità e anche diminuirla (purché in buona fede) ovvero sostituire i beni ereditari con altri. Con la Nov. 108 (a. 541) Giustiniano fissò però un limite alla facoltà di disposizione del fiduciario, stabilendo che questa dovesse contenersi entro i tre quarti del patrimonio ereditario, riservando al fedecommissario il quarto residuo. Si osservi infine che anche una manomissione poteva essere di- Libertà sposta per fedecommesso. Ciò fu ammesso sin dall’inizio del Prin- fedecommissaria cipato accanto alla possibilità di avvalersi della più risalente manumissio testamentaria. Si trattava di una forma indiretta di manomissione mortis causa per cui il disponente pregava l’onerato del fedecommesso (erede, legatario o fedecommissario) di liberare uno schiavo, proprio o altrui (del testatore, dell’erede, 623 del legatario o anche di un estraneo) . L’onerato era allora tenuto a manomettere lo schiavo e avrebbe dovuto provvedere a ciò con apposito negozio inter vivos, os624 sia secondo una delle forme di manomissione ammesse . Se però lo schiavo fosse appartenuto a un terzo, sull’onerato gravava l’obbligo di acquistarlo e manometterlo; il fedecommesso tuttavia non avrebbe avuto effetto se il proprietario avesse rifiutato di vendere il servo o avesse preteso un prezzo eccessivo in rapporto a 625 quanto fosse pervenuto all’onerato dal disponente . La libertà dello schiavo, in ogni caso, dipendeva dall’adempimento dell’onerato, ma se questo fosse mancato (perché l’onerato non avesse voluto o potuto), una serie di senatoconsulti e disposizioni imperiali, in applicazione del favor libertatis, stabilirono che intervenisse al suo posto l’autorità giudiziaria (lo schiavo, in quanto privo di capacità, non avrebbe potuto esigere la propria libertà, tuttavia si ammise che potesse agire extra ordinem sollecitando l’adempimento del fedecommesso). Giustiniano stabilì che la libertà disposta per intervento dell’autorità giudiziaria (in caso di mora del622
Gai 2.254 e 2.284-287. I. 2.24.1. 624 Di norma si trattava di una di quelle previste dallo ius civile (in particolare manumissio vindicta), dovendo la manomissione avere effetti civili in quanto il fedecommesso era una iusta causa manumissionis agli effetti della lex Aelia Sentia (D. 40.2.20 pr., Ulp. 2 de off. cons.). 625 D. 40.5.6 (Paul. 60 ad ed.); I. 2.24.2. 623
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l’onerato) dovesse considerarsi come disposta dal testatore stesso e quindi in via di626 retta , e inoltre stabilì che il manomesso a causa di fedecommesso diventasse liberto non del testatore (anche se servo di questi), bensì di colui che lo avesse manomesso.
26. Altre disposizioni del testamento Oltre a legati e fedecommessi il testatore poteva inserire nel testamento altre disposizioni particolari, quali la manomissione di schiavi (manumissio testamento, detta diretta per distinguerla da quella fedecommissaria appena vista) e la nomina di tutore (tutoris datio). Entrambe avevano efficacia con l’efficacia del testamento. In forza di un rescritto di Marco Aurelio istitutivo di un novus casus successionis sarebbero però risultate valide, pur in presenza di un testamento rimasto inefficace, le manomissioni in esso regolarmente disposte se i servi manomessi (o anche un terzo estraneo), essendo l’eredità andata deserta (perché non adita) e destinata alla bonorum venditio, avessero chiesto (previa cautio di adempimento nei confronti dei creditori ereditari) e ottenuto l’addictio dei beni del testatore allo scopo di ottenere la libertà. Gli schiavi in tal modo sarebbero stati liberi come se l’eredità fosse stata adita e il te627 stamento risultato efficace . Con la manomissione testamentaria il testatore dava la libertà a un proprio servo (o persona in causa mancipii) che diventava così libertus Orcinus (perché legato in qualche modo all’Orcus, cioè all’aldilà). Essa doveva essere disposta in forma solenne e imperativa (ad es. con le parole: Stichus servus meus liber esto, cioè 628 “Stico, mio servo, sia libero”) , forma peraltro caduta in età postclassica, quando si ammise che essa potesse essere data quibuscumque verbis (e ciò quantomeno in conseguenza della possibilità concessa di dettare disposizioni anche in lingua greca). Per essere valida richiedeva che lo schiavo fosse del testatore al momento della perfezione del testamento e in quello della morte (tant’è che l’alienazione del servo manomesso avrebbe comportato una sostanziale revoca della manomissione); e una volta divenuta efficace, con l’acquisto dell’eredità da parte dell’erede, era automaticamente attributiva di libertà senza bisogno di accettazione (di modo che lo schiavo diventava libero ipso iure). La manomissione testamentaria poteva essere disposta sotto condizione sospensiva o termine iniziale. In tal caso lo schiavo durante la pendenza della condizione (o prima della scadenza del termine) era
Manomissione testamentaria
626
CI. 7.4.15, a. 530. I. 3.11 pr., 1 e 2. Si osservi ancora che le manomissioni testamentarie sarebbero state comunque efficaci anche in caso di eredi non capaces a norma delle leggi caducarie, di eredi indegni a succedere, di eredità vacante andata all’erario o al fisco, di erede testamentario che avesse adito ab intestato e nell’ipotesi di abstentio di un suus. 628 Gai 2.267. 627
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nella particolare situazione di statuliber. Egli avrebbe acquistato la Statuliber libertà all’avverarsi della condizione o alla scadenza del termine, ma se la condizione fosse mancata per causa dell’erede (o in alcuni altri casi nei 629 quali l’adempimento non dipendeva dallo statuliber) si sarebbe ugualmente considerata per avverata, realizzandosi adempimento fittizio di essa. Nel frattempo lo schiavo era dell’erede, che avrebbe potuto anche alienarlo, ma giunto il momento della libertà egli sarebbe divenuto libero nelle mani di chiunque si fosse 630 trovato . Sappiamo già delle leggi limitatrici delle manomissioni e in particolare della lex Fufia Caninia (del 2 d.C.), che aveva imposto al testatore di non manomettere più di un dato numero di schiavi (legge poi abolita da Giustiniano); qui occorre ancora ricordare che il testatore avrebbe potuto anche manomettere lo schiavo e contemporaneamente istituirlo erede (heredis institutio cum libertate). L’attribuzione della libertà doveva essere disposta in maniera esplicita (ad es. Sti631 chus servus meus liber heresque esto, ossia “Stico, mio servo, sia libero ed erede”) , almeno fino a quando Giustiniano non dispose che essa fosse da ritenersi implici632 ta nelle istituzioni di erede . Lo schiavo (manomesso e istituito erede) sarebbe divenuto in conseguenza heres necessarius. Il testatore poteva anche nominare un tutore ai figli in potestà Nomina di tutore (cioè a un suus, e dunque a un figlio o figlia naturale nato da iustae nuptiae, a un figlio adottivo, nipote ex filio, uxor o nuora in manu). Anche questa disposizione doveva essere data in forma solenne e imperativa (ad es. con le parole: L. Titium liberis meis tutorem do, ossia “Do L. Tizio come tutore ai miei fi633 gli”) , almeno fino a quando Giustiniano non abolì i requisiti di forma. Poteva essere disposta, come la manumissio testamentaria, nel testamento o in un codicillo confermato ed esser sottoposta, oltre che a condizione sospensiva e termine iniziale (come avveniva per la manumissio), anche a condizione risolutiva e termine finale. Nel tutore designato si esigeva la testamenti factio ed egli acquistava la sua qualifica ipso iure nel momento in cui l’erede acquistava l’eredità. Gli era però concessa l’abdicatio tutelae e il testatore poteva rimettere alla sua volontà l’acqui634 sto della potestà tutoria, inserendo la clausola si volet . Una variante particolare era costituita dalla datio del tutor optivus in relazione alla tutela muliebre. Anche questa richiedeva la forma imperativa (ad es.: Titiae uxori meae tutoris optionem 635 do, ossia “Do a Tizia, mia moglie, la facoltà di scegliersi il tutore”) e accordava alla donna l’optio tutoris, ossia la facoltà di scegliersi il tutore, facoltà che poteva 629
Cfr. Tit. ex corp. Ulp. 2.6. Le fonti affermano che: statuliber libertatis condicionem secum trahit. Cfr. Tit. ex corp. Ulp. 2.3; D. 40.7.2 pr. (Ulp. 4 ad Sab.). 631 Gai 2.186. 632 CI. 6.27.5, a. 531. 633 Gai 1.149. 634 D. 26.2.23.1 (Afric. 8 quaest.). 635 Gai 1.150. 630
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essere plena o angusta a seconda che si consentisse alla donna di cambiare tutore 636 ogniqualvolta lo volesse o solo un numero limitato e determinato di volte . Entrambe le disposizioni qui esaminate (manumissio testamentaria e tutoris datio), al pari dei legati, una volta disposte potevano nello stesso testamento venire revocate con disposizione contraria, così come con disposizione contraria potevano essere revocate in un codicillo confermato. Si consentì inoltre che potessero stare in apertura del testamento dato che per esse si derogò al principio per cui l’istituzione di erede è caput totius testamenti. Accanto a queste altre possibili disposizioni testamentarie eraDivisio parentis no la divisio parentis inter liberos e l’adsignatio libertorum. Con la inter liberos e adsignatio libertorum prima il padre (a partire da Costantino anche la madre) indicava come dividere i singoli cespiti ereditari tra i figli che gli sarebbero 637 succeduti. All’attuazione provvedeva l’arbiter dell’actio familiae erciscundae . Con la seconda, riconosciuta da una senatoconsulto Ostorianum (41-47 d.C.), il pater familias, invece, divideva direttamente tra i figli i diritti di patronato spet638 tantigli in relazione ai singoli liberti da lui liberati . Entrambe le disposizioni non richiedevano in età classica forme particolari (Giustiniano tuttavia prescrisse per la divisio parentis inter liberos la forma scritta e la sottoscrizione del genitore e 639 640 dei figli , quest’ultima poi successivamente abolita) e potevano essere adottate in un testamento ovvero mediante codicilli o anche oralmente e persino a prescindere da un testamento nel caso che l’ereditando dividesse beni e liberti tra i 641 figli che gli sarebbero succeduti ab intestato .
27. Successioni straordinarie e in assenza di eredi Si indicano come tali quelle fattispecie in cui era una norma di diritto oggettivo a stabilire la destinazione di parte del patrimonio ereditario, che veniva così sottratto ai delati ex testamento o ab intestato. Era questo il caso della successione disposta da Antonino Pio a Quarta divi Pii favore dell’impubere arrogato e poi emancipato senza giusta causa, cui era riconosciuto il diritto alla quarta parte (quarta divi Pii) del patrimonio del pater adrogans morto mentre egli era ancora impubere (avesse questi fatto testamento o meno e quindi a scapito degli eredi testamentari o legittimi a seconda 636
Gai 1.151-153. D. 10.2.33 (Papin. 7 resp.); CTh. 2.24.2, a. 327. 638 D. 38.4 e I. 3.8 pr. e 2. 639 Nov. 18.7, a. 536. 640 Nov. 107.3, a. 541. 641 Cfr. per la divisio parentis inter liberos D. 10.2.39.1 (Scaev. 1 resp.); CI. 3.36.21, a. 294 e, per l’adsignatio libertorum, I. 3.8.3. 637
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dei casi) . La pretesa alla quarta era considerata come un normale credito e come tale doveva esser fatta valere, non essendo riconosciuta all’impubere, almeno 643 644 fino a Giustiniano , la possibilità di avvalersi della querela inofficiosi testamenti . In ogni caso spettava a questi il diritto di far rientrare quanto fosse stato alienato 645 dolosamente dal pater per diminuire artatamente il patrimonio ereditario . In età giustinianea si riconobbe altresì alla vedova povera, che Quarta della non avesse mezzi sufficienti per sopravvivere, il diritto ad avere la vedova povera quarta parte del patrimonio del marito, morto in condizione di agiatezza, sino al limite massimo di 100 libbre d’oro se concorreva con eredi estranei (legittimi o testamentari; c.d. “quarta della vedova povera” o quarta uxoria), ovvero una quota ereditaria se avesse concorso con i figli del marito, che sarebbe stata di 646 usufrutto se i figli fossero stati comuni . La sua posizione era in conseguenza assimilata a quella di un legatario ex lege. La Nov. 53 (ma non più la Nov. 117) riconobbe analogo diritto al vedovo povero nei confronti degli eredi della moglie. Sempre in età giustinianea, inoltre, la Nov. 89 del 539 rico- Nov. 89 nobbe ai figli naturali (che non fossero incestuosi) e assieme a loro alla madre, il diritto a un sesto pro capite del patrimonio paterno in assenza di figli legittimi e della moglie di quello, altrimenti (in presenza di questi) il diritto agli alimenti. In conseguenza essi avrebbero rivestito la posizione di eredi legittimi nel primo caso, di legatari ex lege nel secondo. Un’ultima ipotesi di successione straordinaria si verificava in Eredità vacante caso di eredità rimasta vacante (per assenza di eredi o bonorum possessores o per mancato acquisto da parte di questi). In antico ovviava a questa situazione, come visto in precedenza, l’istituto della usucapio pro herede, ma, da età repubblicana avanzata, mutato il regime della usucapio (che consentiva ormai l’acquisto di singole cose e non dell’hereditas nel suo complesso), si ammise che, in presenza di creditori, questi potessero procedere a esecuzione patrimoniale in base all’editto pretorio cui heres non extabit e conseguente bonorum venditio del patrimonio rimasto vacante. Se poi nessun creditore ereditario si fosse fatto avanti (o non si fosse trattato di eredità passiva), la lex Iulia de maritandis ordinibus di Augusto (18 a.C.) dispose che l’eredità vacante (bona vacantia) andasse devoluta 647 all’erario, più tardi, forse a partire da Caracalla, al fisco . La posizione della cassa statale (come in caso di indegnità) era quella di un successore universale e il diritto relativo si prescriveva in un quadriennio. Disposizioni imperiali di età classica e postclassica stabilirono tuttavia che in certi casi i beni vacanti dovessero andare, 642
D. 37.6.1.21 (Ulp. 40 ad ed.); D. 10.2.2.1 (Ulp. 19 ad ed.); D. 38.5.13 (Paul. ad leg. Iul. et Pap.) e I. 1.11.3. 643 Nov. 18, a 536. 644 Cfr. D. 5.2.8.15 (Ulp. 14 ad Sab.). 645 D. 38.5.13 (Paul. 10 ad leg. Iul. et Pap.). 646 Novv. 53.6, a. 537 e 117.5, a. 542. 647 Gai 3.78.
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anziché al fisco, alle comunità od organismi cui il defunto apparteneva: come il corpo militare (in caso di soldati); la curia (in caso di appartenenti al senato cittadino); la corporazione di appartenenza (in caso di fornai, navicularii, etc.); le chiese o i monasteri (in ipotesi di vescovi, chierici o monaci).
28. Codicilli 648
Si tratta di un atto di disposizione mortis causa consistente in un documento scritto (a volte una epistula, ossia una lettera) privo di forma che poteva contenere qualsiasi disposizione successoria a eccezione dell’istituzione di erede. Ebbe origine dalla consuetudine, generalizzatasi alla fine della Repubblica, di redigere, in aggiunta al testamento, un documento separato in cui, come appendice al testamento stesso, si fissavano altre disposizioni che non potevano trovare posto in quello (es. fedecommessi). Come risulta dalla stessa denominazione (codicilli = piccoli codici), si trattava in sostanza di un piccolo codex, cioè di una tavoletta cerata di piccolo formato, adoperata dai romani per appunti o annotazioni, in cui il disponente vergava le sue ultime volontà. Vi diede riconoscimento per la prima volta Augusto contemporaneamente al riconoscimento giuridico del fedecommesso (che ne costituiva il contenuto più frequente e rilevante), dal momento che l’occasione fu appunto offerta da un fedecom649 messo disposto a mezzo di codicillo . Il ricorso a esso fu peraltro giustificato non tanto o non soltanto dall’esigenza di usufruire di modalità più libere di disporre mortis causa rispetto al testamento, dal momento che questo nelle forme pretorie non richiedeva certo un formalismo esasperato, ma dalla necessità di rimuovere alcuni principi arcaici del testamento che sempre più apparivano privi di significato. Così, contro la regola risalente che escludeva la possibilità di più testamenti in ordine ai medesimi beni (l’uno avrebbe revocato l’altro), si ammise che il disponente potesse lasciare più codicilli, che sarebbero stati efficaci nella misura in cui non fossero incompatibili tra loro; inoltre venne riconosciuta, in contrasto con i principi dello ius civile, la revoca non formale, fondata sul semplice mutamento di volontà, e si favorì l’attenuarsi della imprescindibilità della heredis institutio per gli atti di disposizione mortis causa, dato che per i codicilli risultava in radice esclusa. Come nuove erano le forme, così nuova era la tutela giudiziaria, che anziché attuarsi nelle forme dell’ordo si realizzava, in conseguenza del riconoscimento imperiale, extra ordinem. Si è visto come il codicillo non potesse contenere l’heredis institutio, ma poiché in ogni successione doveva esserci un erede, il codicillo non poteva che costituire una disposizione minore dipendente da una successione Nozione
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Il termine ricorreva al plurale nel linguggio classico (D. 50.16.148, Gai. 8 ad leg. Iul. et Pap.): “… sempre al numero plurale sono indicati … i codicilli”); il singolare, codicillus, è d’uso postclassico. 649 I. 2.25 pr.
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mortis causa da esso non disposta. Il codicillo dunque presupponeva una successione testamentaria o ab intestato e poteva essere posto a carico degli eredi in essa designati. Si distingueva pertanto tra codicilli testamentari o ab intestato a Codicilli testamentari seconda che si ricollegassero a un testamento già fatto o da fare, e ab intestato ovvero che presupponessero una successione ab intestato destinata 650 a valere per quella parte per cui fosse mancata la disposizione codicillare . In questo caso infatti si sarebbe aperta regolarmente la successione legittima, ma gli eredi sarebbero stati tenuti a rispettare le disposizioni contenute nel codicillo. I codicilli testamentari potevano, a loro volta, essere confermati Codicilli testamentari o meno, a seconda che a essi venisse o non venisse fatto rinvio nel confermati e testamento. La conferma poteva essere in praeteritum (cioè per il non confermati passato) se relativa a codicilli redatti anteriormente al testamento, in futurum se nel testamento il disponente ne avesse preannunziato la redazione 651 (integrando così il contenuto del testamento stesso) o anche in praesens, ossia contemporanea alla redazione del testamento (che avrebbe contenuto l’istituzione di erede, mentre le disposizioni minori sarebbero state rinviate alle tabulae del co652 dicillo contestualmente predisposte e richiamate) . La conferma dei codicilli doveva poi essere disposta con forma imperativa e non semplicemente precativa (così ad esempio con le parole: Quidquid codicillis scripsi – o scripsero-, ratum esto, os653 sia “ciò che ho scritto – o scriverò – nei codicilli abbia valore) . In conseguenza codicillo non confermato era non solo quello che, nonostante l’esistenza del testamento, non fosse in questo ricordato, ma anche quello in questo confermato, ma con l’uso di verba precativa anziché impetrativa. La differenza tra codicilli confermati e non confermati era rilevante, in particolare, quanto al loro possibile contenuto. Quelli testamento confirmati con forma imperativa, infatti, Contenuto dei potevano contenere disposizioni mortis causa a effetto civile e, più codicilli confermati esattamente, le stesse disposizioni ammesse nel testamento (quindi, trattandosi di disposizioni minori, potevano prevedere legati, manomissioni, nomine di tutori e relative disposizioni di revoca) a eccezione della heredis institutio e della exheredatio (nonché di sostituzioni, revoca del testamento, modifica di 654 istituzione condizionata in incondizionata o viceversa) . Si ammise tuttavia che il codicillo potesse indicare solo il nome dell’erede, che peraltro avrebbe dovuto essere regolarmente istituito nel testamento (ad es. con la disposizione: quem heredem codicillis fecero, heres esto, cioè “colui che ho indicato come erede nei codi650
D. 29.4.6 pr. (Ulp. 50 ad ed.) e I. 2.25.1. D. 29.7.8 pr. (Paul. l. sing. de iure cod.). Cfr. pure P.S. 4.14.2. 652 D. 29.7.20 (Paul. 5 ad leg. Iul. et Pap). 653 Gai 2.270a. 654 Gai 2.270 cfr. supra nt. 579 e 2.273. Cfr. pure Tit. ex corp. Ulp. 25.8; 25.11; PS. 4.1.10, I. 2.25.2. 651
166 Codicilli non confermati
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cilli, sia erede”) . Tutti gli altri codicilli (non confermati o ab intestato ovvero confermati solo con formula precativa) potevano invece contenere solo disposizioni fedecommissarie. I codicilli testamentari si con656 sideravano come pars testamenti , cioè come se le relative disposiAccessorietà zioni fossero state disposte nel testamento stesso. Questa cosiddetdel codicillo ta finzione codicillare importava di massima che il codicillo se657 guisse le sorti del testamento (c.d. accessorietà del codicillo) . In conseguenza, invalido o invalidato il testamento (per es. se l’eredità testamentaria non fosse stata accettata), sarebbe caduto anche il codicillo. Si ammise tuttavia che il disponente potesse aggiungere (al testamento) una cosiddetta clausola codicillare, per cui se il testamento fosse stato invalido come tale dovesse valere almeno come co658 dicillo ; si operava così una sorta di conversione del negozio nullo, di modo che l’atto si sarebbe considerato come codicillo se ne avesse avuto i requisiti. In età postclassica le distinzioni tra testamento e codicilli tenDisciplina postclassica dono ad attenuarsi specie sotto il profilo formale in conseguenza e giustinianea 659 di un continuo processo di avvicinamento tra i due istituti . Mentre per tutta l’età classica, infatti, il codicillo era rimasto atto privo di forma, senza necessità di sottoscrizioni, di sigilli e di intervento di testimoni (cui si faceva ricorso semmai solo ad probationem, per garantire l’autenticità), nel periodo postclassico, mentre si attenuava il formalismo dei testamenti, si iniziò a imporre anche al codicillo certi requisiti di forma per garantirne l’autenticità. Costantino, 660 infatti, prescrisse l’intervento di cinque o sette testimoni (fissati in sette da Teodosio II e poi ridotti nuovamente a cinque da Giustiniano), ai quali si deve rite661 nere dovessero accompagnarsi sigillazione e sottoscrizione . Nel contempo, a seguito dell’equiparazione giustinianea di legati e fedecommessi, perdeva gran parte del suo significato la distinzione tra codicilli confermati e non confermati. Inoltre, con il prevalere della procedura extra ordinem, veniva meno la differenza di tutela processuale, in quanto ormai per tutti giudizi (sia relativi a testamenti che a codicilli) si applicava la nuova procedura. Non meraviglia quindi che al termine 655
D. 28.5.78 (77) (Papin. 17 quaest.). D. 29.3.11 (Gai. 11 ad leg. Iul. et Pap.): “… i codicilli sono da intendersi come parte del testamento …” e D. 29.7.14 pr. (Scaev. 8 quaest.) 657 D. 29.7.3.2 (Iul. 39 dig.); D. 29.7.16 (Paul. 21 quaest.) e 29.7.2.2 (Iul. 37 dig.). 658 D. 29.1.3 (Ulp. 2 ad Sab.) e D. 29.7.1 (Ulp. 4 disp.). 659 Si ricordi come in età classica i due istituti si differenziassero: a) per la forma: il testamento era atto formale, il codicillo no; b) per gli effetti: quelli del testamento e dei codicilli confermati erano diretti; valevano solo come fedecommessi quelli dei codicilli ab intestato e di quelli non confermati; c) per il contenuto: il testamento aveva fondamento nella heredis institutio, mentre questa non era ammissibile nel codicillo (come anche la exheredatio); d) per la procedura: che era formulare per il testamento, extra ordinem per il codicillo. 660 CTh. 4.4.1, a. 336. 661 CTh. 4.4.7.2 e CI 6.36.8.3, a. 424. 656
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dello sviluppo, a seguito di quel processo di progressivo avvicinamento ed equiparazione dei requisiti formali, Giustiniano potesse addirittura ammettere la possibilità di disposizioni codicillari dettate oralmente, con una intrinseca contraddi662 zione in termini, dato che il codicillo era, per sua natura, atto scritto .
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CI. 6.4.3 pr., a. 529 ove si parla di codicilli disposti per iscritto o sine scriptis.
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Fonti
1. Successione ereditaria Nt. 1 D. 50.16.24 (Gai. 6 ad ed. prov.): Nihil est aliud ‘hereditas’quam successio in universum ius quod defunctus habuit. “L’eredità non è altro che la successione nella situazione giuridica complessiva del defunto”. Nt. 3 D. 50.16.178.1 (Ulp. 49 ad Sab.): ‘Hereditas’iuris nomen est, quod et accessionem et decessionem in se recipit. “L’eredità è un’entità giuridica che ricomprende in sé incrementi e diminuzioni”. Nt. 4 D. 50.16.119 (Pomp. 3 ad Q. Muc.): ‘Hereditatis’ appellatio sine dubio continet etiam damnosam hereditatem: iuris enim nomen est sicuti bonorum possessio. “Il termine eredità ricomprende anche l’eredità passiva: si tratta infatti di una entità giuridica come la bonorum possessio”.
2. Evoluzione storica 2a. Regime decemvirale Nt. 5 Gai 2.157: sui … heredes ideo appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quodammodo domini existimantur: unde etiam si quis intestatus mortuus sit, prima causa est in successione liberorum
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“si chiamano eredi propri, perché sono eredi di casa, ed anche in vita del genitore in certo modo sono considerati padroni: per cui, anche se uno sia morto senza testamento, il primo titolo alla successione l’hanno i discendenti”. Nt. 6 Varr. de re rust. 1.10.2: …Bina iugera quod a Romulo primum divisa dicebantur viritim, quae heredem sequerentur, heredium appellarunt. “…Gli appezzamenti di due iugeri che si dice Romolo abbia per primo diviso individualmente, seguendo l’erede sono chiamati heredium”.
5. Presupposti della successione ereditaria Nt. 31 D. 45.1.61 (Iul. 2 ad Urs. Fer.): si heredem me non feceris, tantum dare spondes? “…se non mi nominerai erede, prometti di darmi cento?” Nt. 33 D. 36.1.28.4 (Iul. 40 dig.): non probe de hereditate viventis pueri aget. “non correttamente si dispone dell’eredità di un vivente”. Nt. 34 I. 2.14.5: neque enim idem ex parte testatus et ex parte intestatus decedere potest. “né infatti lo stesso soggetto può morire in parte secondo il testamento in parte secondo la legge”. Nt. 45 I. 2.19.4: media tempora non nocent “i periodi intermedi non nuociono”. Nt. 47 D. 50.16.71 pr. (Ulp. 79 ad ed.): capere cum effectu accipitur. “capacità di acquisto effettivo”.
7. Acquisto dell’eredità Nt. 56 D. 28.5.87(86) (Maec. 7 fideic.): Iam dubitari non potest suos quoque heredes sub hac condicione institui posse, ut, si voluissent, heredes essent. “Non si può dubitare che anche i sui heredes si possano istituire sotto questa condizione, che siano eredi se lo vogliano”.
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8. Effetti dell’acquisto ereditario Nt. 66 D. 2.14.7.17-18 (Ulp. 4 ad ed.), ove si precisa: Si ante aditam hereditatem paciscatur quis cum creditoribus ut minus solvatur, pactum valiturum est…idem et in extraneo herede: qui si mandatu creditorum adierit, etiam mandati putat eum habere actionem. “Se qualcuno, prima di accettare l’eredità, pattuisca con i creditori di adempiere in misura minore del dovuto, il patto di concordato avrà valore … l’erede estraneo se avrà accettato l’eredità su mandato dei creditori, ha anche l’azione di mandato”. Nt. 73 Gai 2.158: Sed his praetor permittit abstinere se ab hereditate, ut potius parentis bona veneant. “Ma a loro il pretore consente di astenersi dall’eredità, in modo che i beni vengano venduti come piuttosto del genitore”. Nt. 75 D. 11.1.12 pr. (Paul. 17 ad ed.): qui abstinuit praetor non habet heredis loco. “il pretore non considera come erede colui che si è astenuto”. Nt. 76 Gai 2.154: Unde qui facultates suas suspectas habet, solet servum suum…liberum et heredem instituere, ut si creditoribus satis non fiat, potius huius heredis quam ipsius testatoris bona veneant, id est, ut ignominia, quae accidit ex venditione bonorum, hunc potius heredem quam ipsum testatorem contingat. “Per ciò chi ha posizione patrimoniale sospetta suole istituire libero ed erede un suo servo … di modo che, se i creditori non vengono soddisfatti, i beni vengano venduti come piuttosto di questo erede che non del testatore, perché, s’intende, l’infamia, che consegue alla vendita dei beni, colpisca piuttosto l’erede che il testatore”. Nt. 81 Gai 2.9: nam res hereditariae, antequam aliquis heres existat, nullius in bonis sunt. “le cose ereditarie, infatti, prima che ci sia un erede, non sono in godimento di alcuno”. Nt. 83 D. 45.3.28.4 (Gai 3 de verb. obl.): Illud quaesitum est, an heredi futuro servus hereditarius stipulari possit. Proculus negavit, quia is eo tempore extraneus est. Cassius respondit posse, quia qui postea heres extiterit, videretur ex mortis tempore defuncto successisse:… “Si domanda se il servo ereditario possa stipulare a favore dell’erede futuro. Proculo lo ha negato, perché questi in quel tempo è da considerare estraneo (all’eredità). Cassio risponde che può, perché colui che è diventato erede successivamente, si ritiene succedere al defunto dal tempo della morte”. Nt. 84 D. 30.116.3 (Flor. 11 inst.): Servo hereditario recte legatur, licet ea adita non sit, quia hereditas personae defuncti, qui eam reliquit, vice fungitur.
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“Si può correttamente disporre un legato a favore di un servo ereditario, sebbene l’eredità non sia adita, poiché l’hereditas tiene luogo della persona del defunto che l’ha lasciata”. Nt. 85 I. 3.17 pr.: Servus ex persona domini ius stipulandi habet. sed hereditas in plerisque personae defuncti vicem sustinet: ideoque quod servus hereditarius ante aditam hereditatem stipulatur adquirit hereditati, ac per hoc etiam heredi postea facto adquiritur. “Il servo deriva il potere di stipulare dalla persona del padrone. Ma nella maggior parte dei casi l’eredità tien luogo della persona del defunto: di conseguenza, ciò che il servo ereditario stipula prima che l’eredità sia adita, lo acquisisce all’eredità e, in tal modo, lo acquisisce anche all’erede poi sopravvenuto”. Nt. 86 CI. 6.33.3 pr., a. 531:…vicesima hereditatis a nostra recessit re publica… “… è venuta meno nel nostro ordinamento la vicesima ereditaria”.
9. Hereditatis petitio Nt. 88 Gai 4.31: Tantum ex duabus causis permissum est lege agere, damni infecti et si centumvirale iudicium futurum est; “Solo in due casi è consentito agire in via di legge (dopo le leggi Giulie): in quello di danno temuto e se debba aver luogo un giudizio centumvirale”. Nt. 89 Gai 4.144: pro herede autem possidere videtur tam is, qui heres est, quam is, qui putat se heredem esse; “si ritiene possedere come erede tanto chi è erede, quanto chi erede si considera”.
10. Coeredità Nt. 101 D. 5.4.1 pr. (Ulp. 5 ad ed.): Post actionem, quam proposuit praetor ei qui ad se solum hereditatem pertinere contendit, consequens fuit et ei proponere qui partem hereditatis petit. “Dopo l’azione che il pretore propose per colui che pretende che l’eredità spetti a lui solo, fu conseguente che proponesse un’azione anche per colui che pretende una parte di eredità”.
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11. Accrescimento Nt. 102 I. 2.14.5:…si unum tantum quis ex semisse verbi gratia heredem scripserit, totus as in semisse erit… “… se uno per esempio abbia istituito taluno erede solo in una metà (semisse) dell’asse ereditario, questi otterrà l’intero asse”. Nt. 103 D. 29.2.35 pr. (Ulp. 9 ad Sab.):…invito quoque ei adcrescit portio. “… la porzione (non acquistata) si accresce anche contro la volontà (dell’accettante)”. Nt. 104 Tit ex corp. Ulp. 26.5: Si plures eodem gradu sint agnati, et quidam eorum hereditatem ad se pertinere noluerint, vel antequam adierint decesserint, eorum pars adcrescit his qui adierunt. “Se più sono gli agnati dello stesso grado e qualcuno di loro non ha acquistato l’eredità o è morto prima di aver accettato, la loro quota si accresce a coloro che hanno accettato”. Nt. 106 D. 28.5.64(63) (Iav. 1 ex Cass.): Heredes sine partibus utrum coniunctim an separatim scribantur, hoc interest, quod, si quis ex coniunctis decessit, non ad omnes, sed ad reliquos qui coniuncti erant pertinet, sin autem ex separatis, ad omnes, qui testamento eodem scripti sunt heredes, portio eius pertinet. “Quanto agli eredi istituiti senza determinazione di quote (ossia nell’intera eredità), in relazione al fatto che siano stati istituiti congiuntamente o separatamente, occorre osservare che se muore qualcheduno di quelli istituiti congiuntamente la sua porzione spetta non a tutti, ma agli altri che erano congiunti, se (muore) qualcuno di quelli istituiti separatamente, spetta a tutti coloro che nello stesso testamento sono istituiti eredi”.
12. Scioglimento della comunione ereditaria Nt. 110 D. 8.2.26 (Paul. 15 ad Sab.): propter immensas contentiones plerumque res ad divisionem pervenit. “a causa delle innumerevoli controversie il più delle volte il patrimonio viene portato alla divisione (del giudice)”. Nt. 111 D. 10.2.2 pr. (Ulp. 19 ad ed.): Per familiae erciscundae actionem dividitur hereditas, “Attraverso l’azione di divisione delle cose ereditarie si divide l’eredità”.
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Nt. 112 Gai 4.17a: Per iudicis postulationem agebatur, si qua de re ut ita ageretur lex iussisset sicuti…de hereditate dividenda… “Si agiva con la legis actio per richiesta di giudice nei casi in cui una legge lo avesse richiesto, come nel caso di … divisione dell’eredità”. Nt. 113 Gai 4.17a:…de hereditate dividenda inter coheredes eadem lex per iudicis postulationem agi iussit. idem fecit lex Licinnia, si de aliqua re communi dividenda ageretur. “… circa la divisone dell’eredità tra coeredi la medesima legge delle XII Tavole comandò che si agisse per richiesta di giudice. La stessa cosa fece la legge Licinnia se si agiva per dividere una cosa comune”. Nt. 114 I. 4.6.20: Quaedam actiones mixtam causam optinere videntur tam in rem quam in personam. qualis est familiae erciscundae actio, quae competit coheredibus de dividenda hereditate: item communi dividundo, quae inter eos redditur inter quos aliquid commune ex quacumque causa est, ut id dividatur: item finiumn regundorum, quae inter eos agitur qui confines agros habent. in quibus tribus iudiciis permittitur iudici rem alicui ex litigatoribus ex bono et aequo adiudicare et, si unius pars praegravari videbitur, eum invicem certa pecunia alteri condemnare. “Alcune azioni appaiono avere natura mista, di reali e personali insieme. Così l’azione di divisione dell’eredità, che compete ai coeredi per dividere l’eredità, così quella di divisione della comunione … In questi tre giudizi è consentito al giudice aggiudicare una cosa secondo equità a taluna delle parti, e, se la quota di uno apparirà eccedente, condannarlo a pagare ad un altro dal canto suo una determinata somma di denaro”.
13. Bonorum possessio Nt. 119 Gai 3.32:…praetor heredes facere non potest “il pretore non può creare eredi”. Nt. 120 Gai 3.80: Neque autem bonorum possessorum…res pleno iure fiunt, sed in bonis efficiuntur; ex iure Quiritium autem ita demum adquiruntur, si usuceperunt. “Né tuttavia le cose diventano di pieno diritto…dei possessori dei beni (bonorum possessores), ma sono costituite in bonis di essi; questi allora le acquistano ex iure Quiritium (cioè in proprietà civile) se le usucapiscono”. Nt. 121 Gai 4.34: Habemus adhuc alterius generis fictiones in quibusdam formulis, velut cum is, qui ex edicto bonorum possessionem petiit, ficto se herede agit. “Abbiamo ancora, in certe formule, delle finzioni d’altro genere, come allorché colui
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che ha chiesto in base all’editto il possesso dei beni (bonorum possessio) agisce fingendosi erede”. Nt. 122 Gai 3.32 (cfr. I. 3.9.2): Quos autem praetor vocat ad hereditatem, hi heredes ipso quidem iure non fiunt: nam praetor heredes facere non potest; per legem enim tantum vel similem iuris constitutionem heredes fiunt, velut per senatus consultum et constitutionem principalem: sed cum eis praetor dat bonorum possessionem, loco heredum constituuntur. “Quelli però che il pretore chiama all’eredità non diventano automaticamente eredi; gli eredi infatti diventano tali solo per legge o per una norma giuridica equivalente, come un senatoconsulto o una costituzione del principe. Ma, quando il pretore concede loro il possesso dei beni, sono posti in luogo di eredi”. Nt. 123 D. 50.16.208 (Afric. 3 quaest.): ‘bonorum’ appellatio, sicut hereditatis, universitatem quandam ac ius successionis et non singulas res demonstrat. “Il termine bonorum (possessio) come quello di hereditas concerne una universitas e lo ius successionis e non singole cose”. Nt. 124 Gai 3.34: item ab intestato heredes suos et agnatos ad bonorum possessionem vocat. quibus casibus beneficium eius in eo solo videtur aliquam utilitatem habere, ut is, qui ita bonorum possessionem petit, interdicto, cuius principium est quorum bonorum. “analogamente chiama al possesso dei beni senza testamento (bonorum possessio) gli eredi propri (sui) e gli agnati. Nei quali casi la sua concessione sembra avere una qualche utilità solo in quanto chi chiede, così, il possesso dei beni, può giovarsi dell’interdetto che comincia con le parole quorum bonorum (di quei beni)”. Nt. 128 Tit. ex corp. Ulp. 28.10: Bonorum possessio datur parentibus et liberis intra annum, ex quo petere potuerunt, ceteris intra centum dies. “La bonorum possessio è data ai genitori e ai figli entro l’anno da quando potevano chiederla, agli altri entro cento giorni”. Nt. 133 I. 2.10.3: Sed cum paulatim tam ex usu hominum quam ex constitutionum emendationibus coepit in unam consonantiam ius civile et praetorium iungi. “A poco a poco tanto per la condotta degli uomini quanto per gli interventi delle costituzioni cominciò a congiungersi in unità il diritto civile e pretorio”.
14. Collazione Nt. 136 Coll. 16.7.2: Suis praetor solet emancipatos liberos itemque civitate donatos coniungere
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data bonorum possessione, ita tamen, ut bona si qua propria habent, his qui in potestate mansuerunt conferant. Nam aequissimum putavit neque eos bonis paternis carere per hoc, quod non sunt in potestate neque praecipua bona propria habere, cum partem sint ablaturi suis heredibus. “Il pretore suole, ai fini della bonorum possessio, mettere sullo stesso piano sui ed emancipati … in modo tale che quelli che abbiano qualche bene proprio, lo conferiscano a quelli che sono rimasti in potestà. Infatti ha ritenuto intrinsecamente giusto che né manchino dei beni paterni i figli che non sono rimasti in potestà (emancipati), né che abbiano propri beni particolari, mentre ne sottraggono parte ai sui heredes”. Nt. 137 Tit. ex corp. Ulp. 28.4: Emancipatis liberis ex edicto datur bonorum possessio, si parati sunt cavere fratribus suis, qui in potestate manserunt, bona quae moriente patre habuerunt se collaturos. “Ai figli emancipati viene data la bonorum possessio in base all’editto se si mostrino pronti a promettere ai loro fratelli, che sono rimasti nella potestà del padre, di conferire i beni acquistati alla morte di questi”. Nt. 138 D. 37.6.1.24 (Ulp. 40 ad ed.): Portiones collationum ita erunt faciendae: ut puta duo sunt filii in potestate, unus emancipatus habens trecenta: ducenta fratribus confert, sibi centum: facit enim eis partem, quamvis is sit, cui conferri non solet. quod si duo sint filii emancipati habentes trecena et duo in potestate, aeque dicendum est singulos singulis, qui sunt in potestate, centena conferre, centena retinere, sed ipsos invicem nihil conferre. “Le porzioni delle collazioni si devono fare in questo modo: se due sono i figli in potestà e uno emancipato che abbia trecento, questi deve conferire duecento ai fratelli e trattenere cento per sé: attribuirà infatti a questi parte del suo patrimonio, sebbene egli sia tra quelli cui non si suole conferire. Che se due sono i figli emancipati che hanno trecento e due in potestà, ugualmente si deve affermare che ciascuno di loro (emancipati) deve conferire cento a ciascuno di quelli che sono in potestà e trattenere cento, ma nulla tra di loro devono conferire”. Nt. 139 D. 37.6.1.5 (Ulp. 40 ad ed.): Totiens igitur collationi locus est, quotiens aliquo incommodo adfectus est is qui in potestate est interventu emancipati: ceterum si non est, collatio cessabit. “Si fa luogo alla collatio ogni qual volta colui che è in potestà subisce un qualche danno per l’intervento dell’emancipato: in conseguenza se non c’è danno non si fa luogo a collatio”. Nt. 140 D. 37.7.2 (Gai. 14 ad ed prov.): Filia in adoptionem data et heres instituta debet sic ut emancipata non solum bona sua, sed et dotem, quae ad eam pertinere poterit, conferre. “La figlia data in adozione e istituita erede così come l’emancipata deve conferire non solo i propri beni, ma anche la dote che le potrà spettare”.
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Nt. 143 CI. 6.20.4 (a. 239): Filiae dotem in medium ita demum conferre coguntur, si vel ab intestato succedant vel contra tabulas petant: nec dubium est profecticiam seu adventiciam dotem a patre datam vel constitutam fratribus qui in potestate fuerunt conferendam esse. his etenim, qui in familia defuncti non sunt, profecticiam tantummodo dotem post varias prudentium opiniones conferri placuit. “Le figlie di norma sono costrette a conferire la dote o se succedono ab intestato o se vengono contra tabulas: né è dubbio che debba essere conferita ai fratelli che furono in potestà la dote data o costituita dal padre, profecticia o adventicia; a coloro invece, che non appartengono alla familia del defunto, si è ritenuto opportuno, dopo diverse opinioni espresse dai giuristi, venisse conferita solo la dote profecticia”.
15. Successio ab intestato 15a. Nozioni preliminari e sistema civile Nt. 146 I. 3.1.7: Cum autem quaeritur, an quis suus heres existere potest: eo tempore quaerendum est quo certum est aliquem sine testamento decessisse: quod accidit et destituto testamento. “Quando ci si interroga se uno può essere erede proprio, bisogna guardare a quel tempo in cui è certo che uno è morto senza testamento: ciò che avviene pure quando il testamento sia invalido …”. Nt. 148 Gai 3.2: Sui autem heredes existimantur liberi, qui in potestate morientis fuerunt, veluti filius filiave, nepos neptisve ex filio, pronepos proneptisve ex nepote filio nato prognatus prognatave. nec interest, utrum naturales sint liberi an adoptivi. ita demum tamen nepos neptisve et pronepos proneptisve suorum heredum numero sunt, si praecedens persona desierit in potestate parentis esse, sive morte id acciderit sive alia ratione, veluti emancipatione; nam si per id tempus, quo quis moriatur, filius in potestate eius sit, nepos ex eo suus heres esse non potest. “Si considerano eredi propri i discendenti che furono in potestà della morente, come il figlio o la figlia, il nipote o la nipote nati dal figlio, il pronipote o la pronipote figli del nipote nato dal figlio. Non interessa se siano discendenti naturali o adottivi. Però il nipote o la nipote, il pronipote o la pronipote, rientrano nel novero degli eredi propri se chi li precedeva abbia cessato d’essere in potestà del genitore, sia che questo sia avvenuto per morte, oppure per altra causa, come l’emancipazione. Infatti, se nel tempo in cui uno muore, il figlio sia in potestà sua, il nipote da lui nato non può essere erede proprio ...”. Nt. 149 Gai 3.3: Vxor quoque, quae in manu eius, qui moritur, est, ei sua heres est, quia filiae loco est. item nurus, quae in filii manu est, nam et haec neptis loco est. sed ita demum erit
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sua heres, si filius, cuius in manu fuerit, cum pater moritur, in potestate eius non sit. “Anche la moglie che è in mano del marito gli è erede propria, perché è in luogo di figlia. Analogamente la nuora che è in mano del figlio, perché anche questa è in luogo di nipote. Ma questa sarà erede propria, se il figlio di cui era in mano, al momento della morte del padre, non sia in potestà di lui”. Nt. 150 Gai 3.4: Postumi quoque, qui si vivo parente nati essent, in potestate eius futuri forent, sui heredes sunt. “Anche i postumi, che se fossero nati in vita dell’ascendente sarebbero stati in sua potestà, sono eredi propri”. Nt. 151 Gai 3.7-8: Igitur cum filius filiave et ex altero filio nepotes neptesve extant, pariter ad hereditatem vocantur; nec qui gradu proximior est, ulteriorem excludit. aequum enim videbatur nepotes neptesve in patris sui locum portionemque succedere...8. Et quia placebat nepotes neptesve, item pronepotes proneptesve in parentis sui locum succedere, conveniens esse visum est non in capita, sed in stirpes hereditatem dividi, ita ut filius partem dimidiam hereditatis ferat et ex altero filio duo pluresue nepotes alteram dimidiam… “Quando ci sono un figlio o una figlia e nipoti maschi o femmine nati da un altro figlio, sono chiamati all’eredità insieme: il più vicino di grado non esclude quello di grado ulteriore. Invero sembrava equo che i nipoti o le nipoti succedessero nel luogo e nella porzione del padre loro... 8. e poiché si riteneva giusto che i nipoti o le nipoti, e così i pronipoti o le pronipoti, succedessero nel luogo del loro genitore, parve opportuno che l’eredità si dividesse non per capi, ma per stirpi: cosicché un figlio prendesse metà dell’eredità e due o più nipoti nati da un altro figlio prendessero l’altra metà ...”. Nt. 155 Gai 3.9-10: Si nullus sit suorum heredum, tunc hereditas pertinet ex eadem lege XII tabularum ad adgnatos. 10. Vocantur autem adgnati, qui legitima cognatione iuncti sunt. legitima autem cognatio est ea, quae per virilis sexus personas coniungitur. itaque eodem patre nati fratres agnati sibi sunt, qui etiam consanguinei vocantur, nec requiritur, an etiam matrem eandem habuerint. item patruus fratris filio et invicem is illi agnatus est. eodem numero sunt fratres patrueles inter se, id est qui ex duobus fratribus progenerati sunt, quos plerique etiam consobrinos vocant” . “Se non ci sia alcuno degli eredi propri, allora l’eredità, per la stessa legge delle XII Tavole, spetta agli agnati. 10. Si chiamano agnati coloro che sono congiunti da parentela legittima. La parentela legittima è quella che si stringe tramite persone di sesso maschile. Perciò i fratelli nati dallo stesso padre sono fra loro agnati, e si chiamano anche consanguinei, e non si ricerca se abbiano anche avuto la stessa madre. Similmente lo zio paterno rispetto al figlio del fratello, e viceversa questo rispetto quello, è
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agnato. Rientrano nello stesso novero, reciprocamente, i fratelli patrueli, cioè coloro che sono nati da due fratelli, e che i più chiamano anche cugini”. Gai 3.23: Item feminae agnatae, quaecumque consanguineorum gradum excedunt, nihil iuris ex lege habent. “Così tutte le femmine agnate che eccedono il grado dei consanguinei (fratelli) non hanno per legge alcun diritto”. Nt. 156 Gai 3.14: sororis autem nobis loco est etiam mater aut noverca, quae per in manum conventionem apud patrem nostrum iura filiae nancta est. “Ci è come sorella anche la madre o la matrigna che abbia rispetto al nostro padre ottenuto i diritti di figlia tramite il venirgli in mano”. Nt. 157 Gai 3.11-12: Non tamen omnibus simul agnatis dat lex XII tabularum hereditatem, sed his, qui tum, cum certum est aliquem intestatum decessisse, proximo gradu sunt. 12. Nec in eo iure successio est. ideoque si agnatus proximus hereditatem omiserit vel, antequam adierit, decesserit, sequentibus nihil iuris ex lege competit. “Ma la legge delle XII Tavole non dà l’eredità a tutti gli agnati insieme, bensì a coloro che, quando è certo che uno è morto intestato, sono di grado più vicino. 12. E in tale diritto non si dà successione. Pertanto, se l’agnato prossimo abbia lasciato andare l’eredità, o sia morto prima di avere adito, a quelli che lo seguono non compete per legge alcun diritto”. Nt. 158 Gai 3.40:…lex XII tabularum ad hereditatem liberti vocabat patronum, si intestatus mortuus esset libertus nullo suo herede relicto. itaque intestato quoque mortuo liberto, si is suum heredem reliquerat, nihil in bonis eius patrono iuris erat. “… la legge delle XII Tavole non chiamava il patrono all’eredità del liberto se non nel caso in cui il liberto fosse morto intestato senza lasciare alcun erede proprio. Per cui, anche morto il liberto senza il testamento, se avesse lasciato l’erede proprio, il patrono non aveva alcun diritto ai suoi beni”. Nt. 159 Gai 3.45: Quae diximus de patrono, eadem intellegemus et de filio patroni, item de nepote ex filio et de pronepote ex nepote filio nato prognato. “Quel che abbiamo detto per il patrono, è da ripetere per il figlio del patrono; e così per il nipote, nato dal figlio, e per il pronipote nato dal figlio del figlio”. Nt. 160 Gai 3.59 e 61: Item civis Romani liberti hereditas ad duos pluresve patronos aequaliter pertinet, licet dispar in eo servo dominium habuerint…61. Item si unius patroni tres forte liberi sunt et alterius unus, hereditas ciuis Romani liberti in capita dividitur, id est tres fratres tres portiones ferunt et unus quartam. “Così l’eredità del liberto cittadino romano spetta in parti uguali a due o più patroni,
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per quanto avessero avuto su quel servo proprietà disuguale... 61. Così se di un patrono ci siano tre figli e dell’altro uno, l’eredità del liberto cittadino romano si divide per capi, ossia i tre fratelli prendono tre porzioni e l’unico la quarta”. Nt. 162 Gai 3.17: Si nullus agnatus sit, eadem lex XII tabularum gentiles ad hereditatem vocat. qui sint autem gentiles, primo commentario rettulimus; et cum illic admonuerimus totum gentilicium ius in desuetudinem abisse, supervacuum est hoc quoque loco de eadem re iterum curiosius tractare. “Se non ci sia alcun agnato, la stessa legge delle XII Tavole chiama all’eredità i gentili. Chi siano i gentili abbiamo riferito nel primo commentario; e siccome là avvertimmo che tutto il diritto gentilizio è caduto in desuetudine, è superfluo che anche qui trattiamo minuziosamente l’argomento”.
15b. Innovazioni pretorie Nt. 163 Gai 3.18: Hactenus lege XII tabularum finitae sunt intestatorum hereditates. quod ius quemadmodum strictum fuerit, palam est intellegere. “A questo punto il discorso sulle eredità ab intestato in base alle XII Tavole è concluso. Come quel diritto fosse angusto, lo si comprende chiaramente …”. Nt. 164 Gai 3.24: Similiter non admittuntur cognati, qui per feminini sexus personas necessitudine iunguntur, adeo quidem, ut nec inter matrem et filium filiamve ultro citroque hereditatis capiendae ius conpetat, praeterquam si per in manum conventionem consanguinitatis iura inter eos constiterint. “Analogamente non sono ammessi (nel sistema dello ius civile) i cognati, uniti da vincolo parentale tramite persone di sesso femminile, al punto che nemmeno tra madre e figlio o figlia compete il reciproco diritto di prendere l’eredità, salvo che fra loro sussistessero i diritti di consanguineità per effetto dell’essere la madre venuta in mano”. Nt. 165 Gai 3.25: Sed hae iuris iniquitates edicto praetoris emendatae sunt. “Ma queste iniquità dell’ordinamento sono state corrette dall’editto del pretore”. Nt. 166 Gai 3.26: Nam eos omnes, qui legitimo iure deficiuntur, vocat ad hereditatem, proinde ac si in potestate parentis mortis tempore fuissent, sive soli sint, sive etiam sui heredes, id est qui in potestate patris fuerunt, concurrant. “(Il Pretore), infatti, chiama all’eredità tutti i discendenti che non vi hanno diritto per legge, come se al tempo della morte del genitore fossero in potestà, e tanto che non ci siano che loro, quanto anche se concorrano gli eredi propri, cioè quelli che erano in potestà del padre”.
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Nt. 168 Gai 3.28: Idem iuris est, ut quidam putant, in eius agnati persona, qui proximo agnato omittente hereditatem nihilo magis iure legitimo admittitur; sed sunt, qui putant hunc eodem gradu a praetore vocari, quo etiam per legem agnatis hereditas datur. “Lo stesso vale (cioè la possibilità di esser chiamati come cognati), come alcuni ritengono, per quell’agnato (più remoto) che, abbandonando l’agnato prossimo l’eredità, legalmente non viene più ammesso (alla bonorum possessio). Ma ci sono alcuni che ritengono che costui venga chiamato dal pretore nel medesimo grado in cui per la legge stessa viene data l’eredità agli agnati”. Nt. 169 D. 38.8.2 (Gai. 16 ad ed. prov.): Hac parte proconsul naturali aequitate motus omnibus cognatis promittit bonorum possessionem, quos sanguinis ratio vocat ad hereditatem, licet iure civili deficiant. “In questa parte (del suo editto) il proconsole, mosso da una equità naturale, promette la bonorum possessio a tutti i cognati, che ragioni di sangue chiamano all’eredità, sebbene difettino (di legittimazione) per il ius civile”. Nt. 170 D. 38.8.2 (Gai. 16 ad ed prov.):… itaque etiam vulgo quaesiti liberi matris et mater talium liberorum bonorum possessionem petere possunt. “…pertanto anche i figli vulgo quaesiti possono chiedere la bonorum possessio della madre e la madre quella di tali figli”. Nt. 171 D. 38.8.1.3 (Ulp. 46 ad ed.): Haec autem bonorum possessio, quae ex hac parte edicti datur, cognatorum gradus sex complectitur et ex septimo duas personas sobrino et sobrina natum et natam. “Questa bonorum possessio, che viene data sulla base di questa clausola dell’Editto, comprende i cognati fino al sesto grado e del settimo i figli di cugini”. Nt. 172 D. 38.8.1.10 (Ulp. 46 ad ed.): Gradatim autem admittuntur cognati ad bonorum possessionem: ut qui sunt primo gradu, omnes simul admittuntur. “I cognati tuttavia sono ammessi alla bonorum possessio per gradi, in modo che coloro che sono dello stesso grado sono ammessi insieme”. Nt. 173 Gai 3.27: Adgnatos autem capite deminutos non secundo gradu post suos heredes vocat, id est, non eo gradu vocat, quo per legem vocarentur, si capite minuti non essent, sed tertio proximitatis nomine. licet enim capitis deminutione ius legitimum perdiderint, certe cognationis iura retinent. “Gli agnati che hanno subito la capitis deminutio non li chiama (il pretore) nella seconda classe, dopo gli eredi propri, cioè non li chiama in quel grado in cui sarebbero chiamati per legge se non avessero subito la capitis deminutio, bensì nella terza classe,
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quali cognati: benché infatti abbiano perso con la capitis deminutio il diritto derivante loro dalla legge, conservano certamente i diritti di cognazione”. Nt. 174 D. 38.10.10.4 (Paul. l. sing. de grad.): Inter adgnatos igitur et cognatos hoc interest quod inter genus et speciem… “Tra agnati e cognati intercorre lo stesso rapporto che tra genere e specie”. Nt. 175 D. 38.8.1.4 (Ulp. 46 ad ed.): Cognationem facit etiam adoptio… “L’adozione crea cognazione …”. Nt. 176 D. 38.8.1.8 (Ulp. 46 ad ed.): Si quis proximior cognatus nasci speretur, in ea condicione est, ut dici debeat obstare eum sequentibus. “Se si spera che nasca qualche cognato più prossimo egli si troverà nella condizione di costituire ostacolo per coloro che lo seguiranno nell’ordine di successione”. Nt. 177 D. 38.11.1 pr. (Ulp. 47 ad ed.): Ut bonorum possessio peti possit unde vir et uxor, iustum esse matrimonium oportet… “Perché si possa chiedere la bonorum possessio come marito e moglie occorre che ci sia un matrimonio legittimo …”. Nt. 178 Tit. ex corp. Ulp. 28.7: Intestati datur bonorum possessio per septem gradus: primo gradu liberis: secundo legitimis heredibus: tertio proximis cognatis: quarto familiae patroni: quinto patroni patronae, item liberis parentibusve patroni patronaeve: sexto viro uxori; septimo cognatisnmanumissoris… “[Al liberto che muore] intestato è data una bonorum possessio secondo sette classi: la prima, dei liberi; la seconda, degli eredi legitimi; la terza, dei prossimi cognati; la quarta della familia del patrono; la quinta del patronus del patrono e parimenti dei liberi o parenti del patrono o della patrona; la sesta quali marito e moglie; la settima dei cognati del manomissore…”. Nt. 179 Gai 3.41: …si vero intestatus moriatur suo herede relicto adoptivo filio uel uxore, quae in manu ipsius esset, vel nuru, quae in manu filii eius fuerit, datur aeque patrono adversus hos suos heredes partis dimidiae bonorum possessio. “... se invece (il liberto) muoia intestato, lasciando erede proprio un figlio adottivo, o la moglie in mano sua, o la nuora che era stata in mano del figlio, ugualmente si dà al patrono contro questi eredi propri il possesso della metà dei beni”. Nt. 183 Gai 3.56:…legis itaque Iuniae lator cum intellegeret futurum, ut ea fictione res Latinorum defunctorum ad patronos pertinere desinerent, quia scilicet neque ut servi decederent,
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ut possent iure peculii res eorum ad patronos pertinere, neque liberti Latini hominis bona possent manumissionis iure ad patronos pertinere, necessarium existimavit, ne beneficium istis datum in iniuriam patronorum converteretur, cavere uoluit, ut bona eorum proinde ad manumissores pertinerent, ac si lex lata non esset. itaque iure quodam modo peculii bona Latinorum ad manumissores ea lege pertinent. “…Ora il proponente della legge Giunia, rendendosi conto che per effetto di quella finzione (che assimilava i manomessi in forme pretorie ai latini coloniarii) sarebbe successo che i beni dei latini defunti avrebbero cessato di appartenere ai patroni, perché ovviamente né sarebbero morti come servi, di modo che le cose loro potessero appartenere ai patroni per le norme sul peculio, né i beni di un liberto latino avrebbero potuto appartenere ai patroni per diritto di manomissione, ritenne necessario che il beneficio a costoro accordato non si convertisse in un torto ai patroni, e volle stabilire che i loro beni appartenessero ai manomissori come se la legge non fosse promulgata: perciò i beni dei latini appartengono in base a quella legge ai manomissori come se fossero, in certo modo, un peculio”. Nt. 184 Gai 3.63: Postea Lupo et Largo consulibus senatus censuit, ut bona Latinorum primum ad eum pertinerent, qui eos liberasset; deinde ad liberos eorum non nominatim exheredatos, uti quisque proximus esset; tunc antiquo iure ad heredes eorum, qui liberassent, pertinerent. “Successivamente, essendo consoli Lupo e Largo, il senato decretò (senatoconsulto Largiano) che i beni dei latini appartenessero anzitutto a colui che li avesse liberati; quindi a quello prossimo fra i suoi discendenti non diseredati nominatamente; infine, a norma del diritto antico, agli eredi di coloro che li avessero liberati”.
15c. Senatoconsulti e legislazione imperiale Nt. 187 Tit. ex corp. Ulp. 26.8: Intestati filii hereditas ad matrem ex lege duodecim tabularum non pertinet: sed si ius liberorum habeat, ingenua trium, libertina quattuor, legitima heres fit ex senatus consulto Trebelliano, si tamen ei filio neque suus heres sit quive inter suos heredes ad bonorum possessionem a praetore vocatur, neque pater, ad quem lege hereditas bonorumve possessio cum re pertinet, neque frater consanguineus; quod si soror consanguinea sit, ad utrasque pertinere iubetur hereditas. “l’eredità del figlio intestato non spetta alla madre in base alla legge delle XII Tavole: ma se ella abbia lo ius liberorum, ossia abbia tre figli se ingenua, quattro se libertina, è erede legittima in base al senato consulto Tertulliano se peraltro quel figlio non abbia un erede proprio o chi sia chiamato dal pretore alla bonorum possessio tra gli eredi propri, né abbia il pater al quale per legge spetta l’hereditas o la bonorum possessio cum re, né abbia un fratello consanguineo; che se vi sia una sorella consanguinea, a entrambe (madre e sorella) si ordina che spetti l’hereditas”. Nt. 188 D. 38.17.1 pr. (Ulp. 12 ad Sab.): Sive ingenua sive libertina mater est, admitti possunt liberi ad hereditatem eius ex senatus consulto Orphitiano.
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“Sia che la madre sia ingenua o libertina, i figli possono essere ammessi all’eredità di lei in base al senatoconsulto Orfiziano”. Nt. 193 I. 3.5.1:…adgnati capite deminuti quique ex his progeniti sunt, ex lege duodecim tabularum inter legitimos non habentur, sed a praetore tertio ordine vocantur, exceptis solis tantummodo fratre et sorore emancipatis, non etiam liberis eorum quos lex Anastasiana cum fratribus integri iuris constitutis vocat quidem ad legitimam fratris hereditatem sive sororis, non aequis tamen partibus, sed cum aliqua deminutione quam facile est ex ipsius constitutionis verbis colligere, aliis vero adgnatis inferioris gradus, licet capitis deminutionem passi non sunt, tamen eos anteponit et procul dubio cognatis. “… gli agnati che abbiano subito una capitis deminutio, e i loro discendenti, non sono dalla legge delle XII Tavole considerati fra i legittimi, ma vengono chiamati dal pretore in un terzo ordine con la sola eccezione del fratello o della sorella emancipati che una legge di Anastasio chiama insieme con i fratelli detti di pieno diritto alla successione legittima del fratello o della sorella, non però in parti uguali, ma con una diminuzione che è facile ricavare dalle parole della costituzione stessa, comunque anteponendoli agli altri agnati di grado inferiore pure non colpiti da capitis deminutio, e, senza dubbio, ai cognati”.
16. Successione testamentaria. Il testamento: nozione e caratteri Nt. 203 I. 2.10 pr.: testamentum ex eo appellatur, quod testatio mentis est, “il testamento si chiama così perché è una attestazione di volontà”. Nt. 215 D. 34.4.4 (Ulp. 33 ad Sab.): ambulatoria enim est volutas defuncti usque ad vitae supremum exitum. “la volontà del defunto è mutevole fino all’ultimo istante di vita”.
17. Forme Nt. 217 Gai 2.101: Testamentorum autem genera initio duo fuerunt: nam aut calatis comitiis testamentum faciebant, quae comitia bis in anno testamentis faciendis destinata erant, aut in procinctu, id est, cum belli causa arma sumebant: procinctus est enim expeditus et armatus exercitus. alterum itaque in pace et in otio faciebant, alterum in proelium exituri. “All’inizio ci furono due generi di testamenti: invero, facevano testamento o a comizi convocati – e i comizi erano fissati, per fare testamento, due volte all’anno – o in ‘procinto’, cioè quando a causa di guerra prendevano le armi; ‘procinto’ è infatti
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l’esercito pronto e armato. Uno, dunque, lo facevano in pace e quiete; l’altro, sul punto di uscire in battaglia”. Nt. 219 Gai 2.102-103: Accessit deinde tertium genus testamenti, quod per aes et libram agitur…103. Sed illa quidem duo genera testamentorum in desuetudinem abierunt; hoc vero solum, quod per aes et libram fit, in usu retentum est. “si aggiunse poi un terzo genere di testamento, che si fa per rame e bilancia... 103. ma i primi due generi di testamenti caddero in desuetudine; e solo quello che si fa per rame e bilancia restò in uso”. Nt. 222 Gai 2.102: qui enim neque calatis comitiis neque in procinctu testamentum fecerat, is, si subita morte urguebatur, amico familiam suam, id est patrimonium suum, mancipio dabat eumque rogabat, quid cuique post mortem suam dari vellet. quod testamentum dicitur per aes et libram, scilicet quia per mancipationem peragitur. “Colui che non aveva fatto testamento né a comizi convocati né in procinto, se era oppressso dal timore di morte improvvisa, dava in mancipio a un amico la sua familia, cioè il suo patrimonio, e lo pregava di quel che a ciascuno voleva fosse dato dopo la sua morte. Questo testamento è detto per rame e bilancia, ovviamente perché si compie con una emancipazione”. Nt. 227 Gaio 2.103:…sane nunc aliter ordinatur, quam olim solebat; namque olim familiae emptor, id est, qui a testatore familiam accipiebat mancipio, heredis locum optinebat, et ob id ei mandabat testator, quid cuique post mortem suam dari vellet; nunc vero alius heres testamento instituitur, a quo etiam legata relinquuntur, alius dicis gratia propter veteris iuris imitationem familiae emptor adhibetur. “… oggi, certo, (il testamento per rame e bilancia) è organizzato diversamente da come avveniva un tempo. Un tempo, infatti, il compratore della familia, cioè colui che dal testatore riceveva in mancipio la familia, prendeva il posto d’erede, e perciò il testatore lo incaricava di quel che a ciascuno voleva fosse dato dopo la sua morte; oggi, invece, uno è istituito erede nel testamento e pure i legati si lasciano a suo carico, e un altro è impiegato pro forma come acquirente della familia ad imitazione del diritto antico”. Nt. 228 Gai 2.104: Eaque res ita agitur: qui facit testamentum, adhibitis, sicut in ceteris mancipationibus, V testibus civibus Romanis puberibus et libripende, postquam tabulas testamenti scripserit, mancipat alicui dicis gratia familiam suam; in qua re his verbis familiae emptor utitur: ‘familiam pecuniamque tuam endo mandatela tua custodelaque mea esse aio, eaque, quo tu testamentum facere possis secundum legem publicam, hoc aere’, et ut quidam adiciunt, ‘aeneaque libra, esto mihi empta’; deinde aere percutit libram idque aes dat testatori velut pretii loco; deinde testator tabulas testamenti manu tenens ita dicit: ‘haec ita ut in his tabulis cerisque scripta sunt, ita do ita lego ita testor, itaque vos, Quiri-
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tes, testimonium mihi perhibetote’; et hoc dicitur nuncupatio: nuncupare est enim palam nominare, et sane quae testator specialiter in tabulis testamenti scripserit, ea videtur generali sermone nominare atque confirmare. “E la cosa si svolge così: chi fa testamento, avvalendosi, come nelle altre mancipazioni, di cinque testimoni cittadini romani puberi e di un libripens, dopo che ha scritto le tavole del testamento, mancipa ad uno pro forma la sua familia; per il che l’acquirente della familia si serve di queste parole: – segue la formula sopra riportata – ; poi col bronzo percuote la bilancia, e quel bronzo dà al testatore come se fosse il prezzo; quindi il testatore, tenendo le tavole del testamento, dice così: ‘secondo quel che sta scritto in queste tavole cerate io do, io lego, io faccio testamento, e voi, o Quiriti, prestatemi testimonianza’; il che è detto nuncupazione: nuncupare vale infatti nominare pubblicamente, e, senza dubbio, le cose che il testatore abbia nelle tavole del testamento specificamente scritto appare, con generico discorso, nominare e confermare”. Nt. 230 Svet., De Poetis, Vita Hor.: Decessit...herede Augusto palam nuncupato, cum urgente vi valetudinis non sufficeret ad obsignandas testamenti tabulas. “… morì … avendo dichiarato apertamente Augusto erede non avendo forze sufficienti per predisporre le tavole del testamento”. Nt. 231 D. 28.1.21.3 (Ulp. 2 ad Sab.): Uno contextu actus testari oportet. “È necessario compiere l’atto testamentario in un’unica soluzione …”. Nt. 233 Gai 2.119: Praetor tamen, si septem signis testium signatum sit testamentum, scriptis heredibus secundum tabulas testamenti bonorum possessionem pollicetur, “Il pretore, però, se il testamento sia sigillato con i sigilli di sette testimoni promette a coloro che vi sono scritti eredi il possesso dei beni in conformità alle tavole del testamento”; I. 2.10.2: Sed praedicta quidem nomina testamentorum ad ius civile referebantur. postea vero ex edicto praetoris alia forma faciendorum testamentorum introducta est: iure enim honorario nulla emancipatio desiderabatur, sed septem testium signa sufficiebant, cum iure civili signa testium non erant necessaria. “Ma i predetti nomi di testamenti riguardavano il diritto civile. Successivamente, dall’Editto del pretore, fu introdotta un’altra forma di testamento: per diritto onorario, infatti, non si richiedeva alcuna emancipazione, ma bastavano i sigilli di sette testimoni, mentre per diritto civile i sigilli dei testimoni non erano necessari”. Nt. 234 Gai 2.120:…rescripto enim imperatoris Antonini significatur eos, qui secundum tabulas testamenti non iure factas bonorum possessionem petierint, posse adversus eos, qui ab intestato vindicant hereditatem, defendere se per exceptionem doli mali.
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“In un rescritto dell’imperatore Antonino (138-161 d.C.) è precisato che coloro i quali abbiano chiesto il possesso dei beni in conformità alle tavole del testamento non legalmente fatto possono difendersi contro coloro che rivendicano l’eredità senza testamento mediante l’eccezione di dolo malvagio”. Nt. 237 Nov. Theod. 16.2 e 6 = CI. 6.23.21.pr. e 4, a. 439: Hac consultissima lege sancimus licere per scripturam conficientibus testamentum, si nullum scire volunt quae in eo scripta sunt, signatam vel ligatam vel tantum clausulam involutamque proferre scripturam vel ipsius testatoris vel cuiuslibet alterius manu conscriptam, eamque rogatis testibus septem numero civibus romanis puberibus omnibus simul offerre signandam et subscribendam, dum tamen testibus praesentibus testator suum esse testamentum dixerit quod offertur eique ipse coram testibus sua manu in reliqua parte testamenti subscripserit: quo facto et testibus uno eodemque die ac tempore subscribentibus et consignantibus valere testamentum nec ideo infirmari, quod testes nesciant quae in eo scripta sunt testamento…4. Per nuncupationem quoque, hoc est sine scriptura, testamenta non alias valere sancimus, nisi septem testes, ut supra dictum est, simul uno eodemque tempore collecti testatoris voluntatem ut testamentum sine scriptura facientis audierint. “Con questa provvida disposizione stabiliamo che sia lecito a coloro che redigono un testamento scritto, se vogliono che nessuno sappia ciò che in esso è scritto, esibire lo scritto redatto dallo stesso testatore o da chiunque altro, contrassegnato o legato o soltanto chiuso e avvolto, e convocati i testi, sette di numero, cittadini romani e puberi, sottoporlo a tutti contemporaneamente per sigillarlo e sottoscriverlo, mentre peraltro il testatore avrà detto ai testi presenti che il testamento che esibisce è suo e lo avrà sottoscritto, presenti i testi, di suo pugno nella restante parte: ciò fatto e avendo sottoscritto i testimoni nello stesso giorno e momento, il testamento è perfetto né può essere invalidato perché i testi non sanno quello che è stato scritto in quel testamento… 4. Stabiliamo che i testamenti orali, cioè non fatti per iscritto, non siano validi se sette testimoni, come si è detto precedentemente, radunati insieme e contemporaneamente, non abbiano ascoltato la volontà del testatore che stia facendo il testamento non scritto”. Nt. 240 I. 2.10.14: Sed haec quidem de testamentis quae in scriptis conficiuntur. si quis autem voluerit sine scriptis ordinare iure civili testamentum, septem testibus adhibitis et sua voluntate coram eis nuncupata, sciat hoc perfectissimum testamentum iure civili firmunque constitutum. “Ma se uno abbia voluto far testamento senza scritti in base al diritto civile, adibiti sette testimoni ed enunciata la sua volontà di fronte a loro, sappia che questo è per diritto civile un testamento perfettissimo e validamente formato”. Nt. 242 I. 2.10.3: Sed cum paulatim tam ex usu hominum quam ex constitutionum emendationibus coepit in unam consonantiam ius civile et praetorium iungi, constitutum est, ut uno eodemque tempore, quod ius civile quodammodo exigebat, septem testibus adhibitis et
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subscriptione testium, quod ex constitutionibus inventum est, et ex edicto praetoris signacula testamentis imponerentur: ut hoc ius tripertitum esse videatur, ut testes quidem et eorum praesentia uno contextu testamenti celebrandi gratia a iure civili descendant, subscriptiones autem testatoris et testium ex sacrarum constitutionum observatione adhibeantur, signacula autem et numerus testium ex edicto praetoris. “Senonché, avendo a poco a poco il diritto civile e pretorio, sia per effetto dell’uso fattone dagli uomini, sia per gli emendamenti operati dalle costituzioni, cominciato a unirsi in unitaria armonia, si stabilì che, impiegandosi contemporaneamente, come in certo modo richiedeva il diritto civile, sette testimoni, e facendoli sottoscrivere, innovazione questa dovuta a costituzioni, fossero ai testamenti, in base all’editto del pretore, apposti anche i sigilli: cosicché la disciplina in materia appare tripartita, in quanto la necessità dei testimoni e della loro contestuale presenza per la celebrazione del testamento discende dal diritto civile, le sottoscrizioni del testatore e dei testimoni si effettuano in ossequio a costituzioni imperiali, i sigilli ed il numero dei testimoni derivano dall’editto del pretore”.
18. Forme speciali di testamento Nt. 251 D. 29.1.1 pr. (Ulp. 45 ad ed.): Militibus liberam testamenti factionem primus quidem divus Iulius Caesar concessit: sed ea concessio temporalis erat. postea vero primus divus titus dedit: post hoc domitianus: postea divus nerva plenissimam indulgentiam in milites contulit: eamque traianus secutus est et exinde mandatis inseri coepit caput tale. caput ex mandatis: ‘cum in notitiam meam prolatum sit subinde testamenta a commilitonibus relicta proferri, quae possint in controversiam deduci, si ad diligentiam legum revocentur et observantiam: secutus animi mei integritudinem erga optimos fidelissimosque commilitones simplicitati eorum consulendum existimavi, ut quoquomodo testati fuissent, rata esset eorum voluntas. faciant igitur testamenta quo modo volent, faciant quo modo poterint sufficiatque ad bonorum suorum divisionem faciendam nuda voluntas testatoris’. “Il divino Giulio Cesare per primo concesse ai militari di fare testamento liberamente: ma quella concessione era temporanea. In seguito in verità la diede in primo luogo Tito; dopo ciò Domiziano: in seguito il divino Nerva concesse una indulgenza plenaria ai militari: e ugualmente fece Traiano e da qui cominciò ad essere inserita nei mandati una disposizone in materia. Questa è la disposizione dei mandati: ‘Essendo stato portato a mia conoscenza che più volte è stata data notizia di testamenti lasciati da commilitoni, che potevano esser oggetto di contestazione se fossero stati ricondotti alla osservanza del preciso dettato delle leggi: seguendo la rettitudine del mio animo verso gli ottimi e fedelissimi commilitoni ho pensato di provvedere alla loro inesperienza (simplicitas), in modo che comunque avessero fatto testamento, la loro volontà fosse valida. Facciano pertanto testamento come vogliono, lo facciano come possono e sia sufficiente al testatore per la divisione dei propri beni la semplice volontà’”.
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19. Apertura del testamento Nt. 263 D. 43.5.1 pr. (Ulp. 68 ad ed.): Praetor ait: ‘quas tabulas Lucius Titius ad causam testamenti sui pertinentes reliquisse dicetur, si hae penes te sunt aut dolo malo tuo factum est, ut desinerent esse, ita eas illi exhibeas…’. “Il pretore dice: ‘Quelle tavole che si dice L. Tizio abbia lasciato concernenti il suo testamento, se sono presso di te o per tuo dolo malvagio è accaduto che non vi siano, esibiscile a quello …’”. Nt. 264 P.S. 4.6.3: Testamentum lex statim post mortem testatoris aperiri voluit. Et ideo quamvis sit rescriptis variatum, ta,en a praesentibus intra triduum vel quinqeu dies aperiendae sunt tabulae… “La legge vuole che il testamento sia aperto subito dopo la morte del testatore. E pertanto, sebbene l’indicazione sia stata modificata da rescritti imperiali, tuttavia tra presenti le tavole devono essere aperte entro tre o cinque giorni …”. Nt. 266 D. 29.3.4 (Ulp. 50 ad ed.): Cum ab initio aperiendae sint tabulae, praetoris id officium est, ut cogat signatores convenire et sigilla sua recognoscere. “In avvio, dovendosi procedere all’apertura delle tavole, al pretore spetta il compito di costringere i sottoscrittori a presentarsi e riconoscere i propri sigilli”.
20. Invalidità e inefficacia Nt. 271 Gai 2.145-146: Alio quoque modo testamenta iure facta infirmantur velut cum is, qui fecerit testamentum, capite deminutus sit…146. Hoc autem casu inrita fieri testamenta dicemus, cum alioquin et quae rumpuntur, inrita fiant, et quae statim ab initio non iure fiunt, inrita sint; sed et ea, quae iure facta sunt et postea propter capitis deminutionem inrita fiunt, possunt nihilo minus rupta dici. sed quia sane commodius erat singulas causas singulis appellationibus distingui, ideo quaedam non iure fieri dicuntur, quaedam iure facta rumpi vel inrita fieri.. “Anche per altro verso i testamenti legalmente fatti si invalidano, per esempio quando chi ha fatto testamento ha subito una capitis deminutio…146. In questo caso diremo che i testamenti diventano irriti: benché, del resto, anche quelli che si rompono diventino irriti ed irriti siano anche quelli che fin dall’inizio non sono fatti legalmente; ma anche quelli che sono fatti legalmente e poi per capitis deminutio diventano irriti, possono, ciò nondimeno, dirsi rotti. Ma poiché certo era più comodo distinguere i diversi casi con particolari appellativi, così certi testamenti si dicono non legalmente fatti, ed altri, legalmente fatti, si dice che si rompono o diventano irriti”.
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Nt. 275 Gai 2.130-131: Postumi quoque liberi nominatim vel heredes institui debent vel exheredari. 131. Et in eo par omnium condicio est, quod et in filio postumo et in quolibet ex ceteris liberis sive feminini sexus sive masculini praeterito valet quidem testamentum, sed postea adgnatione postumi sive postumae rumpitur, et ea ratione totum infirmatur… “Anche i discendenti postumi devono essere o istituiti eredi o diseredati. 131. E in questo la condizione di tutti è uguale, perché, tanto se sia postumo un figlio, quanto se lo sia qualunque altro discendente sia di sesso femminile che maschile, in caso di preterizione il testamento è valido, ma poi con il sopravvenire del postumo o della postuma si rompe, e così per intero si invalida …”. Nt. 276 Gai 2.138-139: Si quis post factum testamentum adoptaverit sibi filium aut per populum eum, qui sui iuris est, aut per praetorem eum, qui in potestate parentis fuerit, omni modo testamentum eius rumpitur quasi agnatione sui heredis. 139. Idem iuris est, si cui post factum testamentum uxor in manum conveniat, vel quae in manu fuit, nubat: nam eo modo filiae loco esse incipit et quasi sua. “Se uno, dopo aver fatto testamento, abbia adottato come figlio, o per mezzo del popolo chi sia giuridicamente autonomo, o per mezzo del pretore chi era in potestà del genitore, comunque il suo testamento si rompe quasi per sopravvenienza di un erede proprio. 139. Lo stesso ha luogo se a uno, fatto il testamento, venga in mano la moglie, o quella che gli era in mano lo sposi: in tal modo, invero, viene a trovarsi in luogo di figlia e come sua erede”.
21. Revoca Nt. 281 Gai 2.144: Posteriore quoque testamento, quod iure factum est, superius rumpitur; nec interest, an extiterit aliquis ex eo heres an non extiterit: hoc enim solum spectatur, an existere potuerit: ideoque si quis ex posteriore testamento, quod iure factum est, aut noluerit heres esse aut vivo testatore aut post mortem eius, antequam hereditatem adiret, decesserit aut per cretionem exclusus fuerit aut condicione, sub qua heres institutus est, defectus sit aut propter caelibatum ex lege Iulia summotus fuerit ab hereditate, quibus casibus pater familias intestatus moritur: nam et prius testamentum non valet ruptum a posteriore, et posterius aeque nullas vires habet, cum ex eo nemo heres extiterit. “Un testamento precedente è rotto anche da uno posteriore legalmente fatto. E non rileva che in base a questo qualcuno sia divenuto erede o no; si guarda solo a ciò: se un erede ci sarebbe potuto essere. E così, se in rapporto ad un testamento posteriore legalmente fatto, uno, o non abbia voluto esser erede, o sia morto quando il testatore era ancora vivo o dopo la morte di lui prima di aver adito l’eredità, o sia stato escluso per effetto della cretio, o sia mancato per effetto della condizione sotto la quale era stato istituito erede, o sia stato rimosso dalla eredità in base alla legge Giulia a causa
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del suo stato di celibe: in questi casi il padre di famiglia muore intestato, perché il primo testamento non vale in quanto rotto dal posteriore, e il posteriore ugualmente non ha efficacia alcuna in quanto sulla base di esso nessuno è divenuto erede”. Nt. 282 Gai 2.151: Potest, ut iure facta testamenta contraria voluntate infirmentur. apparet autem non posse ex eo solo infirmari testamentum, quod postea testator id noluerit valere, usque adeo, ut si linum eius inciderit, nihilo minus iure civili valeat. quin etiam si deleverit quoque aut combusserit tabulas testamenti, non ideo minus desinent valere, quae ibi fuerunt scripta, licet eorum probatio difficilis sit. “Può darsi che testamenti legalmente fatti siano invalidati da volontà contraria. È chiaro però che un testamento non può essere invalidato per ciò solo che in seguito il testatore non abbia voluto che valesse, al punto che, se ne abbia tagliato il filo, tuttavia per diritto civile è valido. Ed anche se abbia addirittura distrutto o bruciato le tavole del testamento, ciò nondimeno non cessa di aver valore quello che c’era scritto, per quanto la prova ne sia difficile”. Nt. 285 D. 28.4.1.4 (Ulp. 15 ad Sab.): Et hereditatis portio adempta vel tota hereditas, si forte sit substitutus, iure facta videbitur, non quasi adempta, quoniam hereditas semel data adimi facile non potest, sed quasi nec data. “Si considera fatta legittimamente sia la sottrazione di una porzione dell’eredità sia di tutta l’eredità, se ci sia un sostituto, non però come se fosse stata sottratta, dal momento che una eredità una volta assegnata non si può facilmente sottrarre, ma come se non fosse stata data”. Nt. 286 D. 37.11.1.10-11 (Ulp. 39 ad ed.): Si linum, quo ligatae sunt tabulae, incisum sit, si quidem alius contra voluntatem testatoris inciderit, bonorum possessio peti potest: quod si ipse testator id fecerit, non videntur signatae et ideo bonorum possessio peti non potest. [11] Si rosae sint a muribus tabulae vel linum aliter ruptum vel vetustate putrefactum vel situ vel casu, et sic videntur tabulae signatae… “Se sia tagliato il lino con il quale sono legate le tavole del testamento, se ciò sia stato fatto da un altro contro la volontà del testatore, può essere chiesta la bonorum possessio (secundum tabulas): che se avrà fatto ciò lo stesso testatore, non sembreranno approvate e pertanto non potrà essere chiesta la bonorum possessio. [11] Se le tavole risulteranno rose dai topi, ovvero il lino rotto altrimenti, o putrefatto per vecchiezza o per colpa del luogo o per il caso, anche in questo caso le tavole del testamento sembreranno approvate …”. Nt. 287 Gai 2.151 a: Quid ergo est? si quis ab intestato bonorum possessionem petierit et is, qui ex eo testamento heres est, petat hereditatem, perveniat hereditas: et hoc ita rescripto imperatoris Antonini significatur.
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“Che cosa accade? Se qualcuno ha chiesto la bonorum possessio ab intestato e colui che è erede in base a quel testamento, eserciti la petitio hereditatis, sarà respinto in base all’exceptio di dolo malvagio … e ciò è disposto da un rescritto dell’imperatore Antonino”. Nt. 291 Nov. Theod. 16.7, a. 439 (= CI. 6.23.21.5): Si quis autem testamento iure perfecto postea ad aliud pervenerit testamentum, non alias quod ante factum est infirmari decernimus, quam id, quod secundum facere testator instituit, iure fuerit consummatum, nisi forte in priore testamento scriptis his, qui ab intestato ad testatoris hereditatem successionemve venire non poterant, in secunda voluntate testator eos scribere instituit, qui ab intestato ad eius hereditatem vocantur. eo enim casu, licet imperfecta videatur scriptura posterior, infirmato priore testamento secundam eius voluntatem non quasi testamentum, sed quasi voluntatem intestati valere sancimus. “Se qualcuno tuttavia, perfezionato un testamento, in seguito è passato a un altro (testamento), quello che era stato predisposto precedentemente in tanto era invalidato in quanto quello che il testatore aveva iniziato a fare come secondo fosse stato completato secondo il diritto, a meno che, scritti nel primo testamento quelli che non potevano venire ab intestato alla eredità o successione del testatore, nel secondo testamento il testatore avesse istituito quelli che erano chiamati alla sua eredità ab intestato. Infatti in questo caso, sebbene la scrittura successiva sembri incompleta, invalidato il precedente testamento stabiliamo che valga la sua seconda volontà a favore degli eredi intestati”. Nt. 293 CI. 6.23.27 pr.-2, a. 530: Sancimus, si quis legitimo modo condidit testamentum et post eius confectionem decennium profluxit, si quidem nulla innovatio vel contraria voluntas testatoris apparuit, hoc esse firmum. quod enim non mutatur, quare stare prohibetur? quemadmodum enim, qui testamentum fecit et nihil voluit contrarium, intestatus efficitur? [1] Sin autem in medio tempore contraria voluntas ostenditur, si quidem perfectissima est secundi testamenti confectio, ipso iure prius tollitur testamentum. [2] Sin autem testator tantummodo dixerit non voluisse prius stare testamentum, vel aliis verbis utendo contrariam aperuit voluntatem, et hoc vel per testes idoneos non minus tribus vel inter acta manifestaverit et decennium fiat emensum, tunc irritum esse testamentum tam ex contraria voluntate quam ex cursu temporali. “[pr.] Stabiliamo che se qualcuno ha confezionato il proprio testamento in modo legittimo ed è trascorso un decennio dalla sua confezione, se al testatore non è sembrata opportuna alcuna innovazione o cambiamento, quel testamento deve rimanere valido, infatti ciò che non è cambiato, perché si dovrebbe proibire che rimanga valido? In che modo infatti si può far sì che chi ha fatto testamento e non ha voluto cambiare nulla, muoia intestato? [1] Se invece nel frattempo si manifesta una contraria volontà, se la confezione del secondo testamento è validissima, ipso iure è invalidato il precedente testamento. [2] Se poi il testatore si è limitato a dire che non voleva che fosse valido il precedente testamento, o utilizzando altre parole ha manifestato una volontà
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contraria e ciò ha reso noto davanti a testimoni idonei che fossero non meno di tre o presso un ufficio pubblico e sia decorso un decennio, allora il testamento (precedente) sarà invalido sia per la volontà contraria che per il decorso del tempo”.
22. Contenuto del testamento. Heredis institutio Nt. 295 Gai 2.229: Ante heredis institutionem inutiliter legatur, scilicet quia testamenta uim ex institutione heredis accipiunt, et ob id velut caput et fundamentum intellegitur totius testamenti heredis institutio. “Prima della istituzione di erede si lega inutilmente, perché i testamenti prendono forza da tale istituzione, e, perciò, la istituzione di erede si considera come il principio e il fondamento dell’intero testamento”. Nt. 296 D. 28.4.3 pr. (Marcell. 29 dig.): non potest ullum testamentum valere, quod heredem non habet. “Non può valere quel testamento, che manchi di istituzione di erede” D. 28.6.1.3 (Mod. 2 pand.): sine heredis institutione nihil in testamento scriptum valet. “Senza l’istituzione di erede, nulla di quello che è scritto nel testamento vale”. Nt. 297 D. 28.5.1 pr. (Ulp. 1 ad Sab.): Qui testatur ab heredis institutione plerumque debet initium facere testamenti. “Colui che fa testamento ‘per lo più’ deve iniziare dalla heredis institutio”. Nt. 298 Gai 2.231: Nostri praeceptores nec tutores eo loco dari posse existimant: sed Labeo et Proculus tutorem posse dari, quod nihil ex hereditate erogatur tutoris datione. “I nostri maestri ritengono che nemmeno possa darsi un tutore, in quel luogo; ma Labeone e Proculo ritengono di sì, perché con la dazione del tutore niente dell’eredità viene erogato”. Nt. 300 Gai 2.186: Sed noster servus simul et liber et heres esse iuberi debet, id est hoc modo: ‘Stichus servus meus liber heresque esto’... “Ma il servo nostro si deve contemporaneamente disporre che sia libero ed erede, cioè così: ‘Stico mio servo sia libero ed erede’…”. Nt. 301 I. 2.20.34: Ante heredis institutionem inutiliter antea legabatur, scilicet quia testamenta vim ex institutione heredum accipiunt et ob id veluti caput atque fundamentum intellegitur totius testamenti heredis institutio. pari ratione nec libertas ante heredis institutionem
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dari poterat. sed quia incivile esse putavimus, ordinem quidem scripturae sequi (quod et ipsi antiquitati vituperandum fuerat visum), sperni autem testatoris voluntatem: per nostram constitutionem et hoc vitium emendavimus, ut liceat et ante heredis institutionem et inter medias heredum institutiones legatum relinquere et multo magis libertatem, cuius usus favorabilior est. “Prima dell’istituzione di erede in passato si legava inutilmente, in quanto – si capisce – i testamenti prendono forza dalla istituzione degli eredi…per ugual ragione nemmeno la libertà si poteva dare prima della istituzione d’erede. Ma siccome abbiamo ritenuto ingiusto dar peso all’ordine dello scritto (cosa che agli antichi stessi era sembrata censurabile) non tenendo conto della volontà del testatore, con una nostra costituzione (CI. 6.23.24, a. 528) abbiamo eliminato anche questo inconveniente, di modo che sia lecito lasciare un legato, e tanto meglio una libertà, il disporre la quale è ancora più gradito, sia prima dell’istituzione di erede sia in mezzo a istituzioni di eredi”. Nt. 302 Gai 2.115-116: Non tamen, ut iure civili ualeat testamentum, sufficit ea observatio, quam supra exposuimus de familiae venditione et de testibus et de nuncupatione. 116. Sed ante omnia requirendum est, an institutio heredis sollemni more facta sit; nam aliter facta institutione nihil proficit familiam testatoris ita venire testesque ita adhibere et ita nuncupare testamentum, ut supra diximus. “Però, ai fini della validità del testamento per diritto civile ... 116. bisogna anzitutto ricercare se l’istituzione di erede sia compiuta in modo solenne: fatta diversamente, a nulla serve vendere il patrimonio del testatore, impiegare i testimoni, e compiere le dichiarazioni orali richieste per il testamento (nuncupatio), nel modo sopra detto (testamentum per aes et libram)”. Nt. 304 Gai 2.117: Sollemnis autem institutio haec est: ‘Titius heres esto’; sed et illa iam conprobata videtur: ‘Titium heredem esse iubeo’; at illa non est conprobata: ‘Titium heredem esse volo’; sed et illae a plerisque inprobatae sunt: ‘Titium heredem instituo’, item: ‘heredem facio’. “Istituzione solenne è questa: ‘Tizio sia mio erede’; ma risulta già approvata anche quest’altra: ‘dispongo (iubeo) che Tizio sia erede’; mentre non è approvata questa: ‘voglio che Tizio sia erede’, e dai più non sono approvate neanche le seguenti: ‘istituisco erede Tizio’ e ‘faccio erede Tizio’ ”. Nt. 306 D. 28.5.1.5 (Ulp. 1 ad Sab.): Si autem sic scribat: ‘Lucius heres’, licet non adiecerit ‘esto’, credimus plus nuncupatum, minus scriptum: et si ita: ‘Lucius esto’, tantundem dicimus: ergo et si ita: ‘Lucius’ solummodo. “Se tuttavia scriva così: ‘Lucio erede’, sebbene non abbia aggiunto ‘sia’, crediamo abbia dichiarato di più di quanto scritto: e se così abbia scritto: ‘Lucio sia’, pensiamo allo stesso modo: e così anche se abbia scritto ‘Lucio’ solamente”.
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Nt. 309 Nov. Theod. 16.8 = CI. 6.23.21.6 di Teodosio II e Valentiniano III del 439: Illud etiam huic legi perspeximus inserendum, ut etiam graece omnibus liceat testari. “Anche questo abbiamo ritenuto opportuno inserire nella presente legge: che a tutti sia consentito di testare anche in greco”. Nt. 310 D. 28.7.10 pr. (Ulp. 8 disp.): Institutio talis: ‘si codicillis seium heredem scripsero, heres esto’ non est inutilis… “Una istituzione di questo tipo: ‘se nei codicilli scriverò che Seio sia erede, egli sia erede’ non è inutile…”. Nt. 311 D. 28.5.51(50).2 (Ulp. 6 reg.): Hereditas plerumque dividitur in duodecim uncias, quae assis appellatione continentur. habent autem et hae partes propria nomina ab uncia usque ad assem, puta haec: sextans quadrans triens… “L’eredità il più delle volte si divide in dodici once, che sono ricomprese nella denominazione di asse, ma che hanno anche una propria denominazione da oncia fino ad asse, come queste: sextans, quadrans, triens …”. Nt. 312 I. 2.14.6: Si plures instituantur, ita demum partium distributio necessaria est si nolit testator eos ex aequis partibus heredes esse: satis enim constat, nullis partibus nominatis aequis ex partibus eos heredes esse. “Se vengano istituiti più eredi, l’assegnazione delle quote è necessaria solo se il testatore non voglia che essi siano eredi in parti uguali: invero è abbastanza noto che in difetto di indicazione di quote essi sono eredi in parti uguali”. Nt. 313 I. 2.14.5:…si unum tantum quis ex semisse verbi gratia heredem scripserit, totus as in semisse erit: neque enim idem ex parte testatus et ex parte intestatus decedere potest, nisi sit miles… “… se uno per esempio abbia istituito erede uno solo in un semiasse, l’intero asse coinciderà con il semiasse: uno, invero, non può morire per una parte avendo fatto testamento e per una parte non avendolo fatto, a meno che non sia un soldato …”. Nt. 314 I. 2.14.7: Videamus, si pars aliqua vacet nec tamen quisquam sine parte heres institutus sit, quid iuris sit? veluti si tres ex quartis partibus heredes scripti sunt. et constat, vacantem partem singulis tacite pro hereditaria parte accedere et perinde haberi ac si ex tertiis partibus heredes scripti essent: et ex diverso si plus asse in portionibus sit, tacite singulis decrescere, ut, si verbi gratia quattuor ex tertiis partibus heredes scripti sint, perinde habeantur ac si unusquisque ex quarta parte scriptus fuisset. “Vediamo la soluzione giuridica del caso in cui una quota sia libera e però nessuno sia istituito erede senza quota: ad es. se tre eredi sono istituiti in un quarto a testa. È pa-
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cifico che la quota vacante accede tacitamente a ciascuno in proporzione della sua quota di eredità, e che si considera come se gli eredi fossero istituiti in un terzo, all’opposto, nel caso di quote eccedenti, esse, per ciascuno, tacitamente si riducono, cosicché, se ad es. siano istituiti quattro eredi in un terzo a testa, si consideri come se ciascuno fosse stato istituito in un quarto”. Nt. 316 I. 2.14.6: ...partibus autem in quorundam personis expressis, si quis alius sine parte nominatus erit, si quidem aliqua pars assi deerit, ex ea parte heres fit, et si plures sine parte scripti sunt, omnes in eadem parte concurrent. “… indicate invece le quote per alcuni, se un altro sia nominato senza quota, egli diventa erede, nel caso in cui manchi qualche quota dell’asse, in quella quota; e se gli istituiti senza quota siano più, tutti concorrono in quella medesima quota”. Nt. 317 I. 2.14.6: si vero totus as completus sit, in partem dimidiam vocantur, et ille vel illi omnes in alteram dimidiam. “Nel caso invece in cui tutto l’asse sia esaurito, la chiamata si intende nella metà, e, per l’altro o gli altri tutti, nell’altra metà”.
22a. Institutio ex re certa Nt. 320 D. 28.5.75 (74) (Lic. Ruf. 2 reg.): Si ita quis heres institutus fuerit: " excepto fundo, excepto usu fructu heres esto", perinde erit iure civili atque si sine ea re heres institutus esset, idque auctoritate galli aquilii factum est. “Se qualcuno è istituito erede così: ‘eccetto il fondo, eccetto l’usufrutto sia erede’, per il diritto civile sarà come se fosse stato istituito senza questa eccezione, ed è considerato tale per l’autorità di Aquilio Gallo”. Nt. 321 D. 28.5.1.4 (Ulp. 1 ad Sab): Si ex fundo fuisset aliquis solus institutus, valet institutio detracta fundi mentione. “Se qualcuno fosse istituito solo in un fondo, la istituzione vale, eliminata la menzione del fondo”. Nt. 323 D. 28.5.35 pr. (Ulp. 4 disp.):…quidam duos heredes scripsisset, unum rerum provincialium, alterum rerum italicarum…dicebam receptum esse rerum heredem institui posse nec esse inutilem institutionem, sed ita, ut officio iudicis familiae herciscundae cognoscentis contineatur nihil amplius eum, qui ex re institutus est, quam rem, ex qua heres scriptus est, consequi. “Un tale nominò due eredi, uno dei beni provinciali, l’altro dei beni situati in Italia…affermavo che delle cose indicate potesse essere istituito erede né l’istituzione dovesse considerarsi inutile, ma fatta in modo tale che rientrasse nei compiti del giu-
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dice procedente alla divisione far conseguire a colui che era istituito in cosa determinata nient’altro che la cosa per la quale era stato istituito”. Nt. 328 CI. 6.24.13, a. 529: Quotiens certi quidem ex certa re scripti sunt heredes vel certis rebus pro sua institutione contenti esse iussi sunt, quos legatariorum loco haberi certum est, alii vero ex certa parte vel sine parte…decernimus, qui ex certa parte vel sine parte scripti fuerint, nec aliquam deminutionem earundem actionum occasione heredum ex certa re scriptorum fieri. “Ogni qual volta alcuni sono nominati eredi in cosa determinata o è loro ordinato ai fini dell’istituzione di accontentarsi di certi beni, i quali è certo si debbano considerare nel novero dei legatari, altri (sono nominati) in una quota determinata o senza quota … stabiliamo che possano servirsi di tutte le azioni ereditarie o essere convenuti solo coloro che sono stati nominati o in una quota determinata o senza quota”.
22b. Modalità dell’istituzione Nt. 340 Gai 3.98:…vix idonea diversitatis ratio reddi potest. “a fatica se ne poteva rintracciare una giustificazione idonea”. Nt. 341 D. 29.1.15.4 (Ulp. 45 ad ed.): Miles ad tempus heredem facere potest et alium post tempus vel ex condicione vel in condicionem. “Un militare può istituire l’erede per un certo tempo e un altro dopo un certo tempo o sotto condizione sospensiva o risolutiva”. Nt. 342 D. 28.5.34 (Papin. 1 defin.): Hereditas ex die vel ad diem non recte datur, sed vitio temporis sublato manet institutio. “Non viene deferita correttamente un’eredità con termine iniziale o finale, ma, tolto il vizio del termine, rimane l’istituzione”. Gai 2.184: Extraneo vero heredi instituto ita substituere non possumus, ut si heres extiterit et intra aliquod tempus decesserit, alius ei heres sit; sed hoc solum nobis permissum est, ut eum per fideicommissum obligemus, ut hereditatem nostram totam uel ex parte restituat… “Istituito erede un estraneo, non possiamo fare una sostituzione per cui se sia divenuto erede e poi morto entro un certo tempo, gli sia erede un altro; questo solo ci è consentito: di obbligarlo per fedecommesso a restituire la nostra eredità o tutta o in parte …”. I. 2.14.9: Heres et pure et sub condicione institui potest. ex certo tempore aut ad certum tempus non potest, veluti ‘post quinquennium quam moriar’ vel ‘ex kalendis illis’ aut ‘usque ad kalendas illas heres esto’: diemque adiectum pro supervacuo haberi placet, et perinde esse ac si pure heres institutus esset. “L’erede può essere istituito sia puramente e semplicemente che sotto condizione;
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non invece a partire da un certo momento o fino a un certo momento, ad es.: ‘dopo un quinquennio dalla mia morte’ oppure ‘dalle tali calende’ o ‘fino alle tali calende sia erede’: il termine aggiunto si è d’accordo di consideralo inutile, e la istituzione d’erede come se fosse pura e semplice”. Nt. 345 Gai 2.181:…in usu est vulgarem quidem substitutionem palam facere… “…è d’uso fare la sostituzione volgare (cioè usuale) apertamente …”. Nt. 347 Gai 2.174: Interdum duos pluresve gradus heredum facimus, hoc modo: ‘L. Titius heres esto cernitoque in diebus centum proximis, quibus scies poterisque. Quod ni ita creveris, exheres esto. Tum Mevius heres esto cernitoque in diebus centum’. et reliqua; et deinceps in quantum velimus, substituere possumus. “A volte stabiliamo due o più gradi di eredi, così: ‘sia erede L. Tizio, ed accetta nei successivi cento giorni in cui saprai e potrai. Se così non avrai accettato, sii diseredato. Allora sia erede Mevio, ed accetta nei cento giorni’ ed il resto. E ulteriormente possiamo sostituire fin quando vogliamo”; I. 2.15 pr.: Potest autem quis in testamento suo plures gradus heredum facere, ut puta ‘ si ille heres non erit, ille heres esto ’… “Uno può nel suo testamento stabilire più gradi di eredi, ad es. ‘se non sarà erede quello, sia erede quell’altro’ …”. Nt. 348 I. 2.15.1: Et plures in unius locum possunt substitui, vel unus in plurium, vel singuli singulis, vel invicem ipsi qui heredes instituti sunt. “si possono sostituire anche più in luogo di uno, oppure uno in luogo di più, oppure uno a uno, o fra di loro quelli stessi che sono istituiti eredi”. Nt. 350 D. 28.5.74 (73) (Gai. 13 ad leg. Iul. et Pap.).: Sub condicione herede instituto si substituamus, nisi eandem condicionem repetemus, pure eum heredem substituere intellegimur. “Se sostituiamo l’erede istituito sotto condizione, e non ripetiamo la stessa condizione, è da ritenere che intendiamo sostituirlo erede senza condizione”. Nt. 352 Gai 2.179: Liberis nostris inpuberibus, quos in potestate habemus, non solum ita, ut supra diximus, substituere possumus, id est, ut si heredes non extiterint, alius nobis heres sit; sed eo amplius ut, etiamsi heredes nobis extiterint et adhuc inpuberes mortui fuerint, sit iis aliquis heres, velut hoc modo: ‘Titius filius meus mihi heres esto. Si filius meus mihi heres non erit, sive heres mihi erit et is prius moriatur quam in suam tutelam venerit, tunc Seius heres esto’. “Ai nostri discendenti impuberi, che abbiamo in potestà, non solo possiamo sostituire qualcuno come sopra detto (sostituzione volgare), nel senso che, se non diventino
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eredi, ci sia erede un altro, ma addirittura nel senso che, se anche ci siano diventati eredi ma siano poi morti ancora impuberi, sia loro erede qualcuno. Per esempio così: ‘Mio figlio Tizio mi sia erede. Se mio figlio non mi sarà erede, o sarà erede ma muoia prima d’esser pervenuto a tutelarsi da solo, allora sia erede Seio’ ”. Nt. 353 D. 28.6.2 pr. (Ulp. 6 ad Sab.): Moribus introductum est, ut quis liberis impuberibus testamentum facere possit … quod sic erit accipiendum, si sint in potestate: ceterum emancipatis non possumus. postumis plane possumus… “Si è stabilito attraverso i mores che si possa fare testamento per i figli impuberi…la qual cosa così si deve intendere, se siano in potestà: diversamente non possiamo per gli emancipati. Possiamo sicuramente per i postumi …”. Nt. 354 D. 28.6.2.1 (Ulp. 6 ad Sab.): Quisquis autem impuberi testamentum facit, sibi quoque debet facere: ceterum soli filio non poterit, nisi forte miles sit. “Chiunque tuttavia fa testamento all’impubere, lo deve fare anche a sé stesso; di conseguenza non potrà farlo solo per il figlio, a meno che non sia soldato …”. Gai 2.181:…illam autem substitutionem, per quam, etiamsi heres extiterit pupillus et intra pubertatem decesserit, substitutum vocamus, separatim in inferioribus tabulis scribimus easque tabulas proprio lino propriaque cera consignamus et in prioribus tabulis cavemus, ne inferiores tabulae vivo filio et adhuc inpubere aperiantur… “quella sostituzione, poi, per cui anche se il pupillo sia divenuto erede ma sia morto prima della pubertà, chiamiamo il sostituto, la scriviamo separatamente in ulteriori tavole, che sigilliamo con lino e cera in modo autonomo, e nelle tavole antecedenti stabiliamo che le posteriori non vengano aperte quando il figlio è vivo ed ancora impubere …”. Nt. 355 Gai 2.182: Non solum autem heredibus institutis inpuberibus liberis ita substituere possumus, ut si ante pubertatem mortui fuerint, sit is heres, quem nos voluerimus, sed etiam exheredatis: itaque eo casu si quid pupillo ex hereditatibus legatisve aut donationibus propinquorum adquisitum fuerit, id omne ad substitutum pertinet. “Ai discendenti impuberi possiamo sostituire uno nel senso che, qualora muoiano prima della pubertà, sia erede chi vogliamo, non solo avendoli istituiti eredi, ma anche avendoli diseredati, In tal caso, pertanto, se sia al pupillo pervenuto alcunché da eredità, legati o donazioni dei parenti, tutto ciò spetta al sostituto”. Nt. 356 Gai 2.180:…quam ob rem duo quodam modo sunt testamenta, aliud patris, aliud filii, tamquam si ipse filius sibi heredem instituisset; aut certe unum est testamentum duarum hereditatum; “… per cui ci sono in qualche modo due testamenti: uno del padre, e uno del figlio come se il figlio stesso si fosse istituito un erede, o almeno, c’è un testamento per due eredità …”.
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D. 18.4.2.2 (Ulp. 49 ad Sab.): licet unum testamentum sit, alia tamen atque alia hereditas est. “sebbene uno sia il testamento, tuttavia c’è una e un’altra eredità”. Nt. 359 Gai 2.180: Quo casu si quidem non extiterit heres filius, substitutus patris fit heres; si vero heres extiterit filius et ante pubertatem decesserit, ipsi filio fit heres substitutus. “Nel qual caso, se il figlio non sarà diventato erede, diventa erede al padre il sostituto; se invece il figlio sia divenuto erede e sia poi morto prima della pubertà, il sostituto diventa erede al figlio”.
23. Limiti alla libertà di testare Nt. 367 D. 28.2.19 (Paul. 1 ad Vit.):…exheredationes autem non essent adiuvandae. “… le diseredazioni invece non devono essere favorite”. Nt. 372 Gai 2.127: Sed si quidem filius a patre exheredetur, nominatim exheredari debet; alioquin non prodest eum exheredari. nominatim autem exheredari videtur, sive ita exheredetur: ‘Titius filius meus exheres esto’, sive ita: ‘filius meus exheres esto’, non adiecto proprio nomine. “Se un padre disereda un figlio, deve farlo nominatamente: se no il figlio non si considera diseredato. Nominata appare la diseredazione se diseredi così: ‘Tizio, figlio mio, sia diseredato’, o così: ‘mio figlio sia diseredato’, senza aggiungere il nome proprio”. Nt. 373 Gai 2.123: Item qui filium in potestate habet, curare debet, ut eum vel heredem instituat vel nominatim exheredet; alioquin si eum silentio praeterierit, inutiliter testabitur: adeo quidem, ut nostri praeceptores existiment, etiam si vivo patre filius defunctus sit, neminem heredem ex eo testamento existere posse, scilicet quia statim ab initio non constiterit institutio; sed diversae scholae auctores, si quidem filius mortis patris tempore vivat, sane impedimento eum esse scriptis heredibus et illum ab intestato heredem fieri confitentur; si vero ante mortem patris interceptus sit, posse ex testamento hereditatem adiri putant, nullo iam filio impedimento; quia scilicet existimant non statim ab initio inutiliter fieri testamentum filio praeterito. “Chi ha un figlio in potestà, deve aver cura o di istituirlo erede o di diseredarlo nominatamente; se lo passa sotto silenzio, farà un testamento inutile al punto che i nostri maestri (sabiniani) reputano che, anche se il figlio sia morto vivente il padre, non potrà alcuno per quel testamento esser erede, in quanto la istituzione subito dall’inizio non avrebbe avuto valore. Ma gli autori dell’opposta scuola (proculiani), se il figlio al momento della morte del padre sia vivo, riconoscono che è di ostacolo agli
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eredi scritti e che diventa erede lui ab intestato; se invece sia tolto di mezzo prima della morte del padre, giudicano che si possa adire l’eredità in base al testamento, senza che il figlio sia ormai di ostacolo: evidentemente perché ritengono che, nel caso di preterizione del figlio, il testamento non sia stato inutile subito dall’inizio”. Nt. 375 Gai 2.124: Ceteras vero liberorum personas si praeterierit testator, valet testamentum: sed praeteritae istae personae scriptis heredibus in partem adcrescunt, si sui heredes sint, in virilem, si extranei, in dimidiam: id est, si quis tres verbi gratia filios heredes instituerit et filiam praeterierit, filia adcrescendo pro quarta parte fit heres et ea ratione id consequitur, quod ab intestato patre mortuo habitura esset; at si extraneos ille heredes instituerit et filiam praeterierit, filia adcrescendo ex dimidia parte fit heres. quae de filia diximus, eadem et de nepote deque omnibus ceteris liberorum personis seu masculini seu feminini sexus dicta intellegemus. “Se il testatore abbia preterito gli altri discendenti, il testamento è valido, ma i preteriti partecipano all’eredità aggiungendosi agli eredi scritti: con una quota virile, se questi siano propri; per la metà, se siano estranei. Cioè, se uno per esempio abbia istituito eredi tre figli e preterito una figlia, la figlia, aggiungendosi, diventa erede per una quarta parte, e in tal modo consegue ciò stesso che avrebbe avuto se il padre fosse morto senza testamento; se quello invece avesse istituito degli estranei e preterito la figlia, la figlia, aggiungendosi, diventa erede per la metà. Quel che abbiamo detto della figlia, lo intenderemo ugualmente detto per il nipote e per tutti i discendenti sia di sesso maschile che femminile”. Nt. 377 Gai 2.130-132: Postumi quoque liberi nominatim vel heredes institui debent vel exheredari. 131. Et in eo par omnium condicio est, quod et in filio postumo et in quolibet ex ceteris liberis sive feminini sexus sive masculini praeterito valet quidem testamentum, sed postea adgnatione postumi sive postumae rumpitur, et ea ratione totum infirmatur. ideoque si mulier, ex qua postumus aut postuma sperabatur, abortum fecerit, nihil impedimento est scriptis heredibus ad hereditatem adeundam. 132. Sed feminini quidem sexus personae vel nominatim vel inter ceteros exheredari solent, dum tamen, si inter ceteros exheredentur, aliquid eis legetur, ne videantur per oblivionem praeteritae esse: masculini vero sexus liberorum personas placuit non aliter recte exheredari, nisi nominatim exheredentur, hoc scilicet modo ‘quicumque mihi filius genitus fuerit exheres esto’. “Anche i discendenti postumi devono essere o istituiti eredi o diseredati. 131. E in questo la condizione di tutti è uguale, perché, tanto se sia postumo un figlio, quanto se lo sia qualunque altro discendente sia di sesso femminile che maschile, in caso di preterizione il testamento è valido, ma poi col sopravvenire del postumo o della postuma si rompe, e così per intero si invalida. Pertanto, se la donna da cui il postumo o la postuma si sperava, abbia abortito, niente impedisce agli eredi scritti di adire la eredità. 132. Ma le persone di sesso femminile si è soliti diseredarle o nominatamente o fra gli altri, purché, se si diseredino fra gli altri, si lasci loro qualcosa in legato, perché non appaiano preterite per dimenticanza. Invece le persone di sesso maschile si è
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ritenuto che non siano legalmente diseredate altro che se si diseredino nominatamente, cioè in questo modo: ‘qualunque figlio (maschio) mi sarà nato sia diseredato’ ”. Nt. 379 Gai 2.138-140: Si quis post factum testamentum adoptaverit sibi filium aut per populum eum, qui sui iuris est, aut per praetorem eum, qui in potestate parentis fuerit, omni modo testamentum eius rumpitur quasi agnatione sui heredis. 139. Idem iuris est, si cui post factum testamentum uxor in manum conveniat, uel quae in manu fuit, nubat: nam eo modo filiae loco esse incipit et quasi sua. 140. Nec prodest, sive haec sive ille, qui adoptatus est, in eo testamento sit institutus institutave: nam de exheredatione eius supervacuum videtur quaerere, cum testamenti faciundi tempore suorum heredum numero non fuerint. “Se uno, dopo aver fatto testamento, abbia adottato come figlio o per mezzo del popolo chi sia giuridicamente autonomo, o per mezzo del pretore chi era in potestà del genitore, comunque il suo testamento si rompe quasi per sopravvenienza d’un erede proprio. 139. Lo stesso ha luogo se a uno, fatto il testamento, venga in mano la moglie, o quella che gli era in mano lo sposi: in tal modo, invero, viene a trovarsi in luogo di figlia e come sua erede. 140. E non giova che questa, o l’adottato, siano istituiti in quel testamento; quanto alla sua diseredazione appare inutile indagare dato che, al tempo della confezione del testamento, non era nel novero degli eredi propri”.
23a. Regime pretorio Nt. 381 Gai 2.135: Emancipatos liberos iure civili neque heredes instituere neque exheredare necesse est, quia non sunt sui heredes: sed praetor omnes tam feminini quam masculini sexus, si heredes non instituantur, exheredari iubet, virilis sexus nominatim, feminini vel nominatim vel inter ceteros: quod si neque heredes instituti fuerint neque ita, ut supra diximus, exheredati, praetor promittit eis contra tabulas bonorum possessionem. “I figli emancipati non è necessario per diritto civile istituirli eredi o diseredarli, perché non sono eredi propri (sui); ma il pretore ordina che tutti, sia di sesso femminile che maschile, se non vengano istituiti eredi, siano diseredati: quelli di sesso maschile, nominatamente, quelli di sesso femminile, nominatamente o fra gli altri. E se non siano stati istituiti eredi né diseredati come sopra abbiamo detto, il pretore promette loro il possesso dei beni contro le tavole del testamento”. Nt. 383 Gai 2.125-126: Quid ergo est? licet hae secundum ea, quae diximus, scriptis heredibus dimidiam partem modo detrahant, tamen praetor eis contra tabulas bonorum possessionem promittit, qua ratione extranei heredes a tota hereditate repelluntur et efficiuntur sine re heredes. 126. Et hoc iure utebamur, quasi nihil inter feminas et masculos interesset; sed nuper imperator Antoninus significavit rescripto suas non plus nancisci feminas per bonorum possessionem, quam quod iure adcrescendi consequerentur. quod in emancipatarum quoque personis observandum est, ut nimirum hae quoque, quod adcrescendi
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iure habiturae essent, si in potestate fuissent, id ipsum etiam per bonorum possessionem habeant. “Sebbene costoro (figlie e nipoti), secondo ciò che abbiamo detto (ossia per lo ius civile), sottraggano la metà agli eredi scritti (se extranei), tuttavia il pretore promette ad essi il possesso dei beni contro le tavole del testamento, per cui gli eredi estranei vengono respinti da tutta l’eredità (in conseguenza dell’aprirsi della delazione ab intestato) e si riducono a eredi senza profitto. 126. Noi applicavamo il suddetto criterio prescindendo da differenze tra femmine e maschi; ma l’imperatore Antonino enunciò poco tempo addietro in un suo rescritto che le figlie non debbono ottenere col possesso dei beni più di quanto conseguirebbero col diritto di accrescimento. Il che va pure osservato in ordine alle emancipate, sicché anche queste abbiano col possesso dei beni quello stesso che per diritto di accrescimento avrebbero se fossero in potestà”. Nt. 384 D. 37.4.8.11 (Ulp. 40 ad ed.): In adoptionem datos filios non summoveri praetor voluit, modo heredes instituti sint, et hoc iustissime eum fecisse Labeo ait: nec enim in totum extranei sunt. ergo si fuerunt heredes scripti, accipient contra tabulas bonorum possessionem, sed ipsi soli non committent edictum, nisi fuerit alius praeteritus ex liberis qui solent committere edictum. “Il pretore volle che non fossero rimossi i figli dati in adozione, se fossero stati istituiti eredi e ciò Labeone dice che egli fece assai giustamente; infatti non si possono considerare completamente estranei. Pertanto se furono scritti eredi ottengano la bonorum possessio contra tabulas, ma per sé stessi non richiedano l’editto, se non sia stato preterito un altro dei figli che sogliono richiedere l’editto”. D. 28.2.32 (Marc. 2 reg.): Si filio emancipato exheredato is qui in potestate est praeteritus sit, ipse quidem emancipatus si contra tabulas petat, nihil agit, ab intestato autem et suus et emancipatus venient. “Se, diseredato il figlio emancipato, quello che è in potestà sia stato preterito, lo stesso emancipato, se chiede la bonorum possessio contra tabulas, agisce inutilmente [il testamento è infatti già nullo per il diritto civile]; il suus e l’emancipato vengono purtuttavia ab intestato”.
23b. Querela inofficiosi testamenti Nt. 392 D. 5.2.2 (Marc. 4 inst.): Hoc colore inofficioso testamento agitur, quasi non sanae mentis fuerunt, ut testamentum ordinarent. et hoc dicitur non quasi vere furiosus vel demens testatus sit, sed recte quidem fecit testamentum, sed non ex officio pietatis: nam si vere furiosus esset vel demens, nullum est testamentum. “Per questa considerazione si agisce per testamento inofficioso, come se non furono sani di mente nel disporre il testamento e ciò si dice quando si sia testato non come veramente furiosi o dementi, ma si sia fatto correttamente testamento, non tenendo conto però del dovere di pietà: infatti se il testatore fosse stato veramente furioso o demente, il testamento è nullo”.
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I. 2.18 pr.: Quia plerumque parentes sine causa liberos suos vel exheredant vel omittunt, inductum est ut de inofficioso testamento agere possint liberi, qui queruntur, aut inique se exheredatos aut inique praeteritos, hoc colore, quasi non sanae mentis fuerunt, cum testamentum ordinarent. sed hoc dicitur non quasi vere furiosus sit, sed recte quidem fecit testamentum, non autem ex officio pietatis: nam si vere furiosus est, nullum est testamentum. “Poiché gli ascendenti diseredano o trascurano i discendenti loro per lo più senza ragione, si è ammesso che i discendenti che lamentano una iniqua diseredazione o preterizione possano agire per inofficioso testamento, evocando l’apparenza che i testatori, quando fecero testamento, non fossero sani di mente. Ma questo detto nel senso, non che il testatore sia effettivamente pazzo, ma che, pur avendo fatto testamento in modo regolare, non l’ha però fatto uniformandosi alle esigenze etiche: invero, se è matto sul serio, il testamento è nullo”. Nt. 395 Gai 4.95: Ceterum si apud centumviros agitur, summam sponsionis non per formulam petimus, sed per legis actionem sacramento enim reum provocamus… “Se però si agisce davanti ai centumviri, la somma della promessa non la si chiede con la formula, ma con la azione di legge; il convenuto, infatti, lo provochiamo con la scommessa …”. Nt. 397 D. 5.2.1 (Ulp. 14 ad ed.): Sciendum est frequentes esse inofficiosi querellas: omnibus enim tam parentibus quam liberis de inofficioso licet disputare. cognati enim proprii qui sunt ultra fratrem melius facerent, si se sumptibus inanibus non vexarent, cum optinere spem non haberent. “Bisogna sapere che sono frequenti le querele di inofficiosità (del testamento): a tutti infatti è lecito presentare istanza di inofficiosità, tanto parenti (genitori) quanto figli. I cognati infatti che occupano il grado oltre quello di fratello farebbero meglio se non assumessero oneri inutili non avendo alcuna speranza di ottenere la dichiarazione di inofficiosità”. Nt. 399 D. 5.2.8.6 (Ulp. 14 ad ed.): Si quis mortis causa filio donaverit quartam partem eius quod ad eum esset perventurum, si intestatus pater familias decessisset, puto secure eum testari. “Se qualcuno abbia donato a causa di morte al figlio la quarta parte di quello che gli sarebbe pervenuto, se il paterfamilias fosse deceduto intestato, ritengo abbia testato validamente”. Nt. 404 D. 5.2.8 pr. (Ulp. 14 ad ed.): Papinianus libro quinto quaestionum recte scribit inofficiosi querellam patrem filii sui nomine instituere non posse invito eo: ipsius enim iniuria est… “Papiniano nel libro quinto delle Questioni giustamente scrive che il padre non può
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intentare la querela inofficiosi testamenti per suo figlio ove questi sia contrario: sua infatti è l’iniuria …”. Nt. 405 D. 5.2.8.10 (Ulp. 14 ad ed.):…ante aditam hereditatem nec nascitur querella … “… prima della adizione della eredità non spetta la querela …”. Nt. 409 D. 5.2.8.16 (Ulp. 14 ad ed.): Si ex causa de inofficiosi cognoverit iudex et pronuntiaverit contra testamentum nec fuerit provocatum, ipso iure rescissum est: et suus heres erit secundum quem iudicatum est et bonorum possessor… “Se il giudice è stato chiamato a giudicare in un giudizo di inofficiosità e avrà deciso contro il testamento e non ci sarà stato appello, questo è rescisso ipso iure e (il querelante vittorioso) sarà suus heres secondo il giudizio emesso e bonorum possessor …”. Nt. 413 CTh. 2.19.1 = CI. 3.28.27, a. 319: Fratres vel sorores uterini ab inofficiosi actione contra testamentum fratris vel sororis penitus arceantur: consanguinei autem durante vel non agnatione contra testamentum fratris sui vel sororis de inofficioso quaestionem movere possunt, si scripti heredes infamiae vel turpitudinis vel levis notae macula adsparguntur…. “I fratelli e le sorelle uterini (nati dalla stessa madre) siano impediti dall’esercitare l’azione di inofficiosità contro il testamento del fratello o della sorella: i consanguinei invece, esistente o non il vincolo di agnazione, possono intentare l’azione di inofficiosità contro il testamento del loro fratello o sorella, se gli eredi scritti (nel testamento) si siano macchiati di infamia o turpitudine o di una leggera nota di riprovazione…”. Nt. 415 CI. 3.28.30 pr., a. 528…liceat vero his personis, quae testamentum quasi inofficiosum vel alio modo subvertendum queri poterant, id quod minus portione legitima sibi relictum est ad implendam eam sine ullo gravamine vel mora exigere… “…sia consentito a quelle persone che potranno chiedere che il testamento sia invalidato come inofficioso o in altro modo, esigere che sia loro integrato senza alcun gravame o ritardo ciò che sia stato lasciato in meno rispetto alla porzione legittima …”.
23c. Successione necessaria del patrono Nt. 420 Gai 3.49: Patronae olim…hoc solum ius habebant in bonis libertorum, quod etiam patronis ex lege XII tabularum datum est. nec enim ut contra tabulas testamenti ingrati liberti…bonorum possessionem partis dimidiae peterent, praetor similiter ut de patrono liberisque eius curabat. “Un tempo … le patrone non avevano sui beni dei liberti altro diritto che quello dato anche ai patroni dalla legge delle XII Tavole. Il pretore, infatti, non aveva cura che esse, come il patrono ed i suoi discendenti, chiedessero il possesso della metà dei beni contro le tavole testamentarie del liberto ingrato ...”.
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Nt. 422 Gai 3.41:…sive enim faciat testamentum libertus, iubetur ita testari, ut patrono suo partem dimidiam bonorum suorum relinquat, et si aut nihil aut minus quam partem dimidiam reliquerit, datur patrono contra tabulas testamenti partis dimidiae bonorum possessio… prosunt autem liberto ad excludendum patronum naturales liberi, non solum quos in potestate mortis tempore habet, sed etiam emancipati et in adoptionem dati, si modo aliqua ex parte heredes scripti sint aut praeteriti contra tabulas testamenti bonorum possessionem ex edicto petierint; nam exheredati nullo modo repellunt patronum. “… se il liberto faccia testamento, è disposto che lo faccia in modo da lasciare al suo patrono la metà dei suoi beni, e se non gli abbia lasciato niente o meno della metà, è dato al patrono il possesso di metà dei beni contro le tavole del testamento... giovano al liberto, a escludere il patrono, i discendenti naturali; non solo quelli che ha in potestà al tempo della morte, ma anche gli emancipati e quelli dati in adozione, purché siano stati scritti eredi per qualche parte, o, essendo stati preteriti, abbiano chiesto in base all’editto il possesso dei beni contro le tavole del testamento: diseredati, infatti, in nessun modo respingono il patrono”. Nt. 423 Gai 3.43: In bonis libertinarum nullam iniuriam antiquo iure patiebantur patroni. cum enim hae in patronorum legitima tutela essent, non aliter scilicet testamentum facere poterant quam patrono auctore, “Quanto ai beni delle libertine, nessun torto subivano i patroni in base al diritto antico. Essendo infatti costoro sotto la tutela legittima dei patroni, non potevano naturalmente fare testamento che con l’autorizzazione del patrono”. Nt. 424 I. 3.7.3: Sed nostra constitutio, quam pro omnium notione Graeca lingua compendioso tractatu habito composuimus, ita huiusmodi causas definivit, ut si quidem libertus vel liberta minores centenariis sint, id est minus centum aureis habeant substantiam …nullum locum habeat patronus in eorum successionem, si tamen testamentum fecerint….cum vero maiores centenariis sint, si heredes vel bonorum possessores liberos habeant sive unum sive plures cuiuscumque sexus vel gradus, ad eos successionem parentum deduximus, omnibus patronis una cum sua progenie semotis. sin autem sine liberis decesserint,… si vero testamentum quidem fecerint, patronos autem vel patronas praeterierint, cum nullos liberos haberent vel habentes eos exheredaverint…tunc ex nostra constitutione per bonorum possessionem contra tabulas non dimidiam, ut ante, sed tertiam partem bonorum liberti consequantur… “Ma una nostra costituzione (CI. 6.4.4 del 531), che per conoscenza di tutti redigemmo in greco, trattando la materia in breve c fissò i seguenti casi: se il liberto o la liberta siano al di sotto dei cento, cioè abbiano un patrimonio inferiore ai cento aurei, …il patrono, se essi abbiano fatto testamento, non sia ammesso per nulla alla loro successione…quando viceversa i liberti siano al di sopra dei cento, se abbiano quali eredi o possessori dei beni dei discendenti di qualunque sesso o grado, in numero di uno o più, abbiamo devoluto a questi la successione degli ascendenti, allontanando
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tutti i patroni e la loro prole. Nel caso invece che i liberti siano morti senza discendenti … se avevano fatto testamento, però omettendo patroni o patrone mentre non avevano discendenti, o, se li avevano diseredati … allora, in base alla nostra costituzione, conseguano i patroni col possesso dei beni contro le tavole del testamento, non la metà, come prima, bensì il terzo dei beni del liberto …”.
24. I legati 24a. Tipi di legato ed evoluzione storica Nt. 425 Gai 2.270 a: Item legatum codicillis relictum non aliter valet, quam si a testatore confirmati fuerint, id est, nisi in testamento caverit testator, ut quidquid in codicillis scripserit, id ratum sit; fideicommissum vero etiam non confirmatis codicillis relinqui potest. “Analogamente, un legato lasciato nei codicilli vale soltanto se questi furono confermati dal testatore, cioè se il testatore avesse disposto nel testamento che qualunque cosa avesse scritto nei codicilli avesse valore …”. Nt. 427 Gai 2.192: Legatorum itaque genera sunt quattuor… “I generi di legati sono quattro …”. Nt. 429 I. 2.20.1: Legatum itaque est donatio quaedam a defuncto relicta. “Il legato è, per così dire, una donazione lasciata dal defunto”. Nt. 433 Tit. ex corp. Ulp. 19.17: Lege nobis adquiritur…legatum ex lege duodecim tabularum.. “Per legge si acquista a noi … il legato in base alla legge delle XII Tavole”. Nt. 435 Gai 2.193: Per vindicationem hoc modo legamus: ‘Titio’ verbi gratia ‘hominem Stichum do lego’; sed et si alterum verbum positum sit, veluti ‘do’ aut ‘lego’, aeque per vindicationem legatum est: item, ut magis visum est, et si ita legatum fuerit: ‘sumito’ vel ita: ‘sibi habeto’ vel ita: ‘capito’, aeque per vindicationem legatum est. “Per rivendicazione leghiamo così: ‘a Tizio’, ad es., ‘do e lego l’uomo Stico’; ma anche se sia omesso l’uno o l’altro dei due verbi, come ‘do’ oppure ‘lego’, è ugualmente legato per rivendicazione; analogamente, come di preferenza si è ritenuto, se si sia legato così ‘acquisti’, oppure così: ‘abbia’, o così: ‘pigli’, è ugualmente legato per rivendicazione”. Nt. 436 Gai 2.194: Ideo autem per vindicationem legatum appellatur, quia post aditam hereditatem statim ex iure Quiritium res legatarii fit; et si eam rem legatarius vel ab herede vel ab
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alio quocumque, qui eam possidet, petat, vindicare debet, id est intendere suam rem ex iure Quiritium esse. “… Si chiama legato per rivendicazione perché, subito dopo l’adizione dell’eredità, per diritto dei Quiriti la cosa diventa del legatario; e se il legatario chieda la cosa all’erede o a chiunque altro la possieda, deve rivendicarla, cioè assumere la cosa essere sua per diritto dei Quiriti”. Nt. 438 Gai 2.196: Eae autem solae res per vindicationem legantur recte, quae ex iure Quiritium ipsius testatoris sunt; sed eas quidem res, quae pondere, numero, mensura constant, placuit sufficere, si mortis tempore sint ex iure Quiritium testatoris, veluti vinum, oleum, frumentum, pecuniam numeratam; ceteras res vero placuit utroque tempore testatoris ex iure Quiritium esse debere, id est, et quo faceret testamentum, et quo moreretur; alioquin inutile est legatum. “Per rivendicazione si legano correttamente solo quelle cose che sono del testatore per diritto dei Quiriti. Ma per le cose che si valutano a peso, numero o misura, si è ritenuto sufficiente che siano del testatore per diritto dei Quiriti al momento della morte, ad es. il vino, l’olio, il frumento, il denaro contante. Per le altre cose, invece, si è ritenuto che debbano essere del testatore per diritto dei Quiriti in entrambi i momenti, cioè sia in quello in cui faceva testamento, sia in quello in cui moriva; altrimenti il legato è inutile”. Nt. 439 Gai 2.201: Per damnationem hoc modo legamus: ‘heres meus Stichum servum meum dare damnas esto; sed et si ‘dato’ scriptum fuerit, per damnationem legatum est. “Per damnationem (‘imposizione d’obbligo’) leghiamo così: ‘il mio erede sia tenuto a dare il mio servo Stico’; ma anche se è stato scritto ‘dia’ (dato), è legato per imposizione d’obbligo”. Nt. 441 Gai 2.204: Quod autem ita legatum est….etiamsi pure legatum est, non, ut per vindicationem legatum, continuo legatario adquiritur, sed nihilo minus heredis est: et ideo legatarius in personam agere debet, id est intendere heredem sibi dare oportere, et tum heres rem, si mancipi sit, mancipio dare aut in iure cedere possessionemque tradere debet; si nec mancipi sit, sufficit, si tradiderit. nam si mancipi rem tantum tradiderit nec mancipaverit, usucapione demum pleno iure fit legatarii. completur autem usucapio, sicut alio quoque loco diximus, mobilium quidem rerum anno, earum vero, quae solo teneantur, biennio. “Ciò che è legato così … non si acquista subito al legatario dopo la adizione dell’eredità come il legato per rivendicazione, ma è ciò nondimeno dell’erede. E pertanto il legatario deve agire con azione personale, cioè assumere che l’erede deve darglielo; e allora l’erede, se la cosa sia mancipi, deve darla in mancipio o cederla in tribunale e consegnare il possesso; se sia non mancipi, basta che la consegni. Invero se la cosa mancipi la consegna soltanto, senza farne la mancipazione, diventa del legatario di pieno diritto con la usucapione …”.
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Nt. 443 Gai 2.202: Eoque genere legati etiam aliena res legari potest, ita ut heres rem redimere et praestare aut aestimationem eius dare debeat. “Con tal genere di legato si può legare anche la cosa altrui, così che l’erede debba comprare la cosa e prestarla o darne la stima”. Gai 2.203: Ea quoque res, quae in rerum natura non est, si modo futura est, per damnationem legari potest, velut fructus, qui in illo fundo nati erunt, aut quod ex illa ancilla natum erit. “Anche la cosa che non esiste in natura, può, se ci sarà, esser legata per damnationem, come ‘i frutti che saranno nati in quel fondo’ o ‘ciò che sarà nato da quella schiava’ ”. Gai 2.283: Item quod quisque ex fideicommisso plus debito per errorem solverit, repetere potest; at id, quod ex causa falsa per damnationem legati plus debito solutum sit, repeti non potest. “Così, ciò che chiunque per un fedecommesso abbia erroneamente pagato in più del debito, può ripeterlo; ma ciò che per causa d’errore in rapporto ad un legato per imposizione d’obbligo si sia pagato in più del debito, non si può ripetere”. Nt. 445 Gai 2.211-212 Sed si quidem mortis testatoris tempore res vel ipsius testatoris sit vel heredis, plane utile legatum est, etiamsi testamenti faciendi tempore neutrius fuerit. 212. Quod si post mortem testatoris ea res heredis esse coeperit, quaeritur, an utile sit legatum: et plerique putant inutile esse. quid ergo est? licet aliquis eam rem legaverit, quae neque eius umquam fuerit neque postea heredis eius umquam esse coeperit, ex senatus consulto Neroniano proinde videtur, ac si per damnationem relicta esset. “Se al momento della morte del testatore la cosa sia del testatore stesso o dell’erede, il legato è certo utile, anche se al momento della confezione del testamento non fosse di nessuno dei due. 212. Se la cosa è divenuta dell’erede dopo la morte del testatore, si domanda se il legato sia utile. Ed i più ritengono che non lo sia. Che cosa si verifica dunque? Benché uno abbia legato una cosa che non fu mai sua, né poi divenne mai del suo erede, in base al sc. Neroniano è come se fosse stata lasciata per imposizione d’obbligo”. Nt. 446 Gai 2.210: Quod genus legati plus quidem habet quam per vindicationem legatum, minus autem quam per damnationem: nam eo modo non solum suam rem testator utiliter legare potest, sed etiam heredis sui, cum alioquin per vindicationem nisi suam rem legare non potest, per damnationem autem cuiuslibet extranei rem legare potest. “Il qual genere di legato ha più del legato per rivendicazione e meno di quello per imposizione d’obbligo (damnationem). Infatti, in tal modo, il testatore può legare utilmente non solo la cosa sua, ma anche quella del suo erede; mentre, diversamente, per rivendicazione non può legare che la cosa sua, e, per imposizione d’obbligo (damnationem), può legare la cosa di qualunque estraneo”.
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Nt. 447 Gai 2.213-214: Sicut autem per damnationem legata res non statim post aditam hereditatem legatarii efficitur, sed manet heredis eo usque, donec is tradendo uel mancipando uel in iure cedendo legatarii eam fecerit, ita et in sinendi modo legato iuris est; et ideo huius quoque legati nomine in personam actio est ‘quidquid heredem ex testamento dare facere oportet’. 214. Sunt tamen, qui putant ex hoc legato non videri obligatum heredem, ut mancipet aut in iure cedat aut tradat, sed sufficere, ut legatarium rem sumere patiatur; quia nihil ultra ei testator imperavit, quam ut sinat, id est patiatur, legatarium rem sibi habere. “Come la cosa legata per imposizione d’obbligo (damnationem) non diventa subito del legatario dopo l’adizione dell’eredità, ma resta dell’erede finché costui, consegnandola, mancipandola, cedendola in tribunale, l’abbia fatta diventare del legatario, così è regola anche nel legato con prescrizione di permettere (sinendi modo); e perciò anche per questo legato c’è un’azione personale (con intentio del seguente tenore): ‘qualunque cosa debba l’erede in base al testamento dare o fare’. 214. Ci sono però di quelli che ritengono che da questo legato l’erede non risulti obbligato a mancipare, o a cedere in tribunale, o a consegnare, ma che sia sufficiente che tolleri che il legatario prenda la cosa: in quanto il testatore nient’altro gli ha ordinato, se non di permettere, cioè tollerare, che il legatario abbia la cosa”. Nt. 448 Gai 2.216: Per praeceptionem hoc modo legamus: ‘Lucius Titius hominem Stichum praecipito’. “Per prelievo leghiamo così: ‘L. Tizio pigli prima l’uomo Stico’.”. Nt. 450 Gai 2.219-220: Item nostri praeceptores, quod ita legatum est, nulla alia ratione putant posse consequi eum, cui ita fuerit legatum, quam iudicio familiae erciscundae, quod inter heredes de hereditate erciscunda, id est dividunda, accipi solet: officio enim iudicis id contineri, ut ei, quod per praeceptionem legatum est, adiudicetur. 220. Unde intellegimus nihil aliud secundum nostrorum praeceptorum opinionem per praeceptionem legari posse, nisi quod testatoris sit. nulla enim alia res quam hereditaria deducitur in hoc iudicium. itaque si non suam rem eo modo testator legaverit, iure quidem civili inutile erit legatum, sed ex senatus consulto confirmabitur. “I nostri maestri (sabiniani) ritengono pure che l’onorato di questo legato non ne possa ottenere l’oggetto in alcun altro modo che col giudizio di divisione ereditaria, che suole ammettersi tra gli eredi per spartire l’eredità: reputano infatti implicato nell’ufficio del giudice che quel che è stato legato per prelievo sia aggiudicato. 220. Onde comprendiamo che secondo l’opinione dei nostri maestri niente altro si può legare per prelievo se non quello che sia del testatore: invero, all’infuori delle cose ereditarie, nessun’altra si deduce nel detto giudizio. Di conseguenza, se il testatore abbia legato in tal modo una cosa non sua, il legato, per diritto civile, sarà inutile; ma si convaliderà in base al senatoconsulto (neroniano)”.
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Nt. 451 Gai 2.221. Sed diversae scholae auctores putant etiam extraneo per praeceptionem legari posse, proinde ac si ita scribatur: ‘Titius hominem Stichum capito’, supervacuo adiecta ‘prae’ syllaba; ideoque per vindicationem eam rem legatam videri: quae sententia dicitur diui Hadriani constitutione confirmata esse. “Ma gli autori dell’opposta scuola (proculiani) reputano che si possa legare per prelievo anche ad un estraneo, come se si scrivesse così: ‘Tizio prenda l’uomo Stico’, superfluamente aggiungendo la sillaba ‘pre’, e che perciò la cosa risulti legata per rivendicazione. Il qual parere si dice sia stato confermato da una costituzione del divino Adriano (117-138 d.C.)”. Nt. 454 Gai 2.197:…postea vero auctore Nerone Caesare senatus consultum factum est, quo cautum est, ut si eam rem quisque legaverit, quae eius numquam fuerit, proinde utile sit legatum, atque si optimo iure relictum esset. optumum autem ius est per damnationem legati, quo genere etiam aliena res legari potest, sicut inferius apparebit. “… In seguito, però, fu fatto un senatoconsulto per iniziativa dell’imperatore Nerone, con cui si è disposto che se uno ha legato una cosa che non è mai stata sua, il legato sia utile come se fosse stato lasciato nella forma migliore: la forma migliore è quella del legato per imposizione d’obbligo (damnationem), con cui, come in seguito risulterà, si può legare anche la cosa altrui”. Nt. 457 I. 2.20.2: Sed olim quidem erant legatorum genera quattuor: per vindicationem, per damnationem, sinendi modo per praeceptionem: et certa quaedam verba cuique generi legatorum adsignata erant, per quae singula genera legatorum significabantur. sed ex constitutionibus divorum principum sollemnitas huiusmodi verborum penitus sublata est. nostra autem constitutio, quam cum magna fecimus lucubratione, defunctorum voluntates validiores esse cupientes, et non verbis sed voluntatibus eorum faventes, disposuit, ut omnibus legatis una sit natura et, quibuscumque verbis aliquid derelictum sit, liceat legatariis id persequi non solum per actiones personales, sed etiam per in rem et per hypothecariam: cuius constitutionis perpensum modum ex ipsius tenore pe fectissime accipere possibile est. “Un tempo c’erano quattro generi di legati: per rivendica (vindicationem), per imposizione d’obbligo (damnationem), con prescrizione di permettere (sinendi modo), per prelievo (praeceptionem); e a ciascun genere di legati erano assegnate alcune determinate parole che servivano ad indicarlo. Ma per effetto di costituzioni dei divini principi (Costanzo: CI. 6.37.21 del 339) siffatte parole solenni furono del tutto eliminate. Una nostra costituzione (CI. 6.43.1 del 529), poi, che molto meditammo, nel desiderio che le volontà dei defunti fossero più salde, e non le parole ma le volontà loro favorendo, stabilì che tutti i legati abbiano un’unica natura, e che, con qualsiasi parola sia stato lasciato qualche cosa, possano i legatari perseguirlo non solo con azioni personali, ma anche con l’azione reale ed ipotecaria: il ben ponderato criterio della costituzione è possibile ricavarlo perfettissimamente dal tenore della stessa”.
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24b. Soggetti Nt. 459 I. 2.20.24: Legari autem illis solis potest, cum quibus testamenti factio est. “Si può legare soltanto a coloro con i quali si ha testamenti factio”. Nt. 460 Gai 2.238: Incertae personae legatum inutiliter relinquitur. incerta autem videtur persona, quam per incertam opinionem animo suo testator subicit, velut cum ita legatum sit: ‘qui primus ad funus meum venerit, ei heres meus X milia dato’; idem iuris est, si generaliter omnibus legaverit: ‘quicumque ad funus meum venerit’; in eadem causa est, quod ita relinquitur: quicumque filio meo in matrimonium filiam suam conlocaverit, ei heres meus X milia dato’; …sub certa vero demonstratione incertae personae recte legatur, velut: ‘ex cognatis meis, qui primus ad funus meum venerit, ei X milia heres meus dato’. “Inutilmente si lascia un legato a una persona incerta. Incerta risulta la persona che il testatore sottopone alla sua volontà con previsione indeterminata, come quando si sia legato così: ‘Il mio erede dia diecimila al primo che sarà venuto al mio funerale’. È lo stesso, se abbia legato a tutti genericamente: ‘A chiunque sia venuto al mio funerale’ … Regolarmente si lega invece a una persona incerta dandone una indicazione determinata, come ‘il mio erede dia diecimila al primo dei miei attuali parenti che sarà venuto al mio funerale’ ”. Nt. 461 Gai 2.242: Ac ne heres quidem potest institui postumus alienus: est enim incerta persona. “Il postumo altrui (ossia quello che, nascendo, non sarebbe, rispetto al testatore, tra gli eredi propri (sui) ad es.: il nipote concepito da un figlio emancipato) non può nemmeno essere istituito erede: è infatti persona incerta”. Nt. 464 D. 31.16 (Cels. 16 dig.): Si Titio aut Seio, utri heres vellet, legatum relictum est, heres alteri dando ab utroque liberatur: si neutri dat, uterque perinde petere potest atque si ipsi soli legatum foret… “Se il legato è lasciato a Tizio o Seio, quale dei due l’erede voglia, l’erede dando a uno si libera nei confronti di entrambi: se non dà a nessuno, ciascuno dei due può chiedere come se a lui solo fosse stato legato …”. Nt. 467 D. 31.50 pr. (Marcell. 28 dig.): Ut heredibus substitui potest, ita etiam legatariis. “Come agli eredi si può nominare un sostituto così (lo si può fare) anche per i legatari”. Nt. 468 D. 35.2.11.5 (Papin. 29 quaest.):…ex nullo testamento praestatur ultra vires patrimonii… “… in base a nessun testamento si è tenuti ad eseguire oltre l’attivo ereditario …”.
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Nt. 474 Gai 2.232: Post mortem quoque heredis inutiliter legatur, id est hoc modo: ‘cum heres meus mortuus erit, do lego’, aut ‘dato’. ita autem recte legatur: ‘cum heres meus morietur’, quia non post mortem heredis relinquitur, sed ultimo vitae eius tempore. “Si lega inutilmente anche dopo la morte dell’erede, ad es. così: ‘quando il mio erede sarà morto, do e lego’ oppure ‘dia’. È invece regolare così: ‘quando il mio erede morirà’ perché non si lascia dopo la morte dell’erede ma nell’ultimo tempo della sua vita …”.
24c. Oggetto Nt. 475 I. 2.20.7: Ea quoque res, quae in rerum natura non est, si modo futura est, recte legatur, veluti fructus, qui in illo fundo nati erunt, aut quod ex illa ancilla natum erit. “Anche la cosa che in natura non esiste, a buon diritto la si lega se esisterà, ad es. i frutti che saranno nati da quel fondo, o quel che sarà nato da quella schiava”. Nt. 476 I. 2.20.4: Non solum autem testatoris vel heredis res, sed et aliena legari potest: ita ut heres cogatur redimere eam et praestare vel, si non potest redimere, aestimationem eius dare. sed si talis res sit, cuius non est commercium, nec aestimatio eius debetur, sicuti si campum Martium vel basilicam vel templa vel quae publico usui destinata sunt, legaverit: nam nullius momenti legatum est. quod autem diximus, alienam rem posse legari, ita intellegendum est, si defunctus sciebat alienam rem esse, non et si ignorabat; forsitan enim si scisset alienam non legasset: et ita divus Pius rescripsit…. “Non solo una cosa del testatore o dell’erede, ma anche una cosa altrui si può legare (cfr. Gai 2.202): così che l’erede sia costretto a comprarla e prestarla, o, se non può comprarla, a darne la stima. Ma se la cosa sia tale da non essere in commercio, nemmeno è dovuta la sua stima, come se uno abbia legato il campo Marzio, o basiliche, o templi, o cose destinate ad uso pubblico: tale legato non ha invero alcun valore. L’aver noi detto che si può legare una cosa altrui è da intendere nel senso: se il defunto sapeva che la cosa era altrui, non anche se lo ignorava; infatti, se l’avesse saputa altrui, forse non l’avrebbe legata E così rescrisse il divino Pio (cfr. D. 22.3.21, Marc. 6 inst.) …”. Nt. 477 I. 2.20.10: Sed si rem legatarii quis ei legaverit, inutile legatum est, quia quod proprium est ipsius, amplius eius fieri non potest: et licet alienaverit eam, non debetur nec ipsa nec aestimatio eius. “Se uno abbia legato al legatario una cosa di lui, il legato è inutile, perché quello che è in proprietà di lui non può maggiormente diventare suo; e anche se il legatario abbia alienato la cosa, non è dovuta né la cosa né la sua stima”. Nt. 478 Gai 2.235: Poenae quoque nomine inutiliter legatur. poenae autem nomine legari vide-
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tur, quod coercendi heredis causa relinquitur, quo magis heres aliquid faciat aut non faciat, velut quod ita legatur: ‘Si heres meus filiam suam Titio in matrimonium collocaverit, X milia Seio dato’, vel ita: Si filiam Titio in matrimonium non collocaveris, X milia Titio dato’… “Anche a titolo di pena si lega inutilmente. Legato a titolo di pena appare quello che si lascia per fare pressione sull’erede, in modo che l’erede a maggior ragione faccia o non faccia qualcosa, come ciò che si lega così: ‘se il mio erede darà sua figlia in moglie a Tizio, dia diecimila a Seio’, oppure così: ‘se non darai la figlia in moglie a Tizio, dà a Tizio diecimila’ …”. Nt. 481 Gai 2.262: Cum autem aliena res per fideicommissum relinquitur, necesse est ei, qui rogatus est, aut ipsam redimere et praestare aut aestimationem eius solvere, sicut iuris est, si per damnationem aliena res legata sit... “Quando poi è lasciata per fedecommesso una cosa altrui, è necessario che colui che è stato pregato, o la redima e presti, o ne paghi la stima, come è norma se è stata legata un cosa altrui per imposizione d’obbligo …”. Nt. 483 D. 31.19 (Cels. 36 dig.): Si is, cui legatus sit stichus aut pamphilus, cum stichum sibi legatum putaret, vindicaverit, amplius mutandae vindicationis ius non habet: tamquam si damnatus heres alterutrum dare stichum dederit, cum ignoret sibi permissum vel pamphilum dare, nihil repetere possit. “Se colui cui sia stato legato Stico o Panfilo, ritenendo essergli stato legato Stico, lo abbia rivendicato, non gli è data più possibilità di modificare l’oggetto della sua rivendica: come se essendo tenuto l’erede a dare l’uno o l’altro, diede Stico, ignorando che gli era permesso dare Panfilo, nulla può ripetere”. Nt. 484 I. 2.20.22: Si generaliter servus vel alia res legetur, electio legatarii est, nisi aliud testator dixerit. “Se il legato sia di un servo o di un’altra cosa genericamente, la scelta, in quanto il testatore non abbia detto altro, è del legatario”. Nt. 485 Tit. ex corp. Ulp. 24.14: Optione autem legati per vindicationem data legatarii electio est, veluti: ‘hominem optato, elegito’. “Data l’opzione nel legato per rivendicazione la scelta è del legatario, ad esempio ‘opti, scelga l’uomo’ ”. Nt. 487 I. 2.20.23: Optionis legatum, id est ubi testator ex servis suis vel aliis rebus optare legatarium iusserat,habebat in se condicionem, et ideo nisi ipse legatarius vivus optaverat, ad heredem legatum non transmittebat. sed ex constitutione nostra et hoc in meliorem statum reformatum est et data est licentia et heredi legatarii optare licet vivus legatarius hoc non
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fecit. Et diligentiore tractatu habito, et hoc in nostra constitutione additum est, ut, sive plures legatarii existant, quibus optio relicta est, et dissentiant in corpore eligendo, sive unius legatarii plures heredes, et inter se circa optandum dissentiant, alio aliud corpus eligere cupiente, ne pereat legatum (quod plerique prudentium contra benevolentiam introducebant), fortunam esse huius optionis iudicem et sorte esse hoc dirimendum, ut, ad quem sors perveniat, illius sententia in optione praecellat. “Il legato d’opzione, cioè quando il testatore autorizzava il legatario a scegliere tra i suoi servi o altre cose, era implicitamente condizionato, e, pertanto, se non aveva fatto la scelta il legatario stesso da vivo, non trasmetteva il legato al suo erede. Ma in forza di una costituzione (cfr. CI. 6.43.3 del 531) anche questo è stato modificato in meglio e anche all’erede del legatario è stata concessa la facoltà di scelta, sebbene da vivo il legatario non abbia provveduto …”. Nt. 488 D. 40.9.3 (Gai. 2 de leg. ad ed. urb.): Si optio hominis data sit vel indistincte homo legatus sit, non potest heres quosdam servos vel omnes manumittendo... “Se è data l’opzione di un uomo o sia legato un uomo senza specificazione, non può l’erede sottrarre o diminuire il diritto di scelta manomettendo o alcuni servi o tutti …”. Nt. 489 D. 10.4.3.6 (Ulp. 24 ad ed.): Item si optare velim servum vel quam aliam rem, cuius optio mihi relicta est, ad exhibendum me agere posse constat, ut exhibitis possim vindicare. “Parimenti se voglio optare per il servo o per qualche altra cosa, per la quale mi è stata lasciata l’opzione, è accertato che posso agire per l’esibizione, di modo che esibite quelle cose le possa rivendicare”. Nt. 491 Tit. ex corp. Ulp. 24.25: Sicut singulae res legari possunt, ita universarum quoque summa legari potest, ut puta hoc modo: ‘heres meus cum Titio hereditatem meam partitor, dividito: quo casu dimidia pars bonorum legata videtur. Potest autem et alia pars, velut tertia vel quarta, legari. Quae specie partitio appellatur. “Come si possono legare singole cose, così si può legare anche un insieme dell’intero patrimonio, come in questo modo: ‘il mio erede divida, ripartisca la mia eredità con Tizio’: nel qual caso si ritiene sia stata legata la metà dei beni. Può tuttavia esser legata un’altra parte, come la terza o la quarta parte. Questa fattispecie è denominata ‘partitio’ ”. Nt. 492 Tit. ex corp. Ulp. 25.15: Partis autem et pro parte proprie dicuntur, quae de lucro et damno communicando solent interponi inter heredem et legatarium partiarium, id est cum quo partibus est heres. “Stipulazioni ‘partis et pro parte’ si dicono propriamente quelle relative alla trasmissione dei vantaggi e dei danni che sogliono intercorrere tra erede e legatario parziario, cioè colui con cui l’erede deve ripartire (l’eredità)”.
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Nt. 494 I. 2.20.21: Tam autem corporales res quam incorporales legari possunt. et ideo quod defuncto debetur potest alicui legari, ut actiones suas heres legatario praestet, nisi exegerit vivus testator pecuniam: nam hoc casu legatum extinguitur. “Si possono legare sia cose corporali che incorporali. E, perciò, si può legare a qualcuno anche ciò che al defunto è dovuto, in modo che l’erede ceda le sue azioni al legatario, a meno che il testatore non abbia da vivo incassato il denaro: in tal caso, infatti, il legato si estingue”. Nt. 497 D. 34.3.8 pr. (Pomp. 6 ad Sab.): Non solum nostrum debitorem, sed et heredis et cuiuslibet alterius ut liberetur, legare possumus. “Possiamo legare che sia liberato non solo il nostro debitore, ma anche quello dell’erede o di chiunque altro”. D. 34.3.3.3 (Ulp. 23 ad Sab.): Nunc de effectu legati videamus. et si quidem mihi liberatio sit relicta, cum solus sim debitor, sive a me petatur, exceptione uti possum, sive non petatur, possum agere, ut liberer per acceptilationem. “Ora consideriamo gli effetti del legato. E se a me sia stato lasciato un legato di liberazione (dal debito), essendo il solo debitore, sia che a me si chieda, posso servirmi dell’eccezione (di dolo), sia che non si chieda, e allora posso agire per essere liberato attraverso acceptilatio”. Nt. 499 I. 2.20.14: Ex contrario si debitor creditori suo quod debet, legaverit, inutile est legatum, si nihil plus est in legato quam in debito, quia nihil amplius habet per legatum. quodsi in diem vel sub condicione debitum ei pure legaverit, utile est legatum propter repraesentationem. quodsi vivo testatore dies venerit aut condicio extiterit, Papinianus scripsit, utile esse nihilo minus legatum, quia semel constitit. quod et verum est: non enim placuit sententia existimantium, extinctum esse legatum, quia in eam causam pervenit, a qua incipere non potest. “Se sia al contrario il debitore ad aver legato al suo creditore quello che gli deve, il legato è inutile se nel legato non c’è niente di più che nel debito, poiché col legato il creditore non avrebbe niente di più. Se invece gli abbia legato puramente e semplicemente un debito a termine o sotto condizione, il legato è utile per effetto dell’anticipo; e se il termine sia maturato o la condizione si sia avverata essendo ancora in vita il testatore, Papiniano scrisse (cfr. D. 33.2.5, Papin. 8 resp.) che il legato era nondimeno utile, perché inizialmente era valido. Il che è vero: non trovò infatti gradimento l’opinione di coloro che ritenevano che il legato si fosse estinto, in quanto era venuto a trovarsi in una situazione per cui non lo si sarebbe potuto fare”.
24d. Acquisto Nt. 507 D. 36.2.5.7 (Ulp. 20 ad Sab.): Si, cum dies legati cedere inciperet, alieni quis iuris est, deberi his legatum, quorum iuri fuit subiectus.
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“Se nel momento in cui dies legati cedit qualcuno (il legatario) è alieni iuris, il legato è dovuto a coloro ai quali questi sia soggetto”; Nt. 508 Gai 2.195: In eo solo dissentiunt prudentes, quod Sabinus quidem et Cassius ceterique nostri praeceptores, quod ita legatum sit, statim post aditam hereditatem putant fieri legatarii, etiamsi ignoret sibi legatum esse, sed postea quam scierit et spreverit legatum, proinde esse atque si legatum non esset; Nerva vero et Proculus ceterique illius scholae auctores non aliter putant rem legatarii fieri, quam si voluerit eam ad se pertinere: sed hodie ex divi Pii Antonini constitutione hoc magis iure uti videmur, quod Proculo placuit; nam cum legatus fuisset Latinus per vindicationem coloniae, ‘Deliberent’, inquit, ‘decuriones, an ad se velint pertinere, proinde ac si uni legatus esset’. “In questo solo dissentono i giuristi, che Sabino e Cassio e gli altri nostri maestri ritengono che quello che è stato legato così (per vindicationem), appena adita la eredità, diventi del legatario, anche se egli ignori che gli era stato fatto il legato, ma che se, dopo che l’ha saputo, trascuri il legato, è come se il legato non fosse stato fatto; invece Nerva e Proculo e gli altri autori di quella scuola reputano che la cosa non diventi del legatario se non in quanto egli voglia che gli appartenga. Ma oggi, in base ad una costituzione del divino Antonino Pio (138-161 d.C.), sembriamo preferire il criterio seguito da Proculo: infatti, avendo un latino legato per rivendicazione ad una colonia: ‘deliberino i decurioni – disse – se vogliono che loro appartenga, come se avesse legato ad un unico individuo’”. Nt. 510 Gai 2.200: Illud quaeritur, quod sub condicione per vindicationem legatum est, pendente condicione cuius esset: nostri praeceptores heredis esse putant exemplo statuliberi, id est eius servi, qui testamento sub aliqua condicione liber esse iussus est, quem constat interea heredis servum esse; sed diversae scholae auctores putant nullius interim eam rem esse; quod multo magis dicunt de eo, quod sine condicione pure legatum est, antequam legatarius admittat legatum. “Si chiede di chi sia, pendente la condizione, ciò che è stato legato per vindicationem sotto condizione. I nostri maestri ritengono che sia dell’erede sull’esempio dello statulibero, cioè di quel servo che è stato disposto in testamento che fosse libero sotto qualche condizione: di cui è risaputo che nel frattempo è servo dell’erede. Ma gli autori dell’opposta scuola reputano che frattanto la cosa sia di nessuno: il che a maggior ragione dicono di ciò che è legato puramente e semplicemente prima che il legatario consegua il legato”. Nt. 512 D. 43.3.1.1-2 (Ulp. 67 ad ed.): Hoc interdictum volgo ‘quod legatorum’ appellatur. 2. Est autem et ipsum apiscendae o adipiscendae? possessionis et continet hanc causam, ut, quod quis legatorum nomine non ex voluntate heredis occupavit, id restituat heredi… “Questo interdetto è comunemente denominato ‘quod legatorum’. Si tratta di un interdetto per ottenere il possesso e si basa su questo presupposto, che chi si impossessò di qualcosa a titolo di legato senza il consenso dell’erede debba restituirlo …”
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24e. Elementi accidentali Nt. 517 D. 36.3.1 pr. e 1 (Ulp. 79 ad ed.): Legatorum nomine satisdari oportere praetor putavit, ut, quibus testator dari fierive voluit, his diebus detur vel fiat dolumque malum afuturum stipulentur. 1. Semper autem satisdare cogitur, cuiuscumque sit dignitatis vel facultatium quarumcumque heres. “Il pretore ha ritenuto necessario che si desse garanzia a titolo di legato affinché a coloro che il testatore ha voluto che si desse o facesse, si dia o si faccia nel termine previsto e si convenga di astenersi dal dolo malvagio. Ma l’erede viene sempre costretto a garantire, qualunque sia la dignità o la ricchezza di lui”.
24f. Azioni e garanzie spettanti al legatario Nt. 525 D. 36.4.5.16 (Ulp. 52 ad ed.): Imperator Antoninus augustus rescripsit certis ex causis etiam in propria bona heredis legatarios et fideicommissarios esse mittendos, si post sex menses, quam aditi pro tribunali fuerint hi quorum de ea re notio est, in satisfactione cessatum est, inde fructus percepturos, quoad voluntati defunctorum satisfiat. “L’imperatore Antonino Augusto rescrisse che in determinate circostanze i legatari e i fedecommissari dovessero essere immessi (nel possesso) dei beni propri dell’erede, se decorsi sei mesi, da quando venne intrapreso il giudizio davanti ai giudici competenti, non ottennero soddisfazione, e che quindi possano percepirne i frutti in modo che si soddisfi alla volontà dei defunti”.
24g. Accrescimento Nt. 528 Gai 2.199: Illud constat, si duobus pluribusue per vindicationem eadem res legata sit, sive coniunctim sive disiunctim, et omnes veniant ad legatum, partes ad singulos pertinere et deficientis portionem collegatario adcrescere. coniunctim autem ita legatur: ‘Titio et Seio hominem Stichum do lego’; disiunctim ita: ‘Lucio Titio hominem Stichum do lego. Seio eundem hominem do lego. “È evidente che, se la medesima cosa sia legata per rivendicazione a due o più, sia congiuntamente che disgiuntamente, e tutti vengano al legato, a ciascuno compete una parte, e quella di chi viene a mancare si accresce al collegatario. Congiuntamente si lega così: ‘a Tizio e Seio do e lego l’uomo Stico’; disgiuntamente così: ‘A L. Tizio do e lego l’uomo Stico. A Seio do e lego lo stesso uomo’ ”. Nt. 529 Gai 2.205: Est et illa differentia huius et per vindicationem legati, quod si eadem res duobus pluribusve per damnationem legata sit, si quidem coniunctim, plane singulis partes debentur, sicut in per vindicationem legato diximus; si vero disiunctim, singulis solida debetur; ita fit, ut scilicet heres alteri rem, alteri aestimationem eius praestare debeat; et
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in coniunctis deficientis portio non ad collegatarium pertinet, sed in hereditate remanet. “Tra questo (legato per damnationem) e il legato per rivendicazione c’è anche la differenza che, se la medesima cosa sia legata a due o più per imposizione d’obbligo (damnationem), se congiuntamente, a ciascuno senza dubbio è dovuta una parte, come in ciò che è legato per rivendicazione; se invece disgiuntamente, a ciascuno è dovuto l’intero. Avviene così che l’erede, ovviamente, ad uno debba dare la cosa, e all’altro la sua stima. E nei legati congiunti la parte di chi viene a mancare non spetta al collegatario, bensì resta nell’eredità”. Nt. 531 Gai 2.206-208: Quod autem diximus deficientis portionem in per damnationem quidem legato in hereditate retineri, in per vindicationem vero collegatario adcrescere, admonendi sumus ante legem Papiam hoc iure civili ita fuisse; post legem vero Papiam deficientis portio caduca fit et ad eos pertinet, qui in eo testamento liberos habent. 207. Et quamvis prima causa sit in caducis vindicandis heredum liberos habentium, deinde si heredes liberos non habeant, legatariorum liberos habentium, tamen ipsa lege Papia significatur, ut collegatarius coniunctus, si liberos habeat, potior sit heredibus, etiamsi liberos habebunt. 208. Sed plerisque placuit, quantum ad hoc ius, quod lege Papia coniunctis constituitur, nihil interesse, utrum per vindicationem an per damnationem legatum sit. “Abbiamo detto che la parte di chi viene a mancare nel legato per imposizione d’obbligo (damnationem) resta nell’eredità, mentre in quello per rivendicazione si accresce al collegatario; ma dobbiamo avvertire che così era per diritto civile prima della legge Papia (9 d.C.). Dopo la legge Papia, invero, la parte di chi viene a mancare si caduca, e spetta a coloro che in quel testamento hanno figli. 207. E per quanto nella rivendica dei caduchi abbiano titolo per primi gli eredi con figli, e dopo, se gli eredi non abbiano figli, i legatari con figli, tuttavia dalla stessa legge Papia è stabilito che il collegatario congiunto, se abbia figli, prevalga sugli eredi, anche se avranno figli. 208. Circa questo diritto, che la legge Papia accorda ai congiunti, i più hanno ritenuto che non faccia differenza se il legato sia per rivendicazione o per imposizione d’obbligo”. Nt. 533 I. 2.20.8: Si eadem res duobus legata sit sive coniunctim sive disiunctim, si ambo perveniant ad legatum, scin ditur inter eos legatum: si alter deficiat, quia aut spreverit legatum aut vivo testatore decesserit aut alio quolibet modo defecerit, totum ad collegatarium pertinet. coniunctim autem legatur, veluti si quis dicat ‘ Titio et Seio hominem Stichum do lego ’: disiunctim ita ‘ Titio hominem Stichum do lego, Seio Stichum do lego ’, sed et si expresserit ‘ eundem hominem Stichum ’, aeque disiunctim legatum intellegitur. “Se la stessa cosa sia legata congiuntamente o disgiuntamente a due, ed entrambi pervengano al legato, il legato si divide tra di loro; se uno manchi perché abbia disdegnato il legato o sia morto vivente il testatore o sia venuto meno in qualunque altro modo, l’intero legato spetta al collegatario. Si lega congiuntamente ad es., se uno dica: ‘A Tizio e Seio do e lego l’uomo Stico’; disgiuntamente, così ‘A Tizio do e lego l’uomo Stico, a Seio do e lego Stico’. Ma anche se abbia precisato ‘lo stesso uomo Stico’, ugualmente il legato si intende disgiunto”.
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24h. Limitazioni e riduzioni dei legati Nt. 534 Gai 2.224: Sed olim quidem licebat totum patrimonium legatis atque libertatibus erogare nec quicquam heredi relinquere praeterquam inane nomen heredis; idque lex XII tabularum permittere videbatur, qua cavetur, ut quod quisque de re sua testatus esset, id ratum haberetur, his verbis: ‘uti legassit suae rei, ita ius esto’. qua de causa, qui scripti heredes erant, ab hereditate se abstinebant, et idcirco plerique intestati moriebantur. “Un tempo era consentito erogare in legati e affrancazioni tutto il patrimonio, e all’erede non lasciare nulla salvo il vuoto nome d’erede: e ciò sembrava permettere la legge delle XII Tavole da cui è disposto che come ciascuno avesse testato delle cose sue, fosse valido, con le parole ‘come abbia legato le cose sue, sia legge’. Onde coloro che erano scritti eredi si astenevano dall’eredità, e, pertanto, i più morivano intestati”. Nt. 535 Tit. ex corp. Ulp. 1.2: Minus quam perfecta lex est quae vetat aliquid fieri, et si factum sit, non rescindit, sed poenam iungit et qui contra legem fecit: qualis est lex Furia testamentaria, quae plus quam mille assium legatum mortisve causa prohibet capere, praeter exceptas personas, et adversus eum qui plus ceperit quadrupli poenam constituit. “La legge minus quam perfecta è quella che vieta che qualcosa sia fatto, e se l’atto è compiuto non lo rescinde, ma commina una pena a colui che ha agito contro la legge: è tale quale la legge Furia testamentaria (200 a.C. [?]), che vieta di prendere più di mille assi a titolo di legato o per causa di morte, ad esclusione delle persone eccettuate, e contro colui che abbia ricevuto di più ha stabilito la pena del quadruplo”. Nt. 536 F.V. 301: …lex Furia scripta est, …sex gradus et unam personam ex septimo gradu excepit sobrino natum. “La legge Furia è stata disposta … che fa eccezione per (i parenti fino al) sesto grado e del settimo grado esclude una persona, il nato dal cugino”. Nt. 537 Gai 4.23: Sed aliae leges ex quibusdam causis constituerunt quasdam actiones per manus iniectionem, sed puram, id est non pro iudicato, uelut lex Furia testamentaria adversus eum, qui legatorum nomine mortisve causa plus M assibus cepisset, cum ea lege non esset exceptus, ut ei plus capere liceret… “Ma altre leggi stabilirono per certi casi delle azioni basate sì sul potere di mettere la mano addosso, ma puro, cioè non come per giudicato: ad esempio la legge Furia testamentaria contro colui che a titolo di legati o per causa di morte avesse preso più di 1000 assi, mentre per quella legge non rientrava tra coloro che potevano eccezionalmente prendere di più ...”. Nt. 538 Gai 2.225-226: Itaque lata est lex Furia, qua exceptis personis quibusdam ceteris plus mille assibus legatorum nomine mortisve causa capere permissum non est. sed et haec lex
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non perfecit, quod voluit: qui enim uerbi gratia quinque milium aeris patrimonium habebat, poterat quinque hominibus singulis millenos asses legando totum patrimonium erogare. 226. Ideo postea lata est lex Voconia, qua cautum est, ne cui plus legatorum nomine mortisve causa capere liceret, quam heredes caperent. ex qua lege plane quidem aliquid utique heredes habere videbantur; sed tamen fere vitium simile nascebatur. nam in multas legatariorum personas distributo patrimonio poterat testator adeo heredi minimum relinquere, ut non expediret heredi huius lucri gratia totius hereditatis onera sustinere. “Fu emanata, di conseguenza, la legge Furia, per cui, escluse certe persone, alle altre non è permesso prendere a titolo di legato o a causa di morte più di 1000 assi. Ma questa legge non raggiunse quel che voleva: infatti, chi ad esempio aveva un patrimonio di 5000 assi poteva, legando a cinque uomini 1000 assi per uno, erogare tutto il patrimonio. 226. Perciò fu poi emanata la legge Voconia (169 a.C.), con cui fu disposto che non fosse consentito ad alcuno prendere a titolo di legato o a causa di morte più di quel che prendessero gli eredi. In base a questa legge, certo, gli eredi risultavano avere almeno qualche cosa; ne nasceva tuttavia un inconveniente pressappoco simile: infatti, distribuendo il patrimonio fra molti legatari, il testatore poteva lasciare all’erede un minimo tale, che non gli convenisse, per il profitto relativo, sostenere gli oneri di tutta la eredità”. Nt. 539 Gai 2.227: Lata est itaque lex Falcidia, qua cautum est, ne plus ei legare liceat quam dodrantem: itaque necesse est, ut heres quartam partem hereditatis habeat: et hoc nunc iure utimur. “Fu emanata infine la legge Falcidia (40 a.C.) con cui fu disposto che non gli sia lecito legare più di tre quarti. È necessario, quindi, che l’erede abbia la quarta parte dell’eredità. E questo è il criterio che ora seguiamo”. Nt. 542 I. 2.22.2-3: Quantitas autem patrimonii, ad quam ratio legisFalcidiae redigitur, mortis tempore spectatur. 3. Cum autem ratio legis Falcidiae ponitur, ante deducitur aes alienum, item funeris impensa et pretia servorum manumissorum, tunc deinde in reliquo ita ratio habetur, ut ex eo quarta pars apud heredes remaneat, tres vero partes inter legatarios distribuantur. “L’entità del patrimonio, cui si rapporta il calcolo della legge Falcidia, la si determina al tempo della morte … 3. Quando si fa il calcolo della legge Falcidia, prima si deducono i debiti, e così le spese di funerale e i valori dei servi manomessi, poi la si calcola sul resto in modo che un quarto rimanga agli eredi e tre quarti vengano distribuiti fra i legatari”.
24i. Nullità Nt. 548 D. 34.7.3 (Papin. 15 dig.): Catoniana regula non pertinet ad hereditates neque ad ea legata, quorum dies non mortis tempore, sed post aditam cedit hereditatem.
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“La regula Catoniana non concerne le eredità né quei legati, il cui dies cedit non al tempo della morte, ma dopo l’adizione dell’eredità”. D. 34.7.4 (Ulp. 10 ad Sab.): Placet Catonis regulam ad condicionales institutiones non pertinere. “Si concorda che la regula di Catone non concerne le istituzioni sotto condizione”. Nt. 549 D. 30.14 pr. (Ulp. 15 ad Sab.):…quod ademptum est, nec datum videri secundum Celsi et Marcelli sententiam, quae vera est. “… ciò che viene revocato, secondo l’opinione di Celso e Marcello, che è vera, si deve considerare come non dato”. Nt. 550 Tit. ex corp. Ulp. 24.29: Legatum, quod datum est, adimi potest vel eodem testamento vel codicillis testamento confirmatis, dum tamen eodem modo adimatur, quo modo datum est. “Il legato, che è stato disposto, può essere revocato o nello stesso testamento o in codicilli confermati, purché però lo si revochi nello stesso modo in cui è stato dato”. Nt. 552 D. 34.4.6 pr. (Paul. 5 ad leg. Iul. et Pap.): Translatio legati fit quattuor modis: aut enim a persona in personam transfertur: aut ab eo qui dare iussus est transfertur, ut alius det: aut cum res pro re datur, ut pro fundo decem aurei: aut quod pure datum est, transfertur sub condicione. “La trasformazione (translatio) del legato avviene in quattro modi: o infatti si trasferisce (il beneficio) da una persona a un’altra; ovvero si trasferisce da colui cui è ordinato di dare (onerato), in modo che altri dia; o quando è data una cosa al posto di un’altra, come al posto del fondo dieci aurei; ovvero quando viene sottoposto a condizione ciò che è attribuito senza”. Nt. 553 Gai 2.198: Sed si quis rem suam legaverit, deinde post testamentum factum eam alienaverit, plerique putant non solum iure civili inutile esse legatum, sed nec ex senatus consulto confirmari. quod ideo dictum est, quia et si per damnationem aliquis rem suam legaverit eamque postea alienaverit, plerique putant, licet ipso iure debeatur legatum, tamen legatarium petentem posse per exceptionem doli mali repelli, quasi contra voluntatem defuncti petat. “Se uno avesse legato la cosa sua per damnationem (imposizione d’obbligo) e poi l’avesse alienata, i più sono del parere che, per quanto a stretto diritto il legato sia dovuto, tuttavia si possa respingere con l’eccezione di dolo malvagio il legatario che lo chieda, quasi chiedesse contro la volontà del defunto”. Nt. 556 D. 34.4.13 (Marc. 6 inst.): Divi Severus et Antoninus rescripserunt, cum testator postrema scriptura quaqua ratione motus pessimum libertum esse adiecisset, ea quae priore scriptura ei relicta fuerant adempta videri.
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“I divini Severo e Caracalla rescrissero che, avendo aggiunto il testatore in una scrittura successiva mosso da una qualche ragione che il liberto era pessimo, si debbano ritenere revocate quelle attribuzioni che nella precedente scrittura gli erano state lasciate”. Nt. 557 I. 2.21 pr.: Ademptio legatorum, sive eodem testamento adimantur sive codicillis, firma est, sive contrariis verbis fiat ademptio…sive non contrariis, id est aliis quibuscumque verbis. “La disposizione con la quale si tolgono i legati, sia nel testamento stesso che con i codicilli, è valida, tanto se formulata in termini opposti … quanto se non formulata in termini opposti, cioè con altre parole quali si vogliono”.
24l. Prelegato Nt. 562 D. 30.17.2 (Ulp. 15 ad Sab.): Si uni ex heredibus fuerit legatum, hoc deberi ei officio iudicis familiae herciscundae manifestum est: sed et si abstinuerit se hereditate, consequi eum hoc legatum posse constat. “Se a uno degli eredi sarà stato fatto un legato è noto che ciò gli sarà attribuito per cura dell’arbiter del giudizio di divisione: ma se si è astenuto dall’eredità, si ritiene che egli possa conseguire questo legato”. D. 30.18 (Iul. 31 ad Sab.): Et quidem totum legatum petere potest, quamvis a semet ipso inutiliter ei legatum fuisset. “e che possa chiedere l’intero legato, sebbene fosse stato legato inutilmente a suo carico”.
25. Fedecommessi Nt. 563 Tit. ex corp. Ulp. 25.1: Fideicommissum est, quod non civilibus verbis, sed precative relinquitur nec ex rigore iuris civilis proficiscitur, sed ex voluntate datur relinquentis. “Il fedecommesso è ciò che si lascia non con parole riconosciute dallo ius civile, ma in forma di preghiera, né trae origine dal rigore dello ius civile, ma è dato in base alla volontà di colui che lascia (i propri beni)”. Nt. 565 Gai 2.285: Ut ecce peregrini poterant fideicommissa capere, et fere haec fuit origo fideicommissorum. sed postea id prohibitum est, et nunc ex oratione divi Hadriani senatus consultum factum est, ut ea fideicommissa fisco vindicarentur. “Gli stranieri, ecco, potevano prendere i fedecommessi, e fu forse questa l’origine dei fedecommessi (tanto che alcuni studiosi pensano che esso sia sorto sulla base di modelli greci). Ma ciò fu vietato; ed ora, per una orazione del divino Adriano, fu fatto un senatoconsulto, perché quei fedecommessi fossero rivendicati al fisco”.
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Nt. 567 Gai 2.278: Praeterea legata per formulam petimus; fideicommissa vero Romae quidem apud consulem vel apud eum praetorem, qui praecipue de fideicommissis ius dicit, persequimur, in provinciis vero apud praesidem provinciae. “Inoltre i legati li chiediamo per mezzo della formula; invece i fedecommessi li chiediamo, a Roma, davanti al console o davanti a quel pretore che ha giurisdizione speciale in tema di fedecommessi, nelle province, davanti al preside (governatore) della provincia”. I. 2.23.1: Sciendum itaque est, omnia fideicommissa primis temporibus infirma esse quia nemo invitus cogebatur praestare id de quo rogatus erat: quibus enim non poterant hereditates vel legata relinquere, si relinquebant, fidei committebant eorum qui capere ex testamento poterant: et ideo fideicommissa appellata sunt, quia nullo vinculo iuris, sed tantum pudore eorum qui rogabantur, continebantur. postea primus divus Augustus semel iterumque gratia personarum motus, vel quia per ipsius salutem rogatus quis diceretur, aut ob insignem quorundam perfidiam iussit consulibus auctoritatem suam interponere. quod, quia iustum videbatur et populare erat, paulatim conversum est in adsiduam iurisdictionem: tantusque favor eorum factus est, ut paulatim etiam praetor proprius crearetur, qui fideicommissis ius diceret, quem fideicommissarium appellabant. “Bisogna dunque sapere che nei primi tempi tutti i fedecommessi erano invalidi, in quanto nessuno era costretto a dare contro la propria volontà ciò di cui veniva pregato: invero chi lasciava eredità o legati a coloro ai quali non si potevano lasciare, li affidava a quelli che dal testamento potevano prendere; e, perciò, furono detti fedecommessi, poiché non si basavano su alcun vincolo giuridico, ma soltanto sul sentimento di onore di quelli che venivano pregati. In seguito il divino Augusto, per primo, una o due volte, indotto dalla considerazione delle persone, o perché uno lo si diceva pregato per la sua salute, o per la insigne malafede di alcuni, ordinò ai consoli di interporre la loro autorità. E siccome questo sembrava giusto, ed era popolare, a poco a poco si convertì in giurisdizione sistematica; e il favore in proposito divenne così grande, che via via fu creato, per la giurisdizione in tema di fedecommessi, anche un pretore speciale, che chiamavano fedecommissario”. D. 1.2.2.32 (Pomp. l. sing. ench.): post deinde divus Claudius duos praetores adiecit qui de fideicommisso ius dicerent, ex quibus unum divus Titus detraxit… “Il divino Claudio aggiunse due pretori per la giurisdizione in tema di fedecommessi, dei quali uno venne soppresso da Tito …”. Nt. 568 Gai 2.289: Sed quamvis in multis iuris partibus longe latior causa sit fideicommissorum quam eorum, quae directo relincuntur, in quibusdam tantundem valeant… “Per quanto in molti settori i fedecommessi siano di impiego assai più largo dei lasciti diretti, e in alcuni si equivalgono …”. Nt. 570 Gai 2.249: Verba autem utilia fideicommissorum haec maxime in usu esse videntur: peto, rogo, volo, fidei committo, quae proinde firma singula sunt, atque si omnia in unum congesta sint.
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“Queste risultano essere le parole più adoperate per i fedecommessi: chiedo, prego, voglio, fede commetto; e sono valide separatamente, allo stesso modo che tutte unite”. Nt. 573 Gai 2.281: Item legata Graece scripta non valent; fideicommissa vero valent. “Così i legati scritti in greco non valgono e invece i fedecommessi sì”. Nt. 574 Gai 2.270a:…fideicommissum vero etiam non confirmatis codicillis relinqui potest. “Il fedecommesso invece si può lasciare anche nei codicilli non confermati”. Nt. 578 Gai 2.270: Item intestatus moriturus potest ab eo, ad quem bona eius pertinent, fideicommissum alicui relinquere; cum alioquin ab eo legari non possit. “Così chi morirà intestato può lasciare a qualcuno un fedecommesso a carico di colui al quale toccheranno i suoi beni; mentre a carico dello stesso non può legare.” Nt. 579 Gai 2.271: Item a legatario legari non potest, sed fideicommissum relinqui potest. quin etiam ab eo quoque, cui per fideicommissum relinquimus, rursus alii per fideicommissum relinquere possumus. “Così, a carico del legatario non si può legare, ma un fedecommesso si può lasciare. Che anzi anche a carico di colui al quale lasciamo per fedecommesso, possiamo di nuovo lasciare per fedecommesso ad altri”; D. 30.114.2 (Marc. 8 inst.): Qui intestato decedit et scit bona sua ad fiscum perventura vacantia, fidei fisci committere potest. “Chi muore intestato e sa che i suoi beni perverrano al fisco come vacanti, può affidare un fedecommesso al fisco”. Nt. 580 Gai 2.274-275: Item mulier, quae ab eo, qui centum milia aeris census est, per legem Voconiam heres institui non potest, tamen fideicommisso relictam sibi hereditatem capere potest. 275. Latini quoque, qui hereditates legataque directo iure lege Iunia capere prohibentur, ex fideicommisso capere possunt. “Così la donna, che per la legge Voconia (169 a.C.) non può esere istituita erede da chi fu censito per un valore di centomila assi, può prendere tuttavia l’eredità a lei lasciata per fedecommesso. 275. Anche i latini, cui la legge Giunia (19 d.C.) proibisce di prendere eredità e legati, per fedecommesso possono prendere”. Nt. 581 Gai 286-286a: Caelibes quoque, qui per legem Iuliam hereditates legataque capere prohibentur, olim fideicommissa videbantur capere posse. 286a. Item orbi, qui per legem Papiam ob id, quod liberos non habent, dimidias partes hereditatum legatorumque perdunt, olim solida fideicommissa videbantur capere posse. sed postea senatus consulto
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Pegasiano proinde fideicommissa quoque ac legata hereditatesque capere posse prohibiti sunt; eaque translata sunt ad eos, qui in eo testamento liberos habent, aut si nulli liberos habebunt, ad populum, sicuti iuris est in legatis et in hereditatibus, quae eadem aut simili ex causa caduca fiunt. “Anche i celibi, cui la legge Giulia (18 a.C.) proibisce di prendere eredità e legati, un tempo (prima, cioè, dell’avvio del processo di equiparazione ai legati) sembra che potessero prendere i fedecommessi. 286a. E così i senza figli, che per effetto della legge Papia (9 d.C.) perdono la metà delle eredità e dei legati, un tempo sembra che potessero prendere i fedecommessi integralmente. Ma poi il senatoconsulto Pegasiano (6970 d.C.) vietò loro di prendere i fedecommessi allo stesso modo che i legati e le eredità; e i fedecommessi furono trasferiti a coloro che in quel testamento hanno figli, o, se nessuno abbia figli, allo Stato, con lo stesso criterio dei legati e delle eredità, che nello stesso caso o in casi simili diventano caduchi”. Nt. 583 Gai 2.287: Item olim incertae personae vel postumo alieno per fideicommissum relinqui poterat, quamvis neque heres institui neque legari ei posset. sed senatus consulto, quod auctore divo Hadriano factum est, idem in fideicommissis, quod in legatis hereditatibusque constitutum est. “Così, un tempo, a persona incerta o postumo altrui si poteva lasciare per fedecommesso, benché non si potesse istituirli eredi o far loro legati; ma con senatoconsulto fatto per iniziativa del divino Adriano fu stabilito per i fedecommessi lo stesso regime dei legati e delle eredità”. Nt. 584 Gai 2.289:…tamen tutor non aliter testamento dari potest quam directo, veluti hoc modo: ‘liberis meis Titius tutor esto’, vel ita: ‘liberis meis Titius tutorem do’; per fideicommissum vero dari non potest. “… tuttavia un tutore non si può dare per testamento che in modo diretto, come così: ‘Tizio sia tutore ai miei figli’, o così ‘ai miei figli do come tutore Tizio’; per fedecommesso invece non si può dare”. Nt. 588 Gai 2.260-262: Potest autem quisque etiam res singulas per fideicommissum relinquere, velut fundum, hominem, vestem, argentum, pecuniam… 261. Item potest non solum propria testatoris res per fideicommissum relinqui, sed etiam heredis aut legatarii aut cuiuslibet alterius. itaque et legatarius non solum de ea re rogari potest, ut eam alicui restituat, quae ei legata sit, sed etiam de alia, sive ipsius legatarii sive aliena sit. Hoc solum observandum est, ne plus quisquam rogetur aliis restituere, quam ipse ex testamento ceperit; nam quod amplius est, inutiliter relinquitur. 262. Cum autem aliena res per fideicommissum relinquitur, necesse est ei, qui rogatus est, aut ipsam redimere et praestare aut aestimationem eius solvere, sicut iuris est, si per damnationem aliena res legata sit. “Può ciascuno lasciare per fedecommesso anche cose singole, come un fondo, un uomo, una veste, argento, denaro … 261. Può essere lasciata per fedecommesso non
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solo una cosa propria del testatore, ma anche una cosa dell’erede, del legatario o di chiunque altro. Pertanto anche il legatario, non solo può essere pregato di restituire a qualcuno la cosa a lui legata, ma anche un’altra, sia del legatario stesso sia altrui. C’è solo da osservare questo, che uno non sia pregato di restituire ad altri più di quanto egli stesso abbia preso per testamento; il di più infatti lo si lascia inutilmente. 262. Quando poi si lascia per fedecommesso una cosa altrui, è necessario che colui che è stato pregato, o la redima e presti, o ne paghi la stima, come è norma se è stata legata una cosa altrui per imposizione d’obbligo”. Nt. 589 Gai 2.277: Item quamvis non possimus post mortem eius, qui nobis heres extiterit, alium in locum eius heredem instituere, tamen possumus eum rogare, ut, cum morietur, alii eam hereditatem totam vel ex parte restituat; et quia post mortem quoque heredis fideicommissum dari potest, idem efficere possumus et si ita scripserimus: ‘cum Titius heres meus mortuus erit, volo hereditatem meam ad Publium Maevium pertinere’. utroque autem modo, tam hoc quam illo, Titius heredem suum obligatum relinquit de fideicommisso restituendo. “Così, benché non possiamo, dopo la morte di chi ci è divenuto erede, istituirre un altro in luogo suo, tuttavia possiamo pregarlo di restituire ad altri alla sua morte tutta l’eredità o parte. E poiché un fedecommesso può essere dato anche dopo la morte dell’erede, possiamo ottenere ciò anche scrivendo: ‘quando il mio erede Tizio sarà morto, voglio che la mia eredità appartenga a P. Mevio’. In entrambi i modi, sia in questo che in quello, Tizio lascia obbligato l’erede suo a restituire il fedecommesso”. Nt. 591 Gai 2.284: Erant etiam aliae differentiae, quae nunc non sunt. “C’erano anche altre differenze (tra legati e fedecommessi), che oggi non ci sono più”. Nt. 595 Tit ex corp. Ulp. 25.4:Fideicommissum relinquere possunt, qui testamentum facere possunt, licet non fecerint. Nam intestato qui quis moriturus fideicommissum relinquere potest. “Possono lasciare un fedecommesso, coloro che possono fare un testamento, anche se non l’abbiano fatto. Infatti chi morirà intestato può lasciare un fedecommesso”. Nt. 601 CI. 6.43.1.1, a. 529: Rectius igitur esse censemus in rem quidem missionem penitus aboleri, omnibus vero tam legatariis quam fideicommissariis unam naturam imponere et non solum personalem actionem praestare, sed etiam in rem… “Pensiamo dunque che sia più corretto abolire l’immissione nel possesso (missio in rem), imporre a tutti tanto legatari che fedecommissari una sola natura e concedere non solo un’azione personale, ma anche reale …”. Nt. 602 I. 2.20.3:…cum enim antiquitatem invenimus legata quidem stricte concludentem, fideicommissis autem, quae ex voluntate magis descendebant defunctorum, pinguiorem na-
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turam indulgentem, necessarium esse duximus omnia legata fideicommissis exaequare, ut nulla sit inter ea differentia… “… avendo trovato che gli antichi regolavano rigidamente i legati, mentre lasciavano un più libero carattere ai fedecommessi, che soprattutto dipendevano dalla volontà dei defunti, abbiamo stimato necessario uguagliare tutti i legati ai fedecommessi (cfr. CI. 6.43.2, a. 531), in modo che non ci sia tra loro differenza alcuna …”.
25a. Fedecommesso universale Nt. 603 Gai 2.184: Extraneo vero heredi instituto ita substituere non possumus, ut si heres extiterit et intra aliquod tempus decesserit, alius ei heres sit; sed hoc solum nobis permissum est, ut eum per fideicommissum obligemus, ut hereditatem nostram totam vel ex parte restituat. “Istituito erede un estraneo, non possiamo fare una sostituzione per cui se sia divenuto erede e poi morto entro un certo tempo, gli sia erede un altro; questo solo ci è consentito: di obbligarlo per fedecommesso a restituire la nostra eredità o tutta o in parte …”. Nt. 608 Gai 2.251 e 252: Restituta autem hereditate is, qui restituit, nihilo minus heres permanet; is vero, qui recipit hereditatem, aliquando heredis loco est, aliquando legatarii. 252. Olim autem nec heredis loco erat nec legatarii, sed potius emptoris. tunc enim in usu erat ei, cui restituebatur hereditas, nummo uno eam hereditatem dicis causa venire; et quae stipulationes inter venditorem hereditatis et emptorem interponi solent, eaedem interponebantur inter heredem et eum, cui restituebatur hereditas, id est hoc modo: heres quidem stipulabatur ab eo, cui restituebatur hereditas, ut quidquid hereditario nomine condemnatus fuisset sive quid alias bona fide dedisset, eo nomine indemnis esset, et omnino si quis cum eo hereditario nomine ageret, ut recte defenderetur; ille vero, qui recipiebat hereditatem, invicem stipulabatur, ut si quid ex hereditate ad heredem pervenisset, id sibi restitueretur, ut etiam pateretur eum hereditarias actiones procuratorio aut cognitorio nomine exequi. “Restituita l’eredità, chi la restituì rimane cionondimeno erede; chi invece la riceve, a volte è in luogo di erede, a volte di legatario. 252. Un tempo, viceversa, non era in luogo né d’erede né di legatario, ma piuttosto di compratore. Allora usava, infatti, a quello cui si restituiva l’eredità, venderla, pro forma, per un denaro; e le stesse stipulazioni che si sogliono interporre tra venditore e compratore d’eredità si interponevano fra l’erede e colui cui si restituiva l’eredità, in questo modo: l’erede stipulava da quello cui restituiva l’eredità che lo tenesse indenne per tutto ciò che avesse pagato in base a condanna a titolo ereditario o per ciò che avesse altrimenti dato in buona fede, e che in genere regolarmente lo difendesse se qualcuno agisse contro di lui a titolo ereditario; d’altra parte chi riceveva l’eredità stipulava invece che se qualcosa dell’eredità pervenisse all’erede ciò gli fosse restituito, e che l’erede consentisse pure che egli svolgesse a titolo procuratorio o cognitorio le azioni ereditarie”.
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Nt. 609 Gai 2.253: Sed posterioribus temporibus Trebellio Maximo et Annaeo Seneca consulibus senatus consultum factum est, quo cautum est, ut si cui hereditas ex fideicommissi causa restituta sit, actiones, quae iure civili heredi et in heredem conpeterent, ei et in eum darentur, cui ex fideicommisso restituta esset hereditas; per quod senatus consultum desierunt illae cautiones in usu haberi. praetor enim utiles actiones ei et in eum, qui recepit hereditatem, quasi heredi et in heredem dare coepit, eaeque in edicto proponuntur. “Ma successivamente, sotto il consolato di Trebellio Massimo e Anneo Seneca, fu fatto un senatoconsulto (Trebelliano) con cui fu disposto che, in caso di restituzione dell’eredità per fedecommesso, venissero date a favore e contro colui al quale fosse stata restituita l’eredità, le azioni spettanti per il diritto civile all’erede e contro di esso. Per effetto di quel senatoconsulto, le predette garanzie (stipulationes) cessarono di venir usate. Il pretore, infatti, cominciò a dare azioni utili a colui e contro colui che riceveva l’eredità, quasi come all’erede e contro l’erede: e queste azioni sono indicate nell’Editto”. Nt. 611 Gai 2.254: Sed rursus quia heredes scripti, cum aut totam hereditatem aut paene totam plerumque restituere rogabantur, adire hereditatem ob nullum aut minimum lucrum recusabant atque ob id extinguebantur fideicommissa, postea Pegaso et Pusione consulibus senatus censuit, ut ei, qui rogatus esset hereditatem restituere, proinde liceret quartam partem retinere, atque e lege Falcidia in legatis retinendi ius conceditur. “Ma poi, siccome gli eredi scritti, venendo pregati per lo più di restituire tutta o quasi tutta l’eredità, rifiutavano, dato il nessun profitto o il minimo profitto, di adire l’eredità, e perciò i fedecommessi si estinguevano, il Senato, essendo consoli Pegaso e Pusione, decretò (Sc. Pegasiano) che a colui che fosse pregato di restituire l’eredità fosse lecito trattenere la quarta parte, come consentito dalla legge Falcidia (40 a.C.) trattenerla sui legati”. Nt. 612 Gai 2.255: Ergo si quidem non plus quam dodrantem hereditatis scriptus heres rogatus sit restituere, tum ex Trebelliano senatus consulto restituitur hereditas, et in utrumque actiones hereditariae pro rata parte dantur, in heredem quidem iure civili, in eum vero, qui recipit hereditatem, ex senatus consulto Trebelliano; quamquam heres etiam pro ea parte, quam restituit, heres permanet eique et in eum solidae actiones competunt; sed non ulterius oneratur, nec ulterius illi dantur actiones, quam apud eum commodum hereditatis remanet. “Pertanto, se l’erede scritto sia pregato di restituire non più dei tre quarti dell’eredità, allora l’eredità viene restituita in base al senatoconsulto Trebelliano, e contro ciascuno vengono date le azioni ereditarie pro quota: contro l’erede, per diritto civile, e contro colui che riceve l’eredità, in forza del senatoconsulto Trebelliano. Per quanto l’erede rimanga tale anche per la parte che restituisce e le azioni spettino a lui e contro di lui per l’intero, tuttavia non viene onerato e non gli si danno le azioni al di là del vantaggio ereditario che a lui rimane.”
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Nt. 614 Gai 2.256: At si quis plus quam dodrantem vel etiam totam hereditatem restituere rogatus sit, locus est Pegasiano senatus consulto. “Ma se uno sia pregato di restituire più di tre quarti o anche tutta l’eredità, si fa luogo al senatoconsulto Pegasiano”. Gai 2.254:…per quod senatus consultum ipse heres onera hereditaria sustinet; ille autem, qui ex fideicommisso reliquam partem hereditatis recipit, legatarii partiarii loco est, id est eius legatarii, cui pars bonorum legatur; quae species legati partitio vocatur, quia cum herede legatarius partitur hereditatem. unde effectum est, ut quae solent stipulationes inter heredem et partiarium legatarium interponi, eaedem interponantur inter eum, qui ex fideicommissi causa recipit hereditatem, et heredem, id est, ut et lucrum et damnum hereditarium pro rata parte inter eos commune sit. “…Per questo senatoconsulto (Pegasiano) è l’erede che sopporta gli oneri ereditari. Quanto a colui che in base al fedecommesso riceve il resto dell’eredità, è in luogo di legatario parziario, cioè di quel legatario cui è legata una parte dei beni: la qual specie di legato si chiama partizione, perché il legatario spartisce l’eredità con l’erede. Dal che è derivato che le stesse stipulazioni che sogliono interporsi tra erede e legatario parziario si interpongano anche tra chi riceve l’eredità per fedecommesso e l’erede, al fine, si intende, che lucro e danno ereditario sia fra loro comune pro quota”. Gai 2.257: Sed is, qui semel adierit hereditatem, si modo sua voluntate adierit, sive retinuerit quartam partem sive noluerit retinere, ipse universa onera hereditaria sustinet; sed quarta quidem retenta quasi partis et pro parte stipulationes interponi debent tamquam inter partiarium legatarium et heredem; si vero totam hereditatem restituerit, ad exemplum emptae et venditae hereditatis stipulationes interponendae sunt. “Colui che abbia adito l’eredità, purché volontariamente, sia che abbia ritenuto la quarta parte sia che non abbia voluto ritenerla, sopporta tutti gli oneri ereditari; ma nel caso di ritenuta della quarta si devono interporre stipulazioni quasi della parte e per la parte come fra il legatario parziario e l’erede; se invece abbia restituito l’intera eredità, bisogna interporre le stipulazioni sull’esempio dell’eredità compravenduta”. Nt. 615 Gai 2.258: Sed si recuset scriptus heres adire hereditatem ob id, quod dicat eam sibi suspectam esse quasi damnosam, cavetur Pegasiano senatus consulto, ut desiderante eo, cui restituere rogatus est, iussu praetoris adeat et restituat, proindeque ei et in eum, qui receperit, actiones dentur, ac iuris esset ex senatus consulto Trebelliano. quo casu nullis stipulationibus opus est, quia simul et huic, qui restituit, securitas datur, et actiones hereditariae ei et in eum transferuntur, qui receperit hereditatem. “Ma se l’erede scritto rifiuti di adire l’eredità, dicendo che ha il sospetto che sia dannosa, è disposto dal senatoconsulto Pegasiano che, desiderandolo colui cui l’erede è pregato di restituire, egli adisca e restituisca in base all’ordine del pretore, dandosi le azioni pro e contro colui che abbia ricevuto l’eredità secondo la norma del Sc. Trebelliano. Nel qual caso non c’è bisogno di stipulazione alcuna, in quanto, contemporaneamente, si dà sicurezza a chi restituisce, e si trasferiscono le azioni ereditarie a colui e contro colui che abbia ricevuto l’eredità”.
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Nt. 616 I. 2.23.7: Sed quia stipulationes ex senatus consulto Pegasiano descendentes et ipsi antiquitati displicuerunt et quibusdam casibus captiosas eas homo excelsi ingenii Papinianus appellat et nobis in legibus magis simplicitas quam difficultas placet, ideo omnibus nobis suggestis tam similitudinibus quam differentiis utriusque senatus consulti, placuit exploso senatus consulto Pegasiano, quod postea supervenit, omnem auctoritatem Trebelliano senatus consulto praestare, ut ex eo fideicommissariae hereditates restituantur, sive habeat heres ex voluntate testatoris quartam sive plus sive minus sive penitus nihil, ut tunc, quando vel nihil vel minus quarta apud eum remaneat, liceat ei vel quartam vel quod deest, ex nostra auctoritate retinere vel repetere solutum, quasi ex Trebelliano senatus consulto pro rata portione actionibus tam in heredem quam in fideicommissarium competentibus, si vero totam hereditatem sponte restituerit, omnes hereditariae actiones fideicommissario et adversus eum competunt; sed etiam id quod praecipuum Pegasiani senatus consulti fuerat, ut, quando recusabat heres scriptus sibi datam hereditatem adire, necessitas ei imponeretur totam hereditatem volenti fideicommissario restituere, et omnes ad eum et contra eum transirent actiones, et hoc transposuimus ad senatus consultum Trebellianum, ut ex hoc solo et necessitas heredi imponatur, si ipso nolente adire fideicommissarius desiderat restitui sibi hereditatem, nullo nec damno nec commodo apud heredem manente. “Ma dato che le stipulazioni derivanti dal senatoconsulto Pegasiano dispiacquero agli antichi stessi, ed in alcuni casi un uomo d’eccelso ingegno quale Papiniano le dice capziose, e a noi, in fatto di norme, piace più la semplicità della complicazione, ecco che, essendo state a noi sottoposte le somiglianze e differenze tutte dell’uno e dell’altro senatoconsulto, abbiamo ritenuto opportuno, respingendo il senatoconsulto Pegasiano che sopravvenne dopo, dar tutta l’autorità al senatoconsulto Trebelliano, così che le eredità fedecommissarie si restituiscano in base ad esso sia che per volontà del testatore l’erede abbia la quarta, o di più, o di meno, o niente del tutto, di modo che, quando non gli rimanga niente o meno della quarta, gli sia lecito d’autorità nostra trattenere la quarta o quello che manca o ripeterlo se pagato, spettando le azioni pro quota tanto contro l’erede quanto contro il fedecommissario come per il senatoconsulto Trebelliano. Se viceversa abbia volontariamente restituito l’intera eredità, tutte le azioni ereditarie spettano al fedecommissario e contro di lui. Ma anche quello che era stato proprio del senatoconsulto Pegasiano, per cui, quando l’erede scritto rifiutava di adire l’eredità a lui data, gli si faceva obbligo di restituire tutta l’eredità al fedecommissario che lo chiedesse, al quale e contro il quale passavano tutte le azioni: anch’esso lo riportiamo al senatoconsulto Trebelliano, di modo che in base a questo soltanto sorga l’obbligo per l’erede, se, non volendo lui adire, il fedecommissario desidera che gli si restituisca l’eredità, nessun danno o vantaggio rimanendo all’erede”.
25b. Sostituzioni fedecommissarie Nt. 621 D. 31.69.3 (Papin. 19 quaest.): fratre herede instituto petit, ne domus alienaretur, sed ut in familia relinqueretur “un testatore istituì erede suo fratello e lo pregò di non alienare la casa, ma di lasciarla a qualcuno della famiglia”.
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Nt. 623 I. 2.24.1: Potest autem non solum proprias testator res per fideicommissum relinquere, sed et heredis aut legatarii aut fideicommissarii aut cuiuslibet alterius. itaque et legatarius et fideicommissarius non solum de ea re rogari potest, ut eam alicui restituat, quae ei relicta sit, sed etiam de alia, sive ipsius sive aliena sit. hoc solum observandum est, ne plus quisquam rogetur alicui restituere quam ipse ex testamento ceperit; nam quod amplius est inutiliter relinquitur. cum autem aliena res per fideicommissum relinquitur, necesse est ei qui rogatus est aut ipsam redimere et praestare aut aestimationem eius solvere. “Il testatore può lasciare per fedecommesso non solo cose proprie, ma anche dell’erede o del legatario o del fedecommissario o di chiunque altro. Pertanto anche il legatario e il fedecommissario non solo può essere pregato di restituire a qualcuno la cosa lasciatagli, ma anche un’altra cosa, sia sua che altrui. C’è solo da badare a questo, che uno non sia pregato di restituire ad altri più di quanto egli stesso abbia preso per testamento: l’eccedenza, infatti, la si lascia inutilmente (cfr. Gai 2.262). Quando si lascia per fedecommesso una cosa altrui, bisogna che il destinatario della preghiera, o compri la cosa e la presti, o ne paghi la stima”. Nt. 625 I. 2.24.2: Libertas quoque servo per fideicommissum dari potest, ut heres eum rogetur manumittere vel legatarius vel fideicommissarius. nec interest, utrum de suo proprio servo testator roget, an de eo qui ipsius heredis aut legatarii vel etiam extranei sit. itaque alienus servus redimi et manumitti debet: quodsi dominus eum non vendat, si modo nihil ex iudicio eius qui reliquit libertatem percepit, non statim extinguitur fideicommissaria libertas, sed differtur, quia possit tempore procedente, ubicumque occasio redimendi servi fuerit, praestari libertas. qui autem ex causa fideicommissi manumittitur, non testatoris fit libertus, etiamsi testatoris servus sit, sed eius qui manumittit. “Si può dare per fedecommesso anche la libertà al servo, essendo pregato di manometterlo l’erede, o un legatario, o un fedecommissario (cfr. Gai 2.263 e 264). Né importa che il testatore riferisca la preghiera ad un servo proprio, oppure a quello che è servo dell’erede stesso, o del legatario, o anche di un estraneo (cfr. Gai 2.265). Pertanto, il servo altrui deve essere comprato e manomesso: che se il padrone non lo venda (cfr. CI. 7.4.6 dell’imperatorte Alessandro, senza data), ove peraltro non abbia percepito niente in base al testamento di chi lasciò la libertà, la libertà fedecommissaria non si estingue subito, ma viene differita, potendo la libertà essere data in progresso di tempo dovunque ci sia stata un’occasione di comprare il servo (cfr. Gai 2.266). Chi viene manomesso a causa di fedecommesso, non diventa liberto del testatore, anche se del testatore sia servo, bensì di colui che lo manomette”.
26. Altre disposizioni del testamento Nt. 627 I. 3.11 pr.-2: Accessit novus casus successionis ex constitutione divi Marci. nam si hi qui libertatem acceperunt a domino in testamento, ex quo non aditur hereditas, velint bona
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sibi addici libertatium conservandarum causa, audiuntur. et ita rescripto divi Marci ad Popilium Rufum continetur. 1. Verba rescripti ita se habent: ‘Si Virginio Valenti, qui testamento suo libertatem quibusdam adscripsit, nemine successore ab intestato existente, in ea causa bona esse coeperunt ut veniri debeant: is cuius de ea re notio est aditus rationem desiderii tui habebit, ut libertatium tam earum quae directo, quam earum quae per speciem fideicommissi relictae sunt, tuendarum gratia addicantur tibi, si idonee creditoribus caveris de solido quod cuique debetur solvendo. et hi quidem quibus directa libertas data est perinde liberi erunt ac si hereditas adita esset : hi autem quos heres rogatus est manumittere a te libertatem consequantur : nisi si non alia condicione velis bona tibi addici quam ut etiam qui directo libertatem acceperunt tui liberti fiant; nam huic etiam voluntati tuae, si ii de quorum statu agitur consentiant, auctoritatem nostram accommodamus. et ne huius rescriptionis nostrae emolumentum alia ratione irritum fiat, si fiscus bona agnoscere voluerit, et hi qui rebus nostris attendunt scient, commodo pecuniario praeferendam libertatis causam, et ita bona cogenda ut libertas his salva sit qui eam adipisci potuerunt si hereditas ex testamento adita esset.’ 2. Hoc rescripto subventum est et libertatibus et defunctis, ne bona eorum a creditoribus possideantur et veneant. certe si fuerint ex hac causa bona addicta, cessat bonorum venditio; extitit enim defuncti defensor, et quidem idoneus, qui de solido creditoribus cavet. “Un nuovo caso di successione si è aggiunto per effetto di una costituzione del divino Marco. Se, infatti, coloro che ottennero dal padrone la libertà nel testamento, in base al quale l’eredità non viene adita, vogliano che siano loro assegnati i beni per conservare la libertà, vengono esauditi. Tale è il contenuto d’un rescritto del divino Marco a Popilio Rufo. 1. Le parole del rescritto suonano così: ‘se non essendoci alcun successore ab intestato a Virginio Valente, che nel suo testamento aveva accordato ad alcuni la libertà, i suoi beni si sono venuti a trovare nella condizione di dover essere venduti, colui che ha giurisdizione in merito a ciò, da te adito, farà conto del tuo desiderio che, per tutelare sia le libertà lasciate direttamente che le libertà lasciate in forma di fedecommesso, i beni vengano assegnati a te, se avrai idoneamente garantito ai creditori di pagare l’intero a ciascuno dovuto. E coloro ai quali la libertà è stata data direttamente saranno liberi allo stesso modo che se l’eredità fosse stata adita; mentre coloro che l’erede è stato pregato di manomettere conseguiranno la libertà da te …’. 2. Con questo rescritto si è andati in aiuto delle libertà e dei defunti, in modo che i beni di costoro non cadano in possesso dei creditori e non vengano venduti. Naturalmente, se i beni siano stati assegnati per l’indicata ragione, alla loro vendita non si fa luogo: esiste infatti un difensore del defunto, senza dubbio idoneo, in quanto garantisce ai creditori l’intero”. Nt. 638 I. 3.8 pr. e 2: In summa quod ad bona libertorum admonendi sumus, senatum censuisse, ut quamvis ad omnes patroni liberos, qui eiusdem gradus sint, aequaliter bona libertorum pertineant, tamen liceret parenti uni ex liberis adsignare libertum, ut post mortem eius solus is patronus habeatur, qui adsignatus est, et ceteri liberi, qui ipsi quoque ad eadem bona, nulla adsignatione in-
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terveniente pariter admitterentur, nihil iuris in his bonis habeant... 2. Datur autem haec adsignandi facultas ei, qui duos pluresve liberos in potestate habebit. “Quanto ai beni dei liberti dobbiamo infine avvertire aver il senato deciso che, se pure i detti beni spettino ugualmente a tutti i dicendenti del patrono che siano dello stesso grado, tuttavia può l’ascendente assegnare il liberto ad uno solo dei discendenti, così che dopo la sua morte si consideri patrono solo colui al quale il liberto venga assegnato, e gli altri discendenti, che anche loro, se non intervenisse l’assegnazione, sarebbero ugualmente ammessi agli stessi beni, non abbiano su questi alcun diritto … 2. Questa facoltà di assegnazione è data a chi abbia due o più discendenti in potestà, in modo che gli sia consentito di assegnare il liberto o la liberta a coloro che ha in potestà”. Nt. 641 I. 3.8.3: Nec interest, testamento quis adsignet an sine testamento: sed etiam quibuscumque verbis hoc patronis permittitur facere, ex ipso senatus consulto quod Claudianis temporibus factum est Suillo Rufo et Ostorio Scapula consulibas. “Non importa che l’assegnazione sia fatta per testamento o senza testamento: permette anzi ai patroni di disporla anche con qualsivoglia parole lo stesso già detto senatoconsulto che fu fatto ai tempi di Claudio, sotto il consolato di Suillo Rufo e Ostorio Scapula”.
27. Successioni straordinarie e in assenza di eredi Nt. 642 I. 1.11.3: sed et si decedens pater eum exheredaverit vel vivus sine insta causa eum emancipaverit, iubetur quartam partem ei suorum bonoram relinquere… “Ma se il padre, o morendo lo abbia diseredato, o vivo lo abbia emancipato senza giusta causa, deve lasciargli la quarta parte dei propri beni …”. Nt. 647 Gai 3.78: Bona autem veneunt aut vivorum aut mortuorum…mortuorum bona veneunt velut eorum, quibus certum est neque heredes neque bonorum possessores neque ullum alium iustum successorem existere. “Si vendono i beni dei vivi e dei morti…Quelli dei morti si vendono nel caso in cui è certo che non esistono eredi né possessori dei beni né alcun altro legittimo successore”.
28. Codicilli Nt. 648 D. 50.16.148 (Gai. 8 ad leg. Iul. et Pap.):…semper plurativo numero profertur…codicilli. “… sempre al numero plurale sono indicati … i codicilli”.
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Nt. 649 I. 2.25 pr.: Ante Augusti tempora constat ius codicillorum non fuisse, sed primus Lucius Lentulus, ex cuius persona etiam fideicommissa coeperunt, codicillos introduxit. nam cum decederet in Africa scripsit codicillos testamento confirmatos, quibus ab Augusto petiit per fideicommissum ut faceret aliquid: et cum divus Augustus voluntatem eius implesset, cuius deinceps reliqui auctoritatem secuti, fideicommissa praestabant, et filia Lentuli legata quae iure non debebat solvit, dicitur Augustus convocasse prudentes, inter quos Trebatium quoque, cuius tunc auctoritas maxima erat, et quaesisse, an possit hoc recipi nec absonans a iuris ratione codicillorum usus esset: et Trebatium suasisse Augusto, quod diceret, utilissimum et necessarium hoc civibus esse propter magnas et longas peregrinationes, quae apud veteres fuissent, ubi, si quis testamentum facere non posset, tamen codicillos posset. post quae tempora cum et Labeo codicillos fecisset, iam nemini dubium erat quin codicilli iure optimo admitterentur. “È noto che anteriormente ai tempi di Augusto una normativa sui codicilli non c’era, e che i codicilli li introdusse per primo Lucio Lentulo, con cui cominciarono anche i fedecommessi. Morendo in Africa, egli scrisse dei codicili confermati per testamento mediante i quali chiese ad Augusto per fedecommesso che facesse qualcosa; e avendo il divino Augusto compiuto quello che egli voleva, gli altri, dopo, seguendo il suo esempio, rispettavano i fedecommessi…Si dice che Augusto avesse convocato i giuristi, fra i quali anche Trebazio, la cui autorità allora era massima, e avesse domandato se il codicillo lo si potesse ammettere, e se l’uso dei codicilli non fosse dissonante rispetto ai canoni del diritto: e Trebazio avrebbe convinto Augusto dicendo essere il codicillo utilissimo e necessario per i cittadini a causa dei grandi e lunghi viaggi all’estero, che gli antichi facevano, nel corso dei quali se uno non potesse far testamento, doveva almeno poter fare codicilli. Dopo quei tempi avendo anche Labeone fatto dei codicilli, nessuno oramai ebbe più dubbi che i codicilli fossero da ammettere di pieno diritto”. Nt. 650 I. 2.25.1: Non tantum autem testamento facto potest quis codicillos facere, sed et intestatus quis decedens fideicommittere codicillis potest. sed cum ante testamentum factum codicilli facti erant, Papinianus ait, non aliter vires habere quam si speciali postea voluntate confirmentur. sed divi Severus et Antoninus rescripserunt, ex his codicillis qui testamentum praecedunt posse fideicommissum peti, si appareat eum qui postea testamentum fecerat a voluntate quam codicillis expresserat non recessisse. “Non soltanto dopo aver fatto testamento uno può fare dei codicilli, ma può disporre codicilli anche a carico di chi muoia senza testamento. Però, essendo stati fatti dei codicilli prima della confezione del testamento, dice Papiniano (D. 29.7.5, Papin. 7 resp.) che non hanno valore se non in quanto vengano confermati con apposita clausola. Ma i divini Severo e Antonino prescrissero che si potesse chiedere un fedecommesso in base a dei codicilli anteriori al testamento, se appaia che colui che poi fece testamento non ha receduto dalla volontà che aveva espresso nei codicilli”. Nt. 651 D. 29.7.8 pr. (Paul. l. sing. de iure cod.): Conficiuntur codicilli quattuor modis: aut enim in futurum confirmantur aut in praeteritum…
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“I codicilli si possono disporre in quattro modi: o si confermano in futuro o in passato …”. Nt. 652 D. 29.7.20 (Paul. 5 ad leg. Iul. et Pap.): Si palam heres nuncupatus sit, legata autem in tabulis collata fuerint, iulianus ait tabulas testamenti non intellegi, quibus heres scriptus non est, et magis codicilli quam testamentum existimandae sint: et hoc puto rectius dici. “Se l’erede è stato indicato apertamente a voce, mentre i legati sono stati inseriti nelle tavole, Giuliano sostiene che non si possono considerare tavole di testamento, dal momento che in esse non è indicato l’erede e che si debbono considerare codicilli piuttosto che testamento: e ciò ritengo che sia detto correttamente”. Nt. 653 Gai 2.270a: Item legatum codicillis relictum non aliter valet, quam si a testatore confirmati fuerint, id est, nisi in testamento caverit testator, ut quidquid in codicillis scripserit, id ratum sit; fideicommissum vero etiam non confirmatis codicillis relinqui potest. “Analogamente, un legato lasciato nei codicilli non vale che se questi furono confermati dal testatore, cioè se il testatore avesse disposto nel testamento che qualunque cosa avesse scritto nei codicilli avesse valore; il fedecommesso invece si può lasciare anche nei codicilli non confermati”. Nt. 654 Gai 2.270 cfr. supra nt. 578 Gai 2.273: Item codicillis nemo heres institui potest neque exheredari, quamvis testamento confirmati sint; at is, qui testamento heres institutus est, potest codicillis rogari, ut eam hereditatem alii totam vel ex parte restituat, quamvis testamento codicilli confirmati non sint. “Così, nei codicilli, per quanto siano confermati nel testamento, nessuno può essere istituito erede o diseredato. Ma chi è istituito erede nel testamento può nei codicilli essere pregato di restituire l’eredità ad altri in tutto o in parte, benché i codicilli non siano confermati nel testamento”. I. 2.25.2: Codicillis autem hereditas neque dari neque adimi potest, ne confundatur ius testamentorum et codicillorum, et ideo nec exheredatio scribi. directo autem hereditas codicillis neque dari neque adimi potest: nam per fideicommissum hereditas codicillis iure relinquitur. nec condicionem heredi instituto codicillis adicere neque substituere directo potest. “Con i codicilli non si può né dare né togliere l’eredità, perché la disciplina dei testamenti e quella dei codicilli non si confondano, e, per ciò, non si può neanche fare una diseredazione … Non si può neanche, coi codicilli, aggiungere una condizione alla istituzione di erede, né operare in modo diretto una sostituzione”. Nt. 656 D. 29.3.11 (Gai. 11 ad leg. Iul. et Pap.): …codicilli pars intelleguntur testamenti… “… i codicilli sono da intendersi come parte del testamento …”.
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Nt. 657 D. 29.7.3.2 (Iul. 39 dig.): Testamento facto etiamsi codicilli in eo confirmati non essent, vires tamen ex eo capient. “Fatto il testamento, anche se i codicilli non vi sono confermati, tuttavia traggono forza da esso”.
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Finito di stampare nel mese di gennaio 2016 nella LegoDigit s.r.l. – Via Galileo Galilei, 15/1 38015 Lavis (TN)