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Italian Pages 154 [161] [161] Year 2011
Passio 42
DA INTERLINEA PER SUOR RITA PINTUS
GIOVANNI TESTORI
Davanti alla croce PAROLA, ARTE E VITA A CURA DI FULVIO PANZERI
INTERLINEA EDIZIONI NOVARA
Di Giovanni Testori Interlinea ha pubblicato: Un bambino per sempre. Meditazioni sul Natale Maestro no. Intervista e fotografie su «In exitu» Edizione a tiratura limitata di 999 copie © Novara 2011 interlinea srl edizioni via Pietro Micca 24, 28100 Novara, tel. 0321 612571 www.interlinea.com, [email protected] Stampato da Italgrafica, Novara ISBN 978-88-8212-756-5 © su licenza di Alain Toubas In copertina: Karl Hödicke, Crocifissione, 1985 (particolare)
FULVIO PANZERI
Sacro destino
L’opera di Testori si presenta con la stessa complessità e con la stessa unità drammatica e strutturale che hanno le cappelle dei Sacri Monti. I temi che vi ricorrono (Cristo, la Croce, il Golgota, la Madre, la Terra, il Tramonto apocalittico) possono essere considerati delle vere e proprie cappelle, poste al centro di un impianto che destruttura continuamente l’assetto architettonico e teatrale tradizionale, per rifondarlo in nuova dimensione che riporta l’intero corpus della sua produzione letteraria e pittorica nell’emblema simbolico del Sacro Monte. Testori, nella sua salita alla croce, destruttura i linguaggi e varia le possibilità, passando dal teatro alla poesia, dalla narrativa alla critica d’arte, per giungere lui stesso alla pittura. Allo scrittore non interessa la pura cognizione estetica della letteratura e della pittura: la ragione per cui scrive o dipinge è legata alla realtà, nei termini della corresponsione alla vita, al suo dramma, alla sua ricerca di assoluto. Pur nelle continue “variazioni” Testori rimane fedele, nel corso della sua opera, nell’alternanza tra «bestemmia» e «preghiera», a questa necessità di essere «dentro la croce», di condividerne la memoria, di rileggerne le tracce anche nelle esperienze artistiche che diventano parte della sua stessa ragione di vita. È un continuo rivivere, cercandone i segni nella realtà, la via crucis, in una salita al Golgota dove la croce diventa l’emblema di quella verità 7
che dà senso all’esistenza. Nel testo, scritto per un documentario di Carlo Cotti, sul Sacro Monte di Varese e realizzato negli anni settanta, esprime chiaramente questa sua tensione, il considerare la croce come un «grembo». L’attenzione è posta su due cappelle e su alcuni particolari. In quella della Crocifissione è la pittura a dominare e, per Testori, forte e indiscutibile diventa il parallelo con Gaudenzio Ferrari: Volano disperatamente ploranti gli angeli del Morazzone giù dalle nubi e commentano, ora gridando, ora chiudendo le loro bionde bellezze, dentro le mani lo scempio che si va facendo sul corpo dell’uomo e in quel loro straziarsi torna a planare sull’arte di Lombardia l’eco degli indimenticati lamenti degli angeli che Gaudenzio Ferrari aveva dipinto a Varallo nella cappella della Crocifissione la quale risulta così di tutti questi monumenti il grembo, il ventre partoriente, il mito.
Un essere «dentro la croce», quello espresso da Testori, che diventa “variazione” ma anche “ossessione”, al punto da volerne provare tutte le rappresentazioni in questo “metaforico” Sacro Monte che la sua opera rappresenta, così come afferma in una delle sue poesie più intense, tratta da Ossa mea, la raccolta poetica del 1983 in cui Testori porta il suo dialogo con il Cristo crocifisso a un’ultimativa incandescenza, spesso aperta su tracce di visione lirica. L’assedio di Cristo diventa totale, irrinunciabile: Trema, si disfa sul lago la sera. Di colpo, a un volo di strada
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e di vento, intervieni. Sei Tu. Resti lì. Non rosa, non nube, né incauto riflesso di monte o isola amata; amante salvante, trafitto su Croce, sei belva. Mi fissi. Sei fiera. Mi prendi, m’azzanni, mi vieti le azioni che non siano pesi ed affanni.
Nella parte finale mette in luce quanto «totale» diventi «la fusione» con la Sua «fame», nell’ottica di una condivisione della realtà nel corpo sanguinante di Cristo: Adagio La luce si svena. La pena, mio Cristo, mio re,
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la pena di Te nel disfarsi di rose sull’onda che calma s’ostende! La pena di Chi mi pretende ed esige totale, imparziale, spogliato d’ogni altra attrazione che non sia la fusione con lei, la Tua fame, con chi non ha pane, con chi non ha spazio né tempo per dare respiro al suo cuore, con chi non ha amore, ma strazio, catene, dolore!
Testori spiega quanto il senso di appartenenza a Cristo, il poter dirsi «dentro la croce», passi attraverso la com-partecipazione alla irreparabilità delle esistenze marginali, come lo possono essere i protagonisti di Confiteor e di In exitu. È negli anni ottanta, nell’ultima, frenetica, magmatica espressione letteraria e artistica, che Testori pone l’essere «dentro la croce» come una specie di chiodo che perfora tutto il suo lavoro. Le “variazioni” coinvolgono totalmente l’artista e ricorrono nella critica d’arte, ad esempio nel legame profondo che si instaura con l’artista giappo10
nese Kei Mitsuuchi. A Milano, presenta una sua prima serie di dipinti e disegni, con una mostra da lui stesso curata, Ai piedi della croce, nel 1985, nella basilica di San Carlo al Corso, esempio di quanto la pittura contemporanea possa essere «dentro la croce»; «dentro il supremo atto d’amore e di scandalo che sulla croce è avvenuto e che non ha mai cessato e mai cesserà di riavvenire». Sono datati 1985 anche i ventun disegni, realizzati con pastello grasso e matita su carta, dedicati al tema della Crocifissione e presentati per la prima volta in una sezione della grande mostra antologica della sua pittura, Giovanni Testori. La notte oscura, che si inaugura alla Tour Fromage di Aosta, il 3 aprile 1993, pochi giorni dopo la sua morte. Rossana Bossaglia, sul “Corriere della Sera” (11 aprile 1993), scrive che la serie di studi sul Crocifisso progressivamente allontanano la figura da qualunque sembianza umana, parendo il corpo dilaniato e frantumato, un indefinibile corpo animale, o ancora, il suo straziato scheletro, quando non un fossile consumato da un tempo senza pace.
La serie per Maurizio Cecchetti (“Avvenire”, 10 aprile 1993) è segnata «da scarna violenza». E aggiunge: Si nota subito una disposizione per così dire trasversale di Testori, scrittore e critico, prima ancora che pittore, che riesce a fondere San Juan de La Cruz con Grünewald, e gettandoli sul tavolo della dissezione formale, disegna corpi che sembrano rettili, ammassi di clavicole, femori, tibie, e riplasma l’uomo crocifisso nell’unità di croce e membra, in un solo corpo insomma che soffre tutte le distorsioni e amputazioni e anamorfosi che già Picasso, Bacon e Sutherland avevano attuato. Le famose “spine” di Suther-
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land, che Testori vedeva spuntare anche dai celebri ritratti del maestro inglese, qui sono come assorbite dentro una fagocitazione che di Cristo lascia in croce solo le ossa spolpate. È davvero notte oscura questa.
Nel 1986 pubblica un’altra serie di poesie, Crux, che accompagnano i dipinti sul tema della Crocifissione del pittore austriaco Arnulf Rainer, pubblicata da Carlo Monzino, in occasione della mostra dell’artista, tenutasi a Venezia. Questo continuo ritornare «dentro la croce» è avviato con il libro di poesia Ossa mea, «un poema in forma maledetta», datato 1981-1982, che, ancora una volta, vede Testori ai piedi della croce in una sfida serrata con il Cristo crocifisso, sfida già assunta in altra forma, nel 1966 con Crocifissione e nel 1973 con Nel Tuo sangue. I temi del «poema» vengono anticipati dalle Tre preghiere, rimaste inedite e scritte nel 1979 e ritrovate in una cartella dove su un foglio c’è il riferimento a Ossa mea. Nel risvolto di copertina Domenico Porzio così lo descrive: Al cospetto dell’«amante-salvante» crocefisso, nella desolazione della non vita, si alza tuttavia la scheletrica voce di uno che crede, di chi sa che l’assassinato «è ancora una belva». Voce secca, sillabante ed enumerante, di un profeta demenziale ridotto a stracci e ossa, un illuminato ai piedi della croce nel «salmì» del Suo sangue. Ma voce di fiamma, un laser che penetra l’universo di rottami per risaldare il dolore alla speranza.
In parallelo Testori inizia la lunga elaborazione di In exitu, la storia del Riboldi Gino, che sposta l’attenzione dalla visionarietà espressiva di una croce in cui “essere” a 12
un realismo monologante tra rabbia, dolore, demenza, emarginazione, dove la croce è vissuta in un Cristo che si manifesta nel corpo di un giovane drogato che consumerà la sua ultima overdose e la sua “morte-resurrezione” in un cesso della Stazione Centrale di Milano. Testori assume su di sé, totalmente, la necessità di essere dentro a questa via crucis contemporanea, non solo scrivendolo, ma portandolo in teatro, insieme a Franco Branciaroli, in tutta Italia, anche nei luoghi non canonici del teatro, come la serata-evento della “sacra rappresentazione” nel luogo esatto in cui la si descrive nel testo, la Stazione Centrale di Milano, mentre i passeggeri vanno e vengono. Nella quotidianità dello svolgersi della vita si alza, urlante, il grido di dolore del povero drogato. Così ha scelto di essere cristiano Testori, facendo continuamente riferimento a una radicalità cristiana, non intuita solo in termini di “chiesa”, ma soprattutto come avvenimento umano. Gli interessa «la vita» e lo afferma con forza, nel 1986, nella Lettera ai credenti, pubblicata sul settimanale “Il Sabato”, in cui parte da sé, dalla sua solitudine, da quell’inevitabilità nel vivere la fede, da «indegno», la cui maggior prova sta «nel continuare a bestemmiarla», per giungere a un’invettiva contro l’euforia astratta di una Chiesa che sembra accontentarsi di qualche successo di immagine, ignorando che intorno a sé si sta creando il deserto. Alla fine scrive: La vita è una: questa. E non mi sento di ridurla a un progressivo e progressistico strangolamento di quell’inevitabile verità per cui fin qui ho accettato d’accogliere e percorrere niente più e niente meno che la vita.
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Sono temi questi che ritornano anche in altri scritti e progetti riguardanti l’arte, come l’introduzione per la V Biennale d’arte sacra di Siena, nel 1988, e come il sodalizio con il pittore bergamasco Vittorio Bellini che porta a una mostra-evento, la Via crucis di Vertova, presentata, nel 1989, al Meeting di Rimini. Anche pochi mesi prima della morte, alla fine di dicembre del 1992, sul “Corriere della Sera”, a proposito di una mostra parigina, Corps crucifiés, al Museo Picasso, diventa ancor più radicale, come lo è quando pone la domanda: Alle infelicità diverse […] quale Cristo la cultura cattolica, e spesso la stessa gerarchia della Chiesa, ha saputo e sa proporre? Quale Cristo sa gettare nel disastro della malattia, della fame e della morte?
La riduzione a «un Cristo disincarnato» porta a una drammatica inadempienza, quella di «un Cristo che non risponde all’urlata richiesta di senso e di significato che sembra alzarsi, come un grido ultimativo, dalla Terra». Così Testori parla di quello che per lui è il vero Cristo, quello rappresentato dagli artisti: Il Cristo della mostra parigina soffre, patisce, si offre tutto per amore, disturba e non dà pace; è una delle sole, credibili risposte date a quel grido. Che tale risposta venga dall’arte e, soprattutto, da artisti magari atei, certo non professionisti di cattolicità, dà il senso di come quest’ultima, per volere essere politicamente nella storia, abbia abbandonato il terribile, sacro destino che il Dio crocifisso le aveva assegnato.
Questo libro raccoglie scritti rari, pubblicati in cataloghi d’arte, a volte a tiratura limitata, o su rivista, e riu14
nisce i frammenti di una serie di “variazioni”, scritte sotto forma di poesia, di riflessione teologica, di saggio d’arte, sul tema della Crocifissione che mostrano l’ossessiva insistenza dello scrittore sulla centralità di Cristo nel vivere la realtà. Risultano “variazioni” nate intorno a quel nucleo fondante e centrale rappresentato da Ossa mea, le cui “prove” (Tre preghiere) aprono questa scelta. Si tratta di un “percorso” che, anche dal punto di vista critico, può offrire occasioni di studio sulla continua necessità che ha Testori di entrare «nella croce» insieme agli artisti: una necessità che lo accompagna da sempre, fin da quando giovanissimo, a Sormano, nel 1944, scrive Cristo e la donna, un testo teatrale che mette in scena una sacra rappresentazione e l’anno successivo, nel 1945, pubblica una serie di disegni sul tema della croce, per un’edizione delle Laude di Jacopone da Todi. Questo primo Testori a teatro, ancora inedito, insieme alla ripresa anastatica dell’edizione delle Laude con i disegni testoriani, verrà pubblicato, prossimamente, in questa stessa collana, per documentare “le origini” di questo tema che diventa la ragione della scrittura testoriana. Si pensi poi all’elaborazione del poemetto Crocifissione, pubblicato nel 1966, che come viene chiaramente documentato dalle carte inedite, nasce come “variazione” sulle Crocifissioni di Francis Bacon. Il poemetto è l’ultima elaborazione di un percorso di scrittura che procede dalle due Suite per Francis Bacon, ritrovate tra le carte inedite, con alcuni dattiloscritti incompiuti relativi appunto a Crocifissione. La prima fa ancora riferimento a singoli dipinti del pittore inglese, esplicitandone i titoli; la seconda già si elabora in forma di poemetto e in essa i riferimenti 15
alla fonte pittorica non risultano più così espliciti. Testori è stato uno dei primi critici italiani a occuparsi del pittore e in un articolo del 1985, su “FMR” n. 34, scrive: Il terrore che Bacon suscitò al suo apparire, oggi, va forse letto, non nel senso di un compiacimento a enumerare degradazioni, ferite, pustole, infecondi abbracci e infeconde, feroci istintualità tanto più rituali, quanto più depravate, bensì e supremamente, come terrore di lui, il corpo umano, del suo semplice esistere come fatto e come atto; e del suo esistere in una bellezza feroce, e bestiale, ma, anche, lucente e sacra; una bellezza, infine, divorantemente, escludentemente e cannibalisticamente maschia; o maschile.
Nel 1973 pubblica Nel Tuo sangue e l’immagine scelta per il riquadro della grafica di copertina è indicativo come rimando figurativo: un particolare della Crocefissione di Grünewald, scelta non casuale visto che nel 1972 Testori pubblica il saggio Grünewald, la bestemmia e il trionfo, come presentazione al volume L’opera completa di Grünewald, nella collana “I classici dell’arte”, Rizzoli. Lo scritto risulta parallelo alla presente raccolta poetica, tanto che Testori scrive: Ora, come indicare tutto questo, senza prendersi il peso d’affermare che, qui, Cristo è anche bestia e cane; che il suo gemito è anche latrato; e che proprio e solo per questa via il suo istinto e la sua fatalità redentivi ci vengono spiegati in tutta la loro abissale vastità e in tutta la loro abbacinante incomprensibilità? Ecco: la caduta di Grünewald dentro l’unicità dell’essere, e dentro lo scandalo che in questo modo egli apre, sembra non aver fine.
Testori già qui mette a fuoco la necessità della verità della croce che negli anni ottanta diventa il fondamento 16
della sua natura di scrittore e che lo accompagna per sempre, visto che le ultime righe dell’invettiva sul «tradimento di Cristo», nel già citato articolo del dicembre 1992, suonano, nella loro fermezza, testamentarie, «nella certezza che lui, Cristo, reso irriconoscibile proprio dal tradimento di noi cristiani, abita ugualmente, ugualmente rantola nel disastro del mondo, e che qualcuno ha ancora occhi, mente e carità per vederlo e per mostrarcelo». 2 febbraio 2011
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Giovanni Testori, Crocifissione, 1985.
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GIOVANNI TESTORI
Davanti alla croce
Preghiere
I «Ruheteg, closed, fermé, chiuso» – così è scritto sul cartello appeso alla porta della Valdrast Gasthaus, seppure anche là, bussando, quando sopraggiunge tempesta, neve, latrocinio o fame… – ma Tu non chiuso, mai, aperto sempre, spalancato. Affondato nel letto delle Tue piaghe dimentico nel Sacro Matrimonio ogni spenta unione, la sconcio benedicendola dentro la bocca di Te che sangue affonda nella mia… … labbra screpolate, dalle spine perforate, labbra cercate, labbra bestemmiate… 21
Amato amante transfuga come sono, topo di fogna, traditore, accetta che accarezzi ancora nella notte la tua delicata nuca offesa, la perfetta curva della spalla non illesa, l’incavo del ventre flagellato passando entro ogni di noi stanza da Betlemme è giunto sopra il Teschio qui sul Golgota è arrivato, denudato, dove la paglia fu di sangue veste venduta, rivenduta di muscoli perla flagellata… Squarciate vene nostre povere arterie innamorate – neppure al mattatoio il bue ed il vitello, il maiale, neppure si sconcia così prima d’insaccarlo. Vennero i dadi tratti nella livida sera Ad ogni giorno, ad ogni ora Anche noi al caso li gettiamo ed all’azzardo, inesistenze che hai voluto feti, agonie, corpi, intelligenze. Nel gorgo della satanica erta di menzogna questo, da Te divelta 22
sappiamo essere ora la ragione e ingiusta e cieca conosciamo essere da Te staccata ogni giustizia ricercata – dimentichiamo il viso forte e dolce, il bellissimo corpo anche scordiamo che la venduta veste ricoprì prima ancora dello schianto, prima della frusta di cuoio sibilante… S’alza dalla piana un corvo, gracida nell’Inri quotidiano. Vedere potremo mai oltre il suo enorme salterio qui e prima della Gloria l’eburnea meraviglia santa dell’Intatta Perfezione o sempre, com’è giusto, questa davanti avremo ferita di costato che abbiamo contro noi voluto e che ci chiama, pecora del cosmo lacerato, ci sussurra, baciandoci sono io il tuo cercato sono io il tuo amato sono io il tuo invocato sono io la tua sposa.
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II Abbracciarsi, stringersi come ramarri, gigli, serpi, melograni, baciarsi, fondersi come sangue e pane, confondersi non essere più che in Te, nell’agonia del Figlio Crocefisso che Tu sei, assassinato, da lancea perforato, distinto e uguale Padre, e Tu, distinto e uguale Spirito, nel precipizio dell’esmeralda Trinità distendere la polvere dei baci delle carezze che io, anima infangata, alla vista di tutti (o d’alcuno) desio ora comporti sul sanguinante, dolce viso. Come s’abbracciavano gli amanti sulle spiagge, nelle stanze, dentro i bar, negli angoli delle feroci notturnalità? Come i drogati e i traditori? Come i suicidi? Come gli invertebrati?
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Non ho memoria più delle mie frante ossa. Ne ho qui solo il povero dolore e per Te, Figlio, io che Ti son figlio, ne ho qui solo l’incosciente, cieco, balbettante amore… III Scende a Provès la pace… … no, che sei Tu a scendere, Pace unica e vera, nella sera che affonda dalle dolcissime cime i larici, i pini, i prati ed i creati figli del Tuo amore, Tu, nostra luce, Cristo, e nostro cuore. S’apre il costato dall’orizzonte giù fin al precipite grembo della valle e tutti ci comprende Trinitario Figlio dai laser della colpa trapassato. Contaci le ossa, Redentore, anche le ossa baciaci, una per una, 25
e l’anime spose e amanti. Infedeli essendo, fedeli nella trepida miseria della nostra indegnità ti siamo e ti cerchiamo e ti preghiamo. I bordi sanguinanti che nessun punto né crosta alcuna riuscirà a richiudere mai a ricomporre la demenza del non sapere se non nell’essere da Te voluto, amato, confessato, perdonato, saputo, vinto, sposato, posseduto. Nella negazione di Te dentro la cisterna, in siepe oscura, postribolo d’incontri ciechi d’animali, Cinghiale del Padre m’hai raggiunto e azzannato. Nei baci di carne che m’hai dato viziato com’ero a carne solo disperata la Carne vera e ferma ho ritrovato. Non lasciarmi solo, anima sono, non più maschio 26
o maschio nella Tua dolce smemorante delazione. M’hai deferito al Padre, in catene d’amore a Lui m’hai consegnato. Aspetto il Suo giudizio mentre, scheletro già nudo, di saliva immonda Ti riempio, mordo le Tue gengive, indegno cane T’offro la mia cenere, T’amo. 1978-1979
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Aiutaci, Cristo Preghiera
Cristo, Nostro Signore, timidamente e tremando comincio a pronunciare queste parole, io l’ultimo arrivato qui, ai piedi della Tua verità e della Tua croce; l’ultimo e il meno degno di quanti stasera si trovano raccolti in questo Tuo Tempio e di quanti, nei luoghi di lavoro o nelle case, vanno chiudendo in Te la loro giornata. Ti chiedo d’aiutarmi perché queste parole non risultino troppo lontane da ciò che si muove con forza, fede e lucentezza ben più grandi dentro le anime, i cuori e gli intelletti di tanti e tanti fratelli, di tante e tante sorelle, così che passando dalla mia persona al noi, il noi che tutti quei fratelli e quelle sorelle vorrebbe comprendere, le parole che ti rivolgo riescano ad esprimere il nostro bisogno di Te, la nostra speranza in Te, nell’infinito miracolo d’amore che fu, è e sarà per sempre la Tua incarnazione; la nostra speranza nella Tua nascita, nella Tua passione, nella Tua agonia, nella Tua morte e nella Tua risurrezione. Che Maria, cui questo Tempio è dedicato, Lei che fu Tua madre e che è madre dolce e tenerissima di tutti gli uomini, stenda su di noi la sua materna carezza; che ci guardi e sorrida, dicendoci: «Io vi aiuto, andate avanti!» E così noi vogliamo andare avanti per arrivare sempre più vicino a Te, sempre più vicino, anzi sempre più dentro alla tua Verità. 29
Cristo del presepe, Cristo del Golgota, Cristo della tomba scoperchiata, Cristo della risurrezione, Cristo eterno, noi ti preghiamo perché con Te, in Te, per Te la nostra vita assuma il Tuo sigillo, il Tuo senso di perenne amore e di perenne creatività e così si redima delle sue colpe, dei suoi limiti e della sua morte. Fa’ che sia la Tua incarnazione e, in essa, la Tua divina missione di verità, che è la verità del Padre Tuo e dello Spirito abbagliante e santissimo. Lacera in noi, come accade di questi tempi nei campi, nei prati e in tutta la bellissima natura; lacera la crosta delle nostre povere frontiere, sia geografiche, sia sociali, sia psicologiche; spacca col tuo amore la terra gelata e facci capire, amare e volere la dilatazione senza fine del nostro essere peccatori sì, ma innamorati testimoni della Tua parola di verità e di giustizia, di salvezza e di pace. Approfondisci in noi fino alle altezze e agli abissi supremi e, insieme, allarga e dilata oltre ogni confine il senso, la bellezza, la necessità, l’indispensabilità della Tua parola; quella parola che è carne e spirito, passato e futuro, presente ed eternità; quella che è storia e infinitezza; quella parola che è scesa e scende di continuo nel nostro limite per portarci oltre ogni limite. Aiutaci a capire che non basta più e mai testimoniarla in noi, nella ristrettezza della nostra vita, ma che essa, per la sua stessa natura d’atto supremo e assoluto d’amore, chiede, domanda e grida con gioia d’estendersi, moltiplicarsi, in modo che tutti gli uomini della terra possano, attraverso di noi, conoscere il riflesso della Tua verità. Fa’ che questo riflesso sia sempre meno pallido; fa’ che diventi sempre più ardente; che ci bruci, così da es30
sere anche noi come fuochi quotidiani che, nell’amore Tuo e nell’amore della Tua verità, riescono ad illuminare gli uomini tutti. Fa’ che nel Tuo amore e nella Tua verità crollino in noi le mura d’ogni divisione; che la famiglia sia famiglia in modo che tutti abbiano una famiglia; che la patria sia patria in modo che tutti abbiano una patria: che la tradizione sia tradizione, in modo che tutti ne conservino il retaggio; così che né famiglia, né patria, né tradizione siano un limite alla testimonianza di Te, bensì un tramite diventato prova vivente, vivente esempio della continua missione in cui quella testimonianza solamente può realizzarsi. Come potremo, infatti, dire che Ti amiamo e che in Te amiamo gli uomini e la vita, se non faremo quanto ci è possibile e persino quanto a noi non sembra possibile perché tutti possano conoscere e partecipare questo fuoco d’amore che Tu sei? Spingici senza tregua; facci camminare; facci andare ed essere là dove più l’uomo ha necessità, fame e sete di Te, della Tua giustizia e della Tua verità. Che quel luogo sia qui, nelle nostre città, nei nostri paesi, tra i poveri, i diseredati, i reietti, gli oppressi, i dimentichi, i malati, i privi e privati di Te e della Tua luce; che sia fra quanti T’insultano e Ti feriscono e, nel nome Tuo, insultano e feriscono anche noi; o che sia fra quanti ancora non Ti conoscono perché sei stato loro vietato o negato; ovunque è necessario fa’ che il tentativo di vivere la Tua parola sia il tentativo d’essere Tuoi poveri, ma felici missionari, Tuoi poveri, ma felici apostoli. Aiutaci, Cristo nostro re, nostro fratello e nostro Signore. Aiutaci anche ad aiutarci tutti insieme! Fa’ che la 31
nostra comunione lieviti come un pane e sia la comunione e la libertà di tutti gli uomini. È di questo che stasera Ti preghiamo. Stasera come all’apparire d’ogni giorno e, dentro ogni giorno, all’apparire d’ogni ora e d’ogni momento. Aiutaci a essere come Tu ci hai indicato, come Tu continui a indicarci dalla Tua capanna, dalla Tua morte, dalla Tua tomba spalancata per sempre alle fiamme della Tua divina risurrezione. Aiutaci, Signore, Te lo chiediamo con tutta la dolcezza e la forza della nostra fede e della nostra speranza! E con Lui, aiutaci anche Tu, grande, tenera, dolcissima Maria! Aiutateci, Cristo e Maria, come ci avete aiutati e salvati quella notte là, nella capanna, o come quella sera di sangue e di redenzione là, sulla cima del Calvario. Aiutateci ovunque! Aiutateci sempre! Aiutateci con la vostra, infinita luce! Aiutateci col vostro infinito amore! Duomo di Milano, 30 marzo 1979
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La luce della Pasqua
Cosa innerva, cosa spinge e tende la vita dell’uomo se non la speranza? E in cosa consiste quest’infinita, straziata, incolmabile speranza se non nel raggiungere il senso, la ragione e il significato dell’esistenza medesima, cioè a dire la sua verità prima ed ultima, la sua verità inamovibile e assoluta, insomma, la sua verità eterna? Tutta la storia dell’uomo, ove pure si presenti in forme distorte e blasfeme, s’è mossa e si muove su quest’asse e in questa direzione; e se precipita nell’abisso, è solo perché s’affatica ad andare contro se stessa e tenta, senza esiti che non siano disastri, di mutare l’immutabilità di quella direzione. Il destino dell’uomo è la speranza. Ma questa speranza, che è la verità, che è Dio, che è la nostra comunione in Lui, passa, si attua e si concretizza solo nella storia. Da qui la sacra fatalità, il sacro destino del dolore; il dolore d’essere limitati per una tensione che mira invece all’illimite; il dolore d’essere nel tempo per una tensione che mira invece al non-tempo. Da qui, ancora, la sacra fatalità, il sacro destino della via crucis per ogni uomo; ancorché l’uomo voglia chiamarla diversamente o pensi di potervisi sottrarre. Ma la croce sempre gli è ricaduta, sempre gli ricadrà sulle spalle; quasi che l’amore infinito di Cristo, che la croce assunse per primo, per tutti e per sempre, altro non faccia che indurre l’uomo a ricono33
scerla, accettarla, abbracciarla e persino amarla, lei, la croce; e nella croce, il sacrificio, il dolore. La festa di oggi, la luce che è la Pasqua, la folgorazione immensa che è la Resurrezione sono la speranza raggiunta, la speranza esplosa, la speranza che ha incenerito in sé i limiti della storia e, insieme, l’ha riconciliata all’eternità di Dio; quindi, l’ha riconciliata con se stessa e con la sua tensione. Per uguali ragioni, la Passione che precede la Resurrezione, il Cristo preso, il Cristo giudicato, offeso, sputato, flagellato, il Cristo tradito, perseguitato, il Cristo umiliato, crocifisso e ucciso, è la prova esperita per noi da Lui, il Dio che per la nostra salvezza ha voluto farsi uomo; è la prova, dicevo, dell’impossibilità di scindere l’attuazione della speranza dall’accettazione del dolore. Senonché, dopo la Passione di Cristo e dopo la sua Resurrezione, il dolore dell’uomo non è più un dolore cieco, un dolore muto, un dolore demente, folle e disperato; bensì un dolore che conduce l’uomo nel grembo stesso della sua speranza; un dolore che lo conduce a raggiungere il senso primo ed ultimo della sua vita. È, dunque, un dolore santo, un dolore attivo, anche storicamente, anche socialmente; un dolore, ecco, felice. Se è vero, ed è vero, che la felicità dell’uomo risiede nel riposare all’interno della sua verità. Tutto questo non deve essere solo la storia d’ogni vita e, assommando tutte le vite, la storia dell’intera storia, ma deve essere la storia di tutti gli attimi d’ogni vita e d’ogni uomo. Il rapporto dolore-speranza, dolore-resurrezione deve innervare ogni momento della nostra esistenza, perché solo accettando, umili e coscienti, l’attimalità continua di tale rapporto, ogni momento della vita d’o34
gnuno di noi e, nella globalità, ogni momento della vita del mondo e dell’universo raggiunge il suo significato e il suo valore primi e, in essi, i suoi significati e suoi valori secondi; che secondari però non saranno mai proprio perché riferiti ai primi e, di essi, immagini palpitanti, quotidiane, feriali. La perennità della Passione di Cristo e della Pasqua sta nell’essersi posti, una volta per tutte e una volta per sempre, come ribaltamento del dolore d’esistere in speranza attuabile, anzi attuata; in Resurrezione. La sua inevitabilità, contro la quale l’uomo, ove tenti di procedere, sempre si schianterà come un cieco relitto, sta nell’aver stabilito un punto irreversibile nel rapporto tra Dio e l’uomo. Oltre quel punto non esiste altra possibilità se non quella d’uniformarsi e ripeterlo. Ma uniformarsi e ripetere la Passione di Cristo e la Resurrezione che, per tutti, n’è conseguita, significa uniformarsi all’amore; all’amore di Cristo, di Dio Padre, dello Spirito, della Trinità; dunque, all’amore dell’uomo e per l’uomo che, della Trinità, forma il disegno, il palpito, il desiderio, la liberissima fame e la liberissima sete. Fame e sete che, ove l’uomo riesca ad adeguarvisi, diventano fame e sete d’amore, anzi realizzazione d’amore, di verità, di giustizia e di pace anche qui, sulla terra; anche qui, nei nostri giorni limitati eppure stupendamente creativi, perché assegnatici come dono da Lui che è, in assoluto, l’ineffabile facitore di vita, l’ineffabile Creatore. [“Corriere della Sera”, 15 aprile 1979]
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Davanti alla croce
Quando fermi davanti alla croce, guardiamo il volto di Cristo, ci accorgiamo che a poco a poco, tra la brina del sudore e le gocce dense e grevi del sangue, quel volto diventa l’alveo, la casa, il nido di raccolta e l’effigie stessa di tutte le offese, di tutte le ingiustizie, di tutti i dolori e di tutte le lagrime che devastano il mondo. Allora su quel volto, diversificati uno per uno, ma abbracciati in una stessa domanda, in una stessa risposta e, dunque, in una stessa pace, scorgiamo i volti di tutti i sofferenti, di tutti gli affamati, di tutti i malati che ci è accaduto d’incontrare nella vita, quelli ai quali non abbiamo dato nulla o ben poco di quanto, con la loro presenza, ci chiedevano; e, insieme ai loro, i volti dei sofferenti, degli affamati, degli oppressi e dei malati che nella vita ci hanno preceduti e ci seguiranno. Presi da quell’infinita, tremante capacità di condensare in sé tutte le altre vite e di far lievitare come un muschio e fiorire come un prato, da tanto, terribile dolore la realtà della pace, noi ci chiediamo da dove questo miracolo nasca. La risposta è nella natura stessa dell’uomo-Dio che sulla croce ha voluto salire e morire per liberare veramente e totalmente l’uomo e, con l’uomo, il mondo. Questa natura è, in assoluto, la carità; è, in assoluto, l’amore. Solo la carità, solo l’amore, ci dice quell’umile corpo martoriato e crocifisso, possono compiere, all’interno del 37
mondo e del suo dolore, la resurrezione. E, difatti, noi sappiamo che l’atto successivo alla morte, quell’atto che proprio oggi ricordiamo, è appunto la Resurrezione; e che, dunque, il volto carico di tutte le sofferenze del Crocefisso si libererà, dopo essere stato chiuso dentro il sepolcro, nel volto trionfante del Risorto. Ma quel trionfo è possibile ed è tale proprio in quanto reca in sé la memoria e i segni del carico enorme e terribile di sofferenze che si è assunto; e in quanto è disposto a ripetere senza fine l’esperienza di dolore e di morte che è la croce e a riprendere su di sé tutta la fame, tutte le lagrime, tutte le ingiustizie e tutte le empietà che popolano il mondo. Del resto nella risposta in cui abbiamo visto quietarsi, dentro il volto di Cristo, i volti, tutti, degli altri sofferenti non è già da leggersi l’inizio di quel calmo e luminoso trionfo? Dolore e speranza, sofferenza e pace si pongono così come termini inseparabili. Non è possibile giungere alla speranza e alla pace senza passare attraverso il dolore e la sofferenza, così come dolore e sofferenza non trovano ragione che nel loro sfociare dentro la speranza e dentro la pace. Questo è lo scandalo della croce; e questo ci insegna il corpo di carità e d’amore che da secoli e secoli torna ogni giorno e ogni ora a farsi crocifiggere per noi e a pendere, come un agnello, sui legni della nostra infamia. Ci insegna che proprio quando il dolore e la sofferenza della vita sembrano, come ai nostri giorni, spalancarci davanti solo buio, disperazione, paura e morte, se vissuti nella carità per gli altri uomini e nel vero amore per il mondo, comincia a rinascere, dentro e fuori di noi, quasi fosse una piccola, breve foglia, il miracolo della speranza; e che tale piccola, breve foglia dobbiamo coltivare e far cresce38
re con tutte le nostre forze, persino col nostro misero sangue e col nostro misero fiato; pronti a rigettarci un’altra volta nella comprensione e nella partecipazione del dolore e della sofferenza per portare anche questa, successiva e terribile messe dentro le braccia della speranza e della pace; poiché noi stessi alla speranza e alla pace arriveremo solo in quest’onda di carità e d’amore che non cessa mai di farsi carico dei bisogni e delle necessità degli altri. Questa dialettica, che è la sola, vera dialettica dell’uomo, risulta per sua natura senza fine; almeno fin quando durerà il cammino della storia. E se essa, col suo proporci l’inseparabilità del dolore dalla speranza e la necessità della sofferenza per giungere alla pace e, dunque, il dovere di distruggere il dolore pur sapendo che esso riaffiorerà sempre perché appunto possa rinascere sempre la speranza; se questa dialettica, dicevo, sembra contrastare coi termini della logica, qualora venga letta nella sua semplice e insieme abissale profondità risulta invece la sola che mostra di non staccarsi mai dalla realtà, di non vivere mai su delle ipotesi o, peggio, su delle menzogne. Riconoscendo lo stato di sofferenza ma insieme la prova di carità e d’amore che è la vita, essa ci domanda di farci carico di quello stato di sofferenza e di trasformarlo, attraverso la carità e l’amore, in stato di speranza e di pace. Del resto tutte le altre dialettiche nel momento in cui arrivano a riconoscere i dati fondamentali dell’esistenza finiscono con l’avvicinarsi, se non proprio a collimare con questa, primaria e riassuntiva, che ci viene dalla croce. Così è proprio in quel punto d’avvicinamento e di congiunzione che gli uomini, tutti gli uomini, in qualunque posizione ideologica si trovino, sono chiamati dal lo39
ro stesso essere uomini a incontrarsi e ad agire. Un punto che è l’unico per il quale il mondo può salvarsi, non solo dalla cecità d’un dolore demente, e senza significato, ma dalla sua stessa distruzione e dalla sua stessa rovina; e accogliere, ove pure non arrivi a meritarlo, il miracolo della speranza che continua a scendere in noi dalla croce.
[“Corriere della Sera”, 6 aprile 1980]
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Crux per Arnulf Rainer
S’udì oltre il Cranio l’ululato. Da qui t’ho amato, pendente ora colata del disastro – fece di spugne arsa la Sua voce. La terra si ferì. La vagina sua aprì, voragine di schisto. Poi, rantolante troia, né femmina, né maschio, aborto solo di scienza-vanità, si volse verso Cristo. 43
Sanguinante s’alzò di viole un ex-umano arto. Verso l’incarbonito legno si portò. L’Invincibile vinto, l’Invincibile atterrato ardeva nella brace urlando l’impossibile pace di chi eterno ha amato colui che in eterno essere doveva solo odiato.
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Strisciando arrancò la bava della rana. Ai piedi giunse. Il chiodo leccò di corallo bagnato. Il sacro sangue ingoiò. Langue… – mormorava svenuta di già bianca Maria. A salire continuò. Poi come d’infanti in gioco nell’antro del cuore s’arrestò.
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Muore, ogni giorno muore… Chi sussurrava nella totale nullità la bestemmiante bestemmiata verità?
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Il sipario della fine, la discesa del lutto. Tutto è che si liquefa, melma che l’ultima pietà a squarcio – labbro di sole marcio – afferrerà pei denti dei perdenti.
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Perfetta sei intatta senza voce croce. D’altro non segni se non di te la peste del demente gioco inesistente dei creati. Credevamo. Vero non è. Nemmeno fummo se non per te a qualche indizio, balbuzie o movimento nati.
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Le palpebre sulle pupille scendere facendo e nulla più vedendo: il resto – Amleto mormorò – è silenzio. Ma, in Te? E Tu, Tu solamente, ogni vana costruzione cedendo della storia a Te dinanzi, al sangue originario ed al suo santo che accogli negli sputati ed insultati legni? Persino di guardarTi, persino 49
di pensarTi siamo indegni. Orazio stringe a sé il Prence e piange: è morto, ecco non soffre più… Ma, Tu? Rispondi: Tu?
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I popoli, le mandrie, i secoli, i millenni… Trasecoli all’apparire loro grondante assassinante e subito insieme disparente, cuore percosso dalle spine, Tu, ente senza fine, il costato lacerato, il costato dalle vittime e dai vinti solo amato…
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Santo dal tempo odiato, Santo dal tempo inaccettato e insieme consumato solo per non capire che tutto dovrà presto disfarsi, nel nulla rantolare, gemere, finire.
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S’alzano verso Te le braccia, le vergogne. S’abbattono sul Tuo assente presente costato. Del Tuo ventre mordono l’ombelico. Strappano la benda che il sesso Ti difende. Del sangue Tuo casto latrocinio fanno e pasto. È perversa ossessione? Oè l’unica a noi restata devozione?
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La scimitarra dei barbari, la scimitarra delle uccisioni e delle stragi, la scimitarra che le spose dei vinti sgozzò, i figli loro, le pecore, i maiali, fu resa enorme, enorme resa è ogni giorno per inchiodarTi a lei sì che da Te la bava cada e il sangue nelle bocche dei nati al pasto dell’inesistenza ingorda solo di plastico sperma e d’insipienza. 1986
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Quattro Crocefissioni
Francis Bacon La Crocefissione crocefissa
Che la fantasia di Francis Bacon sia ossessionata – o, meglio, abbia come suo fulcro il Golgota, è provato da una semplice ricognizione cronologica sul catalogo. Prima di darsi completamente alla pittura, Bacon lavorava come arredatore per le famiglie dell’alta borghesia londinese. Era reduce da un soggiorno a Berlino: cosa questa di notevole interesse, in quanto la pittura tedesca del Novecento è quella che più si è aggrappata, in modi (per fortuna) non immediatamente canonici, alla figura di Cristo, e anche perché è la pittura che più si lega alla tragedia della vita – sebbene lo faccia con esiti in cui un’eccessiva preoccupazione per il sociale, o sociologica, frena la totalità di questa investitura esistenziale. Di questo periodo in qualche modo pre-pittorico di Bacon è la prima immagine del suo catalogo: un Crocifisso ridotto ad una sorta di filo. Questo segno rimarrà impresso in tutta la sua arte, tanto che, anni dopo, alla domanda sul perché insista tanto sul Crocifisso, Bacon risponderà: «Perché quando devo meditare sul dolore del mondo mi rendo conto che il luogo pertinente per questa meditazione è il Golgota». Tuttavia, dopo quell’inizio ci vorrà del tempo perché Bacon riaffronti Cristo nella sua pienezza. Dapprima si sofferma nelle sue vicinanze: nel ’43, ad esempio, in una mostra con Sutherland e Moore, egli espone un trittico: 57
Tre figure ai piedi della croce; figure urlanti ove la mitologia greca si sfascia dentro la realtà evangelica. Negli stessi anni il pittore alsaziano Gruber affronta la crocifissione con un quadro dal titolo analogo: Ai piedi della croce. Manca ancora la forza necessaria per fare Cristo. In seguito, Cristo viene ridotto da Bacon ad una bocca, ad una sorta di foro urlante. Bacon affronta il tema nella sua totalità, con una serie di polittici, di cui questo del ’62 è tra i più belli. Con Cristo ritornano i fantasmi del passato, tutti i Cristi che la storia dell’arte ha macinato; in Bacon ritorna il Crocifisso forse più barbarico, quello di Cimabue, che in Bacon si sovrappone per oltranza a quello di Grünewald. Tuttavia, c’è un gesto, insieme d’amore e di bestemmia, che Bacon compie: quello di rovesciarlo, di capovolgere Cristo. Un’ulteriore crocifissione, la crocifissione di una crocifissione, forse. O, forse, il bisogno di rendere l’immagine meglio accoglibile in un grembo, o in un lenzuolo e, in questo senso, si può ben dire che così facendo Bacon unisce la Crocifissione e la Deposizione. Il Crocifisso di Bacon è il Cristo che si lascia accogliere. L’immagine ha qualcosa del mattatoio in cui vive anche una sorta di terribile compiacimento («Vorrei dipingere le piaghe dei miei personaggi» diceva Bacon «come Monet dipingeva le ninfee»: e ce l’ha fatta); eppure, nel suo essere sconciato, il Cristo sfigurato, si rioffre come in un atto di estremo amore all’uomo che l’ha così ridotto, affinché l’uomo possa tornare a toccarlo. Così Bacon realizza il Calvario, e direi che la sua obbedienza alla realtà di Cristo va ben oltre la sua stessa volontà. L’invasione del Cristo morto tocca anche a chi più 58
è apparentemente lontano da Lui, anche perché chi più è lontano non presume di capire. Bacon non ha presunto di capire nulla dell’actus tragicus della croce, ma proprio per ciò si è lasciato capire, ha cioè lasciato che la comprensione gli venisse non da sé, ma da quell’actus medesimo, cioè Cristo. In questo senso la sua immagine di Cristo, umiliata ma anche umile, ci si offre come la più alta, la più corrispondente al nostro tempo. Questo suo Cristo rovesciato è il blasfemo che c’è in ciascuno di noi, ma rovesciato in bellezza strepitosa, dove il sangue si fa rubino; e in questa bellezza c’è, ancora una volta, la luce della Resurrezione.
[“Il Sabato”, 8 marzo 1986. Testori si riferisce al pannello di destra del trittico Tre studi per una Crocefissione, 1962, di Francis Bacon]
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Max Beckmann La croce in corpo
La discesa dalla croce, che cade relativamente presto nel cammino di Beckmann, e che si accompagna con un quadro di dimensioni analoghe (Cristo e l’adultera), attesta la posizione nella storia dell’arte di questo grandissimo pittore, uno dei pilastri del secolo, che forse solo le esposizioni di due anni fa [n.d.r.: si riferisce al 1984] per il centenario della nascita hanno incominciato a rilevare per quel che è stato; una posizione, la sua, che, provenendo per tradizione dall’espressionismo tedesco, accoglie però anche la rivoluzione di strutture e di forme del cubismo. La difficoltà di questa posizione è stata in un certo senso l’ostacolo ad una più immediata comprensione della sua grandezza; ma essa è anche la tensione che lo rende unico nel tentativo di un sunto quasi impossibile tra un’arte ustionata e distrutta in partenza dal suo farsi espressione diretta della vita (l’espressionismo), e un’arte che blocchi questa febbre e la conduca ad una stabilità, ove il terremoto interno della pittura di Beckmann, pur non travalicandone i limiti, a vederlo, ha quasi il rigore formale dei cloisonners dell’oreficeria medioevale. Ciò non significa che egli si collochi in una posizione mediana; se così agisce, è per la duplice urgenza che lo determina: di esprimere e di essere. Ciò è ben visibile nella Discesa dalla croce del 1917, questa straordinaria “crocifissione”, in cui si legge tutta 61
la storia dell’interpretazione e dell’iconografia cristiana dell’arte tedesca, e che perviene all’osso del dolore; qui, la spigolosità dell’interpretazione nulla concede al pittorico, ma è tutta tesa all’emblematizzazione dell’atto. In questo senso si può dire che tutta la pittura di Beckmann è come questo Crocifisso, dove la tensione tragica chiede di stabilizzarsi in una forma che non strozzi il senso del dolore, ma che redima il dolore e la morte in una fermezza plastica. In tutta l’opera di Beckmann e nel suo bisogno di diventare un emblema (e non simbolo) si vede il suo continuo riferimento alla grande lezione dell’arte medioevale e rinascimentale tedesca. L’apice in questo senso sarà raggiunto nella serie dei “trittici”. Ma anche qui la struttura stessa dell’azione e l’anatomia dei corpi, pur apparendo visibilmente al nostro secolo, tuttavia, a furia di scarnificarsi, escono dal tempo – o, meglio, trascinano il nostro tempo in una sorta di esemplarità. Il modo in cui Cristo, scendendo dalla croce, occupa tutto lo spazio, continua la logica interna, non astratta, delle immagini sacre del Medioevo tedesco; così che Cristo, pallido, in luogo di ripiegare o abbandonare le braccia, diventa egli stesso croce, e sembra volersi appoggiare alle spalle, soprattutto della Maddalena inginocchiata (che ha la stessa fisionomia dell’adultera dell’altro dipinto coevo, citato all’inizio); quella Maddalena che è il solo personaggio ad avere, non diremo capito, ma patito l’avvenimento di quella morte. Credo che Cristo, cadendo su quelle spalle, incarni, indichi come sia inevitabile, per chi voglia salvarsi, il percorrere il cammino del Golgota e il tenersi sulle spalle la croce con cui ognuno nasce e con cui ognuno non può non vivere. 62
Questa descrizione di una realtà drammatica s’incarna nell’enorme capacità di Beckmann di trasfigurare l’atto figurativo in emblema, in lezione: non una lezione esposta, bensì lezione in atto, con tutti i margini di violenza che questa lezione richiede, ma con una conclusione di calma coscienziale che il quadro riesce a comunicare. Alla fine, insomma, i conti tornano, e non in virtù del mondo (che non riesce a farli tornare), ma in virtù del corpo di Cristo che, dopo aver portato la croce, si fa egli stesso croce: una croce qui così limpidamente assunta da essere argomento non più di dannazione, bensì di resurrezione. Non a caso, Beckmann è uno fra i pochissimi pittori contemporanei ad aver dipinto anche una Resurrezione; e un Giudizio Finale: come a dire che, pur al di fuori di un’obbedienza di fede, se l’atto della Crocifissione viene assunto come fatto concernente la propria coscienza, esso contiene già in sé i successivi.
[“Il Sabato”, 15 marzo 1986. Il dipinto è La discesa dalla croce, 1917, di Max Beckmann]
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Francis Bacon, Tre studi per una Crocefissione, pannello di destra, 1962.
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Max Beckmann, La discesa dalla croce, 1917.
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Karl Hödicke, Crocifissione, 1985.
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Henri Matisse, studio per la Discesa dalla croce per la cappella di Saint Paul de Vence.
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Lucio Fontana, Via crucis, 1947, particolare.
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Arnulf Rainer, Crux (4), 1980-1985.
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Kei Mitsuuchi, Crocifissione, 1983-1984.
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Vittorio Bellini, Via crucis di Vertova, 1989.
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Karl Hödicke Un braccio di libertà
Hödicke è uno tra i massimi rappresentanti della grande ripresa dell’arte tedesca che, dopo la fine della guerra, era rimasta schiacciata e umiliata dalla sconfitta e da quest’offesa, perpetrata contro la Germania e contro il mondo, che fu il muro di Berlino. Non a caso, la ripresa dell’arte tedesca avviene a Berlino, per mano di pittori che vivono ed espongono, inizialmente, a pochi passi dal muro; e, anzi, uno dei temi di questa nuova pittura è il muro stesso, su cui, tra l’altro, questi pittori hanno eseguito diversi murali (Fetting – uno dei maggiori fra loro – vede lo spettro di van Gogh strisciare contro il muro). Credo che l’Europa e il mondo debbano ancora cominciare a scontare questa orrenda ingiustizia, che di giorno in giorno va rivelando la sua vera essenza, non di pace ma solo di potere imposto. È sintomatico che la Germania, dopo essere stata, artisticamente parlando, una colonia dell’America, si sia riattaccata, riacquistando la propria voce, alla sua vena più autentica: l’espressionismo. Un espressionismo, aggiungo, visto, riletto e assunto tramite la lezione di Beckmann. Cosicché, mentre l’espressionismo storico aveva il proprio limite soprattutto in un’eccessiva accentuazione della polemica contro l’ingiustizia sociale (Dix, Grosz), in questi ultimi artisti, invece, la violenza dell’espressività attraversa in esclusiva la condizione esistenziale. E denuncia, anzi, l’equivoco che viene dall’aver posto il sociale a 73
metro dell’esistenza. Le esperienze dell’arte americana ed europea non sono dunque passate invano. È tipico di questi pittori lo scontro con le dimensioni dell’immaginario, per esempio, con la violenza che la pubblicità ha assunto nelle nostre città; di qui, la necessità di combatterla esasperando le dimensioni e la chiarezza, direi, quasi, la banalità: una banalità perseguita, però, non come termine di adeguamento, bensì come termine di opposizione. Hödicke è il più grande inventore di immagini (di immagini vive al di fuori di lui, brutali come quelle dei bambini o dei graffiti) degli ultimi decenni. Dopo Picasso, nessuno come lui ha avuto la capacità di risolvere le tensioni, le angosce, le difficoltà e le offese di oggi in immagini che, senza nulla negare di quelle tensioni e angosce, hanno tuttavia una semplicità primordiale. Certo, in Picasso c’era una felicità drammatica, mediterranea; qui, invece, c’è l’angoscia: immagini trafitte, e segnate su un limite oltre il quale l’uomo sembra poter perdere la propria stessa essenza umana. Ma proprio per questo loro sconvolgimento, per questa loro terribilità d’annuncio, esse si fanno, nella loro semplicità, ancor più estreme: sempre, del resto, i grandi artisti vivono e si nutrono dell’ovvio che, poi, ovvio non è mai. In questa riduzione della Crocefissione al solo braccio e alla sola mano si ha una condensazione di tutto il significato, percepibile e non percepibile da noi umani, della Crocefissione. La scritta in basso ha la stessa grandezza delle parole con cui, ad esempio, sui cartelloni pubblicitari si reclamizza la Coca-cola, e non per concorrenza o per imitazione, bensì per combattere e cancellare il pote74
re di falsificazione proprio del messaggio economico; così, crocefissioni come questa si potrebbero vedere sulle autostrade o sui muri cittadini combattere contro l’invito alla nuova servitù che l’istituto economico esercita sull’uomo. La Crocefissione di Hödicke è una crocefissione da combattimento, uno stendardo (simile a quelli che un tempo si portavano in processione) di cui i cattolici, se fossero veramente tali, dovrebbero riempire i muri delle città: allora si vedrebbe quale forza di rivolta e di assunzione della libertà dell’uomo passi attraverso – e sia – il corpo di Cristo. Anche l’apparente trasandatezza dell’immagine (come, viceversa, non lo sono quelle della pubblicità) segnala come in questi quadri sia presente la carne dell’uomo e, quindi, la carne di Cristo; ovvero, che è lo stesso, la Carne di Cristo e, quindi, la Carne dell’uomo: l’uomo, perché è, per sua natura, imperfetto; Cristo, perché ha accettato di assumere la nostra carne imperfetta non per portarla alla perfezione, ma per portarla alla salvezza.
[“Il Sabato”, 22 marzo 1986. L’opera di cui si parla è la Crocefissione, 1985, di Karl Hödicke]
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Henri Matisse Una croce in paradiso
Il grande disegno a carboncino con la Crocifissione appartiene alla lunga serie di studi che occuparono il Maestro francese alla fine della vita (1948-1950): lavori eseguiti in relazione al progetto che suor Jacques Marie, un tempo sua infermiera, lo convinse ad assumere per realizzare la cappella del Rosario di Vence. In un primo tempo, Matisse avrebbe dovuto eseguire soltanto le vetrate, poi, lentamente, fu così preso dal tema da deciderne l’assunzione completa: cioè a dire la stessa struttura architettonica, le decorazioni pittoriche e musive all’interno e all’esterno, nonché l’altare, il tabernacolo, tutti gli oggetti liturgici e persino le pianete per i celebranti. È un’opera, probabilmente la più alta di quelle tentate in proposito da ogni altro artista moderno, in cui Matisse fa confluire la tensione alla serenità e alla luce, che avevano diretto il suo cammino sin dagli inizi, in un atto d’umiltà e d’adorazione a una fede di cui non era direttamente partecipe, ma di cui avvertiva, come testimoniano alcune lettere relative all’elaborazione del complesso architettonico e pittorico, l’inevitabilità e la necessità. A suor Jacques Marie, quando il progetto era appena agli inizi, ebbe infatti a scrivere: «Si tratta di una distanza solo apparente, poiché anch’io, come lei, tendo allo stesso orizzonte spirituale, e fra il mio sforzo e il suo c’è solo 77
una differenza esteriore. Lei sa bene come lavoro… Le nostre strade corrono fianco a fianco nella stessa regione spirituale». Quando, a proposito di Matisse, si parla di serenità e di luce, si ha la tendenza a degenerarne l’immensa tensione verso i moduli della cultura borghese – dalla quale è pur vero che Matisse ebbe a partire. Ma l’opera, tutto il cammino di Matisse, è lì per farci comprendere come, dentro il dramma dell’esistenza, egli riuscisse a cogliere, per dir così, il lato resurrezionale. Quel che egli sempre rappresentò è la vita che, tramite la sublime armonia dei piani, delle forme, delle linee e dei colori, poteva già assistere al suo “dopo”: il suo paradiso. C’è una parola, che Matisse era solito usare con grande frequenza, parlando dell’arte: «calme», calma. Così, anche affrontando il tema del dolore assoluto, contrariamente a quasi tutti i pittori a noi contemporanei, Matisse si lascia indurre e, insieme, ci conduce, a rintracciare, nel corpo martoriato di Cristo, il Suo corpo risorto. Non c’è nessun urlo nel Crocefisso di Matisse, nessun ripiegamento: occhi; naso, bocca, costato e piedi si mostrano, proprio nel loro non esser visibili, come già passati oltre i tre giorni della discesa agli Inferi. Assistiamo dunque, qui, a una Crocefissione che, senza evitare il dolore del suo essere actus tragico finale, sceglie per sé e per noi, che la guardiamo, la calma che, proprio attraverso la croce, potrà scendere di nuovo nell’uomo. Qui, la Pasqua è veramente atto di una felicità che non ha nulla a che vedere con le misure umane. La tensione straordinaria delle linee, la loro enorme energia disegna un corpo che muore solo per dare speranza al cor78
po dei peccatori che noi siamo. È, questa, diversamente da tutte le altre, una Crocefissione enormemente innica, splendidamente gioiosa.
[“Il Sabato”, 29 marzo 1986. Si fa riferimento a uno studio per la Discesa dalla croce, realizzata per la cappella di Saint Paul de Vence da Henri Matisse]
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Come terrecotte Sukhotai La via crucis di Lucio Fontana
C’è da augurarsi che sia la volta buona. Del resto, in qualche modo e da qualche parte bisogna cominciare; e sia pure da una parte che, al presente livello delle cognizioni, può anche parer laterale. L’occasione si vorrebbe fosse questa bellissima mostra, in cui, nel ventennale della morte del maestro, vien esposto uno dei suoi capi d’opera: le quattordici stazioni della via crucis in ceramica, che Fontana ebbe ad eseguire, senza commissione alcuna; dunque, spinto da una sua privatissima tensione e necessità, nel 1947. Visto, fin qui, da ben pochi, poiché tenuto gelosamente nella propria casa da un collezionista milanese, questo groviglio di materie, superbamente glassate, come sapevano fare solo gli anonimi terracottisti Sukhotai del XIV secolo; superbamente e, aggiungiamo, angosciantemente glassate, quasi l’invetriatura fosse un caramello sanguinante, sacrificale e, insieme, stellare; questo groviglio, dicevo, dove le figure s’inseguono, s’attirano, si torcono, s’allungano, si sbrindellano, s’abbracciano, si feriscono, si baciano e dove, atto dopo atto, vien umiliato e, insieme, esaltato l’evento finale della vita di Cristo, pone, senza più mezzi termini, la designazione di tutta l’opera di Fontana. Da parte nostra lo pensiamo da sempre; anche quando poco o nulla di lei ci occupavamo; o lo pensavamo 83
ogniqualvolta ci accadeva d’imbatterci in opere sue o in sue “spaziali” esibizioni. Ma, appunto, lo “spazialismo” che, scritto così come s’usa, sembra depauperare la poetica fontaniana della sua stessa trascendente occupazione e lacerazione d’ogni sentimento e d’ogni misura di ciò che sono le dimensioni; lo “spazialismo”, dicevo, non presuppone e, per il suo realizzarsi, impossibilitato seppure continuatamente tentato e ritentato, non esige un pittore, bensì uno scultore. Insomma, quello che abbiam sempre ritenuto e che, oggi, con maggior coscienza, e interesse, abbiam per certo, è che Fontana fu e restò sempre, non soprattutto, ma solo scultore. La sua fantasia non si mostrò mai di natura bidimensionale, bensì scalare. E scalare e, per l’appunto, all’infinito scalantesi, fu il suo vivere la materia dell’uomo, della terra e del cosmo; in una parola, la materia della creazione. Non è, infatti, tra i pittori che si possono e devono cercare i suoi precedenti; ma, oltre che nei più inquieti e squartanti lavoratori in marmo, in legno e in stucco del Barocco, in certi atrabiliari e lunari architetti; quelli che operarono come distruttori inclementi e sublimi d’ogni stabilità; per fare un esempio, il grandissimo Guarini: quello della chiesa in cui è conservata la Sindone. In realtà, cosa sono, come manualità, come fattualità, oltre che come invenzione, i famosi “tagli”, se non il rifiuto, anzi la distruzione del supporto che ogni pittore, per violento e fedifrago sia, rispetta pur sempre? Fontana non ha fatto che adoperare il supporto di quelli che ci sembra assai improprio chiamar quadri o dipinti, per sottrarlo alla sua funzione; che dico? – per di84
struggere la sua stessa entità e usarlo come, per anni e anni, aveva usato i materiali propri ad ogni scultore; primo fra tutti, e in modi d’una bellezza che non finisce mai di stupire, lei, la ceramica. Del resto, chi osservi queste quattordici sculture troverà già contenute, talvolta già esplodenti od esplose, tutte le “novità” degli anni avvenire; e, prima d’ogni cosa, l’inarrestabile movimento, che risulta nello stesso tempo divorante e divorato, con cui la materia si forma e sforma, senza posa, nello spazio; sì che quello spazio gemma, goccia e vive di lei, di lei s’incorona e si strazia. Troverà anche le prime apparizioni di loro, i “tagli”; seppur operati, come incisioni d’un bisturi tra innamorato e imbastito, su diversa materia; e non mancherà di sentir già sollevarsi, da dentro il corpo della ceramica, quelle concrezioni di entità “altre”, qui, stupendamente mimate dall’indimenticabile, e implacabile, glacis. Ben più che in altre opere sacre di Fontana, l’eterna verità dell’actus tragicus del Golgota sembra qui appartenere, tutta, al nostro tempo, proprio perché mira sempre ad uscirne; forse per catturare quello spazio incommensurabile e indicibile, in cui, avendo compiuta la volontà del Padre, il Cristo è tornato. In effetti, l’ultima stazione, quella cioè della Sepoltura, risulta, di tutte le quattordici, quella che più totalmente inverte il movimento iconografico. Di quest’opera, davvero unica, si vorrebbe che qualche museo od ente del nostro Paese si occupasse per un acquisto che la salverebbe da una ben più che probabile sua dispersione oltre i confini. [“Corriere della Sera”, 2 ottobre 1988]
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Dentro la croce
Cristo e il samurai
Un antro. In cui la viscida, cupa bava dell’umano dolore avesse tinto di sé tutto (soffitti, pavimenti, porte, finestre, pareti) e tutto, di sé, avesse riempito: cataste di rifiuti, frananti, in perpetuo, dentro quei miseri loculi di vita, come per l’eruzione d’un vulcano mai spento. Stracciati, calpestati, incollati tra loro da grossi grumi di colore, giacevano, sparsi per ogni dove, tele, fogli, libri, taccuini, riproduzioni d’antichi dipinti: qua, un frammento della Zattera géricaultiana, su cui pareva che qualcuno avesse sputato o, forse, passato troppo a lungo le labbra; là, il ventre, eroico e buesco, d’un Rubens; di sotto a un trespolo, tre o quattro frammenti dei più gloriosi nudi michelangioleschi, macerati e, chissà, forse anche troppo fissati ed amati; poi, un teschio abraso (forse, smangiato da qualche sepolcrale lichene o da qualche torbida tabe); più avanti, la di lui mandibola (o non, invece, quella d’un altro?); quindi, due o tre fazzoletti; alcune calze; una spugna; pezzi di stoffe rese marmoree dai “medium”, ma altresì dall’aver strusciato sulle tele durante la mai terminata esecuzione dell’opere; a sinistra, accanto allo stipite d’una porta, un topo sul punto di marcire; a destra, un vaso spezzato, da cui fuorusciva il bulbo di ciò ch’era pur stato un ciclamino (se ne riverberava il viola, stanco e ferale, in certe ferite che s’aprivano tumefatte nei lividi costati di lui, il Paziente); due o tre rettili imbalsamati; fia89
schi rotti; vetri macchiati di sangue, che chissà chi avevano ferito; pezzi di specchi, in cui Kei potesse vedersi per la “posa”, anzi, per la cupa, disperata e martirizzante esecuzione narcissica di sé, in quanto il sé doveva, appunto, riflettersi e farsi corpo di Cristo. Allora, Kei, non aveva soldi per procurarsi modelli; e, poi, chi avrebbe accettato d’abitare quel sepolcro? Del resto, è anche da quest’intoppo che scaturirà l’orrenda e come imperativa ingiunzione: «Lo sarai tu. Tu e tu solo». Matite; tubetti di colore; carboni; carboncini; loro polveri fissatesi quali croste alle piastrelle o a quel che, di loro, a vista ancora restava; tenaglie; altri frammenti vitrei, velati, ora, dal nerofumo d’alcune candele (perle, ecco, sul punto di morire); un intrico di rami spinati; due o tre d’essi, raccolti a corona, eran già lì, pronti, per l’uso (quello dei già avviati Sputi e delle già avviate Irrisioni); quindi, ultimi e insieme primi, i chiodi. Testimoni ritmati e imperdonanti, quei chiodi sembravano essere l’unica semente che a Kei fosse stato possibile gettar giù, in quelle tragiche zolle. Ma, quali gemme ne sarebbero potute spuntare? E quando, poi? Questo, dunque; ed altro. I vetri delle finestre accecati da enormi fogli di carta incollati sopra; quasi per togliere, alla luce, ogni possibilità d’ingredire. Ma, poi, nessun fetore. Una sorta, anzi, d’aria secca, acida, frustante; quasi un profumo; tra di resina e d’ossa. E la subita certezza che quell’agglomerato di resti era, in realtà, un ordine, illeggibile ed atroce, ma, proprio per questo, intoccabile e supremo. Come se la caverna di quella negra, totale sconnessione, mirasse, in realtà, ad essere il tempio, impercorribile, dell’ordine. O percorribile sì, ma, allora, conoscendo, del90
la sua essenza labirintica, il filo conduttore. Quel filo che, agli estranei, riusciva impossibile scorgere e prender tra mano; se non, dopo; davanti, cioè, all’opere; purché venissero visitate e rivisitate durante tutta la loro drammatica, congestionata e grondante progressione; durante tutto il loro procedere verso quella spaventosa, insostenibile concentrazione di realtà offesa, gridante e assassinata in cui si sarebbero via via trasformate: assembramenti enormi e senza pace, su cui premeva, con l’assassina forza delle baionette e dei coltelli, l’istanza ultimativa d’un rito tribale che il pittore andava ripercorrendo per trovarne la verità celata, forse incompleta, forse deturpata; e trovarla tramite la controprova d’un altro rito: quello, riassuntivo e plenario, perché perpetuamente verificantesi e gemente, della croce. Rito che, per l’appunto, si verificava, e gemeva, anche lì, in quella caverna; non celando, tuttavia, nulla; neppure ciò che, ad alcuno, avrebbe potuto parer con esso compatibile: cioè a dire, il bisogno, e persino la protervia, d’una violenza sadomasochistica che percorreva, come una corrente a voltaggio mortale, i dipinti inchiodati lì, alle pareti che, a stento, riuscivan poi a contenerli, o arrotolati, invece, negli angoli, come poveri e sudici lenzuoli d’ex malati; e li percorreva facendosi urlo, invettiva, bestemmia, pietà. Ma, in quel corpo a corpo, in quella contrazione lottata e lottante, la plenarietà di questo secondo rito avrebbe, poi, piano piano splanato dentro di sé, come dai labbri d’una ferita, un cammino oggidì pochissimo praticato; o praticato solo a parole; anzi, come non bastasse, a parole esclusivamente referenti, allusive e “sociali”: il cammino, terribile e senza ritorno, dell’Incarnazione. Non vissuta quale simbolo, bensì quale totalizzante e persin animalesca 91
e bestiale realtà. Il cammino che aveva portato, e tuttodì porta, al connesso martirio, al connesso sangue, alla connessa delazione e alla connessa Crocifissione. Più o meno così mi s’andava presentando lo studio di Kei Mitsuuchi, quand’egli m’invitò a visitarlo. Me n’aveva data notizia per telefono. D’esser, cioè, riuscito a trovarlo. Era sito – mi disse – nella Parigi degli immigrati, dei negri, degli alcolizzati, dei deietti, dei drogati. Dandomene notizia, non era riuscito a nascondere una sorta di pudico, tenero vanto; da quell’antico principe o, anzi, samurai, che egli è restato; anche nella sconnessione, riccamente idiota o falsamente democratica, per certo infame e infamante, della nostra cosiddetta civiltà. L’avevo conosciuto, qualche mese prima, nella galleria di Albert Loeb. A Loeb devo, quindi, il dono d’un incontro che, nella vita, resterà tra i più decisivi, ancorché tra i più difficili. Ma si tratta, sarà bene dirlo subito, della difficoltà che sprigiona da sé chi sta compiendo una strada durissima, solitaria ed estrema; una strada che lo porterà ad essere sempre più inavvicinabile (come forse devono essere, ai dì nostri, i veri, grandi e non infingardi artisti); fino a sfiorare, pur con quanto d’enorme e d’inaudito la sua pittura ci sta proponendo, la totale incomprensibilità e la totale inaccettabilità. Era inverno, allora. Parigi stava sfogliandosi, come una grande, stanchissima rosa, dentro il lento calare della sera. M’attendeva, oltre la porta di cristallo della galleria. Non ancor divorati, allora, dall’angoscia, contro cui nulla poté fare perché non gli piombasse addosso. D’una bellezza adusta, timida e, insieme, fiera. 92
Pensai subito a uno dei “sette” protagonisti del capolavoro di Kurosawa; il più giovane; quello che, prima della battaglia, s’abbandona con la sua donna dentro il prato di margherite e lo fa tutto tremare; quello che “ama” il samurai capo; quello che, giunta l’ora della partenza, si volge, tragicamente solo e immalinconito, a guardar per l’ultima volta il fumigare dei sepolcri e là, sulla linea dell’orizzonte, il fumigar dei camini. Non m’ero sbagliato. L’emozione che ogni visitatore riceverà, sostando davanti a queste tele, e ai numerosi studi che le accompagnano, sarà, crediamo, assai simile a quella che, quando apparvero, han dato al mondo i film di Kurosawa. Con in più, qui, una componente; che, in verità, è ben altro che una componente; poiché coincide con lo stesso ventre, lo stesso sangue, lo stesso percosso cervello, in cui è accaduto il rapporto erotico-cannibalico; lo scentramento teologico-tribale; il sacro, terribile abbraccio, od incesto, fra i due riti. In effetti, se al grande regista è riuscito, come, forse, a nessun europeo, di ripercorrere alcune tragedie di Shakespeare, a Mitsuuchi è riuscito ciò che, forse, alla sua religione, e ai falsi tiepidi e preventivanti maestri della nostra, poteva solo sembrar impossibile o, addirittura, blasfemo: l’incontro con l’Incarnazione; l’incontro con l’Uccisione; l’incontro, ecco, col Figlio dell’Uomo infisso ai pali dell’Infamia. Che, trattandosi d’evento della pittura, fosse proprio coi termini di lei, la pittura, che Kei dovesse incontrarsi, anzi, coi termini della tradizione pittorica che tale evento aveva eletto a suo tema centrale, se non già, come credo, a sua centrale e non più dimettibile ossessione, era ben più che giusto. Del resto, Mitsuuchi non ha mai fatto mistero. Interrogato sulle ra93
gioni per cui aveva lasciato il Giappone ed era venuto in Europa, ha sempre risposto, con la fermezza di chi vuol testificare una verità semplice, ma irriducibile: per vedere e toccare le sculture di Michelangiolo. A noi, europei, capaci ormai di tutto, anche di finti riporti rinascimentali, solo se a reggerli (e a giustificarli) può agire una qualche ironica malizia, un’affermazione così esplicita può far sorridere. Mentecatti noi e i nostri eventuali sorrisi. Il bisogno di Kei di vedere e di toccare, coi propri occhi e con le proprie mani, le opere di Michelangiolo, appartiene alla stessa categoria cui appartiene il rifiuto che Bacon ha sempre opposto a veder, in diretta, quel Velázquez che pure, per anni, così tragicamente e così superbamente, ha assalito, violato, sputato e, come nessun altro, per quanto riguarda il mistero della pittura, penetrato e afferrato. Al no di Bacon risponde, da lontano, la chiamata vertiginosa e il connesso sì di Mitsuuchi. Sono azioni che appartengono a diversi, opposti agitatori d’una stessa, ultimativa razza. Quanti amano imitare è bene che, anche in questo caso, sappiano: gesti così non si seguono, né si ripetono. Tutto ciò che se ne può trarre è una lezione d’esistenza; e di violenta, ancorché buia, infernale e crocifissa moralità. Del resto, artisti come Bacon, Mitsuuchi, Fetting e, forse, tutti i pochi grandi di quest’ultime generazioni, non possono collocarsi altro che in una zona d’irrapportabilità. Appunto perché intendono, come prima cosa, esistere al di fuori di ciò che risulta la più oscena eresia “rapportante” dei nostri tempi: la societas. In effetti, volendo permanere uomini, come restarvi dentro se lo scopo di lei sembra essere proprio la destituzione, prima, e la distruzione, poi, dell’uomo? 94
Le prime cose che, di Kei, m’accadde di vedere, furono alcuni disegni. Sembravano eseguiti, più che servendosi di mine grafiche, di spine elettriche. Ma, a ben guardarli, si capiva come, a percorrerli, fosse invece una corrente psichica; o, forse, una di quelle radiazioni, a noi ignote, ma da cui, ove frequentassimo meno le scienze e più il mistero, potremmo ancora avvertire d’essere, di tanto in tanto, sfiorati; le stesse che, un tempo, eran solite far resuscitare dai sepolcri i corpi dei morti o far apparire, nei banchetti, o accanto ai nostri letti, le loro ombre e i loro spettri. In quei fogli, la matita, più che disegnare, sembrava ferire, ustionare e bruciare la carta; quasi volesse distruggerla; affinché, più che il segno, restasse, di lei, e dell’immagine che voleva suscitarvi, una trama incandescente. Ma, ecco: quella trama mostrava i suoi orli tutti carbonizzati ed arsi: come se chi li aveva eseguiti avesse attraversato la demenza che alita in certi ospizi o la lucidità, abbacinante e assoluta, che agita la mente di certi profeti. Erano figure; o i di loro frammenti. Anatomie eseguite nell’immenso obitorio dei vivi: il nostro. Senza troppo, né sorridere, né passar mano, o pensiero, ad altro. Ancorché, in tal modo, ci si possa sentir anche troppo indicati e proprio all’interno della trappola in cui viviamo; illusi di vivere, invece, nella più libera delle libertà. Fu concesso, un tempo, di scrivere che era, il nostro, qualcosa come un inferno. Tale dizione, oggi, non risulta più lecita. Pena sentirsi additati per untori. Ma nessuno riesce poi a spiegarci perché inferno, il nostro, sia meno di quanto fosse allorché tale lo si volle chiamare. Dunque, untori. E, come non bastasse, unti anche dal battesimo di lui, il Cristo; che fa da protagonista enorme, inatteso e, certo, incomodo, perché inevitabile, lungo l’intera mostra. 95
Ma è, questa, veramente, e solamente, una mostra, almeno secondo il valore che a tale parola s’usa oggi attribuire? Questo ciclo, che è ben lungi dall’esser concluso, risulta, in effetti, e prima d’ogni cosa, uno scandalo. Proprio perché si pone quale testimonianza di verità (e di passione) nell’inferno-croce del nostro presente; e quale ribaltamento, in sé, di secoli e secoli; quale loro schiacciamento, o scentramento, dentro il corpo di un artista che era pur partito da una tradizione cui tutto ciò non sembrava poter, in alcun modo, appartenere. Ed è, invece, riuscito a farlo appartenere con un’intensità e un’ultimatività che, a noi, per abuso di finzioni libertarie, oltre che per abuso di finzioni parareligiose, risultano negate. Quando richiuse la cartella dei disegni, Kei mi mostrò alcuni quadri. Stavan lì ad attendermi, voltati contro la parete più grande della galleria. Si trattava, per lo più, di nudi; sprofondati e, insieme, edificati, nel e dal nero. Le forme, infatti, s’erigevano inchiostrate e impolipate, come pel luccicare d’un liquido che non poteva, in nessun modo, esser preso per sudore. Grigi su grigi; neri su neri. Qualche azzurro, appena, là, sui fondi; almeno quando i fondi recavano, sulla loro orizzontalità, una o due finestre. In quei casi, la bava che rivelava le figure coincideva col controluce. Ma ridotto, anch’esso, a barlume. Qualcosa come il liquido, o l’umore, che le ostriche emettono prima di morire o di venir ingoiate dalle gole degli avventori. La materia si mostrava sublime e, insieme, repellente. V’era, in quei quadri, qualcosa che attirava e, insieme, respingeva. E la difficoltà di lettura, data l’effusione, anzi, la scatenata profusione dei neri, non faceva che au96
mentar ansia e apprensione. Fu solo alla fine che Kei si decise a mostrarmi quello che considerava l’unico, vero quadro da lui, fin lì, dipinto. L’aveva titolato Combattimento. E, in effetti, si trattava d’una lotta. Ma d’una lotta che non avveniva secondo una ferocia sconcia e vile, bensì secondo una ferocia che domandava a se stessa l’alta dignità d’un ritmo; e, per l’appunto, d’un rito. Le memorie dei grandi bassorilievi romani (visti e studiati, prima, in Italia, poi, al Louvre); quelle della nostra pittura rinascimentale; gli aggetti impietosi del Caravaggio; le immani carni del Rubens; tutto sembrava stringersi e come prender agio (almeno per quel che a una simile compattezza e stipatezza inventiva e compositiva era concesso) tramite una rilettura fatta, per dir così, labbro su labbro, della Zattera géricaultiana. Eppure quello che avevo lì, davanti, era ben un quadro dei nostri giorni. Tutta la tornitura delle sue forme, tutta la sua scentrata e violentata classicità, non l’allontanava d’un solo attimo dall’essere una “tragedia” di quel 1981 (a vero dire, l’esecuzione dell’opera era durata per ben tre anni; dunque la datazione esatta ne sarebbe 1978-81). Anzi, tale classicità garantiva, con la rapinosa bellezza dei corpi, con quell’amore fanatico e cieco per la forma (cieco, s’intende, per troppa capacità di vedere), come, anche a quella data, fosse possibile edificare una forma travolgendola nella propria bava in modo che non sfiorasse mai l’edonismo, ma si concreasse come corpo nel corpo stesso dell’orrenda e muta verità dell’oggi. Poiché del corpo e della bellezza, vive ancora nell’uomo un sentimento, seppur soffocato, possiamo concludere che quel dipinto, nella ritmica, rituale ferocia della sua azione, s’erigeva, tutto, in for97
za di quel sentimento. La sua potenza coincideva, insomma, con la sua impotenza. Proprio come nella Zattera, anche in quel quadro qualcosa faceva scommettere e giocare, tutto, sugli opposti. Il risultato che ne usciva, si mostrava talmente inatteso e “irriferibile” che, di fronte a quell’opera, sulla quale era pur passato più d’un occhio critico di qualche acutezza, sembrava impossibile non avvertire l’ultimatività e, in lei, l’estrema, efferata attualità, che la sommuoveva; e ciò tanto più, quanto più pareva lasciarsi erigere in un sistema di tragica malinconia circa quel che era stata la classicità. Tutto questo provava, e riprovava, l’ormai corrente, e ricorrente, incapacità di vedere se non ciò che, vedendolo, s’è certi che ci lascerà del tutto indenni. Mentre il Combattimento di Kei non poteva esser visto che pagando. Non si dice lo stesso dazio che aveva pagato il pittore. Ma, alcune monete, sì. Ora, anche questo era un modo per mettersi contro il comodo e accomodante regime del “sociale”; un modo per restare ulteriormente solo; o con un drappello magrissimo d’amici. Ma cos’altro possono significare, oggi come oggi, la parola “avanguardia” e la parola “barricata”? A questo punto mi par giusto dichiararlo. Fui io, dopo che fummo diventati amici, a insinuare in Kei il tema della Crocifissione. Gli chiesi, prima, che mi facesse, su quel tema, un disegno; in ragione d’un affetto di cui era rimasto colpito, ma che, in verità, nulla era di fronte a quello di cui egli m’aveva, subito, inondato. Il lettore creda: risulta indicibile la tenerezza di cui possono disporre i veri disperati. Come se tutto, in loro, anche le più vaste, terribili immaginazioni e le più vaste, terribili costruzioni, po98
tessero svilupparsi solo partendo da un nido di trepidezza completamente indifeso; un nido meno forte e protetto di quello d’una rondine. Perché ciò che gli artisti e i poeti, come Kei, vogliono è proprio la non-forza, la nonprotezione, se non quelle che vengon loro dall’iperbole e, dunque, dall’amore; e ciò chiedono nulla più che per erigere, dentro il corpo febbrile della verità, la forza nuda e cruda della forma; quella che, col suo resistere, proteggerà, almeno per un talquale margine di tempo, la storia dell’uomo dalla dimenticanza e dalla distruzione. Qualche mese dopo, invece del disegno richiesto, Kei mi mostrò un dipinto. A quei tempi abitava ancora presso Loeb. Quanto al dipinto era, anzi, è lo stesso con cui questa mostra comincia. Cosa spinga un pittore a tentar di continuo il proprio ritratto, può facilmente capirsi; meno, cosa lo spinga a far di sé l’unica figura possibile per tutte le immagini e le personae che intenda dipingere. L’impossibilità d’aver modelli, se di modelli, com’è il caso flagrante di Mitsuuchi, s’ha bisogno, non è risposta sufficiente; e, per quante ragioni essa possa coprire, non può certo esaurirle tutte. Può, se mai, aiutare a comprendere come un pittore possa essere indotto anche dalla vita (e se no, da che?), a trovare i propri nodi segreti, altrimenti irrecuperabili; certo, inavvicinabili; quelli che si muovono da che un ordine, o una brutale demenza, ci mosse dentro il buio di quel pantano che, inconsapevoli e senza forma, abitavamo. Ma, come? Può darsi che, se non l’impossibile risposta, un qualche barlume che rischiari la domanda, magari per ulte99
riormente illividirla, stia per darlo proprio l’ossessione mitsuuchiana d’esser lui, e lui solo, tutte le figure e tutte le personae della sua cristica tragedia; dato che nessuno, o quasi, lo volle e lo vuole “compagno”; non certo, la societas degli intelletti; che è la più invereconda e prava. L’immensità della solitudine, come potrà popolarla un dannato a vivere in lei e solo in lei? Se, poi, quel dannato (come per sua dolorosa, esplicita affermazione, risulta essere Kei) ha, quale prima molla a significare la propria esistenza, il “bisogno d’espiare”, che potrà accadere? Chi metterà egli alla gogna se non se stesso, ove pur dovesse dipingere un principe o un re? È, dunque, stato per mettersi alla gogna, che Kei ha dato a Cristo le proprie fattezze? E come, se si trattava del re che ha destituito tutti i re? Ma, la gogna più vera e più grande non è, forse, offrire se stesso alla più grande e totale umiltà? Insomma, far questo, non significa, forse, ridurre fino all’estremo il proprio antico rito al grembo del rito nuovo? E, ancora, in tale operazione, di quell’antico rito, vien rinnegato qualcosa, o, invece, qualcosa vien ulteriormente illuminato? E quest’altro qualcosa che può, o meglio, che merita d’essere, se non la spietata realtà di cui la vita umana popola spazio e tempo, senza di che spazio e tempo risulterebbero, non solo innominabili, ma impercepibili? Forse qualcosa di più, e di maggiormente profondo, si potrà capire il giorno in cui si vorrà fare, di Kei Mitsuuchi, una mostra complessiva: una mostra che esponga, cioè, anche le opere eseguite subito prima, o durante, lo svolgimento del ciclo “cristico” qui esposto. Tra le quali, oltre al gruppo dei Clochards (che sono ancora altri “se 100
stesso”), vorremmo almeno ricordare le due grandi tele per il Macbeth; ispirate più all’opera di Verdi (della quale Kei conosce, a memoria, ogni frase e ogni passaggio) che non alla tragedia shakespeariana; anche se, poi, il risultato par survoltarsi sull’originale, procombendo, tramite la persistenza fatale del mito “samuraico”, verso l’essenza di quel che ne fu il tema, o ganglio, primario. E, tuttavia, anche così, anche con questo solo ciclo, che, del resto, basta a significare l’inaudita forza e la totale estraneità del nostro pittore a ogni altra esperienza dell’oggi, sarà sufficiente seguire come l’ossessione “autoritrattistica”, l’ossessione d’assumere e incarnare in proprio tutte le parti e le personae (lasciando, per dir così, libere la sola Veronica e una di lei assistente), monti, via, via, che dalle prime due Deposizioni (1982), dove Kei Mitsuuchi trova una secrezione cromatica grigia che non ha confronti, essendo ben più che una grisaille; via, via, dicevo, che dalle due prime Deposizioni si passa alle due grandi Crocifissioni (1983-84); e, questo, attraverso il Cristo deriso e la Pietà; opere, quest’ultime, che s’iscrivono, anche cronologicamente, all’interno del lungo lavoro dedicato al tema della Crocifissione. Intanto, sarà bene notare come, oggi, a ciclo avanzato, le prime due tele e, in qualche misura, anche la prima, piccola, Pietà (1981), dipinta anch’essa nel retro della galleria d’Albert Loeb, dunque quando Kei non aveva ancora trovato il suo antro-caverna, si mostrino salvate da una talquale luce di tenerezza; quasi che il pittore avesse ancora timore d’introdursi nel tema; o come se il vecchio rito lo rendesse timido davanti all’enormità sacrificale del nuovo. Per certo, in quelle due prime tele, Kei si trovava 101
ancora “davanti” al tema vero e proprio: e, dunque, era ancora, e solo, preoccupato del suo svolgimento narrativo, piuttosto che d’un moto di totale partecipazione, se non già d’un totale annegamento e annientamento dentro di esso. Non così, nella ripresa della piccola Pietà; ripresa che tocca a tempi più avanzati; infatti, la figura del Cristo, d’un eroismo smodato e ingombrante, quale conoscevamo solo nel Grünewald di Karlsruhe, è rielaborazione che sembra interessata dai modi delle successive Deposizioni. In tale rielaborazione, il pittore ha infatti trasformato il giovane che era Gesù (giusto come lo si vede nel primo, piccolo Crocifisso o nel Cristo morto, coevi), in una sorta di colosso arreso al suo tragico destino; e arreso per un amore che agisca in lui con tale potenza da sembrar quasi che tutto avvenga controvoglia; che tutto, insomma, avvenga perché “è scritto” che debba avvenire. Ma, appena Mitsuuchi entrerà, con tutta la coscienza del suo vecchio rito, dentro il nuovo, ogni esitazione crollerà. E quella che, per lui, è la costante, famelica devozione verso il corpo, troverà il suo correlativo-oggettivo in una materia superbamente monocroma, eppur capace, nella sua monocromia, di restituire ogni passaggio di sudore e di luce; e d’adorare, come appunto accade nelle due Deposizioni, la stessa ansiosa bellezza dell’anatomia; una bellezza da grande “rinascimentale” di Rinascimento veruno; ovvero da “rinascimentale” dell’anima. Mescolando ogni memoria figurale, le greche, le romane, le caravaggesche e, qui, in misura conturbante, quelle rubensiane, il corpo del Cristo crolla giù entro una catena di corpi, in cui il Corpo dei corpi è come pensato, amato e adorato quale prima e ultima realtà della fisica esistenza umana e della fisica, umana 102
bellezza. Chi non abbia visto i modi in cui i costati, i ventri, gli inguini e le cosce sono, in questi due Cristi, costrutti e toccati, passati quasi e ripassati con la stessa saliva che par esser servita da medium per la formulazione della pasta pittorica che li concrea, ben poco può capire di che possa essere, ancor oggi, dopo tante diverse e divergenti esperienze, la pittura; e come essa abbia ancora un potenziale d’esprimibilità, e di “spremibilità”, in sé e da sé, della propria essenza, da sbalordire. È, infatti, proprio davanti a queste opere e alla loro catastrofica imminenza di bellezze abbracciate e assassinate, che un visitatore libero prenderà a trattenere il fiato; e comincerà a chiedersi dove il viaggio stia per condurci. In effetti, queste due Deposizioni sono i grandi “sportelli” d’un polittico, la cui tela centrale potrebbe essere, tanto la prima, quanto la seconda Crocifissione (che, in effetti, pochissimo divergono anche nelle dimensioni). E, proprio come se intendessero obbedire a tale antico ufficio, esse sono pensate e concretizzate in quell’inimitabile grigio-carne, grigio-perla, grigio-morte di cui abbiam prima parlato. Una muscolatura marmorea in cui anche il sangue, che pur continua a scorrervi, o s’è, adesso, adesso, fermato, risulta grigio; grigio, il fiato che esce o che, adesso, adesso, ha cessato d’uscire dalle povere, mute labbra, proprio come se tutto, qui, avesse la sostanza e l’estrema, nuda verità delle ossa. Non sta forse scritto: «Hanno contato tutte le mie ossa»? E, appunto. Una breve nota, arrivati qui, par necessaria a frammentare l’accompagnamento all’excursus del pittore; poiché non si sa davvero a quali capacità d’equivoci possa arrivare la 103
malalettura e, prima ancora, la malavista, di certa critica. La quale, se nell’equivoco vorrà cadere, cada; è nella sua piena libertà; ma, certo, non potrà dire di non esser stata, e in modi assai espliciti, avvisata. La nota intende allontanare ogni eventuale tentativo, non si dice d’aggregare ma anche soltanto d’avvicinare, l’esperienza di Mitsuuchi a quei movimenti di “ripresa” dall’antico, che sogliono designarsi coi nomi d’“anacronismo” e di “citazionismo”. In effetti, la pittura di Mitsuuchi vive sulla sponda opposta (atteso che quella frequentata dagli artisti, in vari e non sempre omologabili modi, appartenenti ai suddetti gruppi, sia sponda e non, invece, ipotesi di mero servizio critico, che si trasforma in ipotesi di mero servizio esecutivo). Se è vero, come si sostiene, che una talquale disposizione ironica (e sdiaframmante) stia al centro del “riporto”, diciam così, “antico”, di quelle scuole, in Kei l’ironia è bandita proprio quale istituto espressivo; oltre che, naturalmente, quale istituto esistenziale. Quanto “anacronici” e “citazionisti” assumono per vie diagonali e negando, già in partenza, ogni possibilità che le loro assunzioni producano una realtà figurativa attuale se non diminuendo e, per dir così, avvilendo le loro stesse assunzioni, tramite una continua strizzata d’occhio, che lì per lì può parer di svariata provenienza, ma che risulta quasi sempre riconducibile agli echi del surrealismo, Kei Mitsuuchi l’assume di petto; anzi, vi s’abbraccia; e nell’enorme, possente impotenza di sapere che, tutto, ormai è finito, trova la forza, anche brutalmente erotica, anche brutalmente sessuale, di copulare con l’antica bellezza; e di far accadere, quella “copula”, nell’antro del suo studio da deietto; che è non tanto un simbolo, quan104
to la realtà stessa, fatta casa o tempio, della deiezione, cui la societas costringe i non allineati. Ogni rischio d’essere “neo” di qualcosa, si brucia, in Kei, dentro lo spasma proprio a quella “copula”. Insomma, Kei Mitsuuchi compie, nei confronti dell’arte antica, quel che egli stesso costringe il suo rito a compiere nei confronti del rito cristico. Ciò che avviene è, sì, un abbraccio, ed immane, ma nella sua stremata forza, nella sua mai vinta e accettata perdizione, è anche, e contemporaneamente, uno scentramento. L’attuale condizione dell’arte e la condizione dell’arte antica risultano, insomma, come due bolidi i quali, per attrazione d’una necessità storica che sembra esaurita e d’una necessità, o pulsione, fisico-plastica che sembra obsoleta, premano il pedale della massima velocità e, sulla pista deserta della vita, si scentrino; sapendo che quello, e solo quello, è, oggi, il modo a loro concesso per toccarsi veramente; e, forse, per veramente fondersi. Non si capisce davvero perché dovrebbe essere concessa l’abolizione della storia a pro’ d’un sogno o d’una sua dimensione laicamente “metafisica”, e non, invece, a pro’ di un’urgenza atrocemente sacra del suo stesso ganglio e del suo stesso senso. Senso che, qui, vien appunto toccato in quella copula-uccisione; in quella copula-assassinio; anzi, in quella copula-suicidio. Ne giaceranno poi, sulla pista, enormi, i resti. E, difatti: le due grandi Crocifissioni (1983) e la vastissima tela che qui s’espone a chiusura, quella cioè con l’Andata al Calvario (1984-85), non si sigillano, come invece avevan fatto le due Deposizioni o la Pietà precedenti; si mostrano, anzi, tutte scheggiate; e, da quel loro scheggiarsi, atrocemente ferite; forse, smangiate; certo, rotte: corpi e bellezze estratte, ap105
punto, come sanguinanti e urlanti rottami dal coacervo d’un incidente. Ma, proprio per questa via, Crocifissioni e Andata al Calvario, anziché fermarsi al ruolo di descrizioni, diventano “avvenimenti” che, soli, possono determinare il formularsi reale, sulle tele, della loro verità iconica; diventano, ecco, essi stessi, il tema. È così che il massimo di tensione verso la perfettibilità anatomica va a coincidere col massimo di testificazione circa l’attuale impossibilità di tale perfezione. Ma, proprio e solo tale impossibilità riesce poi a render reale la tensione; a renderla reale in una vastità di spazio quasi insostenibile; a renderla, per dir tutto, vero e proprio evento; o, per usare un termine desueto e malissimamente letto e capito, “servizio”. Il che, al punto in cui le vicende dell’arte son giunte, coincide, forse, col massimo di libertà. Né solo dalle imposizioni del “sociale”; bensì, e anche, dalle direttive di quell’aborto “sociale” che è, per l’appunto, il “cristianesimo socializzato”. Credo che, per merito d’una digressione, s’è arrivati al centro della questione; anzi, al centro dello scandalo che, in ogni senso, questo ciclo sembra non poter non essere. Questo si scrive, ancorché ci sia ben noto cosa s’usi fare, oggidì, per non affrontare gli scandali: fingere che essi non siano avvenuti o non avvengano. Ma, appunto: la finzione risulta così l’unica risposta che la viltà riesce a dare. Quando, poco sopra, si parlava di scentramento d’un rito in un altro, e si tentava di rintracciarne il correlativofigurale, può esser parso a più d’un lettore che, in quell’avventurosa operazione, Kei Mitsuuchi portasse quasi esclusivamente il bagaglio e, dunque, il connesso sistema 106
culturale, del rito nuovo. Chi così abbia pensato, non ha forse posto l’attenzione che si meritava alla materia di base entro cui l’operazione accade; che è, appunto, un immane coacervo di neri. Il discorso torna, così, all’inizio. Mi sembra segno dell’estrema, violenta necessità dello scentro che il bolide del vecchio rito si sia contratto tutto nella sua sola, cieca sostanza; come dire, nella cupa creta da modellare quando, e solo quando, si fosse impastata coi correlativi-figurali propri, invece, al nuovo rito. Ciò che, in tutto questo grande, memorabile e sgomentante ciclo, non potrà mai essere e divenire europeo è, infatti, proprio, lei, la sostanza; anzi, diciam pure la parola, la carne di cui esso è composto. Del resto, a ben guardare, anche il sistema chiaroscurale che, sulle prime, par mutuato dal Seicento così come potrebbe assalirlo ed amarlo un Géricault dell’oggi, vive anch’esso in rapporto a quella sostanza e a quella carne; sì che, all’atto di venir praticato, andrà ad assumere una sorta d’inesplicabile e, per nulla, naturalistica mistericità. Mistero che non potrà vivere se non al limite, o all’interno stesso, dell’ambiguità. La luce, insomma, in Kei è ben più sudore e straziato viscidume dell’essudazione umana, di quanto non sia l’effetto, pur drammaticissimo, del posarsi, in modi indiretti o diretti, di ciò che è chiaro su ciò che è scuro. Del resto anche ciò che è, e rimane, scuro, più che un’emergenza invisibile, sembra, in lui, una forra, un vuoto; un buco. Così, alla fine, s’è quasi costretti a chiederci se l’eseguire un quadro non sia, in prima istanza, per Kei, un modo per occupare la forra, il vuoto; il buco, insomma, della vita. È proprio a questo punto che sembra fatale l’insorgere, dentro quella forra, quel vuoto e quel buco dell’ico107
nografia cristica; ancorché a tale necessità Kei sia stato indotto dall’esterno. Ma, chi potrà mai spiegarci ciò che è interno e ciò che è esterno nell’avventura della vita e del suo esprimersi in forma? Sto assommando (ed è un pericolo che valuto benissimo) una serie talmente fitta di spiegazioni circa la necessità che l’incontro fra antico e nuovo rito, sia pure sotto forma di scentro, accadesse, che il rischio di stipar troppo, non solo la pagina, ma anche la mente del lettore, s’è forse già fatto realtà. Eppure solo inseguendo questa e altre, infinite ragioni, possiamo capire come l’actus tragicus del Golgota potesse e, anzi, dovesse avvenire così terribilmente (dunque, così naturalmente) tutto, e intero, nel corpo dei corpi e delle figure. A tal punto da farci dire che, raramente (certo mai a quest’altezza), l’esser stato Cristo inevitabile realtà per tutti i popoli, ha avuto una esemplificazione, anzi una coincarnazione “per forma”, così totale e totalizzante. A questo punto chi, davanti a questo ciclo di opere, si provasse a cercare l’esattezza narrativa del dettaglio, dimostrerebbe non solo di non aver capito nulla di ciò che esso è, ma di ciò che rappresenta l’estensione, a tutto e intero l’universo, del sacrificio del Figlio. Tanto più che proprio la novità di certi dettagli, come le figure orrendamente martirizzate che s’agitano ai piedi della Crocifissione seconda, trascinano con loro, dentro la sostanza materica di base, precisi atti, e precise memorie, della ritualità nipponica. Il che garantisce ancor maggiormente e, anzi, in modi del tutto solventi, la verità globale dell’operazione; e, dunque, della reinvenzione che Kei Mitsuuchi ha qui compiuto di un’iconografia che, come quella del Calvario, pareva ormai spossata; se non già chiusa; e 108
per sempre. È ben chiaro che Mitsuuchi non agisce sul tema come può aver fatto, negli scorsi decenni, Bacon. Ma il suo intervento non è poi meno estremo e plenario; poiché, da esterno, egli procombe sulla nostra tradizione e, senza tuttavia negarla, la scaraventa nella pece della sua (ma anche nella di lei luce), per cavarne un monstrum, ove nulla, in verità, s’assimila o s’assembra, in quanto tutto, più tragicamente e ultimativamente, s’inchioda all’azione stessa del martirio: e diventa così esso stesso martirio. Infine, converrà specificare come l’enorme, sontuosa capacità “registica” di Mitsuuchi non venga mai dal di fuori; anche se, com’è necessario in composizioni così vaste e complesse, cerchi continuamente d’obiettivizzarsi per capire a che punto l’opera si trovi e se veramente l’actus del Golgota riesca, in ogni momento, ad “essere” e a figurativamente “consistere”. Ma, ove pur egli tentasse di collocarsi dall’altra parte dell’obiettivo, ci penserebbe poi, e sempre, la sua fatalità materica, la sua fatalità di fango, di pece, di tenebra e di notte, e l’urgenza punitiva ed espiativa, a riportarlo al di qua: dove, appunto, abita la ragione per cui egli ha eretto questo sacro e terrificante poema al Cristo crocifisso. Che è poi il luogo in cui Cristo è venuto: il luogo per redimere il quale ha accettato lo scandalo finale e incomprensibile della corona, dei chiodi e della croce. 1985
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Cristo è perenne movimento
I rapporti fra arte figurativa, da una parte, e religione, liturgia e Chiesa, dall’altra, si sono svolti, nel nostro secolo, protetti e, insieme, elusi, quando non strozzati, da un equivoco di partenza; anzi, da un equivoco di base. Tale equivoco che penalizza, in prima istanza, almeno come responsabilità, oltre che come mancanza di libera e reale intelligenza caritativa, gli uomini di religione, di liturgia e di Chiesa, è riassumibile in una sorta d’immotivato bisogno di fissità iconografica; fissità che, pur come atto, sembra definirsi, da sé, del tutto a-cristica. Fissità che potrebbe altresì chiamarsi: fobia d’ogni iconografico moto o movimento. In effetti, porre limiti alla figura o alla non-figura, alla forma o ad altro-che-la-forma, figura o non-figura, forma o altro-dalla-forma, che han tentato e tentano d’incarnare, prima che di rappresentare, il centro della religione, della liturgia e della Chiesa, nonché del dogma, degli atti e delle figure connessevi e, in modo primario, le stesse persone (e figure) della Trinità, dalla quale emerge, per la sua stessa sconfinata realtà insurrezionale e salvifica, quella di Cristo; far questo, in realtà, significa porre dei limiti proprio al disegno di lei, la Trinità, e, in essa, alla carità di cui Cristo è lo spirito e, insieme, la carne, il sangue, l’ossa, gli occhi, il cuore, le labbra; quella carità di cui Cristo risulta la realizzazione continua e totale. Signi111
fica, peggio ancora, sostituirsi all’intelligenza infinita, dentro e fuori della storia, del Padre, del Figlio e dello Spirito e così presumere di conoscere ciò che da loro è disceso, discende e, via, via, discenderà nell’uomo e nell’universo. Significa, insomma, compiere una serie d’atti eliminativi. Per dirla, con dure e petrose parole, significa sostituire il nostro debole intelletto o la congerie, pur sempre macchiata dal peccato d’origine, delle connesse superbie; sostituire, dicevo, la congerie dei nostri sentimenti, delle nostre sensibilità e delle nostre convenzioni all’infinito disegno di Dio, all’infinita, liberissima sua volontà d’entrare e benedire, magari tramite un’apparente, blasfema disperazione o maledizione, il cammino degli umani; i quali, non son già chiamati a obbedire a un regime di patteggiamenti che, più o meno, possiamo immaginare quale possa essere, bensì a offrire e a dare, interamente, se stessi alla sconosciutezza di quel disegno; disegno che, solo dandoglisi e offrendoglisi, potrà venir afferrato: disegno che, solo non presumendo di poterlo capir prima, ma lasciandosi da lui prendere e capire, concede di dare alla demenza del nostro nascere in stato di colpa, in stato di cupa e minacciosa verminosità, la luce del nostro operare e, soprattutto, del nostro chiudere l’esistenza e morire secondo Grazia; dunque, secondo pace. Tale fissità, con la letale, connessa fissazione e immobilità, presumono, pur non affermandolo o, magari, affermando il contrario, che Cristo non possa rischiare d’abitare la nostra disfatta e diminuita realtà; presumono, in qualche modo, di difenderlo; presumono, ecco, di guidare il verificarsi e storicizzarsi continuo dell’Incarnazione e così di prepararne e stabilirne i binari e la direzione. 112
Se i rapporti (e, salvo la violenza dell’espressione, il fatto non mi par davvero contestabile) sono stati questi, non c’è da stupirsi che, piano, piano, da parte degli artisti si sia avvertito una sorta di giudizio aprioristico procombere su di loro e una sorta d’aprioristico steccato venir costrutto attorno al loro agire. Tutto questo non poteva che dividere e allontanare; certo, non poteva che impedire agli artisti stessi di riconoscere quanto di Cristo, quanto, dunque, della risposta alla domanda evangelica che titola la presente rassegna [n.d.r.: «Voi chi dite che io sia?» (Luca 9, 20)], respirasse, vivesse, gemesse, implorasse o gridasse dentro le loro opere. Così, anziché aiutare a evidenziare questo quanto, la volontà fissante ha aiutato a oscurarlo, se non già, via, via, a completamente destituirlo e negarlo. Oggi come oggi, a secolo sul punto di chiudersi, sembra lecito chiedersi se la cultura cristiana, più specificamente la cultura cattolica, sia stata in grado di percepire e avvertire (che è atto precedente ogni possibile accoglimento) la deformata, disperata, affamata, tradita, ma comunque, presente e pressante, cristicità che, come una rete sotterranea di sangue, attraversò tutta l’arcata espressiva che il secolo ha alzato e, via, via, fatto franare; franamenti che, quando accaddero, risultarono pur essi un modo, dolente e agonico, di testimoniare. Ciò che si dice, riguarda tanto l’arti figurative, quanto il pensiero, la poesia, la musica, la narrativa, il teatro: riguarda, insomma, l’intero campo dell’espressività. È ben certo che alcune punte di diretta e conclamata evidenza non potevano non essere viste e accettate. Ma non è ancor detto che tali punte fossero, siano state, o 113
stiano per essere, le più dense, le più testimonianti, le più ossificamente contate; e pagate. Quest’inizio di nota, più che di prefazione, vuol essere un richiamo che un perpetuo, sconcio peccatore, un perpetuo, sconcio traditore di Cristo, com’è chi scrive, rivolge, prima di tutto, a se stesso; un richiamo, un rimprovero e, insieme, un invito a che, lui per primo, rompa in sé e nel suo modo di leggere la cultura del Novecento già accaduto, o in via d’accadere, ogni residua fissità; a che s’apra, ecco, a quella mobilità perpetua, la quale non tanto ha a che fare col futuribile, quanto con il caritatevole, anzi con il totalmente caritatevole che fu ed è l’Incarnazione; dunque, il Cristo; in compagnia del quale è solamente possibile risalire, per vie non astratte, pur se claudicanti, alla pienezza del dogma, della liturgia e, finalmente, della verità. Arrivati qui, la domanda che, direttamente, e quasi da sé, si formula è la seguente: quanto del Cristo contenuto nell’arte contemporanea, come deforme presenza, come disperata e affamata assenza, come fraterna compietà, come urlo e persino come bestemmia, non essendo apparso secondo le regole della fissazione iconografica voluta e, dunque, secondo le connesse impostazioni e imposizioni; quanto, di quel Cristo, i luoghi della liturgia sono stati in grado (che significa in umiltà e in carità di fede) d’ospitare, sostenere, difendere e offrire dentro di sé? Quanto, invece, è stato rigettato e, tuttora, vien respinto, come non pertinente, peggio ancora, come neppure esistente? Per arrivare a stringere su un nome, per altro di violenta esemplarità, saprebbe, oggi, la Chiesa aver la forza d’umanità e di fede necessaria a porre sui propri altari una Crocefissio114
ne di Bacon, così come ha avuto quella, assai meno estrema, di porre una Crocefissione di Sutherland? Se la risposta dovesse continuare a restar negativa, come non rammentare che l’altare è banco di prova e di martirio, un banco di prova e di martirio, anche storicamente, oltre che metafisicamente, del tutto insurrezionale, cioè a dire del tutto resurrezionale? Tutto questo per arrivare a chiederci, con impietosa pietà, se sappiamo ancora rammentare e, soprattutto, vivere, l’affermazione di Cristo là dove disse, e dice, di non essere religione, bensì «via, verità e vita». È davvero un gesto abusivo privilegiare, nella presente occasione, la terza eguaglianza, quella per cui Cristo coincide con la vita? E se gesto abusivo dovesse essere, potremo avanzare la scusante, non penso codarda, né vile, che tale gesto vien compiuto proprio per il progressivo oblio che, di quel martirio, la nostra società sta mettendo in atto, fino a farlo scivolare nel lussuoso pantano dell’indifferenza, se non addirittura dell’inesistenza? Infine, in tale scusante, potremo avanzare la percezione del rischio cui il Potere sta portando il corpo stesso dell’uomo, un rischio che cancellerebbe quel corpo come entità voluta e creata, per sostituirla con una sua fabbricata, e asservita, parodia? Di fronte a questo, come fissare altrove, che nel qui e nell’adesso, come fissare in giù, nel passato, fosse pure un passato non troppo remoto, il formularsi dell’iconografia cristica e, dunque, cristiana? Come non lasciar che essa si sottometta completamente alla via crucis che, consapevoli o no che se ne sia, Cristo sta un’altra volta compiendo con noi, in noi e per noi? Devo a questa rassegna la gioia d’aver conosciuto Massimo Lippi; purtroppo devo anche al connesso fatto 115
che egli, ben prima e ben più di me, se ne fosse assunto l’onere preparativo, l’impossibilità che venisse incluso nel coro degli espositori, come invece grandemente si meritava. Brutta, improvvida definizione, quella d’espositori per artisti che, in quest’occasione, con opere già eseguite, o eseguite direttamente per la bisogna, tentano di dar risposta, ora in modi diretti, ora in modi indiretti, ma non per questo meno pregnanti, alla domanda contenuta nella titolazione. Forse, tale definizione risulterebbe più consona all’occasione, se la si leggesse nella sua primaria significazione etimologica. Espositori sarebbero, insomma, coloro che non tanto espongono un’opera, quanto, nell’opera, se stessi; e se stessi, prima ancora che al visitatore, alla succitata domanda e a Chi quella domanda non ha mai cessato di porre. Andrei contro la ragione, prima e ultima, per la quale ho accettato l’invito rivoltomi, appunto, da Massimo di stendere questa nota, se nel corpo della mostra separassi quanto era già stato preparato da quanto è stato aggiunto dietro mio suggerimento. Una graduatoria, di qualunque natura essa fosse, risulterebbe contraria – che dico? – nemica e oppositiva di quella disposizione ad accogliere la presenza delle singole, diversificate risposte, cioè a dire la presenza di come ogni artista ha creduto, e crede, “che Egli sia”. Anche una graduatoria di non eliminabili consanguineità espressive, che è ben altro d’una graduatoria di mere preferenze, finirebbe col fissare il movimento in cui e di cui la mostra intende vivere; finirebbe, insomma, col ripetere, o riperpetrare, l’errore che la cultura cattolica ha fin qui commesso. Questo non significa che ciascun visitatore non possa vedere, cogliere e, dunque, accoglie116
re, con maggiore urgenza, con maggiore passione e, chissà, con maggiore, dolente gioia, una risposta piuttosto che un’altra, un «chi dite che io sia?» piuttosto che un altro. Essendo la prima volta che m’accollo la responsabilità, non lieve, di prefare una rassegna d’arte sacra, mi sembrerebbe del tutto contraddittorio ogni gesto che mirasse a separare; e, altresì, ogni bisturi che incidesse un corpo periclitante, come non può non esser una raccolta d’opere riferite, ovvero immerse, nel sacro. Come vorrei poter scrivere: immerse nel Cristo ovvero nella cristicità che impregna di sé la storia! Esiste, è chiaro, e si potrebbe far agire anche nel presente “corpus”, una possibilità di giudizio. Ma, a che servirebbe, se, come sua prima urgenza, questa mostra ha proprio quella di fermare un errore che fu d’immobilità, che fu d’astratto apriorismo, tanto iconografico, quanto, per diretta conseguenza, formale? Non voglio ripetere nessun grido. Seppur ne avverta il bisogno, so, comunque, di non possedere in alcun modo quel minimo di dignità necessario a levarlo; o ad alzarlo di bel nuovo. Ma è certo che, qui, non si tratterebbe tanto d’invitare gli artisti ad aprire le porte a Cristo, quanto d’invitare coloro che si affermano, e confermano, cristiani ad aprire le porte della loro astratta immobilità, al Cristo e alla cristicità che, in modi infinitamente diversi e diversificati, fin nei mezzi, fin nelle materie e nei materiali, si muove, geme, sorge, s’abbatte, canta o essuda, in queste opere. Forse, da esse, talvolta, Cristo ci vien incontro con la forza apodittica d’una realtà crocefissa e sanguinante, gettataci in faccia come se il realismo avesse ancora carte vitalissime da giocare; forse, talaltra, da esse aggalla come un fiore, un relitto o la bocca d’un annegato, 117
dal fondo d’uno stagno (che sarebbe lo stagno della nostra felice, ma cupa, quotidiana indifferenza). Insomma, la riuscita di un’intrapresa come questa, dovrebbe essere quella di demolire l’astratta fermezza di cui ho scritto sopra; ma, della quale, in verità, ho scritto fin dall’inizio. Demolita quell’astrattezza come criterio di vita (anzi di non-vita) e come criterio di fissazione iconografica e formale, la situazione di riconoscimento potrebbe davvero iniziarsi, anche per ciò che sono stati, al proposito, i nove decenni del secolo che abbiamo alle spalle. Senza aprirsi ad alcun trionfalismo e ad alcuna ipotesi superlativa, proprio tramite quel riconoscimento potrebbe iniziarsi una conduzione completamente diversa di rapporti fra arte, da una parte, e religione, liturgia e Chiesa, dall’altra. Restando per fermo, nella sua infinita mobilità, che solo arrendendosi a lui, all’Incarnato, è possibile restituire tanto all’artista, quanto all’eventuale committente, o chiamiamolo pure e soltanto accogliente, quella totale umiltà di partenza, e d’arrivo, entro la quale può anche costituirsi il pudico orgoglio d’aver collaborato a che tanta presenza, o tanta affamata assenza, di Cristo, non vada perduta: così, come, fin qui, per quel che riguarda quei nove decenni, è accaduto. Perduta; misconosciuta: ovvero chiamata con altri nomi, quasi sempre, di natura formalistica o sociale; talvolta, le due cose insieme. Ma che, per colpa della cristiana astrattezza e indifferenza, quello che gli artisti han detto, dicono e diranno, “che Egli sia”, finisca per esser visto e letto come altra cosa, o come risposta ad altra domanda, è responsabilità così grande da preferire (appunto, come qui, tutti assieme, ci s’è accordati di fare) l’unanimità del “corpus”, l’unanimità del coro; coro, nel 118
quale nessuno risulta livellato, ma, nello stesso tempo, nessuno risulta emarginato. C’è chi già svetta; chi già illumina di sé, con immagini decisive, quasi fossero scalfite da una spada, sanguinanti, quasi fossero appena strappate dai legni della strage e della Resurrezione, ovvero con immagini dove una sorta d’alta e, insieme, incondita teologia trova ragioni e rispondenze nuovissime e insieme antichissime, da parer che, mentre s’alza a volo tra i pianeti, precipiti giù, entro il cunicolo di qualche catacomba. C’è chi sta avviando il proprio cammino e s’imbatte, o s’impiglia, tra sgomento, scandalo e improvvisa pietà, in un pezzo di carne di Cristo o nei resti del di Lui martirio; o chi, per contro, dispone la propria maturità a un’arra di luce che è già pace; che è già Paradiso; pace e Paradiso accanto a Lui, l’Infante. In verità, credo che proprio questa fecondità d’opposti, questa complementarità di contrari, testimonii che Cristo esiste per ogni uomo; che in ogni uomo Egli entra, a percuoterne l’ossa, a contarle, a illuminarne la mente e a rendergli possibile, ove mai vi si trovasse, la sua solitudine, la sua angoscia, e persino, anzi, quella come e più dell’altre, la sua disperazione e la sua volontà di morte. Perché appunto, Egli è via, è verità, ma, in prima e ultima istanza, è vita. 1988
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Le ferite dell’uomo Via crucis di Vertova
Il grande, misconosciuto tema dell’iconografia cristica all’interno dell’arte moderna è ben lungi dall’esser stato, non dico svolto, ma neppur affrontato con la libertà e la compiutezza di conoscenze che esso merita. Questo riguarda, è certo, le linee portanti, o fin qui riconosciute per tali, della cultura figurativa del nostro secolo; ma, forse, ancor maggiormente, riguarda le linee “depresse”. Scrivo “depresse”, tanto per significare quelle non ancora ben studiate, e ciò riguarda soprattutto l’Occidente; quanto per significare quelle non ancor note, come, più o meno, tutto ciò che è accaduto, per decenni, nei paesi dell’Est e in modi che, una volta conosciuti, susciteranno una violenta sorpresa ed un’altrettanto violenta emozione, nella Germania-oltre-Muro. Secondo quanto già ebbi a dire in più e più occasioni, ma in modi assai dettagliati, precisi e persin duri, nella prefazione alla mostra senese Chi voi dite che io sia? (inverno 1988), la maggiore responsabilità di tutto questo è da addebitare all’indifferenza o, quantomeno, alla negligenza della cultura cattolica. Indifferenza non solo ai temi, bensì al “tema”; essendo essa, massime quella nominalmente progressista, in progressiva fase di disincarnazione (il che, brutalmente, significa decristizzazione) o di progressiva, e per nulla progressista, sostituzione della centralità e della inevitabilità dell’evento “Verbo-che-si121
fa-Carne” con il qualunquismo della solidarietà sociale o del social fraternalismo. Non v’è nulla di più scorante che aver assistito, e continuare ad assistere, invece che all’oportet enim relativo agli eventuali scandali che, nel suo continuo svolgersi, l’iconografia cristica può aver determinato, al cieco e onnubilato non oportet; al “non è più necessario”. Ciò che non sarebbe più necessario è, per l’appunto, che Cristo continui a presentificarsi anche nei “dominii-non-dominii” della forma; sia essa per parola, per immagini o per suoni. Poco, ad esempio, potranno i cristiani e, in essi e per essi, la Chiesa, parlar di cultura contemporanea se non si daranno l’umiltà, la carità, e il connesso orgoglio, di porre sugli altari opere cristiche, estreme e forse al limite della sopportabilità, quali sono, per iniziare con uno degli esempi maggiori, quelle che Bacon ebbe a dedicare al tema della Crocefissione. Ma perché, oggi, possiamo e, anzi, per essere veritieri, dobbiamo scrivere che, nei cristiani, di fronte all’incarnazione figurale di Cristo, esiste un limite di sopportabilità? Perché essi sono stati fatti vivere, e pregare, per più d’un secolo, nella fissità di immagini già costituite, immagini che non avevano, e non hanno certo, esaurito il loro ruolo, ma che, proprio perché viventi d’una incarnazione figurativa già avvenuta, non potevano e non possono contenere i limiti, le dimensioni e le urgenti necessità dei tempi successivi; e, per l’appunto, del nostro. Necessità che si rivelano, giorno dopo giorno, sempre più ultimative ed estreme. Non bisogna, tuttavia, credere che soltanto ciò che più direttamente può portare scandalo sia stato censurato o disprezzato. Spesso anche ciò che parrebbe allac122
ciarsi, tramite una rottura meno esplicita e meno sismica, con quanto ci sta alle spalle, non è riuscito a lacerare il sistema di quella a-cristica e, comunque e certo, anti-Incarnativa repressione figurale. Ricordo qui – perché fu l’evento più clamoroso prima di questo su cui m’accingo a scrivere – la memorabile “serie” di dipinti e disegni esposta nella milanese chiesa di San Carlo (1986), che Kei Mitsuuchi era andato realizzando per anni e che aveva, poi, riassunto nella titolazione di Ai piedi della croce. Un vero e proprio “ciclo” che, oltretutto, nella giapponesità fisionomica dei protagonisti, da Cristo ai soldati, dai crocefissori ai ploranti, aderiva in modi straordinari a quell’apertura “ecumenica” che, in questi ultimi anni, risulta, e giustamente, uno dei temi più cari al pensiero e alle sollecitudini della Chiesa. Ebbene, non mi consta che chi di dovere abbia dato, al proposito, segno alcuno d’aver compreso. Con questa Via crucis di Vertova, che Vittorio Bellini ha eseguito, nel punto stesso di far esplodere la propria storia di pittore “laterale”, anzi che quella medesima storia ha di sé tutta incendiata; dicevo che con questa via crucis è un’altra, folgorante luce che lacera la quiete della fissità, o fissazione, di cui parlavo prima; un “ciclo”, ancora, certo; fuoco e fiori, urla e pietà, strazio e gloria. Ciò che, nel caso presente, dovrebbe ancor più commuovere è che esso esplode proprio qui, da noi; e salendo dalle radici più terragne, più valligiane e più popolari della nostra cultura. È probabile che scrivere “popolare”, oggi, possa risultar irritante; se non, addirittura, risibile. Ma poiché, nonostante tutto, l’entità “popolo” esiste ancora, non sarà certo il timore di colpire, o umiliare, il dominio del123
l’immaginario borghese che mi ferma (borghese ancorché, oggi, ampiamente meticciatosi con ogni appena avvertibile, o segnalabile, inanità avanguardistica). Impiantata con un disegno d’assoluta, quasi indicibile libertà, tanto d’invenzione, quanto d’immagini e ritmi, questa via crucis rivela legami, quasi fetali, con la ritualità liturgica più “bassa”, più “feriale”, più, ecco, “da valle”: e, in tali legami, anzi, per tali legami, rivela una capacità di centrare e, insieme, scentrare, l’atto di pietà, e “compietà”, con cui e in cui il tema stesso non può non essere vissuto; capacità che, nei nostri anni, non ha avuto l’eguale. Sezionata, “contata” (nell’evangelico senso di: «hanno contato le mie ossa») e ricalibrata: fatta ardere, e ardere come un incendio, e poi ricalmata, la via crucis di Bellini s’alza come 124
una gran bandiera, come un grande stendardo nel panorama della temperie neo-espressionista o “selvaggia”; quella temperie che nessuna ripresa “fredda”, o neo-concettuale, è riuscita a spegnere e che, dunque, continua a essere l’unica azione veramente eversiva e insurrezionale che la pittura europea abbia acceso ed espanso in questi ultimi due decenni; tanto accesa ed espansa, proprio come impeto d’una figuratività che rivoluzioni tutti i termini dimensionali ed esistenziali dell’arte da parete o da stanza, ove pur si tratti di fatti “istallativi”, da accendere i suoi falò ben oltre la cultura tedesca da cui ebbe a prendere avvio. Del resto, basterebbe meditare sul senso del genitivo che sta nella titolazione, per capir tutto questo. Basterebbe, insomma, chiederci: perché Via crucis di Vertova? 125
È, Vertova, un antico borgo della Valseriana. La valle, per intenderci, del grande Moroni. Tal nome non si scrive qui per mera coincidenza geografica. Le regioni, a guardar nel profondo, sono infinitamente più ime. Posto, infatti, che la pittura sacra del grande ritrattista bergamasco potesse venir scompigliata dal vento postespressionista, neo-selvaggio, dei nostri anni, essa, sono ben certo, si scompaginerebbe in modi simili a quelli con cui Bellini ha squarciato in tanti frammenti e lacerti d’azione l’actus tragicus del Golgota; per poi ricomporlo, facendolo implodere verso il centro della lunghissima, straziata, e insieme calma, Pietà cui, fianco a fianco, s’accendono, a sinistra, la spugna centripeta del sangue martirizzato, a destra, il girasole centrifugo del sangue illuminato; illuminato a tal punto da generare, entro di sé, come funzione del suo stesso vortice, un embrione di Colomba. La maiuscola, ovviamente, è voluta; su di essa, senza per altro desiderio di stabilir simbolismo alcuno, volentieri si preme. A chi voglia la “prova” di quanto s’è qui detto, consiglierei di soffermarsi su quel capolavoro del Moroni che è la Deposizione della Carrara: opera che toccò proprio allo scrivente, non solo difendere dalle detrazioni di una lettura “troppo” “filoritrattistica” del maestro di Albino, ma dalla nomea d’immaginetta con cui era stata sempre archiviata. Mentre si tratta d’un vero, assoluto, ardito e, com’è di dovere in tali casi, ingrato capolavoro di popolare pietà. La prova potrebbe cominciare dalle fisionomie, così possentemente e persin idiotamente plebee (idiotamente qui è usato nel senso, altra volta evangelico, di “poveri di spirito”); potrebbe cominciare da lì e finire nei colori. 126
Così ci par giusto chiamarli. Giusto, infatti, non sarebbe definirli con parole come toni o consimili. Il termine “colore”, infatti, sottintende una ben precisa sostanza materica, materiante e materiale. A sua volta tale sostanza sottintende un’irruente e precisa inevitabilità carnale. Insomma, un’irruente, precisa, greve, sanguigna e sanguinante realtà di corpo. I gialli, i verdi, i rosa, gli azzurri, i rossi, i malva e i viola, tramontizi o notturni, che il Bellini usa, e gli indicibili miscugli in cui li coinvolge, sino a far loro sfiorare, ove il tema lo necessiti, un atroce e marcio lividore (e, dato il tema, necessario risulta lungo tutta e intera l’opera); quei colori, dicevo, squadernano ed espressionisticamente squinternano e lacerano proprio quelli che furono così “alternativi” (rispetto alle abitudi127
ni rinascimentali) della succitata Deposizione moroniana. In tale gesto di regressione nel tempo, i colori di Bellini sembrano aver altresì giaciuto, e a lungo, accanto a quelli dell’appena meno grande Cavagna; e giaciuto come se avessero abitato nel di lui studio; anzi, nella di lui capanna. Quanto alle fisionomie, si pensi a una sorta d’incredibile, pantografico ingrandimento. È come se Bellini, pensando ed eseguendo la sua via crucis, avesse avuto quale referente con cui gareggiare e su cui vincere, le dimensioni degli avvisi e dei cartelloni pubblicitari; quelli che ci assediano nelle città, nelle strade e un po’ ovunque. In effetti, proprio in qualche frastornante, tragico incrocio delle nostre capitali (ma, ormai, di quasi ogni nostro borgo e d’ogni nostro paese); o fuori dalle catene dei disumani buildings del regno tecnologico-finanziario; ovvero sulla spianata di qualche popolatissimo aeroporto; è proprio lì che sembrerebbe giusto istallare quest’opera. Quasi fosse, com’è, una sorta di chiesa viaggiante. Così, sotto di essa, come sotto una nuovissima abside, noi vorremmo che, della nostra religione, venissero celebrati, e proprio in quei luoghi apparentemente contrari ed oppositivi, i riti supremi. Ciò non vieta che quest’opera possa venir poi “ricoverata” all’interno di qualche nuova cattedrale. Ma, dove sono oggi e, se nasceranno, come verranno pensati e costruiti i nuovi edifici di preghiera e di culto? Un esempio di tradizione-insurrezione, di modernità uscente, in dialettico e vivissimo combattimento, dalla più profonda e totale continuità, potrebbe proprio esser fornito, anche in senso architetturale, dalla vertoviana (e, naturalmente, belliniana) via crucis. Perché, è certo: nel suo splanarsi 128
tutto verticale, nel suo comporsi liberissimo e, insieme, a legami d’un ferro tenacemente fraterno e pregante, questo “ciclo” o “polittico”, induce, domanda e chiede un luogo che, contenendolo, contenga in sé il senso, tutto odierno, degli incroci stradali, delle immani infilate di grattacieli e delle spianate per aeromobili di cui si parlava prima. Opera, dunque, fin qui unica; ma che, siam sicuri, per quella sua capacità di restar vera e, insieme, di precipitare nel gorgo del nostro tempo; di conservare, come eterno bene, la più feriale umiltà e, insieme, di combattere senza mezze misure le battaglie di salvezza che l’uomo deve oggi ingaggiare se davvero intende sopravvivere; per la sua capacità di richiamare a sé, come a un ventre materno, tutte le verità della tradizione e, insieme, di protendersi verso un futuro nel quale sembra che la forza estetica non sia più separabile dalla forza di fede (qui, di cristica fede, e d’una cristicità così vissuta, così trapassata, così onorata, così compiagata, così, ecco, aderente, carne a carne, al vero, unico Verbo, da commuoverci); dicevo che, per tutto questo, e per ben altro, siam certi che essa avrà una straordinaria capacità di sollecitazione e di generazione; sì che altri artisti, ciascuno secondo la propria natura, possano iniziare una consimile battaglia. Che è, in primissima istanza, una battaglia di pace. Lei, proprio lei, la pace (non certo, o non solo, per la Colomba che appare al centro del quadro-girasole, del quadro-fondo oro, di cui abbiam già parlato); lei, ecco, la pace, sembra essere il sentimento finale cui questa serie di dipinti, questa serie di “stazioni”, nel loro susseguirsi, nel loro sovrapporsi, nel loro scontrarsi e abbracciarsi, ci induce e ci fa approdare. Una pace torturata eppur gran129
de; una pace come un enorme, verdissimo prato; una pace come un enorme, infinito e valligiano orizzonte; forse quello su cui si stende l’indimenticabile “sindone” della Pietà centrale, dove – e nessuno manchi di notarlo – il profilo del corpo disteso di Cristo si fonde e si confonde come col profilo dei monti. Quasi a dirci che, accettando la morte, Cristo ha voluto salvare tutta e intera la Creazione. Non solo l’uomo, ma, ecco, la terra (quella terra che così atrocemente andiamo disastrando); e tutti i regni; tanto quello vegetale, del quale Bellini riporta, o riversa, a manciate, come un contadino che stia “facendo fieno”, i colori, i succhi, le linfe e gli odori; quanto quello animale. Guardate bene tutta l’opera e ditemi se, ora qua, ora là, non vi par di sentir salire il muggito implorante delle mandrie, il pigolio dolente dei passeri, il belato filiale delle pecore e degli agnelli… Tutto questo sulla e nella coscienza dello strazio (e della gloria), anzi della straziata gloria dei rumori e dei frastuoni della moderna orrendità; quella che, ormai, non riesce più a risparmiare neppure i monti e le valli dove, per altro, la via crucis di Bellini sembra perennemente avvenire. Sì che il suo modo dolce e, insieme, perentorio di caderci addosso e d’intromettersi, senza possibilità d’esorcismi, nella nostra esistenza, par venire da due diverse, ma compresenti cause: l’una sta nell’imminenza proditoria e violenta con cui la contemporaneità ci investe coi suoi annunci di forza, di benessere, di consumo e di sgangherato vitalismo; l’altra, nell’inevitabilità, anche tattile, anche spigolosa, anche urtata e urtante, dell’Evento-Incarnazione. Al proposito, un secondo riferimento mi par giusto proporre, per stabilire la necessità di nominar vertoviano il “ciclo” di Bellini. 130
Tale secondo riferimento riguarda la cerimonia che, proprio a Vertova, da antichissimi tempi, si consuma ogni Venerdì Santo; quella cerimonia, o “drammatizzazione” liturgica che, verso sera, induce tutto il popolo della valle a scendere, o a salire, per assistere, prima allo schiodamento del Corpo di Cristo così come l’ebbe a scolpire la forza plastica del Fantoni; poi alla processione che il penitente di turno apre e conduce, portando sulle proprie spalle i nudi legni della croce; questo, fin che notte venga e dalle cime dei monti, accendendosi, i fuochi non si richiamino l’un l’altro, eliminando in un abbraccio di piccole fiamme ogni distanza. Ma, a proposito di tattilità, di venir addosso, o d’andar addosso, gioverà altresì pensare alle visite che i valligiani compiono al Cristo fantoniano che, fino all’ora della Resurrezione, se ne starà disteso là, sotto la volta della parrocchiale. È proprio per questo, per il peso cioè, e il valore di scatenamento, che un simile evento ha avuto nella fantasia di Bellini, che ho voluto render noto, attraverso alcuni dettagli, fotografati proprio il Venerdì Santo di questo stesso anno, il senso d’incontro ravvicinatissimo, il senso e, anzi, la tattile realtà (un vero e proprio toccare, fosse pur solo per segnarsi a inizio e fine di preghiera) che la cerimonia vertoviana domanda e innesca. Il procedere per dettagli, per grumi di sangue, di ferite, di bocche urlanti o spiranti, per ginocchia, costati, facce, occhi, mani e piedi trafitti (mani e piedi nei quali i chiodi sembrano povere, ma insieme grandissime perle di un’oreficeria “bassa”, misera, epperò emozionante e splendente); il procedere, dicevo, con cui Bellini ha, via via, realizzato il suo “ciclo”, memorialmente viene da qui; da questa sua cara, mai smessa 131
abitudine d’essere umile, forte, pregante corpo presente (o, forse, sarebbe meglio dire uomo presente) a quest’atto centrale della religiosità, anche collettiva, del suo borgo natio; della sua natia, verdissima valle. «Addio monti sorgenti dall’acqua…»; oppure «ai nostri monti ritorneremo…»; non si tratta di voltarsi indietro ed emozionarsi rammemorando. Si tratta, come quest’opera straordinaria, e straordinariamente piena di pathos familiare e naive e, insieme, di pathos attualissimo e coscienziale, ci consiglia e quasi ci costringe a essere e a fare; si tratta di rimettere sulle spalle, nel cuore, nel cranio e nelle mani, tutta la verità inestinguibile del passato e di portarla, con noi e in noi, dentro la tensione, il tumulto e la cecità del presente. Il quale, lo si voglia o no ammettere, non altro chiede che d’essere attraversato e illuminato da ciò che, del passato, non può aver fine; da ciò che, del passato, è e sarà eterno presente ed eterno futuro. Il presente e il futuro di luce del Cristo; presente e futuro cui Bellini ha dedicato, umile, tragicamente dolce e possente, questa sua opera valligiana ed urbana, cittadina e montana, antica e nuovissima, arcaica e arditamente, e pateticamente, infuturantesi. Ma, infuturantesi verso dove? Ecco: la dura, grande pace che, visto e meditato, il “ciclo” vertoviano sprigiona e nella quale ci chiama a essere e ad esistere, contiene in sé tutti i termini della nostra salvezza, ma non per questo tralascia di metter in campo tutti i termini del nostro soffrire, del nostro dolorare e, persino, del nostro difficile sperare; quel difficile sperare che, talvolta, può sembrare, ed essere disperazione. Ma, appunto, spes contra spem. Nel segno di quell’amore, di quella florida, martoriata bellezza, di quella tenera, enorme e folle 132
vastità su cui la Via crucis di Vertova s’è costruita. Così, in chiusura, mi sia concesso d’aggiungere anche questo. Poiché mi fu data la gioia d’assistere, pezzo per pezzo, al suo nascere e formarsi, m’è gioia, ora, di poterla presentare qui, a voi; sicuri che, se essa intende e può parlare a tutti, a nessuno come a voi può cader fra le braccia, o restarvi eretta, ma per dirvi come sia ancora possibile che arte e fede, che forma e Cristo si trovino indissolubilmente legati nell’immagine e nella parola. E, questo, per raggiungere la povera, grande pace cui tutti tendiamo attraverso l’infinita scaturigine, l’infinito sangue d’Amor che Cristo fu, è e sarà per il sempre dei sempre. 1989
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Crocefissione in nero
L’estate scorsa m’accadde di portare al Meeting di Rimini la grande Crocefissione di Vertova, che Vittorio Bellini, un artista già di piena maturità, ma, come accade spesso da noi, d’ancor relativa critica conoscenza, aveva dipinto coinvolgendo e sconvolgendo tutta la sua carriera come in un incendio d’umana e religiosa violenza. L’impresa, enorme come quella che svolgevano i pittori del Medioevo, tutta però avvolta nelle interrogazioni del presente, spopolò. I giovani di quella giustamente movimentosa assemblea (e ce ne fossero in Italia d’altre così vive, vere e rischiose!) restarono stravolti dalle stesse fiamme che avevano acceso Bellini. Accadde l’insperato. Lo scandalo rivelò sì tutta la sua potenza, ma anche tutti i suoi “ori” e i suoi splendori, e l’enorme parete venne acquistata da una chiesa del contado romagnolo; dove resterà per sempre. A segno di come i tempi sian maturi per veramente cambiare. Direi che la poesia del Bellini, irrefrenabile e insieme massiccia, una poesia che supera le difficoltà con la stessa certezza e lo stesso impeto con cui un tagliatore di rami pota gli alberi più alti della foresta, nasca sotto il segno della croce. Della croce intesa come condizione prima dell’uomo e della natura. Ma, proprio perché di croce si tratta, essa ha come due possenti mire: quella di riguardare l’interità dell’umano inteso come famiglia di 135
fratelli e, l’altra, di far raggiare, sul sangue e sul dolore del martirio, la resurrezione e la pace. Una pace che Bellini esige già qui, sulla terra; e per questo s’adopera. In questo nuovo, vastissimo ciclo che, umilmente, ha voluto chiamare L’altra via crucis, approfittando delle sue conoscenze d’arte africana Bellini ha voluto, più che mescolare, assemblare, che dico?, affratellare i segni dell’arte della sua valle bergamasca con i lontani e, insieme, vicinissimi segni dell’arte negra; e questo proprio sull’orlo d’un demente scatenamento razzistico che sta lambendo e infestando, non solo le razze, addirittura le nostre stesse ragioni. Inserendo, con quanta naturalezza e, insieme, violenza d’amore le maschere delle più varie etnie africane, a figurare, ora Cristo, ora la Vergine, ora le pie donne, ora gli assistenti e mescolandole, poi, coi contrafforti coloratissimi della sua pittura, verde come i prati, rossa come i più scatenati tramonti, stabilendo così tra figura e figura una disparità di piani arditissima e, tuttavia, sempre di gestualità fortemente valligiana, Vittorio Bellini ha composto questo secondo ciclo sacro-popolare; e l’ha composto a conferma di come la fede, quando sia tale, non rinvii mai i punti dell’atrocità; ma, anzi, li precisi, pur contro le deboli e insensate tergiversazioni dei politici. Un manto, un gran manto di luce e di speranza, sembra scendere su chi osservi questa iperbolica Crocefissione; che è anche una Pietà; che è, anche, e, soprattutto, Resurrezione. Chi voglia, poi, vedere come anche nei formati minori la tensione e il tema tengano e, dunque, Bellini sappia scendere dal “telero” alla tela da stanza, visiti a fine mese, 136
presso la “Compagnia del disegno” di Milano, via del Carmine 11, la mostra d’opere che hanno accompagnato l’esecuzione della maggiore: uguale la bellezza, la tensione e il cromatico clangore. E per l’una e per l’altra legga il saggio, stupefacente di cognizione e profondità, che Maurizio Cecchetti v’ha dedicato in catalogo.
[“Corriere della Sera”, 1° aprile 1990]
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Noi, traditori di Cristo
Al Museo Picasso di Parigi s’è aperta, in questi giorni, una mostra breve, sì, ma abbagliante per la sua bellezza e per la forza di denuncia che sprigiona. Essa ha come titolo Corps crucifiés (Corpi crocifissi). Vi si espone in sunto, ma insieme quale apertura per future e più complete redazioni, la storia della tragica emergenza del Crocifisso, anzi del Crocifissato, nelle vicende dell’arte contemporanea. È un primo tentativo; ma, coi suoi capolavori, basta ad accusare, prima d’ogni altra, quella cultura che, dicendosi cattolica e perfino ecumenica, non ha saputo, o voluto, riconoscere in questo Cristo, anzi in questi Cristi e negli altri qui non esposti, il Cristo del Vangelo; spesso, anzi, li ha vergognosamente contestati ed osteggiati. Comunque quasi nessuna di queste immagini è entrata nel cuore di noi cristiani e si è collocata, dunque, sugli altari dei nostri riti. Eppure è proprio in tali figure lacerate e sanguinanti, spesso ridotte a povere carcasse di carne, che l’uomo del nostro tempo ha raccolto e fissato tutte le perfidie e le atrocità che il Potere, dunque l’Anticristo, ha di volta in volta compiuto sul corpo dell’uomo e su quello della sua storia. Non è senza significato che Guernica (1937), opera nella quale Picasso memorizzò per sempre la vergogna del primo bombardamento messo in atto dai nazisti contro la Spagna, sia nata e si sia sviluppata come diretta 141
conseguenza proprio sugli studi che il maestro aveva precedentemente compiuto sul tema, appunto, della Crocifissione. Ed è non meno significante che, sempre nel ’37, all’esposizione sull’“Arte degenerata” (quell’arte, cioè, che il nazismo voleva bruciare e che, in effetti, per come gli fu possibile, diede alle fiamme) Hitler avesse voluto che un’intera sala fosse dedicata a come, secondo la sua perversa ideologia, gli artisti moderni avessero “bestemmiato” il tema della Crocifissione; anzi, si fossero serviti di quel tema per far passare la loro opposizione e la loro rivolta. Ciò che si accusava di profanazione era in verità straziata glorificazione; era, comunque, tutto quanto saliva dal cuore dei viventi liberi e veri, allorché l’odio di sangue e di razza aveva preso a scatenarsi sul mondo. Ora non è che qui si voglia rammentare quelle immagini di Cristo in rapporto al riapparire di quell’odio; o, quanto meno, non solo quello. Prima ancora le si vuole ricordare in relazione all’immensità e quasi totalità di indifferenza in cui “l’uomo che può” s’è lasciato andare e va costruendo da decenni, non già una società credibile e vivibile, bensì la presente, sconcia Babele; Babele in cui la prima e, forse, unica legge è il singolo profitto e la singola potenza; non importa come e contro chi ottenuti. In tale Babele l’uomo, anche l’uomo che ad essa s’è venduto, vive orrendamente cieco e infelice. Per quanto cerchi di dimenticarlo, accanto a lui seppur geograficamente lontano esiste l’altro, “l’uomo che non può”; quell’altro che a causa dei soprusi è costretto a morire sulle nuove, infinite croci. Ma alle infelicità diverse, anzi opposte, degli uni e degli altri, quale Cristo la cultura cattolica, e spesso la stessa gerarchia della Chiesa, ha saputo e 142
sa proporre? Quale Cristo sa gettare nel disastro della malattia, della fame e della morte? Un Cristo ridotto a siliqua astratta; un Cristo scorporato; un Cristo disincarnato; un Cristo che forse non s’è neppure mai incarnato; un Cristo che non è il Dio precipitato per infinito amore nel ventre di Maria, che non è il Cristo della derisa grotta di Natale; un Cristo che non punta l’indice, che non disturba; un Cristo che non puzza d’amore; ma soprattutto un Cristo che non risponde all’urlata richiesta di senso e di significato che sembra alzarsi, come un grido ultimativo, dalla Terra. Il Cristo della mostra parigina soffre, patisce, si offre tutto per amore, disturba e non dà pace; è una delle sole, credibili risposte date a quel grido. Che tale risposta venga dall’arte e, soprattutto, da artisti magari atei, certo non professionisti di cattolicità, dà il senso di come quest’ultima, per volere essere politicamente nella storia, abbia abbandonato il terribile, sacro destino che il Dio crocifisso le aveva assegnato. Ed altresì la certezza che lui, Cristo, reso irriconoscibile proprio dal tradimento di noi cristiani, abita ugualmente, ugualmente rantola nel disastro del mondo, e che qualcuno ha ancora occhi, mente e carità per vederlo e per mostrarcelo.
[“Corriere della Sera”, 23 dicembre 1992]
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Per un ritratto a Rainer Fetting
I Sei venuto, cavallo di Berlino, a nitrire sconvolto a lato del letto del malato – io lo stesso che ora qui trafitto dall’ago della flebo di Dio da Lui, anzi, risorto benché così prossimo arrivato fossi ad essere già morto… Li vidi, Rainer: i genitori attendevano con l’ava nel subway senza fine della luce. II Ed ora, eccomi, qui, dalla pietosa empietà 147
arrestato e per sempre dalla catena dei colori tuoi. Catena o libertà? Rainer, rapace come corvo pur se rondine in te s’agita e canta… La primavera a festa ella vorrebbe e verrà, come dice anche il tuo cuore, verrà, per te, per me e per gli uomini del dolore. 1990
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Nota ai testi
Preghiere. Le tre poesie sono state scritte nel 1979. Rappresentano un prologo al libro di poesie Ossa mea, pubblicato nel 1983 nella collezione “Lo Specchio” di Mondadori e datato dall’autore 19811982. Nella cartella in cui è stata ritrovata la serie delle tre «preghiere», dattiloscritte e con correzioni autografe, è presente anche un foglio dattiloscritto con l’indicazione: «Ossa mea (1979)». Nel corpus di questa raccolta poetica però le «preghiere» non sono comprese, anche se temi e strutture adottate risultano in stretta corrispondenza, oltre a riprendere immagini presenti in altri poemetti inediti, quali Kaiserschmarn e In ringraziamento. Aiutaci, Cristo. Si tratta di una «preghiera», scritta da Testori per una serie di incontri quaresimali, tenutisi nel Duomo di Milano nel marzo 1979. Gli incontri, condotti da Sandro Maggiolini, Giovanni Saldarini, Giacomo Girardi e Giovanni Colombo, prevedevano che ogni intervento terminasse con la lettura di una preghiera scritta per l’occasione. Testori chiude l’ultimo incontro del 30 marzo 1979, leggendo questa «preghiera», che poi verrà pubblicata in un opuscolo che documenta il ciclo, Tempo di missione. Incontri di quaresima proposti ai giovani in Duomo a Milano, edito da Ancora, Milano, nel 1979. Riedito, per la prima volta in questa raccolta, alla dicitura «Preghiera» dell’originale, si aggiunge un titolo evocativo dei contenuti. La luce della Pasqua. Viene pubblicato come articolo sul “Corriere della Sera” il 15 aprile 1979 e poi incluso in La maestà della vita, Rizzoli, Milano 1982. Davanti alla croce. Viene pubblicato come articolo sul “Corriere della Sera”, con il titolo È il giorno della speranza il 6 aprile 1980 e
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poi incluso in La maestà della vita, Rizzoli, Milano 1982, con la variazione del titolo che è quello qui indicato. Crux – per Arnulf Rainer. Le poesie accompagnano una serie di opere sul tema della Crocifissione del pittore austriaco Arnulf Rainer, nel raffinato catalogo, progettato da Ezio Gribaudo e curato da Paola Gribaudo, in 499 esemplari numerati, pubblicato da Carlo Monzino, in occasione della mostra dell’artista, tenutasi a Venezia, all’abbazia di San Gregorio, nel giugno 1986. Sono state riprese, nel 2002, in Segno della gloria, che raccoglie testi poetici di Testori scritti per alcuni degli artisti che più lo hanno appassionato, edito da Libri Scheiwiller, a Milano. Quattro Crocefissioni. Per la quaresima 1986, il settimanale “Il Sabato” pubblica una serie di quattro articoli, raccolti da Luca Doninelli, sul tema “Cristo nell’arte moderna”. Testori qui commenta e spiega soprattutto il tema della croce, da sempre presente in tutta la sua opera, scegliendo quattro variazioni di grandi artisti del Novecento. Sono letture ancora infiammate dalla necessità, sempre presente in Testori, di far riflettere l’uomo contemporaneo sull’appartenenza di ognuno al Corpo di Cristo che ha accettato la carne imperfetta dell’uomo per portarla alla salvezza. Francis Bacon. La Crocefissione crocefissa: viene pubblicato in “Il Sabato”, 8 marzo 1986 e commenta il pannello di destra del trittico Tre studi per una Crocefissione, 1962, del pittore inglese. Max Beckmann. La croce in corpo: viene pubblicato in “Il Sabato”, 15 marzo 1986 e riflette sull’opera La discesa dalla croce, 1917. Karl Hödicke. Un braccio di libertà: viene pubblicato in “Il Sabato”, 22 marzo 1986 e ha per oggetto il quadro Crocifissione, 1985, dell’artista tedesco. Henri Matisse. Una croce in paradiso: viene pubblicato in “Il Sabato”, 29 marzo 1986 e si occupa di uno studio per la Discesa dalla croce, realizzato per la cappella di Saint Paul de Vence. Come terrecotte Sukhotai. La via crucis di Lucio Fontana. Si tratta della recensione alla mostra Via crucis 1947, allestita presso la Gal-
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leria Niccoli di Parma, pubblicata sul “Corriere della Sera”, 2 ottobre 1988. Il catalogo, edito dalla Galleria, ha un testo critico di Enrico Crispolti che sottolinea: «Esempio di straordinaria qualità d’invenzione plastica, partecipe del più alto livello della duttilità immaginativa del Fontana scultore in ceramica, le quattordici “stazioni” della via crucis, in ceramica riflessata di grande effetto coloristico, articolano spazialmente in un altorilievo spinto praticamente alla libertà del tuttotondo gruppi di figure gesticolanti intrise in una materia di rutilante cromatismo, e di esuberante espansione quasi tentacolare nel rapporto dialettico con lo spazio». Dentro la croce. La presente sezione prende a prestito un’espressione usata dallo stesso Testori, che, scrivendo dell’artista giapponese Kei Mitsuuchi su “Il Sabato” (16 novembre 1985), sottolinea: «Talvolta la partecipazione di Kei sembra così stretta da farci pensare che egli, queste tele, le abbia eseguite addirittura “dentro la croce”; certo, dentro il supremo atto d’amore e di scandalo che sulla croce è avvenuto e che non ha mai cessato e mai cesserà di riavvenire. Proprio in uno di questi suoi continui riverificarsi Kei s’è trovato lì, sul monte del Cranio, e lì, fedele a una chiamata di cui, per tradizione e vita, nulla conosceva, ma di cui ha avvertito la totale impellenza, è restato». Sono qui riediti, per la prima volta in volume, i saggi di Testori dedicati a tre incontri in cui anche la dimensione del critico d’arte si confronta con la realtà, il suo valore, il suo essere in Cristo, anzi il suo trovarsi «dentro la croce». Nel riunire i testi sorprende la linea trasversale che li attraversa, ossessivamente tesa a dichiarare il tradimento del cattolicesimo contemporano che vive l’astrazione di Cristo, piuttosto che incontrarlo nelle pieghe più desolate della realtà, oltre che a sovvertire le ragioni che tengono legate l’arte sacra al tradizionalismo di maniera. In ogni saggio Testori cerca di rispondere al perché le chiese oggi non hanno il coraggio di mostrare il dolore radicale, viscerale quasi, rappresentato da molti artisti moderni. Cristo e il samurai. È il saggio che Testori scrive per il catalogo della mostra Kei Mitsuuchi. Ai piedi della croce, da lui stesso curata,
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che si tiene alla basilica di San Carlo al Corso dal 7 novembre al 15 dicembre 1985. Testimonia il legame profondo che si è instaurato con l’artista giapponese che Testori ha conosciuto a Parigi, nella galleria di Albert Loeb, e che lavora in uno studio situato «nella Parigi degli immigrati, dei negri, degli alcolizzati, dei deietti, dei drogati», che lo scrittore inizia a frequentare con assiduità. Del resto scrive: «A Loeb devo, quindi, il dono d’un incontro che, nella vita, resterà tra i più decisivi, ancorché tra i più difficili». Cristo è perenne movimento. Il saggio di Testori viene pubblicato nel catalogo della mostra «Voi chi dite che io sia?» (Luca 9, 20). Artisti a confronto con situazioni, fatti e personaggi del Vangelo, che si tiene a Siena, per la V Biennale d’arte sacra, dal 3 dicembre 1988 all’8 gennaio 1989. Testori qui ritorna e specifica la sua appassionata richiesta di «una conduzione completamente diversa di rapporti tra arte da una parte e religione, liturgia, e Chiesa dall’altra» a partire da una prospettiva diversa: «Qui non si tratterebbe tanto d’invitare gli artisti ad aprire le porte a Cristo, quanto d’invitare coloro che si affermano, e confermano, cristiani, ad aprire le porte della loro astratta immobilità al Cristo e alla cristicità». Le ferite dell’uomo. Via crucis di Vertova. Nel 1983 Vittorio Bellini, artista di Vertova, in provincia di Bergamo, conosce Testori con il quale instaura un rapporto d’amicizia, in una sorta di connubio tra le affinità umane e spirituali. Testori apprezza il senso religioso che spinge l’artista a creare opere a carattere sacro completamente svincolate dalla tradizionale pittura “liturgica”. Testori lo porta a quella libertà della pittura, che era già nel sentire di Bellini, ma non aveva ancora avuto la forza d’urto per essere espressa. Un rapporto di grande vicinanza: arriva da Testori l’invito a partecipare, nel 1988, alla V Biennale d’arte sacra di Siena (cui si riferisce il saggio precedente) e l’anno seguente Testori stesso presenta al Meeting di Rimini, dal 20 al 27 agosto 1989, la Via crucis di Vertova, polittico di grandi dimensioni (ora nella chiesa di Maria Immacolata a Tavernelle, Pesaro) che trova spunto nella processione vivente del Venerdì Santo a Vertova. Del resto Testo-
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ri scrive Le ferite dell’uomo come introduzione al catalogo della mostra e sottolinea: «Poiché mi fu data la gioia d’assistere, pezzo per pezzo, al suo nascere e formarsi, m’è gioia, ora, di poterla presentare qui, a voi». Accompagna il testo con una serie di fotografie (che riprendiamo nella presente edizione, ritenendole parte integrante del testo) del Cristo in legno del Fantoni che viene portato in processione. Così ne motiva la scelta: «È proprio per questo, per il peso cioè, e il valore di scatenamento, che un simile evento ha avuto nella fantasia di Bellini, che ho voluto render noto, attraverso alcuni dettagli, fotografati proprio il Venerdì Santo di questo stesso anno, il senso d’incontro ravvicinatissimo, il senso e, anzi, la tattile realtà (un vero e proprio toccare, fosse pur solo per segnarsi a inizio e fine di preghiera) che la cerimonia vertoviana domanda e innesca». Crocefissione in nero. Il tema della passione di Cristo è profondamente sentito da Vittorio Bellini che nei due anni seguenti è impegnato nella creazione di altri due grandi polittici, L’altra via crucis (ora situata al Centro culturale Giovanni Testori, Vertova, Bergamo) e L’altra via crucis II. Al saggio Le ferite dell’uomo, si aggiunge la recensione della mostra L’altra via crucis, organizzata al Centro culturale San Bartolomeo di Bergamo nel 1990 e pubblicata sul “Corriere della Sera” (1 aprile 1990), con il titolo Crocefissione in nero in quanto l’avvio, in chiave di conferma critica, è rappresentato da un giudizio molto positivo sull’accoglienza della mostra precedente, voluta da Testori, da parte dei visitatori del Meeting riminese. Noi, traditori di Cristo. In quest’articolo, pubblicato dal “Corriere della Sera”, il 23 dicembre 1992, pochi mesi prima della morte, a partire dalla mostra Corps crucifiés (Picasso, Bacon, Saura, etc.), (Parigi, Musée Picasso, 17 novembre 1992 - 1 marzo 1993), curata da Jean Clair, Testori ritorna polemicamente sul tema dell’arte sacra del Novecento e sulla necessità di essere «dentro Cristo» e dentro la realtà, radicalizzando le posizioni già espresse nei saggi qui raccolti nella sezione “Dentro la croce”.
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Per un ritratto – a Rainer Fetting. Le due poesie, scritte nel 1990, sono state edite nella cartella, pubblicata dalla Compagnia del Disegno e offerta da Giovanni Testori a Rainer Fetting, in occasione del ritratto che l’artista tedesco ha voluto dedicargli. La cartella infatti documenta, attraverso le fotografie di Franco Grechi, le fasi di realizzazione del dipinto, con Testori in posa, già smagrito dalla malattia. Inoltre vengono pubblicati anche, in facsimile, i manoscritti autografi delle due poesie che verranno in seguito riprese anche nel catalogo della mostra, Rainer Fetting, scultore e pittore, curata da Maurizio Cecchetti e dallo stesso Testori e allestita nel 1991 alla Rocca Malatestiana di Cesena e nel catalogo Fetting 1990-1991, edito nel 1991 in occasione della mostra londinese alla Raab Galerie. F.P.
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Sommario
Sacro destino (FULVIO PANZERI)
p. 5
DAVANTI ALLA CROCE Preghiere Aiutaci, Cristo. Preghiera La luce della Pasqua Davanti alla croce
» » » »
21 29 33 37
Crux – per Arnulf Rainer
» 41
Quattro Crocefissioni Francis Bacon. La Crocefissione crocefissa Max Beckmann. La croce in corpo Karl Hödicke. Un braccio di libertà Henri Matisse. Una croce in paradiso
» » » »
Come terrecotte Sukhotai. La via crucis di Lucio Fontana
» 81
Dentro la croce Cristo e il samurai Cristo è perenne movimento Le ferite dell’uomo. Via crucis di Vertova Crocefissione in nero
» 89 » 111 » 121 » 135
57 61 73 77
Noi, traditori di Cristo
p.139
Per un ritratto – a Rainer Fetting
» 145
Nota ai testi (F.P.)
» 149
dolore e sofferenza non trovano ragione che nel loro sfociare dentro la speranza e dentro la pace. Questo è lo scandalo della croce
Passio 1. 2. 3. 6. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29.
Davide Maria Turoldo, Poesie sul sagrato, con tre note di L. Erba, G. Piana e R. Cicala e tre incisioni di M. Maulini, pp. 48, euro 5,16. Passione di Clemente Maria Rebora, testimonianze rosminiane e poesie, con una nota di E. Montale e sei incisioni di M. Maulini, pp. 128, euro 7,75. Paul Claudel, Via Crucis, nota di C.M. Martini e postfaz. di L. Erba, testo originale a fronte, trad. di G. Zaccheo, pp. 64, euro 5,16. Germano Zaccheo, Approdi, pp. 112, euro 7,75. Franco Terzera, Un anno sull’orlo, pref. di R.S. Crivelli, postfaz. di G. Piana, pp. 80, euro 7,75. Giuseppe M. Gambaro, Un martire in Cina, a cura di R. Cardano, pp. 96, euro 7,75. Chiara d’Assisi, La segreta dolcezza, a cura di M.E. Bortolotti e C.L. Montanari, pref. di C. Paolazzi, pp. 88, euro 5,16. Hermann Hesse, Ricordo di Hans, a cura di A. Cattoi, con un testo di E. Borgna, pp. 80, euro 5,16. Scrittori per Padre Pio, a cura di A. Motta, pp. 64, euro 5,16. Ai Qing, Morte di un Nazareno, a cura di A. Bujatti, con testo cinese a fronte e xilografie originali, pp. 64, euro 7,75. La perfetta letizia di Francesco d’Assisi, illustrata da Giotto, a cura di C. Paolazzi, pp. 96, euro 7,75. Paolo Barnard, Aiutami a morire, pp. 176, euro 10,33. Laura Prete, La forza del cuore, pp. 104, euro 9,30. I luoghi dell’anima. In viaggio con i grandi scrittori, a cura di F. Panzeri, pp. 248, euro 10,33. Torquato Tasso, Lagrime, a cura di M.P. Mussini Sacchi, pp. 64, euro 9,30. Albrecht Dürer, Piccola Passione, anastatica dell’edizione 1612, a cura di M. Rosci, nota introduttiva di M. Valsecchi, pp. 104, euro 10,33. Carlo Maria Martini, L’atrio ritrovato, con un testo di G. Zaccheo e tavole di V. Porta, pp. 48, euro 9,30. Anna Maria Cànopi, Il volto del mistero, con antologia di testi, pp. 88, euro 10. Vite salvate. Testimonianze, a cura di G. Mussini, pref. di C. Ma-
gris, con una testimonianza di F. Zeffirelli, pp. 100, euro 10. 30. Mariella Carpinello, Mi chiamo Max e sono un tossico, pp. 184, euro 10. 31. La strage dimenticata. Meina settembre 1943, il primo eccidio di ebrei in Italia, con la testimonianza di B. Behar, introd. di R. Morozzo Della Rocca, pp. 88, euro 10. 32. Carolina Bertinotti, Ma la fortuna dei poveri dura poco. Storia della mia vita (diario 1883-1945), a cura di G.A. Cerutti, pp. 104, euro 10. 33. Mauro Begozzi, Non preoccuparti che muoio innocente. Lettere di condannati a morte della Resistenza, pp. 72, euro 10. 34. Donatella Bisutti, Colui che viene, prefazione di M. Luzi, pp. 68, euro 10. 35. Il silenzio, a cura di F. Filiberti, pp. 140, euro 10. 36. Clemente Rebora, Diario intimo. Quaderno inedito, a cura di R. Cicala e V. Rossi, pp. 80, euro 12. 37. Paolo Pomati, Macchine. Storie di passioni, presentazione di L. Bosio, pp. 168, euro 12. 38. Massimo Savastano, Il sangue non sporca i giusti. Mafia e legalità: un mosaico, note di P. Grasso e L. Di Pietro, con un’intervista a monsignor A. Riboldi, pp. 112, euro 12. 39. Giuseppe Cuzzoni, Prigione di trincee. Memoriale inedito della Grande Guerra, a cura di R. Leggero, presentaz. di M. Begozzi pp. 164, euro 15. 40. Achille Abramo Saporiti, La notte del Cireneo, pres. di M. Guzzi, pp. 88, euro 12. 41. Massimo Savastano, La mafia ha paura di te. Viaggio dal nord al sud, presentazione di G. Fini, pp. 120, euro 12. 42. Giovanni Testori, Davanti alla croce. Parola, arte e vita, a cura di F. Panzeri, pp. 160, euro 14. 43. Gaetano Ferrari, Memorie di guerra e brigantaggio. Diario inedito di un garibaldino (1860-1872), a cura di C. Bonfantini, pp. 168, euro 14.
interlinea VIA P. MICCA
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