Dante. Storia della Commedia 8882128954, 9788882128951

L'opera su Dante di Mario Apollonio, figura di grande studioso del secolo scorso, maestro di letteratura in Univers

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Dante. Storia della Commedia
 8882128954, 9788882128951

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L'opera su Dante di Mario Apollonio, figura di grande studioso del secolo scorso, maestro di letteratura in Università Cattolica, riconsegna alla cultura italiana uno studio irrinunciabile sulla Commedia. «L'originalità intrinseca e il non essere stato letto e me­ tabolizzato a suo tempo lo rendono perfettamente fruibile oggi», scrive il curatore Carlo Annoni. Apollonio riconosce e ricostruisce la presenza del capolavoro dantesco in tutte le forme espressive della civiltà italiana ed europea lungo i secoli, fra la poesia, ovvia­ mente, il teatro, le arti figurative, la musica, il costume in genere.

ISBN

euro 48

978-88-8212·895-1

Studi 73

Mario Apollonio

DANTE STORIA DELLA COMMEDIA a cura di Carlo Annoni e Corrado Viola

INTERLINEA

Edizione promossa con patrocinio e contributo di Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Direzione generale per le Biblioteche, gli Istituti culturali e il Diritto d’autore Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Università Cattolica del Sacro Cuore, sedi di Milano e Brescia © Novara 2013, Interlinea srl edizioni via Pietro Micca 24, 28100 Novara, tel. 0321 612571 www.interlinea.com Stampato da Italgrafica, Novara ISBN 978-88-8212-895-1 L’editore ringrazia gli eredi dell’autore e avendo attuato le necessarie pratiche di richiesta diritti resta a disposizione per eventuali omissioni In copertina: illustrazione di Gustave Doré per l’Inferno, VIII (Dante Alighieri, La Divina Commedia, Sonzogno, Milano 1868)

Sommario

Come un astro senza atmosfera. Il «Dante» di Mario Apollonio (CARLO ANNONI) Nota al testo (CORRADO VIOLA)

p. VII » LVII

LETTURA DELLA COMMEDIA Prologo all’“Inferno” Tre preludi Commiato dalla gloria e dall’amore terreni Cammino verso la città e assedio Rapsodia dei Violenti La città della frode L’Inferno dell’irascibile I traditori superbi

» 3 » 17 » 27 » 35 » 49 » 67 » 77 » 107

Prologo al “Purgatorio” Ritratti La valle delle stragi Superbia Invidia Ira Accidia Avarizia Gola Lussuria Paradiso e Parnaso Trionfo e mistero

» » » » » » » » » » » »

115 121 131 145 157 165 173 177 185 195 205 213

Cielo della Luna Canto della gloria del mondo Trittico del cielo di Venere Il segno dello Spirito Il segno del Figlio Il segno del Padre «Contento di pensier contemplativi» Il trionfo della Chiesa

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229 249 257 265 279 295 303 311

La confessione Adamo e la terra Gli Angeli Empireo

p. » » »

317 327 335 341

Preambolo sulla fortuna Gli elogi funebri Le rime della dottrina Petrarca Aneddotica Boccaccio I commenti Polemiche dell’intelligenza umanistica La vulgata cinquecentesca Immagini nell’arti Sannazaro, Vida e il sincretismo romano Vico Difesa di Dante Dante nelle letterature d’Occidente Fra i poeti nuovi d’Italia Letteratura del Risorgimento De Sanctis Cronache letterarie della terza Italia

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359 367 377 389 407 415 435 447 465 473 499 505 521 533 567 597 607 615

TAVOLA BIBLIOGRAFICA

» 635

Indice dei nomi (a cura di CORRADO VIOLA)

» 661

STORIA DELLA FORTUNA

CARLO ANNONI

Come un astro senza atmosfera. Il «Dante» di Mario Apollonio

Noi, leggendo, dal golfo mistico della Commedia non possiamo trarre che poche linee di pochi temi, per non poterli tutti ad uno ad uno indicare: e seguir ciascuno nell’intreccio della polifonia significherebbe ripercorrere dal cerchio al centro l’intero poema. Ché ognuno consuona con tutti e altrove non sta l’unità intrinseca dell’arte dantesca, se non in questa universale e organica rispondenza delle immagini in una. (MARIO APOLLONIO, Dante. Storia della «Commedia»)

Leggendo le prime pagine di questo Dante capita di imbattersi in un errore di stampa, che ricorre di nuovo anche più avanti e che però verrà assunto, paradossalmente, nei termini di un’indicazione di metodo.

Il maestro delle parentesi e il sermo familiaris Voglio dire che l’autore apre talvolta delle parentesi le quali non sempre vengono chiuse; ma, si badi, l’apparente trascuratezza riflette in realtà, a livello meccanico, un’abitudine mentale dello studioso e una prassi didattica del professore: una specie di odio dei confini, detto con molta approssimazione, e il gusto del digredire, apparentemente senza limite, come il volare e il poggiare dell’ippogrifo di Astolfo o lo spaziare di Argo cent’occhi entro l’intero cerchio dell’orizzonte: non bisognerebbe correggere, insomma, poiché la menda esprime uno stilema e un abito mentale.1 Tutto significa, dunque: si svelano così paesaggi poetici fuori dell’ordinario, anche se resta sempre la difficoltà del ricondurre ad unum, che pure il testo esige, e del contornare i margini per una buona visione d’insieme; e pare ci si debba rassegnare, in conclusione, a lasciare dei nodi al loro intrico e dei fili non ricondotti nel tessuto. Non sempre, peraltro, ed è un’altra delle caratteristiche di quest’opera voluminosa: il primo ingresso nella quale appare senza dubbio poco agevole, ma già il secondo affascina, quando cominciano a sollevarsi le cortine del troppo denso e del troppo pieno, mentre il terzo ci spinge ai successivi, con la promessa di una specie di patto fiduciale, che cioè, alla fine, il palazzo delle parole si aprirà, cosicché il lettore vi abiterà e passeggerà per sale e sale di «ricchezza», di «gentilezza», di «antica possession d’avere», di «reggimenti belli».2 E tanto VII

infatti avviene, nel guadagno progressivo di un’indagine «che conduce a render sempre [meno estesa] la zona delle incomprensioni, sempre più scarsi i divieti all’intelligenza, sempre più penetrativo il senso, e sottile l’analisi».3 La fatica dell’andare, la periegesi del lettore, dunque, attorno all’esegesi del critico, troveranno la propria certa ricompensa, grado a grado, nella «gioia dell’insegnare e dell’apprendere»:4 fatto per il quale andrà sottolineato, fra l’altro, l’uso frequentissimo del «tu» allocutivo nella prosa di un tale monumento, abitudine che è insieme un’imitazione intenzionale di De Sanctis e la ricostituzione ideale di un’aula d’alta scuola. Oggi appare con ancora maggior chiarezza il carattere peculiare dell’operazione scientifica posta da Apollonio in quella particolare stagione critica. Si trattava, in primo luogo, di superare definitivamente l’esegesi, in sostanza frammentaria e impressionistica, avallata dalla distinzione crociana fra poesia e non poesia, la quale abbatteva a terra la cattedrale dantesca, estraendone in rilievo un florilegio di bellezze non contaminate dalla teologia del poeta e dalle categorie “cattoliche” della sua lettura del mondo. Bisognava, d’altra parte, andare anche oltre alcuni parziali superamenti delle interdizioni del filosofo napoletano: oltre il commento di Momigliano, ad esempio, troppo intriso di “aura” crepuscolare, per quanto latore di nuovi e suggestivi risultati di lettura; ed oltre il commento di Sapegno, eccellente nella delucidazione della lettera, meno significativo, e talora non sicuro, nell’accertamento dei valori d’arte. Si trattava poi, in secondo luogo, di collocare al posto debito, più che di negarli, i risultati delle ricerche delle mature e tarde scuole positivistiche, rifiutando la riduzione della persona e dell’opera di Dante all’accertamento dei fatti eruditi, dal momento che – afferma Apollonio – è sempre l’autore con la sua poesia5 a creare il tempo e la prospettiva del quadro che lo contiene e non viceversa, per numerosi che siano i nuovi realia riportati in vista dai lavori di scavo e di restauro. Valga, al riguardo, la consueta notazione di metodo impartita a lezione dal docente, in ordine al saper “proporzionare” con correttezza la ricerca: che cioè tutto quel che si viene a sapere sull’autore empirico (e su questo particolare autore empirico!) non lo illumina, ma, al contrario, ne viene illuminato, di tanto la forza modellizzante dantesca eccede, spiegava Apollonio, qualsiasi notizia le si possa raccogliere attorno. È qui indispensabile una breve collocazione cronologica, nella quale si toccherà rapidamente del maggior dantismo attorno alla metà del secolo scorso e per i vent’anni successivi, considerandolo summatim nei suoi vertici, per mostrarne la relazione con il maestro della Cattolica: il quale non giunse in tempo a versare nella propria monografia – 1951, alla data della princeps – né i risultati di Auerbach né quelli di Spitzer (i tempi di guerra e dell’immediato dopoguerra non erano del resto i più favorevoli all’immediato aggiornamento bibliografico); mentre lesse Curtius, solo quando il Dante. Storia della «Commedia» si trovava a uno stadio di elaborazione troppo avanzato per poterne tener conto. I maggiori saggi di Contini sono invece tutti, senza eccezioni di rilievo, successivi ai due volumi di Apollonio (ben conosciuto, e utilizzato e discusso è, invece, il commento einaudiano VIII

dello stesso Contini, 1939, alle Rime del poeta). Via via letto e assimilato fu poi l’insieme dei contributi danteschi di Giuseppe Billanovich, soprattutto a partire dall’instaurarsi temporale di un contiguo magistero in Università (e dunque con schede aggiunte anche nelle stampe successive alla princeps, del 1958 e del 1965).6 Molto altro tralasciamo, perché ci tocca ora scorciare in epilogo la sommaria storicizzazione, anche se riteniamo di avere detto l’indispensabile: a partire dagli anni settanta,7 presero avvio il metodo e la moda dello strutturalismo, quasi immediatamente assorbito dal sistema planetario e totalizzante delle semiologie; e la porta di questo Dante, nonché non venire riaperta, scomparve dalla vista. Si parlò, a riguardo del Dante di Apollonio, di critica ermetica, a causa dell’innegabile difficoltà di molte pagine. In realtà l’espressione, quae talis, è ossimorica, dal momento che può esistere, ed è, come ben noto, storicamente esistita, con risultati spesso assai alti, una poesia di tipo ermetico, cioè intenta a spingere agli estremi, anche vertiginosamente, il linguaggio dell’analogia, fino a farlo sconfinare nella musica, al limite della collana di parole-perle sonore. Ci troviamo interni a un troppo ovvio truismo di storiografia letteraria; con una particolarità: i critici che si vollero chiamare ed essere ermetici caddero nell’obscurisme e nel gusto di un arcanismo imprendibile (penso, si capisce, alla tipologia ben rappresentata, ad esempio, da Macrì e da Bigongiari, anche lirici in proprio, con risultati non di rado di forte suggestione ma, qualora si tratti di pagine aventi intento saggistico-interpretativo, quasi sempre di ineffabilità ai limiti dell’asemantico, con risposte alla lettura davvero ardue). Il caso di Apollonio è totalmente diverso, pur tenuto conto di alcune marche stilistiche colore del tempo (facilmente coglibili, ma non decisive), e di amicizie individuali, dal momento che, per un certo tratto, l’ermetismo, di fondo soprattutto fiorentino, e lo spiritualismo cattolico camminarono insieme. Definiamo e trasportiamo piuttosto, con esattezza concettuale, il senso della difficoltà entro i limiti della complessità, aggiungendo alla spettacolare ricchezza culturale del maestro, quanto all’ambito delle arti (tutte, e non solo quelle verbali), una preparazione storiografica e filosofica non comune, implicata nel ciclo della fondazione delle Università cattoliche in Europa e nello sviluppo imponente, lì promosso, del neo-tomismo e degli studi medievistici.9 La scrittura del Dante non conviene davvero nella categoria di una prosa quasi iniziatica; è invece ricca, questo sì, talvolta al limite dell’eccesso, interamente di seconda mano (nel senso dato all’espressione da André Compagnon): cosicché il rapporto ineludibile tra ridondanza e informazione viene largamente spostato sulla seconda polarità, mentre la prima è già non di rado collocata a un livello assai alto, quando non troppo alto. Peraltro, seppure la tessera appena introdotta appaia corretta, non è davvero insolito che, leggendo questo grande companion a Dante, avvenga l’incontro con una specie di lingua più comune, nata da una consuetudine e da un’intesa strette, orma su orma, quasi che Apollonio funga da terzo incluso, accanto al poeta fiorentino e alle sue guide; ed è proprio così, insomma: sermo familiaris ad ogni effetto, purché si intenda della specifica famiglia dei dotti.10 IX

Nella partita del dare e dell’avere è peraltro egualmente vero che, forse con altrettanta frequenza, capiti di dover cedere, almeno per un momento, le armi, quando il discorrere di Apollonio si interna in un suo chiuso latino, come il racconto di Cacciaguida a Dante (Pd XV, 39: «Ch’io non lo intesi, sì parlò profondo»); o quando l’ansia di attestare una verità critica la quale già s’intravede, mentre si sta mettendo a fuoco la precedente, fa sì che entrambe s’intorbidino (è di nuovo un rescritto di Dante, trasgredito, questa volta, dal nuovo discepolo, Pg V, 16-18: «Ché sempre l’omo in cui pensier rampolla / sovra pensier, da sé dilunga il segno, / perché la foga l’un de l’altro insolla»). Ci si tuffa poi, invece, quasi a risarcimento, in pagine «leggere e vaganti», le quali sembrano possedere l’aire e la naturalezza di chi ha deciso di spogliare il mantello delle troppe cose sapute e il peso degli scrupoli metodologici: pagine di pura letizia e ricche di movimenti di commedia serena, quali se ne incontrano, ad esempio, nel capitolo sulla fortuna settecentesca del poeta («Richiamare nel circolo dell’intelligenza europea, come il Romanticismo si apprestava a fare, le persone dei vecchi poeti ed opere immense […], sarebbe stato come far scendere in Piazza, dall’alto del frontone di San Pietro, le statue degli Apostoli: Voltaire e Benedetto XIV lo sapevano […]. Le smanie shakespeariane dilatate sulla faccia della terra, e la gigantomachia dantesca per dar la scalata al cielo, basta vietarle alla porta della ragionevole convivenza del genere umano: nerboruti valletti, il buon gusto e la buona creanza»);11 o nei rapidi schizzi dedicati a episodi di costume romantico, allorché la Commedia sale sulle tavole del teatro («E per cercare in qualche modo di contornare con una cornice di finzione scenica la recita dei versi, gli attori amavano travestirsi da Dante, con il lucco rosso e la corona d’alloro sulla faccia che il cerone e il nerofumo rendevano grifagna […]; e passeggiavano per il palco, declamavano i versi, fingendo di dettarli a uno scrivano, o di rimeditarli fra sé, o d’improvviso tonando»).12 Ancora: l’impegno domandato dallo stile interpretativo del maestro nasce anche dal suo caratteristico movimento di assedio verbale, un procedere a raggiera e per accumulo, modi posti in essere allo scopo di tentare da più parti l’oggetto dell’indagine; e sembra scialo, mentre il metodo deve venir piuttosto accostato a quello del compositore in musica, il quale arriva a notare l’accordo esatto sul pentagramma, dopo aver interrogato con insistenza e ripetutamente una larga parte della tastiera (e, si badi, la tastiera di Apollonio è la sua cultura, cosicché egli raggiunge la profondità cercandola, paradossalmente, nell’estensione: fascino e incanto, insomma, ma anche dura fatica del seguirlo). Debitamente caratteristica può sembrare, al riguardo di quanto appena affermato, l’analisi del canto di Pier delle Vigne, laddove l’atto interpretativo si sforza di definire la restituzione dantesca del personaggio e della sua storia, attraverso un grandinare di definizioni teatrali, come didascalie che segnano minutamente, di seguito, le svolte dell’episodio, ma non sembrano attingerne il nucleo, restando infatti nell’ambito di una verità generica e un po’ tuttodire: «tragedia», «cabaletta», «intermezzo di commedia», «farsa allegorica», «sarabanda», «ballo degli ardenti», «coro delle dignità cortigiane». In realtà, pur considerando esatta la X

lingua del teatro, appare ancora non ben precisata la scena da individuare, che è un’altra: ed ecco la via finalmente aperta da Apollonio, con le persone drammaturgiche dell’Anticristo e del secondo Pietro che appaiono nella Sacra Rappresentazione, non più collocata a svolgersi sul sagrato e sulla piazza cittadina, ma rovesciata in Inferno e ambientata nel bosco spettrale degli uomini-pianta. La parodia blasfema viene affidata al tema scritturale delle chiavi, If XIII, 5860: «Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo, e che le volsi, / serrando e diserrando […]»; dal quale tema procede assai preciso il commento dello studioso: «Il suo primo ingresso [Pier delle Vigne] lo fa in figura di primo apostolo (si sa, dalle cronache, quanto insistette la polemica politica nell’esaltare o nel deprimere questo secondo Pietro, che dichiarava agli uomini il messaggio di Federico, l’Anticristo: la “lite” che invase i secoli di ferro, immensa, trovò nel nome e nelle ambizioni blasfeme alimento»). Apollonio osserva e riusa più volte in termini esegetici l’intentio della sconsacrazione deformante, trovata da Dante nel canto dei suicidi e conclusa con la profezia terribile e macabra della ballade des pendus. Il poeta (e il critico lo rincalza) seguita dunque ad attestare, talvolta con esiti di assoluto virtuosismo linguistico, la fenomenologia di modi di esistenza inauditi e mai veduti, disposti a frangere i limiti di qualsiasi “credibile” di esperienza, un medesimo processo stravolgendo tutti i segni santi della città cristiana e dell’intero mondo creato. Il Trionfo della morte svolge, dunque, in Inferno, alcuni paradigmi del Credo cattolico, accostandovi però glosse di strazio osceno. Basti pensare alla pena degli indovini (If XX, 1-25), quando Dante pellegrino sembra sdoppiarsi dal se stesso poeta-inventore, commovendosi di fronte ai dannati con la testa retrorsa, obbligati a far cadere le lacrime nel «fesso delle natiche» (su cui il nuovo lettore: «Il canone cristiano e umanistico della persona umana, il rispetto della figura dell’uomo immagine di Dio, qui è contraddetto e deriso; ma il poeta non insorge con ira; sì s’accora […]. Piange lui pure, quasi sopraffatto dalla sua stessa invenzione, che irrideva il segno più nobile della pietà umana, le lacrime sul volto divino»).15 E alla pena degli indovini venga accostato subito lo strazio di Bertram dal Bornio (If XXVIII, 118-126);16 il quale ha la testa tagliata dal busto e cammina alzandola in alto, «a guisa di lanterna». Apollonio non manca di riconoscere il processo del contrappunto empio che forgia l’immagine del dannato, tramite uno scambio tra divino e diabolico: «Beltrame bestemmia […] il capovolgimento di ogni imitazione del Padre e del Figlio nella vita umana: il dogma dell’unità è qui atrocemente alluso: “[E]d eran due in uno ed uno in due: / com’esser può, quei sa che sì governa”».17 Da capo e di nuovo sul metodo. C’è sempre il problema ineludibile dell’inizio: se aprire con avvertenze di carattere generale o proporre subito degli esempi di lettura da cui dedurre con agio i principi che ordineranno l’interpretazione. Ci affideremo alla seconda via, mostrando subito la complessità dell’approccio di Apollonio, dal momento che, ad esempio immediato, lo splanamento di If I, 76-78, di una zona assai limitata di testo, quindi, coinvolge subito anche un problema di attribuzione, relativo, e non è davvero poco, alla costituzione XI

del catalogo dell’opera dantesca. Un problema maturato negli anni della Scuola storica, assai dibattuto fino a un trentennio fa e, al presente, quasi completamente rimosso, se pur certamente destinato a riaffiorare: una specie di numero periodico, insomma.18 Il maestro della Cattolica si arresta alla terzina citata, dopo che Virgilio, a seguire un’auto-presentazione da manuale («Il programma di una monografia, diresti: la vita, i tempi e l’opera»), esorta Dante «con elegante distacco»: «Ma tu perché ritorni a tanta noia? / perché non sali il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia?» Non sbagliamo, intanto, se troviamo qualche irritazione e fastidio nell’appunto dell’interprete: «L’ultima parola, “gioia”, riaccenna appena alle allegorie cortesi: nel gioco delle reminiscenze, ma più altrove, avrà una parte, e grande, il Roman de la Rose: non per nulla un pettegolezzo letterario gli appose un apocrifo Fiore, quasi a rinfacciare, con quell’osceno allegorismo della mondanità internazionale, la sua moralità cristiana e cittadina».19 Apollonio ottiene un risultato imprevisto: Virgilio non risulta ancora bene “in parte”, sembrerebbe, e ci viene proposto quale una figura manierata e abbastanza generica, mentre la rima noia : gioia non è ancora decisiva, al pari della prima pagina di un’opera aperta: può magari rimandarci all’indietro, all’enueg e al plazer di tradizione trobadorica, o prendere subito la consistenza originale del racconto della Commedia, con il significato di antitesi fra male e bene, ma anche coincidere, in avanti, con l’epitome del mondo tardo-feudale e della poesia cortese, con la noglia : zoglia del grande epos ferrarese di Boiardo, ormai in gran parte eccentrico a Dante20 (così come il «dilettoso monte», se si vuole, richiama troppo facilmente il topos del paradisus deliciarum,21 traguardando, perché no, fino al «porto del mondo», raggiunto dai due “peregrini” del Tasso, dopo la faticosa ascesa e dopo aver vinto il contrasto con le belve, Gerus. lib. XV, LXIII, 1-2: «Questo è il porto del mondo; e qui il ristoro / delle sue noie»).22 Apollonio avrebbe, dunque, portato, senza volerlo, carte in favore dell’ipotesi attribuzionistica continiana? Più probabilmente egli ci ha resi accorti dell’apertura e dell’oscillazione semantica del canto primo e di una materia non ancora posseduta dall’artefice con la lingua sua propria. L’explication du texte viene infatti subito sospinta da un’integrazione che la orienta esattamente (e, insieme, mostra la parzialità e la scarsa attendibilità di ogni sosta nell’analisi del frammento): «La terza di queste immagini, il Sole [dopo la Selva e il Monte], dichiara che il poeta si è avviato in altra direzione, che la parola in lui, più che accrescersi delle vecchie stratificazioni concettuali, ama aprir la ventura di nuovi sensi: canto di un mattino di primavera [If I, 37-40]: “Temp’era dal principio del mattino / e ’l sol montava ’n su con quelle stelle / ch’eran con lui quando l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle”». L’interpretazione dell’esordio all’intero poema, che è un po’ anche specimen e prova generale, alterna, come necessario, esercizi di lettura puntuali su parti ristrette, e accessus più articolati (uno per tutti, il lungo discorso sull’allegoria e sul polisenso), non sottraendosi neppure al dovere di dichiarare trascurabili questioni su cui si è esercitata una puntigliosità secolare o mostrandosi capace di recuperarle, spostandone il fulcro; e ad esempio luminoso porremo il tanto XII

dibattere sull’identità del Veltro che Apollonio non respinge, ed anzi riepiloga assai persuasivamente, ma cui sottopone ben altra sostanza, scrivendo che «[la parola del poeta] suona subito commossa intorno ai temi che davvero [egli] attende a far vivi: la comunione eucaristica dell’Eroe con la divinità una e trina (Sapienza e Amore e Virtute)».23 Ad altra riflessione ci guidano le pagine dedicate all’incanto della prima apparizione di Beatrice nel poema, dove Dante lavora, per così dire, su occasioni dantesche, riprese dalla Vita nova, con un preciso ricordo cavalcantiano (squisito, e però subito trasvalutato dal poeta maggiore: «In un boschetto trova’ pasturella, / più che la stella – bella, al mi’ parere»). Il ritratto della donna riceve un incremento di individuazione in un non lungo giro di terzine, sia mediante il dialogato partecipe con Virgilio, sia mutando dagli usus del giovanile Stilnovismo verso una nuova concretezza animata della persona («trepida di tanti e tanti ricordi», sottolinea Apollonio, aggiungendo: «e piange, mentre così ragiona»; per cui la donna beata: «gli occhi lucenti lacrimando volse»; e la poesia propizia una rinascita: Beatrice è tornata). Splendidamente narrata, poi, pensando giustamente a un episodio d’arte sacra, era già stata la processione delle investiture, il prologo in cielo sopra Dante smarrito nella selva, allorché un intervento del critico, esterno, ma coevo a questa Storia della «Commedia», raccomandava di guardare «allo squarcio allusivo delle donne celesti nel lembo estremo della pala d’altare, alte fra le nuvole luminose, che diventerà un modello tanto diffuso nella iconografia popolare della grazia ricevuta: “Poscia che tai tre donne benedette / curan di te ne la corte del cielo”».26 A seguire l’ex voto, Apollonio prospetta anche un originalissimo “coro senza parole” per il passaggio nel Limbo della «loda di Dio vera», allorché egli interpreta If II, 52-53 quale una specie di ysteron proteron; e scrive: «Sospesi significa (ed è il senso che meglio s’attaglia qui a Virgilio) assorti nella meraviglia dell’apparizione beata»; per cui, ubbidendo a questa nuova proposta, la scena di attesa e di stupore di fronte allo straordinario uccello del Paradiso, la donnaangelo, si propaga dal poeta latino a tutte le anime del Limbo, dai magnanimi del nobile castello agli infanti, dalle femmine ai viri.27 Sempre a proposito dei «sospesi», ma da un altro punto di applicazione, Apollonio pare anche rispondere, con un suggerimento ripetuto due volte entro poche righe, al quesito della salvezza dei pagani: «Il corteo di Cristo [del “possente / con segno di vittoria coronato”] era mosso e gagliardo; l’accolta degli “spiriti magni” è statica e solenne: si adatta alla immobilità di una vita sospesa, glorificata da quel sentore di gloria empirea che è la luce “ch’emisperio di tenebre vincia” [If IV, 69], pallida luce, che non è che un riflesso della luce empirea». Il maestro era stato ancora più esplicito nell’oralità del corso universitario, commentando If IV, 76-78: «E quelli a me: “L’onrata nominanza / che di lor suona su nella tua vita / grazia acquista nel ciel che sì li avanza”». Egli addizionava con sicurezza la fama e la grazia, concludendo: «Allora tutta la scenografia del nobile castello, tutto il suo apparato, viene a costituire una replica del Cielo Empireo, del Cielo senza tempo e senza luogo, dove tutte le XIII

dignità, tutte le opere dell’attività umana assistita dalla Grazia, trovano la loro foce e il loro coronamento. Così la trascendalità suprema ha anche nel mondo della gloria umana un riflesso, un’immagine, uno specchio».28 Abbiamo mantenuto fede, almeno così crediamo, all’intento propostoci, quello cioè di mostrare quanto gli interventi puntuali appartengano poi insieme a una sistematica generale dell’interpretazione. La prassi trova conferma anche conducendoci da qui molto più in alto, nei canti XXVII e XXVIII del Paradiso terrestre: e se abbiamo appena colto la capacità dello studioso di modulare su un ritratto unitario, notabile è anche la sicurezza grande di gusto e l’abilità di lavorare discriminando su quanto potrebbe sembrare la ripetizione, a breve distanza, di un analogo atto para-liturgico con la medesima officiante; mentre, le minori “beatrici” che introducono il poeta alla bellezza della natura edenica e ai riti della purificazione per acqua, Lia e Matelda, dunque, appaiono contigue ed assimilabili nella favola dell’agens, ma si diversificano nella mitopoiesi dell’auctor, pur essendo la seconda sempre riconoscibile, per più d’un tratto, nella figura sorella che la precede. Apollonio è ora domestico di Dante in modo ben singolare: lo studioso, quasi assistendo alla nascita della poesia e sciogliendo il mistero del poeta, individua, infatti, il momento originario del “trovare” e quello successivo del “derivare”, distinguendo tra l’invenzione assoluta che compete alla prima giovane della coppia e la «medietà aurea» che tocca alla successiva. Così per Lia, che è la polarità della poesia (Pg XXVII, 97-99: «[G]iovane e bella in sogno mi parea / donna vedere andar per una landa / cogliendo fiori; e cantando»), egli detta: «È il tema sorgivo, l’abbozzo che conserva dell’invenzione poetica tutta la commozione del primo apparire, la primordiale immagine pura» (e viene in mente quanto Heidegger diceva di alcuni libri e di alcuni scrittori biblici e cioè di una vicinanza delle loro parole/immagini all’origine, aurorali, trasparenti senza scorie alla res, di purezza assoluta).29 Apollonio precisa poi, coerentemente, che Matelda è invece quasi una nuova Proserpina ovidiana, dal momento che riassume in sé la polarità della letteratura: «Il ritratto di Matelda [è] un’applicazione sin troppo puntuale [dei modi del precedente]; la [sua] apparizione è celebrata col rito della parola: prelusa, introdotta, riassunta e decorata d’ogni ornamento di retorico discorso».30 Qualsiasi creduta limitazione della poesia di Dante esige, comunque, un’indispensabile avvertenza: «Un [inventore] di stile così prodigioso, [quale Dante], è eccellente, anche quando si adatta a procedimenti facili». Abbiamo fatto ricorso, per comodità, a una terminologia crociana, restando inteso come ci si muova sempre a livelli altissimi; e che noi non si saprebbe rinunciare a nessuno dei due quadri della danzatrice con i fiori, né a Lia, né a Matelda (né, insomma, al «ritratto», né al «ritrattino»). Apollonio aveva già proposto un’analoga introduzione all’intero Paradiso terrestre, come vicinanza della fantasia “nativa” e della fantasia “applicata”, e come continuità fra il poeta, rifattosi ingenuo, delle «stupende pastorali meridiana e notturna [del preludio]» e il poeta classicista del «vento astrale [della foresta], ma più calcolato e dedotto quest’ultimo». È continuo il nostro desiderio XIV

di compiere atti di sottrazione dalla gioielleria, o si dica cabinet des merveilles, di Apollonio; ma l’unico furto possibile si concreta naturalmente in una nuova citazione dall’opera dell’estroso e brillantissimo uomo; il quale, sempre nell’Eden, fa apparire e dileguare tra radure e quinte d’alberi, con tratto splendidamente romanzesco, la salonnière di un quadro settecentesco («Matelda che spiega l’origine del vento e dell’acqua non è commedia di un didascalismo che s’avventa ad ogni occasione, una specie di anticipato Niutonianismo per le dame»); e poi ci induce ad ammirare entro una grande pagina, magari un po’ in anticipo sul tempo storico, eppure con assai agevole pertinenza, un breve compendio illustrativo di segno botticelliano, di scuola o d’autore, secondo avverrà di fatto per l’edizione laurenziana commentata dal Landino («Come un pastore virgiliano e miltoniano […] può sedere sempre all’ombra e svelare verità arcane, così questa donna stilnovistica […] può dissertare dell’[origine delle perturbazioni della montagna santa], in una danza di gesti cristallini, sullo specchio dell’onda bruna di Lete»). Di grande qualità è, peraltro, tenuto conto della materies anfrattuosa, tutto il gruppo delle riflessioni critiche dedicate all’ultimo Purgatorio,31 che Apollonio definisce, iniziando, come appartenente al genere “trionfale”, benché lontanissimo da qualsivoglia proposito petrarchesco e meglio confrontabile con la complessità dei “misteri” di area francese: «I simboli del divino [confortano] la concretezza dell’esperienza umana», dice lo studioso, mentre la lunga sfilata, con tutti gli atti teatrali che la pausano, appare la sintesi di «cerimonie, muri, musiche, mimi, al giro millenario del rito del tempo». Egli non si arresta di fronte alla difficoltà del «groviglio di sensi e sovrasensi» del lungo e sorprendente spettacolo, cercando di distinguerne e caratterizzarne lo svolgersi, soprattutto con l’appoggiarsi a una metaforizzazione molto comune in quella cultura (mentre nella sua lettura ci sarà forse la memoria, almeno per l’avvio, del Sogno d’estate carducciano). Così egli scrive, prestandosi e prestandoci occhi familiari: «[Il referente] liturgico salva il narratore dal ridurre la visione a un divertissement letterario: si tratta, infatti, di libri sacri che prendon vita di simboli, del giuoco libresco di uno che s’addormenta in biblioteca […]. Comunque ricordanze di scuola, ora che dalla salita della montagna è uscito all’aperto di quel chiostro arboreo». Se non sfuggono all’uomo di palcoscenico né «l’arguzia un po’ fredda dei riscontri», né il «concettismo cincischiato», né il tratto complessivo di «commedia letteraria» e di «accademismo»; egli riesce in ogni caso ad accompagnare, passo dopo passo, le ardue metamorfosi attorno al tema della “guerra” grande fra Chiesa e Impero. Noi, senza seguirlo, ci rifugeremo in un particolare prezioso, ma non secondario, una specie di tenuto bordone musicale, che Apollonio rileva, quando Dante interpola un verso dell’Eneide – «Manibus o date lilia plenis» – nel saluto della domenica delle palme a Cristo, ora qui presente nella sua “figura”, Beatrice – «Benedictus qui venis [in nomine Domini]».32 Apollonio spreme ulteriore succo poetico dall’intarsio classico, e dalla minima aggiunta moderna, precisando storicamente una già acutissima notazione del commento di Momigliano; questa: «Dante ricorre a una frase di Virgilio […] che, interpolata da una o, acquista l’apparenza di un versetto di coro sacro»; alla quale il nuovo lettore aggiunge, con sicura efficacia: «[L’interpolazione] dell’o è quasi per una melodia alleluiatica». XV

Il ritratto drammatico e la poesia del ramo gemmato L’acquisto poetico che stacca la Commedia da tutte le opere volgari, poche, e dalle tante mediolatine che la precedono sta però, secondo lo studioso, nella scoperta del ritratto drammatico. Dante, spiega Apollonio, impara a studiare la sostanza creaturale non in una condizione di fermezza contemplativa, la quale approdi ad una composta resa di stile, ma nel dinamismo dell’azione: fare il poema della salvezza cristiana voleva dire, infatti, «vedere» (il verbo figurans per eccellenza della Commedia) l’uomo nella forma realizzata del giudizio finale, rendendo evidente (poetica dell’evidenza!) il mettersi in moto di ognuno e di tutti, e il giungere al proprio fine, nel campo di forze delineato da una vita operativa, tra il peccato e la grazia. Ricorreremo a un verso proverbiale di Mallarmé per una definizione perfetta di stato del personaggio dantesco: «Tel qu’en Lui-même enfin l’éternité le change», scrive il lirico;33 e noteremo, subito accanto, la quasi esatta coincidenza con il concetto auerbachiano di figura, destinato a catalizzare intorno a sé nel secondo dopoguerra tanta parte del dantismo italiano.34 L’oltretempo dell’autore francese ferma la parola e l’atto che vincono il tritume dei giorni, cogliendo la sostanza profonda, l’individuum che l’uomo ha deciso di essere e che lo conduce, quando egli entra «nel passo» di confine e si conferma in anima eterna; analogamente, nella tensione “figurale” istituita dal filologo ebreo-tedesco fra la storia e il regno perenne degli spiriti, il secondo cronotopo compie un lavoro di vaglio, portando in poesia il quantum di verità appartenente al primo, lasciandone cadere le sovrastrutture empiriche (allo stesso modo di Pd XXX, 91-3, se estendiamo a legge generale il caso particolarissimo della «gente stata sotto larve», la quale veste finalmente la «sembianza […] sua»). Come, dunque, l’opera maggiore di Dante appartiene all’apocalittica del Giudizio universale, essendo a pieno titolo de temporum fine comoedia, così il «ritratto drammatico» di Apollonio è il kairós, in ordine alla condanna o alla salvezza, che il poeta estrae, “narrativizzandolo”, dal chronos indifferenziato di ogni vita individuale. La tecnica del ritratto, abbozzata con Beatrice (eppure sembra già mantegnesco, se non addirittura leonardesco, e pronto ad erompere dalla cornice, il disegno a sanguigna di «Cesare armato con gli occhi grifagni»), attende di essere verificata con Francesca. I canti iniziali appartengono alle moltitudini; solo più avanti sarà il personaggio a emergere sulla folla, chiamando attorno a sé la vicenda e il suo cronotopo e dominandoli (Francesca, si diceva, poi Ciacco, Farinata, Pier delle Vigne, Ulisse, Ugolino: le grandi pagine monografiche di De Sanctis, se ci si pensa). Fino al canto quinto c’è incertezza, dal momento che il poeta non riesce a trovare chi sia in grado di diventare centro gravitazionale del racconto (e se è interessantissimo, certamente, il «vidi e conobbi» di If III, 59, quando «il poeta pare avviarsi di slancio a un modo di ritrattistica bene individuata»,35 frustranti riescono però l’arresto e il subito procedere oltre; del resto, anche il ritratto di Caronte, If III, 82-99, è «più circostanziato descrittivamente che suggerito drammaticamente, XVI

disperso nella sua fisiognomica enfatica e un po’ di maniera, più che colto “nella prospettiva di un moto in azione”»).36 Uno degli aspetti fondanti del ritratto drammatico diviene naturalmente il gesto, riassuntore di tutta una vita, di concretezza insieme somatica e semantica: «In Inferno [è] l’azione sorpresa in atto […], un’indicazione definitiva (il volo di Francesca, il procombere di Ciacco, l’ergersi di Farinata, il teschio di Beltrame del Bornio, alto come lanterna); [nell’Anti-Purgatorio] il gesto è accennato, e subito trattenuto: Casella che si trae avanti e, alla delusione di quel vano abbraccio, sorride; Manfredi che mostra una piaga a sommo il petto, “poi sorridendo disse”; e il gesto di Belacqua, che muove lo sguardo “su per la coscia”, e spinge al sorriso Dante» (la tecnica del ritratto conoscerà altri modi nel Purgatorio della pena e nell’Eden; fino a divenire più rara, con qualche importante eccezione, in Paradiso).37 Singolare, ma non poi troppo, che si arrivi ad una ulteriore definizione comprensiva di questa scoperta poetica di Dante, una delle sue maggiori, al parere di Apollonio, studiando un capitolo della fortuna della Commedia. È infatti Boccaccio che si mette alla sequela dantesca, per servire all’intenzione di porre in scena e raccontare la vacanza dalla stagione della peste in una villa del contado di Firenze (del resto, la novella degli amanti di Romagna del canto V di Inferno converrebbe perfettamente nella Giornata decima del Decameron, certo risolta assai più pateticamente dal narratore in prosa, senza l’assoluto di delitto e castigo, e nel tempo-spazio della fenomenologia misurata, non nell’aldilà senza fine del poema, Pd XXV, 1-2, «al quale han posto mano e cielo e terra»). «Con [Boccaccio]»,38 constata Apollonio, «è […] acquisito il canone dantesco del ritratto che crea e determina la situazione drammatica […], la potenza del proiettare un personaggio ad un’azione, rivelandolo così per quel che è […], la capacità a osservare la realtà in quanto avviata e conformata da un ritmo di carattere». Qualsiasi lettura integrale della Commedia è, come noto e come d’obbligo, attesa al paragone con Francesca; con la quale inizia, abbiamo appena anticipato, la galleria dei ritratti drammatici. Per introdurla si ha uno schema nomenclatorio, il catalogo dei personaggi illustri dell’erotica classica e romanza; che peraltro s’interrompe ex abrupto su un nome proverbiale, se mai altri, quello di Tristano, mentre non sono nuovi re e dame d’antan quelli che si annunciano con urgenza, ma qualcosa di più attuale, la storia di un’anima dell’età di Dante. Progressivamente il poeta ci situerà ancora maggiormente nel vivo, non soltanto in una zona appunto contemporanea, italiana, e cronachistica, ma in una corte da lui stesso frequentata, quella dei Malatesta di Rimini (mentre, di pari passo il personaggio raccoglierà attorno a sé indicazioni precise della sua geografia, If V, 97-99: il delta del Po e il mare in cui il fiume sfocia). Il poeta esplora la realtà di peccato che determina gli «argomenti umani» di una vicenda cortese; e il suo lettore critico commenta: «Solo così [Dante] giunge a liberarsi del tema dell’amore […]: con un ritratto drammatico, la storia tragica di una morte, un giudizio espresso circostanziando l’estrema avventura d’una vita». XVII

Contini, per citare l’interpretazione divenuta paradigmatica, a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, ha avvicinato, con impeccabile pertinenza, la peccatrice lussuriosa di Dante ad Emma Bovary, nella condivisa attitudine di «lettrici di provincia»;39 Apollonio aveva già visto il problema, ma vi aveva aggiunto subito una preoccupazione pratica, annotando: «Si tratta di condannare i romanzi cavallereschi, [poiché] “galeotto fu il libro e chi lo scrisse”: si tratta di leggere dietro gli orpelli della galanteria cortese la sostanza del peccato». Dante “missionario” attende sempre «ad accertare le responsabilità morali del costume», in ragione di cui il motivo pedagogico, per così dire, viene tenuto a guidare l’intera esegesi, sollecitando, ad esempio, l’attenzione a due salienti acuti, in negativo, della vicenda, «il vanto dell’unione eterna» e «il piacere della vendetta» (ma l’orgoglio senza pentimento e lo spirito immisericorde fanno anche parte della grandezza noire del personaggio, della fedeltà per sempre alla sua «passione funesta»).40 Apollonio è persuasivo non tanto nel rifiutare ogni possibile romanzatura41 che sia venuta a colmare il silenzio sospeso di Dante («quel giorno più non vi leggemmo avante»), quanto piuttosto nel sigillo di descensus irrevocabile che vi pone: «Il primo bacio ha in sé ogni caso ulteriore: sapore di morte e di peccato»; ma ancora più singolare egli si mostra nella lettura di fine canto, e perentorio: «Il giudizio sacrale sull’anima non deflette in nulla dal suo rigore, accentuato dalla debolezza sentimentale di Dante e di Paolo: due complici». Qualcosa di analogo veniva, del resto, già detto dallo studioso, ad avvio di lettura, nel mostrare gli impigli e le impurità della tradizione di ars amandi e di sensualità profana persistenti entro i manifesti spiritualistici delle nuove rime: «[Dante] incomincia dal tema memorando del “Savio” […]: “Al cor gentil rempaira sempre amore”: se Guinizelli segnava il termine di un processo di affinamento e di purificazione, il suo stesso dettato è risospinto ad essere inizio di una storia di morte, anziché di vita, di Inferno anziché di Paradiso». Eppure… eppure bisogna dar ragione del prodigio del vento che tace, della trasfigurazione degli amanti in colombe, della quasi preghiera di Francesca («Se fosse amico il re de l’universo»), del vasto paesaggio fluviale riassunto nella parola della «pace» (anche il Po e i suoi affluenti vengono accompagnati nella fatica dell’andare e nel riposo dell’approdo al mare: un altro tratto non sufficientemente osservato della “cordialità” larga di Francesca). Bisogna dar ragione, in una parola, del quanto di ‘dolcezza’ e di ‘gentilezza’ che abita l’episodio, sia pure attraversato dalla vena luttuosa della morte violenta e in stato di peccato e per entro il mugghiare della «briga» incessante, rigettando una volta per tutte la misinterpretazione di origine romantica, la quale tiene aperto il divario fra Dante teologo che condanna e Dante uomo che assolve (un errore critico che non manca di ripresentarsi anche nel Novecento e successivamente). Apollonio pone la propria lettura complessiva nella chiave dello spiegarsi diffusivo di un fenomeno formatore, descritto da Stendhal in De l’amour, 1822.42 La spiegazione del maestro della Cattolica di Milano si integra e conclude – ed è prospettiva critica assai innovativa, ma perfettamente motivata - con il sogno della Femmina Balba (Pg XIX, 1-33), il quale giustificherebbe, ad evidenza didascalica, XVIII

e quasi dimostrerebbe tecnicamente, à rebours, i modi che presiedono al formarsi della coppia di amanti di If V (e, più nello specifico, alla nascita del personaggio di Francesca). Ci pare così di essere ammessi nell’ergasterion di Dante, camera di palazzo o di castello, in concreto, o cella di monastero e di convento che fosse, e di assistere alle sue operazioni di alchimista grande, qualora traguardiamo al processo di nuova fioritura di ogni immagine che venga chiamata ad entrare «nell’alone del [suo] sguardo»; e, dunque, teniamo in evidenza, anche per Dante, il passaggio/paesaggio dalla figura del legno spoglio alla conversione nella figura del legno gemmato: un’esperienza di metamorfosi cui Stendhal, l’Andrea Cappellano di primo Ottocento, s’affida per raccontare la storia poetica di Eros e che Apollonio rintraccia nell’episodio celeberrimo del poema. Si tratta, in effetti, di un mito generativo: d’inverno, narra l’autore romantico, le ragazze di Salisburgo raccolgono da terra grandi rami d’albero, ormai secchi, con i loro rami minori e rametti, e biforcazioni e triforcazioni, depositandoli poi nel grembo della terra, entro gallerie di miniere di sale abbandonate; quando la primavera è matura, le medesime ragazze tornano a riprenderli ed essi sono come contesti di gemme luminose: i cristalli di sale hanno aderito ai rami e hanno fatto nascere altrettanti complessi e appariscenti gioielli. L’analogo avviene della poesia: gli innamorati e il loro mondo, trasportati dalla dimensione degli accadimenti empirici nell’assoluto dell’inventio letteraria, entrano in un processo di nuovo stato della materia, appunto, che li muta da se stessi e li esalta, non solo considerati singolarmente, ma anche nel quadro di ciò che li circonda (tutti i tempi, in tal modo, convergono agevolmente e sempre nella «gioia» della «stagion che il mondo foglia e fiora»). Secondo Apollonio è un fenomeno di questo tipo che presiede alla nascita del canto di Paolo e Francesca e delle «donne antiche» e dei «cavalieri» (pur restando sempre incombenti «l’aura nera che li castiga» e l’urlìo perpetuo dei venti come su un mare in tempesta. E però quasi meno importa, al momento, che si tratti di un comune adulterio e di un truce delitto cortigiano: Dante poietés lo ingemma e lo attornia di figure e di fatti a loro volta ingemmati). Non solo: anche il lettore e la lettura vengono attratti nella medesima esperienza e ad essa collaborano, potendo persino farsi, in qualche modo, alleati del poeta nell’estrarre la favola riminese dal corteo doloroso degli amanti, dando a due delle «mille ombre» una vita individuata.43 Per concludere il proprio percorso esegetico Apollonio guarda comunque, secondo si anticipava, alla «figura d’alta scuola» costituita dalla Femmina Balba, perché si tratta di un altro capitolo di storia della seduzione, del farsi e del disfarsi a vista della «cristallizzazione amorosa», tramite un anti-canone costruito rovesciando le lodi di madonna nel loro contrario: come se il ramo di Stendhal venisse mostrato nella sua realtà d’origine morta e spenta, squallida, in sostanza, e poi fatto rinascere e rivivere nel processo di gemmazione sopra descritto e infine, di nuovo, abbattuto a terra, tornato da monile un resto di ramaglia disseccata, prima che le ragazze-muse lo raccolgano per deporlo, ancora una volta, nella coscienza o nell’inconscio del poeta (le mines di Salisburgo possono ben accettare questa rilettura simbolica). Al complesso e al significato ultimi XIX

dell’operazione ci conduce del resto, esplicitamente, lo stesso scrittore d’oltralpe: «Ce que j’appelle cristallisation c’est l’operation de l’esprit qui tire de tout ce qui se présente la découverte que l’objet aimé a des nouvelles perfections». Essa, la Femmina, appare in sogno a Dante, quale persona di finzione che introduce all’ultima parte del Purgatorio, dove si espiano i peccati di incontinenza.45 A far da cornice al quadro il poeta costruisce una specie di preludio astrologico; quando, nel freddo, che è insieme del nostro pianeta, della Luna, di Saturno, compare, 58, l’«antica strega»: balbuziente, strabica, con i piedi storti, le mani rattrappite, il colorito malsano (e poi, alla fine della scena, avvolta da cattivo odore). Dante “cristallizza”, opera liricamente una metamorfosi amorosa: «Io la mirava», 10, dice lo scrittore, e la sua affabulazione poietica (la lente dell’amore, goethianamente, l’Augenglas del noto sonetto: «Ich sehe heut durchs Augenglas der Liebe») agisce come il caldo del sole che, rianimando la terra, nello stesso tempo scioglie la lingua legata del personaggio, restituisce bellezza agli occhi «guerci», raddrizza il corpo prima apparso così sbilenco, dipingendo da ultimo il volto scialbo con il colore della perla. La Femmina canta, ed è il canto dell’amore e della morte, il canto della sirena, 19-21: «Io son», cantava, «io son dolce serena / che i marinari in mezzo mar dismago; / tanto son di piacer a sentir piena» (si trattengano ad evidenza i lemmi della dolcezza e del piacere; mentre la ripresa, quasi una messa in voce: «Io son […] Io son», indica esitazione e incertezza che poi divengono canto sonoro: come se la parola e l’accento passassero attraverso il medesimo processo di trasformazione estetica del corpo). Quasi all’istante si manifesta, accanto a Dante, 26, una «donna santa e presta», la quale strappa le vesti della femminasirena, e libera, rendendolo intensamente percepibile, il «puzzo» che le esce dal ventre-sesso, 33. Dante torna di nuovo presente a se stesso, destato dal torpore: nell’apologo sognato l’immagine del femminile vizioso è stata mostrata e vinta dall’immagine del femminile virtuoso (e dall’Inferno ci siamo condotti in Purgatorio, mentre la «donna santa e presta» va senz’altro ricondotta a una delle tre donne di Paradiso che vegliano sul poeta, le stesse di cui abbiamo avuto notizia da Virgilio tanto prima: Maria, Lucia, Beatrice; cosicché il breve episodio può, in ultima analisi, venir accolto nella stessa poesia dell’ex voto, là trovata). Apollonio aveva inteso con precisione il carattere di exemplum della «Femmina balba», disposto a una svolta dell’itinerario di penitenza: «Il poeta fa cammino a ritroso, piegando verso dilettazioni sensuali la stessa elevazione spiritualistica del suo primo poetare. L’“intento” lavora insomma a rovescio; e il miracolo della vita dello spirito si esercita in una mediocre operazione d’inganno per un abbaglio consentito […]. La poesia […] ha due volti: rivelazione della verità […], ma anche maschera della realtà». D’altra parte, commenta di nuovo Apollonio, per purificarsi in tutto dagli attraits dell’amor sensuale, Dante dovrà attraversare la cortina di fiamme dell’ultima stazione di Purgatorio e ricevere il congedo di Arnaut Daniel. Francesca ritrova se stessa, concludendo, come in suo parziale doppio spirituale, nell’agiografia amorosa di Piccarda fiorentina, nelle sue bellezza e bontà, XX

nel «piacer dello Spirito Santo», nella pace della volontà delle anime in Diomare, mentre l’ipotesi del dittico fra la familiaris e concittadina del poeta e la “signora” di un’altra terra prende conferma dal medesimo stile dell’inchiesta dantesca (che è anche nella giovane suora una delle ultime apparizioni dei modi del ritratto drammatico: la beata e il poeta trascendono così la prossimità della loro amicizia terrena, trasfigurandola nelle linee spirituali della scena in cielo, tra quinte fatte di luce). La nobildonna romagnola era peraltro già stata riascoltata da Apollonio nell’Anti-Purgatorio, prima nel “ritratto d’artista” che Dante dedica a Casella («l’obbedienza dell’[anima] alle ispirazioni naturali della vita ha la levità volante e commossa di Francesca, ma non gravata dal peso della passione») e poi nel quadro del «gentile» Manfredi, con la similitudine dei colombi (mentre nuovamente di Francesca si parlerà nella contigua area purgatoriale, a proposito di Jacopo del Cassero e di Pia de’ Tolomei).47 Sono queste, ed altre che non cito, tutte concordanze segnalate dall’autore del Dante, beninteso: da più parti si rendono, dunque, visibili, le ragioni seminali di cui è gravido il V di Inferno. Lo studioso ha messo in gioco molto, fra il realismo della cronaca di provincia e l’irrealismo della fiaba della strega,48 fino alla santità degli «specchiati sembianti» del cielo della Luna, tenendo sempre in qualità di filo conduttore il primo personaggio della Commedia, Francesca. Si tratta di una linea di lettura complessa, e del cammino in progress da una damnata Beatrix ad una beata Beatrix (dal «disiato riso» alle innumerevoli variazioni sul riso sempre più raggiante della «benedetta», fino al congedo di Pd XXXI, 92-93: «[S]orrise e riguardommi; / poi si tornò a l’etterna fontana»). Una linea di lettura, questa di Apollonio, estranea alla storia della fortuna del canto V, e non entrata nel discorso critico corrente;49 andava perciò riproposta. «Tutto è in attesa di Farinata», annuncia la nuova pagina critica, perché la somma dei temi toccati dopo Francesca prenda corpo e anima in un nuovo ritratto drammatico. Accetteremo dallo studioso, giunti al canto X dell’Inferno,50 la prima indicazione, “costumistica”, ancora di stampo castellano, del dialogo tra i due fiorentini in forma di un duello cavalleresco, con i colpi annunciati; e la seconda indicazione, figurativa, dell’immagine sculturale in cui si riassumono ed esprimono l’amor di patria e l’amor di padre, l’uomo gagliardamente eretto, mentre sembra «ombra» solo quella che gli sorge accanto, ed è invece l’uomo in ginocchio: entrambi dentro lo spazio calcolato, una prigione, della tomba infuocata (un «gruppo da cui tanto apprese il linguaggio fiorentino e toscano della statuaria monumentale»); e ancora più, facendo nostro il suggerimento del Dante, accoglieremo nella memoria il verso di Farinata che ne trattiene uno precedente di Francesca: «È il secondo eroe che, accettando la condanna, libera la sua umanità finita a paragone di Dio, di cui si ricorda (If X, 102: “Cotanto ancor ne splende il sommo duce”)». Ravvisiamo qui un barlume della presenza del Creatore che torna ad affiorare talvolta in questo regno dell’aversio a Deo; e Apollonio lo ritrova persino XXI

nel più profondo, in Ugolino: per portarsi al quale bisogna però attraversare la «selva spessa» delle interpretazioni.51 Esclusi dal personaggio, per cominciare, il gesto e il fatto della tecnofagia in questa che è pure, correttamente e non solo genericamente, una «elisabettiana tragedia di orrori» (il ricordo instante di Apollonio, storico del teatro, guarda infatti molto probabilmente a ciò che avverrà nel Riccardo III di Shakespeare, agli adolescenti soffocati a morte nella Torre di Londra), allontanato, insomma, «quel prolungarsi in penombra del tema […] assurdo e pure sempre presente […] che la tragedia finisca con il Conte che divora i suoi figli», Apollonio spiega il perché tale soluzione sia potuta piacere al «decadentismo romantico», e lo narra in lingua di Chiesa, ricorrendo alla mimesi, insolita e audace, di un grande inno eucaristico, l’Adoro te devote: «[È] la storia del Pellicano sacro rovesciata, appunto, e un capovolgimento perverso: divorare i figli che non ha potuto salvare». Appartiene alla grandezza maggiore, senza meno, di questo lettore d’eccezione l’annotazione che segue, dedicata all’«offerta sacrificale dei figli» («Il coro giovinetto prende abbaglio all’atto, “ambo le mani per dolor mi morsi”, e sorge in piedi e intona l’offerta sacrificale. Chi ha dato loro la vita, ecco la riprenda: “Tu ne vestisti / queste misere carni, e tu le spoglia”»). Apollonio sottolinea debitamente, ricordando «il lamento di Giobbe sui figli morti, il proverbiale “Deus dedit, Deus abstulit”»; e se fin qui sono giunti in molti, commentando, è solum del maestro della Cattolica la pur breve parentetica: «Un gesto materno», egli scrive, donandoci un’illuminazione assoluta, un colore che non era mai stato visto, un timbro che non era mai stato sentito dai tanti e tanti chinatisi sulle notissime pagine (il De Sanctis più famoso aveva celebrato la paternità di Ugolino: in modo antonomastico per quasi un secolo, ma si trattava pur sempre della linea meglio visibile). E se così «il vecchio uomo di parte, selvaggio, e violento e bestiale» riceve qui dalle parole dei figli anche il dono della “cura” e dell’intimità femminile (mentre non sarà davvero necessario ricordare che è gesto abituale della madre spogliare i figli piccoli, alla sera, per metterli a letto, e rivestirli alla mattina, una volta destati); non si dimentichi, peraltro, come già nella fantasia onirica della caccia fosse stato intravisto da Apollonio lo stesso nodo singolare di affetti, la stessa, se possibile, domesticità: «In quel sogno il conte Ugolino vede se stesso come lupo con i suoi lupicini (l’immagine ha una tenerezza straordinaria, qualora si tenga conto che il lupo è un animale sanguinario; mentre è evidentissima la trasparenza dei simboli fiabeschi)».52 «Tenerezza» di Ugolino, dunque, subito negata; la lettura perfetta attende infatti la sua conclusione alla fine del monologo del dannato: il podestà guelfo, uomo di crucci e di risse, ma anche amoroso paterfamilias, aveva sollevato la testa dal cranio che rodeva, per dare sfogo al proprio pietoso racconto di lacrime e sangue. Gli era stato concesso; e però, se anche «la pena [è stata] ancora una volta, come per Francesca e per un attimo, sospesa […], non [un] barlume di preghiera alita in quest’ira sozza: Ugolino torna alla catena della sua vendetta». I primi due ritratti di persona vengono parzialmente ricordati negli ultimi: Apollonio ritrova e riconosce tracce di Francesca e di Farinata rispettivamente in Ugolino e in Lucifero. Nel capitaneus pisano Dante sembra, dunque, ramXXII

mentarsi del primo «ritratto di creatura» e, anzi, si volge ancora più indietro, dal momento che il «rosario dei traditori politici – Buoso da Dovara, Tesauro di Beccheria, Gianni del Soldaniere, Gano di Maganza, Tebaldello dei Zambrasi –» rimanda, formalmente, alla processione degli «spiriti magni» del Limbo e, più, alla sfilata degli eroi amorosi, davanti a Paolo e Francesca; mentre, come già allora, solo dopo il «corteggio», che questa volta è dei dannati del più basso Inferno, «prorompe [la parlata] immortale». E se il «vermo reo» appare invece solo una «montagna di materia torpida», il poeta lo lavora però virtuosisticamente, e il critico lo raddoppia, per un conclusivo esempio di note tenute – ma è sempre troppo poco dire – lungo tutto l’Inferno, e portate qui a morire: «La suggestione precipite delle tre Bestie si spenge in quelle tre Facce, la superbia negatrice di Farinata si addormenta gelida e tetra in quel mostro che “da mezzo il petto uscìa fuor della ghiaccia”».53

L’anti-mondo di Dante Conviene riprendere le fila e mettersi di nuovo sulla traccia degli uomini-pianta e degli uomini-serpe, degli altri dannati «mirabilmente travolti», di Bertram dal Bornio, con il capo spiccato dal busto e sospeso in alto, e di Maometto che si «dilacc[a]». Ne avevamo anticipato, per toccare di un aspetto della lettura di Apollonio, ma ora riprendiamo organicamente l’indicazione principale di Dante nella prima cantica, il processo del discendere. Per arrivare ad Ugolino si sono appalesate agli occhi del poeta, sempre più vicine – fino a quando non vi muove i suoi passi, e ne è dentro –, le immagini della città di Dite, contrappunto e complemento, e capovolgimento, della propria città terrena, Firenze, e delle altre città a lei legate. Le bolge del cerchio ottavo varranno allora quali calchi di fondazioni delle cinte murarie urbane (e quindi anche avanzi di una “ruina” di natura o di un “guasto” di guerra che abbiano abbattuto gli “alzati” fino al sottosuolo), così come il pozzo di Lucifero, che contiene il cerchio nono e ultimo, ripeterà «l’immagine rovesciata di un castello, sorvegliato intorno intorno dalle alte torri [i giganti]». Acquisteranno qualità perverse e distorte, e, di nuovo, capovolte, ma tuttavia ben riconoscibili nella bellezza-bontà originaria, anche il piano e il colle, il bosco e il fiume, le fiere e gli uomini-bestia, così come tutti i paesaggi di natura contermini ai luoghi abitati dagli spiriti dannati, e, analogamente agli spiriti, partecipi del peccato e della pena, come proiezioni e stati d’animo o, direttamente, quali strumenti di dolore. Il mondo alla rovescia richiama oggi, immediatamente, gli studi di Bachtin, ma solo di rado l’Inferno di Dante accede anche al passaggio successivo, quello della carnevalizzazione euforica, dal momento che non c’è mai vera e piena liberazione nel risus, ma solo la parodia, che aggrava la pena, e il sarcasmo senza pietà. Conosciamo, però, almeno un’eccezione spiccata allorché il poeta, secondo Apollonio, si attrezza, mutando radicalmente il suo modo di formare, facendo XXIII

«terminare in commedia grottesca e in azione non più di persone umane, ma di maschere, la rappresentazione di Malebolge» (eppure, quand’anche accettiamo l’esattezza dell’accessus di questo lettore eccezionalmente colto, rimangono in noi delle perplessità sulla specifica esecuzione critica delle pagine dedicate alle figure ultime della «perduta gente»). Il maestro della Cattolica circonda di innumerevoli segnali musicali e teatrali, è appunto questa l’eccezione, la propria interpretazione dei personaggi che hanno dimora e castigo nello «spedale» dei falsari; ed è senz’altro lecito dire che, seguendo quest’idea di Dante, la penna dello studioso venga stimolata a un pezzo di bravura se, a proposito di due che tremano di febbre, Griffolino d’Arezzo e Albero da Siena, gran signori in vita di una «brigata spendereccia», egli può parlare di «commediola magica e furfantesca» e, immediatamente a seguire, ci invita a un concerto, leggendo musicalmente il “divertimento! apprestato, a suo parere, dal poeta con i personaggi in questione (ma il tripudio di note sembra un po’ sfuggito di mano al critico: «Da settimino – egli postilla – o da serenata mozartiana, quella con gli strumenti a fiato stonati […], [da] Zauberlehrlin»).55 Di nuovo, a seguire, per la “cabaletta” dell’idropico Mastro Adamo, Apollonio discende lungo i secoli, e incontra il Rossini del Barbiere di Siviglia e incontra il Verdi del Falstaff; tanto dichiarando: «Non forse un interesse svagato tiene [Dante]? A ritrovarlo intero, diresti che abbiamo dovuto attendere l’ultima fase della commedia musicale italiana, fra la cabaletta di Figaro: “Tutti mi vogliono” e quella di Falstaff: “Quand’ero paggio [del duca di Norfolk / ero sottile, sottile, sottile]”». Certo, riflettiamo, come Boito appare senza dubbio intento a inzeppare preziosamente Dante nel suo ultimo libretto per il musicista bussetano, così esiste una possibile linea diretta fra il corpo-liuto di Mastro Adamo e l’«addomine» vistoso del «vecchio John» del librettista scapigliato, l’uno pieno degli umori putridi del suo male e l’altro gonfiato dall’acqua torbida del Tamigi. Ma non è tutto; anzi, dopo la rixa plebea e il contrasto giullaresco del falsario italiano con quello greco, Apollonio riannoda l’insieme dei fili, scrivendo nuovamente di musica: «Con un equilibrio perfetto di misura, il diverbio riassume tutti i temi fin qui toccati e chiude […]. Anche qui solo l’orchestra dell’opera comica italiana sarà capace di riunire con altrettanto perfetta cadenza e ritmo l’evidenza dei temi e il loro riassunto». Affascinante, non c’è da discutere; eppure in casi come questo ci vien fatto di pensare che la Storia della «Commedia» apra un sentiero molto, troppo fiorito, mentre la scrittura si fa autoreferenziale in eccesso. Lo stesso Apollonio, peraltro, sembrava avvertire la necessità di limitarsi e di proporzionare in maniera più sfumata: quando, prima di iniziare la propria performance, rinviava ad altro e diverso poetare, proponendoci di pensare a Manzoni e a Verga; e scrivendo: «A noi sovvengono esperienze di poetica realistica. Quando almeno il programma dell’impassibilità del vedere non si capovolse in una immensa pietà degli umili, cose e creature». È, comunque, proprio l’epilogo dell’episodio a restituirci la chiave esatta dell’intonazione, piuttosto difforme dalla pagina di Apollonio: anche il «saggio» poeta dell’Eneide trova infatti necessario sollevare di peso, «con ira», il suo pupillo, il quale sta osservando in preda a evidente piacere e cedendo a un gusto grosso XXIV

(ma per Virgilio “morale” sarà «bassa voglia»), allorché restituisce, in lingua ora plebea ora preziosa, la lunga altercatio, il «piato» di botta e risposta, sia a gesti che a parole, tra il «monetiere» e lo «spergiuro», tra l’anglico fattosi bolognese e il soldato di Omero, If XXX, 130-132: «Ad ascoltarli er’io del tutto fisso, / quando ’l maestro mi disse: “Or pur mira, / che per poco con teco non mi risso”»; con l’altro che segue. Improvvisi da bordello o da taverna, insomma, e quasi una Beggar’s Opera, piuttosto che il lontano anticipo di una storia destinata a sbocciare pienamente nel melodramma buffo italiano. Tiene banco anche un ulteriore significato: che la “tragedìa”, quella alta, virgiliana, richiami la “comedìa” dantesca – e sarebbe richiamo metapoetico –, per trattenerla di qua dal plebescere.56 Perplessità analoghe, e anche maggiori, suscita una lettura di Purgatorio XIII, il canto dedicato a Sapìa sanese, accecata per scontare il peccato d’invidia, la cui parlata viene dal critico collocata alla pari, nella sua verbosità, con il compendio di teoria e storia dell’estetica che il superbo Oderisi, abitante della cornice sottostante, traccia, parlando a distesa di sé e dei colleghi delle diverse arti («quell’altro chiacchierone», lo chiama Apollonio). Lo studioso ci appare di statura fuori del comune, anche quando rischia l’arbitrio: se certamente vera, ad esempio, l’idea che in Sapìa si raggiunga una sostanziale unità di immagine, attraverso profili diversi (prima di «maestra dell’arte della conversazione», poi di «peccatrice ciarliera» e, infine, di «persona stupefatta ai prodigi»), la medesima idea ci appare poi vertiginosa, quando la penitente viene condotta al paragone del Portrait of a Lady di «T.S. Eliot, uno studioso dell’Alighieri»: la sutura fra l’antico e il moderno, pur consegnata a un autentico discepolato, continua ad apparirci non poco difficile. Pensando alla nobildonna senese, alla fila degli orbi che alzano la testa (e alla crudeltà assoluta della pena: le ciglia cucite con il fil di ferro, come quelle dello sparviero addestrato per la caccia), noi siamo invece soprattutto tratti a ricordare, ed è quasi immediato, le tele famose e commoventi di Bruegel il Vecchio e di Bosch; e dunque, se anche Apollonio intende esaltare i motivi della pena che si converte in gioia – perché le anime sanno di essere in viaggio e di aver già guadagnato il monte del perdono –, ciononostante la sorpresa per quanto egli scrive non riesce a tramutarsi in consenso pieno: «[L’anima di Sapìa] ciarlando si confessa; e determina quel giro di confidenze leggere dove Dante stesso si lascia prendere: “Odi s’io fui, com’io ti dico, folle, / già discendendo l’arco dei miei anni”. D’aver così folleggiato, non più giovane, stupisce; e lo chiama a testimonio, curiosa se lui pure sarà curioso, preso dal caso strano». Il critico, se è necessario indicare un limite, ed è necessario, ci appare come trascinato ad eccedere proprio dal suo culturalismo traboccante, allorché incornicia il proprio fraseggio tra una battuta lieve e sarcastica del Ballo in maschera (Atto secondo, finale della Scena unica): «Ve’ la tragedia mutò in commedia / e che baccano sul caso strano / e che commenti nella città») e l’aria celeberrima della Traviata (Atto I, Scena V: «Sempre libera degg’io / folleggiar di gioia in gioia»). Amelia e Violetta, le due eroine dell’opera romantica, sono invitate ad assistere alla lezione di Apollonio; la cui conclusione appare perfetta, solo se conXXV

veniamo nelle misure che egli propone al quadro: «Diresti che la bestemmia diventa chiacchiera, e il dramma dantesco goldoniana commedia» (ma abbiamo ripetutamente indicato perplessità non di dettaglio; almeno fino a quando non ci renderemo capaci di porre in secondo piano il gruppo degli altri penitenti per invidia e di saper cogliere appieno, quasi staccandola dal castigo che le tocca, la condizione dell’anima ormai salva della nobildonna di Siena, accrescendo e arricchendo, nello stesso atto di lettura, l’intimità possibile dell’uomo famoso del teatro veneziano del Settecento, un commediografo che viene tenuto per superficiale, e non è). Anche in questi due casi-limite si tratta però sempre di percorsi genealogici i quali corrono piuttosto paralleli che eccentrici al testo di Dante (e ben lontani, comunque, da ogni critica esclamativa o parafrastica; mentre non pare il caso di dispiacersi troppo se talvolta il nostro lettore spinge eccessivamente il gusto dell’analogia rara o sorprendente).

Mario il mago: contrappunto e legato Trasferendoci ora con Dante e Beatrice nel Paradiso degli spiriti contemplanti, riprendiamo a circostanziare attorno all’esperienza-epilogo di quella tecnica di costruzione del personaggio, il ritratto drammatico, che il critico ritiene, a ragione, e noi seguitiamo a ripeterne la nozione, tra i maggiori trovati di Dante: attorno a san Benedetto si effettua, dunque, il congedo dalla forma-ritratto (non definitivamente, perché ce ne saranno riprese), mentre Apollonio fa capo a quest’anima del cielo di Saturno, per raccogliere i modi più frequenti della mitopoiesi usata da Dante nel trattamento di dannati, penitenti, beati. Egli scrive, con eccellenti capacità di riconoscimento, proprio in ordine alle linee generali dell’inventio: [Questo di Benedetto] non è un episodio drammatico, cioè non procede alla designazione di un personaggio attraverso un dialogo, un’azione: tali modi sono della poetica della prima cantica; e nemmeno studia narrativamente il situarsi di un’anima in una cerchia fraterna e in un’atmosfera: che è la poetica della seconda. Concordemente ai modi della terza, dove l’anima si fa lettore di un sermone, o diacono di un annuncio evangelico, o cerimoniere di un’officiatura liturgica, e talvolta panegirista e talvolta predicatore, hai qui la storia di san Benedetto e dell’Ordine, introdotto come riassunto di tutti quei modi: un episodio parafrastico, insomma, quasi le ultime raccomandazioni pressanti di un commiato.58

Esemplificheremo, allora, lungo il compendio per elenco, dettato da Apollonio, accentuando metonimicamente ora un aspetto ora l’altro nella gerarchia e nei ruoli dei beati (o indicando attanti perfettamente riempiti dal personaggio): e a Beatrice ricondurremo per intero la prima funzione, per cui la donna del saluto non va fatta troppo sostare presso «l’invadente colloquialismo» cui pare indulgere, e neppure chiusa in una dimensione di «simbolo [o] di scienza XXVI

e sapienza allegorizzata in figura», ma piuttosto accolta «come creatura […], come lettrice di una verità cui assiste e disvela per l’esistenza del suo beato esse»; mentre bisogna ricorrere a Giustiniano e a Romeo da Villanova per la fine o la trasfigurazione del Leitmotiv umanistico dell’eroe, prevalente nelle altre cantiche e, ancor più, per apprendere come «la politica, di storia d’uomo diventi provvidenza dello Spirito Santo». Se l’epos e l’agiografia, dunque, possono condurre, e di fatto conducono, eguale cammino (quella di Dante è ancora, del resto, la medesima civiltà che scolpisce i paladini Ulivieri e Orlando, santi-eroi e antemurali della fede, su un fianco della cattedrale di Modena); esemplare riesce allora, al riguardo, il canto VI (di Paradiso, appunto), con il suo racconto “a volo” e ridotto in linee essenziali, dove il personaggio eminente, «che fu Cesare», retrocede se stesso, quando narra, a semplice historicus ed epitomatore; e, quando agisce, ad ancor più modesto prestatore d’opera: entrambe le prassi addette al servizio di una costruzione storico-politica arcanamente disegnata (Apollonio commenta infatti il passare «di mano in mano» della dignità massima e del dominio della terra alla stregua di un «peso trasmesso in una catena di operai», quasi per la fabbrica di una cattedrale, dove il nome degli artefici viene diminuito, o affatto taciuto, a gloria di Dio). La difficoltà formale era evidentemente di compositio; una difficoltà che Dante risolve, accogliendo lo sviluppo continuo della colonna trionfale romana, ma ridisponendolo: le res gestae appaiono ancora di seguito, ma come in un testo di Chiesa, marmoreo o bronzeo, costituito da una lastra lavorata a bassorilievo che corre lungo i quattro lati dell’altare o lungo i fianchi del basamento disposto a sostenere l’ambone, mentre centrale campisce l’immagine maggiore dell’aquila, non più vessillo imperiale, ma «uccel di Dio», il quale «allarga le ali a contenere lo spazio [del mondo che ha corso] e minuscoli, uno per parte, stanno, a guisa di offeritori, Giustiniano e Dante, in figura di Romeo». Attribuiremo invece a san Tommaso e a san Bonaventura, per completare la serie, i modi del panegirista e del predicatore (tenendo presente che, secondo premessa, abbiamo ridisciolto quanto, invece, è piuttosto sfaccettato e appartiene a ogni beato).59 Una curvatura di tipo figurativo possiedono anche i canti dedicati a Cacciaguida, nei quali la ricostruzione del critico vede prevalere sullo stemma del capostipite di una gens l’immagine del guerriero crociato e martire, mentre le cronache cittadine appaiono sempre misurate dal tempo del giorno, scandito mediante il suono delle campane, suono con cui si apre, appunto, la rapsodia di «Firenze antica» in Paradiso. Ancora epos e agiografia, insomma: ma il vaglio del nuovo lettore, di Apollonio, intendo, lascia cadere tanto gli elementi polemici quanto quelli pittoreschi, cui pure non manca di dare ospitalità (ed esemplare continua ad apparirci, in tal senso, una pittura d’interni, quando la madre dell’avo fondatore veglia «a studio della culla», raccontando «le meravigliose favole di un’antichità remota, quasi assonnando nel verso»). Se non esiste dubbio possibile che i racconti per addormentare i bambini non abbiano avuto, quale contenuto, «[le favole] / d’i Troiani, di Fiesole e di Roma», il critico si lascia però prendere dalla ricostruzione dantesca XXVII

del tempo, dal modo “lontanante” che il lettore a venire chiamerà vichiano; e vi insiste: «Quel favolar remoto della donna, quasi una Parca, che in una cerchia muta fila e conta»; dove la suggestività della glossa esegetica poggia su un andante incantatorio, quasi il distico frammentario di una canzone, due endecasillabi e, frammezzo, un quinario, restituendo all’ascolto un’evidente eco stilistica dal testo di Dante; e il tentativo di far proprio il “poetico”, comunicandolo attraverso la mimesi. Proprio ora, del resto, lo studioso sembra porsi soprattutto in ascolto, notando ed esponendo suggestivi prelievi ritmici dal testo del poeta: «Quanta confidenza nell’andante giambico [del] presagio: “Quando sarai dinanzi al dolce raggio / di quella il cui bell’occhio tutto vede”! e quanta solennità severa nel largo dattilico della rievocazione […]: “Mentre ch’i’ era a Virgilio congiunto / su per lo monte che l’anime cura / e discendendo nel mondo defunto”». Anche in questa circostanza, peraltro, e pur accettate le puntuali osservazioni del metricista, Dante si riconferma, in ultima istanza, un visivo, inducendo nelle pagine di Apollonio il ricordo delle confraternite di due secoli, il Duecento e il Trecento, e delle pale d’altare dedicate dei loro pittori, cosicché al complesso impianto figurativo delle pagine del terzetto di canti su soggetto di famiglia, allargato all’intera città di Firenze, viene sottoposta la didascalia riassuntiva di Veglia della Madonna e Sogno del cavaliere. Apollonio usa la designazione che sarà parzialmente di un giovane Raffaello; e raggentilisce in maniera non consueta il gruppo dei canti: «Dunque, come l’immagine del cavaliere di Cristo trasumana il ritratto di Cacciaguida, [così] quell’onda di campane di Badia e quella preghiera trasfigura[no] la città: “persona di città”, quasi fra due santi protettori, la Vergine e il Cavaliere. Scogli di cronaca e di peccato sormontano nella fascia ondante della pittura, che riecheggia in luce il ritmo delle campane […].Veglia della Madonna e Sogno del Cavaliere». Spesso, leggendo questo Dante, ci è capitato di ammirare la capacità di Apollonio nel distinguere (e legare, intrecciati come sono) i livelli che pongono confine ed ordine ad una materia narrativa quasi sempre estremamente mossa e piena di sorprese, di azioni e di attori, senza che egli si trattenga ed indugi troppo dietro particolari preziosi, che pur coglie, o appesantisca in eccesso gli elementi portanti, che pur ricevono la solidità necessaria. Si pensi alla lunga e complessa drammaturgia, un autentico pandaemonium, che si stende fra il congedo da Ciacco e l’ingresso nelle mura poste a cerchiare il regno più intimo di Dite, dove prodigiosa è la maestria di contrappunto di Dante e ammirevole l’ingegno del critico nel seguire il poeta: fra la città dei dannati (difesa dalla magia funesta delle Erinni e dalla varia guerra dei «cherubini neri»), la quale rimanda, come a una simmetria per contrario, alla città dei santi (dimostrata dalle voci delle donne – Maria, Lucia, Beatrice – nella corte del cielo); mentre il “basso” della «commedia diavolesca» nella palude stigia si contrappone, ma soccombe, all’“alto” di tragedia del «ritratto d’angelo sopra il paesaggio immenso»: il medesimo di una sinfonia che presenta due volte lo stesso tema, ma quello destinato alla sconfitta, nella dialettica dei suoni, riappare in ultimo capovolto; e la lettura attenta ce ne rende consapevoli.61 XXVIII

Dante usa con assoluta consapevolezza di questa risorsa espressiva (che è sempre anche veicolo di un discorso morale) in alcune palinodie che egli istituisce tra Inferno e Purgatorio. Trascureremo la più facile, cioè la figura duplicata della rixa fra l’angelo e il diavolo sopra le anime di Guido da Montefeltro e Buonconte da Montefeltro, con la vittoria del missus di Lucifero nel primo caso e del missus di Dio nel secondo;62 mentre raccoglieremo l’intenzionale contrasto, pur ben noto, tra If XIX e Pg XIX, tra Niccolò III e Adriano I: e se per il papa simoniaco Dante sceneggia un’estesa missa paròdia, mescolando chiesa con taverna e lingua dei santi con lingua dei ghiottoni (mentre Apollonio commenta puntualmente le linee dell’azione liturgica che, gesto dopo gesto, la fantasia del poeta, addetta al mondo blasfemo della bolgia, deride e deturpa, con metamorfosi maligna); per il papa già avaro ed ora salvo, il quale canta il salmo della penitenza: «Adhaesit pavimento anima mea», lo studioso esalta, nel sistema delle immagini che si richiamano, il tema della «tomba feconda», trovato da Dante a redimere la purgatoriale «pietra livida, piena di fori», e a dannare una seconda volta il sepolcro infernale del predecessore, adultero di cose sacre. Egli così detta: «La vittoria [di Adriano] è in un aderire come al pavimento di pietra, quasi sepolto, alla volontà di Dio, senza più moto, sommerso in quella tomba feconda, abbandonato e redento»; mentre torna anche il tema del mondo rimesso nei suoi cardini esatti, tramite un ricordo e una richiesta di preghiere. Per cui non solo «[il papa penitente] s’accomiata con il ricordo della buona Alagia: un nepotismo capovolto, ché alla nipote nulla dona, ma chiede a lei sola, chiede di lucrare indulgenze»; ma il poeta s’inginocchia e partecipa agli atti devoti. Un esempio eccezionale di “legato” è nella “rapsodia” della laurea celeste. Per san Pietro, per la grande immagine di san Pietro va fatta un’eccezione complessa, che in parte corregge quanto detto attorno a Benedetto e alla fine della tecnica del ritratto in Paradiso; e se è capitato per memoria affettuosa di chiamare Apollonio il «maestro delle parentesi», bisognerà aggiungere ora una qualità univocamente eccelsa, quella della straordinaria capacità di “legato”, per cui egli sa tenere e muovere e ripercorrere contemporaneamente nella sua biblioteca mentale tutta la Commedia, quando non l’intera opera di Dante. Porremo per lui, dunque, il nuovo titulus di «maestro del “legato”». Il metodo è costante e minuzioso, cosicché la ricognizione (impossibile, quanto alla completezza) ci costringe a procedere per campioni, andando a ciò che, ad esempio, Apollonio scrive, a proposito di Pd XXIV, allorché egli cita nella terza la cantica prima, indicando la stessa modellatura energica del personaggio: «Protagonista del canto è san Pietro; e il colloquio ritrova la forza drammatica del canto di Farinata, quando la virtù del dialogo era tanta che il protagonista aiutava e quasi costringeva la determinazione del deuteragonista, l’altro accrescendosi dell’uno. Certo i modi son diversi […], come si conviene a una drammaturgia non più tragica, ma liturgica, non umanistica, ma sacrale».64 Un esempio ancor più sorprendente di consonanza è dato trovare nell’introduzione di Beatrice ai canti estremi della Commedia. Apollonio vi sottopone la tessera esplicativa di «annunzio e abbaglio»,65 dove il proclama sublime di XXIX

«luce […], amore […], letizia», Pd XXX, 38-42, davanti alle ideali porte eterne dell’Empireo, vale «come un inno contrapposto all’epigrafe della porta d’Inferno», leggendo noi prima la pronuncia tenebrosa del tema numerologico (cfr. If III, 1-9), all’ingresso del «burrato» delle anime morte e poi incontrando la ripresa del medesimo emblema ternario/trinitario nell’eccelso dei cieli (cosicché l’Inferno viene davvero ripreso e subito allontanato in Paradiso, sia materialmente che formalmente).66 Attorno all’altra parola-chiave, «abbaglio», lo studioso nota invece l’analogia di due “piccole morti” nei riti iniziatici del tramortimento (in presenza del baleno infernale di «luce vermiglia») e dell’accecamento (causato in Paradiso dallo sfolgorare improvviso del nuovo paesaggio): e come, al riaccendersi degli occhi, il pellegrino celeste contempla la «rivera / fluvida di fulgore», sorvolata dalle api d’oro, che i calici dei fiori, cresciuti a ornarne le rive, accolgono in grembo quali rubini alloggiati nel loro castone; così il viaggiatore dell’Ade torna in sé, dopo aver visto «la trista rivera d’Acheronte» e l’immensa pioggia di foglie secche – le anime dei pravi – che vi approda. Arrestandosi, Apollonio quasi lancia un guanto di sfida: «Continueremo nella ricerca delle concordanze?» La poetica del catalogo è un altro dei leganti-chiave della Commedia, tenuta, seppure in modi diversi e sempre meno inerti, almeno dal Limbo all’ouverture del canto V di Inferno, dalla valletta dei principi nell’Anti-Purgatorio alla nomenclatura staziana dei poeti nella cornice degli avari e prodighi, dalle tre teorie circolari del cielo del Sole all’ultima prova in Empireo, istruendo la rassegna dei beati della «candida rosa». Decisiva è, ovviamente, l’ambientazione: dalla «bufera infernal che mai non resta» al barlume di luce «ch’emisperio di tenebre vincia», dalla verzura del grande quadro di natura nell’Anti-Purgatorio alle serie esemplari della montagna magica, dalla curia del sole, dove Dante, nel comporre la rassegna dei sofi, «intreccia una corona, segue con lo sguardo una danza», al fiore ultimo di Paradiso del quale vediamo solo l’amplissimo calice «che si digrada e dilata e redole». Il romanzo della rosa, ma ben dantesco, questa volta, chiede una sosta, poiché Apollonio mette in poesia la poesia, toccando del «catalogo delle Madri, ai piedi della Vergine Madre» e notando che il verso centrale della ricca terzina, così concettualmente impegnativa, un compendio di storia sacra, quasi rallenta il tempo dell’esecuzione lettoria, come «assorto e sospeso nella bellezza di Eva, Pd XXXII, 5: “Quella ch’è tanto bella” (tanto bella – riprende musicalmente il critico, fattosi quasi poeta poetae additus – che l’un nome dopo l’altro diventa pioggia di petali, Pd XXXII, 14-15: “Com’io ch’a proprio nome / vo per la rosa giù di foglia in foglia”)».68 Apollonio aveva già espresso il proprio incanto, a proposito del medesimo passo, alcuni capitoli prima, discorrendo di «atto di estasi puerilmente commosso». Tutto viene già detto dal maestro, e al discepolo spetta unicamente di svolgere con misura dall’implicito all’esplicito: ontogenesi e filogenesi, insomma, per cui Eva è madre di tutti i viventi e madre giovane di Dante (Gabriella e, per ipocorismo, Bella). Forse Curtius direbbe che qui si celebra, discretamente, anche l’immagine del puer-senex, un archetipo junghiaXXX

no,69 e parlerebbe di un Dante che, «con altra voce omai, con altro vello», giunto al culmine (Pd. XXXIII, 46-48: «Ed io ch’al fine di tutti i disii / appropinquava, sì com’io dovea, / l’ardor del desiderio in me finii»), ritrova il se stesso bambino. Forse; le due genitrici vengono poi già ricordate, se si vuole, con elegante e affettuosa metonimia, in Pd XIII, 38-39, come «la bella guancia / il cui palato a tutto il mondo costa» (dove compare per la prima volta, ma sempre in qualità di rema, qualcosa di simile al mot dans le mot: Eva/Bella). Il motivo mariologico, del resto, esempio frequente di virtù nelle illustrazioni che scandiscono l’ascesa del monte della penitenza, tocca poi sempre il sublime nel Paradiso; si rammenti almeno, in aggiunta, quanto appare in Pd XXIII, 121126, dove l’immagine è singola e duplice, sembrando sovrapporsi la Madonna degli angeli e la Madonna del latte, entrambe originate da un frammento creaturale di domestica cosa vista, per la quale Dante ha certo davanti agli occhi della mente un proprio interno di casa: «E come fantolin che ’nver’ la mamma / tende le braccia, poi che ’l latte prese / […]». Per finire: Beatrice aveva indicato nella Theotokos la più bella del «bel giardino», suggerendo poi a Dante di intonarsi, cogliendone il tempo esatto, alla «circulata melodia» delle oranti voci angeliche (Pd XXIII, 88-89: «Il nome del bel fior ch’io sempre invoco / e mane e sera […]»). In questo cielo di preghiera innamorata, anche Apollonio, a suo turno, prega: «Ancora una volta il punto di partenza è segnato da una confessione umile e cara, dal nome echeggiato nella preghiera mattina e sera, da un’abitudine che non è più soltanto preghiera, ma il respiro stesso del giorno». Noi continueremo a ridirlo: «Il respiro stesso del giorno»; se ci fosse un superlativo al superlativo, un ulteriore modo elativo! ma accettiamo quel che ci viene donato.70

La bellezza del cuore e «con leggierezza» Dopo tanto e tale sublime, dobbiamo tornare con i piedi sulla terra, nell’AntiPurgatorio per l’esattezza: qui Apollonio legge Belacqua al modo di Antonio Baldini, nel momento in cui l’estroso “rondista” creava Michelaccio e Melafumo, eroi allegri, a modo loro, della vita pigra. Belacqua era stato liutaio: ben probabile che egli interrompesse volentieri e protraesse in lungo il lavoro, per fare della sua bottega, magari senza troppa intenzione, un luogo abituale d’incontro per musicisti, poeti e pittori. Apollonio ne legge la figura e la postura («colui che mostra sé più negligente / che se pigrizia fosse sua serocchia»), in qualità di trascendimento purificato del costume tenuto da vivo e di modo non distratto, ma concentrato, per chi è intento a un «intimo colloquio con lo Spirito» e, di più, ad «immergersi nella Grazia»: cosicché, giunta al monte della redenzione, l’anima può ben giocosamente ironizzare (con «leggerezza gentile e benigna di scherzo») nei confronti dell’attivismo e dell’intellettualismo dell’amico Dante («Va su tu, che se’ valente»).71 Anche Belacqua è a buon titolo un artista. Lo si ricorda, perché Apollonio, introducendo in precedenza un altro sodale di giovinezza, e probabile amico di entrambi, Casella, aveva precisato: «In se stesso l’episodio è XXXI

un “ritratto d’artista”, uno degli studi che Dante persegue più assiduamente nel Purgatorio: Sordello, Stazio, Bonagiunta, Guido, Arnaldo». Lo studioso coglie con esattezza lo spirito di consorteria subito attivo tra colleghi così numerosi, mentre non è infrequente nella seconda cantica che lui pure si lasci andare per conto proprio ad estri, appunto, en artiste. Motivatamente, quasi per una rassicurazione di salvezza legata alla professione – è il grande tema dell’«arte mediatrice della spiritualità» –, Dante aveva fatto in modo che il primo incontro con un’anima che si avvia a salire il monte della penitenza fosse con un musicista, un suo musicista, in aggiunta, uno che aveva dato veste alle sue canzoni. Casella «diede il suono», ci attesta un documento d’archivio; e qui, entrato ormai nella salvezza eterna, lo spirito compie una scelta, fra le possibili, intonando Amor che ne la mente mi ragiona, una lirica probabilmente divenuta, se non popolare, certo ben nota, particolarmente nei circoli intellettuali di Firenze, attenti a dare dignità alta al volgare. Tralasciato Sordello, che è anche poeta, ma attorno al quale s’annoda altro discorso, ognuno poi rileva, a seguire, il divertissement di Apollonio in due sottolineature: quando – saliti in una balza più alta e dal Purgatorio dell’attesa portatici al Purgatorio dell’espiazione; conosciute anime e visti, ascoltati, sognati exempla edificanti in serie; dopo il grande Gloria del popolo della montagna, infine, che celebra l’avvenuta soddisfazione della pena, e la solerzia, senza più impedimento, dell’avviarsi al regno delle stelle – il poeta principe della latinità argentea, Stazio, incontra reverente Virgilio, il poeta principe della latinità aurea, e lo cita, magari adattandolo troppo, fino a distorcerne il senso («arzigogolando», annota Apollonio, ma aggiunge: «Una citazione riempirà sempre di gaudio l’anima di un letterato»). L’autore dell’Eneide, come di dovere, ricambia con pari cortesia: «[Egli] mostra d’aver letto tutta quanta la Tebaide: così s’usa fra colleghi»; mentre noi, spettatori di prima fila, apprezziamo quanto il letterato Apollonio consuoni con la felicità delle anime letterate, e come anche lui sia in festa con loro.72 Trascorriamo, seguitando, per appunti: Dante si propone di essere ilare (ma «la reverenza al segno divino attenua [ogni corrività]») con l’ex compagnaccio d’un tempo, Forese Donati, raggiunto ancora più su, dopo altro gradinare. «Per Dio che sì vi sfoglia», dice il poeta, quasi intonandosi, per confidenza, ai modi comico-realistici dell’antica tenzone, ma nella gioia di veder salvato l’amico di giovinezza, pur dopo aver guardato a fronte, con “ammirazione” stupita, lo stato fisico delle anime, e descritto la pena che le smagra di desiderio. Lo scherzo affettuoso si svolge però subito «nel rammarico di anime severe che s’affliggono dei costumi sciagurati»:73 e Forese trapassa «da uomo di vita guasta […] a piagnone»; mentre sembrano già i tempi di Savonarola, al punto che Apollonio può collocare qui, opportunamente, un grande affrescatore quattrocentesco, al fine di commentare il verso apocalittico sull’urlo straziato delle donne fiorentine:74 «Se ne dovette ricordare Masaccio di questo verso, nel suo canto dell’esilio, la cacciata dall’Eden della Cappella Brancacci, dove Eva svuota la faccia nella bocca spalancata all’urlo».75 Anche Forese cambia le vecchie rime nelle nuove: «Oh dolce frate», risponde a Dante e, dovendosi prestare a nominare i suoi compagni di pena che sono irriconoscibili, egli intona la rima bislacca, ma arXXXII

guta, con un filo di sorriso, fra «vieta» e «dïeta». Per primo della serie, dopo essersi affisato nell’«alto Olimpo» e aver condiviso con l’amico la notizia della beatitudine della «bella» e «buona» Piccarda – e sembra di vederne brillare di gioia gli occhi pur tanto incavati –, egli indica Bonagiunta da Lucca (su cui postilla un Apollonio che recita da “spalla” in un duetto comico: «Se a un letterato è opportuno rammentarlo per il suo luogo d’origine»; ma Bonagiunta, a sua volta, nomina le poesie di Dante, fedele d’Amore, e la nascita, mallevata da Dante, della «maniera mutata»: un’accademia di hommes lettrés, senza meno, ospitata per un momento nella penultima cornice del monte sacro!). Lo spirito aggiunge altri nomi, di professioni diverse, tutti sofferenti, ma tutti in stato di letizia, «ogni sorta di gente, papi e prelati, poeti e uomini di corte», un altro lucchese, un abitante del Mugello, un papa di Bolsena, un vescovo di Ravenna, un forlivese, mentre, per la rappacificazione finale con l’intera città di Lucca, compare il nome di una donna gentile, e ancora viva, Gentucca. Assai notevole continua ad apparirci la postilla riassuntiva di Apollonio: «Fra così aperta e umana fantasia, [è] forse la sola scena di costume dove Dante si concilii con la vita d’Italia, godente e pur pensosa, gagliarda, ma alla fine serena». Apollonio aveva già spiegato, del resto, perché Forese e Dante si possano corrispondere tanto serenamente: «La condizione di intesa è che a Dante è stata promessa la via della salvezza e agli spiriti è già aperta». Dopo aver apprezzato debitamente l’ipotesi compositiva dello studioso, circa lo studio d’orchestra schizzato da Dante per una frase complessa da ritrovare nel fondu musicale dell’Eden;76 dopo questo, dunque, riteniamo però che il maggior esito della lettura sia altrove, sotto le insegne della disciplina di Jacopone e della scuola dei “battuti”, tra «una vacanza penitenziale» e «un arco trionfale», poiché «le anime [dei golosi] restano all’infuori della pena con la loro vita più intima: una vacanza penitenziale – “Io dico pena e dovria dir sollazzo [Pg, XXIII, 72-75]” –, che talvolta s’accende di un turbinoso entusiasmo ascetico».77 Se, procedendo, ci apriamo anche volentieri agli incontri di Apollonio, storico della critica, con altri critici, dobbiamo allora fermarci alla lunga e pertinente insistenza da parte del Tommaseo («esperto d’amicizia, d’affetti domestici, di carità di patria») nel confrontare il canto di Brunetto con quello di Forese; ma più ci preme sottolineare come il lettore ottocentesco parli di «bellezza del cuore», a proposito del riconoscimento di Forese nei confronti di Dante, aggiungendo anche: «La ricordanza della moglie amorosa è tra le più care cose di tutto il poema». È però l’intero Purgatorio a corrispondere a tale «bellezza del cuore», a partire dal personaggio di Virgilio, il quale muta già nel suo «frettoloso, affannoso rendiconto a Catone» (pochi versi per riassumere 34 canti, e che canti! mentre un cattedratico dantesco non privo di humour, Apollonio, ovviamente, commentava in aula, a proposito del seguito della perorazione virgiliana al fin troppo imponente veglio stellato, allorché si introduce il nome di Marzia: «Guardate, guardate come si vergogna Virgilio, che chiede la raccomandazione della signora Catone!»). XXXIII

La nuova poetica viene subito misurata a seguire l’abbandono del «tristo buco», per entrare in un paesaggio che si trasforma dalle ultime stelle della notte alle prime, e presto dilaganti, luci dell’alba. «Agli occhi miei ricominciò diletto», Pg I, 16, esclama il poeta: siamo dunque in vista del «dilettoso monte» e qui la «gioia» ottiene la pienezza spirituale che attendeva dal canto I dell’Inferno; anche se l’idea del «diletto» avrà compimento nella perfetta definizione e transvalutazione di Pd XXXI, 133-138, nella «delizia» indicibile della «bellezza» della Tuttabella. «Bellezza del cuore» e «Con leggierezza»:78 alla petite phrase del Tommaseo vada congiunta la seconda didascalia, quasi voluta dalla partitura, poiché entrambe ricorrono in mente quali “prefazi” necessari a un aspetto del ritratto di Manfredi, mentre la scrittura stessa del critico si arricchisce del nuovo modo di vita, del nuovo memorare e narrare delle anime. Non si saprebbe dire diversamente della pagina che contiene un ideale ritratto di gentilezza e di compostezza: la fisionomia di Manfredi – di lui è questione – si spiritualizza, andando ben al di là dell’elezione regale e della honestas stilnovistica delle linee di cui Dante, almeno in parte, si ricorda, e che a noi pare di ritrovare in qualche tela del Pisanello. Non che sia dimenticata la fine terribile; anzi, fluisce il racconto delle ferite mortali, della barbarica sepoltura sotto la «mora» delle pietre, del funerale ripetuto «a lume spento» e del paesaggio tempestoso che l’accompagna: eppure questa è la stagione in inferno da cui l’anima, morendo in stato di grazia, è riuscita ad evadere. «Ora – scrive Apollonio – le prime parole [del re morto] hanno una cara fatuità gentilesca: il guerriero scomunicato e maledetto, dopo che nelle gran braccia della bontà infinita, si ripara dietro i manti regali di quelle gentili figure di donna: Costanza imperatrice, e Costanza regina, l’ava e la figlia»; mentre, senza interruzione, il «fiorire della speranza» apre una nuova prospettiva egualmente delicata e, dopo i fiori, i frutti. Il maestro della Cattolica introduce il dogma: «Come parlasse a un amico di lunga data, la preghiera [di Manfredi] è una raccomandazione instante e cordiale; dove Costanza non è più la genitrice araldica dell’onor di Sicilia e d’Aragona, ma la buona figliola che ripete il nome dell’avola santa.79 Una corrispondenza di preghiera e d’amore e d’opera fruttuosa si stabilisce dunque fra i morti e i vivi: “Ché qui per quei di là molto s’avanza”».80 Il professore vuole, con intenzione, che noi si incontri Dante, dopo tanti secoli, nella foscoliana «corrispondenza d’amorosi sensi»; e parlava di un Foscolo educato nel seminario di Spalato, e di una sua trascrizione laica che ben ricorda la cattolica “comunione dei santi”. Egli si spingeva poi fino al «paese guasto» di San Martino del Carso e al planctus dell’«uomo di pena»: «Di tanti / che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto // Ma nel cuore / nessuna croce manca // È il mio cuore / il paese più straziato».

Storia della fortuna Apollonio, per cominciare, ammira, ma prende le distanze dall’«animazione onde tante indagini furono condotte, la gloria di strappare al tempo la pagliuzza d’oro di una notizia, la pazienza»; e non condivide «la pretesa di ridurre al XXXIV

segno del numero la storia e, nella guerra del tempo, disporre come operazioni preminenti la rassegna e il catalogo». Egli anche aggiunge: «Nulla vogliamo sapere più, dopo che alla lettura siamo andati accostandoci con tutti i sussidi delle circostanze storiche e delle nozioni complementari, se non quello che [della Commedia] ci appare attraverso la verità della parola»; distinguendo infine nettamente tra «la sfera delle accettazioni, che s’incentra nella cronaca del libro, nella frequenza statistica dei codici e delle edizioni» e «la sfera delle partecipazioni, quella che ha per suo polo la storia dell’esegesi [e] il vivo dell’irradiazione della poesia». Studiando la varia vicenda della ricezione di un testo (e di questa operamondo, in particolare, la Commedia dantesca) dobbiamo, in sostanza, accettare, ma posponendola – tale la proposta metodologica di Apollonio –, la fragilità del criterio bibliografico-erudito, soprattutto qualora esso pretenda di terminare in se medesimo, sostituendovi, invece, il primato dei modi della lettura e l’imprevedibilità, e vastità, della diffusione della parola poetica (che ovviamente, su tali premesse, può legittimamente venir estesa alla storia delle arti della figura e del suono; e alla storia tutta del costume cristiano); senza dimenticare mai, indagando l’intreccio delle intertestualità e delle intratestualità, che la rivoluzione dantesca «aveva abbattuto i muri di cinta delle cerchie concentriche della vita sociale, dalla città proibita della scienza era uscita alla città aperta dei popolari: qualcosa che, nella vita della Institutio letteraria, poteva essere paragonato alla fondazione degli ordini mendicanti nella vita religiosa, un secolo prima».81 Solenne è il congedo del Preambolo: «Certo, la tesi dell’esegesi perenne, dunque di un continuo acquisto verso la verità, si integra nella tesi della filosofia perenne; e questa in quella dell’umanesimo perenne: di una trascendentale lettura dell’uomo»; e Apollonio è lettore cattolico di un poeta cattolico, il maggiore, così come questo Dante. Storia della «Commedia» è tra i frutti più ricchi dati alla cultura italiana ed europea dall’Università Cattolica di Milano.82 Non si darà conto di tutto il lungo percorso, nazionale ed extranazionale, che il regesto della ricezione proposto da Apollonio traccia, limitandoci alla parte della ricerca che studia come l’universo verbale dantesco esca dal proprio ambito, alimentando altri universi semiotici. Tralasciamo, infatti, con intenzione, i capitoli, pur insigni, di storia letteraria dedicati alla prima cerchia delle risposte, dagli elogi funebri ai commenti trecenteschi, da Petrarca a Boccaccio e alle polemiche dell’Umanesimo: si tratta di pagine certamente autonome, ma che sembrano sempre in attesa, per più anticipazioni, di quello che probabilmente è il capitolo eccelso di questa zona del Dante, gli accertamenti di Immagini nell’arti. Dante era, forse più che mediocremente, dilettante di disegno e di pittura, come ci attesta la Vita nuova; ma nella Commedia i suoi fogli d’album passano direttamente dagli occhi alla mente, venendo poi tradotti, quasi senza mediazione, in parola. Lo spiega bene Apollonio, commentando un particolare del canto dedicato in Paradiso al padre dell’umanità, Adamo, dove viene ospitata un’invenzione di poesia e di poetica straordinaria, una specie di mobile realistico prima del tempo, con quell’«animal [che] coverto broglia», a proposito del quale lo studioso discorre di «prepotenza visiva della fantasia di Dante», poi seXXXV

guitando: «È chiaro che in questo momento l’oggetto che le sta innanzi non è la luce del primo progenitore, ma quello strano ricordo di un’osservazione fissatasi chissà quando, con la precisione della modellatura d’uno scultore». Apollonio non rinuncia, comunque, a proporre la sua soluzione all’enigma: né cavallo, né gatto, né falcone, egli suppone piuttosto che Dante pensi ad altro animale (ed è esito catechistico e spiritualistico): «Ad aiutare il lettore, perché questo è il compito d’ogni commento, e a gettar sassi nel guado che gli tocca passare, non rinunceremo a rammentare che la tragedia di Adamo è l’involucro di una carne corrotta e redenta; e di ciascun uomo».83

Quadri di un’esposizione Inizieremo con una premessa: «La tradizione dantesca aveva fatto cammino piuttosto fra le arti figurative, e soprattutto nella popolarissima fra quelle, la pittura, piuttosto che nelle arti scrittorie»;84 dove “fare cammino” significava, beninteso, accanto ad una testimonianza di popolarità crescente, il procedimento verso la migliore e più esatta interpretazione del testo: la quale talvolta sfugge ai commentatori istituzionali, magari troppo intenti al solo nesso verbale, mentre vi arriva l’immagine, capace com’è di ricelebrare, e di restituire – sto parafrasando Apollonio –, con più intima adesione, la vita fantastica del poeta (e, dunque, avrebbe talvolta più utilità, forse, nel suggerire la lezione esatta all’editore, il regesto diacronico delle tante illustrazioni che non lo scrutinio della tradizione codicologica verbale; o accanto ad esso).85 Sarebbe però sbagliato credere che dagli artisti si possa risalire a Dante allo scopo di rintracciare una qualsiasi precettistica, dal momento che la mediazione della Commedia «avviene sempre attraverso suggestioni liriche e mitiche». Dante non è Petrarca, «per dir di un suo vicino, che provvede all’organizzazione della cultura»; e non è neppure Goethe, «per dir di colui che più gli si accosta, per esercizio d’autorità sopra un secolo». Così scrive invece Apollonio, stringendo da vicino l’intimità di Dante con gli artisti: «Egli è il regolatore, l’autore di quel modo di esistere che chiama a paragone della vista il mondo, e attraverso il giuoco degli occhi proporziona l’uomo nel cosmo: tutto egli vede, tutto proporziona all’altrui vedere». Lo studioso aveva già ricordato, poche pagine prima, l’invocazione propiziatrice e solenne ad apertura dell’Inferno, proprio la cantica che una lunga tradizione considera la più ricca di concretezza plastica, II, 8: «O mente che scrivesti ciò ch’io vidi»; su cui il critico: «L’intelletto diventa misura e cornice della cosa vista; e lo scrivere, per un’etimologia remota, diventa atto del dipingere» (ma non possiamo mancare di allegare anche Pd XVII, 139-142; e le parole di Apollonio: «[Questo] canto termina con uno stupendo paragrafo della riflessione [di Dante] sull’arte. Poetica dell’evidenza: “[C]hé l’animo di quel ch’ode non posa / né ferma fede per essemplo ch’aia / la sua radice incognita e ascosa, // né per altro argomento che non paia”»). Dante, insomma, ritorna a Firenze prima con i miniatori del Trecento e dopo, con ricchezza ancora maggiore, con l’arte tutta del Quattrocento e del XXXVI

Cinquecento, almeno finché Firenze non emigrò e Roma divenne, con tanto altro, la seconda, e più grande, capitale medicea. Del resto, già iniziando la sua lettura della Commedia, Apollonio aveva dichiarato tale linea di indagine, con un calco evangelico marcato: «Non di sole voci è fatta la parola del poeta, ma di immagini, che hanno varia vita ed avventura e si propongono per vie e modi impensati. Come dichiarerà la fortuna». Per conto nostro ci guarderemo dalla critica della critica, cosicché l’abito sarà quello dei ciceroni che ordinano alla lettura pagine d’altri. Visiteremo, allora, i quadri di un’esposizione (per usare un titolo insieme di pittura e di musica; perché, come sappiamo e come viene detto ripetutamente, anche in questa seconda prospettiva agirà la fortuna dantesca), aprendo con Masaccio la sala d’ingresso alla pinacoteca promossa da Dante: La sua morale è eloquente – afferma Apollonio –, non per questo meno intensa: una moralità da Convivio; e quei corteggi di re, quelle spirital corti degli Apostoli, l’ordine alleluiatico e liturgico in cui si compongono i suoi gruppi […] appartengono ad un’intenzione che si avvale di pari passo delle raccomandazioni della sapienza e delle raccomandazioni dell’eloquenza. Si rammenta, appunto, dei sofi e dei vati del Limbo, quando compone, con tanta gravità di panneggi nelle persone e di ritmi liturgici nei gruppi, i suoi canti, a celebrazione dei fatti e dei fasti chiesastici. Ognuno di quei suoi grandi par che si ricordi dei versi [del primo cerchio] ed ogni episodio dell’epopea di san Pietro par ricordarsi del dramma e del processo che il “gran viro” celebra nel Paradiso di Dante.

La seconda sala ospita Piero della Francesca: Il dramma è alieno dalla [sua] persona; ma il suo dominio sul mondo è tanto più vario. S’apre all’allegrezza, rigorosamente condotta in giro di danza, come quegli epilli colorati che interrompono e infiorano la vicenda del viaggio dantesco: così la festa del corteggio della regina di Saba è festa di donne gentili, che avvallano gli occhi onesti, o li innalzano arditi […]. L’accordo fra civiltà cortese e spiritualismo era tutto celebrato; ma Dante non smette di operare nel profondo. E ancora dantesco d’ispirazione e di stile è il capolavoro liturgico dell’umanesimo toscano: la Resurrezione di Borgo San Sepolcro.

Attraversiamo senza indugiare le sale successive, pur meravigliose, che espongono Ghiberti, Donatello, Pollaiuolo, Signorelli perché, ed è fin troppo facile citare, «la via lunga ne sospigne», volendo fermarci davanti alle tele di Botticelli: Con [lui] il prevaler della notizia affettuosa accompagna altra scelta di miti: anch’essi danteschi; e, nell’apprestare a quel crepuscolo della vita quattrocentesca un’enciclopedia per immagini, Sandro si rifà a Dante più che ad ogni altro testo: certo […] egli non lascia di Firenze una memoria baldanzosa: anzi: colori preziosi, tanto opimi da annunziare che presto saranno disfatti, e un’eleganza tanto squisita da apparir peritura, l’annunzio malinconico e irrimediabile della morte, nel trionfo della primavera e della bellezza […]. Ancora di un dantismo stilnovista, di una Firenze duecentesca, ricevuta

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attraverso il Poliziano, si rammenta nella Primavera; ma quando è all’impegno di illustrar la Commedia, lascia che prevalgano, pur nella intensa rapidità del segno, gli atti di un ossequio oratorio.

Apollonio discorre a lungo della scuola ferrarese quattrocentesca e della koiné veneziana tra i due secoli, per giungere al dantismo esplicito (e non più implicito, come in quelle) di Ludovico Ariosto, collocato, ben a ragione, fra i pittori, dal momento che egli è tanto grande narratore quanto grande colorista, al pari di Dante (pur senza avere di questo l’impegno totale, di anima e corpo, dal momento che, come non manca di far rilevare Apollonio, i suoi cieli iniziano e finiscono con il cielo della Luna e il suo Inferno termina già all’Antinferno, privo di sviluppo ulteriore: ma il poeta di Orlando aveva ben presenti tanto il senso dell’illimite che quello del limite). Chiuderemo la recensione di Immagini nell’arti86 con la notizia del commento per figure di Michelangelo, notizia probabilmente non vera, ma egualmente significativa nei modi del racconto che ne accompagna la perdita. Quasi un’allegoria, dunque, la quale, come tutte le allegorie, significa in profondo, anche per la pietas storica di cui la contorna Apollonio; così scrivendo: Forse la sua illustrazione della Commedia perduta in un naufragio (ma ti verrebbe fatto di dire diluvio, pensando a quella sua mitografia della fuga sul monte, fra l’arca e le grandi acque) è leggenda: leggenda suggestiva e significativa, comunque: se toccò a lui, più che ad ogni altro, dire il senso di una catastrofe della civiltà italiana («Oh diluvio raccolto / da che deserti strani / per inondare i nostri dolci campi»).

Indubitabilmente di impianto dantesco sono anche la volta e la parete della Sistina, con il sincretismo voluto dei profeti e delle sibille (a tacere, in diverso ordine di grandezze, ma è davvero troppo ovvio, del diario lirico delle Rime, per le quali l’autore attinge da una parte al platonismo cristiano e dall’altra al dantismo delle origini, popolaresco e proverbiale). Dell’artista sommo lo studioso aveva peraltro già toccato, commentando il passo illustre dell’origine dell’Universo di Pd XIX, 19-21: «[La terzina] si dilata con quel vasto gesto orizzontale che sarà di Dio creatore in Michelangelo». Chapeau!

Quasi un album di famiglia: l’Ottocento dei poeti e il primo Novecento Porremo tra parentesi gli animatissimi racconti che Apollonio dedica alle polemiche secentesche e settecentesche, con bel piglio narrativo, attraversato, persino, da tratti di modi eroicomici (il passato non manca di ripresentarsi con un volto benevolo; e il lettore ne farà direttamente prova), per toccare subito del dantismo ottocentesco e primonovecentesco. Lo studioso, del resto, è perfettamente contemporaneo della rinascita vichiana e desanctisiana, promosse dalla guida della cultura di Croce; non solo, poiché lembi della biografia carducciana XXXVIII

e più pascoliana e, ancor più, dannunziana giungono a toccare i suoi anni (ma anche lo studentato pavese lo fa vivere sotto il cielo e nell’aria di Foscolo, mentre per più d’un tratto Manzoni entra a far parte della sua personale confessio fidei, così come la ricerca d’assoluto di Leopardi fa di questo poeta, a tutti gli effetti, un contemporaneo fra i lirici delle avanguardie del Novecento e quindi immagine di spicco nel larario dello studioso). Una “forte” dichiarazione di metodo introduce il cap. Fra i poeti nuovi d’Italia: «L’esegesi di un poeta è perenne, e dove più l’intellettualismo critico ha creduto di limitare di staccionate e di divieti la zona degli scavi, là la lettura l’oltrepassa, e l’animo perturbato e commosso rivela più luce che la cronaca certa». Molto chiaroscurata, ma esatta, in un processo continuo di conferire e di sottrarre, l’idea che riassume le proposte del «primo tragico d’Italia»: «Alfieri», dice Apollonio, «sembra inaugurare il rito di un’ammirazione enfatica», tra il topico viaggio a Firenze, la città geniale, e il rito sopra le ceneri sante di Ravenna (su cui sottolinea il critico, trascorrendo con eleganza: «Che è per vero anche troppo simile all’orchestrazione della visita ad Arquà»), quasi avviando il baedeker del turismo intellettuale in Italia, ortisiano in primo luogo, ad apertura dell’età romantica. Apollonio ama il personaggio che il poeta astigiano costruisce di sé e ne riscatta, sorridendo, qualche goffaggine, accostandovi un proprio moto di umana simpatia. Tanto avviene, ad esempio, nel commento al sonetto “di lontananza” dal «degno amore», Dante, signor d’ogni uom che carmi scriva; sopra cui viene annotato: «Dante serve a due scopi, a richiamare gl’Italiani a un più forte sentire e a prestar l’appiglio per una esagerazione metaforica: vuol dire che, lontano dalla sua bella, egli soffre le pene dell’inferno (una situazione vulgata, anzi popolana); e che, per la vicinanza di Dante, Luisa Stolberg si trasfigura in Beatrice». C’è naturalmente ben altro: «I personaggi alfieriani […] possono ricordare il canone fondamentale della poetica di Dante, la concretezza»; fatto che, in parole diverse, significa «una specie di possesso energico della cosa rappresentata, l’evidenza del tratto, la dimensione della figura». Alfieri non è peraltro, precisa la pagina, un secondo Dante, a causa di un duro limite di mitopoiesi fantastica, se le sue creature sceniche possono venir definite quali «gigantesche marionette» (dove il gigantesco va in direzione senza dubbio di Farinata, di Ugolino, di Ulisse, di Pier delle Vigne, dei magnanimi infernali, insomma; mentre marionetta rileva la ripetitività e la rigidità che detraggono troppo all’individuazione). Apollonio lavora mirabilmente, in un processo continuo di modellatura e di toglimento, l’altorilievo che ha come soggetto Alfieri e il suo teatro, visti da un taglio di luce di scuola dantesca, ma dove, alla fin fine, in un rendiconto storiografico, sembra prevalere il proverbio sulla persona biografica meglio che la sua poesia (pur essendo ancora assai lontana, e, anzi, neppure in vista, la soffitta di Gozzano, con i suoi «Loreto impagliato, il busto di Napoleone, d’Alfieri, i fiori di carta, le buone cose di pessimo gusto»). I ritratti e le cronache dedicati al dantismo degli Stati pontifici (ma la linea della scrittura si spinge fino a Milano e dalla civiltà d’antico regime entra decisamente nel terreno delle fondazioni romantiche) appartengono a un grande XXXIX

romanzo storico, all’opera di un amico di Bacchelli, magari senza le gonfiezze o i fastidiosi manierismi propri a quest’ultimo. Come definir più brillantemente del caso, clamoroso al tempo che fu suo, di Varano? Con un tombeau, beninteso, per un poeta più da seppellire che da leggere: «La fortuna che gli sopravvenne, in quel preludio melodrammatico e uggioso che fu il gusto settecentesco dei notturni e dei cimiteri, fu la prova del suo limite: ché si dissolse nel consenso, nulla restando se non quello che aveva [effuso]: con il suo segreto sofferto, fece un passo nell’ombra segreta, dove la storia non sa e non lo rincorre». E come colorire con egual braveria e facilità il cursus honorum di Monti e il quadro entro cui esso si muove: «La parabola di Monti, uomo di cuore e di fortuna, si svolse ad abbracciare ben altro spazio che il Varano; e mutò via via col mutar di quei tempi grandi: dalle vicende dell’enciclopedismo arcadico passando all’enciclopedismo dell’età napoleonica, per conchiudersi nel tradizionalismo della custodia accademica delle forme e della letteratura. Incominciò con una baldanza fantastica, con una bravura sanguigna e cordiale […]»? Apollonio discorre della «letteratura su poesia» di Monti e delle sue estese e popolarissime imitazioni dantesche (ma il termine deve essere inteso con molto agio e paragonato piuttosto ai contemporanei usi musicali, liberissimi, appunto), dicendoci qualcosa di nuovo: per cominciare egli accosta la poesia in volgare di Dante al volgarizzamento montiano di Omero, riconoscendo al poeta delle Alfonsine il merito di aver definitivamente riacclimatato e resi familiari «testi tanto diversi e remoti, ormai, dal gusto dei più». Ciò detto, è un’altra l’inquadratura di Apollonio che più ci interessa, capace di sottrarre definitivamente Monti alla marginalità decretatagli a partire da De Sanctis: «Il tono apocalittico delle stragi e delle guerre […] favoriva l’incontro con Dante e la sincerità della commozione; non solo, ma della fiducia nei rimedi che a tanti mali poteva apprestare l’Europa cristiana, ripiegando sulle difese della sua religiosità tradizionale». Apollonio ribadisce, sapendo che deve anche limitare: «[Monti] non intese dove portava la strada che aveva percorso per un tratto (alla reviviscenza cattolica del Romanticismo, nientemeno!)»; e Manzoni è ormai alle porte. Apollonio non manca di introdurre, accanto a Monti, il dialettale Porta, con i suoi rifacimenti-traduzioni, dandogli dei riscontri europei, poiché il grottesco fiducioso del poeta in lingua di Milano gli richiama, impensatamente e per antitesi, il grottesco disperato di Kafka (dopo aver spaziato la strada tra i due con i Paradis artificiels di Baudelaire e la Saison en enfer di Rimbaud, in qualità di cippi miliari, poiché il secolo non si intende – scrive lo studioso – qualora non venga tenuto nel debito conto che «Dante è ormai acquisito tutto quanto al gusto e alle riflessioni»). Il dittico può parere bizzarro e privo affatto di ragionevolezza, ma si badi solo, se si vuole, alle misure esatte trovate per l’ebreo di Praga, Kafka, appunto, il quale «racconta [in tedesco] di demoni rovesciatisi a devastare una terra d’incubo, con parvenze tanto più efferate quanto più quotidiane» (ed è un altro dei momenti, non numerosi, ma visibili, in cui quest’opera dedicata a Dante sembra tingersi della memoria d’angoscia della guerra appena conclusa. Apollonio se n’era forse XL

già ricordato, commentando la bolgia dei ladri, quando, per baleni tinti di sangue, pareva affiorare la città partita del vittoriniano Uomini e no). Porta ritrova l’attualità del poeta fondatore nella sua variegata cronaca urbana di primo Ottocento o quando sceneggia, e ambienta per frammenti la Commedia a Milano, trovando la verità, più che il pretesto, per una polemica contro l’accademia, nel rivendicare la dignità del proprio strumento musicale e verbale. Apollonio riconosce la libertà, l’agevolezza, la festa, si potrebbe dire, di un Porta che, sentendosene degno, lavora autonomamente il materiale dantesco (e bellissima è la riscrittura plebea della storia di Francesca: attorno a cui si raccolgono in ascolto le creature dell’affrescatore bosino: la Ninetta, il Gioanin, il Marchionn; e gli altri sventurati). Se il catalogo dell’opus poetico portiano contiene manifesti di poetica e interventi militanti, divenuti celebri, è però con Foscolo che si inaugura, tecnicamente, la maggior critica romantica, mediante la caratteristica e positiva interferenza tra opera di invenzione e opera di riflessione. Apollonio pensa insieme ai Sepolcri e alla così originale traduzione del Sentimental Journey dello Sterne (e ai tentativi autonomi di prose di romanzo, pur frammentari, dell’autore greco-veneto), quando scrive: «La sua opera di critico letterario conosce il polo della tragedia liturgica e conosce il polo della commedia di costume, la teoria dantesca degli spiriti magni, e il moralismo pariniano: quasi isolando in un’osservazione puntuale la sua grande disponibilità di narratore inespresso». È qualcosa di assai più, badiamo, che un discorso di riflessione il quale si raddoppia sull’invenzione, se nella biografia miseranda ed esemplare del Foscolo osserviamo, guidati dallo studioso bresciano, l’inverarsi dell’idea di letteratura come vita, poiché con tale esegeta si fa prova della «nuova attualità di Dante: che è chiamato a introdurre il grave tema dell’esilio risorgimentale […] e l’attesa della patria bella e perduta». Il melos del coro popolare verdiano viene applicato da Apollonio alla comunità dei nuovi sbanditi dell’Italia risorgimentale; ed è esperienza attorno a un poeta-caposcuola, Foscolo, appunto, che trascende se stesso, diventando bandiera di un «episodio della vita dell’Ottocento che non si organizza in un genere letterario, e che pur rimane operoso nella letteratura: Dante è chiamato quasi santo patrono in una comunità artigiana di fedeli operosi». Foscolo porta poi a compimento «l’ipotesi alfierista, che a comprendere Dante occorresse uomo di eguale o simile tempra: lui stesso», ma dove l’«allòbrogo feroce» si era quasi limitato a una petizione di principio, il suo maggior discepolo compie un transito ben più ricco: «Un uomo nuovo, Foscolo, insegna per la prima volta che il critico può ripercorrere l’esperienza del poeta, solo risoffrendola in sé». Appartengono a una cronaca letteraria assai vivace e fin troppo pittoresca le guerriglie in cui veri e propri partiti politici (e di riforma religiosa) infeudarono Dante a loro medesimi e agli studi, assai vasti e certamente in regola quanto all’erudizione, assai meno nella capacità di interpretare i fatti tanto di poesia quanto di storia: dove, «per ammenda», accanto alla ricerca rigorosa, tornava a crescere e a consolidarsi la mitografia delle “tenebre del Medioevo”, e dove un attivissimo anti-clericalismo, alleato con istanze nazionalistiche, si toglieva tanta XLI

possibilità di capire il poeta e il poema. Dante, dopo che segnacolo in vessillo, diventò anche pietra dello scandalo («Con ogni forza e ogni accorgimento […] intorno al poema si celebrò una specie di Iliade di Guelfi contro Ghibellini»). Foscolo non si sottrasse alla partita; anzi, «accorse alle suggestioni dell’ambiente protestante [di Firenze], che fa di Dante un precursore della Riforma nella lotta antipapale». Apollonio propone però di lasciar cadere a terra i detriti del tempo, facendo emergere nitidamente il dono del poeta dei Sepolcri e il saggista appassionato del Discorso sovra il testo della «Commedia» di Dante: «Nonostante tutto, per la prima volta e per sempre si afferma che il centro del poema di Dante è un pensiero religioso, che la problematica di Dante è teologica, che l’attesa di Dante è apocalittica». Acutissima è poi la nota di congedo, una cadenza inattesa e splendida, con la quale viene annunciato il lirico di Recanati, attorno alla «poetica della castità, che domina dalle Grazie del Foscolo al canto Alla sua donna del Leopardi: qualunque misura di stilnovismo vi riecheggi». Se riesce delusivo e scarso di risultati, dalla ricostruzione di Apollonio, l’incontro di Manzoni con Dante, appare però delineata con precisione sapiente l’eccentricità stilistica dei due scrittori al paragone: «[Manzoni è] assai più propenso a investire la realtà di una forza morale, trasfigurandola lentamente, che a plasmarla nella sua felice evidenza d’immagine, nella sua attualità estetica, come esemplarmente Dante, che è il fondatore di una civiltà prevalentemente artistica e visiva». Perfetto: eppure oggi noi vediamo più Dante in Manzoni di quanto ve ne trovasse Apollonio; e danteschi ci sembrano la fenomenologia e i ritratti dell’anno della peste e della tragica Colonna infame, con le loro orride diableries e i tanti mucchi di dolenti (con maggior pietas, senz’altro, in Manzoni, il quale si sottrae a un Giudizio universale dal punto di vista di Dio; e più laicamente, se possibile, di Dante, egli osserva gli argomenti umani e ne deduce e ne dibatte, da nipote di Cesare Beccaria, qual era, secondo i lumi della ragione, solo alla climax dell’epilogo – o, se si vuole, all’anti-climax – introducendo il vero ultimo non tanto della teologia dogmatica quanto piuttosto della «fiducia in Dio», qualcosa di eguale e di diverso dalla virtù della fede: «E dopo tanto ragionare e discorrere…»). Infine, converrà forse aggiungere che si può giudicar bene il lascito imponente di Dante a Manzoni soprattutto dalle grandi minute delle liriche, delle tragedie e del romanzo più che dalle ne varietur (ma, quando nasceva il Dante di Apollonio, la critica degli scartafacci e delle varianti era ancora ferma ai suoi incunaboli). Leopardi inizia scontando l’imprinting della cultura del neo-classicismo ch’era di tradizione negli Stati Pontifici. Egli, dunque, accetta, scrive Apollonio, «l’idea dell’eccellenza dantesca e il valore della tradizione dantesca nel catalogo delle dignità d’Italia, senza impegnare se stesso nell’incontro, senza decidere l’orientamento del proprio itinerario spirituale». Il personaggio di Dante è presente soprattutto nella mitografia eroica del Leopardi delle canzoni (e pour cause in quella Sopra il monumento di Dante, dove un patriottismo largamente partecipaXLII

to trova accenti commoventi dinanzi all’episodio dei morti di Russia). Permane assai suggestiva la citazione congiunta di Dante e di Petrarca nella canzone Ad Angelo Mai, dove però il poeta nuovo rimarrà più attento «alla solitudine petrarchesca, idillica, che alla solitudine dantesca, sdegnosa», raggiungendo forse l’intimità più profonda, ma nuovamente non distinta, ai versi 69-70: «Ahi dal dolor comincia e nasce / l’italo canto». L’Ottocento è multanime e, aggirati i pur grandissimi Manzoni e Leopardi, dopo il greco-veneto Foscolo, e in attesa di De Sanctis, la gloria del dantismo romantico tocca al dalmata Tommaseo (che definiva se stesso barbaro e schiavone). Forse Apollonio ne sopravvaluta la poesia (cogliendo però con pertinenza che il meglio dell’autore è nella novellistica in versi), ma è assai convincente nel descrivere il lavoro di Tommaseo e i suoi trovati esegetici, lungo una inintermessa attenzione a Dante, durata quanto la vita. Dobbiamo anche rintracciare di necessità un’ascendenza autobiografica (di autobiografia culturale, beninteso; di chi parla infatti Apollonio, almeno in parte, se non di sé, quando, discorrendo del metodo commentatizio del dalmata, egli sottolinea il «giuoco sottile e interminabile delle […] reminiscenze di letture poetiche che accosta al testo di Dante, quasi che Dante fosse l’eco di un’immensa antologia poetica»?). Tommaseo giunge a Dante da molte parti, dal «mistero naturale della poesia popolare» (è ancora Vico e, tramite Vico, il mito della poesia nativa di Omero sul cui fondamento, fattosi antropologo e folklorista, egli sfocia nella raccolta dei canti popolari greci e illirici) e dalle «quintessenze dello psicologismo francese» (è la fase dell’esilio parigino e di Fede e bellezza), ma egli si sente soprattutto vicino a Dante «poeta cosmico», per le premesse e le ambizioni della sua propria poesia. A reggere tutto in profondità sta, però, l’idem meditari: secondo Apollonio, Tommaseo legge la Commedia con la medesima devozione e trasporto con cui il “croato” trecentesco si portava in pellegrinaggio a Roma a vedere l’immagine del volto di Cristo («la veronica nostra»). Inoltre egli accetta come cosa salda tutta la religiosità di Dante, e il sistema (la «struttura», dirà di lì a poco Croce) che lo esprime: dai peccati d’Inferno alle preghiere di Purgatorio ai cori liturgici di Paradiso, senza le riserve umanistiche di Foscolo e i preconcetti hegeliani di De Sanctis nei confronti di una Weltanschauung archiviata in quanto ritenuta morta e inconciliabile con i tempi nuovi. Tommaseo crede con naturalezza a ciò in cui Dante crede, con una precisa adesione a quel mondo, nei termini tanto dell’emozione lirica che del consenso intellettuale; riassuntivamente: «[Tommaseo] procede di tanto a conquistare alla sensibilità moderna lo spazio della non-poesia […]. I momenti ideali della speculazione filosofica e metafisica della Scolastica [gli] son tutti palesi, li intende e li ama: di più, li sente attuali in quel mondo della cultura romantica». Inoltre, il veneto di Sebenico legge Tommaso e Bonaventura e gli altri con l’orecchio attento ai Padri, cosa non più tanto comune nelle scuole ecclesiastiche italiane e, per interesse tutto suo, accanto ai latini, intende i Padri greci, indice delle influenze orientali che sono, prevedibilmente, così ricche in lui, ma ancora poco studiate.

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Attorno al De Sanctis, galantuomo e «ottimo fra i letterati critici d’Italia», Apollonio si muove con l’ammirazione e la devozione chieste dalle tante e tante pagine, le quali, appassionate e impetuose sempre, pur con le note e insuperabili riserve, non vengono tuttavia mai meno alla cordialità e all’accoglienza. Lo studioso comincia la propria indagine, attestando la lunga fedeltà a Dante da parte del critico di Morra Irpino nella scuola, nel giornalismo e dovunque, «[nelle] innumerevoli reminiscenze che insinua a proposito di qualunque autore»; e subito traccia un bilancio dalla fine di questa protratta attenzione: «Il meglio gli esce dal cuore, allorché lascia da parte i suggerimenti del cervello e le preoccupazioni culturalistiche». Converrà premettere le linee del paesaggio di religione laica che circonda De Sanctis: egli appartiene al secolo del culto di Dante, quando si manda la Commedia a memoria, la si legge in privato come il Salterio e la si ascolta in pubblico a teatro. Apollonio va in cerca del pittoresco e lo trova, scrivendo che tutti i grandi attori hanno in repertorio una serata dantesca o più; e, ricitiamo, «per cercare in qualche modo di contornare con una cornice di finzione scenica la recita dei versi, gli uomini di teatro [Modena, Rossi, Salvini] amavano travestirsi da Dante, con il lucco e la corona d’alloro sulla faccia che il cerone e il nerofumo rendevano grifagna […] e passeggiavano per il palco, declamavano i versi, fingendo di dettarli a uno scrivano, o di rimeditarli da sé, o d’improvviso tonando». Il «lungo studio e il grande amore» per Dante ha quale frutto precipuo i «saggi critici» danteschi, i ritratti subito celebri e ripetuti di Francesca, Farinata, Pier della Vigna, Ugolino (e già in precedenza Apollonio aveva toccato del «ritrattismo drammatico, ma ridiffuso narrativamente del De Sanctis», fra lo stile di Manzoni e quello di Nievo, e del suo essere prosecutore di Vico nel culto «delle figure eroiche, di natura più che umana»). Altrettanto naturalmente non si può però passare sotto silenzio la «spaventosa insufficienza dei suoi schemi storiografici»», mentre «solo l’inerzia con cui l’incultura italiana sosta nella scenografia proposta al Medioevo dall’enciclopedismo illuminista può indurci a considerare con altro che con dispetto e fastidio quelle approssimazioni che egli e tanti ripetono in buona fede». Così la Storia della letteratura italiana cambia genere e riceve, non da oggi, dunque, il cartiglio di romanzo storico (un bellissimo romanzo storico, indubbiamente, nel senso proprio del genere misto di storia e d’invenzione, dove l’eccellente lettore di poesia convive e contrasta sistematicamente con il mediocre se stesso teorico e sceneggiatore-quadraturista). Per dir di Carducci, Apollonio ricorre alla pittura di genere illustrativo, così diffusa e tanto interessante, in qualità di documento, quanto povera poeticamente: giornalismo dipinto. Vero è che la scuola storica, cui il «vate maremmano» appartiene, lo inibisce, non permettendo che «quanto la sua fantasia [di poeta] sa leggere in Dante» riesca a tradursi «in termini di critica e storia, nelle sue lezioni dalla cattedra e dal libro». Eppure, davvero singolare, e mai posta nel dovuto rilievo (e splendida: sia permessa un’interiezione ammirativa), è una nota di costume su una prospettiva aperta e frequentata da Carducci: «Le Rime nuove sono colme della Vita nova: quasi per un processo connaturato al nuovo XLIV

nazionalismo, che in più riposato tempo, dopo i fervori eroici del Risorgimento, dovendo cercarsi uno stile di vita elegante e amorosa, lo trovava in una tradizione nobilissima e gentile. La letteratura femminile dovette avervi gran parte, e la presenza regale e operosa di Margherita». Apollonio ha certo in mente l’eulogio della prima quartina della “barbara” Alla regina d’Italia: «Onde venisti? Quali a noi secoli / sì mite e bella ti tramandarono? / fra i canti de’ sacri poeti / dove un giorno, o regina, ti vidi?» D’Annunzio si muove alternatim tra lo stilnovismo elegante e gelido dei preraffaeliti, ben dentro, dunque, un decadentismo, preziosamente mascherato di culturalismo, e lo stile dell’ufficialità umbertina, forzuto e gonfio, «di romba barocca». Vince, andando, la celebrazione ipertrofica, affidata all’evasione oratoria e al turgore allocutivo: e ciò è indice di un allontanamento da Dante, anziché di una partecipazione («Il culto risorgimentale, colmo di pudica pietà, avrebbe proibita [tale maniera]: misurala col confronto dell’elegia leopardiana: “Amor di patria, o cari, amor di questa misera…”, che è tanto diversa dal gusto di qualsivoglia ipotiposi dannunziana)». Forse eccessivo la spazio dedicato a Giulio Salvadori, amico sia di Pascoli che di D’Annunzio, così come è assai poco difendibile la tesi che «le letture moderne di Dante discend[a]no tutte da lui». Apollonio rimase senza dubbio affascinato dalla persona del terziario francescano, tra i suoi predecessori sulla cattedra di Letteratura italiana dell’Università Cattolica di Milano, e per questo fece cadere volentieri, accanto a lui, il nome maggiore di Ozanam. Letta la poesia di Salvadori (che, almeno per quel poco che ne è qui antologizzato, pare intonarsi a uno stilnovismo ormai esausto, quasi un alone privo di sostanza), l’opera critica riceve un giudizio equilibrato nelle annotazioni al capitolo che riguarda l’autore: «Studioso acutissimo nell’intuire il nucleo vitale di una verità e poi contento alla breve festa dei primi pretesti e, nonostante i severi dettami della scuola, quasi infastidito di attendere alla elaborazione dottrinale […]; non una ma mille idee pullulano e si sperdono nei suoi studi». Perfetto è, peraltro, il riconoscimento del modello di scrittura il quale rimanda a un tempo che si è tutto spento in se medesimo, non proseguendo nel nostro: «Non ti sorprend[a] una resa stilnovistica d’accento fogazzariano».

Il simbolo e l’emblema Per discorrere intorno a Pascoli, Apollonio apre giustamente un’inquadratura di carattere sulla volontà di vittimismo dell’autore e sulla precostituzione quasi intenzionale, da parte sua, della figura dell’aggressore. Stiamo leggendo le ultime pagine del Dante. Storia della «Commedia», collocati, quindi, in posizione forte: «Vorremmo annotare per prima cosa questo risentimento negli studi pascoliani su Dante: che l’insuccesso o addirittura la disistima rinfocolano, ma non fanno nascere: era un sentimento di sospetto e di umiliazione che lo accompagnava già da principio, un complesso di inferiorità che lo induceva a uscire dalla cerchia XLV

più sua per cimentarsi al paragone della scienza ermeneutica e della dottrina filosofica, di contro a quei solenni officianti della scuola storica». Luigi Baldacci ha brillantemente distinto, come noto, fra un Pascoli “di campagna” (l’autore nuovissimo de La servetta di monte, de La tessitrice, di Digitale purpurea, di Suor Virginia e di molto altro) e un Pascoli “di città”, il quale, senza vergognarsi del precedente, vuole però anche misurarsi con la maniera grande di Carducci e di D’Annunzio, buttandosi ai cartoni dei Poemi italici, al ciclo delle Canzoni medioevali e agli imponenti volumi di studi danteschi. Secondo Apollonio, Pascoli trova realmente «invidiosi veri», ma li annega in un faticoso, appunto, sillogizzare, entro una copia ipertrofica di dottrina e con un eccesso protratto di sottigliezza di ragionamenti, cosicché i suoi risultati appaiono sviati da una prevalenza dell’erudizione minuta «sulla fantasia ricreante, sulla partecipazione emotiva e immaginifica del discepolo all’opera del poeta. […] Pascoli a stento si ritrova, e [solo] indirettamente svela l’immagine che gli ha visitato la fantasia e che l’ha aiutato, attraverso il linguaggio dell’emblema, a intendere il poeta». Pascoli invadeva i volumi di dantologia con tutti i manierismi che la sua miglior poesia, miracolosamente, lasciava cadere a terra: la poesia dei fiori notturni e delle macroglosse, del lampo e dell’uccellino del freddo (di Italy, se si vuole, Sacro all’Italia raminga, come da epigrafe del poeta; e de L’ultimo viaggio); ma, oltre a ciò, egli andò alla cerca anche di altri motivi che lo facessero respingere dalla custodia dell’accademia italiana (e fu invece il dono che compensa oggi la fatica costante chiesta dalla sua prosa di riflessione, quasi stazione imprevista di una singolare, e non religiosa, scuola ascetica di Purgatorio): oltre alla «nuova attenzione agli elementi fantastici ed emblematici […], egli visitò e frequentò quella dottrina scolastica e patristica, i testi sacri e la metafisica, il mondo insomma della cultura dantesca che la critica ufficiale guardava tuttora circospetta». Il lavoro di vaglio del «troppo» e del «vano» venne svolto egregiamente da Luigi Pietrobono, frate scolopio, lo scolaro meglio provveduto di Pascoli; il quale «si tratt[enne] dalle induzioni troppo frettolose, ricostitu[ì] l’ordinamento morale della Commedia e, soprattutto sugger[ì] la norma dello svolgimento infinito dei temi, che vanno osservati nel loro disporsi e ripresentarsi. Siamo alle soglie [dell’accertamento] dell’emblematica dantesca». Tenendo sempre presente, da qui inoltrandoci, che è ormai Apollonio a parlare, spesso, in proprio, anche se per interposti nomi, non sbaglieremo nel trarre da Pietrobono e, più, da Pascoli medesimo l’idea di un tempo rettilineo della Commedia che si metamorfosa e alloggia non di rado in un tempo circolare, proprio lungo un iter di narrazione continua, il quale procede e si espande, domandando però di ritornare su se stesso, ad anello, ogniqualvolta l’autore si citi: e ad esempio insigne addurremo un entrelacement forte, cioè il caso fornito dal sublime della trinità intuita (lasciamo con intenzione l’etimo doppio e intrecciato del vedere dentro e dell’arresto dell’artista che è giunto al suo ultimo) nella visio dell’epilogo di Paradiso che è anche il dissolvimento del simulacro empio di Lucifero, nell’ultimo di Inferno, confitto, 110-111, nel «punto / al qual si traggon d’ogne parte i pesi». NaturalXLVI

mente andrebbe seguito il proporsi e il riproporsi della lupa, la fiera maggiore, attraverso i tre regni, direttamente o con immagini vicarie, fino alla dissoluzione; e intravedere già dalla «selva selvaggia» la «divina foresta spessa e viva» (e la candida rosa, e la sua immagine generante, il «fiume fluvido di fulgor», con la gioia arcana dei fiori e delle api, epilogo santo e ultimo delle riviere infernali, preceduto dall’intermezzo delle acque lustrali dell’Eden); e, ancora, ritrovare alla fine, dopo che sono state diversamente attive per tutto il viaggio, le «tre donne benedette» apparse nel prologo in cielo dell’avvio della Commedia (e non trascurare le tante immagini di chiesa parodiate nell’abisso, via via purificate lungo l’erta della casa di pena e di preghiera, e celebrate liturgicamente nell’armonia delle sfere del beati; e, per porre un termine provvisorio, riattendere alla lezione umanistica di Brunetto trasvalutata nelle scuole ascetiche della montagna magica, fino alla laurea celeste di Dante, confessore delle tre virtù teologali). Torniamo ad appuntare, al di là dello schermo della prolissità e della querimonia, e risalendo di nuovo dall’allievo, Pietrobono, al maestro, Pascoli, il frequente riferimento al «linguaggio dell’emblema»; ed è sintagma di cui Apollonio si serve con assiduità, per definire un aspetto decisivo del suo personale metodo di lettura della Commedia e la cui scoperta attribuisce evidentemente a Pascoli (e in precedenza, ma in altro senso, a Vico). Trovo e restituisco la definizione di tale parola-concetto da un saggio posteriore all’opera protostipite che veniamo studiando. Accostiamo pagine quasi liminari: «Il simbolo [qui si deve anche leggere allegoria] viene a indicare giuoco o teoria di accostamenti premeditati e predisposti; l’emblema [è] la forza propriamente “poietica” della parola, il suo promuovere nuovo ordine e nuova luce, il processo delle apofanie, delle rivelazioni». Non si poteva dir meglio.

Poetica della bibliografia Quanto al confronto statistico fra le schede della prima edizione dell’opera e [le schede] di questa, la citazione e la chiamata in causa di più numerosi [contributi critici] risulterebbe certo più vasta se la Storia della «Commedia» non fosse tuttora, nell’ambito della dantologia contemporanea, più in fase di assimilazione che in fase di discussione: troppi commenti, troppi saggi, troppe inchieste parziali arrestandosi a fasi anteriori e trascurando il rapporto assiduo fra la tesi e il mondo del sapere e di scienza cui appartiene il suo autore: che importa? È dunque un’opera nuova ancora.

Allorché Apollonio dettava questa amara constatazione, non sapeva certo che il suo Dante, nonché non passare dallo stato dell’«assimilazione» a quello della «discussione» e oltre, sarebbe di fatto uscito dalla classe dei buoni studi, senza neppure entrarvi: così ci si tolse, con tutto l’altro, anche la possibilità di cogliere i risultati del singolare (e singolarmente affabile) portolano della dantologia fra Ottocento e Novecento che qui introduciamo come cosa nuova.93 XLVII

a) Poetica della gratitudine L’organizzazione bibliografica del Dante si avvale di atteggiamenti assai singolari e, più propriamente, di «argomenti umani» tutt’altro che paradigmatici per il genere. L’atto sistematico, ad esempio, del definire per ordine e misura le ricerche storico-critiche sul poeta massimo e gli autori delle medesime viene espresso proprio con la metafora dantesca del “vedere bene” e attraverso l’uso dell’atteggiarsi, sempre dantesco, di gruppi e individui entro una cornice di rievocazione intellettuale, sembrando che lo studioso deduca qui tratti dal prologo umanistico di Inferno, dalle scuole ascetiche di Purgatorio, dalle cattedre universitarie di Paradiso (da tutti i luoghi summatici del poema, insomma). Apollonio così prescrive: «Occorre collocarsi, per comprendere […] in luogo tanto aperto donde gli ostacoli si oltrepassino dall’alto […]. Il metodo che siamo venuti in tante pagine proponendo procura un sistema di accertamenti che scenda sopra al più vasto possibile cumulo di notizie e le illumini». L’enunciato proposto si svolge da una ben riconoscibile variazione sopra Inferno IV, il canto del Limbo, 115117: «Traemmoci da l’un de’ canti, / in luogo aperto, luminoso e alto, / sì che veder si potean tutti quanti» (ma conduciamo al suo termine la scena, benché notissima fino alla proverbialità, 118-120: «Colà diritto, sovra ’l verde smalto, / mi fuor mostrati li spiriti magni, / che del vedere in me stesso m’essalto»). Anche Apollonio passerà dunque in rassegna «spiriti magni», toccando per ciascuno di loro un tratto peculiare di dedizione nobile alle religione delle lettere: cosicché la Tavola bibliografica si mostrerà a noi quale nuovo «nobile castello», abitato da «gente di molto valore» (ma, naturalmente, con analoga pertinenza, è lecito riandare alle posizioni di scena del teatro della “valletta dei principi” di Pg VII, 88-90: «Di questo balzo meglio gli atti e ’volti / conoscerete voi di tutti quanti, / che ne la lama giù tra essi accolti»). Sulla traccia di tali proposte, lo studioso orienta, coerentemente, modi di trattatistica morale entro una saggistica, per appunti, di documentazione del lavoro critico prodotto all’incirca lungo cento anni o quasi: con pagine che sono, insomma, un catalogo fatto insieme di tessere esegetiche o erudite e di scorci de viris illustribus. Egli entra in argomento con un riassunto: «La concreta umanità si affaccia ad ogni riga di chi con la vita delle parole persegue la verità della parola (e l’astrazione scientifica è, nei nostri studi, solo un’ipotesi di lavoro)»; e poi costruisce la serie. Ecco, allora, il culto e la custodia dantesca di Giovanni Andrea Scartazzini; l’inquietudine geniale di Nicola Zingarelli; l’instancabile dedizione di Francesco Flamini; l’«accoglienza equilibrata e pensosa» di Michele Barbi; la sicura dottrina e l’abnegazione di Mario Casella e, per riassumere, il «lungo studio e ’l grande amore» di quanti, con loro, cercarono il volume di Dante. Attraverso la ricca vicenda di uomini e libri, Apollonio fa dunque scorrere il filo di una disposizione maieutica collettiva e di un abito umanistico concorde: e in ciò la pagina di questa area del Dante si porta a significare, accanto al regesto informatissimo, devozione verso quanti hanno ben meritato nella casa dei buoni studi; ed egli, potremmo continuare, «in [se] stesso [s]’essalt[a]». Non sorprende che si possa cogliere, se non eccediamo in sottigliezze, anche una prosecuXLVIII

zione ad eco di Pd XXIII, 19-21, cioè dell’immagine delle schiere del trionfo di Cristo e del «frutto / ricolto dal girar di queste spere». Apollonio così commenta il proprio metodo (credendo – pare evidente – che i risultati maggiori della secolare esegesi e, da ultimo, della propria valgano in qualità di aggetti ad un’opera scritta dal suo autore, Dante, con intento di confessore del mondo terreno. Lo studioso, al riguardo, ci sollecita a notare come, non a caso, la Commedia fruisca di un commento perenne, al modo stesso dei libri sacri): «Poiché la Tavola viene al termine del lungo itinerario qui seguito dalle cose all’anima, lungo la vicenda delle parole, consiglieremmo di intenderne ogni nome nella risonanza di questo saggio, per non perdere ogni frutto di questa cernita». Pagine di rendimento di grazie, insomma, e di lode; da cui faccio dipendere una postilla: se esiste una poetica della bibliografia, per questo aspetto legherei il metodo e gli esempi appena indicati sotto il segno di una poetica della gratitudine. b) Poetica della conciliazione Apollonio rifiuta la sbarra di confine dello storicismo più corrivo; e dichiara: «Bisogna oltrepassare i divieti delle scienze [positive], per le quali la poesia era un fenomeno in sé irrilevante di una situazione storica o linguistica» (e, poco sopra, aveva già annotato, disapprovando: «Lo scientismo positivo elimina volentieri una categoria dello spirito, il luogo della poesia»). Accantonata tale posizione, lo studioso si oppone anche alla scelta simmetrica, operata dall’astrazione idealistica, la quale isola dei morceaux exquis e li immerge, dissolta la persona del poeta, nel canto dell’anima del mondo (sono, non vada dimenticato, stili di lettura ben presenti nel concreto anche oggi, assente, però, la querelle teorica, in un ingresso di millennio di “pensiero debole”). Con tutto, e descritti consapevolmente la ribalta e gli attori, Apollonio intende evitare il più possibile gli esclusivismi; e perciò, pur posto e continuamente ribadito per conto proprio il primato dello splendor veri, della verità divenuta epifania lirica, lo studioso augura e promuove una integrazione assidua tra il «cosiddetto metodo filologico» e il «cosiddetto metodo estetico» (termini imprecisi e generici, osserva lui stesso, ma sul significato dei quali ci si intende facilmente e che dunque si possono provvisoriamente adottare). Indichiamo al riguardo, senza indugio, un movimento esemplare di mediazione, ribadito con la tecnica del quadro nel quadro: «Nella voce dantesca dell’Enciclopedia gentiliana Michele Barbi può benignamente accostare la scuola carducciana e la scuola desanctisiana (erano gli anni della dedica del volume La poesia di Benedetto Croce: “Alla memoria di Francesco De Sanctis e di Giosuè Carducci”)». Ad Apollonio importa dunque che ci sia, manzonianamente, una conversazione continua tra la funzione, soprattutto muratoriana, del certo e quella, soprattutto vichiana, del vero (ma, per tale ordine di principi, potremmo affiancare, ed Apollonio consentirebbe, la limpida formulazione della prima Critica kantiana: «Le idee, senza i fatti, sono vuote; i fatti, senza le idee, sono ciechi»). Ecco allora, e di nuovo, Barbi, cui si aggiunge Parodi; mentre, in conseguenza di ciò, è lecito parlare di uno «storicismo pronto ad accogliere sempre nuovi XLIX

problemi nel Barbi e ad approfondire l’indagine verso l’intimità del processo creativo con Parodi»; e viene anche aperta da qui la strada per i rapidi disegni che toccano a Curtius e a Contini. Di quest’ultimo, con altro, si scrive «di una puntualizzazione testuale […] fatta con straordinario acume e vastissimo registro nell’edizione delle Rime» (ma se ne era già parlato come del «più acuto ed esperto organizzatore della sintesi filologica sui dati di una parola [poetica] profondamente indagata»). Dopo Contini, Apollonio incontra Curtius; leggendo il quale egli annota: «Ci rallegra[va] di constatare la convergenza degli interessi di una ansiosa lettura di poesia con quelli di una gigantesca opera di sistemazione culturale». A Curtius compete – comprensibilmente, verrebbe fatto di dire – una particolare ammirazione; al punto che, dopo una estesa recensione del capolavoro della romanistica tedesca (un’opera sostanzialmente nuova all’altezza della princeps del Dante di Apollonio: era infatti apparsa nel 1948), Apollonio prosegue, assumendo, già lo ricordavamo, a propri modelli virtuali sia il libro che l’autore. Tanto egli propone: «E se negli anni intenti [al Dante. Storia della «Commedia»] ci è mai accaduto, leggendo, di pensare a una rielaborazione complessa del [nostro] lavoro, accadde leggendo quest’opera, della quale ci erano giunte anticipazioni sparse, titoli smarriti negli spogli delle riviste: danno dei tempi». Per noi, tuttavia, oggi, appare particolarmente suggestivo il breve dittico che Apollonio costruisce di sé e di Giuseppe Billanovich (nostri maestri, entrambi; e parevano maestri avversi, ma in realtà, lo vediamo ormai bene, convergevano da direzioni opposte sullo stesso terreno di applicazione): «Piace constatare», scrive Apollonio, «che [lungo gli anni] le indagini di Billanovich siano state tali da innovare non solo il grande capitolo petrarchesco e boccaccesco della storia della fortuna di Dante, ma la stessa storiografia letteraria dei secoli XIV e XV; e anche il mio proposito di fare storia dal tempo maggiore della poesia al tempo minore della cronaca ha, da un diretto incontro di lavoro e di vita, ricevuto indiretto valore e conforto». Qui può cadere, come al suo luogo destinato, la seconda conclusione, facendo spazio alla poetica della conciliazione, accanto alla poetica della gratitudine; mentre appare poi assai fondato pensare, quasi nei termini del corollario necessario, che anche quest’altra linea di poetica nasca alla scuola di Dante, e venga dedotta dai canti del cielo del Sole, non per nulla il cielo dei sapienti, dai panegirici a specchio di Tommaso per Francesco e di Bonaventura per Domenico. La corona dei versi si stacca e spicca da sé, Pd XI, 40-42: «De l’un dirò, però che d’amendue / si dice l’un pregiando, quale uom prende, / perch’ad un fine fuor l’opere sue». Riconduciamoci ai «fermi poli» della poetica della gratitudine e della poetica della conciliazione (centri, peraltro, di due cerchi che, come s’è appena visto, si intersecano ampiamente): Apollonio leggeva Dante con Dante, e l’intimità raggiunta era dunque tale da fargli indossare, con l’agevolezza del familiaris, l’abito della sequela del proprio autore; il quale addestrò nel profondo questo nuovo discepolo ai propri humaniora. L

̅ Debbo il titolo alla splendida introduzione di Giorgio Agamben a ENZO MELANDRI, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2012 (una riedizione: la princeps è, infatti, del 1968). Faccio mio e applico al Dante di Apollonio (uscito dalla bibliografia dantesca, senza senza esservi stato debitamente apprezzato e discusso) l’auspicio di Agamben all’opera di Melandri: «Rimasto isolato, come un astro senza atmosfera, il libro ha mantenuto intatte la sua freschezza e la sua forza […]. Esso può iniziare ora la sua avventura postuma nella cultura italiana ed europea, senza aver perso nulla della sua attualità». 1 Benedetto uomo! Inutile dire che in questa nuova edizione le parentesi sono state sempre debitamente chiuse e corretti gli eventuali altri errori di stampa. 2 Canzone Le dolci rime d’amor ch’i’ solia. 3 Dante. Lettura della «Commedia», p. 468. 4 Rendiamo intenzionale omaggio a GIOVANNI GETTO, riusando la celebre formula proposta negli Aspetti della poesia di Dante, un altro libro oggi troppo trascurato, in cui lo studioso giunge, tra l’altro, ad una lettura innovativa di alcune fra le più ardue pagine del Paradiso. Cfr. i due saggi centrali dell’opera, Sansoni, Firenze 1947, Poesia dell’intelligenza e Poesia e teologia nel «Paradiso» di Dante (e subito di questo secondo si affollano alla memoria altre felicissime chiavi offerte all’esegesi, che tolgono di mezzo, nientemeno, il macigno dell’interdizione crociana: «Se si volesse racchiudere in una formula provvisoria, didascalicamente orientativa, il contenuto poetico del Paradiso si dovrebbe parlare […] di epos della vita interiore, di dramma della vita della grazia, di poesia dell’esperienza mistica […], di lirica dell’adorazione», p. 196. Ma si veda anche, più avanti, «sentimento della teologia e poesia della teologia», p. 225. La citazione è dalla seconda edizione del libro, di nuovo Sansoni, Firenze 1966, arricchita da numerose lecturae Dantis, dedicate a singoli canti della Commedia). Getto fu per un anno, nel 1950, prima del suo lungo magistero torinese, professore alla Cattolica di Milano. Apollonio, del resto, cita puntualmente l’autore e i suoi scritti proprio introducendo il Paradiso. 5 Si rammenti che una frase ripetuta dallo studioso, quale Leitmotiv, è che Dante sia sempre e comunque poeta. 6 E vengano aggiunti, naturalmente, gli scritti di Enzo Noè Girardi e di Franca Brambilla Ageno. 7 Apollonio muore nel 1971. 8 Con eccezioni luminose, naturalmente. Penso in particolare ai lavori foscoliani di Macrì e leopardiani di Bigongiari. 9 Fatti decisivi per una nuova e più provveduta lettura dell’opera dantesca. A questo clima andranno almeno legati, in termini generalissimi, i nomi di Étienne Gilson, di Bruno Nardi, di Giorgio Falco (e, per la storia della liturgia, almeno Romano Guardini). 10 Colloco qui una breve notizia della recensione di Cesare Foligno all’opera di Apollonio in “Studi danteschi”, vol. XXXII (fasc. I), Sansoni, Firenze 1954, pp. 73-96. Il critico si muove chiaramente a disagio, ma poi dichiara il suo vero e intero sentire che è di «attonito sbalordimento» (p. 82), «tra nebbie e nuvole che di quando in quando qualche lampo di luce […] rischiara», p. 78. Accumulate (un po’ a caso, per vero dire) tutta una serie di imprecisioni, disattenzioni, arbitrarietà, arcanismi, esoterismi, “oscurismi” da imputare, a suo credere, ad Apollonio, Foligno si spinge poi a domandare ragione all’autore per una serie altrettanto lunga di omissioni, di nuovo con un po’ di affanno e senza un grande ordine. Se il mio studio propone, in termini argomentati, un’idea diametralmente opposta a quella di negatività in cui confusamente il candido Foligno incasella l’opera che recensisce, un fatto gli va peraltro subito opposto senza discussione: il disprezzo, lo sdegno, il biasimo verso altri studiosi, che gli par di trovare in qualche pagina del Dante, appartengono a misinterpretazioni tutte sue, essendo modi affatto estranei al lavoro esegetico (e alla persona morale) di Apollonio. La conclusione di Foligno è incongruamente ammirativa: «Quali possano essere gli appunti che si muovano all’Apollonio, non gli saranno da nessuno negati altezza d’ingegno, entusiasmo, amore al poeta, immensa cultura e diligenza», p. 96. E così sia. 11 Dante, p. 521. 12 Ibi, p. 604.

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13 La citazione è un prelievo dal notissimo saggio di Leo Spitzer sul canto in esame (cfr. Speech and Language in «Inferno XIII», in Romanische Literaturstudien 1936-1956, Max Niemeyer Verlag, Tubingen 1959, pp. 544-568). La fortuna assai grande di Spitzer in Italia venne per tempo affidata a una silloge voluta da Croce e curata da ALFREDO SCHIAFFINI, Critica stilistica e storia del linguaggio, Laterza, Bari 1954 (ripresa nel 1966 presso lo stesso editore, con il titolo parzialmente cambiato in Critica stilistica e semantica storica). Il saggio su Pier delle Vigne è noto in traduzione italiana a partire dal vol. I delle Letture dantesche, a cura di Giovanni Getto, Sansoni, Firenze 1955 (l’opera completa consta, ovviamente, dei consueti tre voll., uno per ogni cantica). 14 Dante, pp. 51-55. 15 Ibi, p. 78. 16 Ma, annota lo studioso, qui Dante non si impietosisce, avendo troppo sofferto e pagato di persona la discordia civile. 17 Ibi, p. 97-98. 18 È stato uno dei capitoli più noti del dantismo di Gianfranco Contini. Il critico ossolano ha raccolto tutti i suoi interventi danteschi in Un’idea di Dante, Einaudi, Torino 1970 (ma continuamente riedito). Si deve usare una stampa successiva al 1984, dove occorre un Poscritto 1984 al saggio del 1973 che fa da consuntivo agli studi sull’attribuibilità a Dante del Fiore (e del Detto d’amore), Un nodo della cultura medievale: la serie «Roman de la Rose» – «Fiore» – «Divina Commedia», pp. 245-283. È di oggi la ristampa tra le Opere di dubbia attribuzione, a trent’anni di distanza e a conferma di quanto detto sopra, del Fiore (e del Detto d’Amore), a cura di Luciano Palmisano, Salerno, Roma 2012. 19 Dante, pp. 6-7. 20 L’esclusione va intesa unicamente nei confronti del viaggio escatologico e del trascendentalismo, in generale, di Dante. È poi invece notissimo quanto la civiltà poetica di Romagna riprenda dal vicin suo grande (basti ricordare il distico bellissimo che invade la storia del poema cavalleresco: «Le donne e i cavalier, li affanni e li agi / che ne ’nvogliava amore e cortesia», Purg. XIV, 109-110). E tanto altro, ma troppo noto, si potrebbe facilmente aggiungere. 21 E addirittura, se si vuole, il Venusberg della Minne. 22 Se ci proviamo a ricostruire dalla fine la sequenza, è probabile che Tasso, se del caso, abbia guardato più a Dante che a Boiardo e che Boiardo e Dante, in maniera quasi certamente indipendente, abbiano entrambi guardato ai «versi d’amore e alle prose di romanzi» della terra di Francia. 23 A lezione il professore non mancava anche di sorridere e di farci sorridere su una sbracata lettura tardo-ottocentesca, per cui Dante-profeta avrebbe antiveduto nel Veltro il re-cacciatore, Vittorio Emanuele II, e, nella Lupa, l’odiato Vaticano, covo di trame contro l’«umile Italia». Egli poi attestava un’altra precedente e ben singolare mislettura, favorita dalla polemica protestante, per un Veltro sciolto anagrammaticamente in Lutero. 24 La liaison Cavalcante-Dante è ovviamente tra le più notate dalla secolare lettura. Apollonio, a lezione, paragonava l’avvio dell’apparizione di Beatrice, con l’identificazione occhistelle, alla canzoncina del coscritto alla servotta, per la sua limitatezza fisionomica (e l’eccesso del riuso). Eccedeva, e ne era assolutamente consapevole (ma immediatamente additava, con pertinenza impeccabile, il contatto fra poesia popolare e poesia d’arte). 25 Non sarà casuale che proprio il ricordo di questo particolare, il pianto, ritorni nell’autoritratto, tanto più avanti, giunti alla nuova epifania di Beatrice sulla cima del Pg XXX, 139-141: «Per questo visitai l’uscio de’ morti, / e a colui che l’ha qua sù condotto, / i prieghi miei, piangendo, furon porti». 26 MARIO APOLLONIO, Il canto II dell’Inferno, SEI, Roma 1965 (ma letto nella “Casa di Dante” in Roma il 27 gennaio 1957, p. 1). Apollonio ricostruisce, all’altezza di Pd XXX, 1926, la fenomenologia del ritratto della «loda di Dio vera»: «Ricordate la prima immagine di Beatrice nel Limbo: “Lucevan gli occhi suoi più che la stella” e “Li occhi lucenti lagrimando volse”. Se la commisuravate al ritratto stilnovistico [del] “Color di perla [ha quasi, in forma quale / convene a donna aver non for misura]”, quella era velleità e questa concretezza. Se ora commisuri a quella prima immagine questa nuova, quella è velleità, sia pur stupenda

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di persuasione e di moto, ed è concretezza questa. Quella apre tante variazioni poetiche, e sonetti degli “occhi lucenti”, da Veronica Gambara a Giulio Salvadori, questa resta nella sua immobilità perenne. Esige che il passato sia ricordato e annullato e vinto: “La bellezza ch’io vidi si trasmoda […]”». Cfr. Dante, pp. 342-343. 27 Naturalmente Apollonio conosce benissimo le interpretazioni consuete (e corrette: non le uniche possibili). Cfr. Dante, pp. 20-22. 28 La citazione data non si trova nel Dante, Storia della «Commedia», poiché, per agio didattico, ho preferito seguire le dispense dell’anno accademico 1966-1967, donatemi dall’amico carissimo Carlo Paolazzi, il quale successe al maestro per alcuni anni nell’insegnamento di Filologia dantesca in Cattolica. Queste dispense e altre che verranno successivamente usate sono consultabili presso la biblioteca dell’Università Cattolica di Milano. 29 Cfr. GEORGE STEINER, Il libro dei libri. Un’introduzione alla Bibbia ebraica, Vita e Pensiero, Milano 2012, pp. 89-90 (con il paragone tra la Bibbia e la lingua greca arcaica, prima del razionalismo di Platone e di Aristotele). 30 Segui tutto l’episodio di Lia e Matelda in Paradiso e Parnaso, in Dante, pp. 205-211. 31 Per la drammaturgia dell’ultimo Purgatorio, vedi Trionfo e mistero, in Dante, pp. 213228. 32 Significativo che il Porena, citato naturalmente da Apollonio, proponga, contro tutta la tradizione codicologica, di adattare il verso in: «Benedicta quae venis [in nomine Domini]». Il commentatore non se ne rende conto, ma la sua lezione, insostenibile, è poi la retta interpretazione della lezione esatta. 33 È il verso esordiale de Le tombeau d’Edgar Poe, un italianizzante, come ben noto, lettore di Dante (soprattutto della Vita nova) e di Manzoni (con particolare attenzione alle pagine sulla peste della ventisettana dei Promessi sposi). 34 Il quadro qui proposto per la storia del dantismo italiano nel secondo dopoguerra intende far capo alla princeps, 1951, del Dante di Apollonio. Per Erich Auerbach facciamo senz’altro riferimento alla stampa milanese di Feltrinelli, 1963, curata da Dante Della Terza, Studi su Dante (che, con l’einaudiana Mimesis, del ’56, fu all’origine della vasta fortuna europea dell’autore). L’introduzione del Della Terza chiarisce in dettaglio tutto ciò che è auspicabile sapere sulla cronologia e la divulgazione effettiva dei testi da lui raccolti e proposti. 35 Dante, p. 40. Apollonio prosegue: «[Un modo] che altre volte sarà rifatto e reso concreto (introduzione e quasi “didascalia” dell’atto del guardare, preludio e conclusione di tanti episodi e di tanta arte»). 36 «Caronte ha piuttosto, nella sua impostazione, l’esteriorità che aveva il demonio nei drammi sacri. Proprio come nelle messe in scena medioevali c’è una carica di ‘visibilità’, violenza, eccesso, vigoria sopra le righe». Anche questa citazione non si trova nel Dante, poiché, per la definizione dell’idea di “ritratto drammatico”, ho potuto seguire le dispense, citate infra, dell’anno accademico 1966-1967. 37 Vedi il cap. Ritratti, in Dante, pp. 121 ss. 38 Resta sempre, com’è naturale, una distanza più o meno grande fra l’archetipo e le nuove applicazioni. Sempre negli appunti del corso dell’a.a. 1966-1967, Apollonio riassume: «A partire da Dante, per sette secoli, la cultura letteraria e artistica italiana procede per ricognizioni di individui, di eroi. Si può studiare la fine di questa eroicità e il suo legarsi alla retorica, andando a guardare i monumenti delle piazze italiane dell’Ottocento […]. È il finale operistico e qualche volta operettistico di una grande tradizione, quella appunto del ritratto eroico che era passata da Dante al Rinascimento, trovando geni formidabili come Donatello o come Michelangelo, e che era morta con l’esecuzione raffinatissima ed accademica di Canova». 39 Si faccia precipuamente riferimento a Dante come personaggio-poeta della «Commedia», pp. 33-62 della citata silloge Un’idea di Dante (ma il saggio compare a stampa per la prima volta nel 1958). 40 Leggi le pagine su Francesca in Dante, 30-32. 41 Il tempo della romanzatura appartiene realmente, come ben noto, alla lettura di Boccaccio e, tanti secoli dopo, alla fortuna di Dante nella novella e nel romanzo storici dell’Europa romantica (e anche in molta musica della medesima stagione culturale).

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42 In un pezzo, dunque, esterno a quella parte della bibliografia dello scrittore francese lato sensu alfieriana, nella quale egli racconta e celebra l’Italia rinascimentale, «terra di sublimi passioni e delitti». La citazione è anche filologicamente rigorosa, non puramente suggestiva, perché fra i suoi esempi insigni Stendhal cita appunto passi del canto di Paolo e Francesca. Cfr. l’intero cap. II (De la naissance de l’amour) dell’edizione da me consultata, Calman Lévy, Paris 1950. 43 Apollonio cita esplicitamente Stendhal, ma nell’essenziale: «Il poeta si confessa, parlando e immaginando: quel processo, Stendhal direbbe di cristallizzazione, per cui tutto in amore si trasforma e si esalta, Dante lo ripeterà a proposito della Femmina Balba». Ameremmo altri sviluppi dell’autore, ma egli trascorre e la sua Storia della «Commedia» non è libro da riassumere, ma, come non ci attenderemmo, data la mole, piuttosto da svolgere. 44 Rammentiamo: Pg XIX, 1-33. Le pagine di Apollonio sulla Femmina Balba si leggono in Dante, pp. 177-178. 45 Cioè l’eccessivo e disordinato amore dei beni terreni: l’avarizia, la gola, la lussuria. 46 Le pagine su Piccarda si leggono in Dante, pp. 237-240. 47 Rimando per esteso ai due capp. in successione. Cfr. Dante, Ritratti e La valle delle stragi, pp. 121-144. 48 Il cui meccanismo viene montato e smontato a vista. 49 La mia ultima lettura sulla fortuna del canto V è LORENZO RENZI, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella «Commedia» di Dante, Il Mulino, Bologna 2007. 50 Cfr. Dante, pp. 43-46. 51 Ibi, pp. 110-114. 52 Dalle dispense a.a. 1966-1967 (parte prima). 53 Cfr. Dante, pp. 113-114. 54 A prescindere naturalmente dalla notissima, e studiatissima, farsa diavolesca della rapsodia dei barattieri (If XXI, XXII e, in parte, XXIII). 55 Le pagine sui falsari si leggono alle pp. 100-104 di Dante. Dove è questione di testi antonomastici e tutti facilmente attribuibili: dal settimino op. 20 di Beethoven al mozartiano Ein musikalischer Spass K 522 alla ballata goethiana che fornì l’intreccio per L’apprenti sorcier di Dukas. La storia della musica riceve un suggestivo completamento in altre direzioni. Leggi nello stesso luogo: «Qui va ripetuto, a illustrazione storica [della commedia delle cose e dei prodighi intenti a dilapidarle], che la cultura sanese prediligeva questi modi di un realismo magicamente dissipato, da Ruggieri Apuliese a Folgore da San Gemignano, per citar una documentazione letteraria, e dall’internazionalismo pittorico al Sassetta, per una reminiscenza di storia dell’arte: il tutto riassunto, s’intende, dalla novellistica […] di San Bernardino». 56 Il suggerimento appartiene a Corrado Viola (comunicazione orale); che ringrazio. 57 Per Oderisi e Sapìa cfr. Dante, pp. 153-160. 58 Dante, p. 307. 59 Per l’analisi del canto VI del Paradiso cfr. Dante, pp. 249-255. 60 Dove, all’uso di Apollonio, il termine rapsodia va inteso non nell’accezione introdotta dai romantici, di una forma-sonata che allenta la propria interna coerenza, liberando i temi e andando verso una quasi-improvvisazione, ma guardando al lessico della questione omerica, dove significa gruppo di canti tra di loro affini per l’unità d’avventura o dall’avere un’eroeprotagonista cui si riconducono. Per il terzetto di canti dedicati a Cacciaguida cfr. Dante, pp. 281-291. 61 Si veda per intero il cap. Cammino verso la città e assedio. 62 Il guerriero di Campaldino, come da testo, muore con le braccia in croce e le sue ultime parole suonano nel nome di Maria, Pg. V, 101: «Nel nome di Maria finii». Chissà se di questo passo si sarà ricordato Manzoni? E della «lagrimetta» dell’uomo armato di Dante per la «spregiata lagrima» della sua «femminetta»? 63 Sempre aggiuntovi il complesso portato della civiltà che si interna in Dante e poi da Dante rifluisce. 64 Appartiene già alla storia della fortuna quanto segue: «Il “gran viro” si stacca sullo sfondo del cielo stellato con la forza d’evidenza e d’eloquenza della tradizione iconografica rina-

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scimentale (il San Pietro di Masaccio muove di qui, quando la pittura si fece certa dell’eredità poetica di Dante)», Dante, pp. 318-320. 65 Dante, pp. 342-344. 66 Indichiamo i passi a confronto: If III, con tutta la complessa scena fra 76 e 120, e Pd XXX, 64-68. 67 Ma si tratta anche di un ideale «piano di studi», scrive Apollonio (e non si può che concordare con questa perfetta ricostruzione d’“aura”). 68 Dante, p. 349. 69 Per cui è d’obbligo ricorrere a Ernst Robert Curtius, al par. 8, Knabe und Greis, del cap. V, Topik, di Europäische Literatur und Lateinisches Mittelalter, Francke Verlag, Bern 1948, pp. 108-112. Si veda anche la traduzione italiana di ROBERTO ANTONELLI, Letteratura europea e Medio Evo latino, cap. V, Topica, par. 8, Giovane e Vecchio, pp. 115-118, La Nuova Italia, Firenze 1992. 70 Dante, p. 314. 71 Incontri Casella, Manfredi, Belacqua nei canti II, III, e IV di Purgatorio e nel cap. Ritratti, in Dante, pp. 121-129. 72 Stazio accompagna Dante e Virgilio, come noto, fino all’Eden, ma il canto che lo vede protagonista è il XXII di Purgatorio. Vedi di Apollonio il cap. Gola, in Dante, pp. 185-193 (dove viene letto l’episodio di Forese e di tutta la schiera dei golosi, compreso il colloquio con Bonagiunta lucchese). 73 Geniale Apollonio ad aver colto perfettamente la macchia tonale! 74 È la ben nota apostrofe, Pg XXIII, 106-108: «Ma se le svergognate fosser certe / di quel che ’l ciel veloce loro ammanna, / già per urlare avrien le bocche aperte». 75 Dante, p. 191. Apollonio aveva già trovato il confronto in un capitolo qui non citato della ne varietur (Dante I, p. 113: «Eva spalanca e innalza nell’urlo la faccia»). 76 «Pur capovolti in stranezza e strumenti di pena, l’albero e l’acqua magici, la favola della foresta parlante sono forse un preludio grottesco alla “divina foresta e spessa e viva” e sicuramente tema boschereccio nella grande favola pastorale che frequente ritorna a suonare nella polifonia del più alto Purgatorio». 77 Apollonio prosegue: «E anche qui leggi un accento gaudioso nell’inno, l’eco della sequenza cruciale di Venanzio Fortunato: “dulces clavos, dulce lignum, dulcia ferens pondera”, una via Crucis che ha al termine dell’itinerario un arco trionfale»: ed è il perfetto sviluppo del «dolce assenzio de’ martiri», pronunciato e come gustato, ma è ossimoro pressoché indicibile, dal personaggio fiorentino. 78 Sic, non trattandosi di errore grafico. 79 «Il ricordo dev’essere di persona vista, dimenticata la terra, grave d’ira nemica oltre la tomba». 80 Per l’intero episodio di Manfredi vedi Dante, pp. 124-126. 81 Dante, p. 481. 82 Si veda per intero il lungo e impegnato Preambolo sulla fortuna, in Dante, pp. 359-365; da cui abbiamo tratto, con adattamenti, le nostre citazioni. 83 L’intero episodio viene studiato in Dante, cap. Adamo e la terra, pp. 327-333. Il problema di storia della critica appare discusso nella n. 4. 84 Ibi, p. 589. 85 Per tutta questa pagina vedi ancora il cap. Preambolo sulla fortuna. 86 Dante, pp. 473-498. 87 Dove sono raccolte le pagine su Alfieri, Monti, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Pellico, Tommaseo, pp. 567-595. 88 La collocazione di Porta è nel cap. successivo, Letteratura del Risorgimento, pp. 597-605. 89 Il larario eroico di Santa Croce quale riproposta del «nobile castello», per dire in breve (e una stretta affinità con il modello dantesco era già stata indicata, del resto, per la raffaellesca Scuola d’Atene). 90 Cui viene dedicato un capitolo, pp. 607-613. 91 Con il quale ha inizio l’ultimo capitolo, Cronache letterarie della terza Italia, pp. 615-

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634. Gli altri paragrafi toccano di D’Annunzio, di Salvadori, di Pascoli, concludendo con Pietrobono. 92 Cfr. Simbolismo ed emblematica nel commento perenne alla «Commedia», in “Annali dell’Istituto di studi danteschi”, I, Vita e Pensiero, Milano 1967, pp. 195-224. La citazione è a p. 195. 93 Quanto segue appartiene alle prime pagine della Tavola bibliografica che conclude il Dante, pp. 636-650.

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CORRADO VIOLA

Nota al testo

La prima edizione del Dante. Storia della «Commedia» di Mario Apollonio vide la luce nel 1951. Ne seguirono altre due, sempre nella collana “Storia letteraria d’Italia” della casa editrice Vallardi di Milano, ma in formato diverso dalla princeps (i due nuovi volumi adottarono l’ottavo grande): la «seconda edizione riveduta» del 1954, seguìta da una ristampa nel 1958, e, sei anni prima della morte dell’autore (1971), la «terza edizione riaggiornata» del 1965 (o meglio del 1964-1965, essendo il primo volume uscito nell’ottobre 1964 e il secondo nel luglio 1965). La riedizione che qui si propone si fonda sulla stampa del 1964-1965, la quale deve considerarsi a tutti gli effetti come la ne varietur, trattandosi dell’ultima uscita vivente l’autore e da lui invigilata. I due volumi del 1964-1965, in più di 1650 pagine complessive (per la precisione 826 nel primo e 842 nel secondo), presentano una scansione in sette parti, così articolata: I. II. III. IV.

Tavola dei luoghi e dei tempi (vol. I, capp. I-V, pp. 1-72); Politica (capp. VI-XVII, pp. 73-226); La dottrina (capp. XVIII-XXVII, pp. 227-370); Lettura dell’opera (vol. I, capp. XXVIII-LVIII, pp. 371-814; vol. II, capp. LIX-LXXXVI, pp. 1-360); V. Storia della poetica (capp. LXXXVII-XCI, pp. 361-380); VI. Storia della fortuna (capp. XCII-CIX, pp. 463-778); VII. Tavola bibliografica (pp. 779-808). La presente riedizione è parziale: non ristampa l’intero contenuto dei due ponderosi volumi vallardiani, ma ne trasceglie i capitoli relativi alla Commedia (Lettura delle tre cantiche, Storia della ricezione e Bibliografia critica), omettendo le parti di ricostruzione contestuale (biografiche, storico-politiche e storicoculturali) e di analisi delle altre opere dantesche.1 In particolare, vengono riproposti i seguenti capitoli: • • •

LI-LXXXII della parte IV (pp. 689-814 del vol. I e 3-297 del vol. II: Lettura dell’«Inferno», del «Purgatorio», del «Paradiso»); XCII-CIX, ossia tutta la parte VI (pp. 463-778 del vol. II: Storia della fortuna); l’intera parte VII (pp. 779-808 del vol. II: Tavola bibliografica).

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La riproposta di ciascuna delle sezioni indicate è naturalmente integrale, senza tagli interni, tanto nel testo quanto nelle note (e di queste ultime è stata mantenuta l’originaria collocazione in calce ai singoli capitoli). Fatto salvo il più rigoroso rispetto del dettato originale, il testo è stato sottoposto a una diligente revisione, che, valendosi anche di una collazione con la prima e la seconda edizione condotta a scopo di verifica, ha permesso di emendare alcuni refusi presenti nell’edizione 1964-1965 (non molti, peraltro, considerate le dimensioni dell’opera, né particolarmente gravi). Anche l’interpunzione e il sistema maiuscole/minuscole sono stati il più possibile mantenuti, solo provvedendo a una loro moderata razionalizzazione in presenza di usi incoerenti, datati o comunque tali da intralciare la lettura e la comprensione di un testo concettualmente assai denso. Si sono emendati anche quei rari casi in cui una redazione affrettata o distratta da parte dell’autore – quandoque bonus dormitat Homerus… – avesse prodotto ripetizioni in nessun modo interpretabili come intenzionali. Qualche minimo aggiustamento ha richiesto la presenza di rimandi interni a porzioni dell’opera che non sono state qui antologizzate. Le citazioni bibliografiche presenti nelle note sono state completate, se del caso, e rettificate ove imprecise. L’Indice dei nomi finale, che guadagna un manipolo di nomi sfuggiti al pur accurato censimento dell’edizione 1964-1965, ripete, nella scelta di affiancare studiosi e personaggi, la fruttuosa impostazione delle tre edizioni a stampa, proponendosi così come una sorta di mappa analitica del ricchissimo discorso critico di Apollonio sulla Commedia. I curatori hanno proceduto di comune accordo e in stretta collaborazione in ogni fase del lavoro. Tuttavia a Carlo Annoni va il merito dell’ideazione, dell’impostazione e della definizione del progetto editoriale, compresa la scelta dei capitoli da riprodurre; Corrado Viola ha provveduto a una parallela revisione del testo, in sinergia con il collega, e, successivamente, al controllo delle citazioni bibliografiche e all’approntamento dell’Indice dei nomi (oltre, beninteso, alla stesura di questa Nota al testo). Una piccola ma agguerrita équipe di giovani e valenti studiosi, sapientemente coordinata da Cristina Cappelletti, ha prestato la propria collaborazione alla cura generale del lavoro: Gabriele Antonini, Rosaria Antonioli, Laura Erardi, Elena Faustini, Ottavio Ghidini. Infine, dobbiamo a Simona Cappellari e a Giovanni Catalani un aiuto decisivo nella redazione del laborioso Indice dei nomi. CORRADO VIOLA

1 Per una valutazione complessiva del Dante che rende conto delle ragioni di questa scelta, si veda qui supra lo scritto prefativo di Carlo Annoni.

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Lettura della Commedia

Prologo all’“Inferno”

Modi della lettura del prologo Ogni capitolo dell’enciclopedia dantesca – storia, vita, dottrina, poesia, i tempi e l’uomo – avrebbe, evidentemente, un egual titolo a vedersi riconsiderato nella lettura a ogni passo, e in ogni episodio rifratto: non più l’uno che l’altro venendo al concreto del leggere: non più, per cominciare, il suo pensiero, sia sintesi scientifica, sia programma politico, che l’indagine delle sue esperienze tecniche di strenuo stilista: né la sinossi delle sue partecipazioni intellettuali, più di quanto sente e vede. Così non accade, nella lunga storia delle letture del testo di Dante: benché l’ansia di scovar nel primo canto della prima cantica la chiave dell’allegoria tormenti piuttosto i moderni, quando già da secoli il gusto e la consuetudine del forte immaginare si erano spenti, e prevaleva dal Foscolo, e lungo tutta la critica storicistica, nel suo riassunto ansioso di ogni istanza di vita, per un secolo, e puntualizzato nella storia, non puntualizzante il tempo, la riduzione di quel mondo d’immagini ad una formula storico-politica che ne fosse necessaria premessa, meglio se obbediente agl’idoli del giorno. E non toglieremo noi di mezzo tutti gl’inciampi, ché le frequentazioni passate, dove indugiò la lettura, ci devono esser note e presenti; ma se il lettore provveduto deve essere disposto ad ogni svolta, e uscir dal mondo dell’immagini, quando che sia, per entrar nel mondo delle idee, e consentire all’autore che oscilla fra il polo della storia e il polo dell’anima, fra il dissiparsi nell’esteriorità di tutti e il vero trovarsi nell’interiorità di sé solo, abbiamo pur visto, disponendo la lettura lungo una cronologia debitamente accertata, che anche nelle ultime opere considerate, opere di dottrina, il fermento più vivo era nella virtù dell’immaginare, pronta a svelare i segreti dello scrittore, e verso qual meta si moveva con tutta l’anima. Accetteremo di disporci equanimemente alla lettura: di qua, di là, da ogni parte idee soccorrono che possono essere interpretate in nuova misura e senso; ma in quel mondo del suo dire e del nostro rimeditare, solo il lampo del suo fiat porta la luce.1

Dati di lettura e storia della poetica Anche una scusa, questa appunto, è dovuta alla sommarietà delle note, più avvertibile pur della fretta della lettura delle liriche. Ogni canto della Commedia, utilizzato per così diverse misure di interpretazione, porta stratificato in sé l’arbitrio dei lettori innumerevoli: che pure ad una qualche verità sapevan giungere. Toccheremo, leggendo, anche i registri delle memorie di tali e tante letture, che 3

nella lettura moderna consuonino.2 Ma lasciando che le tante voci s’incontrino, la verità non è nel loro sovrapporsi a caso: le note di lettura rimangano per ora isolate e frammentarie in attesa della sistemazione unitaria che troveranno nella storia della poetica: ché quella è la prospettiva che loro tocca; benché ognuna sia valida prima e dopo qualsiasi indagine che tenti enucleare nella viva unità dell’opera di fantasia preoccupazioni opportune ad un ragionamento filosofico o ad una polemica politica: si sa che è legittimo chiedere ai poeti verità di scienza o norme di pratica, purché non si trascuri di scendere alla scienza e alla pratica solo dopo aver detto il più possibile dell’unità poetica. La storia della poetica permetterà dunque di raccogliere in una prospettiva unitaria, riguardando indietro, i risultati e gli accertamenti singoli: se pur questi abbiano a perdere la suggestione elementare della loro evidenza. Insomma, le preoccupazioni delle allotrìe più clamorose saranno dietro di noi; e, accanto a noi, note di esegesi, solo più sommarie e trascorrenti di quelle che infittiscono le pagine dei commenti; ma dopo di noi, forse meno evidenti di certezza, ma più comprensive di verità, saranno le tracce e gli itinerari di una storia che il poeta percorse da solo. Se il suggerimento dell’impronta del poeta calata sulla parola sarà il più frequente, non però sarà il solo: parola del poeta non è soltanto la lettera o il ritmo del verso: anche l’immagine è parola, talvolta sottratta all’avventura della voce, per altra via impressa nella mente: le arti, le leggende, i proverbi. Non di sole voci è fatta la parola del poeta, ma di immagini, che hanno varia vita ed avventura e si propagano per vie e modi impensati: come dichiarerà la fortuna. Fra l’analisi e la storia è l’attualità del luogo di raccolta.

Sopravvalutazione allegorica e invadenza dell’iconografia Questo primo canto, che richiamava l’attenzione dei lettori contemporanei al poeta con la violenza e la suggestività della iconografia romanica delle Belve, richiamò i lettori ottocenteschi con una presenza altrettanto corposa: la preoccupazione morale, politica ed etico-politica; e quanto ai lettori moderni, è pur vero che il fastidio delle allotrìe e l’ignoranza delle figurazioni allegoriche (ignoranza di un linguaggio, ben inteso, desuetudine da quello stile figurativo, che oggi andiamo ritrovando per vie così diverse e rifacendo nostro) li induceva a trascurar la lettura del primo canto.3 Occorre, prima di proceder oltre, appuntare l’importanza di quel coesistere con alternata evidenza, di un piano d’arte e di un piano di dottrina; coesistenza segnata in uno stile arcaicheggiante. Tra le Bestie e Virgilio, in evidente antitesi, fra la Selva e il Colle, in evidente antitesi, il poeta dichiara che ha cose molto importanti da dire: quelle che appunto dice, s’intende: riassuntive di molta vita e di molta dottrina: dove molto, che è di misura, importa più che quale. Disposizione più chiara e più aperta attitudine a servir da prologo non saprei trovare: appunto perché gli preme più il come che il che cosa, più di fissare una maniera che di erogare un contenuto. Se gli toccasse di fare una dichiarazione, se tutto il contenuto della Commedia

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dovesse essere, e sia pure in cifra, chiuso in questo prologo, allora sì gl’importerebbe piuttosto il che cosa che il come; ma poiché ha tutta l’opera per dire quel che davvero gl’importa, e per far della sua visione una liturgia universalistica dell’uomo, il valore del primo canto consiste nel suo essere allusivo. La violenza della iconografia è giustificata da questo proposito, non dai risultati altrimenti raggiunti; e poco importa che Lonza, Leone e Lupa si stampino nella memoria e interferiscano nel linguaggio e si propaghino altrimenti nella storia: molto, invece, che attraverso tale loro violenza icastica, e l’efficacia acclamante del loro linguaggio, annunzino qualcosa di grande. Ecco gl’investigatori fermarsi a considerar che cosa annunciano, e indagare il significato delle allegorie attraverso il sistema delle immediate rispondenze. Seguiremo ora l’esempio degli iconolatri, fra i lettori della Commedia, che per dispetto degli iconoclasti trascurano la vicenda seconda della parola, e spregiano come irrilevante della divina poesia il suo passar fra la gente, nella selva delle cifre, in aenigmate, senza specchio che le rifranga al suo lume di verità? Anzi, l’intenzione è benigna; ma siano attenti che le immagini qui annunciano se stesse ed altro: né solo l’allegorica penombra del loro concreto esister nei sensi, opera d’arte; ma la suggestione indirettamente esercitata, coi modi del loro annuncio, su tutto il poema.

La Selva, il Monte, il Sole L’indugio di una lettura più attenta al calcolo delle rispondenze, che alle suggestioni incalcolabili della libera fantasia, toglie evidenza alle immagini: che perdono corpo, quanto più sono invadenti, e risultano più irrilevanti nel giuoco segreto della parola quanto più serrate nella scacchiera del logogrifo. Vedi la Selva, vedi il Monte, vedi il Sole, vedi le Belve: e vedi pure la Piaggia. Della Selva, par che si attenda, a comprenderla, le allusioni, di rimbalzo, della Divina Foresta; e certo la rispondenza è evidente, a contornare fra una parentesi di apertura ed una di chiusura il mondo finito del peccato e della penitenza; e la sottolineatura stilistica attrae ogni fretta: «una selva selvaggia ed aspra e forte», e «la divina foresta spessa e viva»; senza contar i tanti, anzi innumerevoli richiami, chiusa l’una al sole, aprica l’altra, in una amena temperanza d’ombre e di luce, segno l’una di un pauroso destino di caduta, pura l’altra nel moto senza mutamento di una natura indenne. Ma prima che “luogo” la Selva è immagine: un momento dell’avventura, certo importante, se di lì comincia, ma non decisivo; attenuata pure, la sua importanza, dal fatto che è anche locus communis, di una retorica che, quando sceglieva la selva a rappresentare la vita, non si rammentava certo della lunghissima storia di quella parola e figura, dai riti magici e sacrali del ramo d’oro alla tradizione arcadica, che aveva umanisticamente tradotto in esperienza letteraria e sigillato in parole il rito ed il mimo sacro delle origini.4 Né il poeta vuol farle ripercorrere il cammin lungo di Virgilio: «si canimus sylvas, sylvae sint consule dignae», a iniziare il canto del nuovo ordine politico che sfocia in una visione di palingenesi religiosa; né attende di riscoprire in Stazio

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l’annuncio di una nuova poetica, l’umanesimo d’Arcadia: si contenta della proposizione già segnata nel Convivio: «l’adolescente, che entra ne la selva erronea di questa vita, non saprebbe tenere lo buono cammino, se da li suoi maggiori non li fosse mostrato»,5 a sottolineare una intenzione moralistica; e poi lascia la Selva nei suoi limiti d’episodio: con una mentalità di narratore, anziché di drammaturgo e di liturgista; e di narratore moderno, che nella estrema varietà degli episodi non insiste a definirli come più o meno importanti, anzi li dà al caso, alla ventura della parola, che chissà quali rispondenze diverse susciterà in questo ed in quello. E a disfarsi di ogni più precisa menzione della Selva, a denunziare che essa non trova un posto esclusivo, e forse nemmen preminente nella sua attenzione, quando ne riparla adopera metafore diverse: «dove il sol tace» e «in basso loco» e «a tanta noia». Infatti, ben altra forza di suggestione avrà preso intanto la Lupa: della quale a preferenza si parla nel dialogo di Dante e di Virgilio, e si riparla le tante volte, allegorizzando intorno alla parola; mentre della Selva si fa menzione quasi distrattamente a proposito della luna piena, che non gli nocque «alcuna volta ne la selva folta». Anche il Monte ha una storia, come parola e come mito: che il poeta poteva appuntare nella parabola scritturale della «civitas in monte posita», e il lettore comune accostare alle iconografie dei mosaici e delle pitture romaniche e persino, quasi in cifra, nelle tante e tante miniature, al monte ch’era di prammatica nella scenografia della sacra rappresentazione: quello che un Poliziano poté allegorizzare in modo nuovo, quando ne fece discendere Orfeo canoro in carmi encomiastici; ma anch’esso è tema e immagine che il poeta accenna e trascorre, pur dopo averlo sottolineato con la solenne, aulica risposta di Virgilio, così adorna, di contro l’allocuzione antiretorica di Dante, l’invocazione di soccorso. «Miserere di me», grida Dante all’ombra; e l’ombra, quasi a dir di quanto lontano essa venga, dopo aver fatto la storia sua e dei suoi tempi e della sua poesia (il programma di una monografia, diresti: la vita, i tempi e l’opera), con elegante distacco: perché non sali il dilettoso monte ch’è principio e cagion di tutta gioia?6

(l’ultima parola, «gioia», riaccenna appena alle allegorie cortesi: nel giuoco delle reminiscenze, ma più altrove, avrà una parte, e grande, il Romanzo della Rosa: non per nulla un pettegolezzo letterario gli aveva imposto l’apocrifo Fiore, quasi a rinfacciare, con quell’osceno allegorismo della mondanità internazionale, la sua moralità cristiana e cittadina). E perché l’immagine del Monte ritorni operosa, dobbiamo attendere tutta intera la seconda cantica, il monte del Purgatorio. Ma la terza di queste immagini, il Sole, dichiara abbastanza che il poeta si è avviato in altra direzione: che la parola, in lui, più che accrescersi delle vecchie stratificazioni concettuali, ama aprir la ventura di nuovi sensi: canto di un mattino di primavera:

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Temp’era dal principio del mattino, e ’l sol montava ’n su con quelle stelle ch’eran con lui quando l’amor divino mosse di prima quelle cose belle…7

e se ha da ricordarsi di qualcosa e di qualcuno, bada a capovolger la esperienza delle rime petrose, il canto della stagione d’inverno, «Al poco jorno e al gran cerchio d’ombra». E se il Sole ritornerà più e più volte, in animata figura di allegoria, dalla preghiera di Virgilio, «Tu scaldi il mondo, tu sovr’esso luci»,8 al cielo dei Sapienti ch’è suo, preludio all’incendio del cielo Empireo, prevarrà tuttavia l’altro modo, il gaudio del sentirlo padre fecondo e luce calda, il piacere del mondo sotto di lui, la realtà fisica del suo esistere d’astro e di fiamma.

Le Bestie Ma dalle Bestie il discorso potrebb’essere tanto più lungo; e si ridurrà più corto solo ripensando che l’insistenza su tali temi fu prima promossa dalla preoccupazione politica, e che s’attenuava o perdeva di quanto la preoccupazione politica cedette alla storia (dal Marchetti e dal Foscolo allo Zingarelli): per riprender vigore attraverso una formula d’interpretazione (quella del Pietrobono) tanto più saldamente inscritta nell’intima cerchia intellettuale e morale del poeta, alla ricerca di una rispondenza di concetti che resterebbe inerte se non fosse, prima che tale, coerenza di fantasia:9 e una storia provveduta di tali emblemi sarà solo quella che muove dalla consistenza autentica, cioè visiva e figurativa, delle immagini, per prolungarsi, attraverso la mediazione dantesca, nella vicenda che l’allegoria poté avere dopo di lui: non lunga del resto, se il naturalismo rinascimentale, alle corti dei Principi, tolse di mezzo tante favole bestiarie adunando a gran prezzo dall’Oriente i serragli. Vedi la «leuncia», gattopardo o lince che sia, bestia felina e canina: e se è vero, come è vero, che l’emblematismo dell’episodio si svolge dalla Lonza (che li contiene) al Leone e alla Lupa, accrescendosi un’immagine di molti sensi via via fecondi, anche le memorie hanno la loro parte: qui è un gatto selvatico che giuoca a rimpiattino, e se il prologo della Commedia è fuori del tempo, potevano nutrirlo meglio i ricordi delle selve settentrionali che i racconti dei deserti d’Oriente e di Mezzogiorno. Del suo significato dottrinale e allegorico il poeta si cura meno, certo, dei commentatori, prima e dopo il Pascoli, che pure avvertirono il giuoco della processione allitterativa delle tre bestie, e molto invece delle sue movenze, del suo aspetto di animale che per essere favoloso, o favolosamente immaginato, non è men vivo; e la scena è fra le più precise, quasi disinvolta, pur fra un brivido di terrore: la pelle gaietta è un’immagine visiva assai circostanziata, prima che s’attenui nel vago delle allegorie, anche di quelle che s’appigliano ad una parola arcana, «gaia»; e la varietà di quelle ombre e luci, nel nitido contorno del giorno mattutino, svaga il poeta, e lo svia dal menzionare altra scena, il rito o il gesto della corda che portava ai fianchi, con cui

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fare un cappio e legarla; ma la misura fin dove si distenda la portata allegorica dell’immagine, se fino alla fraudolenza o sino alla lussuria, o sino all’invidia qui non ci preoccupi esclusivamente: è storia di poi, non dell’attimo del poeta: tanto lo svaga che impreveduto suggello della scena è il tema del mattino di primavera, che intonato lo solleva. Vedi poi il Leone: che fu presto identificato con la superbia o con la violenza e che già nel contesto della citata allegoria politica di Geremia valeva a definire un costume, sdoppiandosi gli Ottimati e la Bestia che li percuote. La fantasia del poeta neppur qui indugia nella cerchia del simbolismo: tanto fin da principio, nella storia e rappresentazione dell’emblema leonino, l’atto sormonta ogni riflessione intellettualmente circostanziata: tralasciate dunque tutte le giustificazioni politiche, anche quelle contenute esplicitamente nell’esempio scritturale più direttamente riferibile, e riserbate a poi, quando si risolleveranno nella memoria dei lettori e nella sottigliezza degli ermeneuti, il Leone vale per il suo atteggiarsi: la vista che m’apparve d’un leone: questi parea che contra me venesse con la testa alta e con rabbiosa fame sì che parea che l’aere ne temesse; e d’una lupa…10

Dove, nella parentesi dell’araldica bestiaria, si insinua anche la nota eroicomica dello spavento che si propaga all’aria: nota cara al naturalismo umanizzante della tradizione, lo scherzo, ma novissimo qui l’oggetto. Istantaneamente (il giuoco delle allitterazioni – Lonza, Leone, Lupa – aiuta la successione dei quadri e deve aiutare a leggere, non ad allegorizzare su un pretesto appena offerto) al Leone si sovrappone la Lupa: Lupa favolosa, certo, «e molte genti fé già viver grame» ed esemplare «che di tutte brame sembrava carca»; ma l’indugio descrittivo, che era stato quasi un soccorso per altri incontri, qui non vale: protagonista ritorna il viandante, protagonista afflitto e vinto, benché adagio, in una suggestione demoniaca che lo affascina e l’aggrava: con la paura ch’uscia di sua vista…11

e anche il moto della discesa, della perdita, avviene lentamente, scandito in una progressione irresistibile, «a poco a poco», come in una operazione magica: «venendomi incontro».

L’immagine della Lupa s’interrompe e riprende La successione dei tre temi è disposta con arte grande: importa il punto d’arrivo, l’uomo, il viandante, il predestinato; e se l’immagine della prima Bestia par lontana e quasi traspare nella gran luce fidente dello spazio mattutino, la seconda

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invade il quadro, finché la terza riporta il centro del racconto ad uno spazio, per così dire, interno, a una operazione già intima e spirituale, nello squallore di una solitudine «dove il sol tace». Di momento in momento il poeta sa circostanziare il suo tema e il prodigio della sua concretezza è tale che di momento in momento ci dismemora nella efficacia del suo dire, nella totale forza del suo figurare; ma se a noi tocca, leggendo in prima lettura, abbandonarci tutti alla suggestione di quanto egli direttamente e concretamente dice, altre sorprese riserba a sé e a noi, lasciando che le immagini sopravvivano nella sua propria memoria, per riaffacciarle poi alla nostra, quando il momento sia giunto. Vedremo ora, concluso che sia questo excursus metodologico che ci tocca imbastire e stringere in uno smilzo paragrafo, che la terza Bestia, apparendo in quella solitudine della Selva Virgilio, è contraddetta e vinta nel proclama del Veltro e lasciata in disparte; e in disparte rimane a lungo, non allusa che scarsamente, benché in silenzio operosa lungo tutta la storia infernale; ma se l’esegesi dantesca ha fatto tanta fatica a ritrovare la presenza della Lupa nell’ordinamento dell’Inferno, per il lungo cammino di una ricerca affidata alle rispondenze e sull’erroneo preconcetto che il poeta lavorasse sopra uno schema calcolato in precedenza, sopra un disegno prestabilito intellettualmente, che traducesse in figura e in allegoria la dottrina sua e del suo tempo, la colpa è stata degli eruditi, che poco hanno saputo leggere: dei critici che si sono lasciati viziare del frammentismo presunto della Commedia; simili, ahimè, a quegli zotici dell’aneddotica, che rompevano e intercalavano le sue rime; «questo non ci misi io»: la distrazione appunto, la presunzione di bastar da sé, la prosopopea dell’invader del proprio, abitudine o orgoglio che fosse, l’opera integra e viva. Che il frammentismo sia stato vizio secolare della lettura dantesca, vedremo anche troppo nella storia della fortuna: l’ultima sua fase, è noto, contrassegna il saggio crociano: così giusto da umiliar nello scorno le presunzioni di quella lettura erudita che pretendeva rimediare alle lacune della lettura insufficiente, o intervallata, con i reticolati della dottrina o della notizia; così ingiusto da costringere di fretta i lettori a sondare fin dove scenda la penetrazione del loro saper leggere (e si accorgono che penetra dovunque, dove giunge la virtù della parola: per tutto il Poema). Appunto, il danno derivò da questo: che alla stanchezza della lettura, troppo presto ogni volta sopravvenuta, si pensava di por rimedio colmando di notizie le lacune della poesia, presunte. Ma se all’invadenza della dottrina sostituiamo l’onnipresenza dell’immagine, eccone le lacune non dico automaticamente colmate, ma in via di colmarsi, per un moto perennemente attivo, che è la vita della poesia in ciascuno di noi e nel tempo: poesia perenne, divenire inintermesso dell’opera nel tempo, cui corrisponde l’esegesi perenne. Dico che ogni tema, ogni motivo, ogni immagine sussiste definita e sospesa, concreta e mutabile, nella sfera della poetica della Commedia, e parla e richiama e respira, e induce a un trascolorar di luci e di sensi. Qui leggiamo che il poeta approda all’umano, fuor della favola bestiaria; ma l’immagine della Lupa, di cui Virgilio tocca con un moralismo tanto sdegnoso quanto contegnoso («molti son gli animali a cui si ammoglia»), rimane a lungo e sempre: ora meno palese, nei gesti canini dei mostri infernali e

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delle anime indemoniate, ora in quei ritorni tematici delle metafore, dalla caccia selvaggia che persegue Conte Ugolino sulle pendici di Monte Pisano, cagne magre studiose e conte contro il lupo e i lupicini, all’allegoria bestiaria della valle dell’Arno, dove i cani diventano lupi, poi trova le volpi: Cerbero caninamente latra, Filippo Argenti è scacciato con gli altri cani, come cani i demoni custodi dei barattieri escono addosso al poverello peregrino, come cane latra Bocca degli Abati: suggestioni più attive, seppure più sottili e recondite, di quelle avvertibili nelle allegorie sovrapposte ai personaggi qualificati per rappresentar momenti singolari del viaggio, dal «maledetto lupo» custode degli avari e dei prodighi al Vermo Reo, Lucifero, che sbrana Giuda e Bruto e Cassio.

Il polisenso Tale problema, della onnipresenza dei tempi, ne richiama un altro, assai dibattuto dalla critica. Dante è polisenso; ma non devi vedere, nel suo ampio riflettersi dentro un mondo universo, sì da interferire con ogni aspetto della vita, e veramente partecipar del tutto, attraverso la sua individuatissima, benché ambiziosissima, intuizione, non devi vedere il giuoco inerte e la presunzione molle dell’artefice che procura di ingrandirsi, sovraccaricando di allotrìe il suo dettato. Le interpretazioni possibili di un testo, quattro che siano o innumerevoli, non sono disposte con accorgimento intellettuale, così che il lettore dall’uno all’altro si disvii, confidando nel meglio successivo, o sorpreso da troppe intenzioni che non può tutte quante dominare e avvertire: ma la realtà complessa e mutevole, irraggiata dalla poesia, invasa dalla conoscenza poetica, si riflette in molteplicità su quella, si moltiplica ripercossa da quell’unità. Francesco De Sanctis, formidabile lettore, e proprio nei saggi danteschi dove la sua potenza di lettura è più disinvolta e inventiva, si rende conto di questa forza di irradiazione che ha la poesia, e che la critica, costretta a dipanar l’una dall’altra le suggestioni varie, riespone approssimando; ma, ancor poco tempo fa, Benedetto Croce, trattenuto in quella sua teoria del distinguere che codifica il suo abito intellettuale, irrideva a una frase desanctisiana «Verso fitto di tenebre (“poscia più che il dolor poté il digiuno”) e pieno di sottintesi per la folla dei sentimenti e delle immagini che suscita, pe’ tanti “forse” che ne pullulano e che sono così poetici».12 Per il teorico uno è il senso, dove la lettura, giunta al suo termine, posa: servendosene poi per quelle ricostruzioni musive che adoperano la storia per servire di cornice alla poesia e la poesia per servire di illustrazione alla storia: per il lettore, dal centro dell’immagine si irradia una luce che illumina la realtà molteplice; ed egli giunge tanto più nel segreto del poeta quante più vie è capace di ripercorrere a ritroso, che conducono verso quel centro. Tale, e solo, il polisenso della poesia dantesca: non sovrapposizione di allotrìe; ma contrappunto: frasi che si illuminano nel loro coesistere, varietà nell’unità, consonanza di parole diverse, che vibrano per misteriosi richiami di affinità di suono e di impasto; e immagini che dall’una all’altra accennano: figure e persone, emblemi e forme che affrescano l’armo-

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nioso spazio: una danza, nel giuoco assorto dei segni; un coro, nella concordia dei mondi ripercorsi; un rito, nello slancio della preghiera. E dalla capacità di avvertire la presenza molteplice e il diverso atteggiarsi dei temi per le influenze reciproche deriva al critico la possibilità di disporre la sintassi dell’emblematismo dantesco: senza regola fissa (perché questa parola, sintassi, non tragga fuori di strada); ma continuamente operosa. E come nel discorso poetico, al di là del rigoroso modulo grammaticale che la scienza stabilisce o tenta, esiste una rispondenza di suggestioni, una coloritura immaginosa e affettuosa che dice tutto al di sopra della impoverita formula logica o pratica, dove una parola suona più e altra meno, e dal loro vario disporsi sorge la rivelatrice musica, tale è il discorso delle immagini nel poema, ognuna tenendo luogo di parola in un giro di frase. Meglio vedremo con gli esempi; ma occorreva tanto preambolo, a sollecitar dal lettore l’attenzione a tali rispondenze interne, che l’esegesi dottrinale non sempre disvela, benché tanto volentieri se le accaparri; ed anche misurar così lungo cammino, per avvertire che la centralità dantesca dell’umano, quel suo far dell’esperienza umana il centro dell’universo, quell’investitura ch’egli assegna all’uomo, coerente con tutto il pensiero dell’umanesimo cristiano, dell’uomo che si fa Dio perché Dio s’è fatto uomo, degno d’esser coerede del Dio creatore, ricco di tutta la vita universa del cosmo, non è soltanto un articolo, e sia pure il primo, del suo credo filosofico, ma un abito del suo operare e un’attitudine del suo poetare; più ancora: l’indice del suo propagarsi nel mondo: come poeta egli è disposto al centro del cosmo; ed ogni sua parola sommuove le voci di un universo armonioso.

Virgilio Dalla solitudine della Selva, dove lo risospinge la volontà demoniaca e indomabile della Lupa, sorge l’ombra di Virgilio. Altre apparizioni più suggestive d’ombre non conosce la letteratura, prima che il Romanticismo imparasse, rileggendo Dante, ad avvertire le virtù delle presenze misteriose: Gjengangere, «revenants», come in Ibsen, traverso un Kierkegaard che aveva inteso Blake, di là da Swedenborg; a paragone, nel primo tentativo rinascimentale di riaffacciar la drammaturgia a una preoccupazione dichiaratamente spiritualistica e religiosa, lo spettro d’Amleto è una moneta falsa: truepenny, per ironia. Ma non diremo, per questo, che visitata dall’esterno l’apparizione riveli subito la sua forza: Rispuosemi: «Non omo, omo già fui»…13

Aspetta, l’ombra; e lascia d’essere attesa. La prosopopea è solenne, e il tono subito s’innalza con forza oratoria, perché il prologo, decentemente tripartito (presentazione di Virgilio; profezia del Veltro; itinerario dell’Oltretomba), possa annunziarsi a sollevare il tema; ma anche così, rispettando appunto la funzione del prologo e la sostenutezza di dettato oratorio che gli compete, di Virgilio si

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proclama più che non si dica. Non che si dica poco: l’origine lombarda e mantovana, i tempi, fra l’impero di Giulio Cesare e l’impero del buono Augusto, il canto dell’eroe provvidenziale, che il peccato della superbia troiana redense con l’umiltà del suo obbedire all’ordine provvidenziale (giusto è il figliuol d’Anchise, per quella stessa ragione per cui Virgilio lo chiamava pio; ma la nuova pietà scende, con la Rivelazione, a integrar l’antica, che si rivela giustizia); ma più ancora lascerà che si dica. Quell’ombra, con la forza di quel che di lei sopravvive, parola e presenza, vince la solitudine maligna della selva selvaggia e della piaggia deserta; e l’ombra diventa persona: sua storia è d’acquistar via via concretezza, e di diventare operosa nella vita attiva lungo il viaggio d’Inferno e di Purgatorio, sino al punto che coronerà il discepolo, come uomo libero, nella pienezza della sua dignità e della sua responsabilità.

Il Veltro Un moderno anticiperebbe la cronologia lunare e l’episodio del cordiglio, e procederebbe a integrare subito il discorso, e invaderebbe con una rassegna mediocre di cose l’attesa dell’umano; ma l’eredità oratoria della classicità impone a Virgilio l’enunciazione di un programma; e l’eredità stessa del pensiero cristiano, che colloca l’uomo nel dominio dell’universo, esige che sia programma il più ampio possibile, escatologico, se si stende quanto il mondo lontana: quindi le profezie, dove per la prima volta diventa attiva la Lupa, attraendo a sé l’immagine del Veltro, per una sostituzione fin troppo immediata, con una contrapposizione così repentina che deve accorrere in suo soccorso, perché resti efficace, il giuoco del polisenso. L’interpretazione corrente e di prima lettura si muove in direzione contraria: e frequentando di preferenza l’immagine del Veltro che quella della Lupa, e da una sfera storica e politica (sfera di astrazioni pratiche) risalendo verso la poesia, chiederebbe a questo di esser concreto, simbolo di una persona, papa riformatore o duce ghibellino.14 Se quel che abbiamo offerto sinora come chiave alla lettura ha già qualche efficacia, risulta evidente che il punto di partenza per una prospettiva critica ha da essere la Lupa, e che il Veltro le si subordina, nella sintassi degli emblemi: in un secondo tempo, affinché la sostituzione non resti inerte, perché improvvisata, il Veltro si presenta a sua volta capace di rifrangersi in più ordini di idee, e di mettere in moto più d’una allusione. Tutte le spiegazioni sin qui offerte dell’indovinello, se non le più evidentemente assurde, recano un contributo di lettura; perché nessuna il poeta esclude e può escludere: non certo Can della Scala, col suo dominio tra Feltre e Montefeltro; non certo un religioso riformatore, nato in umile condizione, quasi in un nuovo Presepe, in umili panni, e redentore dell’umile Italia; nemmeno la cerimonia della legittimazione dell’erede dei Tartari, se volete. Che la profezia possa proiettarsi subito attraverso tante stratificazioni della realtà, lo soddisfa: non ch’egli vi subordini l’ordine della sua parola; la quale suona subito commossa intorno ai temi che davvero il poeta attende a far vivi: la comunione

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eucaristica dell’Eroe con la divinità una e trina (Sapienza e Amore e Virtute) e la salvezza dell’umile Italia per cui tanto giovane sangue si sparse, dell’un campo e dell’altro, solo in apparenza avversi, ma di là dalla strage obbedienti a un mistero provvidenziale. Questi la caccerà per ogni villa finché l’avrà rimessa nell’Inferno, là onde invidia prima dipartilla.15

Viaggio per le città d’Italia, d’una in altra; e subissamento del mostro apocalittico nell’inferno, donde la malizia demoniaca, il mal volere, la maledizione bieca che il Diavolo lancia sul mondo, e l’opera dei suoi servi quassù, l’han mossa. Occorre percorrere quel cammino; e risalire per altra via che quella della piaggia e del Monte al Sole, anzi all’Imperador che lassù regna: oh felice colui cu’ivi elegge…16

Attesa dei giorni santi, e sospiro dell’anima esule: già la figura di Virgilio procedendo acquista senso di persona.

1 I lettori contemporanei hanno diligentemente accettato la raccomandazione crociana; e, dopo la lettura della Poesia di Dante, nell’anno centenario 1921 (anno di celebrazioni ufficiali vagamente volonterose; ma di comportamenti contraddittori fra i letterati “militanti”, stanchi tutti della dantologia retorica, incerti tutti, seppure per diversi motivi, davanti la mediazione della persona proposta dal poeta, propensi gli uni a un formalismo che esaurisce la disciplina anche morale dell’artefice, propensi gli altri a un contenutismo più aggiornato, sociale o nazionale che fosse), hanno rapportato a quella problematica il loro impegno. La polarizzazione di poesia e di non-poesia attrasse i più, dal Russo al Breglia, per una soluzione che superasse l’antinomia; ma la lettura si isolava in una auscultazione isolata di frammenti, almeno fra gli stretti osservanti crociani: benché (questo fu nuovo miracolo della poesia di Dante), nonostante i richiami di Mario Rossi, Gusto filologico e gusto poetico, guadagnasse via via di ampiezza: dal frammentismo delle annotazioni del Grabher (1935) alla vastissima lettura del Momigliano (1945), che osserva l’animazione lirica penetrare zone finora recluse fra la non-poesia delle strutture. La scuola di Michele Barbi continuava per la sua via; poteva sottintender l’esempio di E.G. Parodi, che, pur lavorando con preoccupazioni filologiche, aveva toccato il vivo della poesia più a fondo che altri prima di lui: poteva mostrare che la ricerca storica aveva saputo riassumersi in un modello di medietà discorsiva e di sobria informazione nel commento di I. Del Lungo (1926); poteva, soprattutto, procedere secondo l’esempio del Maestro, che sapeva sempre trovare il «Dante vero» nei momenti in cui «raccolto in se stesso più s’esalta e manifesta la parte più divina di sé». E continuava infine, parallela, una vicenda storica di vita e di letteratura che ci lasciò, al termine di anni apocalittici, ricchi di quanto avevamo perduto. Ma qui ha termine la postilla, che non è luogo dove discriminare quanto la nuova lettura deve all’ipotiposi papiniana di Dante vivo, quanto a T.S. Eliot, quanto ai Cantos di Pound e alle meditazioni di Romano Guardini. E poiché ancora una volta è tornato nel discorso il nesso di alcuni nomi salienti, piace far capo come a riassunto al commento di N. Sapegno nella collezione ricciardiana (1957).

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2 È il metodo raccomandato dal Contini per la lettura delle Rime, percorrendo su schematici dati di filologia riassuntiva tutto il territorio di un’epoca letteraria; ma gl’interessi filologici e storici che convergono nelle Rime non sono illimitati di numero: vuol dire, passando alla Commedia, che nell’impossibilità di un riscontro puntuale di tutti, e persino di una bibliografia essenziale, tenteremo esempi di convergenza: e «ab uno disce omnia». Il lettore può valersi di un’antologia di commenti alla Divina Commedia: La DC nella figurazione artistica e nel secolare commento, a cura di G. Biagi, G.L. Passerini, E. Rostagno, Torino 1924-1939. 3 Scenografia di cartapesta, diceva Karl Vossler della Selva, del Monte e delle Belve; ma Tommaseo, toccando una comune origine di quel parlar figurato, aveva riletto Geremia: «Li percosse il leone della Selva, il lupo a sera li guastò; il pardo vegliante sulle città loro; ognuno di loro che uscirà sarà preso»; il problema è infatti problema di linguaggio e di storia del linguaggio: perciò incertamente nel suo commento Attilio Momigliano: «Ai margini di questo luogo solitario e tenebroso egli mette, con perfetta verosimiglianza poetica, un viandante smarrito, tre fiere e un’ombra: la trama fantastica di questo preludio è dunque d’una mirabile convenienza e coerenza. E l’immagine della selva dà modo a Dante di drammatizzare e di ambientare suggestivamente il suo stato d’animo. Ma la qualità del luogo, la selva, è suggerita a Dante dall’intenzione allegorica: questo è il verme che corrode il canto»: Il paesaggio nella DC, in D., Manzoni, Verga, Messina 1944. È suggerita? Anzi, suggerisce! Colpa del lettore, se, per aver il poeta più familiare alle sue cose, si trattiene in questa sfera di penombra? Nella storia della poetica, e poi nella storia della fortuna, l’allegoria è appunto l’ombra dell’immagine. 4 Ancora un giro lungo: perché, se abbiamo accennato al contributo di lettura dei poeti contemporanei e al nome di T.S. Eliot, si rammenti quel che deve la moderna cultura europea al naturalismo magico dei letterati e agli studi etnologici e di storia delle religioni degli scienziati: riassumibili in una nota al Waste Land, il «paese guasto» di Dante: «Not only the title, but the plan and a good deal of the incidental symbolism of the poem were suggested by Miss Jessie L. Weston’s book on the Grail legend: From Ritual to Romance (Cambridge). To another work of anthropology I am indebted in general, one wich has influenced our generation profoundly; I mean The Golden Bough; I have used especially the two volumes Adonis, Attis, Osiris». 5 Convivio IV, XXIV, 12. 6 If I, 77-78. 7 If I, 37-40. 8 Pg XIII, 19. 9 G. BUSNELLI, Il simbolo delle tre fiere dantesche, Roma 1909, è probabilmente il più felice degli esegeti nel riferire il testo di Ugo di S. Caro, che pardo, leone e lupo introduce come simboli di lussuria, superbia e cupidigia; ma ad una lettura sincretistica, la quale tenti il molteplice, e non si fidi del processo intellettualistico che trascende un testo e ne fa il testo, giovano di più i riferimenti raccolti da F.X. KRAUS, Dante, sein Leben und seine Werke, Berlino 1897, p. 441, gli studi iconografici del D’Ovidio in Studi sulla DC, Palermo 1901, o zoologici di R.T. HOLBROOK, D. and the Animal Kingdom, Nuova York 1902; si tratta infatti, prima di tutto, di studiare una semantica: e solo in secondo luogo di osservare il suo ridursi a cifra emblematica e gnomica. La preoccupazione politica che qui annodiamo al Marchetti e al Foscolo aveva una precedente storia, ricollegandosi al Gozzi e al Dionisi: senza includervi le linee di una storia e le notizie di una cronaca della fortuna, è certo che l’erudizione settecentesca restava al di qua di una intelligenza poetica: cui giovava piuttosto l’eccesso delle preoccupazioni politiche degli Ottocentisti; del resto tanto il Marchetti che il Foscolo eran poeti: e l’iconografia del Ghibellin Fuggiasco restò nella memoria romantica quanto quella di Una notte di Dante, del Marchetti: quasi parallelamente al Discorso sul testo della «Commedia» di Dante (1825) e al Discorso su la prima e principale allegoria del poema di Dante (1819: gioverà alla teoria degli errori il fatto che i titoli si scambiarono, e che la lezione del Marchetti “poema” passò al Foscolo, sostituendo nella vulgata “commedia”). Allo Zingarelli andiamo debitori, oltre che dell’equilibrio della sua esposizione, anche di un ottimo rendiconto di storia della critica del problema (a p. 884 della Vita). Del Pietrobono, anche per il gruppo degli esoterici che

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derivano dal Pascoli (cfr. L. VALLI, L’allegoria di D. secondo G. Pascoli, Bologna 1922), v. Il poema sacro, 2 voll., Bologna 1925. Per una giustificazione teorica e per più d’una illustrazione testuale, G. MANACORDA, Poesia e Contemplazione, Firenze 1947. 10 If I, 45-49. La lezione adottata indica meglio il sovrapporsi degli emblemi nell’evidenza delle apparizioni (Pietrobono): non che con la vulgata si distrugga. 11 If I, 53. E nota come la preoccupazione politica gravi sulla lettura: ché basta ostinarsi a uscir dall’indeterminato «e molte genti fé già viver grame» (che anticipa la suggestione indistinta di altri passi famosi: esemplare fra tutti «io sentia d’ogni parte trarre guai»), per distruggere il fascino maligno della Bestia, almeno nel segreto senso del lettore. 12 La determinatezza dell’espressione poetica, in “Quaderni della «Critica»”, luglio 1948. 13 If I, 67. 14 «L’enigma è stato costruito con tanto accorgimento che riesce inestricabile», raccomanda lo Zingarelli (p. 861): che in volo percorre la vastissima bibliografia (p. 886). Un indice, nella successione delle opere, può esser questo, percorribile lungo una parabola di cultura: che si cominciò con CARLO TROYA, Del Veltro Allegorico di D. (1826) e si finisce con ISIDORO DEL LUNGO, Dino Compagni e la sua cronaca (1879-1880): dal ghibellismo politico al guelfismo storico, insomma. In una zona terminale collocherei la leggenda tatara (A. BASSERMANN, Veltro, Gross Chan und Kaisersage, Heidelberg 1901) riferita da Giovanni Villani di sul libro di Aitone Armeno (V. 29) e raccolta, per l’interpretazione del passo, dal Boccaccio; e l’interpretazione esoterica del gruppo pascoliano. Una “messa a punto” eccellente del problema è nell’appendice ai Due tempi della composizione della DC, Bari 1935, di G. Ferretti, Le allegorie del prologo: «Chi vede nel veltro un imperatore, come ve lo vedono i più, o un papa, o un signore potente o un riformatore – siano essi viventi già quando Dante scriveva o “non nati”, siano indeterminati o identificabili con Arrigo, con Benedetto, con Can Grande, con Uguccione o con altri –; o anche chi vi vede Dante stesso, o un “vago fantasma uscito dalla mistica progenie del rex novus”, o un riformatore di là da venire, o addirittura un essere soprannaturale apocalittico, un Cristo redivivo, lo Spirito Santo, vi vede però sempre un personaggio, storico o no, umano o più che umano»: qualcuno, insomma, che esiste, od è destinato ad esistere e ad agire di per sé, non un puro simbolo. Ma tutte queste supposizioni prescindono troppo da un dato di fatto ovvio e del resto già rilevato cento volte prima d’ora: che il veltro è il preciso e deciso contrapposto della lupa (n. 1. Su questo caposaldo, cfr. specialmente, per rilievi ancor oggi opportuni, C. FENAROLI, Il veltro allegorico della DC, in “Rassegna nazionale”, 1° ottobre 1891, pp. 480 ss.). Sono due animali, dicevano i commentatori antichi, naturalmente nemici, e però giustamente contrapposti: contrapposto il veltro alla lupa – come nel Sirventese de’ Lambertazzi il leone al veltro – perché veloce, perché non selvatico, perché, come diceva Ugo da San Vittore, «medico molto è detto il cane», e però in grado di sanare i mali che quella produce, facendo «viver grame» le genti. Ora, il veltro che azzanna la lupa e la fa «morir con doglia», e l’insegue, di «villa in villa», fino alla sua patria vera, l’inferno, ha, nel mondo dei simboli, lo stesso diritto di cittadinanza, e per lo stesso titolo, che la sua antagonista mortale (pp. 430 ss.). 15 If I, 109-111. 16 If I, 129.

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Tre preludi

Tre preludi L’indugio fra i simboli e i modi del primo canto valga a un proceder più rapido, sgombrato il cammino; ma non si volevan respingere come irrilevanti e inerti tante parole e moventi del poeta: solo indicare la prospettiva, che è nel tempo e nel divenir della poesia, anziché nello spazio e nella ragione. Questo ancora è da aggiungere per l’intelligenza del primo canto, soccorsa dagli altri due che subito sopravvengono, quasi in funzione di molteplici prologhi (il primo prologo è nella teatralità degli incontri emblematici, ed un secondo è in cielo, con un modulo che tornerà noto alla ripresa goethiana della drammaturgia riflessiva): che il poeta matura l’attualità della sua visione allontanando e posponendo la spiegazione dottrinale: così che leggendo è necessario quell’abbandono che poteva esser più facile ai primi lettori, presi dall’intensità della favola, e meno a noi che dobbiamo farci ingenui attraverso la storia e la dottrina, a ricuperare quella stessa spontaneità d’abbandono alla visione, quel sognare a occhi aperti, quella fiducia nelle certezze immaginarie, che l’intelligenza empirica e limitatamente realistica d’Europa andò via via perdendo. Gli emblemi diventano cose, prima che luoghi di riferimento per una sistemazione dottrinale di una realtà storica; e se alla lettura contemporanea di Dante è toccato il lungo cammino delle ricerche intellettuali, e dei tentativi ermeneutici guidati secondo un calcolo astratto, il punto d’arrivo di questa lettura deve essere quello che per il lettore medievale era il punto di partenza: vedere. Il poeta non trascura del resto altri soccorsi; e accanto alla più facile disposizione dei suoi contemporanei a vedere, chiama indicazioni precise e preziose. Non si contenta che altri veda ciò che non è né qui né altrove, in una sfera estranea al tempo e allo spazio: intende persuadere e quasi costringere; e al soccorso della attualità della visione chiama l’esercizio della poesia e l’esercizio della memoria. «O mente che scrivesti ciò ch’io vidi»,1 dirà nel prologo del canto secondo, intonando più alto il suo poetare; e nel bel mezzo del primo la figura di Virgilio è tutta intesa a misurare distanze infinite che separano l’oggi da quello ieri remoto quando Julio regnava, o più remoto, quando il superbo Ilion fu combusto. Non altro compito direi che ha, a questo punto, la poesia: di rendere attuale la visione, di circoscrivere l’immaginato, tuffandolo in una circostanza di realtà misurate. «Lo bello stile che mi ha fatto onore» è frase vaga, se la riferiamo a un compito apologetico: viene fatto di pensare che Virgilio sia introdotto quasi a prosopopea dell’eccellenza più che a

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un diretto esercizio di tecnica; e se aveva valso al poeta frequentare i provenzali arcaici, Virgilio, tanto più lontano, e in attesa di una conoscenza di Omero, valga a segnacolo, quasi a tallone di grandezza; ma è richiamo evidentissimo, se lo si valuta dentro il discorso che tocca al primo canto. Nell’estetica medievale il compito dell’artista è studiato soprattutto nella sua portata di fatto tecnico, e il poeta è artefice: rende dunque evidenti al senso forme e realtà che poi vanno studiate e valutate in altra scala, dentro una giustificazione morale e dottrinale alla quale l’artista, come tecnico, può restare indifferente, non altro chiedendoglisi che l’eccellenza della “resa”: nel poema della mirabile visione il compito dell’arte è dunque di rendere evidente quello che la mente ha “scritto”. Virgilio “ombra” induce a riflettere intorno alla distanza che separa nel tempo l’avventura della storia umana; ma Virgilio poeta impone all’arte il servizio dell’evidenza.

Premessa costante per ogni ricupero la concretezza dell’arte Certo, ragionando intorno a questa premessa, s’aprono numerose deduzioni: il poeta non si preoccupa di suggellare in un sistema chiuso il suo mondo: parte dalla concretezza dell’arte, per tutto quello che ebbe da dire; e le giustificazioni dell’attualità della visione si conformeranno poi in un sistema consistente, come opera di riflessione e di elaborazione. Virgilio, che per ora è «fonte che spande di parlar sì alto fiume», che è «onore e lume degli altri poeti», solo più tardi sarà detto «savio gentil che tutto seppe»:2 quando ormai, attraverso le precisazioni del contrappunto, egli sarà inteso capace di tutto il cammino che la ragione umana percorre, mossa da Dio, benché non soccorsa dall’attualità della Grazia. E se la precisazione cronologica della sua vita aiuta a indicare quella pienezza dei tempi in cui il Figlio di Dio si fece Uomo, solo nel canto secondo l’allusione del tempo s’allarga all’eternità della fama: di cui la voce ancor nel mondo dura e durerà quanto ’l mondo lontana,3

quando si assiste ad una diretta investitura, quando Maria muove Lucia, e Lucia Beatrice, e Beatrice Virgilio: quando, per dirlo con parole che riducono a formula la sostanza drammatica dell’intervento delle Donne Benedette, l’Interceditrice sollecita l’intervento della Grazia Illuminante, e questa della Rivelazione, che scende sopra la Ragione, e la muove al soccorso. Diciamo di “attendere” che le parole e le formule della dottrina si aggettino e rivelino l’intenzione seconda delle figure della visione: in realtà, se questa seconda lettura ci discopre delle attinenze che sono conferme di una realtà che solo erroneamente ci appare più vasta della realtà concreta della visione rivelata dalla poesia, quel che si rivela alla nostra attesa non è che la zona di riflessione che veniamo via via scoprendo. E a togliere il sospetto che la scoperta sia fatta attraverso una rinunzia della poesia, mediante un commento interpretativo che isterilisca l’ispirazione e spenga la

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luce fantastica, vedi appunto nel canto secondo, come la subordinazione di Virgilio alla Rivelazione, e della Giustizia alla Pietà, avvenga attraverso una rappresentazione, un dramma spirituale, assai più vasto e mosso che la commedia delle Fiere. Ma appunta, prima di procedere, come fin qui s’alterni Giustizia e Pietà, quella subordinandosi sempre a questa, e l’intelletto trascendendo nell’Amore.4

Il dubbio Nota, sempre leggendo, che un’effusione patetica ed eloquente lo soccorre quando introduce il tema della pietà; e se l’attacco del primo canto era come si conviene a commedia, duro e veloce, il secondo canto si modula lento, quasi liberandosi dal peso terrestre che l’aggrava, con la descrizione del tramonto faticoso: benché gli si contrapponga la terzina dell’invocazione alle muse e all’«alto» ingegno (subito dopo l’epiteto è ripetuto: «alto passo» dice il viaggio d’oltretomba): la vittoria è già assicurata, benché sia necessario l’intermezzo del prologo in cielo sui precipizi dell’abisso e del monte. Le definizioni di luogo sono d’altrettanto incerte di quanto la poesia si solleva dal tono di commedia; e i lettori, meno sollecitati a constatar la realtà dei riferimenti di luogo e delle circostanze intellettuali, li trascurano volentieri: benché l’«oscura costa» del canto secondo meriti altrettanta indagine che la piaggia ai piedi del colle; e il «cammino alto e silvestro», alla fine del canto, abbia altrettanto diritto ad esser chiarito nelle sue allusioni allegoriche che la selva selvaggia. Così non accade: non certo per distrazione; ma perché i critici, anche i più propensi a subordinar la poesia alla dottrina, nella lettura del poema, sono in realtà più aperti di quanto vogliono ammettere alle indicazioni del poeta stesso; e il poeta, che getta un fascio di luce e di evidenza sopra la selva selvaggia, ricompone nell’ombra indistinta l’alto passo del cammino alto e silvestro. Qui gli preme altro accento ed altra realtà, e i modi sono allusivi ed eloquenti, anzi che descrittivi e drammatici. Un autore propenso alle esaltazioni apologetiche (puoi ricordar d’Annunzio, nel prologo di Alcyone al Despoto) non avrebbe adottato, per innalzarsi ed innalzare la materia, questo modo che è di rinuncia: non avrebbe confessato così chiaramente di essere un uomo comune, quando investiga di altri viaggi compiuti nel «secolo immortale», nel sovratempo della perennità, e parla, con tutta la precisione di una dottrina inconfutabile, di Enea e di Paolo: a soccorrere il regno della giustizia, l’uno; a soccorrere il regno della pietà l’altro. «Uomo d’intelletto», può indagare fino a un certo segno i decreti dell’avversario d’ogni male: né l’un caso né l’altro (più ovviamente il secondo) gli pare indegno: Ma io perché venirvi, o chi ’l concede?5

Qui insorge (ed è atto di superbia, nella confessione dell’umiltà) il vecchio uomo addottrinato, l’uomo che negli orgogli della poetica moralistica e del Convivio aveva chiesto di decidere intellettualmente della realtà del mondo; che ave-

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va rinunciato (se l’allusione non sembri appesantire subito il discorso) all’amor di Beatrice, «benignamente d’umiltà vestuta», per l’amore della Donna Gentile, «che fa chinare gli occhi di paura».6 Virgilio reagisce con la prima delle sue parole dure: come falso veder bestia quand’ombra…7

e par chiudersi in sé («nel primo punto che di te mi dolve». Il discepolato di Dante era rimasto ignoto al Maestro e all’Autore: solo in una sfera di corrispondenze celesti la devozione della poesia e della dottrina rende possibile l’incontro con la persona), per dire dell’apparizione di Beatrice.

I «sospesi» Il racconto di Virgilio suona e si rivela come un’attenzione tutta interiore che l’antico poeta pone al dischiudersi, dentro di lui, di un nuovo mondo: l’apparizione di Beatrice ha naturalmente la vaghezza e il trasporto d’una delle apparizioni della Vita Nuova: la cui poetica ritorna qui attiva, stupendamente integrata da ogni altro acquisto; ma non vorremmo leggerla, questa volta, pensando al poi, collocandoci nel Nobile Castello, o guardando passare, fra la curiosità degl’infanti, delle femmine e dei viri, l’apparizione: vero che Beatrice nella seconda parte dell’incontro è richiesta di una nozione precisa: «la cagion che non ti guardi / dallo scender quaggiuso in questo centro»; ma la sua risposta, il canto della beatitudine che trasvola fra le miserie intatta, pur soccorrendo pietosa, Io son fatta da Dio, sua mercé, tale che la vostra miseria non mi tange, né fiamma d’esto incendio non m’assale,8

è tale che s’accorda con il primo senso dell’episodio, con l’incantesimo di un’apparizione interiore: l’inferno è vinto da quella luce. Conviene meditare un’altra parola su cui cade l’accento (e occorrerà ripetere che leggendo stiamo investigando di una sintassi d’immagini e di parole, non di periodi logicamente organizzati?): Io era tra color che son sospesi, e donna mi chiamò beata…9

«Sospesi» significa l’anime del Limbo, nel loro destino fra la dannazione e la salvezza (nota che tutto è «sospeso» in questi tre prologhi dei primi tre canti: dal viaggio di Dante, incerto fra l’ombra della Selva e la luce del Colle, mentre cammina sulla piaggia, alla sorte già infera, ma non colma, degli sciagurati che mai non fur vivi: certo non adesso, morsi dai morsi della seconda morte). «Sospesi» significa, ancora, l’attesa di quel giudizio che, come risulta da molte allusioni, indirà la salvezza per talune delle anime del Limbo, disposte alla sorte

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di Catone, la cui veste sarà sì chiara al gran giorno, o di Virgilio, di cui Beatrice si loderà al cospetto dell’Onnipotente: quando il tempo sarà consumato, nella seconda parusia del Cristo Pantocratore e Giudice, avranno forse la sorte che le anime fedeli dei credenti in Cristo venturo ebbero alla prima parusia, guidate al cielo dal Possente «con segno di vittoria coronato»:10 quelle anime degne che vissero in terra disponendo i tempi alla divina giustizia, fondando nella giustizia uno degli elementi del regno «giustissimo e pio» del cielo Empireo, operosi in un disegno divino che la Provvidenza venne svolgendo nel tempo. Sospesi significa (ed è il senso che meglio s’attaglia qui a Virgilio) assorti nella maraviglia dell’apparizione beata. D’un tratto, e senza che nulla dei versi precedenti nel canto primo e secondo ce lo lasciasse prevedere, i modi poetici si rifanno alla lirica giovanile: solo circostanziata qui con nuova fermezza: Lucevan li occhi suoi più che la stella e cominciommi a dir soave e piana, con angelica voce…11

Petrarca si ricorderà di questa apparizione: «un’angelica forma, un vivo sole fu quel ch’io vidi» e appunto nel sonetto di una terrena volontà di eternarsi… E la favella che parla Beatrice non è un linguaggio di Paradiso, una convenzione linguistica stretta fra i Beati, ma il prolungarsi in una sfera ampia e sonora della sua voce, il volo della sua parola, l’acquisto, pur qui, di una eternità beata, traverso l’opera e la parola terrene. Quando nel primo canto Virgilio si presentava a Dante, la sua storia era circoscritta nel tempo e nello spazio; ma qui la menzione stessa delle origini dell’anima cortese «mantovana» è rapita per entro l’infinità del moto, risollevata quasi nell’altissimo cielo, l’ampio cerchio dove Beatrice arde di tornare.

L’apparizione Il racconto di Virgilio definisce in modi più diretti e quasi senza scenario la consuetudine delle apparizioni beate che la Vita Nuova, nei momenti risolutivi, affidava alle visioni: visione dentro la visione, anche questa; ma più libera e più concreta, una volta accettata la norma del «ciò ch’io vidi», che è regola della Commedia. Anche la processione delle investiture, di cui racconta Beatrice, è tanto più concreta degli incontri stilnovistici di Beatrice e dell’altre donne: il soccorso dell’ortodossia ritrovata (non dico perduta né smarrita: il periodo di traviamento12 significa soprattutto, nella storia di un ritrovamento spirituale e del riacquisto della fede, il prologo di una attesa; grandissimo fatto, che proprio la frequentazione di quell’epoca, Donna Gentile o Filosofia, diventasse, per merito dell’ulteriore acquisto, un valore positivo: confermiamo che Dante è lontano dalle romantiche procelle delle conversioni acclamate, quali furono formulate dalla facile drammaturgia della decadenza romantica) consente una realtà tanto più ricca e certa: «per

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parlar del ben ch’io vi trovai», ancora una volta. L’intervento della Vergine, che sollecita Lucia, che sollecita Beatrice, che sollecita Virgilio, non intenderlo come l’applicazione di uno schema catechistico: prima d’essere espresse in formula, queste donne benedette sono creature: la Madonna, che ancor nella Vita Nuova era Regina della Gloria (e tale rimane, ben inteso: qui si rintracciano significati che si raddoppiano nella sintesi della poesia, non che s’annullano nella formula della dottrina), qui è Donna Gentile: un epiteto che, a uno stretto osservante della continenza verbale, avrebbe fatto inciampo, per il ricordo della Donna Gentile del Convivio; mentre in questa integrità ritrovata, anche l’epiteto serve ad alludere a quella stupenda positività della vita dello spirito, per cui, superato ogni manicheismo, Dante intende la bellezza e la bontà e la provvidenza della scienza e dell’umanità e della storia: di quella universa vita terrena da cui è nata Maria, la Panagia, la Tuttasanta. Altrettanto creatura è «Lucia nemica di ciascun crudele», prima d’essere quel che è tuttavia, la Grazia Illuminante; e parla a Beatrice con un affetto dimesso e puro: accorre come una donna santa e presta lei pure, «si mosse, e venne al loco, dov’i’ era, / che mi sedea con l’antica Rachele»,13 secondo quel modulo iconografico e poetico che questa poesia mutua da un modo della narrazione evangelica, quando Maria dopo l’Annunciazione «abiit in montana» (quel tema che Dante avrà più tardi l’occasione di parafrasare «Maria corse con fretta alla montagna»);14 e Dante è per lei quello che «amò tanto» Beatrice, colui ch’uscì per te da la volgare schiera.15

Nel primo canto era un fatto di stile quel che aveva dato onore al poeta; ma ormai l’elezione è più vasta e insieme più sottile: è l’amore che innalza. E infine Beatrice: Al mondo non fur mai persone ratte a far lor pro o a fuggir lor danno com’io, dopo cotai parole fatte, venni qua giù…16

Il moto, che già in Maria aveva uno scatto così pronto e vivo, «or abbisogna il tuo fedele di te», che in Lucia già rivelava la dimestichezza, se si può dire, di una devozione tra il fedele e la Santa, e apriva una parentesi quasi di colloqui affettuosi, in Beatrice trepida di tanti e tanti ricordi umani: «quei che t’amò tanto». E piange mentre così ragiona.

Prologo topografico all’Inferno Ogni ragionamento, ogni persuasione indotta a rigor di logica, non avrebbe certo altrettanta efficacia: benché poi tocchi a noi cercar le conferme delle certezze, ed elencar le rispondenze delle allegorie; ma Dante ha voluto che ci apparissero

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persone vive, perché così sentiva; e se Virgilio indugia tanto ad apparir viva creatura (tutta la cronaca dell’Umanesimo si riassume in questa vicenda, che di un testo sacro ai secoli fa una creatura viva; e poi anche Virgilio svanisce, in chissà quale attesa di una gloria maggiore), Maria, Lucia, Beatrice sono subito vive: la poesia opera quel miracolo che la Grazia nel cielo Empireo, quando tutte le anime riappariranno con la loro persona. Così dell’amor terreno, che è d’un subito santificato, senza le penose contraddizioni e contrapposizioni del Convivio. Questo prologo è dell’amore, e benché nella tradizione esegetica vulgata valga come prologo all’inferno (e il primo canto della Commedia dovrebbe servir di prologo a tutto il poema), è evidente che alla lettura la proposizione si capovolge, e che idealmente, almeno, è questo del canto secondo il prologo di tutta la Commedia, con le sue evidenti attinenze alla Visione allusa alla fine della Vita Nuova, e con le anche più evidenti somiglianze con gli stilemi della poesia giovanile, benché purificati di ogni scoria e ripuliti d’ogni enfasi spiritualeggiante; mentre il primo canto si attaglia troppo bene al fare e ai modi stilistici del mondo infernale, proiettandosi sopra la zona circoscritta del baratro, benché la sua ombra si allunghi anche nel regno del Purgatorio. Di un prologo anche topografico all’Inferno si può parlare con il canto terzo. Il raccontare si fa più sciolto e corrivo: quasi dinoccolato diresti, con una certa stanchezza e ripetizioni di nessi. Di un fatto accertabile leggendo, la stanchezza improvvisa della fantasia dantesca, non è lecito tentar di dare una spiegazione: forse Dante ha voluto disfarsi di una impostazione topografica; e il terzetto, quasi una sinfonia, degli stupendi canti quarto, quinto e sesto, con l’unità e la reciprocità di modulazione che vedremo, gl’insegnerà una volta per tutte la vanità di una ricerca più circoscritta. Dell’iscrizione della porta senza serrame non occorre molto dire: i suoi risultati alla lettura sono scarsi e la sostenutezza di tono è tutta oratoria e gnomica; e si tratta anche di un patente segno di croce che ci si fa all’ingresso dell’inferno. La scena che segue par predisporre alla contraddizione dell’ultimo verso, «lasciate ogni speranza, voi ch’entrate»:17 ché la storia del viaggio infernale è appunto narrar l’acquisto di una speranza anche attraverso la tetra disperazione dello spettacolo della morte eterna. Del resto altrove la scritta è detta «scritta morta», come i serrami d’inferno furono infranti dal Possente risorto, così alla discesa di Cristo la scritta si rivelò fallace, per una parte almeno dei suoi captivi: morta, quindi, in quest’altro senso di vana. Dante, dunque, arretra e tituba per la terza volta; e occorre che Virgilio ponga la mano alla mano di lui, con lieto volto, per confortarlo e penetrare nelle «segrete cose». Tutto ha tono di prologo e di preparazione, nel canto: o introduzione, quasi di preludio di spettacolo, con la chiarezza delle genericità descrittive. È tipica la descrizione del tumulto infernale, citatissima, appunto, con l’evidenza fittizia delle sue ripetizioni, «sospiri pianti e alti guai, / […]. / Diverse lingue, orribili favelle, / parole di dolore, accenti d’ira».18 Un maestro di stile così prodigioso è eccellente anche quando si adatta a procedimenti facili, se facile è la scenografia: quando, confessando le sue funzioni e i suoi limiti, riesce a definire così plasticamente un’atmosfera; e la genericità può sempre risolversi in musica e in pittura: come dimostra il progresso dalle facili onomatopeie citate all’atmosfera tenebrosa e lacrimante di alcuni quadri:

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Come d’autunno si levan le foglie l’una appresso de l’altra, ’n fin che ’l ramo rende alla terra tutte le sue spoglie…19

e per cenni, come augel per suo richiamo20

e La terra lagrimosa diede vento, che balenò una luce vermiglia…21

Accanto alle quali rese stilistiche, cioè a soluzioni poetiche di un problema meno concreto (il prologo della cantica infernale), hai tuttavia da notare l’impostazione moralistica del canto: le preoccupazioni intellettualistiche risultano tralasciate, o almeno raccolte solo nella soluzione gnomica: prologo dei «sospesi» alle soglie d’inferno, in una condizione anche più brutta di chi saprà trovare alla sua stessa condanna un atteggiamento e una dignità («Tutto che questa gente maledetta / in vera perfezion già mai non vada»).22 L’autore si ritrae con fastidio da questa condizione incerta; e non potendo far poesia dell’incertezza, o non volendo ancora, accentua oratoriamente il dispetto e lo sdegno. Tipico l’arresto di fronte a colui che fece per viltà il gran rifiuto,23

arresto tanto più meditabile, perché il poeta pare avviarsi di slancio a un modo di ritrattistica bene individuata, con quel «vidi e conobbi» che altre volte sarà rifatto e reso concreto (introduzione e quasi “didascalia” dell’atto del guardare, preludio e conclusione di tanti episodi e di tanta arte). Ad un ritratto, e sia pure più di figura che di dramma, più circostanziato descrittivamente che suggerito drammaticamente, nella prospettiva in moto di un’azione, il poeta giunge con Caronte (e a un ritratto drammatico solo con Francesca), mettendosi sulle tracce e nei limiti di una parafrasi virgiliana. Ma la soluzione più ovvia di tale impostazione moralistica del canto è la proverbialità: il discorso continuamente s’arresta nelle sentenze che diventano tanto più proverbiali c’hanno perduto il ben dell’intelletto… che visser sanza infamia e sanza lodo… misericordia e giustizia li sdegna… non ragioniam di lor, ma guarda e passa…24

quanto più il nesso che lega l’una parola all’altra nel discorso è generico, meno vincolato alla situazione drammatica e meno vincolante.

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1 If II, 8. «Qui la protasi s’insinua in forma indiretta […] in quell’inciso che è una promessa»: I. DELLA GIOVANNA, Il c. II dell’Inf., Firenze 1921, in SAPEGNO, commento alla DC, cit.: a indicare ogni traccia di una poetica in divenire. 2 If I, 79-80 e 82; VII, 3. 3 If II, 59-60. 4 II binomio di giustizia e di pietà ha tale frequenza che indusse il Pascoli a irrigidirlo in programma dell’allegoria dantesca; e certo l’accompagna, una volta che gli si è chiarito anche attraverso l’autobiografia politica, sino al termine del suo programma di scrittore: «Romanum imperium de fonte nascitur pietatis», dice nel Mon. II, 5; e di poco prima (I, XI, 3), è l’equazione Iustitia = Monarchia = Imperium. Così, per citare la prosecuzione politica della primitiva integrazione; e l’attesa apocalittica è di uno che sia insieme Enea e Paolo (ma Enea è «pio» e nella iconografia cristiana Paolo ha la spada). La sintesi è immediatamente offerta al poeta dal mito di Traiano che «la vedovella consolò del figlio» (Pd XX, 45): «Ond’elli: “Or ti conforta ch’ei convene / ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova: / giustizia vuole e pietà mi ritene”» (Pg X, 91-93). Ad aiutare l’intelligenza del procedere dell’immaginazione di Dante per immagini contigue, nota che in entrambi gli episodi l’imperatore Traiano tien dietro al re salmista David: così l’Impero, l’attuarsi in terra dell’ordine empireo, «di questo imperio giustissimo e pio» (Pd XXXII, 117), sopravverrà dopo la rivelazione della poesia-profezia di Dante. Non vorremmo che l’abbondanza dei riscontri irrigidisse il lettore nel pregiudizio allegorizzante che vi trova la dimostrazione del loro essere preordinati: sono numerosi perché la fantasia del poeta, commosso, si moltiplica alla loro presenza. Resta il debito di gratitudine ai commentatori esoterici, lettori sensibilissimi, seppure meno felici nell’organizzare i dati di lettura. 5 If II, 31. 6 Ball. Voi che savete ragionar d’Amore. 7 If II, 48. 8 If II, 91-93. 9 If II, 52-53. 10 If IV, 54. 11 If II, 55-57. 12 E. MOORE, The Reproaches of Beatrice, in Studies on D., III. Il cap. La Donna Gentile nella Vita di D., Bari 1949, di U. COSMO è la premessa biografica ad una lettura sia del II dell’Inferno, sia del XXX del Purgatorio. 13 If II, 101-102. 14 Pg XVIII, 100. 15 If II, 105. 16 If II, 109-112. 17 If III, 9. 18 If III, 22-30. 19 If III, 112-114. 20 If III, 117. 21 If III, 133-134. 22 If VI, 109. 23 If III, 59-60. 24 If III, 18; 36; 50; 51.

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Commiato dalla gloria e dall’amore terreni

Tempo del sogno e del sonno I primi canti sono intervallati da pause e da tramortimenti: già l’ordine del tempo appar turbato, se lo confronti al ritmo costante del suo successivo discendere per l’abisso d’Inferno e salire per il monte del Purgatorio; e la pausa d’un giorno intero fra quel suo ruinare in basso loco, lungo la piaggia deserta, e il colloquio con Virgilio, tramontando quello stesso giorno, non si sa come sia riempita; e al sopravvenir di Virgilio con Dante, nella bella scuola dei poeti, si esclama, come dopo una lunghissima assenza, «l’ombra sua torna, ch’era dipartita»1 (s’intende che, leggendo con una preoccupazione di lettura poetica, si va oltre: il riapparir di Virgilio ha valore d’annunzio: squillo incontro al nuovo umanesimo). Pause più vuote, ma più misteriose, spalancano i sonni: il tramortir di Dante quando sulla riva d’Acheronte la buia campagna trema forte; lo svenimento innanzi la pietà dei due cognati. Né direi che la verisimiglianza, in altri passaggi, per esempio dall’Inferno al Purgatorio e dal Purgatorio al Paradiso, è intrinseca alle cose narrate, mentre passar dalla vita terrena all’oltretomba va circonfuso di mistero: se si riascolta la maniera del suo poetare, egli introduce modulazioni ancor vaghe, in questo primo principio, lascia l’immagine sospesa e la parola disciolta in un discorso aperto, fa la prova di quel che ciascuna immagine e parola valga sola: mentre più tardi interverrà a circostanziare il dominio che la sua fantasia esercita sopra una realtà logicamente organizzantesi, indugiando nei riferimenti di spazio e di tempo, finché giunge ai liberi scherzi nel misurare con Maestro Adamo la decima bolgia, o la statura dei giganti intorno al pozzo. I sonni delle notti del Purgatorio, intervallati dai sogni, quando il viaggio avrà direttamente ricuperato il senso dello spazio sul tempo del giorno aperto, saranno sonni per così dire comuni: qui il procedere della visione ha bisogno di soccorso e di accentuazioni; e il prodigio non è ancora nel fatto umano direttamente ritratto, e con comuni mezzi circostanziato: è prodigioso il fatto eccezionale: ritrovarsi di là dalla riviera di Acheronte dopo un sonno, per l’appunto.

I cataloghi Passività, tuttora, di fronte alla materia. Anche la tradizione del serventese consigliava gli elenchi; e la stesura strofica stessa, con le sue allacciature, si adattava facilmente a una serie di quadretti, trascorsi da una filettatura decorativa: come

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in un pannello, o in una miniatura. Aggiungi la tradizione vieppiù viva dei poemi allegorici e dottrinali. Aggiungi la seduzione della cultura enciclopedica, che non può trascurare questo o quello, e che obbedisce, nelle sue citazioni, a un ordine di astratta dignità, di calcolabile importanza. Ma nei due canti, il quarto e il quinto, in cui si libera dei due temi immensi e innumerevoli, già osservi che non puoi renderti conto del perché dei silenzi: solo quel che dice parla, e prende sostanza. Perché trascura, nell’elenco degli eroi romani del Limbo, quei personaggi che aveva celebrato nel Convivio? Ma le più che mille ombre di lussuriosi che Virgilio nomina, e le mostra a dito, sono soverchiate da un nome, Tristano, e dal paragone in cui scende, fra la poesia cavalleresca, nel suo personaggio più illustre, e la sua nuova scoperta, del dramma cronachistico. Petrarca, che si crede tanto più alto quanto più accetta le imposizioni della dottrina, ritorna, nei suoi Trionfi, al catalogo; e vi si attiene: gli eroi compaiono a schiere e la loro verità è quella raccolta nelle enciclopedie, e la loro grandezza si misura a numero di pagine. Qui v’è appena un cenno di quel vecchio modo (e non sarà l’unica volta che l’umanesimo del Petrarca, arcaicizzando, si mostrerà meno libero e fecondo dell’umanesimo di Dante), e si assiste alla vittoria del nuovo. Hai la teoria dei grandi, nel canto quarto, e la teoria degli amanti nel canto quinto: gli uni raccolti nell’ordine celebrativo e gerarchico del Nobile Castello; gli altri travolti nella rapina: già vedi come la situazione drammatica dei secondi vince sulla convenzione dottrinale dei primi: gli uni si esaltano, ma rimangono vaghi nella luce della loro gloria; gli altri soffrono una violenza terribile; ma la schiera s’apre, e di tanti morti due vivono.

Il quesito della salvezza dei pagani Al canone delle soluzioni improvvise appartiene la prima scena del canto quarto: il risveglio di Dante, per un greve tuono, il suo aperto, sgombro (troppo sgombro) guardare, l’affacciarsi alla valle dell’abisso, coi terrori della sua oscurità e dei suoi lamenti; e subito, a contraddire quell’apparato, l’atmosfera del Limbo, il tono subitamente sommesso, accordato a stento, nell’ultimo verso della terzina, coi tuoni che hanno due volte squarciata l’atmosfera: Quivi, secondo che per ascoltare, non avea pianto mai che di sospiri che l’aura etterna facevan tremare.2

A saldar le fratture il poeta ha già una volta introdotto un dialogo, fra sé e Virgilio; ma più importante, soprattutto per quello che sottintende, questo: Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi, però che gente di molto valore conobbi che ’n quel limbo eran sospesi.

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«Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore», comincia’ io per volere esser certo di quella fede che vince ogni errore: «uscicci mai alcuno?…3

Nella logica interna dell’interrogazione, la discussione sui meriti e sulla grazia, che tanta importanza aveva assunta e tanta ne avrebbe avuta, è allontanata rispetto al problema, anzi al fatto dell’uscir dal Limbo: «per suo merto / o per altrui», dice; ma l’accento cade su «uscicci […] che poi fosse beato». Si insinua quella preoccupazione, lasciata in sospeso sino al canto decimonono del Paradiso, e certo nemmeno allora conclusa con una affermazione dogmatica di valore universale: come le anime degli Israeliti credenti in Cristo venturo furono salvate, non potranno esser salve, quali il giusto Traiano e il giustissimo Rifeo, le anime di quei grandi che divennero esecutori, non si sa quanto consapevoli, di un ordine provvidenziale? Fin dove giunge la fede in Cristo di chi imita Cristo, pur senza nominarlo «Cristo Cristo»? Fin dove s’incarna nella presenza del Figliuol di Dio l’opera dei secoli e dei millenni, cooperanti al fine provvidenzialmente designato? Questi sono quesiti che si prolungano dopo le immagini del poeta: cui pur tuttavia tocca anche la responsabilità intellettuale di averli suscitati. Il problema della provvidenzialità della storia, che qui si intravvede, richiederà altri approfondimenti, da altri secoli cristiani: per ora Dante chiede, Virgilio risponde evasivamente, ma osannando alla gloria di Cristo risorto; e nel tremebondo silenzio degli spiriti «spessi» trascorre il loro cammino.4

Il corteggio del Possente e le grandi ombre La prima parte si chiude con il corteggio biblico intorno al Possente con segno di vittoria incoronato. La scelta è scarna, benché prolungata da quell’«altri molti»; e non è difficile intravvedere la legge o almeno la predilezione della scelta: nell’alternarsi di un pietoso e di un giusto (Adamo giusto, Abele pietoso, Noè giusto; e Mosè «legista e obbediente» chiude il primo quartetto: così Abram patriarca è pio, David re è giusto, ma l’incontro dell’attivo Israele con la contemplativa Rachele risuggella l’accordo; né vogliamo indugiare in questi e altrettali accorgimenti ermeneutici); la seconda parte si chiude con le grandi ombre adunate nel Nobile Castello, in quell’ordine gerarchico degli spiriti attivi, degli spiriti sapienti, dei poeti. Il corteo di Cristo era mosso e gagliardo; l’accolta degli spiriti magni è statica e solenne: si adatta alla immobilità di una vita sospesa, glorificata da quel sentore di gloria empirea che è la luce «ch’emisperio di tenebre vincia».5 Una serietà titubante e commossa svela, attraverso la tecnica del verso e immediati, ma efficacissimi, accorgimenti metrici e sintattici, il sentimento trepido con cui Dante accompagna la sua scoperta dell’antichità e la sua reverenza per la gloria terrena: pallida luce, che non è che un riflesso della gloria empirea; ma il riconoscimento, di contro a un moralismo più severo, o meno

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propenso alle conciliazioni cattoliche, mantiene tutto il suo valore. Sul piano di una discussione teorica, del resto assai ardita, Dante accoglie il Saladino e i sapienti arabi accanto ai grandi antichi; ma la sua simpatia è, evidentemente, tutta per questi, se segui la musica dei versi, se intendi, accanto alla sorpresa, «e solo, in parte, vidi il Saladino»,6 il ritratto di Cesare «armato con li occhi grifagni»:7 e se l’accento sale nella menzione di Averroè, ancora a un antico, ad Aristotile, è avviata quella grandezza. Altrove si ricorderà del Castello: accanto ad altre indicazioni strutturali; e certo l’immobilità di una teoria gerarchicamente ordinata non gli dispiacerà, più tardi; dalla Valletta dei Principi alla Mistica Rosa, per più gradi.

Il giudizio come prologo al ritratto drammatico Riferire il canto degli spiriti magni del Limbo ad una tradizione culturale, o più intimamente a un ricordo di letture, è quasi ovvio: meno, coglier lo stesso processo a proposito del canto di Francesca; per il quale esiste, davanti e sopra una tradizione critica, una tradizione mitografica, attenta ad esaltare ed a far risaltare il personaggio. Noi non tenteremo la stessa strada: una breve notizia di storia della fortuna, accentrata intorno al gran tema, basterebbe a segnalarne la preminenza e l’isolamento;8 ci preme, piuttosto, annotar leggendo come si giunge a questo: al ritratto drammatico, alla prima grande scoperta poetica della Commedia. La situazione, il paesaggio dipinto a prepararlo, è già indicativa che qualcosa matura; direi che lo stesso Minosse lo prepara: almeno in quanto guadagna su Caronte, questo giudice infernale, e secondo dei personaggi mitologici a custodia dei cerchi; ché, contrariamente a quel che ci attenderemmo da parte di un attentissimo e puntualissimo moralista, Minosse si isola in sé medesimo, volge su di sé il suo rovello, si contorna e si chiude in quel suo gesto della coda onde si cinge. Le anime appaiono e scompaiono: dicono e odono, e poi son giù volte…9

prive di volontà, assorte nel loro destino, con quel distacco con cui si consegnano, come foglie dal ramo squallido, al nocchiere, con quel precipitoso abbandonarsi onde il ricordo di Caronte si prolungherà in un tratto dell’episodio dei suicidi: Cade in la selva e non l’è parte scelta; ma là dove fortuna la balestra quivi germoglia come gran di spelta.10

Desolazione altrettanto stanca è nel paesaggio della pena, quando il poeta riecheggia se stesso ed elegiacamente declina:

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E come li stornei ne portan l’ali nel freddo tempo a schiera larga e piena, così quel fiato… E come i gru van cantando lor lai faccendo in aere di sé lunga riga…11

da cui sembra a fatica distoglierlo la guida, con l’enumerazione storica e cavalleresca (dico di una storia – Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, París – rivissuta nello schema di un romanzo del ciclo classico): al di là di Virgilio, la materia è attratta dagli schemi correnti della letteratura, come s’è osservato a suo luogo: e meno importa il ricordo, per esempio, di Paolo Orosio, in quel «di cui si legge» della regina di Babilonia.12

Costume e morale Una volontà deliberata è nel distacco osservato dopo Tristano. Il paragone lo tenta; ma soprattutto lo stimola una preoccupazione moralistica (ha ragione Tommaseo d’insistervi, commentando, benché neppur lui rinunzi all’apologia dell’amorosa eroina, su una traccia che rimonta a Boccaccio, quando raccolse e vagheggiò la leggenda del matrimonio per inganno di Francesca con Paolo il Bello: era la preoccupazione che Benvenuto da Imola traduceva in termini plebei definendo a quel suo modo Francesca).13 Si tratta di condannare i romanzi cavallereschi, «galeotto fu il libro e chi lo scrisse»: si tratta di leggere dietro gli orpelli della galanteria cortese la bruttura del peccato. Il poeta si confessa, parlando e immaginando; quel processo, Stendhal direbbe, di cristallizzazione, per cui tutto in amore si trasforma e si esalta, Dante lo ripeterà a proposito della Femmina Balba: il desiderio trasforma le membra distorte e l’apparenza laida; così qui la briga della bufera infernale diventa, quando i due «che ’nsieme vanno» entrano nell’alone dello sguardo del poeta, un vento leggero, un volo di colombe,14 una forza eguale e sola; e se l’anime, giunte innanzi la ruina, bestemmiavano Iddio e la sua virtù, qui Francesca è quasi prossima alla preghiera, cortese verso chi la condanna; e la terzina che canta l’ultimo fluire del Po dal suo gran viaggio nel mare, chiude la vicenda di quel volo. Le tre terzine illustri: Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende… Amor, ch’a nullo amato amar perdona… Amor condusse noi ad una morte…15

ripercorrono a ritroso la storia di un amoroso linguaggio. Incomincia dal tema memorando del «Savio», già parafrasato nelle rime: «A cor gentile repara sem-

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pre amore»: se Guinicelli segnava il termine di un processo di affinamento e di purificazione, il suo stesso dettato è risospinto ad essere inizio di una storia di morte, anziché di vita, di inferno anziché di paradiso. Il secondo termine riassume il canone fondamentale della cortesia cavalleresca, che non consentiva scortesia d’amore, e dannava l’ingratitudine. Il terzo s’apre finalmente sulla realtà della morte e della dannazione. Il contrappunto replicato istituisce quasi un controcanto alla proposta di ciascuna terzina: il vagheggiamento sensuale della bella persona perduta, col raccapriccio della morte subitanea in peccato; un crescere di voluttà (quel «piacer» val sì bellezza, fonte di piacere; ma, misurando la storia della parola, la riporta nella sua origine), quasi un tumulto di sensi, nel mezzo di questo primo atto del dramma; e, terza terzina, al soprassalto della morte che li trafigge insieme (più tardi il vanto dell’unione eterna, «questi, che mai da me non fia diviso») risponde l’acre sapore della vendetta. Francesca non è anima misericorde: né può esserlo, se accetta, come accetta, tutto il destino della sua passione. Anche nella seconda lassa del canto, dopo l’intermezzo patetico di Dante smarrito, cui sopravviene il poeta, a conforto ma anche a salvezza, a ritrarlo dal vagheggiamento amoroso, a costringerlo a definire, pensando, la responsabilità dei suoi sentimenti, ancora Francesca ripercorre tutta la storia, e l’accetta sino in fondo. Nella commedia interviene Amore, come di prammatica; e il suggerimento di Dante varrebbe a trattenere l’episodio in una sospensione schiva, in quella cauta custodia che era anch’essa della tradizione galante; ma Francesca, avviandosi secondo tutte le norme mondane della letteratura cortese e dell’erotismo romanzesco, non vi si trattiene: l’accento e la passione danno altro senso alla storia e il primo bacio ha in sé ogni caso ulteriore; sapore di morte e di peccato. Poi il libro cade come inutile, «quel giorno più non vi leggemmo avante»; ma le consonanze, il ritmo, quasi una febbre della parola, il contagio dell’immagine, hanno svolto il dramma e suggellato un destino.

Realismo E riportato, come dicevamo, a una realtà cronistica la storia cortese: ché contro le occasioni prossime del peccato non formula una condanna aperta: ricordi e formule amatorie e il costume galante son ricondotti alle loro conseguenze senza un predisposto intervento che s’arresti nella polemica. Ma solo così il poeta giunge a liberarsi del tema d’amore, come s’era liberato del tema della gloria: con un ritratto drammatico, la storia tragica di una morte, un giudizio espresso circostanziando l’estrema avventura di una vita. L’ordine è qui capovolto, per più efficacia: l’antagonismo di Francesca non è con Gianciotto,16 è con i «dubbiosi desiri»; nella lotta contro l’agguato amoroso ella cede, perché vince la sua natura, la passione funesta di cui sarà eternamente orgogliosa. Il giudizio sacrale sull’anima non deflette in nulla dal suo rigore; accentuato dalla debolezza sentimentale di Dante e di Paolo: due complici; ma il ritratto di creatura, il primo e il più ricco dei grandi ritratti di Dante, vive della invincibile forza che la trascina.

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If IV, 81. If IV, 25-27. 3 If IV, 43-49. 4 Il problema, s’è già alluso, interessa soprattutto il Pietrobono: se è lecito, per un esercizio mnemonico, assegnare a un argomento un nome; e certo la portata storica della soluzione che il P. suggerisce nella penombra della poesia, il sincretismo classico-cristiano dei nuovi tempi, è immensa; ma vedilo puntualizzato nei suoi riferimenti minori e immediati nell’appendice al c. XX del Paradiso, nel commento del Porena. 5 If IV, 69. 6 If IV, 129. 7 If IV, 123. 8 Tre nomi, a segnar tre tempi e modi di legger Francesca: Ugo Foscolo, nel Discorso, Francesco De Sanctis nei Saggi, ed E.G. Parodi, in Poesia e storia nella DC, Napoli 1921. Quanto alla fortuna iconografica e mitografica, cfr. G. LOCELLA, Dante’s Francesca in der Weltliteratur und Kunst, Erlangen 1906. 9 If V, 15. 10 If XIII, 97-99. 11 If V, 40-42; 46-47. 12 È noto che il testo di Paolo Orosio è puntualmente tradotto: «Nino mortuo, Semiramis uxor successit […]. Praecepit ut inter parentes ac filios, nulla delata reverentia naturae, de coniugiis adpetendis, quod cuique libitum esset, licitum fieret». Ma i lettori restano attratti verso la vicenda novellistica propria dell’episodio di Francesca; ed ecco l’abbondanza narrativa del Boccaccio commentatore, che pure non ignora le fonti storiche «che essa fosse moglie di Nino re degli Assiri per lo testimonio di molti istoriografi appare»; ecco la lezione lambiccata «che sugger dette a Nino e fu sua sposa». 13 «La donna abbellisce la sua passione; e, pur nel dire della bella persona che le fu tolta e del costui piacer, non lascia dubbio che l’amor suo al Poeta paresse cosa degna di cuor gentile, e che l’amata in tal modo non potesse risparmiare il ricambio. Non dimentichiamo però che la donna parla come tuttavia passionata, al modo che gli altri dannati fanno; e che i Teologi stessi ammettono nell’inferno il dolore e la vergogna che tormentano, senza il pentimento che ammenda… Ma guardando più addentro, in questi versi stessi, che Dante ha forse composti innanzi i trentacinque anni, e ardenti delle sue proprie memorie, e impressi dalla pietà de’ due miseri (i quali e’ poteva aver conosciuti, dacché quand’essi morirono, volgeva a lui l’anno ventitré di sua età), in questi versi stessi è un senso di tanto più potente quanto meno spiegata moralità» (Tommaseo). 14 Ancora il Tommaseo, divagando nella sua immaginazione di formidabile citatore, ci suggerisce il riscontro virgiliano, dal V dell’Eneide: «Qualis spelunca subito commota columba, / cui domus et dulces latebroso in pumice nidi, / fertur in arva volans, plausumque exterrita pennis / dat tecto ingentem; mox aere lapsa quieto, / radit iter liquidum, celeres neque commovet alas». Ma Dante ha buon giuoco nel rinunciare ad ogni più facile evidenza episodica e ritmica: rinunceremo anche noi a divagar più oltre, rammentando che mutata in colomba era la Semiramide-Astarte della mitologia siriaca. 15 If V, 100-107. 16 Di tale antagonismo parla il Momigliano nel suo Commento (cit., p. 39), quando circostanzia, esemplificando, il suo reperto analitico che attenua il valore poetico di Francesca (ed esalta, a paragone, quello di Conte Ugolino: per stabilire un indice di progressione dal primo all’ultimo episodio drammatico della cantica?): «Dunque i versi 88-96 sono il preludio di tutta la storia, e sono meravigliosamente belli: sono come la mozione degli affetti, l’inconscia seduzione femminile che Francesca esercita su Dante. Ma il gusto romantico non ha lasciato vedere che la triplicazione di “Amor” delle tre famose terzine (100-8) è più un accorgimento oratorio che sostanziale poesia, e che qui l’intreccio delle due note dominanti, la dolce e la tragica, continua, ma è proiettato sopra uno sfondo scenografico. Francesca appartiene alla schiera dei grandi personaggi che difendono il proprio sentimento o perorano la propria 2

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causa: Francesca contro Gianciotto, Farinata contro i Guelfi, Pier della Vigna contro i mali cortigiani, Ugolino contro l’arcivescovo Ruggeri, Guido da Montefeltro contro Bonifacio VIII. Ma Francesca ha una eloquenza meno serrata, più divagante, un che di sentimentale che la infiacchisce». Delle tre terzine abbiamo prospettato altra storia: quanto all’arringa di Francesca, non vorremmo, proprio leggendo la Commedia, che è drammaturgica, prima che dialettica e retorica, rinunziare alla nozione dialogica, che attrae a sé il momento oratorio: certo sarebbe retorica e scolastica la concione contro l’assente Gianciotto; ma Francesca è introversa, e finché il suo destino era di vivere, poco fastidio le dava il marito, benché così poco ligio alle regole dell’amor cortese, così chiuso nella tipologia del “geloso”. Aggiungi che di questa tipologia, conseguenza della codificazione cavalleresca dell’«Amor ch’a nullo amato amor perdona», Dante non vuol più sapere: non di tipologia parla, ma di tradimento, e il «Caina attende», se innalza a un accento d’ira vendicativa la battuta di Francesca, appartiene piuttosto alla riflessione moralistica di Dante, attento ormai, in questa scoperta del ritratto drammatico, e in questo progredire dalla leggenda alla cronaca, anche ad accertare le responsabilità morali del costume.

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Cammino verso la città e assedio

Più circoscritto definirsi della moralità Oltrepassato il tema della gloria e il tema dell’amore nella loro limitazione terrena, l’attende il tema della politica, con le sue grandi animate avventure: tale che investe tutta la vita della cantica. Una condizione di poesia si rivela così: di fronte alla gloria, Dante s’era esaltato in calda atmosfera e blanda luce: diritto, coi grandi poeti, sopra il verde smalto, in una contemplazione immobile; di fronte alla passione, Dante aveva partecipato, raccogliendosi in sé, diminuendosi smarrito, quasi annichilito: fra i due smarrimenti, prima del Limbo e dopo il secondo cerchio, quasi morti mistiche, s’erano conclusi due temi assai attivi della sua vita intellettuale e mortale; ma la pietà che sopravviene quando la mente si schiude è ancora un soprassalto della memoria: «novi tormenti e novi tormentati»,1 così insistente che dentro di lei, per non lasciarsi vincere, Dante deve cercare una ragione. La ragione è trovata nella moralità; e per specificare, nella moralità cittadina, la cui problematica il poeta matura ansiosamente, in una ricerca affidata a moti assai più circoscritti che i primi incontri. L’esaltazione della gloria terrena, pur con quel suo sfogo aperto sul problema della possibile salvezza eterna degli spiriti magni, aveva il tono acclamante e solenne, ma spersonalizzato, della apologia, ed anche la contrizione smarrita dell’incontro con Paolo e Francesca si traduceva in una sospensione indefinita: morte del vecchio uomo, per sentenza di una volontà severa, che pur lasciava, dopo la condanna, un pianto vano e pietoso, severamente vigilato da Virgilio, in veste non sai se più d’assistente al giudizio o di confessore. Dallo smarrimento in poi, gli occorre di farsi una nuova ragione concreta di vita terrena; e questa cerca e trova nell’investigare e nell’intervenire per entro la moralità cittadina, nella vita collettiva degli uomini adunati in gruppo; e gli si palesa alla mente l’immagine della città infernale, contrapposto e complemento della città terrena, Firenze.

Avvisaglie della Città L’apparizione non ha nulla di deliberato: il racconto procede affidato agli schemi astratti della struttura; esperienza delle forme dell’incontinenza, della cupidigia bestiale; e tratto tratto l’influsso quasi d’incubo delle Bestie si fa sentire: Cerbero che caninamente latra, e il maledetto Lupo a guardia degli Avari, e gli

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urli di Flegias, fra gli altri cani di Stige, di rabbia e d’allarme. Anche il paesaggio si conforma, come ora vedremo, secondo preoccupazioni precise, suggerite dalla situazione. Ma intanto la città di Dite, cui devono arrivare (e questo cammino dalla porta d’Inferno a qui non è che un lungo approssimarvisi), incomincia a mandare le sue avvisaglie. La fantasia del poeta è in moto sia per quanto ricorda sia per quanto attende: con una chiarezza memorabile di moti, con una nitidissima arte del controcanto; come in una polifonia. E se l’abitudine, dopo l’opportunità del distintamente e chiaramente riflettere, consiglia di dipanare ad uno ad uno i fili della matassa, occorre ripetere che nella fantasia del poeta tutto si opera per suggestione immediata: la istantaneità della visione abolisce l’ordine temporale, e quella montagna che è la Commedia conserva in sé la storia delle sue stratificazioni concettuali, non però abolendo l’immediata sostanza del suo esistere. Hai dunque le avvisaglie dell’immagine della città: remoto il Nobile Castello, alto nel suo emisperio di tenebre; remoto pure quel luogo sospeso, «d’ogni luce muto», quel paesaggio impossibile del secondo cerchio, quella ruina, quel turbine che ora è procella mugghiante, ora è misterioso alito di vita. I dintorni della città cominciano a farsi più precisi nel terzo e nel quarto cerchio: nel quinto già appariscono le mura rogge di Dite. Ma questa non è ancora condizione essenziale: essenziale è che il poeta, alla ricerca del suo ambiente e della sua ragione di vita, si definisce drammaticamente; lotta ed ansia che culmineranno prima e dopo le mura, navigando per la palude, resistendo ai demoni, nella perplessità di una vicenda che attende di essere risolta dall’inviato divino, e quindi, con nuova coscienza ricevuta da tale soccorso, nel contrasto con Farinata. Mentre la Città manda così le sue inquiete avvisaglie a stimolar la coscienza del pellegrino per un esame conclusivo delle sue ragioni di vita morale, prosegue l’illustrazione della struttura predisposta, i paesaggi spirituali che la situazione determina: la desolazione infinita della pioggia sopra i golosi, vita monotona nella ripetizione degli stessi gesti; la «buffa» degli avari e dei prodighi; il fiumicello fangoso appiè di una piaggia maligna, e la palude dell’accidia e dell’ira.

Gli antagonisti L’avventura si determina drammaticamente, all’incontro di così diverse direzioni; e Dante si definisce nell’atto di dar vita intensa alle creature che incontra. Ma non senza incertezza, finché la deliberazione pugnace del canto ottavo e l’incontro con Filippo Argenti lo avranno avvertito della necessità di prender parte. L’incontro con Ciacco rivela questa incertezza: perplessità psicologica, che attende d’essere abolita prima da Virgilio, «benedetta colei che in te s’incinse»,2 poi dal Messo di Dio: «tal ne s’offerse».3 Ed ecco fra tanti moventi e intenzioni che s’assommano, immagini emblematiche, struttura che condiziona paesaggi, autobiografia politica, sorgono questi protagonisti: propedeutica a Farinata, ben inteso. E il primo è Ciacco. Mentre Dante passa, «e ponevam le piante / sopra lor vanità che par persona»4 (il tema sarà ripreso nella ghiacciaia

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infernale, con altri esiti), una di quelle s’alza, di scatto: «Riconoscimi, se sai». Come spesso in questi primi canti, lo stile è pregnante: «Tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».5 Tenta un appiglio di vita, prima di addormentarsi: senza reagire, s’abbandona, quando Dante ha tentato una e due volte di aver una nozione più precisa. Antagonista scarso, Ciacco: del quale è fin troppo facile offrire giustificazioni psicologiche: uomo di corte, buonvivente e godente, capace sì di dare un giudizio generico e moraleggiante sulle condizioni di Firenze, non di reagire; scarsa vita morale, la sua; e un torpore, che consegue al suo mediocre vizio, una naturalità crassa e inerte. Tra Paolo, con il suo silenzioso contrappunto patetico ed elegiaco, e Filippo Argenti, con la sua voglia rissosa, dopo il primo appello alla pietà, serve di tramite: ed anche di tramite al tempo serve nella sua inerzia, di tramite a Farinata nella sua indifferenza: Dopo lunga tencione verranno al sangue, e la parte selvaggia caccerà l’altra con molta offensione…6

Se non sopravvenisse quella misura assai lunga di tempo «alte terrà lungo tempo le fronti…»,7 comeché indeterminata, verrebbe fatto di cercarvi conferma alla tesi dei sette canti; e certo, altro è l’impegno politico dal settimo in avanti, altro in questo: dove l’indeterminatezza è appunto il modo più frequente; ma, senza toglier di mezzo che proprio le incertezze del noviziato poetico possono avallare quella tesi, assistiamo al primo capitolo della Institutio Dantis in materia politica; e seguiamo un itinerario didattico affidato a sentimenti e risentimenti maturati nell’ambito della poesia.8 Certezze ne ha ancora poche e scarse, e la superficiale informazione di un uomo di corte, nemmeno pettegolo, vago alquanto nella eleganza un po’ ammanierata della sua persona storica (se è quel Ciacco dell’Anguillara di cui tanto si ragiona), non può decidere della sorte e dell’educazione di Dante: altri uomini di corte si attendono, da Marco Lombardo a Romeo di Villanuova, perché l’esemplare del personaggio si raddoppi autobiograficamente sul poeta. Il secondo capitolo di questa Institutio è l’allegoria della Fortuna: la quale anch’essa puoi misurare da più di una visuale: dall’opposizione fra quanto dice nel Convivio e questa giustificazione trascendentale di un disegno divino (ed è spiegazione intrinseca alla storia di Dante, maturazione di un pensiero teologicamente più ortodosso, accettazione di un dogma); ed anche puoi considerarla nella sua iconografia, definizione estetica di un concetto, secondo un metodo che sarà assai caro all’emblematismo del Rinascimento: anticipazione di una “impresa” o di una allegoria belliniana; e sarà facile intendere quanto di paganesimo cristianamente trasfigurato vi sia: Vostro saver non ha contrasto a lei: questa provede, giudica e persegue suo regno, come il loro li altri dei… ma ella s’è beata e ciò non ode…9

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Ricordo del canto della beatitudine impassibile di Beatrice, «Io son fatta da Dio, sua mercé, tale / che la vostra miseria non mi tange»,10 sopra una figurazione che dalle indicazioni tematiche è indotta a un ritmo classico di stilizzazione: trasfigurazione della pagana Fortuna, non ancora Provvidenza; ma la lontananza divina e beata ove è posta, lascia in solitudine il poeta, che non può avere che provvisorio conforto dalla beatitudine in cui l’angelo si contempla. Nell’anima di Dante la evocazione di Virgilio, stupenda in sé, lascia un vuoto; e il paesaggio mutato dopo la ridda degli avidi peccatori, quella tristezza umida e palustre, la tetraggine dell’aria e del canto, lo definisce anche più solo. L’inno della gente vinta dalla sua stessa collera: tristi fummo nell’aere dolce che dal sol s’allegra portando dentro accidioso fummo: or ci attristiam nella belletta negra…11

quasi l’incita ad una contrapposizione attivistica e ottimistica. Il terzo personaggio, Filippo Argenti, lo trova, finalmente, avversario sciolto e violento nella battaglia verbale. «Vedi che son un che piango»12 doveva bastare a disarmarlo, comunque detto con rovello dal fangoso che aveva promosso l’inchiesta; ma l’antagonista, fatto ormai forte, che cerca in sé come l’ira diventi sdegno, come si santifichi a vita morale quel moto torbido del sangue, lo ferisce a fondo, lo ribatte d’un colpo di coltello: Con piangere e con lutto, spirito maledetto, ti rimani, ch’io ti conosco, ancor sie lordo tutto.13

«Io ti conosco»: per la prima volta affronta un personaggio mantenendo intera la concretezza del suo risentimento terreno; per la prima volta dichiara e condanna una intera sorte umana; per la prima volta la sua decisione di prender parte è fattiva.

Scoperta del protagonista Il mutamento che d’ora in poi interviene nel racconto meriterebbe d’essere circostanziato analiticamente, se qui volessimo altro che offrire chiavi alla lettura e linee all’intelligenza storica: non è nostro il commento. Trascorriamo dunque sulle contestazioni dedotte: sulla nuova drammaticità che il poeta consegue, deliberato ormai a gettarsi con tutto se stesso in quella che non è più avventura, ma giudizio; sulla diminuzione e minorazione di certi valori narrativi, che nello spazio aperto e disponibile dei primi canti si distendevano con più ricca misura: anche sullo scadimento del paesaggio, che perde la pittoresca allusività dei

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primi canti, e attende, per ristorarsi, le pause incantate degli idilli (soluzione classica dopo una esperienza romantica). E trascorriamo anche sulla tesi dei sette canti: che risulta anche felice espediente per concretare in notizia di cronaca la storia di questo noviziato poetico che Dante persegue. Osserviamo invece la conclusione di tale primo capitolo: la pienezza della vita di Virgilio. Dall’atto che egli interviene a santificare il suo magnanimo sdegno contro l’Argenti, il suo comportamento è diverso da quel ch’era: il savio gentile parlava con distacco e con lontananza, prima; e le sue degne parole avevano un po’ sempre il tono di quando si discorreva camminando verso il Nobile Castello: «parlando cose che ’l tacere è bello, / sì com’era ’l parlar colà dov’era»:14 le pause, come tante volte in uno stile narrativo che accentua l’emotività in luogo dell’evidenza e della visibilità, eran colme di attese e di mistero. Ma ora è il maestro «accorto» che sospinge l’Argenti fra gli altri cani; e deciso a prender parte lui pur con Dante, sdegna la sorte di quei superbi iracondi, condannabili in fascio quanti si tengono or là su gran regi, che qui staranno come porci in brago.15

Virgilio personaggio Intanto la città che ha nome Dite s’approssima, si discernono le torri e le meschite intorno e dentro la cerchia delle sue mura, si nominano i suoi cittadini, il suo esercito. Quel presentarsi di Virgilio e di Dante, soli, al cospetto di una città armata e difesa, quell’avviarsi circospetto ma solenne al parlamento segreto coi diavoli, dopo che Flegiàs gridando forte ha gettato l’allarme (forte è significato che s’addoppia), quella baldanza dell’andare, e la umiltà dimessa ma non vinta, anzi vittoriosa, nell’attesa fidente del suo ritorno, hanno una precisa forza che il personaggio prima non aveva; ma Virgilio non era personaggio, prima: era un luogo comune, un topos cui ricorrere in ogni caso, quasi una “sorte” sempre aperta a ogni dubbio. D’ora in poi si raddoppia sul poeta, diventa non lui, ma una trasposizione trasvalutata della sua persona, entra nel cerchio di quella creazione drammatica per cui un personaggio diventa un prolungamento del drammaturgo, pure e proprio acquistando autonomia di vita e di parola. Altro dica più minuta lettura; ma non vorremmo trascorrere senza annotare una circostanza, che ha peso storico immenso: Virgilio s’era mosso per l’investitura che la rivelazione, donna da cielo, gli ha dato; e sin qui è proposta dedotta, superbamente dedotta; ma a paragone con le prove e col male, Virgilio deve diventare qualcuno: eccolo ricorrere direttamente ad una fede carismatica, accettare l’indicazione e il soccorso da Dio stesso, nella seconda persona qui nominata. Il dramma spirituale con il contrasto questa lor tracotanza non è nova; ché già l’usaro a men segreta porta,

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la qual sanza serrame ancor si trova: sopr’essa vedestù la scritta morta16

(non ancora con il mimo, che sopravverrà nell’incontro coi Malebranche) fra i diavoli dispettosi e i pellegrini dell’oltretomba si conclude con una apparente sconfitta della ragione; ma è una vittoria, se il segno del volere divino si manifesta, e le si spalancano le porte della città ferrata.

Assedio della città infernale La sosta davanti la porta della città di Dite riempie il canto nono: ch’è dei più vari e mossi; ma da quando due fiammelle s’alzano sulla torre di scolta, onde Flegiàs accorra traverso la palude, sino all’incontro col Minotauro, che risolve la vicenda e introduce il cerchio della violenza (dove la natura maligna non solo cede a se stessa, ma si raddoppia sulla natura umana per compiere il male), un solo nodo si stringe, e una sola storia si dipana. Fin qui il paesaggio (quello della terra e quello dell’anima) era vago e disteso: lande e piagge e paludi; ma ora un ultimo tratto ci affaccia all’orlo dei precipizi, i tre dirupati salti dell’interno inferno. Fin qui luci eguali nella tenebra fonda, livide arie ed acque; ma ora s’accende il tema delle fiamme, rosse le mura e le torri, infocate l’arche come fornaci. E nelle anime l’incognito indistinto di un abbandonarsi inesausto all’impulso: prima, un esser vive di una forza che le trascorreva, come in Francesca; ma ora eccole intere e diritte, con la propria volontà interrotta volontariamente, ma audace. E l’opposizione dei demoni era di grida e di urla vane, prima, in quella immensa zona che si stende dalla porta disserrata alle mura; ma d’ora in poi il combattimento è più accanito, e vuole, dopo l’intervento del Messo da Cielo, che l’ingegno soccorra: quell’ingegno, quell’accorgimento umano, quell’ausilio della ragione, che proprio da tali dannati era stato distorto ad un uso maligno. Di tale sosta, e dell’intermezzo drammatico che l’occupa, il nodo è l’assedio della città, dalla prima avvisaglia, quando Virgilio va a parlamentare coi Diavoli, al gesto magico e imperioso onde il Messo da Cielo apre la porta di Dite.

Ragione e magia Virgilio, sconfitto, più s’innalza; e non è mai stato vivo e operoso come ora, da quando la sua sapienza scendeva austera e forse mollemente dignitosa, a parlare; non egli s’identifica con la ragione, ma le appartiene, quanto la ragione a lui: pure sconfitto, chiuser le porte que’ nostri avversari nel petto al mio segnor, che fuor rimase e rivolsesi a me con passi rari,17

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non egli è vinto, che combattuto più s’innalza, e, umilmente dimesso, più è uomo. Il Messo da Cielo l’esalta, che pure a loro non parla, ma è lì per loro, invincibile ausiliario. Sconfitta per un momento la ragione; e sconfitta la parola: di qui quel suo parlar smozzicato: «Se non… Tal ne s’offerse. / Oh quanto tarda […]».18 Ed assistiamo all’accenno, o forse alla tentazione, ma non al rito dello scongiuro. Il ricordo della maga tessala Eritone (anzi: «Eriton cruda»; la magia nera di cui lui stesso fu vittima, costretto a scendere per tutti i cerchi del dolente regno a richiamare uno spirito dal fondo della ghiacciaia infernale, dalla Giudecca, ha un’apparenza atroce: ripercorsa dall’apparir delle Furie, insanguinate) vale come tema continuo. Virgilio mago?19 Al contrario: «Se non…» può anche dire che gli s’affaccia alla mente il pensiero di scendere a paragone dei diavoli, servendosi delle leggi che soprannaturalmente li governano; ma la vittoria tocca qui al cenno di un personaggio celeste: e, quando occorrerà un rito di scongiuro, a richiamar Gerione dall’abisso di Malebolge, basterà gettare, aggomitolato, il cordiglio che a Dante era servito male di cappio a prender la lonza. Non più scongiuri magici, ma segni carismatici. Di scongiuri, e di una seduzione terribilmente maligna sull’uomo, si servono bensì le Furie, le «meschine de la regina dell’etterno pianto».20 Qui il mistero si affolta (e ancora una volta il torto è di volerne dipanare un senso solo), e il poeta stesso, quando chiude l’episodio, richiama indietro il lettore, coi versi famosi: O voi ch’avete l’intelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde sotto il velame delli versi strani!21

L’eresia personificata, l’ateismo radice di tutti gli errori e la seduzione della superbia intellettuale, irrigidita nell’antitesi dogmatica alla perpetua creatività di Dio: tutto questo è la Medusa, la sua testa mozza, il Gorgon; e perché non la «regina» stessa, la «Donna che qui regge», la personificazione della luna, che ha pure un suo viaggio e un suo misterioso soccorso nell’itinerario del poeta? Ma al poeta importa stabilire un contrappunto al soccorso che altra volta gli venne dalla Donna del Cielo, dalla Vergine Maria, dalla prima Creatura: quel benigno soccorso, quel pietoso accorrere perché un viaggio si compia, quel caldo d’amore per cui splende e sfolgora in cielo la mistica Rosa, sono il contrapposto di questo atto meduseo che impietra la volontà, che l’irrigidisce in una forma, che seppellisce la creatura nella tomba del suo stesso volere, che scolpisce nel finito il contorno della persona umana. E la mitologia, altra volta introdotta a significare la degradazione demoniaca della creatura angelica, e che più tardi tornerà a vivere nella letizia delle belle favole, quasi riconsacrata dalla riconquista cristiana della natura indenne, qui è antitesi del tema paradisiaco che aveva introdotto il canto secondo: così l’apparizione delle furie contrasta al canto delle donne nella corte del cielo.

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Il Messo da Cielo La demoniaca malia della Medusa è vinta da un atto semplicetto: voltarsi, e chiudersi gli occhi con le mani, ed altre mani soccorrevoli s’aggiungano loro a fare schermo. Ora non c’è più bisogno di tentar la via di altri incanti, dopo la vanità dell’incanto diabolico: già la natura, percorsa da quello Spirito sopra l’acque, si riscuote tonando, fuggono l’anime distrutte innanzi al Messo da Cielo, la sua mano rimuove dal volto l’aer grasso che stagna sulla palude. Prima opera, poi parla; eloquente, parla: e come le Furie avevano allegato la vittoria su Teseo, ora egli ricorda la vittoria di Ercole: dove l’eloquenza è conferma di una verità effettuata. E senza parlare ai poeti, ritorna per la «strada lorda», per la palude popolata dalle anime iraconde: lui, il magnanimo sdegnoso. Qui valga l’episodio anche a riassunto dei quadri che il poeta dipinse: ché più grandi e pervasi d’anima, più solenni e superbi paesaggi spirituali non aveva prima dipinto, né più poi dipingerà. E delle creature angeliche che poi introdurrà nella Commedia, questa è la più umanamente ferma e scandita, la più poderosa ed evidente: ritratto d’angelo sopra un paesaggio immenso. La commedia demoniaca e atroce dei diavoli «dispettosi», dal tranello di Flegias alla tentazione di Medusa, è in contrappunto con questo dramma innalzato a vertici superbi. Lui scomparso, pare che la nube luminosa dove s’è celebrato l’incantesimo si dissipi, e tutto ritorna ad una tonalità mediocre e distesa, che bene è allusa dalla gran campagna piena dell’arche di fiamma; eppure l’accento poetico non cade sui sepolcri, benché ogni sottolineatura strutturale soccorra l’immagine: tutto è in attesa di Farinata.

I superbi sepolti nel pomerio della città infernale Ora torna presente, vinto l’assedio di Dite, il tema della città; e il tema della città richiama a Dante, irresistibilmente, la concretezza dei suoi ricordi fiorentini, l’immagine viva della città di cui andava in cerca, della quale immagine quella voragine infernale era un esempio contraddittorio e tremendo. La superbia dei costruttori di città (da Caino in poi?) si deduce rigorosamente dalla loro volontà di eternarsi con mezzi terreni, respingendo l’idea di una vita spirituale che soccorra la vita terrena e della città terrena. Anche le indicazioni geografiche, come dall’uno all’altro confine d’Italia, a chiuder la terra della civiltà cittadina, gli servono: da Arli a Pola; e se i sepolcri sono scoperchiati, se il loro custode è invisibile,22 la presenza del tema apocalittico ne riceve impulso: il tempo è ancora sospeso, sulla terra dei mal vivi: potranno scoperchiarsi le tombe e risorgere la vita: potranno riempirsi d’altri tributi. «Simile qui con simile è sepolto».23 L’abitudine dell’intelligenza cattolica, propensa, fin d’allora, al catalogo esatto delle colpe, e ai giudizi energici sugli errori, gli rende conto della superbia ateistica che pervade tanti aspetti della civiltà cittadina; e la sua attesa, ripresa all’inizio del canto decimo, con un desiderio confessato, «la gente che per li sepolcri giace / potrebbesi veder»,24 quella sua volontà pregnante di far giudizio morale

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attraverso la storia, sarà appagata dalla apparizione di Farinata. Al termine del discorso di Farinata, un breve elenco di protagonisti della storia del Duecento: Qui con più di mille giaccio: qua dentro è ’l secondo Federico e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio,25

gli interrompe la curiosità, aperta dal goloso Ciacco, maldestro ingordo di beni terreni; ma appunto l’apparizione di Farinata ci chiarisce un modo tipico della fantasia dantesca: la sua indagine lavora sottilmente intorno ai temi che più gli son cari; intorno al tema della città, instancabilmente; e la figura e forma d’Inferno è proiezione di quel ricordo; ma a un tratto il suo procedimento mentale si capovolge e illumina tutta una figura e lascia che il suggerimento fantastico, la vita di conoscenza promossa dalla rivelazione poetica, investa tutta la zona prima percorsa da quella riflessione. Se la fondazione della città, coi suoi attributi di grandezza e di dominio, e l’intima violenza delle operazioni politiche, e quello sforzo perduto di tradurre in virtù i vizi (poi venne anche Vico a riflettere su questo tema), fosse operazione maligna, si discuteva; e toccò all’umanesimo, specie all’umanesimo italiano, riattribuire la benignità di un servizio provvidenziale all’opera dei politici: finché Machiavelli, compiuto il ciclo, ricapovolse in una sfera disancorata dalla Provvidenza quell’attività, la cui grandezza temeva andasse perduta nella vicenda delle guerre d’Italia. Ma la dottrina resta in secondo piano, nella mente di Dante: fatto uomo concreto, sospesa in un cielo eterno l’immagine della gloria, purificatosi con la morte mistica dalla seduzione dell’amor terreno, deviata verso la notizia delle sorti di Firenze la presenza della cupidigia ingorda, inchinata reverente la Fortuna guida e custode della ricchezza e della grandezza (giova ripercorrere la storia fin qui narrata, tanto è saliente questo culmine della vicenda) e purificato in sdegno l’ira nell’incontro con l’Argenti, ora è uomo, uomo solo, uomo eterno, alla ricerca e all’incontro di altri uomini. Ancora, finché vi sono uomini vivi in cammino verso il destino trascendentale che li soccorre, la sorte dei superbi negatori di Dio che si son seppelliti nelle loro arche orgogliose non è del tutto segnata: vivranno, sia pure nell’immortalità fittizia della storia: un’ombra di loro vivrà perenne.

Farinata Di Farinata, tutti lasciano che parli la poesia. Di quanto s’innalzi l’inno dell’amor di patria dal dramma di quell’antagonismo fra il capo ghibellino e il discendente dei guelfi, che s’appresta a superare ogni divieto d’ira di parte, e a diventare altissimo giudice della città che l’ha sbandito, ogni lettura dà il metro. Quell’ateo che visse magnanimamente e con una sua chiusa, superba ma fermissima, forza caritativa operò il bene della patria, ad altra immortalità non crede se non quella delle geniture:

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«Chi fuor li maggior tui?»26

E Dante, che aveva già percorso l’itinerario dialettico della disputa sulla nobiltà, e che aveva negato che nobiltà sia in dignità ereditaria, e che era giunto a un individualismo che richiedeva la investitura divina sulla dignità perenne della persona, accetta di discutere. Immobilmente discutono, senza infingimenti, a volto aperto, ogni colpo cavallerescamente annunziato: non gliel celai, ma tutto gliel’apersi…27

Ebbene, quella genitura è destino d’esilio: generare, in quella rissa cittadina tremenda, val quanto aumentare il numero degli esuli. Qui il tema proposto da Farinata subisce una impetuosa svolta dall’apparizione di Cavalcanti; e al tema dell’amor di parte si oppone il tema dell’amor di padre: trepido, dolente amore, che non solleva diritto il protagonista, in quel gruppo da cui tanto apprese il linguaggio fiorentino e toscano della statuaria e della pittura monumentale, ma solo in ginocchio supplicando: mio figlio ov’è? perché non è ei teco?28

amore che s’abbatte se appena lo coglie il dubbio della morte del figlio, come se quell’anima, viva pur dopo morta, tanto serbasse delle sue credenze in vita da credere che il figlio sia del tutto morto, pur morto; ma non fiere li occhi suoi il dolce lome?29

lontano dal sole benigno il destino di morte è insopportabile a Cavalcante. Il dramma compie a questo punto il terzo passo, chiuso l’episodio dei Cavalcanti; e dopo l’amor di padre s’avanza e pieneggia il tema dell’amor di patria. L’accento dei due è diverso, data e segnata anche per Dante la sentenza d’esilio: Che tu saprai quanto quell’arte pesa30

dice Farinata; e Dante: Deh, se riposi mai vostra semenza…31

ma dall’immobilità affocata delle tombe lo sguardo di Farinata si allontana verso il futuro: «cotanto ancor ne splende il sommo duce!»32 È il secondo eroe che, accettando la condanna, libera la sua umanità finita a paragone di Dio, di cui si ricorda.

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Topografia d’inferno: dinamismo della poesia e staticità della dottrina L’attesa di Beatrice (e della città celeste) suggella l’incontro di Farinata. Ma da una tomba all’altra trascorrendo, si ferma ad un avello solitario: non più «simile con simile» vi è sepolto; né la processione diabolica dei papi simoniaci l’uno capovolto sull’altro, come nel terzo di Malebolge; ma la solitudine disperata del supposto monofisita Anastasio II: senza il dogma della duplice natura di Cristo, ogni speranza d’immortalità è perduta. Ma dove il pontefice, investito di autorità alla salvezza delle genti, è fallito nel suo magistero, soccorre Virgilio, l’Etica di Aristotile e la Bibbia sacra. Il canto, dottrinale, poco rivela, alla lettura, delle suggestioni fantastiche attive nell’intelligenza del poeta; ed anche la contrapposizione che qui ci si offre, tra il magistero di Virgilio e la tomba, che bestemmia con l’ira dell’epigrafe, se diventa attiva in una prospettiva storica non preveduta dal poeta, che non pensa a una contrapposizione di chiesa e di laicato, resta occasionale: non meditata appunto; e la chiarezza un po’ ammanierata e scolastica delle distinzioni, propria del colloquio ammaestrativo di Virgilio, anzi che farci assistere alla conquista in atto della verità, dispone un riassunto topografico di un luogo e di uno spazio ormai fermi nella mente: dove si perde il moto più singolare della fantasia dantesca, la suggestione delle tre Bestie che l’una dall’altra movendo invadono i cerchi infernali. Qui non è la Lonza che induce il Leone e la Lupa: non la Cupidigia che si raddoppia di Violenza e di Frode; e nemmeno la triade di Dite che al termine infimo del viaggio infernale ammucchia le tre facce immonde, con la suggestione del male che ingoia l’universo terrestre, attraendo giù in basso, verso il centro della terra, rotolando a valle, le creature umane: manca quel dinamismo drammatico che forma il quadro e la scenografia intellettuale certo, ma novissima e feconda, dell’inferno; e che con il suo moto ritroso, come se si continuasse (ma volontariamente, e con la faccia animosamente volta in avanti) il moto cui la Lupa aveva costretto il Poeta, è il tema del poema meno dichiarato e, fra i temi di scelta intellettuale, il più attivo: quello che aiuta la rispondenza finale fra l’inizio del viaggio e l’ultimo approdo, la contemplazione delle persone di Dio, uno e trino. Di una conciliazione, ancora, il poeta si preoccupa: fra la dottrina della filosofia teista di Aristotile e la dottrina della Chiesa; quando si tratta di offrire i testi, che Dante non dovrebbe scordare nel muovere le sue richieste, per potere più chiaramente dedurre dalle notizie offerte la figura completa dell’Inferno, ecco Virgilio citare Aristotile (la «tua» Etica e la «tua» Fisica, che con l’Eneide e la Consolazione sono fra i testi più letti da Dante); ed ecco, quando si tratta di discutere la teoria dell’usura (non per nulla la civiltà borghese s’appoggia su quel fondamento che anche era il pilastro della civiltà cittadina), la filosofia chiama in soccorso il libro sacro del Genesi.33 Ma il canto, che pur serve di guida alla città di Dite, nei suoi ordini vari, meglio è letto come suggello del dramma fin qui svolto; e alla pienezza dell’acquisto risponde la chiarezza dell’esposto. Non tutto vi si riassume, solo una parte: torto è nostro, se all’agevolezza di tale deduzione ragionativa da un mondo d’immagi-

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ni abbiamo supposto la razionalità esclusivamente geometrica di tutto il mondo dantesco; e una struttura matematica sulla quale cresca e fiorisca uno sterile prodigio di poesia.

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If VI, 4. If VIII, 45. 3 If IX, 8. 4 If VI, 35-36. 5 If VI, 41-42. 6 If VI, 64-66. 7 If VI, 70. 8 Il Ferretti, nel formular la sua tesi, e nel sostenerla, con una nozione amplissima della letteratura dantesca, non si rende ben conto che la sua ricerca si riassomma nella storia della poetica e ne diviene non un capitolo, ma un termine di accertamento, un documento. I tempi, che andiamo indagando, della storia della poetica sono infinitamente più complessi di quel che risulta dalla semplice contrapposizione di ante e di post exilium e i capitoli della Istituzione politica di Dante risultano appunto tre tempi di quella storia. Certo l’esilio è fatto decisivo; ma non è che lo fosse all’atto della condanna (qui la testimonianza di Leonardo Bruni ha il suo peso cronistico; e il secondo congedo della canzone dei Grandi Discacciati ha il suo peso storico); lo diventa quando il mito della Città diventa operoso, dopo che nella fantasia, nella sua vita morale, e si determina nella dialettica: città del Fiore, città di Dite, città di Dio. 9 If VII, 85-87; 94. 10 If II, 91-93. 11 If VII, 121-124. 12 If VIII, 36. 13 If VIII, 37-39. 14 If IV, 104-105. 15 If VIII, 49-51. 16 If VIII, 124-126. 17 If VIII, 115-117. 18 If IX, 8-9. 19 La prospettiva storica del tema resta quella fissata da DOMENICO COMPARETTI, Virgilio nel Medio Evo (1872), un’opera che termina appunto con Dante: puoi integrarla, come notizia, con gli studi di J.W. SPARGO, Virgil the Necromancer (Harvard 1934); e, per un giudizio di storiografia letteraria e un’intelligenza poetica e umanistica che trascende il naturalismo magico della leggenda medievale, V. ZABUGHIN, V. nel Rinascimento, 2 voll., Bologna 1921-1925. 20 If IX, 43-44. 21 If IX, 61-63. Un rapido riassunto delle spiegazioni allegoriche dell’episodio di Medusa è nello Zingarelli (pp. 922 ss.); ma: «Su queste vie, chi potrebbe mettere limite agli indovinamenti?». Appunto, non si deve. Per il parallelismo Ecate-Luna, cfr. F. FLAMINI, I significati reconditi della Commedia di D. e il suo fine supremo, Livorno 1903-1904, e Il significato e il fine della DC, Livorno 1916. L’obiezione dello Zingarelli: «La luna di cui sono ancelle sarebbe l’invidia diabolica, e questo giovò al poeta nella selva fonda!» (p. 955 n.) può essere risolta in sede di lettura. Così il Momigliano, commentando i vv. 124-130 del XX dell’Inferno, quelli appunto dove si ricorda il soccorso della luna: «ché non ti nocque / alcuna volta per la selva fonda»: «Apertura di paesaggio e di cielo; fa un’arcana impressione in fondo ad una bolgia ed è in segreta armonia con quel tanto di arcano che c’è nell’arte degli indovini. In nessun altro canto questo cielo di luna piena adombrato sullo sfondo di una selva fonda avrebbe fatto l’impressione che fa in questa bolgia di incantatori… uno scenario di malia» (I, p. 148 n.). Si 2

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assiste, insomma, alla consueta sovrapposizione degli emblemi, che pur serbano un comune accento suggestivo, che è la vera sintassi delle immagini: la luna è a paragone col sole, la regina dell’eterno pianto lo è con la luna, Medusa, anzi la sua testa mozza, con la luna, il contrappunto alle Donne Gentili è, naturalmente, sottolineato dall’emblematica che ricollega il sole a Dio; della Grazia divina s’illumina la Tutta-santa come della luce solare la Luna. 22 Manfredi Porena indica nella Medusa il custode del cerchio degli Eresiarchi: «Dunque Medusa sarebbe il simbolo dell’eresia? Non così in generale […]. Medusa simboleggia non l’eresia in genere, ma l’epicureismo, cioè, nell’opinione comune medievale, il materialismo e l’ateismo» (I, pp. 90 ss.: Li versi strani e il messo celeste). Lo splanamento ci aiuta ad avvertire, leggendo, il prolungarsi, «tra il muro della terra e li martiri», della presenza della maliarda. E se cediamo a un suggerimento del Boccaccio, c’è da rammentare, davanti a quei sepolcri, l’arche delle glorie cittadine o di Santa Reparata, dove meditava Guido e folleggiava Betto. Nel bel mezzo del Romanticismo risorgimentale, ancora di questa iconografia delle mura e dei sepolcri si vale un poeta lettore assiduo, pur con qualche bizzarria di vicinanza vernacola, di Dante, Giusti: «O mura cittadine, / sepolcri maestosi, / fin le vostre ruine / sono un’apoteosi». 23 If IX, 130. 24 If X, 7-8. 25 If X, 118-120. 26 If X, 42. 27 If X, 44. 28 If X, 60. 29 If X, 69. 30 If X, 81. 31 If X, 94. 32 If X, 102. 33 Alle informazioni già date sulla bibliografia dell’ordinamento “morale” dell’inferno (cioè sul rapporto simbologico fra il concetto e la figura), rivendicando ancora una volta il primato della poesia e la priorità dell’immagine emblematica, aggiungiamo, come precisazioni più attente al luogo, lo ZINGARELLI, pp. 392 ss., e il PORENA, La classificazione dei peccati infernali, in Commento, I, pp. 107 ss. Ma il senso di un acquisto della dottrina, e del dinamismo intellettuale che tenta la sintesi fra la classificazione aristotelica e il canone catechistico dei peccati capitali è della scuola pascoliana (PIETROBONO, Dal cerchio al centro e Commento, cit.).

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Rapsodia dei Violenti

La cerchia dei Violenti Quel settimo cerchio, dei Violenti, che Dante ancor numera quando, «su per la strema testa», allontanandosi da Virgilio si accosta ai grandi usurai accucciati come cani alla guardia sull’orlo della cittadella della frode, Malebolge, ha modi d’arte che reggono la struttura più chiaramente che sin qui, e più sottilmente: non il paesaggio vi è elemento dominante, suggerito da una situazione morale, come nei primi cerchi (e specialmente il secondo dei Lussuriosi, il terzo dei Golosi e il quinto degli Iracondi); anzi il paesaggio è qui la proiezione più vasta e generica di una complessa animazione. L’annunzio di un più stretto dominio sulla materia era fin nell’enunciazione topografica del canto decimoprimo: «dentro da cotesti sassi / […] son tre cerchietti»:1 quasi una cornice più stretta e più salda. Ma il modo onde egli risente e soffre e vive il mondo della violenza bestiale inteso a malizia, dove la natura umana è contraddetta e asservita alla natura belluina, è il gran tema della poesia di questi sei canti, dal decimosecondo al decimosettimo: una desolazione corsa da rapidissimi moti e tumulti; una terra deserta e maledetta; una società umana, ora aggruppata, ora sciolta, fra la caccia selvaggia dei Centauri e la guardia della mostruosa fiera volante, Gerione; e gli incontri con gli uomini, violenti anch’essi ed aspri, in fuga, o rattratti, quando l’immobilità della pena impone la cautela guardinga. A introdurre il tema, tre motivi largamente orchestrati: la rovina che «nel fianco / di qua da Trento l’Adice percosse»,2 come se il terremoto, o lo schianto delle fondamenta montane che cedono, si ripercuotesse nell’immagine; il Minotauro uomo-bestia, raddoppiato dal sangue e dal macello (il duca d’Atene, «ammaestrato da la tua sorella», e la similitudine del toro che «ha ricevuto già ’l colpo mortale, / che gir non sa, ma qua e là saltella»,3 dove la continenza della similitudine classica è grottescamente alterata e rifratta); e infine, suggello della vendetta divina, il ricordo che Virgilio fa del terremoto che scosse il mondo alla morte di Cristo: immensa scenografia cosmica, codesta, nella quale la mente di Virgilio, accesa ancora dell’ira che l’aveva sospinto contro il Minotauro, si distende e si placa; Ma certo poco pria, se ben discerno, che venisse colui che la gran preda levò a Dite del cerchio superno, da tutte parti l’alta valle feda

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tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo sentisse amor; per lo qual è chi creda più volte il mondo in caòs converso.4

E a concludere, trascurando d’essere scolasticamente attento ai nomi delle pene: oh cieca cupidigia e ira folle che sì ci sproni…5

Non abbandono, dunque, come nei primi canti, ma una forza pugnace, di cui Dante fa prova, libero ormai di sé, personaggio maturo, mentre Virgilio consente che il discepolo agisca e reagisca da solo. Il contrappunto al tema risulterà più chiaro, ora, se teniamo alla mente l’impostazione generale del paesaggio; e intenderemo meglio diversi modi della reazione della parola all’immagine, e del sovrapporsi d’immagine ad immagine; e la storia che ne consegue. Ché l’invenzione, e in parte il ritrovamento, dei Centauri significa pure l’arresto e la purificazione estetica di quelle immagini di uomo-bestia: un’armonia imposta a movimenti selvaggi: Dintorno al fosso vanno a mille a mille, saettando qual anima si svelle del sangue,6

una resa plastica di movenze forti e veloci, «fiere snelle», e infine il riassunto sculturale della loro naturalità divina: Chiron prese uno strale, e con la cocca fece la barba in dietro a le mascelle: quando s’ebbe scoperta la gran bocca, disse a’ compagni.7

È la pattuglia che s’è dipartita dalla schiera al galoppo «con archi ed asticciuole prima elette»8 (similmente i tre grandi fiorentini si distaccano dalla torma fuggente dei sodomiti). E dopo il colloquio dei due savi, quel replicato e persuasivo discorso di Virgilio in stile elevato, il breve accondiscendere di Chirone, «si volse in su la destra poppa»,9 e le istruzioni provvide a Nesso. Il quale è ormai la guida, ritraendosi Virgilio, con un moto che, nel rispetto, ripete il canone costante di questi canti, il suo ritrarsi, quasi cercare una solitudine schiva. Fra le «alte strida» dei «bolliti», dentro il fiume di sangue, il galoppo della caccia e, tanto è evidente la suggestione dell’onomatopea, il rumor degli zoccoli nel «guazzo», al guado dove passano il fiume.10 Ma altra solitudine da quella di Virgilio è quella di Guido di Montfort, il profanatore assassino del tempio: solo, in disparte dagli altri come era solo il Saladino, e, più solo, papa Anastasio.

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Paesaggio come stato d’animo Una nota del Tommaseo, «il Minotauro, bestia e figlio di re, figura l’ira e la rapina tirannica, la quale si nutre di carne umana e di giovane sangue»,11 ci indurrebbe a soffermarci nella polemica politica del canto dei tiranni; ma noi da questi canti riecheggiamo, leggendo, troppa forza di fantasia; e più dice il discorso delle immagini che la riflessione moralistica isolata o dedotta. Questi lembi della città infernale, questa piaggia selvaggia corsa da un fiume ardente, folta di un bosco irto, distesa in un deserto infocato, figura di una natura maligna e ossessiva, si perpetua, dall’un canto all’altro, dagli uomini alle cose: da Rinier da Corneto, che fece alle strade tanta guerra, al ricordo della Maremma «fra Cecina e Corneto», e dei covi delle fiere selvagge, fra gli sterpi aspri e folti; e la desolazione delle Arpie, senza rimedio o soccorso che la mitologia abbia qui dall’arte, visita gli alberi con quel lento volo pauroso, più di fantasma che di rapace, che è anche di Gerione: ale hanno late e colli e visi umani.12

E la suggestione maligna continua nella perplessità amara che invade il viandante nella selva dei suicidi. Qui la suggestione psicologica diventa ella stessa maniera d’arte: il poeta fa dramma di uno stato di pena, non deduce più, o non deduce rigorosamente, da una figura, da una moralità tradotta in cifra. La suggestione morbosa del suicidio avrà la sua parte, in questo; e che il morbo fosse diffuso in Firenze,13 fra gli altri malanni morali che quello strenuo indagatore andava rilevando; e qualcosa della vuota e verbosa disperazione di Pier della Vigna si rifletterà all’indietro; vero è che la suggestione della natura maligna qui diventa sottile: una irresistibile ma inafferrabile forza, dove la cieca cupidigia e l’ira folle di prima aveva qualcosa di apertamente vigoroso; si poteva palesemente combatterla, con la sua stessa violenza. Il medico Virgilio ha pronto un rimedio a questo, del quale non so se a qualcuno è accaduto di rilevare l’opportunità psichiatrica: la prova del sangue, il costringere il discepolo a troncare una fraschetta, il vedere, come già nell’episodio di Polidoro, rampollare il sangue dal sepolto nella forma aliena. E se la violenza accorta vinceva il furore omicida del Minotauro, ancora una forza accorta vince la forza misteriosa della suggestione.

Pier della Vigna La storia di Pier della Vigna muove da questa sua aura perplessa, e ancora a forza si apre uno spazio per introdursi acclamando. Il primo tema, tenuto, è quello di «parole e sangue». Noi ne abbiamo fatto un luogo comune, di quest’antitesi; ma che lunga storia, dopo il Verbo fatto uomo! Qui parole e sangue si riseparano. Uno scoppio d’ira, mentre lentamente goccia il sangue sul pruno (pare che lo spirito nascosto stia a contemplarlo: aveva reagito improvvisamente al dolore,

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per quella sorpresa di uno strazio che non gli veniva dagli uccelli di malaugurio, le Arpie; poi si guarda, con quello stupore dolente dei feriti che vedono scorrere il proprio sangue; poi ricomincia a gridare); ma al secondo grido già la parola gli si ricompone secondo la consuetudine oratoria di tutta la sua vita: il giuoco delle antitesi, croce e delizia del suo passar sulla terra, l’ambizione delle parole prodigiose e prestigiose, la sottigliezza di una vanità verbale che si coinvolge e si smarrisce in sé: uomini-sterpi; pia-serpi.14 Ancora una pausa, nell’atmosfera che vorrebbe e non può spalancarsi in un’aura di prodigio; e la similitudine stupenda dello stizzo verde la rinserra, con quell’attenzione dolorosa che Ariosto imitò, quando a descriver la pazza gelosia d’Orlando introdusse la similitudine del recipiente capovolto, donde il liquido sgorga a stento, contraddetto; e un gesto ancora (Dante lascia cadere la cima della frasca e sta in atto di orrore ignaro), finché la climax drammatica si ridistende nell’orazion picciola di Virgilio: delusiva orazione, dacché lui stesso ha sospinto l’atto, ma, nelle parole, assai composta e solenne; in stile oratorio, ma severo, di contro alla curiosità di Pietro, che cela la sostanza ambigua: e Pietro nascondeva la tragedia sotto le ambigue parole. Tragedia di dignità offesa: nelle parole adorne, nell’irresistibile ritornare del giuoco retorico dei contrasti, in quel tragico e grottesco grandinar di metafore, che è la parlata del cancelliere federiciano, si fa strada una tragedia disperata, la condanna di un uomo che ripose la fiducia sua in un altro uomo, che s’innalzò e si resse sopra un paludamento solenne, e di schianto cadde. E di contro a loro due, l’imperatore troppo innalzato15 e il grande dell’impero subitamente depresso, il coro delle dignità cortigiane. La tragedia del Rinascimento, tragedia aulica, già si fa strada, in quel coro di corte; ma qui combattono e contrastano non creature umane, ma dignità: dignità curiali e dignità allegoriche, metafore. Il suo primo ingresso lo fa in figura di primo apostolo. (Si sa, dalle cronache, quanto insistette la polemica politica nell’esaltare o nel deprimere questo secondo Pietro, che dichiarava agli uomini il messaggio di Federico, l’Anticristo: la “lite” che invase i secoli di ferro, immensa, trovò nel nome e nelle ambizioni blasfeme alimento; ma Dante, che a tutto pensa fuor che a rinfocolare la tragedia della guerra di guelfi e di ghibellini, respinge sia quell’orgoglio sia questa indegnità): Io son colui che tenni ambo le chiavi…16

La contrapposizione è evidente; ma il pusillo, invaso dal suo sentimentalismo corrotto, anche dell’emblema tremendo delle chiavi fa uno svolazzo retorico, per dir la gioia della sua confidenza amorosa, quando adorando era riamato: serrando e disserrando, sì soavi…17

quasi una cabaletta: sulla quale, e qui la tragedia ha un intermezzo di commedia, prima di introdurre la farsa allegorica, si sovrappone il tema della gelosia: che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi…18

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una gelosia malata e affannosa, che gli toglie il sonno mentre custodisce le insegne del «glorioso offizio». Un’altra metafora annosa e solennemente stratificata di ricordi: la meretrice che mai da l’ospizio di Cesare non torse gli occhi putti…19

si presta alla commedia: non è «colei che siede sopra l’acque»,20 la meretrice apocalittica che riappare a Dante sul carro profanato nel paradiso terrestre; eppure ripete il guardare intento e bieco della Lupa; è l’Invidia: un personaggio anch’esso, che va disinvoltamente folleggiando nell’ospizio, o ostello o albergo, di Cesare (la magna curia, cui la figura di Federico II imprimeva il suggello augustale della sua dignità, a che è ridotta? Gente provvisoria vi trova ricetto; ma sempre vi soggiorna colei). E infine, nella catena delle metafore retoricamente dedotte, la sarabanda dei cortigiani sommossi dalla meretrice, il ballo degli ardenti, e la catastrofe (sempre per antitesi): infiammò contra me li animi tutti, e li ’nfiammati infiammar sì Augusto che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.21

Poi si raccoglie a soffrire in disparte: la parola trema, finalmente, pur sotto la sua maschera di «dittatore» perseverante, e l’ingiustizia diventa tema umano: ingiusto fece me contra me giusto…22

par che si balocchi con quelle vane parole: ed ecco finalmente anche loro grondano sangue. Dove gli rimane di rifugiarsi? Quaerite primum regnum Domini et iustitiam eius… L’appello al Signore, contro le ingiustizie del mondo, era sempre aperto allora come sempre; ma allora anche confortato dalle parole di tutti, le più solenni: Pier della Vigna (qui consiste la superbia che lo condanna) non può che disperatamente avvincersi al fantasma di lui che l’ha tradito, al simulacro imperiale, che va officiando, con una fissità demente, sin oltre la morte: Per le nove radici d’esto legno, vi giuro, che già mai non ruppi fede al mio signor, che fu d’onor sì degno,23

e a sé augura una pietà sopravvissuta, che qualcuno alzi la sua memoria, come si raddrizza un segno funebre di su una tomba calpesta: E se di voi alcun nel mondo riede, conforti la memoria mia, che giace…24

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Il secondo Federico Così termina la sua prima parlata: prosopopea di un vinto, intorno a un segno eroico, che pur qui, stranamente, si svuota: Federico, comunque di lui e dell’ammirazione di Dante abbian detto gl’interpreti politici della Commedia, è nel poema un gran vuoto, contornato da innumerevoli segni: giace ben morto nel suo sepolcro; il figlio, Manfredi, vaga stranito nella piaggia, cenna alla sua buona Costanza, fra i vivi; e fra i morti sorride la madre, la prima Costanza, nella lattescenza perlacea dell’eterna margherita, la luna. Intorno intorno, l’officiatura del suo Pietro. Ma il cenno sdegnoso di Farinata, «qua entro è lo secondo Federico», ancora lo grava. Che il poeta pensi o anche soltanto immagini, consonando col ricordo di Farinata, può indicarlo anche questo: che lo schema dell’episodio ricalca, a rovescio, l’episodio del canto decimo; e come la seconda parlata si prolunga, là, in quell’animoso protendersi di Farinata al futuro, in quella sua volontà di dominio sul tempo, concessagli per grazia del Signore, qui la seconda parlata di Pietro è volta al passato: storia di una fralezza invincibile, un abbandonarsi smemorato e amaro, un crescere, per una estranea forza, fatta erba o pianta selvaggia, pascolo delle selvagge Arpie: Surge in vermena e in pianta silvestra: l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie, fanno dolore, e al dolor fenestra,25

o all’immagine futura di una disperazione anche più tetra: la selva degli impiccati.

La selva degli impiccati e la caccia selvaggia Quest’altro contrappunto è da notare: pietoso (ma è crollato un suo idolo), Dante non sa e non vuole chiedere oltre: chiede Virgilio, per lui; e nella seconda parte della sua inchiesta, dinne, se tu poi, s’alcuna mai di tai membra si spiega26

ripete una delle prime domande che Dante gli aveva rivolto, nel viaggio: quando, penetrando nel primo cerchio, aveva chiesto se mai alcuno era uscito dal Limbo. Usciranno le anime, per il Giudizio; e torneranno coi loro corpi, senza pur poterli avere, «ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie»,27 e li appiccheranno ai pruni: e le parole si spengono sulla visione dell’eterna foresta degli impiccati; ma i poeti altro attendono: anche loro Pietro delude credendo ch’altro ne volesse dire…28

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Poi la caccia selvaggia delle cagne «bramose e correnti» riempie di frastuono la selva dei sospiri. Quel moto, quel fragore, la furia della persecuzione sanguinaria, capovolgono in furore quell’altra immagine che Dante aveva in sé, d’una Firenze aggravata dal contagio suicida: la violenza torbida dei suicidi, quel loro moto di risucchio, diventa la violenza scatenata degli scialacquatori: quasi una furia distruggitrice e vendicativa, a uscir da quella tristezza: e sul paesaggio di così desolata memoria, due tetri simulacri s’innalzano. La memoria del lettore si raccolga: due dannati in fuga, Lapo Sanese e Jacopo da Sant’Andrea: Lapo fugge, di Jacopo le cagne fanno strazio, e portan via le carni sbranate; resta a piangere un cespo, di un giudice suicida fiorentino, Lotto degli Agli, che esala come fumo il ricordo della città maledetta: in quel fumo, quasi una profezia lampeggiante ed oscura, il troncone della statua di Marte sul passo d’Arno, e la casa del giudice fatta patibolo.29

Senso della solitudine La fiumana, il bosco, il deserto arenoso: i paesaggi dei tre cerchi della violenza non son cercati attraverso un parallelismo astratto di rispondenze: la «cosa vista» possiede il poeta con una evidenza prima ignota; e per renderla credibile agli altri egli le si abbandona con una intensità nuova di sofferenza e di compassione, di passione partecipata; ed esplora la visione sacra con un orror sacro, e lascia che nuove immagini rampollino in quella misteriosa attesa di prodigi. Il gesto della pietà cittadina, onde raccoglie le fronde al piede del cespo, e quasi riconforta in vita il suicida, ha un distacco penoso e pensoso: preludio a quella solitudine mitica ove occorre che sbocchi a tratti, fra i Centauri e Gerione, il prologo della città della Frode; ma le stesse interruzioni del racconto, l’alternarsi inquieto dei modi descrittivi, più o meno legati a una precisazione topografica, con i modi narrativi, distesi in una ricerca lontana, e le conclusioni drammatiche, dove la fantasia si libera di forza dalla suggestione sua propria, dicono l’avventurosa attesa del poeta, per le immagini che via via sorgono. Una nuova attenzione ai riflessi della situazione psicologica tiene il poeta: che a lei s’affida per la ricerca delle sue immagini; ma la libertà dell’invenzione e la disponibilità della fantasia, e la superfluità della notizia, di fronte all’importanza del paesaggio interno, dipendono da un sentimento dove si raccoglie tutta questa storia: la solitudine. Né vorremmo ricondurlo ad una giustificazione teorica: come se la violenza isolasse gli uomini in se stessi, belve contro l’umano consorzio; mentre un legame di solidarietà stringerebbe tuttavia le vittime della cupidigia, i fraudolenti iniqui, che della ragione si valgono per intessere vincoli delittuosi, e fondare una capovolta città del male: al principio di quella solitudine della superbia leggeremmo, piuttosto, una notizia che appartiene alla storia della visione; e i lembi deserti della nuova città dell’uomo sono essi che gliela suggeriscono. Firenze l’assedia a tratti, appare e scompare, or ora ne possiederà il ricordo Brunetto, e la ridda dei grandi fiorentini, or ora, in mezzo a un gruppo di fiorentini, bercerà un usuraio padovano; ma non è immagine costan-

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te: mentre prevale il senso di una marcia di avvicinamento. Anche la topografia dottrinale con la notizia che quivi si puniscono i violenti contro Dio, Natura ed Arte, ha un suo riferimento troppo remoto, che pur giova alla lontananza della solitudine. Certo, il distacco di questi peccatori dalle proporzionate ragioni della vita comune ingrandisce innaturalmente la loro statura: ma se pure la circostanza è attiva psicologicamente, opera in seconda istanza, dopo la suggestione della solitudine selvaggia; e i personaggi, specie quelli di questo canto decimoquarto, non sono disposti, perché suggeriscano essi il senso della solitudine cui la violenza condanna le sue vittime, anzi sono le creature di quella solitudine, i simulacri figurativi e illustrativi di quel deserto. Il ritmo consueto delle operazioni mentali del poeta dispone un’immagine profana accanto ad una sacra: Capaneo accanto al Veglio di Creta; e introduce con la notizia del filosofo antico il primo quadro (la lettera di Alessandro Magno ad Aristotele, sulle nubi di fuoco che piovevano dal cielo, in India: una parabola naturalista raccolta da Alberto Magno),30 con un saggio quasi scritturale, l’origine dei fiumi infernali, anch’esso tuttavia dominato dall’urgenza dell’immaginare il secondo, che è variazione del sogno di Nabucodonosor, nel libro di Daniele;31 ma se questo aiuta il lettore a ritrovare il senso e il valore da attribuire alle figure, simili alle figurazioni, ritratte in stile compendiario, della prima cornice del Purgatorio, qui nessuna indicazione stilistica e nessuna formula compositiva rallenta la libertà dell’evocazione: siamo nella sfera suggestiva della canzone dei Grandi Discacciati: la nascita dei miti avviene nell’assoluto dello spirito, non in una condizione di soggezione ad una regola razionale, o nel vuoto della fantasticheria. Le furie di Capaneo riempiono di sé una sfera mitica, dove l’attenzione del poeta si sdoppia, fra il moto di meraviglia che lo tiene di quella grandezza sprezzante e l’intervento della ragione che condanna: i due moti complementari di tanta attenzione della civiltà cristiana verso l’immagine di una natura figurata libera dai divieti del dogma, enorme e superba; ma condannata poi dalla ragione: e il lettore sarà sempre libero di rivolgere la sua simpatia più verso l’immagine prometeica di Capaneo, eroe vero e presunto della superbia che spregia i divieti della divinità, o verso l’intervento ragionevole e appassionato di Virgilio, che ha buon giuoco nel denunziare e scoprire la pochezza intrinseca di quell’orgoglio. Forse, resta il sospetto di una regia troppo calcolata, nel ritratto: quel grande, che non par che curi lo ’ncendio, e giace dispettoso e torvo,32

e il sospetto di una orchestrazione troppo operistica nel commento musicale alle parole di Capaneo (battuta di un eroe di melodramma, nel complesso, che vuole, in una “tirata”, far di sé ritratto): Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui crucciato prese la folgore aguta onde l’ultimo dì percosso fui, o s’elli stanchi li altri a muta a muta

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in Mongibello a la focina negra, chiamando «Buon Vulcano, aiuta, aiuta!», sì com’el fece a la pugna di Flegra, e me saetti con tutta sua forza;33

e resta il sospetto di un intervento troppo facilmente vittorioso nelle parole di Virgilio. Ma il frastuono della favola mitologica e delle incudini dei Ciclopi dilegua all’improvviso (Virgilio non rinuncia ad una autocitazione, rivolgendosi a Dante: «com’io dissi lui, li suoi dispetti / sono al suo petto assai debiti fregi»;34 ma è per chiudere l’episodio: e sopravviene il silenzio) e s’apre il preludio dell’atto secondo: la solitudine della violenza nell’assoluto di un mito sacrale: la misteriosa e operosa immagine del Veglio di Creta.

Il Veglio di Creta Il tema compositivo è quello solito: una cornice paesistica e un ritratto; come per tanti finora, da Francesca a Farinata, libera l’una nel suo esser devota alla passione che la trascina, immortale l’altro dalla sua tomba di fiamma; ma è nuovo che la figura stessa si capovolga a diventare l’origine di un paesaggio; e il simulacro idolo, operatore di funesti prodigi. Tutto aiuta a crear quell’atmosfera di suggestione maligna, che già si disnoda nel preludio, dopo la sospensiva «tacendo»: Tacendo divenimmo là ’ve spiccia fuor de la selva un picciol fiumicello, lo cui rossore ancor mi raccapriccia,35

e le prime parole di Virgilio, per nulla attinenti o poco attinenti all’intrinseca novità dell’apparizione, continuano l’attesa; ma quello è uno dei fiumi del pianto, super flumina Babilonis; e il prodigio di quelle acque rosse introduce altro che un trattato circostanziato di idrografia dantesca (ricerca cui indulgono i commentatori, fuorviati dal tono pedagogico e didattico del verso: Queste parole fuor del duca mio: per ch’io ’l pregai che mi largisse il pasto di cui largito m’avea il disio,36

senza avvertire che mai altrove Virgilio s’allontana di tanto da uno schema di esposizione scientifica).37 Il prodigio è del presentarsi in aspetti diversi di quelle stesse acque infernali che gocciano da uno stesso simulacro: l’acqua di Acheronte e il fango di Stige, ora il sangue di Flegetonte, e infine il ghiaccio di Cocito, sono una stessa sostanza; come una sola linfa, nelle cosmografie medievali, di cui Dante si ricorderà anche immaginativamente nell’operetta ultima, sono le acque: che si avvicendano

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come il sangue in un corpo, si sarebbe detto dopo il Cesalpino. Poco importa che sia salva in tutto la coerenza dottrinale: a noi vale il richiamo come il ripresentarsi di quella unica suggestione maligna che lo trascina al fondo; la prima trasformazione era stata di un’unica invidia maligna nelle tre belve; e la trinità infernale di Lucifero ricomporrà l’unità. Il tono poi del discorso di Virgilio, con quella sua evidente cadenza di favola remota, allontana in una lontananza prodigiosa quello che resta un circostanziato discorso intorno alla storia degli uomini: ché non per nulla la storiografia, attraverso Orosio e Agostino, si rifaceva volentieri, nei suoi periodizzamenti, all’episodio del sogno di Nabucodonosor; e non per nulla l’attenzione degli storiografi era stata attratta dalle nuove ipotesi o profezie di Giovacchino del Fiore; ma la novità è che obbedendo alla sua fantasia di poeta Dante annulla di un tratto il valore attivo ed effettuale della storia umana; e se l’attesa apocalittica, nel Paradiso Terrestre, ridarà un senso provvidenziale al divenire del tempo, quando le trasformazioni del carro preluderanno all’avvento di un Cinquecento e Diece e Cinque, qui, nella prospettiva dell’Inferno eterno, «dinanzi a me non fuor cose create / se non etterne, ed io etterna duro», la storia dell’umanità è riassunta in un’immagine, che anticipa, chiusa nella sua grotta, l’immagine del mostro Lucifero. Del resto, che si tratti di una sosta, e non di una fantasia operosa, di un’immagine che si cerca e trova un incantesimo costretto ai confini del suo stesso limite formale, l’indica anche la suggestione assolutamente mitologica del racconto, e come il poeta vi si perda e plachi. Il Veglio, nella nobilissima cadenza delle sue forme, è il prototipo in astratto dell’umano; ed è il riassunto, nella diversa sostanza delle sue parti, nella materia via via più ignobile delle sue membra, di quella ipotesi della evoluzione regressiva che ritorna nelle dichiarazioni scientifiche, e che rimane assorta e perenne nell’idea della decadenza da una condizione primitiva di eccellenza e di beatitudine. La nobiltà dell’uomo ha ancora tanto della dignità originaria da servare all’immagine propria una cadenza di perfezione; ma non su questo indugia il poeta: bensì sull’idea, anzi sul tema, della solitudine, cui risponde anche il tema dell’unità del male, sotto aspetti diversi. E il tema della solitudine è il più efficace anche perché trattato poeticamente, allontanato in una visione remota. N’esce un’idea della storia che contraddice in parte l’altra immagine che ne ha il poeta, e che risulta dal suo attivismo: le opere degli uomini concorrono a formare il brulichio della città della frode; ma l’essenza di quella vita è un pianto che goccia dall’uomo in sé e nelle sue vicende; e nel ghiaccio di Cocito, in quella sterile immobilità del male finalmente tradotto in massa greve, cieca e senza perché, si irrigidiscono le acque infernali, dense dei peccati ricordati, come le acque di Purgatorio portan seco le colpe dimenticate e dissolte dalla penitenza.38

Ser Brunetto Allontanatosi un tratto nella solitudine del mito, si riapprossima alla città, alla sua città, con l’episodio di Brunetto, e dei fiorentini illustri: lasciando a parte, in un incontro senza Virgilio, il colloquio con gli usurai. Lo schema del ritratto drammatico è simile, da Farinata a Pier della Vigna a Brunetto, quasi che Fari-

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nata si prolunghi, nel ritmo della sua invenzione poetica, diversamente ammesso e contraddetto: una ricognizione, un’antitesi fra Dante e l’interlocutore, diversamente svolta, un prolungarsi di notizie, sopra il nodo del dramma posto e risolto. E se quella di Farinata era tragedia che innalzava l’antagonista, se quella di Pier della Vigna era disperata e grottesca commedia, questa di Brunetto è elegia: colloquio in cui l’intesa, d’una in altra lontananza, è sempre possibile, tanto la parola supera la distanza della condizione e del tempo: bene ascolta chi la nota…39

tanto l’opera dell’educatore si purifica e si esalta al di là della povera condizione umana in cui si dispone per se stesso. Simboli e segni di una volontà quasi cocciuta, che pur si distingue dal resto dell’intenzione umana, i temi introduttori dell’episodio: le dighe fiamminghe, contro l’assalto del flotto, e gli argini dei Padovani, quando la stagione scalda i monti che chiudono la Carinzia e gonfia i fiumi, diventano idealmente, nella fervida unità musicale del canto, un prologo di quell’opus rethoricum che Brunetto contrappone al suo male e che toccherà a Dante di opporre alla violenza delle «bestie» fiesolane; e l’incontro avviene in una condizione ideale della memoria, fuori del tempo e già eravam dalla selva rimossi tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era, perch’io in dietro rivolto mi fossi,40

nella sospesa, confidente attesa di un limpido albore lunare, nella cerchia pacata di un passeggiare a sera, nella minuzia esatta di una operazione artigiana: e ciascuna ci riguardava come suol da sera guardare uno altro sotto nuova luna; e sì ver noi aguzzavan le ciglia come ’l vecchio sartor fa ne la cruna…41

Nella istituzione politica che Dante persegue in questi canti del suo passare attraverso la violenza, sperimentando, il canto di Brunetto ha un significato decisivo: né del resto vorremmo, snaturando il significato universale della poesia, quel suo distendersi e rifrangersi sopra una realtà infinita, quel suo moltiplicarsi nella rifrazione del linguaggio e del sentimento, isolar troppo il senso di questa esperienza. Più utile osservare che si tratta pur sempre di un reagire alla solitudine: drammatizzazione e liturgia di un tema, che consegue all’immagine della violenza come superbia e come antitesi del consorzio civile; una reazione dimessa, perché si confaccia alla condizione di Brunetto, che, come “intellettuale” ai primordi dell’intellettualismo fiorentino, doveva essere soltanto mescolato alla vita dei grandi; e del resto, nel contrappunto dei temi salienti che si rincorrono,

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la retorica di Brunetto redime la retorica di Pietro, e la sua soluzione moralistica e umanistica è accettata da Dante e confermata da Virgilio. Anche il tema della solitudine apparirà riflesso, osservando che Pietro è personaggio tutto perduto nella sua debolezza; ma in Brunetto (miracolo della retorica e della tecnica pedagogica, che distacca l’uomo delle sue responsabilità) il peccato lercio è accennato appena, con circospezione, attraverso il rammarico del discepolo e la vergogna del maestro, e dimenticato affatto nella seconda parte del colloquio, che è intesa alla esaltazione di Dante e alla profezia della sua missione politica; e condannato infine, come se non si trattasse più di cosa che lo riguardi da vicino, nella terza parte del dialogo, quando si fa l’elenco dei peccatori.

Il maestro… Trovi la chiave della lettura dell’episodio di Brunetto in una sollecitazione ora affettuosa, ora dolente, ora impetuosa che trasferisce i due interlocutori fuori dalla cerchia dove si trovano, ad una vita più colma: giustificazione insieme d’una possibilità umana di riscattarsi dal vizio e della retorica come mediatrice verso le altezze. Il primo tempo indugia a contraddire il tema del moto: «ritorna indietro», «lascia andar la greggia»; e «m’asseggia»; «s’arresta»; «giace»; «verrò a panni»; «rigiungerò»: e in un capovolgimento tanto melanconico che via via si purifica fra la dignità antica del maestro e l’elezione nuova del discepolo, con quella lentezza di verso allocutorio (diventa confessione e rimpianto) con cui rompe la fretta della corsa sotto le fiamme di Sodoma e Gomorra: non ti dispiaccia se Brunetto Latino un poco teco ritorna indietro.42

Il nuovo maestro resta nell’ombra: così viva e solerte è la delicatezza del vecchio discepolo; e il tema del moto diventa parabola del cammino: «com’uom che reverente vada»; «qual fortuna o destino […] ti mena»; «questi che mostra il cammino»; «mi smarri’ in una valle»; «volsi»; «reducemi a ca’». L’autor vecchio afferra il tema e lo trasferisce: Se tu segui tua stella non puoi fallire a glorioso porto, se ben m’accorsi ne la vita bella.43

Parla di fortuna e di destino, entità immanenti, e il giro oratorio della frase gli consente di evitar la soluzione teista; parla di stella, e il viaggio verso la gloria è alluso nel suo fasto umano. Altra forza e direzione cerca, più concreta: il mondo cui Dante abbandona: la cittadinanza fiorentina, dura e superba, di contro alla dolcezza di Dante, soavità di anima e di canto; e in giro su se stesso, ritorna

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alla gloria delle origini, alla progenitura romana, la «sementa santa»: la gloria della discendenza remota e illustre è tutto il cielo Empireo del vecchio scrittor politico.

… e il discepolo Quando tocca a Dante parlare, egli ripercorre il cammino del vecchio maestro e lo porta oltre. Il primo tema è dell’affetto dolente: elegia del rimpianto, e commozione devota; l’eternità di cui sola Brunetto andava in cerca, e la insegnava paternamente ai discepoli, la meta terrena, quel cielo umanistico della gloria, non era tema che l’umanista cristiano, Dante, intendesse trascurare! Ma appunto perché lo guarda di tanto più in alto, s’accende di luce così affettuosa: quando nel mondo ad ora ad ora m’insegnavate come l’uom s’etterna.44

E ripresolo lo innalza; e alle guide terrene si sostituisce la guida celeste: e serbolo a chiosar con altro testo a donna che saprà, s’a lei arrivo.45

Mantiene il metodo commentatizio delle scuole medievali, ma cambia testo: quasi scrittura santa, la nuova. Non opposizione polemica fra quell’educazione storico-politica e la nuova educazione sacrale e teologica, ma complemento; e la Fortuna, che nel dettato di ser Brunetto era figura ipotetica accanto al Destino, ora diventa nemica dell’operoso magnanimo, sempre preparato al contrasto: però giri Fortuna la sua rota come le piace, e ’l villan la sua marra.46

La ridda dei grandi Qui cade la sentenza di Virgilio, a suggello; e poi l’elenco dei sodomiti: «cherci / e litterati grandi e di gran fama»; e l’epiteto sdegnoso «lerci». Tre nomi: Prisciano, Francesco d’Accorso e Andrea dei Mozzi: un letterato e grammatico, un giurista, un ecclesiastico; e per l’ultimo un’immagine violenta e oscena. Sopravviene un segno che gli tocca accommiatarsi: una nuvola di polvere sorge dal sabbione, lontana ancora; la pausa del colloquio è terminata, che s’era iniziata nell’oscurità rotta dalla falce di luna nuova, e il fumo s’avanza quasi a tempesta: Gente vien con la quale esser non deggio.47

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Accetta serenamente la legge; raccomanda il suo libro, arra di vita non ancor morta; scatta in corsa, vittorioso: e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde.48

«Comico vedere il segretario della Repubblica fiorentina correre al palio», commenta ironico Tommaseo;49 ma l’accento suona vittoria, e una metafora paolina soccorre la parabola umanistica, ancora una volta conciliando l’una e l’altra intelligenza. Il colloquio con Brunetto vale anche quale investitura di dignità, perché Dante possa giudicar la Firenze dei suoi tempi al cospetto dei grandi fiorentini delle generazioni passate: di cui aveva chiesto a Ciacco; i cui nomi passavano in gloria: l’ovra di voi e gli onorati nomi con affezion ritrassi e ascoltai.50

Ma l’incontro coi tre grandi non si sviluppa né a ritratto né a dramma: deliberatamente, fin dal principio del canto, s’annunzia il tema del precipizio, con quel rimbombo d’arnie che tiene sospesa una nota oscura sull’incontro; e la ridda dei grandi, nonostante le proteste di onore, e l’esortazione di Virgilio, è pure immagine della vita fiorentina, violenta e inutile, tumultuosa e vacua. A quella violenza di gesti, che accompagna in danza scomposta l’allocuzione dei nomi di Guido Guerra, di Tegghiaio Aldobrandi, di Iacopo Rusticucci, risponde il proclama di Dante: «La gente nuova e i subiti guadagni orgoglio e dismisura han generata, Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni». Così gridai con la faccia levata.51

Una pausa tormentosa e oscura, una protesta vana: la miseria della città perduta prevale, nonostante l’affezione del ricordo dei grandi e la dignità di quest’uno esule e custode; e nell’ardita bizzarra tessitura dei gesti e dei gridi, nel rotto contrappunto del canto, intendi un altro presagio del tema che s’avvicina, l’immagine della città della frode: a giudicar la quale sopravviene, dopo l’investitura della dignità intellettuale di Brunetto, l’investitura della dignità nobiliare e storica dei tre. Questo nella tessitura più apertamente discorsiva del canto; ché nell’ordito tematico, il discorso per immagini è attratto dalla presenza misteriosa di Gerione, che apparirà alla fine dell’episodio, con quella regia d’incanto e di paura su cui Dante scherza e trema: ché il signore è lui di quel mondo che s’annunzia, e i violenti hanno cercato inutilmente scampo nel malcostume di una natura contraffatta al malcostume di una città disfatta. Un precipizio, una ridda che annichilisce in una danza grottesca un ricordo glorioso, infine una scena

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misteriosa; ma prima ancora l’immagine di una solitudine, in parte richiamata da quel motivo dell’arnia, al principio del canto: il ricordo del cenobio di San Benedetto dell’Alpe, incoronato da un’immensa cerchia di paese, dal Monviso al mare, e vuoto: dove dovria per mille esser recetto,52

e un contrappunto rapido d’immagini e di mutamenti e di sbalzi di tono, sul finire del canto: la corda con cui aveva pensato di prender la lonza; e raggropparla e ravvolgerla; e la circonlocuzione che misteriosamente annunzia il salir della fiera pessima, e il gesto del sommozzatore.

Gerione L’immagine di Gerione, dalla fine del decimosesto, invade tutto il canto a ritroso; ma da quando è apparsa, annunziata dallo squillo araldico di Virgilio, che par volere d’ironia e di forza vincer la paura di Dante, e che comunque ama procedere forte e ardito contro questi mostri infernali che la sua ragione sventa e condanna, costringe a sé tutto il canto decimosettimo; e par che Dante, anche allontanandosene, ne porti con sé il ricordo maligno, se il suo incontro coi grandi usurai è un incontro con immagini bestiali, dipinte nelle sacche stemmate. Conclusione dei preludi alla topografia cittadina di Dite, questo canto è arditamente bizzarro, benché non contrastato e urtato come il precedente: quasi che l’apparizione abbia ormai dichiarato il contenuto dell’arte; quasi che il passaggio dal mondo della violenza al mondo della frode respinga la prima in una cerchia d’operazioni modeste, facilmente sventabili, quasi innocue. Il ritratto di Gerione è ritratto d’uomo, surrealisticamente, ma senza alcuno sforzo, senza la compiacenza moderna dell’immagine gratuitamente maligna che assedia e deturpa il volto dell’uomo, doppiato della natura di bestia e della natura di serpente;53 e dopo il proclama di Virgilio, sonoro, il suo silenzio è impenetrabile, con quell’inizio cauto e sommesso del tocco: La faccia sua era faccia d’uom giusto.54

L’ipocrisia dei frodolenti costringe l’uomo, agguerrito dall’esser passato attraverso le tentazioni della violenza, a farsi maggior forza; ma perciò le ultime immagini bestiali della violenza scadono a commedia grottesca, e le bestie si rivelano innocue: come bestie appunto dipinte. Forte è la nuova bestia «che ne conceda i suoi omeri forti»;55 ma solo moleste o ripugnanti le altre che ora visita in figura. Il gruppo degli usurai è introdotto dalla similitudine bestiaria del fastidio estivo: non altrimenti fan di state i cani or col ceffo, or col piè, quando son morsi o da pulci o da mosche o da tafani.56

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E la fretta della sua fantasia, attratta dalle bestie, è tanta che «non ne conobbi alcun», dice, senz’alcuna pietà de’ «certi», «ne’ quali il doloroso foco casca» (la pena è ormai ridotta a meccanismo stupefatto, a fastidio incomprensibile), ma trascorre alle tasche che pendono loro dal collo con «certo colore e certo segno»: un leone azzurro, un’oca bianca, azzurra e grossa una scrofa; e si attende il «cavalier sovrano», Gianni Buiamonte, coi tre capri. A conferma, l’annunziatore della gloria ontosa di Vitaliano del Dente, Reginaldo degli Scrovegni, dispettoso e scrupoloso, Qui distorse la bocca e di fuor trasse la lingua, come bue che ’l naso lecchi.57

Quindi il viaggio alato, nel portento della spessa tenebra che grava sulla città della frode; e due immagini, sospese nell’aria greve: Fetonte che precipita, il falcone che cala. Ma non a una bestia somiglia Gerione, quando s’è liberato dei due pellegrini, sì ad una cosa, alata e fuggente e senza nome: si dileguò come da corda cocca.58

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If XI, 16-17. If XII, 4-5. 3 If XII, 20; 22-23; la similitudine è dal II dell’Eneide: «Quales mugitus, fugit quum saucius aram / taurus et incertam excussit cervice securim». Ma l’immagine virgiliana fa forza nel suono in cui da principio prorompe, mentre la parafrasi dantesca è annodata al consueto tema della furia demoniaca che si ravvolge su se stessa, da Minosse a Lucifero, che serpentinamente s’annoda: ancora un gesto e un’osservare circoscritto. 4 If XII, 37-43. 5 If XII, 49-50. 6 If XII, 73-75. 7 If XII, 77-80. 8 If XII, 60. 9 If XII, 97. 10 If XII, 139. 11 I Tiranni, appendice al c. XII, pp. 125 ss. dell’ed. torinese dei Classici Italiani. 12 If XIII, 13. 13 Così un sonetto di Cecco Angiolieri: «Quand’i’ solev’udir ch’un fiorentino / si fosse per dolor sì disperato, / che delli stesso si fosse ’mpiccato, / sì mi parev’un miracol divino». E di mania suicida in Firenze, nonché le cronache, parla il Boccaccio nel Commento. 14 If XIII, 37-39. 15 Ma il Porena (I, pp. 125 ss., Il significato storico-politico dell’episodio di Pier della Vigna) legge in Dante un’intenzione apologetica, l’eulogio di Federico II: «L’accusa di tradimento, la severa condanna e la dolorosa fine di Pietro furono un gran colpo per la causa imperiale, e fecero esultare gli avversari. Giacché una delle due: o Pietro era reo, e tutto il suo credito, tutto l’appoggio intellettuale e morale da lui dato alla causa crollava; o era innocente, e Federigo appariva sovrano ingiusto e crudele […]. Dante, appassionato sostenitore dell’idea imperiale proprio nella forma che aveva brillato alla mente di Federigo, ammiratore di lui e di Pietro e pieno del culto della loro memoria, volle col suo episodio cancellare quella macchia». Di 2

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un’identità fra l’idea imperiale di Federigo, che s’appoggia su un fondamento teoretico agostiniano, e di Dante, che è di intonazione naturalistica ed aristotelica, è da dubitare. Di come si presenta Federigo alla fantasia di Dante altro s’è detto e qui si dice. Ma per un’analisi adeguata della teoria e della prassi di Federigo e del “suo” Piero, rimando ad A. DEMPF, Sacrum imperium, L’Anticristo, pp. 259 ss. La stampa italiana è del 1933, Milano-Messina. 16 If XIII, 58. 17 If XIII, 60. 18 If XIII, 61. 19 If XIII, 64-65. 20 If XIX, 107. 21 If XIII, 67-69. 22 If XIII, 72. 23 If XIII, 73-75. 24 If XIII, 76-77. 25 If XIII, 100-102. 26 If XIII, 89-90. 27 If XIII, 105. 28 If XIII, 110. 29 Buone ragioni adduce il Porena per l’identificazione del suicida; e una caratterizzazione anche più persuasiva: «È un uomo tra l’eloquente e il loquace, e che nel rivolgersi prima a Jacopo da S. Andrea per rimproverarlo del male che gli ha fatto, e ai due poeti poi per pregarli di raccogliere le foglie che gli sono state strappate, parla con parola colorita e commossa. Poi, con singolare prolissità, e si direbbe con una tal quale presunzione di dottrina, si abbandona alle sue chiacchiere su Firenze, senza neanche sapere che ha dinanzi un fiorentino, perché Dante non ha pronunziato una sola parola. Non è un x qualunque, in cui ciascuno possa mettere la persona che vuole; è uno stile, una mentalità, è quel tale, e io non dubito che Dante abbia fatto qui, come suole, un ritratto concreto. Perché un suicida in genere, dovrebbe parlare come lui? che rapporto fra quell’anima, quello stile, e la mania suicida? E propendo per Lotto degli Agli per le seguenti ragioni: 1° le case convengono a famiglia nobile e antica come quella degli Agli; 2° quella qualsiasi erudizione o pretesa di erudizione fiorentina non disconviene a persona di ceto colto come era un giudice; 3° il rimprovero a Jacopo da S. Andrea (v. 135) è fondato sul concetto di giustizia e sta benissimo in bocca a un giudice; 4° l’espressione “io fei giubetto” implica più propriamente l’impiccagione come punizione legale di una colpa: che è appunto il caso di Lotto. Il giudice ha condannato se stesso alla forca per colpa commessa, ha fatto delle sue case luogo di giustizia» (Commento, I, p. 125). 30 La fonte fu stabilita da P.J. TOYNBEE, D., Studies and Researches, Londra 1902, p. 40; e valga, a paragone del ciclo d’Alessandro, come Dante muove a ritroso della leggenda romanzesca, la più nota, ad una interpretazione storico-naturalistica, sia pure, dove occorre, sulla traccia di un apocrifo; la scelta resta significativa. Ulteriori precisazioni di lettura ed una metodologia più puntualmente applicata al canto sono nella «Lectura Dantis Scaligera», Firenze 1962. 31 Nella traduzione del Tommaseo, per frammenti: «Quella statua grande ed alta stava di contro a te […]. Il capo di questa statua era d’oro fine; il petto e le braccia d’argento puro, il ventre e le coscie di rame; le gambe di ferro; de’ piedi, una parte era di ferro, e una di coccio […]. Tu sei la testa d’oro; dopo te sorgerà un regno minore del tuo, d’argento […] e ’l quarto regno sarà come ferreo» (ed. cit., I, 148). II Tommaseo è per l’interpretazione storica delle età dell’uomo; ma per un’allegoria morale G. BUSNELLI, Il Virgilio dantesco e il gran Veglio di Creta, Roma 1919. 32 If XIV, 46-47. 33 If XIV, 52-59. 34 If XIV, 71-72. 35 If XIV, 76-78. 36 If XIV, 91-93. 37 Ma leggi in Momigliano (p. 103): «94-102. Inizio da grande leggenda. Si stacca d’un tratto dalla modesta terzina antecedente: e dunque la prosaicità di questa non è senza giusti-

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ficazione poetica. Ma un vago preannunzio del maestoso mito del Veglio di Creta era già nei vv. 85-90, dove le parole sono scelte, la sintassi è solenne, il primo verso ha un forte spicco, e l’ultimo è intonato come la descrizione d’un miracolo. Finita la terzina di intervallo (91-93), l’intonazione del preludio ritorna e s’innalza mirabilmente». 38 Un’obiezione potrebbe insorgere; e l’ha formulata così il Porena: «Ma una cosa è assai strana: Dante ha dimenticato che invece egli e Virgilio il rigagno lo hanno già visto, ed è quell’acqua buia assai più che persa (VII, 103) lungo la quale scendono dal cerchio degli avari al quinto cerchio, e che, giunta ai piedi della discesa, forma la palude Stigia (VII, 106)» (p. 133 n.). Ricondurremo anche quest’aporia all’ipotesi dei due tempi e al Ferretti? Certo, è una distanza: né Dante poteva rinunziare al preludio magico della sorpresa (88-89). 39 If XV, 99. 40 If XV, 13-15. 41 If XV, 17-21. 42 If XV, 31-33. 43 If XV, 55-57. 44 If XV, 84-85. 45 If XV, 89-90. 46 If XV, 95-96. 47 If XV, 117-118. 48 If XV, 123-124. 49 Ed. cit., p. 158 n. «Dante l’avrà veduta, essendo in Verona, cotesta corsa, che facevasi la prima domenica di Quaresima da uomini nudi»: la menzione cronistica trascina dunque il commentatore (e quale!) a dimenticare che l’accento poetico cade su «quegli che vince». 50 If XVI, 59-60. 51 If XVI, 73-76. 52 If XVI, 102. 53 La scuola pascoliana, cioè col Pascoli il Valli e il Pietrobono, ci avverte «qui è la frode», dove spunta la coda del serpente; e ci aiuta a leggere: ché, parlando di surrealismo, certo non rinunciamo alla priorità dell’immagine, ma senza la luce rifratta dalle illuminate allegorie (qui, come nella storia della poetica europea, Eliot sopravviene sopra Pascoli, l’imagismo sopra il simbolismo) e senza le ansiose investigazioni pascoliane, pur limitate da una ingenua fiducia nel primato del comporre, della rispondenza intellettualmente escogitata e predisposta, l’allegoria non servirebbe a noi come serviva ai lettori medievali: da illustrazione. 54 If XVII, 10. 55 If XVII, 12. 56 If XVII, 49-51. 57 If XVII, 74-75. 58 If XVII, 136.

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La città della frode

La città capovolta nell’abisso Il precipizio per dove discende volando Gerione è la cerchia di mura di una città capovolta nel baratro infernale. Già s’è detto di come operi figurando la fantasia del poeta, sollecitata dai rapporti riflessivi che si possono stabilire fra le parole e le metafore, e se non s’è fatta la storia del tema della città, era troppo evidente, una volta incontrata la menzione della città di Dite, al limite del sesto cerchio, rammentare la Gerusalemme celeste, alta al Convito dell’Agnello; né ci importava tanto la giustificazione storica di quest’immagine, quanto i modi della sua evidenza e la sintassi dei suoi incontri: per una lettura appunto di poesia. Qui il capovolgimento deliberato, che sprofonda nel baratro la città, accresce la forza e l’ambiguità della stessa evidenza: come di una cosa specchiata. Una cerchia di mura, in una di quelle città ideali che predilige l’intellettualismo del primo umanesimo, serra e allontana il colle isolato dove sorge dalla pianura del contado: e una seconda cerchia (un secondo precipizio) difende gli accessi della città proibita, la più prossima all’imperatore; il pozzo dei giganti, l’immagine rovesciata di un castello, sorvegliato intorno intorno dalle alte torri. Ed altre concordanze è facile stabilire. Mai altrove il poeta accetta una cifra sintattica così rigorosa al suo parlar per immagini; mai altrove la sua fantasia s’accresce di tanti accorgimenti; ma attraverso la sua legge trova la sua libertà. Chi procede ad una lettura intellettualistica, vede questa sintassi come un disegno preordinato; ma non giova discutere del prima e del poi: chi legge obbedendo all’evidenza delle immagini, vede alla verità di queste conseguire la loro giustificazione dottrinale e una parola attrarre l’altra, in un discorso continuo fittamente intessuto di richiami. Di preludio in preludio, non siamo giunti al centro della verità infernale: questa, di Dite, è non-verità, piuttosto, e ci arresta con la torpida inerzia del suo esser gigante; ma la città come preludio della vita di Dio (era una giustificazione cara agli orgogli comunali, sostenuti da tanto intellettualismo politico, consapevoli d’essere eredi di una civiltà cittadina: Atene e Roma, esaltate da Gerusalemme) aduna i cittadini intenti alle loro operazioni: frodolente, s’intende; ma è vita fitta e fervida, nell’agguato di ciascuno contro tutti. È come un tremolio di un lago infero, dentro una caverna, questa suggestione dei preludi danteschi: e non aggiungiamo un commento soltanto pittoresco all’indagine delle concordanze condotta dal Pietrobono,1 che tante volte s’accorge che il poeta parla per immagini, e tante volte suppone che di tali immagini il poeta vada in cerca studian67

do cavillosamente ogni particolare accessorio (ma dopo l’intelligenza storica di Dante, è tempo di procedere all’intelligenza filologica nel suo pieno senso: di parola aggiunta a parola; e Dante parla di ciò che vede; e la parola è guida ancora intellettuale alla pienezza del suo vedere). Nel cerchio dei Violenti, via via s’è discesi, per suggestione del Minotauro, dall’uomo alla bestia; e allontanatosi un tratto dall’uomo-bestia-serpente, Gerione, Dante ha ritrovato, a custodia estrema della città, il bestiario degli usurai:2 beffa, più che allegoria, o forse commedia araldica di quel trasformarsi delle classi feudali in aristocrazia cittadinesca, o di quell’annobilirsi con usi e insegne cavalleresche, della borghesia facoltosa. Anche il guardiano, Gerione, se comincia come uomo, termina in serpente: Nel vano tutta sua coda guizzava, torcendo in su la venenosa forca, ch’a guisa di scorpion la punta armava;3

e la sua evidenza di uomo-bestia, la suggestione della sua immagine è tale che non si riesce a dimenticare quello che appare, per rammentare quel che significa: ha ragione Momigliano quando, accostando l’orecchio alla musica del verso, e forse rammentando l’immagine marinara che aveva conchiuso il canto decimosesto, sì come torna colui che va giuso talora a solver l’ancora ch’aggrappa o scoglio o altro che nel mare è chiuso4

(ed è immagine stupendamente pregnante di quella navigazione aerea lenta e cauta), parla di «figura ambigua», tra l’uccello e il pesce, intorno a cui «stagna l’atmosfera dell’insidia»:5 conferma, alla lettura, che l’immagine del mondo si specchia capovolta in quella città, come in un liscio lago, e che i richiami delle immagini si affondano gli uni sopra gli altri. Dalle suggestioni maligne che hanno guidato il concepimento torbido e morbido della sua fantasia, il poeta si distacca con una descrizione topografica, esattissima: Luogo è in inferno, detto Malebolge…6

Concordanze delle immagini di pena Né vorremmo arrestarci sui richiami allusivi del color della pietra, ferrigno: anche tali voci manda il poeta da cerchio a cerchio, e dal regno dell’invidia infernale alla seconda cornice del Purgatorio: prima di lasciare che quei richiami operino suggestivamente, egli vuol disporsi fermamente alla contemplazione, senza paura e senza pietà, fatto uomo attraverso le prove sin qui trascorse, innalzato da quella storia cittadina, che progredendo da Ciacco a Farinata a Brunetto 68

aveva osservata e rivissuta, fattosene infine giudice al cospetto dei grandi: e il riflesso di questa fermezza sdegnosa e penosa è la chiarezza geometrica di quella topografia di Malebolge. Riassunto dell’immagine della città; e riassunto del viaggio sin qui percorso, perché l’inferno dell’incontinenza e l’inferno della violenza esercitano qui lo stesso fascino pauroso e sottile, per cui una belva, quasi richiamandola, s’avvicendava con l’altra: i lussuriosi travolti dalla bufera infernale si propagano nei seduttori sferzati dai diavoli intorno intorno alla bolgia; e i golosi attraggono, sprofondandosi, i lusingatori, dal fango della pioggia eterna allo sterco «che dagli uman privati parea mosso»; e gli avari, chercuti, si proiettano nei simoniaci, gli uni avvoltolando pietre, gli altri nella pietra sommersi; e diavoli custodiscono i barattieri come diavoli custodivano le mura della città di Dite. Forse, via via che si discende e la musica del dramma si fa più ardita e libera, le immagini cercano rispondenze più remote, sicure di poter sempre varcare il divario: ipocriti con eresiarchi s’appaiano, ladri con ladroni; e sotto il segno della Medusa consiglieri frodolenti, seminatori di scandali e falsari richiamano le Furie, i violenti contro natura e gli usurai. L’esegesi moderna, pur con le sue simpatie dichiarate all’interpretazione politica, in chi cercava pretesti per sottrarsi all’interpretazione corrente, contemperata con misura di storicismo e di allegorismo, ha avuto il merito di fissare l’attenzione sulle immagini e sugli emblemi: senza emblemi le allegorie non si comprendono. Noi dalle allegorie ritorniamo alle immagini; e per poter leggere, procuriamo di saper guardare. Immagini sempre più violente soccorrono la fantasia del poeta; e lo stile iconografico, che si muove nelle prime fasi del mondo di Malebolge con qualche sdegnosa circospezione, si fa via via più mosso e audace, quando quel mondo in cui passa l’assedia: soprattutto quando l’insidia dei diavoli lo ha costretto a scender in mezzo agli ipocriti, e ne porta l’anima segnata. Una ridda di intenzioni maligne assedia allora quei cittadini infernali e li disumana: fuor dal limite, vanno ad una sorte perduta, sedotti e seduttori; finché, all’orlo del tradimento d’ogni dignità umana, la malattia li deforma: segno, quella carne corrotta, che ogni primitiva bellezza e bontà e natural grazia è perduta.

Le bolge della cupidigia frodolenta L’indugio nel rendiconto topografico non rivela tutto, se non tieni conto del tono solenne con cui Dante apre il canto decimottavo: «Luogo è in inferno detto Malebolge»; che sarà modo frequente, in questi canti della città infernale: bandi clamorosi («or convien che per voi suoni la tromba»), pause e squarci («venimmo; e tenevamo il colmo, / quando restammo»), squilli, segni e gazzarra («Io vidi già cavalier mover campo»), il gesto osceno del ladro, l’idillio dell’anno giovinetto, l’urlo sulla patria che muore;7 e via via che procede il poeta fa quasi consapevole prova di una immensa varietà di preludi, varia i modi dell’introduzione, ora di tanto l’abbassa di quanto l’aveva innalzata: magistero di stile, cui solo l’enorme ricchezza della fantasia impedisce di diventare fine a se stesso; ma 69

prima che acquisti quella scioltezza, e la libertà mirabile, di cui lui stesso pare stupire, quando introduce la metamorfosi dei ladri («taccia Lucano omai […] taccia Ovidio»),8 la solennità del preludio offre la misura di una degradazione impensata, «nova», cui assiste; e il primo canto di Malebolge è tutto impostato su un repentino trapasso di contrasti: come se alle prese con la materia vile il poeta reagisse ora dall’alto or dal basso. Il primo impulso (rammenta ancora una volta che un’immagine di città l’assedia per tutte le dieci bolge) è di far cronaca cittadina; e par che scelga Bologna, sia perché la sua dignità di città dotta più si degrada in questi delitti, dove la ragione s’adopera alla cupidigia, sia perché la cronaca fiorentina è per lui dramma appassionato e dolente, e questa sa di commedia becera, sia perché, con una attenzione strutturale di cui convien tener conto, a Firenze è riserbata la fossa dei ladri, ed egli par che vada circuendo, assediandola con la menzione di città e terre contermini: la serra dappresso con il ricordo degli ipocriti frati godenti che da Bologna giunsero per governarla; poi piomba nel mezzo del suo intrico. Né manca per cominciare, e misurar l’altezza della caduta, la menzione di Roma: a maggior degradazione, la cronaca di Roma l’anno del giubileo. E qui interrompi di pensare agli accorgimenti del poeta per suggerirti questo o quello scorcio, in ragione propria: questo è un dramma ch’egli compone, e la prospettiva migliore per giudicarne non è tanto dalla interiorità del poeta quanto dall’oggettivarsi della sua fantasia: scene, parole e persone, e il tripudio violento dell’universale intorno a quel punto denso.

Esecuzioni Cronaca delle indegnità dell’uomo: se l’anno del giubileo a Roma tutta la città, anzi genti di tutto il mondo potevano riassumersi nell’armonia pietosa e solenne di una celebrazione liturgica universale, se una disposizione di polizia cittadina, un regolamento del traffico, riesce, nel suo ricordo commosso, a trasformarsi di «cosa vista» in sacra rappresentazione, e nel quadro dominano emblematicamente la Basilica e il Monte, quasi i due poli del mondo, le presenze sante della Croce e dell’Aquila, qui d’altro si traffica: non d’anime si lucra, ma di carne. Delle forme di pena la fustigazione vuol essere la più ignominiosa, la più offensiva; e la fantasia indugia nella cronaca, dall’affaccendarsi dei diavoli, simili a manigoldi nella gran giornata delle esecuzioni capitali, allo scatto d’arresto, quando si riconosce un volto, dalle pungenti “salse” (ché così era chiamato a Bologna il luogo dove si gettavano i cadaveri dei giustiziati, insieme con gli altri rifiuti) alle cerchie eterne (dove “cerchia” secondo un’osservazione di Santorre Debenedetti9 significa il lungo trasporto del condannato, prima d’esser ucciso, da un luogo all’altro della città, o più frequentato, o memore del suo delitto). I lugubri e grotteschi ammennicoli dell’opera d’alta giustizia si richiaman tutti intorno a un grande della terra, quel Venedico Caccianemico che Dante aveva conosciuto nei suoi soggiorni bolognesi prima dell’esilio, uomo di fastoso orgoglio. Ancora un accento di cronaca ha la parlata di Caccianemico, dopo che «celar si credette / bassando ’l viso»:10 il rovello d’esser costretto a parlare, e insieme la proter70

via del confessar la laida colpa; la compiacenza della «sconcia novella», ridotta qui alla sua forma nuda, non agghindata né dalle circonlocuzioni della cronaca mondana né dalle risate grasse della ciarla volgare; forse un’eco di rimpianto, se si potesse leggere quel nome di donna ingannata e venduta, separando «bella» da «Ghisola»; ma a concluder tutto, la bassa voglia d’infamare tutti i suoi concittadini, con lui, mentre rifà beffardo l’idiotismo della loro parlata: la dolcezza del sangue bolognese accondiscende, con quel «sipa». Così tutta la città è travolta nell’ignominia; ed era città amata da Dante giovane.11 Lo schema intellettualista dell’esegesi, che pur tanto ci giova in questa lettura per immagini, induce ad osservare la seconda bolgia degli adulteri nei suoi rapporti con il cerchio dei golosi; ma il rapporto è più di tema e di tono e di quadro, che di schema allegorico e strutturale. Certo, il fango e la grandine e l’acqua tinta e quel capovolgere in tormenti le delizie della gola, hanno un rapporto con lo sterco della seconda bolgia; ma prevale il contrappunto tematico, e il linguaggio della fantasia, sulla cifra dell’intelligenza. E poi, il canto ha una sua struttura unitaria; e per comprendere Taide bisogna ripensare a Giasone: Guarda quel grande che vene, e per dolor non par lagrime spanda. Quanto aspetto real ancor ritene!… Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta che prima avea tutte l’altre ingannate. Lasciolla quivi, gravida, soletta…12

Personaggio da romanzo, Giasone: da romanzo cavalleresco del ciclo antico e da romanzo psicologico moderno; e se il cuore del poeta indugia sulla storia dolente della derelitta Isifile, anche preme la giustizia della stessa maga: «ed anche di Medea si fa vendetta». Alla seduzione della vanagloria mitologica reagisce: prima col verso dispettoso: e questo basti de la prima valle sapere, e di color ch’in sé assanna,13

seguito da quelle rime forti e ingroppate: incrocicchia, spalle, nicchia, scuffa, picchia, muffa, appasta, zuffa, e così via; poi dall’immagine di Taide. Ché la frode doppiata sulla concupiscenza non gli sembra tema esaurito, benché Virgilio lo abbia tratto ad un altro argine; e a cercare una prosecuzione al tema di Caccianemico («Via, / ruffian! qui non son femmine da conio»,14 gli aveva imprecato addosso il diavolo, scudisciandolo: ecco, la femmina da conio sorge e s’atteggia), e nello stesso tempo, a riportare ad una collera di moralità offesa la figura di Giasone, gli occorre Taide, appunto: un personaggio della commedia antica, innalzato, oltreché dal rispetto con cui tutta la tradizione di scuola perseguì i testi terenziani, da una citazione di Cicerone:15 con libertà di variazioni, quasi da commedia in commedia, Dante riatteggia il testo ed isola la figura di 71

quella cortigianella vogliosa e ingorda. Se Alessio Interminelli s’appaia con Venedico Caccianemico, Ed elli allor battendosi la zucca: «Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe ond’io non ebbi mai la lingua stucca»,16

Taide rappresenta la deformazione grottesca di quel formalismo di gesti dignitosi che accompagnava, secondo una convenzione retorica, confermata dalla tradizionale schifiltosità bizantina, le figure antiche; e se Giasone riteneva «aspetto reale», la cortigiana ripete in perpetuo il mimo della sua seduzione, grottescamente alterato: è un commiato: E quinci sien le nostre viste sazie.17

Simoniaci Come il canto diciottesimo insiste sul tema della degradazione con una fantasia tutta scoperta, che nella sua estremità diventa disperazione, così il canto diciannovesimo, dei simoniaci, insiste sul tema del capovolgimento: che sù l’avere, e qui me misi in borsa…18

Gioverà, perché la chiave della lettura sia esatta, insistere sulla correlazione che il poeta sente fra la dignità ecclesiastica e l’indegnità, l’abbassamento provocato dalla simonia, dalla cupidigia dell’oro e dell’argento, dall’adulterio: non si tratta già di polemica intellettuale mossa da una valutazione astratta: si tratta di una polemica interna, d’uno che nell’ambito della chiesa militante soffre di quella sofferenza, e si degrada in quella degradazione. E il parallelismo con i canti precedenti aiuta (non per nulla seduttori e adulatori sono in un canto solo) il senso dello scadimento di una altissima dignità: le cose di Dio, che di bontade deon essere spose, e voi rapaci per oro e per argento avolterate.19

Una ripresa del tema della dignità è in quell’accenno ad una accusa di profanazione che poté essergli rivolta: d’avere infranto il marmo della fonte battesimale, in San Giovanni; né escluderemmo, a comprender meglio, un residuo di polemica paterina, anzi un ricordo, che tanto s’era accesa sulla validità dei sacramenti amministrati dai preti concubinari. Ma anche qui leggi tenendo l’attenzione volta non tanto alle prosecuzioni intellettuali e alle possibili deduzioni della polemica, ma piuttosto alla concreta azione di Dante uomo: il quale intervenne allora per salvare un bambino «che dentro v’annegava», forse scivolato 72

dalle mani del celebrante, forse precipitatovi nel giuoco. E così interviene ora a dare il suo contributo alla salvezza degli uomini: con una reverenza, ma con una decisione di cui è traccia, nella premessa apologetica di questi canti di politica ecclesiastica, la lettera ai cardinali italiani. L’intervento è il moto più spiccato dell’azione del canto; ma è precorso da lenti preludi, cauti e meditabondi; cautela e lentezza che talvolta diventa motivo di alta poesia: come quando osserva, con attenzione così intenta da riuscir disumana, la tortura dei peccatori, lo spasimo di quella fiamma che perpetuamente lambisce le piante dei piedi: Qual suole il fiammeggiar delle cose unte muoversi pur su per la strema buccia, tal era lì dai calcagni alle punte.20

Certo egli si ricorda – visivamente si ricorda: è un’immagine che si accende nella sua mente; e riman sottintesa, a illuminare le cose dette – certo si ricorda del tema iconografico della discesa dello Spirito sulla testa degli Apostoli: le fiammelle che lambiscono le fronti assorte; ma nel ricordo non indugia: è piuttosto intento alla vendetta. E la vendetta pregusta anche nell’altro indugio, in quel colloquio coperto fra lui e Virgilio, dove il discepolo attende l’invito e l’investitura del Maestro, per recarsi a quel rito grottesco che capovolge il bacio dei piedi: Ed io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace: tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto dal tuo volere, e sai quel che si tace».21

Quei piedi che non per nulla, quasi a rammentar le calzature rosse del cerimoniale, son così descritti, più avanti: Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi e ch’io son stato così sottosopra, ch’el non starà piantato coi piè rossi.22

Altri accostamenti soccorrono la memoria: la «pietra» livida di fori è bene il contrapposto di Pietro, su cui Cristo ha fondato la sua Chiesa; e la sepoltura capovolta della processione papale, piota sotto piota («oh cara piota mia che sì t’insusi», dirà a Cacciaguida), sprofonda un capovolto albero genealogico: appunto il contrario di quelli che i pittori degli ordini mendicanti dipingevano, dal fondatore propagandosi in alto le vite sante; ma che sia ormai linguaggio acquisito, lo dimostra Dante stesso, facendo dire a Niccolò III: figliuol dell’Orsa, cupido sì per avanzar li orsatti…23

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Così intorno al tema fondamentale dell’intervento si annodano le azioni repentine e tumultuose del canto, dall’inganno del papa che crede sia giunto il successore («di parecchi anni mi mentì lo scritto»: così era torta a falsità la scrittura, per coonestare le attese e le presunzioni dei simoniaci) all’ira diabolica per cui il dannato chiama in causa altri dannati, contento dell’ignominia che spande. Un solo tema rimase sospeso: sappi ch’i’ fui vestito nel gran manto,24

finché il canto decimonono del Purgatorio lo riprenda: pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,25

e un solo gesto: il gesto della confessione sopra l’assassino propagginato: Io stava com’il frate che confessa lo perfido assessin, che poi ch’è fitto, richiama lui, per che la morte cessa,26

anch’esso ripreso nel canto di papa Adriano V: Io m’era inginocchiato e volea dire.27

Così intorno al gesto fondamentale, il capovolgimento, si annodano gli altri. Variazione intorno a un modulo che raramente appare altrettanto ricco come in questo densissimo canto: denso d’arte e di violenza compositiva, se meno ricco di pathos umano e di ethos; un canto politico tutto quanto tradotto in commedia senza soste riflessive, sino all’invettiva che trabocca alla fine, annunziata e astratta dal prologo. Ancora un attimo di cautela, prima che l’ira prorompa: I’ non so s’i’ mi fui qui troppo folle…28

e una costretta e perfida lentezza prima di disfrenarla, negli accenti stretti e contorti con cui l’accusa è formulata: «Deh, or mi dì: quanto tesoro volle / Nostro Segnore in prima da San Pietro / ch’ei ponesse le chiavi in sua balia?».29 E poi lo scroscio degli argomenti trattenuto ironicamente dalla «reverenza delle somme chiavi»: l’immagine apocalittica della chiesa corrotta; l’idolatria; la donazione di Costantino: il formulario, insomma, della polemica anticuriale. La commedia grottesca termina, convenientemente, con una scena riassuntiva delle immagini ironiche: E mentr’io li cantava cotai note, o ira o coscienza che ’l mordesse, forte springava con ambo le piote.30

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Dunque il diacono, che assiste l’officiante, intona le invettive; e l’officiante accompagna il canto con i gesti violenti e vani dello springar dei piedi: ancora un capovolgimento: forse il più sciolto e beffardo, se gli altri eran legati a una preoccupazione satirica fondata su corrispondenza attentamente escogitata e osservata; e il più irrispettoso. A dargli giustificazione, ma esterna, interviene Virgilio: con un gesto maternamente amoroso che attende d’esser ripreso in occasione simile, quando gli toccherà discendere nella bolgia degli ipocriti; e la musica del verso d’un subito si raffrena, il moto rallenta, quasi un lungo respiro di sollievo si fa udire: Però con ambo le braccia mi prese; e poi che tutto su mi s’ebbe al petto, rimontò per la via… Quivi soavemente spuose il carco, soave…31

E s’apre altro abisso di pena.

1 V., in generale, L. PIETROBONO, Dal cerchio al centro. La struttura morale della DC, Torino 1923, e, in particolare, nel Commento (III ed., Torino 1936) al c. VIII dell’Inferno il rovesciamento di Firenze nella Città dei Morti, forse troppo puntualizzato nell’episodio storico dell’assedio di Enrico VII. 2 Il prologo alla Città della frode, o il più vicino, è l’apologo dei Cani d’estate, assediati dagli insetti molesti cui segue la parata carnevalesca delle bestie araldiche, il Leone, l’Oca, la Scrofa, i Tre Becchi; ultima la similitudine del Bue, che umilia il parlare dell’usuraio padovano, Reginaldo degli Scrovegni, pur nella sua beffarda presunzione antifiorentina. 3 If XVII, 25-27. 4 If XVI, 133-135. 5 Commento, cit., p. 120 n. È appunto il tema della coda (e rammenta l’accentuazione dell’allegoria del serpente fra i pascoliani) che consente alla sua lettura un singolarissimo processo di avvicinamento meditato e di puntualità finale: «In tutta questa descrizione dell’aspetto e dell’atteggiamento di Gerione, una parte ondeggia con insistenza nella fantasia di Dante: la coda, finché si disegna con la precisione di un’acquaforte e rimane sulla pagina come la sintesi e il suggello di quell’infida figura». 6 If XVIII, 1. 7 Sono i bandi e preludi dei canti XVIII, già citato, XIX, XXI, XXII, XXIV, XXV, XXVI. 8 If XXV, 94-102. 9 È il ricordo di una lezione pavese, prima che informazione erudita: e par bene di lasciarlo tale, per meglio confessare un sentimento di gratitudine. 10 If XVIII, 46-47. 11 Ma, osserva lo Zingarelli, «costante amica e satellite di Firenze, avendo sempre finito ad accomodarsi con la fazione dominante in essa. Non saranno soltanto queste le città avvolte nel vituperio» (p. 962). 12 If XVIII, 83-94. 13 If XVIII, 98-99. 14 If XVIII, 65-66.

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15 Nell’Eunuchus, letto ma non riscontrato, il testo di Terenzio; e nel De Amicitia il testo di Cicerone. Ma a ristabilire un equilibrio di lettura e di memorie, vedi i testi biblici e patristici citati dal Tommaseo (p. 193); che poi autobiograficamente divaga fra Giangiacopo e il Menzini «satirico del Ponte alle Grazie» che «osa affermare che Dante ebbe la cura sol del concetto e sprezzò l’esterno ornamento». 16 If XVIII, 124-126. 17 If XVIII, 136. 18 If XIX, 72. 19 If XIX, 2-4. 20 If XIX, 28-30. 21 If XIX, 37-39. 22 If XIX, 79-81. 23 If XIX, 70-71. 24 If XIX, 69. 25 Pg XIX, 104. 26 If XIX, 49-51. 27 Pg XIX, 127. 28 If XIX, 88. 29 If XIX, 90-92. 30 If XIX, 118-120. 31 If XIX, 124-131.

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L’Inferno dell’irascibile

Psicologismo del canto degli indovini Di nova pena mi conven far versi…1

L’attacco del canto si riallaccia al finale del precedente mutando dimessamente tono: quasi stanchezza dopo quell’ira del viaggio sui valichi delle voragini; e il novero dei capitoli, prima che la fantasia si riaccenda. Il testo ha dunque tono d’immediatezza: psicologica, dico, non fantastica; anzi, la fantasia se ne allontana, e quella invitta forza del vedere che, quando è esercitata, richiama Dante a una nuova forza di via e di vita; e quasi un dischiudere l’officina dell’arte: o certo un documento autobiografico, se la sensibilità e il patetismo acceso ci svelano qualche altra zona segreta dell’io. Ai lettori in traccia delle certezze dell’autobiografia esterna, sollecitati da tanti altri motivi del canto, il rapporto fra la pena e chi ne narra pareva, a questo punto, obbligatorio (si eserciteranno persino nella pena che segue, a proposito dei barattieri e dell’accusa di baratteria che sbarrò a Dante le porte del ritorno in patria: tanto più qui, chi ripensa a Virgilio mago2 e agli aneddoti veronesi o milanesi sul viaggio infero); ma il rapporto possibile e probabile degli indovini con gli accidiosi3 aiuta a scoprire quel sentimento di ansia e di presagio che è una delle tante evasioni dal tedio monacale, dall’acedia, dallo sgretolarsi malinconico d’ogni concretezza e istanza di vita. Qui l’arte di Dante soccorre e vince, inventando verace la tentazione della fantasticaggine: l’analisi della colpa degli indovini nei suoi rapporti con la filosofia morale è trascurata, né s’indugia a riflettere quanto di frode vi sia, per aver fatto credere a sé e agli altri possibile vincere il valico del tempo e vedere il futuro, quanto vi sia di sacrilego nell’usurpare la preveggenza divina: Virgilio stesso qui non discute, rimprovera, corregge di forza: ancor se’ tu degli altri sciocchi?4

s’asside troppo vittorioso sopra un tautologismo: chi è più scellerato che colui che al giudizio divin passion comporta?5

scuote e sospinge il discepolo, e così pur lo sottrae alla malia di quella tentazione stanca, all’insidia di quell’evasione vanitosa e neghittosa. Ecco che tutte 77

le considerazioni possibili di rapporto, l’esame dei problemi strutturali, della sistemazione razionale, delle formule intellettuali che soccorrono il discorso, si concludono inducendo a leggere il canto isolato in sé e come sospeso, in una nuova disponibilità fantastica e affettuosa che sa anche di confessione, nell’incanto (poetico incanto, questo) fra quello stanco preludio e lo stupendo epilogo del viaggio in quella magica scena del tramonto della luna calante, con l’immagine di Caino che trascorre nel suo vuoto cielo con il fascio di spine. A chi s’affida al detto, importa il pianto, e assai meno il perché del pianto; e il canto se ne intride, fin dalle prime battute: lo scoperto fondo, che si bagnava d’angoscioso pianto… venir, tacendo e lacrimando, al passo che fanno le letane… Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto di tua lezione, or pensa per te stesso com’io potea tener lo viso asciutto, quando la nostra immagine di presso vidi sì torta, ch’il pianto de li occhi le natiche bagnava per lo fesso.6

Il canone cristiano e umanistico della dignità della persona umana, il rispetto della figura dell’uomo immagine di Dio, qui è contraddetto e deriso; ma il poeta non insorge con ira: sì, s’accora. Dell’invenzione fantastica suggeritagli da una puntigliosa e in sé beffarda applicazione della legge del contrappasso (gl’indovini hanno voluto guardare innanzi: bene, ora guardino indietro, e camminino a ritroso, in eterno) coglie il particolare più grottesco, le lacrime che bagnan le natiche, e se ne lascia vincere: piange lui pure, quasi sopraffatto dalla sua stessa invenzione, che irrideva il segno più nobile della pietà umana, le lacrime sul volto divino; piange con un abbandono desolato, affranto: Certo io piangea, poggiato a un de’ rocchi del duro scoglio.7

L’intervento di Virgilio, s’è detto, è più categorico che persuasivo; ma qui gli tocca d’essere medico oltre che maestro: lo soccorre parlando senza soste, prima duro, poi animoso, quasi di forza lo solleva: Drizza la testa, drizza, e vedi,8

lo pone a paragone con gli eroi: Anfiarao, Tiresia, Aronta, ritratti in gesti impetuosi: fulminato sul carro Anfiarao, uno dei Sette a Tebe, e precipitato sino all’abisso d’inferno; e l’ambiguità magica di Tiresia, che anticipa l’immagine della vergine cruda, di sua figlia Manto; e la contemplazione di Aronta. L’immagine loro è squallida, nel loro presentarsi: uno «ha fatto petto delle spalle»; il terzo 78

s’atterga al ventre del secondo; Manto copre le mammelle e il pube con le trecce; ma intorno a loro s’agita una musica eroica: par che cerchi la via, e già squilla il tema dello spazio nel candore dei marmi, s’affaccia il geomante al cielo e al mare da una candida caverna sospesa: che ne’ monti di Luni, dove ronca lo Carrarese che di sotto alberga, ebbe tra’ bianchi marmi la spelonca per sua dimora; onde a guardar le stelle e ’l mar non li era la veduta tronca.9

Spazio Il tema delle origini di Mantova è finalmente maturo: se ne rivelerà alla fine l’appiglio intellettualistico nella polemica di Virgilio contro le pratiche magiche: ché Mantova ebbe bensì nome da Manto, ma la fondarono le genti intorno, perché il luogo era forte e non trassero sortilegi per il nome; e per loro crebbe la città sopra «l’ossa morte» della vergine cruda, che senza progenie stette coi suoi servi nella terra in mezzo al pantano deserta. Ma è appiglio di non gran conto, che può esser rilevato quando le parole del poeta hanno operato il natural prodigio di distrarre l’anima del discepolo verso un infinito spazio di terre e di tempo: evasione verso il passato e lo spazio, per guarir la tentazione del futuro. Il contrappunto delle immagini rilega la visione del Garda alla visione del mar di Luni: una chiarità pacata, la cornice immensa dei monti, il romorio di mille acque correnti. La fantasia del poeta è in festa, e le menzioni dei toponimi l’aiutano a divagare anche più, quasi trascorrendo una carta fra l’alpe sopra il castello di Tirolo, i monti di Valcamonica, l’immaginoso Apennino, che giuoca fin d’echi, fra le Alpi Pennine e la dorsale della Penisola, e località più puntualizzate, Garda, e il «luogo nel mezzo là», dove convergono i confini delle diocesi di Brescia, di Trento e di Verona (l’immagine di un vescovo benedicente l’adorna, come in una corografia illustrata), il punto dove più discende la riva: Peschiera: e il bello e forte arnese s’innalza, a guardia del valico: guerre di veronesi contro bresciani e bergamaschi collegati; e l’acqua che riprende il cammino verso il Po e il mare; ma ha sua sosta nei laghi di Mantova. Il racconto discende e si placa, andando; e la menzione cronistica, la mattìa di Alberto da Casalodi, che dette retta a Pinamonte de’ Bonaccolsi e cacciò i nobili, spopolando la città, e si privò d’ogni soccorso, ha un tono corrivo. Dante è, ormai, quietato; e può ritornare al suo consueto costume, alla curiosità appassionata per l’umano, per la conoscenza dei singoli: Ma dimmi, de la gente che procede, se tu ne vedi alcun degno di nota; ché solo a ciò la mia mente rifiede.10

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Il resto è carbone spento. Il colloquio si fa poco impegnativo: quell’Euripilo può persino parere una citazione frettolosa, ché l’Eneide, che Dante «sa tutta quanta», lo nomina appena, e non come augure, né in Aulide. Ancora squarci di cronaca, con Michele Scotto e il calzolaio Asdente: solo un incupirsi di tinte nel gruppo delle streghe: fecer malie con erbe e con imago.11

Non più conoscenza del futuro, ma incanti: beveraggi magici e malie coi «doppi». Poi il quadro dell’alba.

Situazione di commedia Giungono sopra la bolgia dei Barattieri, immersi nella pece, vigilati dai diavoli grotteschi. Chi insiste in una lettura biografica, qui ripete l’accusa di baratteria lanciata dai Neri al bianco esule; ed altri appigli si cercano. Ma lo smarrimento di Dante, in questo episodio, e il suo prestarsi indifeso alle furie dei diavoli politici è inerente alla situazione della commedia, intrinseco alla favola: se pur non pensi che il suo dominio di sé e della sua sorte, ch’era forte e superbo nel cerchio dei violenti (ma già Gerione gli aveva fatto troppa paura) ha ricevuto una grave scossa nell’episodio degli indovini. Altro rapporto è possibile stabilire con i diavoli dispettosi piovuti di cielo a guardia della città di Dite; e certo a guardia anche di questa città nella città stanno i diavoli; ma più legati al giuoco degli interessi umani, stretti nel nodo della commedia. Il nuovo quartiere della città infernale visitato da Dante ha suoi costumi ed abitudini; e Dante vuol farne episodio per sé solo; e se allude, di grado in grado, a quel nucleo centrale che sarà la bolgia dei ladri, prima di evaderne negli ultimi tre cerchi, se a penetrar nella città proibita della frode deve superare il divieto coperto dei politici che trafficano della cosa pubblica, e poco dopo il divieto degli ipocriti (come poco prima il divieto dei trafficanti delle cose sacre), la sua fantasia ha qui tanta forza da ribattere sull’immagine isolata, poco o meno curandosi delle corrispondenze: difeso intorno e intricato di opere fitte come l’Arsenale dei Veneziani, che introduce l’immagine della bolgia della pece bollente e sospende l’episodio alla svolta. Virgilio, che partecipa intensamente a questa vita varia e avventurosa di Malebolge, e che continuamente muta tono e tema svelandosi personaggio necessario, guida e savio per il soccorso, ma qui intrinseco di Dante da parer quasi una sua immagine riflessa, lo distoglie dal considerare il luogo, per mirare una scena saliente: Mentr’io la giù fisamente mirava, lo duca mio, dicendo: «Guarda, guarda!», mi trasse a sé del loco dov’io stava.12

Un grido d’allarme; e potrebbe esser l’attacco risoluto dell’episodio della contesa coi diavoli: senonché a Dante importa fissare il tono dello stil comico 80

che gli conviene, e lo cerca nella rappresentazione ironica di Lucca, e nella beffarda immagine delle devozioni lucchesi: gli anziani di Santa Zita, Bonturo, il no che diventa sì, il Santo Volto (e il grottesco raffronto fra le preghiere prostrate e il dannato che galleggia convolto), il ricordo fuggitivo del Serchio: quasi per legar meglio i diavoli ai dannati che guardano, e l’immaginazione della città terrena alla fantasia di questa città infernale. Virgilio a parlamento con i Malebranche è appunto la replica minore e caricaturale dell’episodio del canto VIII: anche per disfarsi dell’impegno solenne e drammatico di quell’assedio, di quella prima sconfitta, di quella vittoria finale, e per distogliere il tema d’alta politica di quell’atto (l’intervento provvidenziale di un messo celeste sulla terra). Ma la fantasia è qui tutta presa dal suo gioco, divaga ratta e si sofferma titubante, compone il gruppo e ritrae la persona: escono i cani addosso al poverello, s’alza il gesto e la voce di Virgilio contro l’orda, Malacoda, eletto per acclamazione, s’adatta sdegnosamente al convegno sicuro che deve fallire, poi gli cade, sgomento, l’uncino ai piedi, replica della scena di gruppo quando appare la seconda vittima presunta, questa volta confortata da un ricordo storico, la resa di Caprona (prima era l’orda dei cani), il giuoco dei raffi e dei cenni, l’intervento autorevole di Malacoda e il suo eloquente discorso, mentre tesse la nuova frode, di far scortare dai diavoli i due pellegrini, perché sian fatti fuori per strada, in un prevedibilissimo incidente. Il ricordo di Caprona, benché così ironicamente doppiato sull’orda dei cani, ha sommosso una fantasia militaresca, un’epopea tradotta in termini grotteschi. Qui tutti accettano la loro parte in commedia: l’appello della decuria, l’ordine di servizio del diavolo traditore: costor sien salvi insino all’altro scheggio che tutto intero va sovra le tane,13

i lazzi dei diavoli: ch’e’ digrignan li denti e con le ciglia ne minaccian duoli,14

e la paura di Dante: Deh, sanza scorta andiamci soli,15

e la bugia politica di Virgilio, cui nessuno crede: Non vo’ che tu paventi: lasciali digrignar pur a lor senno, ch’ei fanno ciò per li lessi dolenti.16

Infine il segnale di Barbariccia.

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Struttura Il secondo atto della commedia s’annoda e si scioglie nell’intrigo di Ciampolo. Singolarissimo procedimento questo, che capovolge ogni metodo di composizione narrativa consueto sin qui in Dante e negli altri narratori: ché la commedia incomincia con una concitazione clamorosamente sonora; dove dovrebbe, nell’intenzione dei diavoli, culminar con la scena del tradimento e lo strazio del pellegrino, s’arresta nell’intrigo del barattiere; e finisce con una fuga, l’involarsi dei due nel profondo, nell’inattingibile bolgia degli Ipocriti, luogo con diritto d’asilo, vietato anche ai diavoli. Se ne avvantaggerà la tecnica dei novellisti, a cominciar da Boccaccio (tal procedimento è ignoto all’autor del Novellino); ma la sua prosecuzione e conclusione ovvia è al teatro, quando i modi danteschi, filtrati e adattati lungo due secoli di letture e di imitazioni, si concluderanno con la fondazione della commedia italiana. Nella sosta e nella scoperta, il poeta non dimentica la suggestione del tema epico; e attento a valersi d’ogni apporto, da qualunque parte provenga, è ben naturale che raccolga l’indicazione della narrativa grottesca del Medioevo, la favola bestiaria. Album di bestie, in questo canto; e dove, nel precedente, la similitudine era proposta fra i dannati e cose (i «lessi») od uomini (i lucchesi in chiesa e al giuoco), qui subito s’apre la similitudine dei delfini, prosegue, senza interruzione, nello stesso giro del periodo la similitudine dei ranocchi, scatta la stessa similitudine in nuovo aspetto al cambio della scena («così com’elli incontra / che una rana rimane e l’altra spiccia»): e il racconto s’arresta nella meraviglia della nuova pesca: E trassel su, che mi parve una lontra.17

(Se le notazioni stilistiche sollecitano il coro delle parole tacite e delle immagini, questo verso stupendo, lentissimo e grottescamente trionfale, e il disegno della lontra lucida e umida, che lo rompe, con uno squarcio nero, vale un commento orchestrale, in un’opera buffa.) Nell’intrico dei gesti violenti dei diavoli intorno a Ciampolo hai un attimo di sospensione: quando Virgilio vuol procedere all’interrogatorio, e prima che intervenga Barbariccia a sospendere l’esecuzione: Tra male gatte era venuto il sorco18

(uno svolazzo bestiario anticipa la rima: il grugno di Ciriatto sannuto). La scena prosegue in uno stupendo groviglio di battute oziose e di interventi violenti, tra Ciampolo che vuol guadagnare tempo e si svia in circonlocuzioni, I’ mi partii, poco è, da un che fu di là vicino: così foss’io ancor con lui coperto…19

e i diavoli che «troppo hanno sofferto» (simpaticissima confessione: la sopportazione diventa autentica sofferenza) ed entrano in gara. Altra pausa armoniosa di ritmi contrastanti, fra la scenetta di Frate Gomita, 82

Danar si tolse, e lasciolli di piano, sì come dice; e ne li altri offici anche barattier fu non picciol, ma sovrano,20

con quel suo distacco danzante di mimo e l’ossessione di Farfarello preso della smania lunatica: «che stralunava gli occhi per ferire»; l’episodio è conchiuso dalla battuta impagabile: fatti ’n costà, malvagio uccello!21

Gli angeli neri, gli uccellacci di malaugurio, si insultano fra loro; e il decurio, rispettoso delle forme, si comporta con ipocrita osservanza, si piega dalla parte dei buoni. Altro cambiamento di tempo e di tono: sollecitato dalla paura, Ciampolo incalza con una proposta tanto frettolosamente detta quanto il suo parlare era prima circospetto e lento: «Toschi» e «Lombardi» sorgeranno in frotte al suo sufolare (è stata l’immagine degli uccelli, proposta da Barbariccia, che ha chiamato quest’altra, naturalmente sollecitata pure dalla «panie»: siamo in un paretaio; e gli «uccelli» nel linguaggio della novella e della commedia sono i gonzi). Poi la gara di furbizia fra Cagnazzo e Alichino, la corsa alla ripa, lo scampo di Ciampolo. Al tempo esatto (è la miglior dote della commedia e specialmente della commedia musicale) Ciampolo s’attuffa, alto Calcabrina svolazza, s’azzuffano, piombano nella pece bollente. Tela: E noi lasciammo lor così ’mpacciati.22

L’intermezzo fra gl’Ipocriti La forza della fantasia individuante è tale, dopo il vigore acquistato nella commedia, che Dante stenta a riportare il suo racconto al tono consueto, espositivo e discorsivo: cerca una via di mezzo e la trova, stupenda di effetti e di risultati: elegia delle ironie sommesse, questo intermezzo fra gli ipocriti. Che la bolgia abbia nell’organizzazione strutturale un suo rilievo, nessun dubbio: fra gli Ipocriti convien discendere come fra i Simoniaci: anzi, guardarli più da vicino, scrutarli di sotto in su, rompere il divieto dell’ombra dei cappucci: ché non hanno quel violento impeto, quella cupidigia altera dei Simoniaci; non si discoprono come Niccolò III: sono loro che chiamano, essi che insegnano; invitano e dimettono quando lor piace, padroni nella loro accolta. Inoltre la bolgia è segnata dalla collera divina, ché il terremoto che scosse l’inferno alla morte di Cristo ha schiantato tutti i ponti che la soverchiano: è dunque legge che il cammino discenda, legge contrassegnata dall’evento più spettacoloso della geologia infernale. Infine, il raffronto strutturale con gli Eresiarchi ha pure il suo valore indicativo, benché la violenza con cui il negatore Farinata insorge alla vita si contrapponga alla coperta astuzia con cui gl’incappati si nascondono. Ma al di là del rilievo che l’episodio acquista dall’essere organizzato, vale ancora una volta il fervor fantastico 83

che senza contraddire l’occasione la sorpassa. L’attacco del canto è sommesso e smorto, e nella solitudine, dopo la tanta tensione della commedia diavolesca, la riflessione favolistica rallenta anch’essa e si dilunga nella morale; comunque, i due temi valgono perché accostati: il tema nuovo è quello della frateria: Taciti, soli, sanza compagnia, n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo, come i frati minor vanno per via…23

Il tema antico è tolto ancor esso dalla favola bestiaria, che aveva costellato del suo contrappunto la commedia: de la rana e del topo…24

A uscir dal passo intorpidito, la paura fa nascere l’immagine della caccia diabolica, che si riflette, come in uno specchio, nella mente di Virgilio: infatti, ecco i diavoli: con l’ali tese non molto lungi, per volerne prendere,25

e l’atto impetuoso del Maestro che abbraccia Dante e scivola supino dal collo della ripa lungo il pendio di roccia. Un gesto solo del guardare all’insù, quando son giunti al fondo della bolgia stessa: quasi uno scongiuro: ché accanto all’implicita preghiera di ringraziamento, ché l’alta provedenza, che lor volle porre ministri de la fossa quinta, poder di partirs’indi a tutti tolle,26

la stessa accentuazione di tono consente di intendere un gesto di trionfo, o, chissà, di scorno. E sui diavoli cade per sempre il silenzio. Nel silenzio si snoda l’episodio degli ipocriti: solo un grido lo rompe, al miracolo improvviso: di retro a noi gridò: «Tenete i piedi, voi che correte sì per l’aura fosca!»27

Ma il ritmo è lento, l’aura è tetra, la gravezza delle cappe impone uno strazio sommesso, il pianto è di gente «stanca e vinta»: anche le illustrazioni politiche, scelte fra le più divulgate (le cappe sono della taglia delle tonache monacali benedettine del monastero di Cluny e son della sostanza, di piombo, dentro la quale Federico II si diceva mettesse ad ardere i rei di stato), accentuano la gravezza di quella desolazione, col ricordo di un’inutile potenza, di un fasto perduto; e il color d’oro, suggerito dal falso etimo (yper-chrysos, sopra è l’oro: Dante non 84

bada alla sostanza storica delle parole, ma alla loro potenza suggestiva), mette in quel tenebrore uno sbattimento lugubre di luce gialla, anzi rancia, funerea e putrida. Tutto è miserando e stravolto; e quando quei già potenti vogliono affrettarsi, per ascoltar parole note, non possono. E quel Crocifisso, Caifas, «attraversato è, nudo», ristabilisce un contrappasso fra il segno di gloria, la Croce, «vexilla Regis prodeunt», già erto e glorioso nelle assemblee di quella civiltà cittadina che gli ipocriti avevan degradato a compromesso accorto, e l’avvilimento della crocifissione «in terra, con tre pali», anzi che con i chiodi alta in cielo. Per la prima volta forse l’umiltà dei frati godenti non è infinta, ma disperata: dir chi tu se’ non avere in dispregio,28

e la risposta squilla alta, con uno strappo verso la libertà, e l’immagine dell’acqua e dell’aria e della città superba: I’ fui nato e cresciuto sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa, e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.29

Poi nelle parole di Catalano Malavolti e di Loderingo Andalò, il riassunto vuol sonare apologo di una fatalità politica: come suole esser tolto un uom solingo per conservar sua pace…30

ma l’immagine che dura nella memoria è quella di una rovina: le case degli Uberti, atterrate, nel luogo della fortezza longobarda del Gardingo: e fummo tali, ch’ancor si pare, intorno dal Gardingo.31

Vibra nelle parole, maligna, la soddisfazione della strage: a molto sapevano rinunciare gli ipocriti, non al piacere della vendetta. E nel commiato, ancora occhieggia ironico il Diavolo «padre di menzogna». L’idillio del villanello, che chiude l’episodio degli Ipocriti, prelude alla bolgia cittadina dei ladri; né altro contrasto potrebbe valere di più suggestivo contrappunto: l’aria limpida e pura sospesa nel presagio della primavera di contro all’aura morta d’inferno; l’immediatezza ingenua della vita pastorale, di contro all’infingimento della politica ipocrita; la magia bianca di quelle figure mitologiche che personificano le vicende delle stagioni (i capelli del Sole spiegati ai raggi d’Acquario, le notti che camminano e discendono verso il limite dell’equinozio, le due sorelle bianche, la Neve e la Brina, affacciate alla mutevole giornata di febbraio) di contro alla magia nera delle metamorfosi d’inferno: quel battersi l’anca; ed era il gesto d’Achille ingenuo e forte: quel lagnarsi qua e là per casa, quel «ringavagnar» la speranza: favola pastorale che ha peso ed evidenza di em85

blema. Ma ancora una volta di tali raffronti, e della giustificazione intellettuale del contrappunto dei temi, ci serviamo per risalire a ritroso alla disponibilità creativa del poeta; egli fa un passo fuori dalla suggestione immediata della sua materia, prima di plasmarla e acconsentirle: non uno svago, ma un acquisto; sale ad una sfera più alta e più pura, prima di visitare gli orrori, ma per trarne forza ed equilibrio di consapevolezza, non per un ilare giuoco disinteressato: dove più la materia lo attrarrà, meglio si prepara a vincerla e a distaccarsene; e la seduzione di un’arte che percorre tutti i temi del gotico fiammeggiante e del barocco, la poesia delle metamorfosi, non lo assorbe, anzi già è vinta nell’atto che le predispone l’incantesimo di una purificazione idillica. Il suo appiglio tematico è tenuissimo: Così mi fece sbigottir lo mastro…32

ma più circostanziato il secondo preludio, gnomico questo, dove Virgilio interviene con vigore eccessivo sulla stanchezza di Dante, affranto dall’ascendere i massi scoscesi fuor della sesta bolgia: dove cantano e inneggiano, con uno slancio da festa commemorativa, i versi illustri: E però leva su, vinci l’ambascia con l’animo che vince ogni battaglia, se col suo grave corpo non s’accascia.33

Il fatto è che anche qui si guarda insieme al passato e al futuro, ci si sottrae di forza all’insidia dell’ipocrisia e si appresta quel distacco, quella dignitosa coscienza, quel saper di sé e del proprio destino di gloria, che può consentire di non cedere alle tentazioni ambigue della frode cittadina; e l’impegno di sottrarsi alle proprie circostanze di vita, di guadagnarsi una coscienza e una dignità fra le insidie di una società corrotta, val la pena che sia sostenuto con una lezione eloquente. Né manca qui d’aggiungersi una linea alla figura di Virgilio uomo: Catalano l’ha messo in canzone, quando s’è accorto d’essere stato ingannato da Malacoda; e con molta gravità perfida ha rammentato di avere inteso nella dotta Bologna che il diavolo è bugiardo e padre di menzogna: è un passo evangelico, codesto; ma Catalano lo cita come apoftegma dottrinale, razionalità dedotta, che non doveva essere sfuggita al savio che tutto seppe: colto in fallo, Virgilio si riscatta di forza, innalzandosi sulla scala di un moralismo austero e predicatorio, di grave sostanza del resto, e di bellissima eloquenza. Eccoli entrambi disposti alla trasvalutazione del mondo infero, e delle immagini magiche. Altro prologo, fuggevole questo e misterioso, della voce bestiale che avverte venir su dalla bolgia, in risposta alle parole ch’egli pronuncia «per non parer fievole»:34 egli è obbediente alla ragione, e lo riecheggiano voci indegne di formare parola umana. Un dubbio sulla lezione arresta il lettore: leggeremo: ma chi parlava ad ira parea mosso,35

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secondo il testo vulgato? In tal caso il poeta allude a quella processione maligna della colpa, già tante volte dichiarata, dalla natura corrotta malizia cui s’aggiunge la ragione, «dell’uom proprio male»: l’ira si trasforma in bestialità; e poi traboccano in frode; e varrebbe anche di presentazione a Vanni Fucci, superbo d’esser bestiale, ma che deve confessarsi, oltre che violento, ladro. Oppure leggeremo: ad ire parea mosso,

secondo il testo critico? In tal caso la voce misteriosa è preludio di altri e più cupi misteri, è un inizio di quelle apparizioni e fughe che popolano di lameggiamenti biechi la bolgia: quasi contrapposto, col suo labile discorrere, di quel Puccio Sciancato che solo dei ladri assiste illeso e intento al mutare e trasmutare dei compagni. Forse il poeta amò l’una e l’altra lezione. Ma via via entrando nel vivo della materia, i prologhi diventano più intrinseci e potenti, e la scena, disposta per il dramma magico della città dei ladri, è invasa dalla violenza di Vanni Fucci. Il dannato basta a se stesso: il canto ha appena figurato la stipa dei serpenti, e il poeta ha detto appena con accenti d’impotente paura il suo ribrezzo, tentando di qua e di là la materia, ed evadendone nella mitografia geografica e lapidaria: Più non si vanti Libia con sua rena… sanza sperar pertugio o elitropia…36

che l’atto del ladro morso incenerito e risorto l’attrae e l’inchioda. Il senso di quell’atto è chiaro: Vanni Fucci basta a se stesso, assolve in sé la condanna delle trasformazioni, risorge dalla sua stessa colpa, con una volontà proterva di ricominciare; e alla fine si innalza con la bestemmia, dove le serpi gli chiudono la parola ed il gesto. Gli altri dannati, i ladri fiorentini, hanno bisogno di una vita associata, si scambiano l’uno con l’altro la persona e la roba: alle porte della città sta Vanni Fucci come la sua Pistoia sul limitare della vita e della storia di Firenze: un guardiano tremendo, un introduttore immenso. E la sua vicenda, tradotta in gesto, sale dalla bestialità iraconda al rovello della confessione e della vendetta ed alla bestemmia, progredendo: il moto si avvicenda in sé, senza attingere da fuori motivi per la progressione drammatica. Nel dramma Dante interviene e provoca il moto: ché assistendo alla vicenda, contrappunta i vari temi, e talvolta li smuove (ma il suo primo assistere era di orrore stupefatto), evade verso una grandezza remota, quando canta il mito della Fenice: Così per li gran savi si confessa che la Fenice more e poi rinasce, quando al cinquecentesimo anno appressa; erba né biada in sua vita non pasce…37

come dimenticandosi della qualità scadente del personaggio. Lo sdegno suo si sollecita quando Vanni fa la prosopopea ingloriosa: 87

Io piovvi di Toscana, poco tempo è, in questa gola fiera. Vita bestial mi piacque e non umana, sì come a mul ch’i’ fui: son Vanni Fucci bestia, e Pistoia mi fu degna tana,38

e allora, dimenticato il tono grave e stupefatto della metamorfosi, l’ira di parte l’assale: «Digli che non mucci»: lo vuol tenere, che non sgusci, serpente, fuor della sua presa. D’esser bestia lo snaturato si vantava: d’apparir ladro frodolento si vergogna; e quasi togliendo all’avversario il tono solenne e profetico con cui aveva osservato la sua morte e resurrezione, fa la profezia della cacciata dei Neri da Pistoia, poi della cacciata dei Bianchi da Firenze: Moroello Malaspina vien di val di Magra a capo dei Neri, si combatte una lunga e atroce vicenda di guerre di parte sopra il territorio di Pistoia, fuor dal nembo di guerra fulmina il Guerriero e atterra i Bianchi. Dante innalza i suoi avversari, almeno nel tratto e nel gesto, quando li ritiene degni di scender con sé a paragone; e questo Vanni Bestia ha una statura maggiore di quella di Capaneo: di quanto sostituisce alla magniloquenza oratoria l’intensità drammatica, vuole un intervento altissimo per la condanna, la sentenza di un Giudice immortale; traboccando d’ira, Vanni Fucci prorompe nella bestemmia e nel gesto osceno, è punito, fugge via muto. A suggello del tema politico, l’invettiva contro Pistoia: la prima, e ancor cauta, nella sua ironia: la città dovrebbe da se stessa decretare d’incenerirsi, e far sentenza di sé. Poi proromperanno le altre condanne d’altre città. E come se non bastasse il paragone di Capaneo, cui s’era opposto Virgilio, ecco l’intervento di Caco. La progressione riflessiva è sin troppo evidente: Caco è in disparte dagli altri centauri, perché ha rubato la mandra d’Ercole con la frodolenza; e a simboleggiar la terza natura, serpentina, dei peccatori di frode, sulla natura umana e sulla natura equina aggiunge la natura del serpente. Ma nella struttura del dramma Caco porta un moto audace e selvaggio, che prolunga fuori della cornice del quadro scenico la vicenda: la punizione di Vanni Fucci può proseguire nella tenebra che circonda quel tratto di livida luce dove scende l’occhio non mai stanco del poeta.

Le metamorfosi dei ladri In quel tratto (Dante e Virgilio guardano immobilmente: e a un punto, a suggellare quel silenzio atterrito, Dante si passa il dito sulla bocca, fa cenno di tacere) si svolge lo spettacolo magico delle metamorfosi dei ladri fiorentini. Dante non indugia in circostanze dottrinali: l’immaginare è l’unico momento vivo di questa scena; e tocca a noi riguadagnare indietro il cammino, renderci conto che quel «mutare e trasmutare» delle persone simboleggia il traffico della «roba»: zavorra, dice appunto. Persona e possesso fanno una cosa troppo attinente, in quel costume; e la socialità mercantile, con quel che ha di labile e di improvvisato, di cauto e di avventuroso, di lungamente meditato e di azzardoso, accorta e 88

mutevole, doveva offendere un costume radicato da secoli, appoggiato, fondato alla terra e al possesso immobiliare. A tradurre in termini di rappresentazione atrocemente grottesca le vicende economiche di quei grandi (Cianfa Donati, Agnolo Brunelleschi, Buoso degli Abati, Puccio Sciancato, Francesco Cavalcanti), il nuovo drammaturgo ci fa assistere a un mimo violento e osceno, cui dà orrore la tensione spasmodica con cui convergono nell’interno tutti, esecutori e spettatori. Lo scenario attuale non è quello soltanto della gola fiera, quella lama di luce entro cui vengono a cadere i dannati, sospinti dal destino provvidenziale che procura l’incremento della conoscenza del pellegrino; è anche un ricordo fiorentino: nella stipa selvaggia delle serpi, si prolunga il ricordo della selva dei suicidi. Più d’un richiamo sopravviene a questa bolgia da quel cerchio: anime di serpi, aveva detto Pier della Vigna; e gli scialacquatori trascorrevano per la foresta come il porco selvaggio verso la posta; ma presente è soprattutto l’atmosfera di dubbi e d’ansia, la tensione nervosa, l’incubo di stregoneria, coi vari riti degli sbadigli, del fumo dei serpenti, delle lingue forcute, dei sufoli e degli sputi.39 I fiorentini si radunano a far le loro magie oscene e tremende; e nella zona livida s’alternano gesti scattanti, come lo slanciarsi del serpente con sei piè e il moto del serpentello acceso, livido e nero, a gesti lentissimi: né l’un né l’altro già parea quel ch’era.40

Due s’avvinghiano facendo un solo corpo d’un serpente e d’un uomo; due si tramutano, il serpente in uomo e l’uomo in serpente. A tre riprese escono dal limite del quadro. La prima è questa: Ogni primario aspetto ivi era casso: due e nessun l’immagine perversa parea, e tal sen gìo con lento passo.41

Poi, dalla metamorfosi provocata dal serpentello (con quel preludio orroroso, nella panica calura del meriggio estivo), Come ’l ramarro, sotto la gran fersa dei dì canicular, cangiando sepe, folgore par, se la via attraversa,42

scatta la seconda, ripetendo un magico richiamo: L’anima ch’era fiera divenuta sufolando si fugge per la valle…43

e il terzo le s’avvia dietro; e nel gesto maledice la sua nuova condizione umana: e l’altro dietro a lui parlando sputa.44

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Ma prima d’allontanarsi denunzia la sua vendetta. Come nel preludio alla selva degli impiccati, il poeta indulge ad uno psicologismo morboso, e l’immagine della sua Firenze impallidisce in una nebbia di mistero angusto, così visitando da presso la città dei ladri: nella «gola fera», nella «stipa» dei serpi, nella «mena» dei dannati, egli non indulge al rapporto esatto fra l’impostazione intellettuale e la sua deduzione iconografica: posto il contrapasso, come indicazione e limite, chiede a sé la libertà della fantasia, e nella lama di luce spettrale, dove convengono i ladri per le stregonerie delle metamorfosi, egli è libero e intento. La «zavorra» che stiva il fondo della terra perde peso, mutando e trasmutando, e la commedia è di lividi fantasmi: il tono e il senso della rappresentazione si trasferiscono nella realtà anagogica che gli sta a cuore, e la vita fiorentina esce tetra, subdola e disperata, dalle conventicole stregonecce di quella frodolenza che s’esercita in cerchio. Da questa attitudine della sua poetica, di creare, accanto alla visività più staccata e spietata, la suggestione di una atmosfera surreale (e qui non importa tanto di seguire il processo consueto, che è di rendere evidente l’assurdo di un dato iniziale, moltiplicando la forza aggressiva del vedere con fedelissimo ossequio all’assunto, ma la direzione contraria, evasiva, che crea un’atmosfera intorno all’iconografia centrale e dentro quella vuole che i sentimenti si smarriscano) deriveranno, col tempo, quando l’età barocca avrà ritrovato modi fantastici cari al gotico fiammeggiante, e quando il romanticismo avrà disviluppato altri temi impliciti nella sua arte, che l’intellettualismo della civiltà fiorentina non predilesse, molte direzioni d’arte irrazionale; e preminente il realismo magico (che è assai più prossimo al dominio assoluto della realtà poetica di quanto non si sia soliti pensare: la fantasia resta velleità fiabesca, quando non si concreta in vittoriosa istanza sul reale). Qui tuttavia non occorre altro che di fermare l’appunto, lasciando alla storia delle forme poetiche il suo cammino: la lettura mostra, nell’atto stesso che il poeta indulge a parlare di un vero che ha faccia di menzogna, il rimedio a quelle seduzioni che, storicizzando, potremmo chiamare decadentistiche: il canto dei ladri si chiude coi nomi, e la protasi dell’atto o canto seguente s’apre con l’invettiva di Firenze; quei nomi, rintracciati ad uno ad uno con un’attenzione spasmodica, rompono il cerchio magico, rituffano il poeta e noi nella cronaca terrestre e cittadina, ristabiliscono una responsabilità, e sia pure attenta ad azioni terribili e a lutti, ridanno un senso umano alla macabra visione dello scambio delle persone. «Io non li conoscea», dice dei tre che sopravvengono dopo che Caco è sparito; ma quando, «per alcun caso», si nomina Cianfa, la sua attenzione è presa nel cerchio e più non s’allenta. Quel Cianfa che vanno cercando scatta dall’ombra sotto forma di favoloso serpente a sei zampe e si mescola in mostro umano e serpigno con Agnello; ma come per un nome entra nel cerchio, per i nomi ne esce, quando anche l’ultimo, quel Puccio Sciancato che nel suo presentarsi non era stato riconosciuto, finalmente ora si svela, benché gli occhi miei confusi fossero alquanto, e l’animo smagato.

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«Non poter quei fuggirsi tanto chiusi»,45 dice: dunque, le loro operazioni avvenivano quasi d’intesa: conventicole, appunto; e cercar se i ladri metamorfosati sono rei di qualche delitto speciale, come il Porena, è vano, purché si intenda, con il Momigliano, che si tratta di una scena magica, prima e dopo che fantastica.46 Intanto, una chiarezza anagrafica, un ordine di casellario, almeno questo è portato nella briga dei ladri, e i nomi riconducono il poeta a quella dignità e superiorità d’intelligenza che è il suo ben meritato e sperimentato e sofferto canone. Così dalle conventicole delle misteriose operazioni finanziarie dei ladri frodolenti alla politica fiorentina. Quell’imperialismo economico presumeva anche la lode pontificale sui fiorentini, sale della terra: Godi, Fiorenza, poi che sei sì grande…47

Il verso proemiale s’affaccia all’epilogo del canto precedente, che chiudeva l’immagine dolente di una terra percossa e in pianto per la vendetta del ladro Cavalcanti; e l’ideal paesaggio di Firenze si spande nella regione d’inferno, con un pesante volo d’ali di rapace notturno. Comunque, un nome, ancora: e per l’Inferno il nome tuo si spande,48

e una liberazione: perché da quegli orribili incubi passa ad un sogno mattutino, dolente è vero, ma lieve e verace: ma se presso al mattin del ver si sogna…49

e lo strazio di Firenze, la punizione delle sue colpe secondo l’augurio di Prato e d’altri, è pure un fatto umano, una forza di dignità umiliata e redenta. Quella vendetta era, par certo, la lunga vicenda delle sciagure fiorentine che Dante stesso sofferse: perché Dante, pensando alla storia di poi, non si colloca nel tempo che scrive, ma nel tempo che «vede»: la primavera dell’anno Trecento, come dell’invettiva all’Italia e della vendetta di Alberto Tedesco. E la maledizione di Firenze accompagna e purifica la profezia di Vanni Fucci: ché per il ladro sacrilego le stragi cittadine erano un giuoco partigiano efferato e bestiale, ma in un’intelligenza superiore di giustizia offesa che la sciagura vendica e concilia, quelle stragi erano, prima e dopo tutto, sventura, e l’uomo le soffre e se ne innalza: male inevitabile di un riscatto che occorre pagare in comune, se pur pochi erano all’offesa; e solidarietà nella pena, se non nella colpa. Vanni vuole che Dante si dolga, e per questo parla; ma chiudendo l’episodio di vita cittadina, Dante vorrebbe anticipare la pena, andare incontro alla comune condanna, riprendere a sperare: così foss’ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com più m’attempo.50

La ripetizione dei modi usati, l’arte del contrappunto, conduce il poeta, nell’introdurre i suoi nuovi miti, a ripetere lo stile dell’introduzione idillica. In 91

questi episodi della bolgia ottava e nona, dove si tenta l’evasione dal mondo della frode (altri dice che si obbedisce al miraggio della testa di Medusa),51 la sollecitazione lirica è opposta a quella che prelude ai canti dove nel mondo della frode ci si serra; e di contro l’idillio mattutino e invernale del «villanello cui la roba manca» hai l’idillio notturno ed estivo del villano ch’al poggio si riposa nel tempo che colui che ’l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea forse colà dove vendemmia od ara.52

Altro preludio, ma non più volto al passato, alle parole dette, bensì a quelle che ora si diranno, è l’epopea biblica di Eliseo profeta, che si vendica con gli orsi dei fanciulli che l’avevano beffato (temi d’impeto, di fuga, di strazio) e guarda salire in cielo il carro che rapisce Elia: quando i cavalli al cielo erti levorsi.53

La forza d’immagine e di moto della poesia biblica richiamata per introdurre il mito di Ulisse, trasfigurato di scaltro in eroe della conoscenza! Di tali accostamenti saprà nutrirsi l’esegesi romantica del sublime: qui Dante, a moltiplicar la scoperta della resa plastica dell’immagine, rammenta dalla canzone Donna gentile il transito paradisiaco di Beatrice. D’ogni contrappunto si serve; anche di quel contrapasso, che, se in una considerazione mediocre di lettura ermeneutica e di ricerca delle allegorie, è un dato intellettuale, nell’atto di far poesia è nient’altro che controcanto: i Consiglieri frodolenti si vestono di fiamma come gl’Ipocriti di piombo dorato: ciascun si fascia di quel ch’egli è inceso…54

Nel linguaggio delle immagini, nel dedurre del poeta da realtà a realtà, surrealizzando, la punta di fiamma diventa lingua e parola; e mugghia, nella caverna di fiamma, come sospirava e soffiava l’anima suicida prigioniera del pruno: ansia di evasione e di spazio, nella prigione tremenda e nel lento moto onde si succedono; e custodia di un segreto, e forza sciagurata e indomata, e riserva della libertà al di là degli atti: perché questi eroi della frode, Ulisse e Guido, il greco superbo e il «nobilissimo nostro latino»,55 hanno diviso la loro sorte dalla loro parola, l’abito in cui si son chiusi non li conteneva tutti, erano migliori e più grandi del loro stesso destino. Ultimo preludio, quando ormai la fiamma forcuta svela il suo segreto, la voce del poeta s’innalza, e l’epos mitologico, dopo l’epos biblico, avvicenda le sue creature grandi. Il furto sacrilego chiude la vicenda che pur s’era aperta con l’agguato provvidenziale del Cavallo. Quindi, perché occorrono parole solenni a persuader quei greci (il costume bizantino del decoro 92

impenetrabile, qui doppiato sulla reverenza dell’antichità eccellente), Virgilio si rende interprete della commozione di Dante e prorompe nella allocuzione stupenda: O voi che siete due dentro ad un foco…56

Ancora l’immagine di un destino che non colma la persona, di una doppia sorte, di uno spazio sovra il limite della figura.

Il viaggio di Ulisse Ulisse e Guido evadono da un mondo circoscritto: se n’eran difesi, in vita, arretrando, s’eran chiusi nella lucida parvenza delle loro parole, avevano operato sdoppiandosi; ma non avevano esaurito la riserva della loro forza; e quando verrà l’ora delle decisioni supreme, l’uno nello slancio di un destino eroico, l’altro nel calcolo di un’ascesi meditabonda, fuggono dalle operazioni consuete. Più puro il canto di Ulisse che non grava nel cerchio tremendo della frode religiosa; ma anche Ulisse esce da una cerchia, quella degli affetti domestici: l’amore del figlio, l’amore della consorte, l’onore del padre; l’arcadia isolana di cui anche il vecchio Omero si era compiaciuto, riconducendo ad Itaca Ulisse, pur dopo l’ultimo viaggio, non basta a chi era scampato alla seduzione della magia naturale, da Circe, a chi aveva fatto esperienza del moltiplicarsi dell’uomo nelle immagini della natura divina e bestiale. Dalla sua decisione in poi il canto di Ulisse è di una purità divina: purità di una natura indenne, armonia non ancora corrotta, canto fermo, nel lento trasmutare delle fasi del viaggio; una sosta ancor smagata nelle navigazioni mediterranee, ma quando la decisione è presa, di conoscere dietro il sole il mondo senza gente, nulla li arresta. Volano guadagnando a sinistra, scoprono le nuove stelle, e dopo cinque mesi giungono alla montagna del Purgatorio. Letizia e pianto; ma composti: tre volte, come in un rito sacrale, il turbine aggira la nave, e sulla superficie del mare si ricompone l’eguale calma. Altri ha letto l’agguato di un divieto divino, nel turbine che nasce dalla terra della scoperta; e ha istituito un contrasto fra quel che suggerisce la poesia a Dante e non so che divieti medievali opposti al seguir virtute e conoscenza. In realtà, la poesia di Ulisse si regge tutta quanta su una voce di natura: opera in lui la natura che vuole riacquistarsi nella sua immagine primitiva, nella purità del suo divisamento originario, uscita dalla genitura divina: la natura figlia di Dio è ben parola dantesca e cristiana. E qui, leggendo poesia, cioè trascurando le deduzioni dottrinali, non dall’immagine che si esercita anche in una sfera di riflessione, ma dalla dottrina (e l’illusione che si possa fare storia dei sottoprodotti dello spirito, delle abitudini della mente, delle inerzie del costume, anzi che cronaca), hai appunto il senso di una purezza e di una grandezza indicibile, che Ulisse guadagna nella «piccola vigilia dei sensi»: quasi che l’umanità, nell’attesa della Rivelazione, si purificasse d’ogni frode e viltà. E non si tiene abbastanza presente che quell’isola del Purgatorio è in realtà l’isola del Paradiso Terrestre, l’isola 93

della umanità ingenua e felice, l’ipostasi di Parnaso. Se una volta tanto, invece di leggere o pretender di leggere poesia deterministicamente, come sottoprodotto ed epifenomeno della storia, cioè della dottrina e del costume, la si leggerà nella sua potenza di avviare un nuovo ordine di parole e di sentimenti e di costumi, e la si osserverà nel cono di vita storica che da quel luminoso punto della poesia deriva, si riallacceranno a questo canto di Ulisse l’intelligenza umanistica che procurò le navigazioni oceaniche e il miraggio delle Isole Fortunate: forse anche il neoclassicismo implicito in tante forme di esotismo, vi leggerai; certo la poesia di Dante non è mai stata tanto tesa e tanto sobria: l’unità lirica del canto non vi si rompe in alcun punto, e via via cresce la sua intensità come la sua purezza, nella scansione musicale del folle volo. La ripresa del tema di Ulisse, nel secondo canto del Purgatorio, avrà bisogno di una officiatura liturgica e di un accompagnamento musicale: se Ulisse aveva fatto de’ remi ali al folle volo, l’Angelo nocchiero senza remi e senza vele apre l’ali, fra lidi così lontani: dal Tirreno come Ulisse, dalle foci dove Enea era approdato; ma il miracolo è necessario, dove l’estasi è tanto più lentamente raggiunta, attraverso la recita del salmo, In exitu Israel de Aegypto, il segno della croce, e, ultima mediazione interrotta dal moralismo di Catone, il canto di Casella: altra storia questa, che guadagna nel tempo e con la fatica la purezza primitiva ch’era il segreto dei Greci.

Guido montefeltrano Nel dittico, Guido si contrappone, pur integrandosi, a Ulisse; ed è cronaca contrapposta a storia: commedia ad epopea. Ulisse esplodeva in un rombo di voce parlando: «gittò fuori la voce»; ma Guido è in più pena per uscir dalla sua prigione di fiamma, pur così voglioso, e più contraddetto, fra le direzioni contrarie dei suoi movimenti, confessarsi, dopo la confessione sacrilega, e celarsi dall’infamia, salvar l’anima e salvare il vecchio abito. Ulisse si richiama ai viaggi e alla Maga: per Guido, e per un canto d’alta politica, è necessaria l’immagine artificiale e bestiaria del bue di Falaride. Anche le parole di Virgilio nell’allocuzione ad Ulisse erano oratorie, «perch’ei fur Greci»; ma nel commiato, e per introdurre il nuovo canto, declinano verso il colloquialismo, se pur non sono dialettali. Contraddittorio e contorto sin dalle prime parole, teme d’esser giunto tardi a parlare; e invoca pietà per la sua pena, da chi suppone dannato: vedi che non incresce a me, e ardo!57

Un grido immenso in quella pausa del iato. E subito ritorna alla cronaca di quella dolce terra latina onde mia colpa tutta reco,58

come se tutta la sua colpa fosse d’aver seguito i costumi di quella. Conseguentemente alla sua natura e al tono dell’episodio, le immagini che preludono al canto 94

sono qui ancora una volta araldiche e bestiarie, come nel canto degli Usurai, mentre erano nomi mitici quelli che preludevano al viaggio di Ulisse: l’Aquila dei Polentani tiene Ravenna e copre con le sue ali Cervia; il Leone degli Ordelaffi artiglia Forlì; i mastini Malatesta fan succhiello dei denti a Rimini; e il Leoncello Azzurro dei Pagani, parteggiando, tiene Faenza e Imola. E il primo verso dell’introduzione era stato sdegnoso: Romagna tua non è, e non fu mai sanza guerra, ne’ cuor de’ suoi tiranni…59

Parlando della sua vita, e prima che vi intervenga, ossessiva e immensa, l’ombra di Bonifacio VIII, Guido da Montefeltro delinea i due poli: della politica e dell’ascetismo. Della sua sintesi politica, e della mitografia bestiaria che le compete, si ricorderà dispettosamente Machiavelli: Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe che la madre mi diè

(quasi una maledizione: comunque, un risovvenirsi del tema che aveva conchiuso il primo incontro polemico e politico che Dante avesse, con Filippo Argenti: «benedetta colei che in te s’incinse») l’opere mie non furon leonine, ma di volpe60

e, di contro a quella cifra di vita politica (smentita dalla realtà storica del resto, cui è assai più aderente nel Convivio: il feudatario dei monti fra Urbino «e ’l giogo di che Tever si disserra» ebbe virtù e fama soprattutto come guerriero), ecco il rifugio ascetico, replicato quasi con le stesse parole del trattato conviviale: in quella parte di mia etade ove ciascun dovrebbe calar le vele e raccoglier le sarte, ciò che pria mi piacea, allor m’increbbe, e pentuto e confesso mi rendei…61

Qui finisce il prologo, con un lamento, e s’avanza silenziosa e tremenda l’ombra del Principe de’ nuovi Farisei: allusa e sospesa, nella struttura sintattica tutta parentetica, scivola come tra i silenzi ambigui di un chiostro goticamente superbo, le parole dimesse dicono meno e propongono più del loro senso, e un’ansia arsa vibra intorno a loro (le rime: lebbre, febbre, ebbre). I toni alti del frammento drammatico («Ma come Costantin chiese Silvestro / dentro Siratti», «Lo ciel poss’io serrare e diserrare», «Lunga promessa con l’attender corto / ti farà triunfar ne l’alto seggio»)62 son subitamente contraddetti dagli slittamenti ironici (guerir-guerir; le chiavi che ’l mio antecessor non ebbe care; da che tu 95

mi lavi di quel peccato); e al colloquio claustrale fa da vittoriosa conclusione l’ironia loica del Diavolo, il cherubino caduto. La conclusione del dramma è insomma grottesca, e s’intona non solo con una polemica aperta contro Bonifacio VIII, ma soprattutto con le necessità compositive del dittico: l’uno eroe giunge in vista della salvezza, fidandosi della virtù e della conoscenza; l’altro eroe si perde, fidandosi della organizzazione esterna della vita ecclesiastica, cedendo al fascino, invincibile sul vecchio uomo d’arme e di politica, della febbre di dominio. Sull’uno si stende cheta ed eguale e solenne l’onda richiusa del mare australe; sull’altro piomba lo spirito d’abisso e lo porta giù fra i suoi schiavi. Intorno all’uno vibra perenne l’accensione eroica: come per lui perduto a morir gissi…63

l’altro, il cordigliero, si accontenta di un terzo travestimento, e di un vano lamento: e sì vestito, andando, mi rancuro.64

La fama come voce Qui giunto, a questo vuoto pianto, t’avvedi di un vizio che aveva inquinato il proposito generoso di Guido nobilissimo nostro latino: d’un tratto quella voce querula che ha invocato dal principio pietà, una pietà inetta e inoperosa, vedi che ha nascosto sete di fama, brama di nomea; e che a questo tema si salda la commedia del consiglio frodolento: ch’al fine della terra il suono uscìe,65

dice della sua arte politica; ed ha appena detto della tema d’infamia, se mai da quel fondo qualcuno tornasse al mondo. La gloria, che è operosa negli antichi eroi, che dà loro la luce riflessa del Limbo, è la tentazione di costui: una volontà contorta e vana di fama, un alzarsi, per l’una, e per l’altra via, fra cose ed uomini grandi; finalmente è a paragone di qualcuno, da solo a solo: né sommo officio né ordini sacri guardò in sé, né in me quel capestro che solea fare i suoi cinti più macri.66

Dopo la sua gran giornata, la vita passa inerte, e sul suo corpo si combatte un contrasto in cui l’eroe che doveva essere sua guida resta muto: Francesco venne poi, com’io fu’ morto.67

96

Ed ecco da ultimo, nella storia interna di questo episodio della poetica di Dante, la fama si rivela come voce appunto; e le contraddizioni, ironiche e drammatiche del canto, gli sviluppi inconseguenti e inquieti di quel rotto discorso, le fratture d’ogni logica interna (ché altrimenti il canto dovresti leggerlo tutto dall’esterno, come pagina di polemica politica, pamphlet per una satira antipapale) si rivelano come variazioni sul tema della voce: la fama si concreta in voce, Guido prima mugghia poi si lamenta, parla e proclama la sua gloria, il «suono» della fama, e il gran colloquio con Bonifacio VIII è un rimbalzar di voce in voce, e di silenzio in parole, fra due personaggi che non sembrano guardarsi negli occhi, troppo consapevoli del male che fanno e delle menzogne che pronunziano.

Beltrame Il gran tema della parola ha una prosecuzione momentanea nel canto di Beltram dal Bornio: ogne lingua per certo verria meno…68

E quindi ancora nel gesto violento di Pier da Medicina, sopra Curione muto, «con la lingua tagliata nella strozza»: Allor puose la mano a la mascella d’un suo compagno, e la bocca li aperse, gridando: «Questi è desso, e non favella».69

Ed è come il ripetersi di un motivo, in un’orchestra, prima che il soverchiare di un nuovo tema lo sommerga. Nuovo e antico, il tema della bolgia di «quei che scommettendo acquistan carco»70 (la perifrasi ha un valore di sospensiva; ma il canto di sospensive è pieno, esposto, in stile compendiario, a precipitosi ritorni tematici e ad aspri distacchi, dal gesto di Maometto nell’annunziar la catastrofe di fra Dolcino, Poi che l’un piè per girsene sospese Maometto mi disse esta parola: indi a partirsi in terra lo distese,71

alla perifrasi con cui si allude a Curione, menzionando il traditore Malatesta: Quel traditor che vede pur con l’uno, e tien la terra che tal è qui meco vorrebbe di vedere esser digiuno,72

a dire violenza atroce di cosa vista); ma il suo appiglio più dichiarato con i canti precedenti è la volontà d’evasione, che qui acquista una forza selvaggia. Evasione come 97

forza distruggitrice (e si anticipa il mondo dei traditori, anche in più di un tono, per quella furia cieca che tiene i rei di delitti enormi: Malatestino dell’Occhio già precipita dove suo fratello Gianciotto, nella ghiacciaia di Cocito) e negazione d’ogni ragione di vita: Maometto distrugge l’unità della religione e infuria su se stesso: Or vedi com’io mi dilacco;73

e Beltram dal Bornio strazia ogni continuità di legame familiare opponendo il figlio al padre, e passeggia per l’aura fosca alzando il capo a guisa di lanterna. Maometto, che è tra le figure più bieche e estreme d’Inferno, stende dopo di sé il presagio delle guerre di religione, con la profezia di fra Dolcino; Pier da Medicina l’ombra dei tradimenti; e Beltrame bestemmiando il capovolgimento di ogni imitazione del Padre e del Figlio nella vita umana: il dogma dell’unità è qui atrocemente alluso: ed eran due in uno e uno in due: com’esser può, quei sa che sì governa.74

L’effetto psicologico di tal vedere, dal principio alla fine, produce nella mente di Dante una sorta d’ebbrezza tormentosa e allucinata: La molta gente e le diverse piaghe avean le luci mie sì inebriate…75

Ma l’evasione che consente a se stesso, in mezzo a quelle furie che raddoppiano di bestemmie e d’intelletto atrocemente capovolto l’impulso della natura bestiale, è di fermarsi con una volontà violenta nell’immagine. In nessun canto egli guarda più fissamente. In nessuno di questi ultimi canti, dove il tema della Gorgone par risorgere nella allucinazione di uno scampo ansiosamente e inutilmente cercato, dove Beltrame ripete il gesto con cui le Furie minacciavano il pellegrino infernale alzando il capo della Medusa, alzando il suo proprio capo, egli ha una facoltà più intensa e atroce di guardare. Per salvarsi dalla tentazione guarda finalmente: mira intento la ripetizione minore di quella testa medusea; si svuota di ogni senso umano e non impietra, non muore.

Maschere Il suo saper vedere, quella facoltà nativa, accresciutagli dal costume e dall’abito dell’arte, di assorbirsi nella visione abolendo il rapporto intellettualistico e critico fra il soggetto e l’oggetto, fra l’autore e la rappresentazione, ha toccato nel canto della discordia un suo più alto vertice; e il poeta, riprendendo un modo che aveva accompagnato l’apparir di Gerione, non solo giura «per le note di questa comedìa»76 di aver visto (che potrebbe esser giuoco di specchi), ma invoca la coscienza, rincalza la protesta con una sentenza gnomicamente intenta, 98

la buona compagnia che l’uom francheggia sotto l’usbergo del sentirsi pura,77

dichiara di veder tuttora, «Io vidi certo / ed ancor par ch’i’ ’l veggia». La affermazione così risoluta, e la tensione che accompagna l’episodio, offrono altra testimonianza allo studio dei modi della poetica dantesca: poetica appunto, nella Commedia, della visione; e ai nessi discorsivi danno il pretesto di una distensione che invade i due canti seguenti, e fa terminare in commedia grottesca, azione non più di persone umane ma di maschere, la rappresentazione di Malebolge. La distensione, con il passaggio che comporta dall’orrore all’ira e al dispetto, è tuttavia lenta e condizionata; e non è tale che non si capovolga in un assorbirsi del visionario con quasi altrettanta intensità nei secondi modi come nei primi; infatti Virgilio interviene al principio e alla fine: a distogliere Dante dall’attendere più oltre all’ombre tristi e smozzicate, alla sanguinaria tragedia dell’odio che infuria nel sangue, e agli appestati, alla farsa immonda dei falsari. Interviene contro il costume cittadino della vendetta, puoi dire, amplificando a norma le ragioni immediate del suo dire, e contro il costume cittadino del mimo: due forme di dissipazione. Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ello,78

raccomanda all’attesa del congiunto invendicato, Geri del Bello; ma consente al suo discepolo un accento elegiaco e pietoso, ed in ciò m’ha el fatto a sé più pio,79

che si prolunga nella pietà dei lamenti della decima bolgia: lamenti saettaron me diversi, che di pietà ferrati avean li strali.80

È tuttavia questo della pietà un accento discorsivo di poco conto: la più vera distensione, consentirebbe, se prolungata, quel distacco inquisitorio e sdegnoso che Dante avrà solo nel cerchio dei traditori; ma qui dove il tono vorrebbe risollevarsi, giù ver lo fondo, là ’ve la ministra de l’alto sire infallibil giustizia punisce i falsador81

(e il finale si disconviene nell’accento: la Giustizia, «punisce i falsador che qui registra», s’impiglia in una bisogna cancellieresca), la distrazione sopravviene sulla distensione. Alla «dell’alto sire infallibil giustizia» fa corrispondere il tono illustre dell’evocazione mitologica; ma vedi come anche questa degrada verso una minuzia svagata e ironica di apologo esopiano: 99

Non credo ch’a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo, quando fu l’aere sì pien di malizia, che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo, si ristorar di seme di formiche; ch’era a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche.82

Mucchi d’appestati, senza terror religioso (l’esattezza dell’infallibil giustizia ne lo salva): prologo, nella sarcastica distrazione di questo nuovo guardare, al prologo del Boccaccio.

Gli appestati Dalla mitologia beffarda («secondo che i poeti hanno per fermo») alla iconografia grottesca, il passo è breve, quando scende ad animare quei mucchi d’anime (l’ordine è turbato in questa decima bolgia, che riassume confusamente ogni altro tema dei frodolenti: non più catalogo, ma coacervo e lazzaretto). A noi sovvengono esperienze di poetica realistica: quando almeno il programma dell’impassibilità del vedere non si capovolse verghianamente in una severa pietà degli umili, cose e creature; ma è pur sempre realismo magico, quello di Dante: miracoloso nella esattezza aggressiva della cosa vista, che d’un tratto s’anima di un’intima forza, fatta nascere dentro le cose. Griffolino e Capocchio, falsari di metalli, anzi «scimmie di natura», non hanno nulla della persona umana: una delle sequenze grottesche più ardite di tutta la Commedia li rappresenta; memore appena della scena dei falsari sull’orlo di Malebolge: Io vidi due sedere a sé poggiati, com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al piè di schianze macolati; e non vidi già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, né a colui che mal volentier vegghia, come ciascun menava spesso il morso de l’unghie sopra sé per la gran rabbia del pizzicor che non ha più soccorso; e sì traevan giù l’unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie o d’altro pesce che più larghe l’abbia.83

Anche l’allocuzione di Virgilio cede al gusto realistico; e diventa ironico accostare il modulo consueto della richiesta, e quel «se» ottativo che è modo illustre, al giuoco delle cose: «o tu che con le dita ti dismaglie» (qui vogliamo proprio leggere «etterno»): 100

e se l’unghia ti basti etternalmente a cotesto lavoro.84

A intonarsi con questo modo anche Dante parla di «memoria che s’imbola»: minor perizia nel girare la frase a modo nuovo, quasi replica ironica in minore, divertimento da «settimino» o da serenata mozartiana, quella con gli strumenti a fiato stonati? Serve, comunque, alla commediola magica e furfantesca di Griffolino d’Arezzo e di Albero da Siena: la promessa d’insegnargli a volare, e la condanna al fuoco d’uno Zauberlehrlin inesperto, ma autentico falsario; e insieme replica grottesca del mito di Icaro: e solo perch’io nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che l’avea per figliuolo.85

E serve, dopo l’altro intermezzo, l’intervento moralistico di Dante: Or fu già mai gente sì vana come la sanese? Certo non la francesca sì d’assai!86

a conchiudere con un coro di prodighi lapidatori delle sostanze la commedia delle cose. Qui va ripetuto, a illustrazione storica, che la cultura sanese prediligeva questi modi di un realismo magicamente dissipato: da Ruggeri Apuliese a Folgore di San Gemignano, per citar una documentazione letteraria, e dall’internazionalismo pittorico al Sassetta per una reminiscenza di storia dell’arte: il tutto, s’intende, riassunto dalla novellistica (apologia prima che apologetica) di san Bernardino. E l’animazione godente della commedia di maschere, col suo corteo carnevalesco di gran signori: e tra’ne la brigata in che disperse Caccia d’Ascian la vigna e la gran fronda, e l’Abbagliato suo senno proferse.87

La «brigata spendereccia» sollecita il moralismo di Dante; sempre sdegnoso di chi non sappia intendere i vincoli fra la persona e la roba, sempre puntiglioso nel condannare a una alterazione della figura chi scialacqua la sostanza: indebitato in patria, e poi esule, aveva quanto basta d’esperienza personale a sottolineare una moralità siffatta.

Il mimo di Maestro Adamo Il secondo tempo della commedia, architettonicamente composto dentro il canto trigesimo, è del mimo: non più un frammentismo lirico che si svagava liberamente da un tema all’altro, sospeso nella maschera della scimmia appesa alla prosopopea 101

di Capocchio; ma ordinata commedia, che attrae e raccoglie i modi del contrasto giullaresco e li innalza a dignità letteraria (per quel che è dello stile rilevato da accenni e lumeggiature preziose) e soprattutto lo sorveglia con dignità d’intenzione intellettuale. Due introduzioni musicali, in diverso stile, benché l’una e l’altra ricollegate alla mitologia, preludiano al canto; modi di opera buffa, ben s’intende: benché nessuno avrebbe potuto leggere, allora, quello che noi leggiamo, al termine di quella storia e di quel costume. Comico e collerico il primo tempo della sinfonia con la favola staziana di Atamante; ma il secondo tempo canta tragicamente le furie di Ecuba. Già si sa che le storie di Tebe Dante le immagina romanzescamente; ma alle storie di Troia attende con anima di filosofo commosso e di moralista, lungo tutta la Commedia, dalla menzione del superbo Iliòn nel primo canto dell’Inferno alla provvidenzialità della gesta di Enea nel canto di Giustiniano in Paradiso al suo suggello, il «mistero» di Rifeo troiano nel cielo dell’Aquila. Il ritmo solenne della evocazione consente anche una concitazione del tempo e un innalzamento di tono, quando si tratta di presentare la prima scena del mimo, quasi di danza orgiastica, Gianni Schicchi e Mirra. La scimmia Capocchio batte la faccia a terra, per un morso di Schicchi; e il contrappunto di Griffolino è la paura: anzi il «tremore», che è la sua traduzione in termini di grottesco gestito; ma Mirra introduce nella scena un’ombra di terrore misterioso e scompare, toccata appena un’immagine che pure, per continuità, la prolunga: venne, falsificando sé in altrui forma, come l’altro, che là sen va, sostenne, per guadagnar la donna de la torma, falsificare in sé Buoso Donati, testando e dando al testamento norma.88

La mula, la regina della mandra, prende qui il centro dell’episodio comico di Gianni Schicchi che per esortazione di Simone Donati dettò il testamento di Buoso: sì che è più lieve il passaggio all’immagine di Maestro Adamo «fatto a guisa di leuto»89 e al lamento, quasi al canto, che introduce, così accompagnandosi. Ché l’immagine famosa, Li ruscelletti che de’ verdi colli del Casentin discendon giuso in Arno, faccendo i lor canali freddi e molli,90

stupendamente preludiata da quella “toccata”, io ebbi vivo assai di quel ch’i volli, e ora, lasso! un gocciol d’acqua bramo,91

col ritmo che ritorna al suo principio, sui suoi passi camminando, è immagine musicale: poco o meno conta la sottigliezza sensuale della pena accresciuta dal 102

ricordo (è il modo che più ha attratto l’attenzione degli esegeti, in tempi di decadentismo), ma assai più la esattezza della cadenza. Ancora una notizia musicale sorregge l’ultimo tempo del suo autoritratto, o presentazione scenica del personaggio; quando canta: ma che mi val, ch’ho le membra legate?92

a introdur la cabaletta del suo proposito, se fosse «di tanto ancor leggero / ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia»,93 di circuire tutta la bolgia immensa. Non forse un interesse svagato lo tiene? A ritrovarlo intero diresti che abbiamo dovuto attendere l’ultima fase della commedia musicale italiana, fra la cabaletta di Figaro «tutti mi vogliono» e quella di Falstaff «quand’ero paggio». È prezioso fin quando anticipa il fastidio del viaggio «tra questa gente sconcia»: prezioso, se vuoi una conferma stilistica tratta dall’uso del trobar clos provenzale, persino indulgendo alla rima equivoca: e men d’un mezzo di traverso non ci ha.94

(E il razionalismo dei commentatori indugia a calcolare da quella misura, tanto autorevolmente introdotta, le dimensioni d’inferno!) E s’accomiata, da buon cortigiano, svagato e vagabondo, chiudendo la storia di un disgraziato soggiorno alla corte dei conti di Romena: Io son per lor tra sì fatta famiglia: e’ m’indussero a batter li fiorini ch’avevan tre carati di mondiglia.95

Alla commedia giullaresca il monologo di Maestro Adamo, nuovo uomo di corte, non basta: occorre anche il contrasto. Lo introduce un modo d’arte illustre: la menzione parallela, come il poeta suole, d’un personaggio mitologico e d’un personaggio biblico: la moglie di Putifarre e il greco Sinone. Come Mirra era scomparsa in silenzio, così resta in silenzio «la falsa che accusò Giuseppo»; ma Sinone reagisce: con un rullo di tamburo, a iniziare il nuovo tempo: col pugno li percosse l’epa croia. Quella sonò come fosse un tamburo.96

Un gesto violento gli replica: ché la gesticolazione, nel mimo, precedeva e seguiva il dialogo, più che non l’accompagnasse: «li percosse il volto». E incomincia il diverbio. Diverbio sapido e smemorato, avventato e smisurato, tra il tema del ricordo d’infamia e il tema della corruzione corporea; a chiuderlo, il tono s’innalza: grottesco mitologico, quello «specchio di Narcisso» che Sinone vorrebbe leccare (e ripresa del tema di fonte Branda,97 cui aveva toccato Maestro Adamo nel suo monologo, quasi ricollegandosi alla prima scena del grottesco, al coro della brigata spendereccia sanese). Con un equilibrio perfetto di misura, 103

il diverbio riassume tutti i temi fin qui toccati e chiude il dittico: anche qui, solo l’orchestra dell’opera comica italiana sarà capace di riunire con altrettanto perfetta cadenza e ritmo l’evidenza dei temi e il loro riassunto. L’intervento di Virgilio riporta il mimo ad una composizione narrativa ed arresta lo squarcio comico; ma, per dirne ancora il distacco, l’autore si serve di un curioso capovolgimento: Quale è colui che suo dannaggio sogna che sognando desidera sognare.98

Stava infatti come in sogno al mimo, non in visione, ma in una cerchia di intensissima attenzione psicologica, che capovolge i rapporti fra il sogno o la finzione e la veglia o la realtà. L’ira di Virgilio si insinua là entro senza rompere all’improvviso quel suo astrarsi nel giuoco della commedia; parola sopra parola. Ma con la farsa d’un falsario e d’un testimonio bugiardo termina la commedia e si chiude il velario sulla città della frode.

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If XX 1. M. PORENA, Virgilio e gl’indovini, in Commento, cit., pp. 183 ss.: «Il contegno di Virgilio in questa bolgia è molto singolare. Egli ha verso questi peccatori un disprezzo, si direbbe quasi un astio, di cui a prima vista non si comprende la ragione. Credo che ben vedesse Francesco D’Ovidio (D. e la magia, in Studi sulla DC), quando pensò che un tale contegno sia da vedere in rapporto con la fama di mago che una diffusa leggenda medievale aveva creato attorno a Virgilio […]. Questo canto fa indirettamente l’apologia di Virgilio, mostrandolo tanto alieno dalle arti magiche da essere perfino troppo severo con quella specie di peccatori, e spaventato all’idea che si potessero credere i mantovani discendenti da un’indovina famosa». Spiegazione unilaterale forse, come quella che tocca un solo momento dell’episodio: ma le attinenze storiche e tematiche annotate da Francesco D’Ovidio sono necessarie per accertare la poetica del canto, verso la quale pure il Porena si muove: «Un Virgilio uomo, alcun poco passionato ne’ suoi eccessi e nella sua insolita loquacità: bellissima e singolarissima creazione». Condizione prima delle variazioni poetiche resta il rifiuto di por la magia a fondamento della politica: «condanna delle superstizioni correnti, a base di oroscopi e di sortilegi, intorno alla fondazione delle città e critica razionalistica alle parole dei poeti»: SAPEGNO, Commento, cit., p. 233. 3 L. PIETROBONO, Dal cerchio al centro, cit. 4 If XX, 27. 5 If XX, 29-30. 6 If XX, 5-6; 8-9; 19-24. 7 If XX, 25-26. 8 If XX, 31. 9 If XX, 47-51. 10 If XX, 103-105. 11 If XX, 123. 12 If XXI, 22-24. 13 If XXI, 125-126. 14 If XXI, 131-132. 15 If XXI, 128. 16 If XXI, 133-135. 17 If XXII, 36. 2

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If XXII, 58. If XXII, 66-67. 20 If XXII, 85-87. 21 If XXII, 96. 22 If XXII, 151. 23 If XXIII, 1-3. Il tema è stato analizzato adeguatamente solo dal Momigliano: vedine il commento al canto. 24 If XXIII, 6. 25 If XXIII, 35-36. 26 If XXIII, 55-57. 27 If XXIII, 77-78. 28 If XXIII, 93. 29 If XXIII, 94-96. 30 If XXIII, 106-107. 31 If XXIII, 107108. 32 If XXIV, 16. 33 If XXIV, 52-54. 34 If XXIV, 64. 35 If XXIV, 69. 36 If XXIV, 85; 93. 37 If XXIV, 106-109. 38 If XXIV, 122-126. 39 PIETROBONO, Dal cerchio al centro, cit. 40 If XXV, 63. 41 If XXV, 76-78. 42 If XXV, 79-91. 43 If XXV, 136-137. 44 If XXV, 138. 45 If XXV, 145-147. 46 Acuto nel circostanziare i rapporti analogici, in una postilla al canto XXV del suo Commento, La pena dei ladri, il Porena annota che «la fondamentale par esser quella che si presenta a Dante quando egli s’affaccia alla bolgia, e che ci rappresenta nei versi 91-96 del canto XXIV: anime con le mani legate tormentosamente da serpenti. In essa pena il contrapasso è chiaro: i ladri sono puniti nelle mani che hanno peccato, con quella specie di ammanettamento ripugnante e crudele: e i serpenti che ammanettano e di cui una copia immensa riempie la bolgia, sono un’allusione alla natura subdola e insidiosa del ladro come i vermi che strisciano ai piedi degli ignavi» (pp. 227 ss.). Se fosse nostro compito storicizzare ogni singolo motivo del «commento perpetuo» alla DC, qui indicheremmo il Pietrobono: ché è suo e della sua scuola il metodo del rapporto strutturale; ma circostanziare non basta; e infatti la conclusione del glossatore è questa: «Nella bolgia dei ladri e nella lor pena, quel che c’è di più caratteristico e di più studiosamente artistico non è elemento organicamente connesso alla materia dal punto di vista morale, ma elemento ospitato qui per reminiscenza letteraria». Ma ogni divario e l’ardita sintassi delle immagini si ricompone solo che si sappia disporsi in una lettura integrativa, e in una prospettiva di visione abbastanza ampia: il che riesce al Momigliano (e anche per questo, oltre che per venire ultimi nella storia del commento, li citiamo tanto volentieri, insieme ed opposti). 47 If XXVI, 1.3 48 If XXVI, 3. 49 If XXVI, 7. 50 If XXVI, 12. 51 PIETROBONO, Dal cerchio al centro, cit. 52 If XXVI, 25-30. 53 If XXVI, 36. 54 If XXVI, 48. 19

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Convivio IV, XXVIII, 8. If XXVI, 79. 57 If XXVII, 24. 58 If XXVII, 26-27. 59 If XXVII, 37-38. 60 If XXVII, 73-75. 61 If XXVII, 79-83. 62 If XXVII, 94-95; 103. 63 If XXVI, 84. 64 If XXVII, 129. 65 If XXVII, 78. 66 If XXVII, 91-93. 67 If XXVII, 112. 68 If XXVIII, 4. 69 If XXVIII, 94-96. 70 If XXVIII, 136. 71 If XXVIII, 61-63. 72 If XXVIII, 85-87. 73 If XXVIII, 30. 74 If XXVIII, 125-126. 75 If XXIX, 1-2. 76 If XVI, 27-28. 77 If XXVIII, 116-117. 78 If XXIX, 22-23. 79 If XXIX, 36. 80 If XXIX, 43-44. 81 If XXIX, 55-57. 82 If XXIX, 58-66. 83 If XXIX, 73-84. 84 If XXIX, 89-90. 85 If XXIX, 115-117. 86 If XXIX, 121-123. 87 If XXIX, 130-132. 88 If XXX, 41-45. 89 If XXX, 49. 90 If XXX, 64-66. 91 If XXX, 62-63. 92 If XXX, 81. 93 If XXX, 82-84. 94 If XXX, 87. 95 If XXX, 88-90. 96 If XXX, 102-103. 97 Che sarebbe fonte casentinese, anziché senese. 98 If XXX, 136-137. 56

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I traditori superbi

La guardia dei giganti Ma lievemente al fondo che divora Lucifero con Giuda, ci sposò: né, sì chinato, lì fece dimora; e come albero in nave si levò.1

Una fiorettatura di giuoco, questo tema che chiude il primo canto di Cocito: strana in quel fondo, fra quei torreggianti fantasmi, se non ci richiamasse uno e più spiccato dei tanti modi onde Dante reagisce all’orrore del mondo della morte instante, della materia bruta, d’ogni amore spento. E aveva introdotto il canto con un “concetto” certo meno sottile, come affisato non alla musica di un’immagine ma a una misura di rapporto, intellettualmente giustificato, eppure altrettanto rivelatore: Una medesma lingua pria mi morse, sì che mi tinse l’una e l’altra guancia, e poi la medicina mi riporse; così od’io che soleva la lancia d’Achille e del suo padre esser cagione prima di trista e poi di buona mancia.2

La sua fantasia è ora attenta alle reazioni pronte e ingiustificate, e a sottrarsi con una baldanza improvvisa all’incubo che lo circonda: con strappi e rapidi voli e un’inquietudine estrema; finché almeno non insista tutta e indaghi e si redima nel gran canto di Conte Ugolino. Strutturalmente il nono cerchio dovrebbe raccogliere il riassunto d’Inferno: lì «pontan tutte l’altre rocce»; lì discendono a gelare nella ghiacciaia immane di sotterra tutti i peccati, l’acque d’Inferno stillate dal Veglio di Creta: lì è il trono sommerso dell’imperator del doloroso regno: lì sospingevano il cammino del poeta l’una e l’altra e la terza bestia, al dominio dell’invidia e della superbia senza più norma che di sé, senza legame, senza un barlume d’amore. Ma, strutturalmente ancora, l’attesa di quel capovolgimento rituale e geofisico che avviene al centro della terra, quando, dopo esser discesi lungo le coste vellose di Lucifero, i due poeti ricominciano a salire, e poi l’evasione, lungo la «natural burella», verso la spiaggia del Purgatorio, dispongono all’atto del finale sottrarsi al fascino della Lupa, che aveva accompagnato il moto e il precipizio sin qui: il cammino della redenzione prosegue 107

ancora nella stessa direzione: un cammino ritroso; ma la meta è certa, e l’attesa può essere improvvisamente, imprevedutamente, confidente, e come fiduciosa non senz’ira. Il miracolo e il prodigio è ad ogni istante, ora, aperto. Dove poi la psicologia del poeta cessa di confinar con il suo stesso indagare sopra problemi di struttura, deducendo notizia da notizia, e intessendone il racconto, e confina invece con la coscienza dell’arte, accade una reazione più sottile: questo che qui si narra è il mondo della materia torpida e bruta, il mondo della realtà inerte, il mondo che col suo peso soverchia ogni spinta verso il cielo aperto, ogni volo nel sole, ogni libero camminare nell’aura viva; ma se Dante s’era servito altra volta di «rime aspre e chiocce», difficili a serrar da vicino una materia ardua e ribelle, adesso tende a sottrarsi al suo stesso dominio sulla materia, quasi che questa, come al tempo delle rime della Pietra, non l’incateni. Dante si riscatta con soprassalti violenti dalle suggestioni della materia bruta; e quasi con disperazione confessata fa tragedia della pietà filiale nella storia dell’agonia di Ugolino, per liberarsi in ogni modo dalla suggestione di quel regno di morte. E ancora, scendendo più fondo, la disperazione che lo tiene e che l’agghiaccia, e cui si sottrae ora imprecando ora imperversando, gli vale a salvarsi dalla suggestione ultima di quella città infernale, nella sua zona più profonda: la malìa delle anime della Tolomea, dove pur l’anima cade prima di morire; e la sorte dei traditori sepolti nel ghiaccio che traspaiono come festuche in vetro. Né qui ha luogo l’applicazione della sua poetica del visibile: qui, dove il soverchiare della materia non consente quel trarsi un tratto in disparte, quel guardare intentamente, ma di fuori, con riposato animo, le cose: qui egli è in fuga. È l’aula di Lucifero, questa; e la guardia dei giganti s’annuncia dentro quel tenebrore indistinto con un suon di corno; poi appaiono le vive torri. Anche Virgilio adotta doppia misura nel suo comportamento pedagogico: prima raccomanda che rifletta e che s’affretti (era stato il suo primo moto, sulle rive d’Acheronte, quando Dante aveva dovuto abbassar gli occhi, vergognandosi, gonfi di lacrime); ma subito lo prende per mano, caramente, che non abbia a spaventarsi troppo, poi. S’attacca ad un’immagine staccata, quella di Montereggioni, e subito la trascura, via via che cresce il suo timore, bucando quell’aura grossa: s’affaccia ad un ricordo mitologico, troppo attuale per consolarlo, li orribili giganti, cui minaccia Giove del cielo ancora quando tuona,3

e poi sottilizza sulla natura benigna, che ha smesso l’arte di siffatti animali. Scherzi grotteschi, anche queste riflessioni di «chi guarda sottilmente», fatte mentre il personaggio di prima persona è preso d’immensa paura: scherzo quell’altro della faccia di Nembrotte che richiama al pellegrino una memoria di viaggio, la pina di San Pietro a Roma (il ricordo è circostanziato: da guida turistica), con un sapore ironico, subito prima di introdurre il ricordo di Babele e dei diversi linguaggi: scherzi le allocuzioni di Virgilio, quella baldanzosa e violenta contro Nembrotte, quella cauta e accorta per persuadere Anteo. I modi della violenza grottesca sono prammatici, quando si tratta di diavoli o di demoniaci custodi dei 108

cerchi: qui ai giganti s’approssima Lucifero, che con la sua gran mole sovrasta da lontano. E se Lucifero torreggia, anche il ricordo delle gesta gigantesche s’allontana in una distanza ironica: le braccia ch’el menò, già mai non move:4

Fialte; e quella superbia, che si rovescia su se stessa quando più s’adopera contro il Creatore, è derisa fin nel motivo della paura del visitator pellegrino: e non v’era mestier più che la dotta, s’io non avessi viste le ritorte.5

E «non ci far ire a Tizio né a Tifo»: il canto, corrivo, si chiude con la terzina citata in principio e con la similitudine della Garisenda: un giro turistico, in gruppo; e poi una prova di volo.

I traditori Simili modi di un discorso corrente tengono l’inizio del canto XXXII, finché non appaiono i dannati: il preludio d’arte, famoso, sulle rime aspre e chiocce, che par concludere le ricerche tecniche per tanti anni seguite sulle rime rare, l’invocazione alle Muse, proprio nel luogo delle più violente disarmonie, la ripresa del bestiario grottesco, caro alla bolgia dei barattieri, con la similitudine della rana, delicatissima (un’evasione idillica la rincalza: E come a gracidar si sta la rana col muso fuor de l’acqua, quando sogna di spigolar sovente la villana);6

il poeta pare che voglia indugiare di proposito l’argomento del canto, che è l’odio dei fratelli contro i fratelli: il lamento vano di Alessandro e Napoleone degli Alberti ha suonato ipocritamente nella Caina, e prima di chinarsi su di loro si guarda attorno e descrive, s’allontana, ritorna in cerchio; e il tremendum di quel vedere lo muove ad ira che pare impersonarsi con i due assassini fratelli, uccisore l’uno dell’altro, e vietare a loro di più vedere, per esser costretto lui a mirare tanto strazio: la spranga suggella le occhiaie e i fratricidi cozzano come caproni. Allora sorge, a riprendere e portare ad insistenza molesta e perduta il tema delle denunce infernali fra i compagni di pena, quel ciarliero Camicion de’ Pazzi che percorre tanto tratto, dalla leggenda di Artù alle cronache dei Bianchi e dei Neri. Il gesto del calpestare, che era rimasto sospeso sulla testa degli Alberti, adesso finalmente calca con ira, percuote il volto di Bocca degli Abati: il pellegrino si tramuta in persecutore; e nell’ombra che sovrasta pur la sua mente, in quella tremenda vigilia d’orrore, non esclude la deliberata volontà:

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se voler fu o destino o fortuna, non so…7

Bisogna che da quel tormento pur esca con un gesto violento: tale il senso dell’episodio di Bocca posto al castigo, se pur sappiamo leggere una differenza fra Dante narratore e Dante personaggio,8 e intendere che la vendetta di Montaperti non basta alla sua ira. Allora anche Bocca, come prima il Camicione, si fa spia dell’altrui infamia e rovescia il rosario dei traditori politici: Buoso da Dovara, Tesauro di Beccheria, Gianni del Soldaniere, Gano di Maganza, Tebaldello dei Zambrasi. Il corteggio che prelude all’episodio orrendo di Conte Ugolino si ricompone; ma la sosta, prima di quel prorompere del soliloquio immortale, è ancora affidata alla vecchia maniera, all’atto del vedere, preludio di ogni altra riflessione sì che l’un capo a l’altro era cappello,9

con la consueta stilizzazione surrealistica; e: come ’l pan per fame si manduca.10

Una sosta ancora, nel ricordo illustre del mito di Tideo e di Menalippo (la mitologia tebana e la tematica orrorosa di Stazio avranno una ripresa nell’invettiva contro la novella Tebe, Pisa); poi l’allocuzione, prima sempre riservata a Virgilio, tocca a Dante, stavolta: ché con l’orrore ha raggiunto la vetta della sua dignità atterrita.

Il canto di Conte Ugolino Anche nell’episodio di Conte Ugolino il vertice dell’altissima poesia è raggiunto per una strada sola: librarsi nella libertà fantastica dell’invenzione della verità, contraddicendo senza negarle le premesse strutturali del discorso; e noi la comprendiamo per più strade: percorrendo ad una ad una quelle stesse premesse e osservandole nel loro arrestarsi e quanto, pure contraddette, operino come un commento del controcanto nella suggestione dell’immagine. I temi più lungamente perseguiti sino su questo fondo d’inferno sono la superbia che isola il ribelle nella sua stessa forma disperata e proterva, l’abbandono di ogni consorzio di natura e di civiltà, una volontà che fa di se stessa tomba all’uomo, la guerra e l’odio di ognuno contro tutti; e tema anche più costante, ma toccato di rado, quasi che troppo spauri, la morte; e sono note tenute anche nel canto della fame (ogni parola vi si accende: «pasto»; «rinnovellato»; «disperato dolore»; «parlare e lacrimare»; «io non so chi tu sia»; «tal vicino»; «morte cruda»; «pertugio»; «muda»; «forame»; «senza far motto» e così via, scandendo il racconto): e quanto a creare il mondo e a trasfigurarlo arde il caldo d’amore, di tanto la ghiacciaia d’inferno rinserra nel limite di una gelidissima tomba la persona; quanto più son concordi l’anime 110

vivendo in vita del dono di Dio, tanto più sono qui disperatamente sole, e si rovesciano in un odio distruggitore. Pur fattosi esecutore di giustizia contro il dannato arcivescovo, il Conte preme e sforza in una direzione: la passione della morte dei figli; che è tema ancora implicito nelle indicazioni gnomiche e parenetiche della struttura, se il rifiuto della paternità di Dio è il primo peccato dell’uomo; ma qui detto in una sfera così tragicamente attonita e dolente che sembra che il mondo ricominci nel dolore, che per la prima volta un padre assista alla morte dei figli. Sull’agonia degli innocenti aleggia il sacrificio e sulla disperazione del padre non si schiude nessuna alba di redenzione; ma sullo strazio l’anima del poeta si risolleva e si riscatta: solitario può alzarsi nella condanna della città proterva e raccogliere la ricchezza perduta di quella pietà umana. Né la disperazione di Ugolino né la pietà di Dante eliminano la giustizia di quella condanna: così né l’abbandono alla passione né la compassione dell’anima amorosa del poeta cancellavano la sentenza di Francesca. Noi non leggeremo punto per punto il canto: alla lettura ci sembra avere offerta una chiave: quasi che apra le porte della libertà del fantasticare; e che di qui cominci l’ambizione rinascimentale dell’arte «che tutto può» obbediente a sé sola. Dei due temi salienti, il tema della morte è stato abbastanza indagato, del resto: tragedia elisabettiana d’orrori, a cominciar dal gesto atroce del vendicatore antropofago (l’Inferno che “divora”: era una metafora corrente; ma non bastava lo strazio di Giuda e di Bruto e di Cassio: occorreva una attualità più immediata di passione), sino a quel prolungarsi in penombra del tema, a quel capovolto abnorme, assurdo, eppure sempre presente, suggerimento registico, che la tragedia finisca con il Conte che divora i suoi figli:11 la storia del Pellicano sacro rovesciata, appunto, e un capovolgimento perverso che poteva ben piacere al decadentismo romantico: divorare i figli che non ha potuto salvare. Anche tragedia in atto, tragedia rappresentata è, dopo il preludio del lume di luna per il forame della muda, il sogno che squarcia il velame del futuro, il rumore dell’uscio chiavato, lo sguardo muto che corre dall’uno all’altro dei personaggi, il gesto delle mani morse, e la morte ad uno ad uno dei figli e dei nipoti, e il brancolar cieco e il pianto del richiamo e la morte di strazio. L’altro tema, il tema dell’amor paterno, merita forse qualche altra attenzione, dacché si lega, nella sua naturalità primitiva e irriflessiva, a un sopravvivere di umanità pur nel fondo del male, e condiziona eticamente la liberazione della poesia. Zingarelli parla del lupo delle favole, stolido e feroce, a proposito della caccia selvaggia su pel Monte Pisano; ed altro appiglio, questo con la storia e con la politica, è delle «cagne magre, studiose e conte», delle cagne ghibelline, Gualandi Sismondi e Lanfranchi, addosso al vecchio lupo guelfo.12 Nell’orrore del dramma la fantasia trascorre presto oltre questi appigli; e resta il sentimento elementare e primitivo del vecchio uomo di parte, selvaggio e violento e bestiale, ma naturalmente legato a quella legge di una comune sorte e di una sua difesa per tutti. Destandosi, nello strazio delle zanne acute che fendono i fianchi del lupo e dei lupicini, prima che sia giorno, ascolta nel sonno piangere i figlioli: e dimandar del pane. L’istinto primitivo, di provvedere il pane ai figli, ha il suo primo accento; e il superbo feudatario della Maremma, che si poteva riconoscere eroe della caccia selvaggia, è qui ridotto ad una povera condizione squallida, ad una miseria ingua111

ribile, a non poter sfamare i figli. Egli tace, ma parlano i figli; e trovano, nel loro dolore, la redenzione del loro male e il riscatto del loro amore. Prima è Anselmuccio, «Anselmuccio mio», dice: «Tu guardi sì, padre: che hai?», di contro all’orrore muto di Ugolino invoca la pietà di una confessione. Ma il padre tace, e ingoia le lagrime e attende un altro giorno intiero. (Quel dolente strascicarsi dell’ore, il lento apparire e sparire della luce: sottolineature registiche anch’esse, ma scandono il vero dramma, che è l’abisso della disperazione paterna.) Quando un poco di luce albeggia nel doloroso carcere e io scorsi per quattro visi il mio aspetto stesso13

proprio nel punto che si rivela loro la comun sorte, l’equilibrio teso e straziante di quell’attesa è rotto: Ugolino, ancor muto, prorompe nell’ira, «ambo le mani per dolor mi morsi»: non per fame, ma per impulso di autodistruggersi, col gesto dell’altro iracondo Filippo Argenti, per quel rovesciarsi in odio, odio contro di sé, dell’amore contraddetto ed offeso. Il coro giovinetto prende abbaglio al gesto, «pensando ch’i’l fessi per voglia / di manicar», e sorge in piedi e intona l’offerta sacrificale: chi ha dato loro la vita, ecco la riprenda: tu ne vestisti queste misere carni e tu le spoglia.14

Il punto culminante della tragedia, anche della tragedia come stesura ritmica, come connessura di tempi suggestivi nel loro alternarsi, è questo; che ancora una volta spiega come i lettori romantici, avvezzi alle tragedie d’orrori, o propensi, deducessero di qui la notizia del banchetto infame. Da allora in poi padre e figli sono divisi: perché in loro, inconsapevolmente crudeli, l’offerta è valsa alla liberazione, e alla morte scendono volonterosi; ma nel vecchio l’offerta vale di condanna per non essere fino all’ultimo padrone di quella loro vita, per non poter conservare quello che ha dato. Il lamento di Giobbe sui figli morti, Deus dedit, Deus abstulit, qui è sommesso e sottinteso nel contrappunto di quel silenzio tremendo e pesante, dopo il gesto selvaggio: egli è superbo della vita che ha dato loro; ma il non poterla mantenere avvelena e corrompe quella superbia, la storce in ira; e l’empito amoroso della paternità diventa amaro corruccio; se aveva donato, ora si rattrappisce in sé medesimo: tace, e vorrebbe che la terra si aprisse sotto di lui, che lo ingoiasse finalmente in quel baratro infernale dove gli toccherà pure discendere. Può parlare e piangere e chiamare solo quando son morti, uscito da quella prigione altera in cui s’era chiuso, per non aver voluto ammettere che egli era un trasmettitore, non datore di vita, per non aver saputo far dono anche di quella vita data per lui, non da lui, per non offrire quello che non è nostro, ma che abbiamo in consegna, quelle carni che ha «vestito» (un gesto materno). Poi muore lui pure, muore di digiuno perché di dolore non si muore. E con il mastro della caccia selvaggia si fa cane: «riprese il teschio misero co’ denti / che furo all’osso, come d’un can, forti».15 112

Le maledizioni La pena è ancora una volta, come per Francesca e per un attimo, sospesa; ma non barlume di preghiera alita in questa ira sozza: Ugolino torna alla catena della sua vendetta; ma si libera il poeta. Croscia l’invettiva di Pisa, nel cataclisma tellurico che assiepa l’isole dell’arcipelago alle foci dell’Arno, e fa annegare tutti, ogni persona, vecchi e giovani, colpevoli e innocenti (rimproverare al poeta l’errore della stessa gente pisana, di trascinar nel malanno il reo e i consorti, non vale: qui siamo veramente in una catena d’orrori, e libertà non si può avere che discendendo sempre più fondo nella stagione d’inferno). Anche lo scherno e il tradimento della promessa fallace vibra il poeta contro i dannati, fattosi con loro frodolento, cortese per esser villano con quell’Alberigo dei Manfredi, frate godente, «che qui riprende dattero per figo»,16 vivo ancora nel mondo. Vivo come Branca d’Oria che non morì unquanche e mangia e bee e dorme e veste panni17

e che nell’inferno canta il canto dell’eterna Primavera, verna dietro frate Alberigo. Allora è il momento, scelto a caso, che anche i genovesi debbano essere dannati e spersi nel mondo.

Disperazione e scampo Chiude il canto trigesimoterzo la disperazione con cui Dante interviene a salvarsi dalla suggestione di quella città perduta; e l’orrore dei morti vivi come preludio alla vita. L’ultimo canto è soverchiato dalla figura di Lucifero (ali, volto, zampe capovolte nell’abisso, da quando lo vedono mostruosamente veleggiare immobile nella ghiacciaia a quando lo mirano dall’alto, nella picciola spera che l’altra faccia fa della Giudecca, evasi: dal canto processionale della Trinità inferna, Vexilla regis prodeunt inferni, a quel respiro che si dilata incontenibile all’uscir dal cammino ascoso e ritornar nel chiaro mondo): il riassunto di tutti i mali d’inferno è là, in quella montagna di materia torpida, la fonte di tutto il pianto del mondo è là, in quel gigante che piange con sei occhi, grottescamente, la suggestione precipite delle tre Bestie si spenge in quelle tre Facce, la superbia negatrice di Farinata si addormenta gelida e tetra in quel mostro che «da mezzo il petto uscia fuor della ghiaccia»,18 la monotonia dei tormenti infernali, eterni, si ripete nel gesto monotono con cui dirompe coi denti, a guisa di maciulla, un peccatore, nel gesto distratto con cui graffia il dorso di Giuda e talvolta lo scortica. Se ne distaccano con un caro richiamo al cielo: Ma la notte risurge e ormai è da partir, ché tutto avem veduto.19

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Detto di fretta, quasi di rincorsa. E di contro al mondo dello spirito angelico fatto materia bruta, ecco la terra, già penetrati nell’emisfero australe, s’anima e sussulta. Fin qui la terra infernale specchiava la disperazione inorridita che la percorse alla morte «dell’uom che nacque e visse senza pecca»; ma ormai, entrando nell’emisfero del Purgatorio, la terra partecipa più animatamente alle vicende spirituali; e forse si ritrasse dal contatto di Lucifero, e s’innalzò nel monte del Purgatorio. Consumano il viaggio in silenzio, soccorsi da quel ruscelletto che discende in basso e fa cammino contrario. Han lasciato nella terra da cui sono fuggiti la sera, ma è mattino, nel nuovo emisfero. S’alzano e per un pertugio tondo vedono le cose belle del cielo.

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If XXXI, 142-145. If XXXI, 1-6. 3 If XXXI, 44-45. 4 If XXXI, 96. 5 If XXXI, 110-111. 6 If XXXII, 32-34. 7 If XXXII, 76-77. 8 Cfr. PORENA, D. personaggio e D. narratore, postilla al XXIII dell’If nel Commento, cit.; e il debito dichiarato a Francesco D’Ovidio: si tratta, evidentemente, di una dualità provvisoria, utile a provveder la lettura; l’oggettivazione nemica di sé fa parte di uno stesso processo del prender coscienza di cui pure la proiezione narrativa, l’atteggiarsi a narrare offrendo tutte le garanzie di una realizzazione veridica. 9 If XXXII, 126. 10 If XXXII, 127. 11 F. D’OVIDIO, Le ultime parole di Ugolino, nel vol. Ugolino ecc., Milano 1907. E ancora R. ORTIZ, Banchetti tragici nelle letterature romanze, Genova 1947. Un’ultima postilla strutturale: il tema del «buon» Marzucco degli Scornigiani, che perdonò l’uccisore del figliuol suo: il traditore Ugolino. 12 La vita ecc., p. 265. 13 If XXXIII, 56-57. 14 If XXXIII, 62-63. 15 If XXXIII, 77-78. 16 If XXXIII, 120. 17 If XXXIII, 140-141. 18 If XXXIV, 29. 19 If XXXIV, 68-69. 20 If XXXIV, 115. 2

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Prologo al “Purgatorio”

«Per correr miglior acque» Di qui comincia un immaginare più pieghevole alle cose umane e più docile al mutevole fluire dei sentimenti: di qui, fra il regno d’Inferno trascorso, che è delle parole che si fanno pietra e immobile misura, della storia che s’arresta, della volontà irrigidita nell’atto, come l’uomo in cosa, e il regno del Paradiso atteso, che è dell’officiatura liturgica e dell’intelligenza ordinata in sistema, scansione di uno spazio prestabilito, prima che da seimila miglia lontano il mondo degli uomini si riaffacci nella specie eterna del suo volto verace. «Per correr miglior acque»: il tono della illustre metafora è dimesso, come semplice l’atto che innalza la vela; ma non vorremmo assistere a una perpetua variazione tonale, degradando dal terzo di quanto s’innalza sul primo scalino: sia perché altrettanta storia e gloria compete alla cantica seconda, dopo che la cantica prima fissò per sempre il modulo del forte immaginare e il canone poetico della evidenza (le luci crepuscolari della narrativa tarda vennero di qui, e le penombre musicali della poetica del pittoresco; e il costume romantico se n’avvalse, come sarà da vedere studiando la storia di quella fortuna immensa, di quel tesoro nascosto a poco a poco scoperto); sia perché l’immagine purgatoriale del viaggio è nella mente del poeta altrettanto attiva che l’immagine infernale della città. Quei modi che poi la storia della fortuna registra come se fossero astrattamente scoperti, li incontri perché fan parte della vita intrinseca della immagine primordiale del Purgatorio: modulazioni di un tema unitario, necessarie alla sua intera efficacia, non già indagini tecniche ed astratte, nell’illusione che il lavoro dell’officina poetica dia risultato anche se perseguito all’infuori della concretezza individuata della vita che si guadagna.1

La struttura del monte Ne viene il senso d’attesa, la verità dei crepuscoli commossi, la fatica dell’andare consolata dalla meta certa, il fiducioso abbandonarsi allo spazio dopo che s’è, partendo, affidato alla Provvidenza. Molte riflessioni premeditate parranno faticose, a paragone di così lieve disporsi: tale la legge dell’immobilità notturna o del cammino che si allevia salendo; e la stessa più povera architettura esterna, quel monte diviso in tre regioni, dove l’abisso d’inferno sprofonda in infinite voragini; e le cornici troppo razionalmente distinte; e la superficiale cura che il monte del Purgatorio sia una riproduzione in rilievo dell’Abisso. Forse il poeta 115

ormai ha fissato per sempre, e accettato per primo, il canone intellettualistico e fiorentino delle dimensioni esatte, la traduzione matematica dell’invenzione poetica, e si è preoccupato di una costruzione calcolata, dopo aver scherzato con numeri e misure fra Mastro Adamo e i Giganti: anche per avvicinarsi alla perfezione aritmetica di quel mondo siderale di cui il Purgatorio è il prologo terrestre. Ma a contrasto con tanta minuzia volonterosa, l’ambiente fisico, la configurazione terrestre, pesa, nella suggestione poetica e persino psicologica dell’atmosfera, meno che il paesaggio infernale, specialmente quello dei primi canti, che urgeva e determinava la misura e il colorito sinfonico dell’episodio, che modulava il quadro. Quel monte non appartiene già in eterno alle anime come quell’abisso: il distacco consente a sua volta e concorre a giustificare il fatto che il paesaggio spirituale non concorda se non talvolta nei primi tempi ed accordi, i più spaziosi della vita del monte, con il paesaggio naturale: la piaggia, la costa scoscesa, i balzi, rimangono assorti e immobili, mentre le anime sono in moto di così vaga metamorfosi: anche quadri preziosamente miniati, la Valletta dei Principi, o immobilmente musivi, nella rappresentazione prodigiosa di una natura trascorsa dal fremito della creazione, animata dall’eterno volere di Dio, come il Paradiso Terrestre, obbediscono ad altro intento che i paesaggi-stati d’animo cui le anime trepidando si consegnano. E per dir anche di questi in cifra e in riassunto, la loro verità poetica è all’incontro di una disposizione d’animo, di pellegrini che si guadagnano soffrendo la meta santa, di spiriti finalmente esuli dalla carne, di desiosi rammemoranti, ora come un incubo, ora come uno specchio, la vita trascorsa, con la determinazione psicologica fondamentale che tiene Dante, d’essere in viaggio e di guadagnarsi lui pure, faticando su su per innumerevoli infinite erte, il riposo. Punto d’incontro fra il monte dell’attesa e l’animazione dell’asceta quando quell’inerzia tumultua nel Gloria che scuote la montagna al liberarsi di un’anima.2

Il ricordo d’inferno Anche riecheggia il tremore del ricordo infernale: perché inferno era, nell’atto del peccare, la condizione stessa della vita umana. «Orribil furon li peccati miei»:3 questa battuta di Manfredi si può dire di tutti. Ma noi, leggendo, siamo tratti piuttosto a sottolineare il vago e il velleitario: e vederai color che son contenti nel foco, perché speran di venire quando che sia a le beate genti.4

Per certa disposizione conciliante ed ottimista del nostro costume religioso intendiamo il dono gratuito più che l’agonia del combattimento. Fuggendo dal peccato, come i morti di morte violenta dall’incubo e dallo strazio della loro fine, nel bellissimo canto quinto, le anime portan seco un irrefrenabile tremore, l’angoscia del ricordo sopravveniente, il ricordo appunto d’inferno. Ecco fino 116

a che punto l’Inferno, come struttura e come poesia, grava sulle immagini del Purgatorio: non si tratta già d’un’equazione, né di un capovolgimento: un cono diritto, alto sino al ciuffo di selva frondente, anziché un cono rovesciato, precipitoso sino al lago ghiacciato. È una fuga, quella del Purgatorio, da un incubo forte quanto qualsiasi realtà (che è quanto si compete al canone della visione, che le cose viste siano altrettanto autentiche di quelle più circostanziatamente sperimentate); e se l’Inferno è l’ipostasi della città degli uomini, il Purgatorio è il viaggio da quella città, l’esilio alla ricerca di una più vera patria, la fuga, anche, da una minaccia bestiale e paurosa («l’una parte e l’altra avranno fame / di te; ma lunge fia dal becco l’erba») di non so che malvagio uccello. Approssimazioni successive, codeste: ché la più autentica esperienza dantesca è nell’acquisto di modi e di temi fatto dal poeta poetando e di questa esperienza si vale: e il senso del moto non si può avere che da un appoggio ben fermo; e la poesia delle trasfigurazioni e delle attese non può muovere che da immagini guadagnate martellando la materia, e da persone costrette nella fissità monumentale, ma carceraria, di un ritratto drammatico. Il senso del limite e della cosa, che era l’acquisto più importante della poetica dantesca nell’Inferno, rimane come premessa di quasi ogni canto del Purgatorio: dove la situazione della pena e delle persone presuppone sempre una notizia in termini “infernali” secondo lo stile là scoperto; dove il giuoco delle parole e della musica è impostato sul sistema delle “variazioni” ad un tema là ritrovato. Ne vedremo, leggendo, esempi ad ogni passo: e occorre notare, preliminarmente, che le rispondenze strutturali (la piaggia tra la Selva selvaggia e il Colle trova una rispondenza nella piaggia marina del Monte; e, per dir delle più salienti, l’ordine delle pene del Purgatorio capovolge l’ordine delle pene infernali, gli agghiacciati di Cocito, impietrati nella loro superbia, quasi congiungendosi, per un cammino inverso, ai superbi gravati sotto i petroni della prima cornice, fino ai lussuriosi che cantano nella zona più alta, nel volo di una fiamma alata) o addirittura numeriche (le corrispondenze fra il canto di Sordello e il canto di Ciacco, fra il canto di Niccolò papa Orsini e il canto di Adriano papa Fieschi, fra Ulisse e Guido Guinicelli e così via: VI e VI; XIX e XIX; XXVI e XXVI). Ma le indicazioni più convincenti non le danno i numeri, te le dà la poesia; e fin dal primo canto hai l’indicazione esatta di questo procedere da una premessa tematica e, variando, allontanarla e portarla a un nuovo senso: tosto che io usci’ fuor de l’aura morta…

è richiamo al viaggio d’inferno e alla sua pena: «che m’avea contristati gli occhi e ’l petto»; ma leggi come se n’allontana.5 E quel lume del «bel pianeta che ad amar conforta» e quella sua luce che dilaga in così vasto viaggio e vela le stelle che con lui vanno, e i raggi delle quattro luci sante, le fiammelle di cui gode il cielo, che fregiano e illuminano come sole la faccia di Catone (l’allegoria, in questo caso, è un accorrere con dovizia di doni, dopo il dono dell’immagine). E infine, prima ancora che il ritratto di Catone si compia, l’introduzione al rito dell’umiltà, quel visibile impicciolirsi dell’isola, «questa isoletta intorno ad imo ad imo, / là giù, colà dove la batte l’onda»,6 e il canto dell’alba, e lo spazio aper117

to al soffio dell’aura, e il cammino per il piano solingo. Nei paesaggi d’Inferno ogni particolare era martellato e addensato in una misura esatta, irremovibile: quando se ne rammenta, nel canto degli Iracondi, ancora il verso insiste e circoscrive. «Buio d’inferno, e di notte privata / d’ogni pianeta, sotto pover cielo»:7 qui il quadro è pretesto a uno slancio diffuso, l’atmosfera è percorsa dalla contemplazione commossa, l’anima è in viaggio a quella marina che trema lontana, nell’attesa della nuova alba, ed all’apparizione angelica. E un parallelo più preciso offra Catone, che nel suo stile figurativo ha pur qualche accenno alla maniera del Veglio di Creta; e che di quanto quello si contrista nel peso della sua materia e goccia lacrime, d’altrettanto sé esalta nella nobile aspirazione al cielo: persin verboso, nel fiume dell’eloquenza, di quanto la statua simbolica si aggrava e tace. E vedi in Virgilio non solo, di fronte all’anime salve, la titubanza della ragione umana sommersa in quel regno della Grazia; ma soprattutto una fase nuova di quel personaggio, passato dal risoluto giudicare ad uno stupore già pieno di fiducioso abbandono: una fase crepuscolare, che qui s’inizia, dal frettoloso, affannoso rendiconto a Catone: Mostrata ho lui tutta la gente ria; e ora intendo mostrar quelli spirti che purgan di sé sotto la tua balia. Com’io l’ho tratto, saria lungo a dirti…8

al lento sospeso cammino che risponde alla domanda muta di Dante: Noi andavam per lo solingo piano com’om che torna a la perduta strada, che ’nfino ad essa li pare ire invano.9

«Li pare»; ma nei doni della Provvidenza è che anche quella via perduta dia frutto.

1 Numerosi riscontri aduna il Tommaseo: «La miglior acqua e canterò e la poesia risorge, rammenta quel di Virgilio: Sicelides Musae, paulo majora canamus; e l’altro: Nunc, veneranda Pales, magno nunc ore sonandum che è più parco di quello di Stazio: Non mihi jam solito vatum de more canendum: Major ab Aoniis sumenda audacia lucis. Mecum omnes audete Deae. Ma il risurgere e il surga ancor più direttamente rammentano quel de’ Salmi: Cantabo et psalmum dicam. Exurge gloria mea, exurge psalterium et cithara, exurgam diluculo…». Ed altri non puntualissimi; ma la proposta critica più attendibile resta quell’«ancor più direttamente»; e forse non solo per affetto attribuisce a Dante la lettura dell’Odi di Orazio: «Il principio di questo Canto ci fa ben certi che Dante conosceva d’Orazio non solo le satire, ma le odi altresì. Nell’ode che invoca Calliope sono i versi: Vester, Camoenae, vester in arduos Tollor Sabinos, a che corrisponde: O Sante Muse, poi che vostro sono». Ma la lettura del Purgatorio toccò a De Sanctis caratterizzarla in lineamenti indimenticabili, valendosi di quella lettura frammentaria ed episodica, ma attiva, con cui il secondo romanticismo rievoca crepuscolarmente persone

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e paesi: «Chi vuole ora concepire il Purgatorio, si metta in quella età della vita che le passioni si scoloriscono, e l’esperienza e il disinganno tolgono le illusioni, e, scemata la parte attiva e personale, l’uomo si sente generalizzare, si sente più come genere che come individuo. Spettatore più che attore… L’anima non appartiene più alla carne, ma l’ha avuta una volta sua padrona, e se ne ricorda…». E su questo punto cominciò a lavorare la critica moderna: Croce stesso e la polemica intorno a La poesia di Dante: «Questo coincidere e armonizzare di tutti gli spiriti espianti in uno stato d’animo comune doveva andare di pari passo coll’affievolimento della personalità storica di quelle anime». Cfr. S. BREGLIA, Poesia e struttura nella DC, Genova 1934, p. 147. Si proiettarono su tutto il Purgatorio i risultati della lettura dell’Antipurgatorio. E anche per diretta suggestione della letteratura intimistica che da quel secondo romanticismo deriva si giunge alla lettura esemplare del Momigliano. 2 Ci veniamo così distaccando dalla seduzione di una ricerca che accompagni il poeta dall’esterno della struttura verso l’interiore della fantasia e l’intimo dell’anima: ma occorre fare un passo che tuttora parrà arduo alle più corrive riflessioni sulla poetica, e non contentarsi nemmeno di riferire il tono del Purgatorio a una disposizione d’animo più matura, o almeno più rassegnata; invano applicando un canone di lettura psicologica e romantica alla troppo rigorosa equazione foscoliana di storia e di poesia: dico di Momigliano, sopra De Sanctis: «Di una differenza voluta dalla materia, ma favorita dal mutato atteggiamento di Dante di fronte alla vita sua e del mondo» (Commento, cit., al c. I). 3 Pg III, 121. 4 If I, 118-120. 5 Pg I, 13-27. 6 Pg I, 100-101. 7 Pg XVI, 1-2. 8 Pg I, 64-67. 9 Pg I, 118-120.

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Ritratti

Arte nuova del ritratto… L’Antipurgatorio ha offerto una prima chiave ad una lettura tematica, che indagasse la poeticità delle strutture dantesche: per più d’una opportunità, che ritroveremo via via scorrendone i motivi (e prima di tutto per un’evidente simpatia fra il crepuscolarismo di tanta letteratura e di tanta critica contemporanea, e i modi dell’arte dantesca in questi canti del preludio; è nel costume degli Italiani d’oggi, per un’eredità che conta cinquant’anni, aprirsi a spirituali doni conciliati ed esatti dall’effusione sentimentale; non più gratuita, forse, ma guadagnata «da una lagrimetta»: non più superba, alla Rousseau, ma semplicetta, alla Pascoli, nell’offerta dimessa di una sofferenza, piccola o grande). Quel moltissimo che nella vita d’Italia è legato alla poetica di Dante impone quest’altra considerazione: che il linguaggio ora si polarizza nella poetica dell’inferno, ora nella poetica dell’Antipurgatorio; dopo avere squadrato, nella prima cantica, figure costrette nel limite del loro destino irrevocabile, la poesia della Commedia si volge a notazioni di moto, coglie il segreto dell’anima nel suo divenire, si vale di suggestioni più sottili, per dir della verità dei nuovi incontri; così oscilliamo fra l’immaginar corposo e la sentimentalità crepuscolare. I personaggi dell’Antipurgatorio sono emblemi popolarissimi, mentre dura la fortuna dello stile icastico del realismo dialettale: Casella, o delle trasfigurazioni della musica; Manfredi, o dei crepuscoli della grandezza; e la condiscendente ironia di Belacqua, nel suo confidente lassismo, nella superiore saggezza della sua inerzia; figure e miti ripetuti sotto diversissime forme: oggi certo fra i più ricordati e cari, quando pur non ritornano con la confessione manifesta di un nome; e la novella patetica della Pia, fra la canta del guerriero morto in battaglia, Buonconte, e il vate che disdegna i compromessi della politica contemporanea, Sordello.

… e del paesaggio Anche la struttura fisica, la naturalità topografica di quel mondo abitato, viene investita da una nuova forza trasfigurante: la mente mia, che prima era ristretta, lo ’ntento rallargò, sì come vaga, e diedi ’l viso mio incontro al poggio che ’nverso il ciel più alto si dislaga.1

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A maggior ragione, per quel canone costante che umanisticamente chiama l’uomo, il personaggio, l’ipotiposi terrena dell’anima ad illuminare la vicenda di ognuno, l’animazione di Dante persona del suo dramma investe tutti gli altri personaggi; e la vita d’attesa si riflette sulla situazione, essendo tutte quelle anime in moto, mentre vanno alla ricerca di sé. Anime sospese, son colte quasi per classi contigue, osservate dalla zona tremenda e spaurita della vita infera, e poi, mentre approdano alla salvezza, la loro azione è sorpresa in atto; ma dove il gesto dei personaggi d’Inferno era un segno, una indicazione definitiva (il volo di Francesca, il procombere di Ciacco, l’ergersi di Farinata, il teschio di Beltrame del Bornio, alto come lanterna), qui il gesto è accennato, e subito trattenuto: Casella che si trae avanti e alla delusione di quel vano abbraccio sorride, Manfredi che mostra una piaga a sommo il petto, «poi sorridendo disse»; e il gesto di Belacqua, che muove lo sguardo «pur su per la coscia» li atti suoi pigri e le corte parole mosson le labbra mie un poco a riso.2

Un gesto ha pur sempre in sé qualcosa di comico; ma pur mantenendosi superiore di tanto ai dannati, Dante non può avere, in Inferno, la riserva ottimistica del riso (curioso, che dove propriamente si fondano le strutture e si ispira l’anima della commedia, non si sorrida; ma non accadeva quella trasvalutazione che è pur condizione necessaria del comico): può averla in questa condizione di una umanità intermedia, perché la guarda da un destino suo e loro di salvezza: «oh ben finiti, o già spiriti eletti…».3 Negli esempi indicati il sorriso accentua che gl’interlocutori stanno guadagnando una condizione d’intesa; e la premessa della condizione di intesa è che a Dante è stata promessa la via della salvezza, e agli spiriti è già aperta. La sua arte si sofferma ad annotare il passaggio dall’una all’altra zona, la sfera del gesto e la sfera dell’abbandono (nel Purgatorio penitenziale, dove questa modulazione non ha più ragione d’essere, il gesto è sorpreso un po’ dall’esterno, è la condizione stessa della pena; e l’incontro si celebra, quasi abbandonandolo giù in basso, dimenticandolo come transeunte, per affisarsi nelle cose o nelle ragioni eterne): anche qui, dunque, incontro di viaggio; e un arricchimento della conoscenza; e una intesa tanto più sottile che quella dei tanti incontri infernali, pur mirabili. Un solo ritratto, nell’Inferno, era stato condotto sogguardando da più lati la figura; ma era del personaggio cui il giuoco, sottilissimo, ma disinteressato, della notazione comica toglieva importanza e simpatia: Maestro Adamo: personaggio giullaresco, abbiam visto, e quasi prototipo del giuoco delle maschere atroci o grottesche dei falsari; qui le anime si disvelano in moti diversi e talvolta opposti (come Manfredi, dall’atto stranito delle prime avvisaglie alla premura della preghiera, perché Costanza sappia; come Buonconte in quell’«oh», con cui si sorprende alla svolta dei pensieri, quando forse indiscretamente Dante lo sospinge a far la cronaca della morte in battaglia; come Sordello nel divario fra l’impostatura solenne ed aulica del suo presentarsi «a guisa di leon quando si posa»4 e il proromper del gesto affettuoso al nome «Mantova»). Intanto, su di loro e intorno a loro trascolora il giorno. 122

Meno ha importanza quel che han fatto nel mondo di quel che sono: il Purgatorio si protende a Lete, come l’Inferno a Cocito; meno ha importanza quel che sono di quel che s’attendono: realtà, e quasi chiesa delle promesse. L’ipotiposi stupenda di questa condizione è Casella: del quale appunto pochissimo sappiamo, o se volete molto, ma non certo valutabile a peso d’importanza politica e storica e d’invadenza cittadinesca: l’amoroso canto che mi solea quetar tutte mie voglie…5

e la notizia: «Casella diede il suono».6 Il mondo e quasi la logica e la ragione si dileguano in quella misteriosa parola con cui Casella commenta in musica il programma umanistico e spiritualistico della canzone «Amor che ne la mente mi ragiona». In se stesso l’episodio è un “ritratto d’artista”, uno degli studi che Dante persegue più assiduamente nel Purgatorio: Sordello, Stazio, Bonagiunta, Guido, Arnaldo… E su questo tema dell’arte come mediatrice della spiritualità converrà tornare, facendo la storia della poetica. Da una parte si sottolineano le attenzioni strutturali: ché il bando della liberazione cristiana, l’indulgenza dell’anno secolare, è stato accolto anche nelle foci del Tevere, e l’angelo nocchiero, da tre mesi, raccoglie nella sua barca chi ha voluto intrar, con tutta pace.7

Ma quel non affrettarsi dell’anima è pur singolare:8 giunge all’approdo, quando un impulso lo sospinge, in tempo per essere all’isoletta l’alba della domenica di Resurrezione. La sua obbedienza alle ispirazioni naturali della vita ha la levità volante e commossa di Francesca, ma non gravata dal peso della passione: così incorporea, anche nella sua parvenza esterna, che Dante lo riconosce solo alla voce. E la prontezza del suo obbedire ché di giusto voler lo suo si face9

trae senso quasi più dal suo essere indifeso che dal riconoscimento ovvio, «veramente…», che in quel regno di grazia non può aver luogo l’ingiustizia. D’uno, dunque, che s’abbandona fiducioso di ritrovare, comunque, la sua verità e la sua pace. Ma nel suo trarsi in disparte, nella ingenuità schiva del suo comportarsi, nel pronto aprirsi della sua anima all’incanto di un’immagine ingenua, hai pure la riflessione di alcuni tratti per cui Dante persona si sentiva simile e diverso dal personaggio. Una notizia precisa, a questo proposito, non può che appesantire la lettura; ma come i batteriologi adoperano colorazioni violente per palesare gli organismi meno percettibili, se confronti l’atto del ritrarsi, in questo prologo del Purgatorio, con l’atto del ritrarsi, nel canto secondo dell’Inferno, «Io non Enea, io non Paolo sono», e l’atto «del venire io m’abbandono» con il pellegrinaggio dell’anima musicale, prima di giungere alle foci del Tevere, più volte, hai la misura di una distanza. Anche il mondo chiuso della Donna Gentile, se ripensi alla 123

canzone intonata, conteneva pure in sé un’aspirazione alla libertà cui Casella dava forma, ma meno avvertibile nei versi e nelle stanze equilibratissime, e in quel fermo discorrere, paragonato a questo aperto trascorrere. Qualcosa che non era stato detto apertamente nell’autobiografia poetica di Dante è dunque svelato dall’incantesimo di Casella.

Manfredi Nel canto Dante e Virgilio e le anime si dismemorano: sì che sopravviene Catone, non sai in quale anfratto nascosto, per tutto quel tempo, a rimproverarli. Alle anime basterà volare su verso la costa; ma Virgilio rimuginerà a lungo quel rimprovero e anche quando sarà scomparsa l’apparenza esterna della vergogna, «el mi parea da se stesso rimorso»,10 riporterà volentieri il suo pensiero a giustificare d’essersi abbandonato, nelle sue esposizioni dottrinali del canto terzo e quarto. Catone è attivamente personaggio, nel secondo canto: non figura come nel primo; e la forza del suo intervento ha una agrezza moralistica e un po’ arcigna, di effetto evidentissimo: l’intransigenza fa parte di ogni dignitoso e coerente esercizio ascetico, anche se contraddice quella aspirazione umanistica cui Dante allude, della purificazione attraverso l’arte, del dono che fa l’arte di una immagine naturalmente pura, pura appunto perché anteriore alla superbia della volontà e della conoscenza: ipotiposi, ben inteso, e sogno; e Dante e tutti sono pronti ad accettare la legge delle parole di Catone e la disciplina di quelle opere penitenziali che spoglieranno davvero e per sempre lo «scoglio» del peccato, il peso petrigno apposto a Dio. Un altro modo di abbandono, meno ambizioso certo, ma nei suoi riflessi storici e politici anche più importante di questo capitolo autobiografico che è il canto di Casella, è quello di Manfredi. Nota anzitutto il preludio pastorale, come le pecorelle escon del chiuso…11

e come cauto e trattenuto dall’invadere il quadro, fino al verso che lo chiude, «e lo ’mperché non sanno», a paragone della similitudine precedente, che sperdeva nell’aria e nel vento la suggestione di un tema caro all’episodio di Francesca: Come quando, cogliendo biada o loglio…12

Era, evidentemente, il contrapposto di «quali colombe dal desio chiamate»; e l’obbedienza all’impulso naturale, quel volo quasi angelico delle anime appassionate «al dolce nido», è contraddetto da questa paura e rimbalzo, da questa «maggior cura». E nota quell’accompagnarsi di Manfredi al cammino di Dante: di questi tre episodi che tocchiamo, quello di Casella è un incontro, quello di Manfredi è per un tratto un fare il viaggio insieme (e Dante stupisce che sia passato tanto tempo, mentre esaminava e ascoltava quello spirto), quello di Belacqua è propriamente una visita a domicilio, benché casuale: poiché il tema del viaggio, 124

che dicemmo essere l’immagine centrale e il motivo conduttore della cantica, è tanto più importante d’ogni autobiografia esplicita, a questo secondo episodio affida anche di disfarsi di talune urgenze polemiche che l’avevano occupato nel mondo infernale: la salvezza dell’anima pur fuori dei soccorsi delle opere svolte nella cerchia della comunità ecclesiastica, il protendersi del decreto di Santa Chiesa anche nell’oltretomba, con quella sospensione trentennale per ogni anno di contumacia dell’anima, lo spietato, ma non discusso né maledetto, fiero vescovo di Cosenza, messo alla caccia di un corpo morto da papa Clemente, e la libertà dell’anima di crearsi con un atto di puro amore la condizione della salvezza: ch’è dogma ben fermo del credo cattolico, forse non altrettanto osservato dal costume; e del costume tratta questa polemica politica: della quale, a paragone di tanti e tanti altri passi, importa notare quanto sia implicita e sottintesa, attenuata, non direi tanto in una conciliazione, quanto in un allontanamento: come osservata e ripetuta a distanza. Manfredi dunque s’accompagna a Dante: Chiunque tu se’, così andando volgi il viso: pon mente se di là mi vedesti unque.13

Difficile che Dante, per quel che di età poteva mostrare la sua persona, dopo il rito dell’umiltà e il lavacro della rugiada, potesse esser in grado di riconoscere il re svevo, morto tanti anni prima, quando il nuovo pellegrino aveva un anno; ma Manfredi parla in una sospensione sorridente e smarrita, si rammenta senza nozione di tempo, vaga nel ricordo e circonfonde cose e persone di una nebbia. Non ritratto, dunque, nel vecchio senso, di una definizione circoscritta con forza, quel chiudersi e serrarsi in un gesto e in un tema: anzi, un uscire dal pretesto della caratterizzazione, comunque felice, dalla notizia anche suggestiva, un affacciarsi a una sfera più libera e pura. La costanza di questo nuovo modo diverrà una cifra della poetica del Purgatorio: riassunta fin da principio dal tema che s’è visto, il dilatarsi della pittura e della musica, «tosto ch’io fuori uscii da l’aura morta»: entro quel tema canta l’attesa della libertà e della gloria, lo spazio mirabile del cielo, si rovescia il dramma esemplare di Provenzan Salvani, che per un’ora si serra in un purgatorio terreno di umiliata superbia, «si condusse a tremar per ogni vena», a liberare l’amico, papa Adriano giace sotto il peso del gran manto, scopre la vita bugiarda e s’accende dell’amore della vita celeste, Arnaldo Daniello canta la scala e il suo sommo dalla prigione di fiamma. In Manfredi, conseguentemente allo stile di questi incontri dell’Antipurgatorio non hai il dramma; ma un trasferirvisi lento e sorpreso: il gesto iniziale, anche se sovrapposto alla mitografia figurativa degli ultimi Svevi: guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto; ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso

(lo stesso schema di movimento drammatico è attenuato nel secondo gesto 125

Quand’i’ mi fui umilmente disdetto d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»: e mostrommi una piaga a sommo il petto)14

potrebbe appartenere al canto quinto, dei morti di morte violenta; o addirittura al canto dei seminatori di scandali e di scismi, per l’urgenza del ricordo atroce, per l’immediatezza della ferita orrenda. Ma anche il non saper misurare il tempo trascorso l’aiuta ad uscire dalla violenza del ricordo; e le sue prime parole hanno una cara fatuità gentilesca: il guerriero scomunicato e maledetto si ripara, dopo che nelle gran braccia della bontà infinita, dietro i manti regali di quelle gentili figure di donna: Costanza imperadrice, e Costanza regina, l’ava e la figlia; dimenticato ogni orrore di politica cupida o violenta o frodolenta, dimenticata la schiera dei padri e dei mariti e dei figli guerrieri come lui, e come lui macchiati di peccati orribili. Poi, ragionando, le sue parole acquistano fermezza e il suo pensiero riposa in circostanze più penose: un mesto ricordo all’ossa, sepolte una volta nel rito guerriero della grave mora in co del ponte, ora abbandonate quasi nel compianto della natura, in quel tenebroso paesaggio di tempesta, lungo il fiume di confine, dopo il funerale senza torce; e un fiorire, un accendersi del tono nella vittoria dell’anima sopra la maledizione dell’ossa: per lor maladizion sì non si perde che non possa tornar l’etterno amore, mentre che la speranza ha fior del verde.15

Ancora il tono acquista fermezza e disinvoltura, dopo quel fiorire della speranza; e il motivo teologico è toccato con una nuova disciplina devota: «Vero è […]». Anzi, come parlasse ad un amico di lunga data, la sua preghiera è una raccomandazione instante e cordiale: Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto, revelando a la mia buona Costanza come m’hai visto.16

Costanza non è più la genitrice araldica dell’onor di Sicilia e d’Aragona, ma la buona figliuola che ripete il nome dell’avola santa; e il ricordo deve essere di persona vista; e dimenticata la terra grave d’ira nemica, oltre la tomba, una corrispondenza di preghiera e d’amore e d’opera fruttuosa si stabilisce fra i morti e i vivi: ché qui per quei di là molto s’avanza.17

Belacqua Ma l’incontro con Belacqua par capovolgere, e invece conclude e suggella, queste ansie. Dei tre, per ricondurli ancora una volta a un contrappunto unitario, una frettolosa lettura di estetizzanti sarebbe disposta a considerar più vasta la 126

liberazione musicale di Casella, meno vasta la liberazione fiduciosa e umana di Manfredi, contraddittoria addirittura e scontrosa l’attesa di Belacqua: in realtà, quest’ultimo si schiude all’attesa della Grazia; e di là d’ogni leggerezza benigna e gentile di scherzo, di là dal suo stesso spregio per l’itinerario intellettuale in Dio e il sussidio delle opere della mente, di là d’ogni sospetto indiscreto di quietismo, hai quel suo aprirsi grande e generoso al divino amore, quel sommergersi scontroso e malvolentieri confessato nella Grazia.18 L’orgoglio razionale di Virgilio e di Dante, usciti appena dalla scansione eroica che ha misurato, dopo l’ascesa della balza, il cammino delle stelle, gli pare, ed è, cosa dappoco; e mentre Dante, orgoglioso ancora, si permette di canzonarlo con aperte parole, e preziose, colui che mostra sé più negligente che se pigrizia fosse sua serocchia19

egli si contenta di staccarlo da sé: «Va su tu, che se’ valente». Nel colloquio la parte bizzarra è di Dante, sia pure attenuandola: «a me non dole di te, omai»; ma il pigro Belacqua è in intimo colloquio con lo Spirito, quando medita la sua pochezza, quando sospira alla preghiera «che surga su di cuor che in grazia viva». La formula catechistica, ripetuta con le parole più proprie, attende dall’accento quel mirabile slancio di volo: l’attesa dei giorni santi è pur ansia del pigro giunto a salvezza, pur mentre si reclina nel compianto di sé che non riesce da solo a farsi ascoltare dal Cielo: l’altra che val, che ’n ciel non è udita?20

Altri temi: il paesaggio, il rito, la dottrina Ritratti d’anime in attesa, che allontanano in una lucida penombra gli atti e i ricordi della vita; ma nel contrappunto di questi primi canti altri temi entrano che fan da sfondo e da sottolineatura ai ritratti e agli incontri di quei gruppi d’anime, non ancora, se non poco più che occasionalmente nel gregge dei contumaci umiliati e redenti, accolte nella liturgia e nella drammaturgia della purificazione in atto. Tema preminente è il paesaggio:21 quei cieli aperti, quel mare, la terra aspra ed erta, ma pure umana, e il tempo che trascorre col sole, visibile e misurabile senza che sia avvertito nel suo andare solo da una misteriosa veggenza di Virgilio, come nel canto degli Indovini; ma una serie di motivi di controcanto è dato annotare a questa nota paesistica tenuta. Ed anzitutto il rito dell’umiltà dopo il primo congedo di Catone: l’Antipurgatorio s’apre con quel misterioso e cristallino gesto raccomandato da Catone come necessario prima di presentarsi all’Angelo, «ché non si converria, l’occhio sorpriso / d’alcuna nebbia»,22 e dilatato dal commento sinfonico del paesaggio e dal commento ritualistico del giunco svelto e rinato:

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oh maraviglia, ché qual egli scelse l’umile pianta, cotal si rinacque subitamente;23

e si chiude con il rito della Penitenza, ginocchioni sui tre gradini, ai piedi dell’Angelo portinaio; la nota tenuta è veramente quella, che informa anche il ritmo dei paesaggi drammatici così repentini, pur nella atmosfera diffusa e sfumata, così agevolmente trasvalutati e retroversi, e dispone a impreveduti miracoli. Ma altro tema è quello delle solitudini smarrite: solo lentamente le anime si compongono in convento di celebranti, dopo che, finito il canto In exitu Israel, l’Angelo nocchiero le ha segnate col segno della croce, ed esse, in turba, rimangono lì smarrite, e chiedono a chi non sa il cammino: la turba che rimase lì, selvaggia parea del loco…24

e la Valletta dei Principi, con le sue evidenti rispondenze al Limbo, sarà come una corte terrena adunata intorno all’Imperatore che siede alto: liturgia della politica e della storia, mestamente allusiva di ben altra ragione e grandezza, al termine di quel cammino terrestre; da quella corte, da quella mediata giustificazione politica, da quella sosta allusiva, verrà a rapirlo Lucia nella realtà, l’aquila d’oro nella trasfigurazione anagogica del sogno. In quelle solitudini intermediarie del cammino faticoso per l’erta dell’Antipurgatorio le anime si disperdono: o anche in gruppo, quando lentamente gruppi si ricompongono, accomunate da una stessa sorte maligna (i contumaci, i pigri, i morti di morte violenta) le anime appaiono sentire e soffrire da sole; il Miserere che i morti ammazzati cantano si interrompe in un «oh» lungo e roco, e le anime si danno a una gara confusa per rammentarsi al pellegrino: Sordello attende il primo pretesto per uscire dalla sua rigidità statuaria; ma nella Valletta già le anime gentili si soccorrono: sù, Currado, vieni a veder che Dio per grazia volse.25

E infine anche il tema della riflessione dottrinaria vale di contrappunto ai ritratti: tanto più ricco quanto la storia di questi interventi di Virgilio raziocinante è legata a questo attenuarsi della maniera forte e grande dei ritratti. Virgilio entra a sermoneggiare, quasi per far dimenticare il rimprovero di Catone, quando Dante si spaura di non veder l’ombra di lui accanto alla sua; e allontana quasi con un gesto stanco il ricordo della prosopopea epigrafica: Vespero è già colà dov’è sepolto lo corpo dentro al quale io facea ombra; Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto,26

e si dichiara incapace di dar ragione del perché ombre di così rarefatta sostanza possano soffrire i tormenti del fuoco e del ghiaccio; ma 128

Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone. State contenti, umana gente, al quia…27

E china la fronte, e tace e rimane turbato. Ma l’altro intervento è ardito e volonteroso, quando sorregge Dante per l’erta calla angusta, «e piedi e man volea il suol di sotto»; e quando, saliti sul ciglio che gira tutto il poggio da quel lato, e postisi a sedere, gli spiega come mai il sole li colpisce da sinistra. A questo punto la contraddizione al suo filosofare, lo scacco della sua razionalità, viene dal pigro Belacqua; e non senza rivalsa Virgilio rimprovera Dante di un attimo di compiacenza neghittosa, quando, pur senza muoversi, i pigri guardano con meraviglia a Dante e al lume ch’era rotto. La forza raggiante della ragione vale ancora, ma il suo incontro con un più immediato aderire alla fede, con una esistenza più assorbita nella «sostanza di cose sperate», stabilisce un divario: pause, anche queste, nel discorso di Virgilio, di penombra; non sconfitta, ma eclissi: quasi che il simbolo perdurasse, di quella persona trasparente, di quella luce non interrotta dall’ombra del corpo.

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Pg III, 12-15. Pg IV, 121-122. 3 Pg III, 73. Quanto non diremo di predisposto, ma di riconosciuto e di volonteroso ci sia nell’accettare questa circostanza (perché dunque parlare di struttura come di alienazione e minor poesia? Anche qui valga la poetica goethiana dell’“occasione”; e il suo rinascimentale dualismo, sempre suscettibile di conciliazione) è infatti sottolineato dal tono spiegatamente oratorio, sinceramente retorico, di Virgilio, che nell’Inferno è spesso causidico e curiale. 4 Pg VI, 66. 5 Pg II, 107-108. 6 La notizia è del QUADRIO, III, 321: «Nella Vaticana trovasi un madrigale di Lemmo da Pistoia, che fiorì circa il 1300, con questa intitolazione: Casella diede il suono; il che vuol dire che le parole di Lemmo erano state messe in musica da Casella»: vuol dire, soprattutto, che il buon Quadrio opera esattamente come tutti i commentatori storicizzanti (ben inteso che la raccomandazione viene da Dante) a dedurre o indagare nel regno della cronaca conferme aneddotiche alla suggestione della poesia. Ma la notizia è esatta e la glossa «Casella sonum dedit» al madrigale di Lemmo è del Vatic. 3214. Il Buti e l’Anonimo Fiorentino tentano più in là: l’uno nel ritratto, «Omo di diletti», l’altro nella notizia del tempo: «et a Dante dilettò forte l’udirle da lui, et massimamente al tempo ch’era innamorato di Beatrice». Diletti e dilettare; il testo di Dante è ben altrimenti pregno: quetar, dentro mi suona, contenti. Quanto al tempo, l’Anonimo intravvede che la musica rivela un modo a ritroso della poesia, dalla Donna Gentile a Beatrice. 7 Pg II, 99. 8 PORENA, Il ritardo di Casella, postilla al c. II (vol. II, Purgatorio, Bologna 1947, pp. 25 ss.): «E non si riesce assolutamente a comprenderlo, e tutti i tentativi di trovare una spiegazione riescono ad affermazioni più o meno arbitrarie». Finisce dove comincia, «potrà valere nella funzione poetica», e: «voleva che Casella fosse la prima anima con cui si abboccava nel regno di Purgatorio». Appunto; ed e tutto: «disponibilità» dicono, con una brutta parola, i moderni; e «fiducia in Dio» gli antichi. 9 Pg II, 97. 2

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10

Pg III, 7. Pg III, 79-84. 12 Pg II, 124-129. 13 Pg III, 103-105. 14 Pg III, 106-111. 15 Pg III, 133-135. Come è ovvio ad una lettura non preoccupata politicamente (e senso attivo del canto è il distaccarsi dalla contingenza storica e polemica), riferiamo «loro» ad «ossa» che è il termine preminente della frase, il solo cui si possa pianamente riferire; ma anche i più miti qui arrotano i denti: «tutti i papi, tutti gli ecclesiastici che non ricordano come la maledizione della chiesa non può impedire a un’anima di ricongiungersi a Dio con un sincero pentimento» (Porena). 16 Pg III, 142-144. 17 Pg III, 145. 18 Diremo che la colpa di tutto questo fu l’allegra mitologia di Antonio Baldini, che lo legge come inventava in sé Michelaccio e Melafumo? Eppure, vedi A. CHIARI, Belacqua e il Purgatorio dantesco, Como 1943. 19 Pg IV, 110-111. 20 Pg IV, 135. 21 «Nel Purgatorio meglio che negli altri due regni la natura, il paesaggio, lo sfondo del quadro sono infusi di spiritualità; e quel cielo notturno che via via si stenebra è un maestoso e penoso preludio dell’ascesa purificatrice a cui Dante si prepara», dice Momigliano: più in là Tommaseo mostra come il poeta crei quasi senza concorso di circostanze esterne, o addirittura contraddicendole in parte, il paesaggio spirituale che la poesia, il dramma, la lirica diffondono intorno a sé e determinano: «Il Canto spira freschezza e quiete come di sera estiva serena», dice del canto terzo, preludio alla sera dei Principi: questa vicenda di un vinto che sarà vittorioso in cielo. 22 Pg I, 97-98. 23 Pg I, 134-136. 24 Pg II, 52-53. 25 Pg VIII, 65-66. 26 Pg III, 25-27. 27 Pg III, 34-37. 11

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La valle delle stragi

Intenzioni Un intervento più attenuato e, nella sua modulazione, più allusivo è quello al principio del canto VI, quando (diresti per un prolungarsi di una ebrezza e nausea del sangue, della «molta gente e le diverse piaghe» che «avean le luci mie sì inebriate»)1 Dante dubita di un divario fra il testo virgiliano, «desine fata deum flecti sperare precando», e la credenza dell’anime, di poter essere soccorse dalle preghiere dei vivi; ma l’alto onore che gli vien fatto, Virgilio lo trasferisce subito a Beatrice: veramente a così alto sospetto non ti fermar, se quella nol ti dice che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto.2

Quindi l’ansia di Dante di affrettare il cammino, e l’arresto alla persona di Sordello, quasi contrapposto con quel suo piglio sdegnoso e chiuso al confidente ritratto di Beatrice: tu la vedrai di sopra, in su la vetta di questo monte, ridere e felice;3

e l’apertura sul canto politico d’Italia. Il passaggio potrà apparire troppo sottilmente segnato; ma che l’invettiva di Dante si collochi a ragion veduta, e che il ritmo dell’intimo discorso della fantasia e delle immagini la esiga, nessuno vorrà negare: il ritratto ternario di Iacopo del Cassero, di Buonconte da Montefeltro, della Pia (un Fanese, un Montefeltrano, una donna di Siena, annota il Tommaseo, nell’Argomento del canto; e sottolinea appunto che si tratta di gente italiana, e che il ricordo di Dante si rivolge all’Italia, a sfondo di quelle scene di stragi) s’allontana appena nella gradazione delle tre diverse movenze, e le anime dei trucidati si affollano intorno a Dante; sono appena allontanate, ed ecco il subitaneo impreveduto irrompere dell’invettiva: ingiustificata, se un movimento collerico non si fosse aperto a quello spettacolo di stragi, se gli ammazzati non facessero, tutti insieme, un quadro troppo facilmente riferibile alla terra, a offrirne una generalizzazione ossessiva; e quindi, a uscir da quello sgomento e da quell’ira, i toni lenti e le notazioni accorte della Valletta dei Principi. (In questo senso, anche la discussione sulla possibilità di flettere il destino segnato ha un significato più vasto: può la preghiera «E se licito m’è, o sommo Giove / che fosti in terra per noi crucifisso…»4 coinvolgere un mutamento nel destino 131

storico della vita della collettività umana?) L’invenzione di questi primi canti del Purgatorio è singolarmente fervida e serrata: tanto più quanto siamo meno inclini a servirci del metodo delle corrispondenze e della sintassi delle immagini, prevalendo nel dettato poetico la rappresentazione di un sentimento dominante, che pare attragga a sé e annulli ogni altro movimento.

Un trittico Le anime stesse, quanto più pure e sole, si allontanano da quel gorgo di sangue. Nota il contrappunto dei tre. Iacopo del Cassero, cittadino autorevole e rispettato, è ancor tutto preso dei ricordi e della dignità terrestre: al delitto parteciparono Estensi e Caminesi e, se non altro con la tolleranza, i Padovani; ed ebbe strascichi diplomatici assai gravi; e l’epigrafe mortuaria, in Fano, conferma l’alta opinione che Iacopo sente di avere fra i suoi; e parla «innanzi agli altri», come oratore e dignitario, con uno stile elaborato e concettoso. Giunge al punto, parlando, non di imprecare contro l’assassino, quel da Esti il fé far, che m’avea in ira assai più là che dritto non volea,5

ma sì di sfiorare il sospetto di un rammarico d’esser morto: Ma s’io fosse fuggito inver la Mira quando fu’ sovragiunto ad Oriaco ancor sarei di là ove si spira;6

ed assiste dolente al sangue che versa, con quell’orrore e ribrezzo del sangue che lento fluisce e miserabilmente ne porta la vita: Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco m’impigliar sì, ch’i’ caddi; e lì vid’io de le mie vene farsi in terra laco.7

Appariscente contrasto: «noi che tignemmo il mondo di sanguigno» poteva essere accentuazione enfatica ed oratoria (almeno se non la si salva con l’esclusivismo passionale di Francesca); ma questo intellettuale aristocratico confessa, dentro il giro retorico della metafora, un sentimento autentico di ribrezzo. Buonconte da Montefeltro poco può attendersi dai vivi: Giovanna o altri non ha di me cura; perch’io vo tra costor con bassa fronte;8

e il suo tornare a un ricordo concreto terrestre avviene attraverso la sollecitazione curiosa di Dante, ma distratta per lui: 132

«Oh», rispuos’elli

e comincia, quasi sorpreso dalla vivezza del ricordo, e che possa essere vivo per altri: a piè del Casentino traversa un’acqua ch’ha nome l’Archiano, che sovra l’Ermo nasce in Apennino,9

così, quasi favolando; ed anche per allontanarsi ancora una volta da quel ricordo dei vivi che per lui ha poca vita, per vivere, più intimamente e veracemente, fra le grandi ombre sovrannaturali e nel grembo di una natura commossa dall’intervento degli spiriti. Il distacco è tanto che lo stesso contrappunto del canto di Guido da Montefeltro esce trasfigurato da questo canto del suo figliuolo: sull’uno e sull’altro si combatte la battaglia infernale; e, nel primo risultato del contrasto più elementare, nell’evidenza cioè della prima lettura, astrattizzante, par che s’apra una polemica, assai più grave di quella già sottomessa da Manfredi, fra l’itinerario individuale della salvezza e la dannazione provocata dall’opera sacrilega del prete, del pontefice (praebens iter, pontem faciens, dicevano le etimologie parenetiche); ma nella vita della fantasia il ricordo del gran prete «a cui mal prenda» è introduzione al chiuso colloquio claustrale, mentre il dir di una forza o ventura che traviò fuor di Campaldino il guerriero è per lui motivo di un vagabondaggio fervido e immenso, tanto più vasto quanto il parallelo è evidente: «io dirò vero e tu ’l ridì tra’ vivi», dice Buonconte; ma Guido: «S’i’ credesse che mia risposta fosse / a persona che mai tornasse al mondo, / questa fiamma staria senza più scosse»;10 e il sillogismo del diavolo a Francesco era stata la scoperta e perfida continuazione del sofisma di Bonifazio a Guido, detto con quella coperta tensione e malizia del colloquio; ma il rovello del diavolo, quando l’angelo ha preso l’anima di Buonconte, esplode in uno spazio infinito: l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno gridava: «O tu del ciel, perché mi privi?11

e prepara la scena immensa della tempesta a notte fatta, dopo che sul campo della strage, fra le grandi giogaie, i vapori si sono addensati. Ma Pia de’ Tolomei è assai più abbandonata che Buonconte: l’unico che sa qualcosa di lei è quello stesso che, traditore della fede promessa, l’ha uccisa. Il distacco è tremendo, infrangibile quel legame di silenzio che la stringe all’assassino, il mondo è lontano, a una distanza affranta, il pensiero stesso non può percorrerla che a fatica: resta nella memoria, greve, e irride, la gemma degli sponsali.

La preghiera Dall’uno all’altro al terzo la preghiera si purifica; ma qui è il coro delle anime che dà la nota tenuta, dopo aver toccato il tema della meraviglia che gli scomunicati, quasi smarriti in un mondo incomprensibile, avevano accennato appena. 133

Cantavano Miserere, e quando s’accorgono che Dante è vivo, mutano il canto in un «oh» lungo e roco: ancor distratte quell’anime dall’intento corale e dalla severità della officiatura liturgica, che tanti esempi ha dopo il salmo In exitu. E, spaurite, si raccolgono con un istinto elementare di difesa, come perseguitati che furono, mandano messaggeri a parlare e quando sanno di che si tratta rompono a corsa sfrenata verso i due; e il discorso che fanno va dall’ansia perduta: «Deh, perché vai? deh, perché non t’arresti?», a quel tramortire improvviso, quando risenton in sé, accorato, il desiderio di Dio: sì che, pentendo e perdonando, fora di vita uscimmo a Dio pacificati, che del disio di sé veder n’accora.12

Su quella modulazione iniziale si distaccano i tre episodi, con il tema, in ciascuno diverso, della preghiera: sicuro di sé Iacopo del Cassero, al quale basterà che Dante, con atto cortese, solleciti le preghiere dei suoi concittadini; ma Buonconte deve far capo a Dante; e per ricompensarlo non ha altro che formulare per lui l’avverarsi del suo desiderio più vivo: «se quel disio / si compia che ti tragge a l’alto monte»;13 Pia, infine, che può essere ricordata solo da chi l’ha uccisa, suo marito, si preoccupa anzitutto della fatica del pellegrino, non invoca la cortesia di Dante, non ripaga con un augurio equivalente: il suo «pregar per ch’altri preghi»14 è distaccato da ogni sollecitazione personale; si rammenta, gentile, della stanchezza di Dante; non chiede la pompa delle cerimonie, come Iacopo; non traduce la preghiera in desiderio, come Buonconte: chiede solo «ricordo»; certo la parola è attratta dal dramma di Pia (e quel «la Pia» già dà inizio alla prosecuzione anedottica e novellistica dell’episodio: la poesia ha anche questa volta, implicita in sé, la sua ventura), che è dramma del ricordo (Francesca aveva protestato: «nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria»); ma questo ricordare come atto conclusivo delle preghiere dei morti, e del partecipare ad una sorte, tema fondamentale del Purgatorio, giunge terzo a suggellare la successione tematica e la vicenda della preghiera invocata: perché l’anima raggi libera e sola nel suo cielo è bene che riviva affettuosamente nella memoria dei vivi. La preghiera diventa sempre più pura e disinteressata: nello stesso tempo diventa, sempre più concretamente, vita partecipata.

L’invettiva Questo senso di allontanamento, di distanza, questa minore urgenza, o ricerca di una realtà più ricca, nella trasfigurazione penitenziale del monte, questo vertice e catarsi della storia dell’Antipurgatorio, è in singolare contrasto con l’invettiva all’Italia del canto VI: ma ora si tratta di delimitarlo, leggendo; e di verificare fino a qual punto l’impressione dell’attacco, con la sua dirotta violenza, perdura ad un ripensamento che collochi l’episodio nel canto e il canto legga nella rapsodia dell’Antipurgatorio. Dante trascorre da un tema all’altro secondo un ordine logi134

co, ma senza subordinare a una tesi tutti gli argomenti; muove dalla riforma giustinianea, e da quel corpo di leggi che, applicate con volonterosa ragione, basterebbero, secondo la giurisprudenza del tempo, al buono e regolato stato d’Italia; tocca della gente di Chiesa che s’immischia di politica, e che ha posto mano alla briglia, ma non vuole o non può inforcar la fiera ribelle; tocca d’Alberto d’Asburgo e di suo padre, che l’abbandonano, e delle discordie guelfe e ghibelline; e chiede a Dio il perché di tanti mali. L’ultimo cenno tocca a Firenze; ché da Firenze era mossa l’indagine del sesto canto dell’Inferno; e l’immagine di Firenze allontana da sé con una ironia che ben regge per alcune terzine, e che all’improvviso declina, nella elegia di tale condizione di vita, e si compiange. Certo si può, leggendo, nella molteplicità del polisenso dantesco, isolare un tema politico, per esempio il ghibellinismo, e ritrovar la coerenza e l’assiduità che qui Dante abbandona: sarebbe, tuttavia, un proceder di forza. La discontinuità del discorso, che tocca i luoghi comuni della politica, indica appunto che il poeta non vuol prender parte; non vuole essere lui pure come gli altri villani che parteggiando diventano Marcelli. L’invettiva non rovescia in passione politica il distacco che s’era fin qui manifestato, non confina nell’odio l’esilio di quelle anime perdonanti: non guelfi e non ghibellini si riconoscono ormai Buonconte e Iacopo, il giudice Benincasa da Laterina e il giovane Gano degli Scornigiani, il conte Orso degli Alberti e Pierre de la Brosse. L’appello alla ragione e alla concordia, se pur s’appoggia sulle autorità sacrali delle leggi giustinianee dell’imperatore incoronato, secondo quello schema unitario a cui certo Dante non vuol rinunciare per conformismo conciliatorio, è un passo verso la giustificazione che troverà la sua esposizione conseguente nel Paradiso. L’attacco è oratorio, ma l’accento è liturgico,15 e il verso subito declina nell’elegia e nel compianto: e ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode di quei ch’un muro ed una fossa serra.16

«Sì che tardi per altro si ricrea».17 Se significa, come certo significa, pur nell’ambiguità profetica, che sarà tardo lo sforzo di Arrigo VII, dopo che l’Italia è «morta» per le piaghe che Rodolfo non ha sanate, e tardo il conforto, il primo giudizio, espresso da Sordello sui principi della Valletta, riallontana il canto dai ripensamenti della storia post factum; e la profezia resta preludio a quell’intervento miracoloso, apocalittico, che è cantato nel canto dell’Aquila e di Lucia: chiave e cifra e emblema non già di un avvenimento solo, ma di tutta la storia futura. Intanto, nell’episodio del canto settimo, la politica si trasfigura; e si riassume una meditazione iniziata con la contemplazione di una terra corsa dal sangue degli omicidi, e proseguita con la elegia della discordia. Sordello è introduttore di questa liturgia metapolitica: introduttore trascelto dall’alto, che non ha tempo, come Beatrice e Virgilio, e in parte Bernardo, di definirsi attraverso una vicenda. Il gesto con cui è presentato, gesto alla Farinata,18 si esaurisce nella violenza oratoria della sua scansione troppo rilevata: né si riequilibra nell’anticlimax del riconoscimento avvenuto, quando 135

chinò le ciglia, e umilmente ritornò ver lui, e abbracciòl là ’ve ’l minor s’appiglia.19

E così il discorso procede fra improvvisi soprassalti, uno dei quali, appena rilevabile, interrompe persino il tono colloquiale e tranquillo di Virgilio quando dà contezza di sé: Quivi sto io coi pargoli innocenti dai denti morsi de la morte avante che fosser da l’umana colpa esenti.20

Appena gli è possibile, smesso di parlare di sé, chiede del cammino; e Sordello, mentre si profferisce di condurlo alla sede appartata dei Principi, adopera, a significar l’impossibilità di salire quando il sole è tramontato, quel gesto curioso: E ’l buon Sordello in terra fregò il dito, dicendo: «Vedi? sola questa riga non varcheresti dopo il sol partito»21

che riacquista senso solo se lo collochi, nel contrappunto della memoria, accanto ai gesti di Cristo che plasma fango di saliva e di terra, per aprire i sensi degli infermi, o che scrive nella polvere durante il giudizio dell’adultera. Comunque, l’incertezza di quella vigilia è allusa anche da queste discontinuità stilistiche, che si interrompono quando Sordello può assumere le sue funzioni di guida, con la descrizione musiva della valletta: Oro e argento fine, cocco e biacca, indaco, legno lucido, sereno, fresco smeraldo in l’ora che si fiacca…22

Forse un gusto ancor barbarico di ritmi e di toni qui fa le sue scelte: quasi quegli incontri arditi e primitivi in cui si industriavano gli artigiani orefici delle corone e delle spade, le ricamatrici delle infule e dei manti? La materia preziosa è assunta in un simbolismo primitivo e dietro indicazioni povere, ma evidenti; e solo attraverso una terzina di passaggio, dove il poeta quasi cancella quella precisione soverchia di stile, quell’abbondanza di colori e di sostanze preziose, Non avea pur natura ivi dipinto, ma di soavità di mille odori vi facea uno incognito e indistinto,23

ritorna ai modi più suoi, alle suggestioni delicate e potenti, affidate al canto e alla preghiera:

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«Salve Regina» in sul verde e ’n su’ fiori quindi seder cantando anime vidi.24

Il quadro si determina solo nella sua vaghezza di verzura fiorita, e il canto s’effonde nella preghiera mariana: dietro quello stile d’ornato stanno i vecchi secoli, dopo di questa indicazione tematica sta l’arte nuova: il rito dell’incoronazione, da una parte, ma dall’altra l’immaginare musicale e pittorico di frate Angelico.

Un bando cavalleresco La presentazione dei Principi, prima che la scena della tentazione prelusa dall’inno di compieta rimetta in moto narrativamente la fantasia del poeta, avviene secondo ritmi e stilemi ch’eran piaciuti nel nobile castello del Limbo: con una definizione più precisa di ciascun personaggio, per vero; e anche qui i poeti stanno in disparte a guardare, da un balzo, giudici di una realtà che li ignora. L’imperatore, seduto più alto e solitario, tace, mentre gli altri cantano accompagnandosi con gesti diversi; e non ascolta il conforto di Ottocaro II di Boemia, che in vita fu suo rivale. Filippo III l’Ardito, re di Francia, pare stretto a consiglio con Arrigo I di Navarra; Pietro III d’Aragona s’accorda cantando con Carlo I d’Angiò; e dietro gli siede il giovinetto Alfonso III. Altri principi in disparte: Arrigo III d’Inghilterra che siede solo, e, che siede più in basso, il marchese Guglielmo VII di Monferrato. Una variazione ritrattistica corre dall’uno all’altro, variando la composizione architettonica delle figure; e una riflessione gnomica lega l’atteggiarsi dei re alla vicenda attuale dei regni: rade volte risurge per li rami l’umana probitate; e questo vole quei che la dà, perché da lui si chiami.25

Era il problema della nobiltà, che l’aveva affaticato nel Convivio, risolto con quell’appello umanistico all’elezione individuale della grazia naturale, che qui è integrato dall’intervento direttamente concreto del dono di Dio. I temi sono appena accennati, nella rapidità del trascorrere: par di indovinare che la fantasia sia in fermento verso altre mete; ma alcuni temi rimangono o direttamente esposti o indirettamente allusi: una vita insieme religiosa e cavalleresca della politica, in quei gesti arditi: guardate là come si batte il petto! L’altro vedete c’ha fatto a la guancia de la sua palma, sospirando, letto. Padre e suocero son del mal di Francia…26

in quei ritratti a piena figura: 137

quel che par sì membruto e che s’accorda cantando con colui dal maschio naso, d’ogni valor portò cinta la corda…27

tutto è circonfuso di preghiera e di lamento. E tutto ritorna concludendosi il canto, al lamento d’Italia. Il trittico che s’era aperto con le stragi familiari e guerriere si chiude infatti sul pianto: per cui e Alessandria e la sua guerra fa pianger Monferrato e Canavese.28

E, nel canto del Salve Regina, non so che ricordo di Bernardo e delle Crociate.

Dittico degli angeli e di Lucia Il canto ottavo e il canto nono sono orchestrati insieme, con una corrispondenza assidua di contrappunto. L’incontro non manca di giustificazioni gnomiche: dal canto quinto in avanti il tema politico è urgente; e la sua soluzione comporta, nel pensiero e nel metodo di Dante, una continua sottolineatura di arte e di allegoria; e abbiamo già visto il trittico dal quinto al settimo disporsi, da un mondo di stragi alla Valletta dei Principi, con l’intermezzo esortatorio e deprecatorio del canto all’Italia: itinerario ad una trasfigurazione religiosa, e è d’uopo che il poeta voli tanto alto quanto occorre a comprendere la trasvalutazione dei temi politici, a tanta distanza sul vertice del tempo e nella vigilia dei sensi, che il destino suo diventi il destino degli uomini tutti: che era tema non oltretutto chiaro nell’Inferno, e forse nemmeno introdotto. Eppure nonostante le sottolineature che vedremo di arte e di allusività, sopra il compito apologetico e parenetico prevale una ragione di composizione drammaturgica, sollecitata appena da una circostanza dianoetica, il passaggio da una fase terrena ad una ultraterrena della valutazione politica: così che la storia di quel transito, dopo che la proiezione terrena del mondo purgatoriale si è esaurita con la rappresentazione gerarchica dei Principi, atteggiati secondo la loro storia effettuale, si svolge in un dittico, nella composizione complementare dei due canti, che pur nella loro grande scioltezza di modi illuminano indirettamente il passaggio con le virtù emotive, suggestive e, direi, esegetiche del contrappunto. Raramente lo stile polifonico, che sarà della musica rinascimentale, trova in diversa forma espressiva una così adeguata e consapevole illustrazione: forse la sua cifra si scopre, si inventa qui, fra la scena di compieta e l’allegoria del sacramento della Penitenza, fra gli affettuosi incontri dei reduci dalle lotte politiche e il volo dell’aquila, fra l’elegia del tramonto e la mitografia dell’alba. Ma è tempo di osservare più da vicino la leggenda.

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I preludi Accentuatissimi i due preludi; e la consapevolezza del poeta, che sa, quando vuole, richiamar l’attenzione del lettore, impreziosendo la materia, li dispone parallelamente e sottolinea la lettura. Il primo preludio introduce il primo giorno di viaggio nel Purgatorio della pena: il giorno dell’addio e il novo pellegrino; quando il viaggio sarà al termine, con un simile richiamo riporrà sull’avviso il lettore: «gli splendori antelucani, / che tanto ai peregrin surgon più grati, / quando tornando albergan men lontani»; e forse la sconfinata ammirazione che i romantici (quelli del costume più spesso corrivo al sentimento) ebbero per il quadretto del tramonto, derivò pur da un eccesso di sentimentalismo, da una emotività in ogni modo cercata, con ogni accorgimento (e se si mette Dante all’opera, state sicuri che ci riesce, così in questo lavoro di eloquenza patetica come nell’opera di più rigorosa presenza di fantasia): un singhiozzare, al commiato, in quel trepido passo giambico, quasi sincopato «lo dì ch’han detto… addio»; un suono di campane, onomatopeicamente riecheggiato: a… a… o… o… a… o…: «paia il giorno pianger che si more»;29 e lo strazio di quel «punge», sospeso da tutto un verso che lo lega, gravido il verso di tanto patetismo della poesia lirica (pellegrino e amore: due temi illustri), ma attenuato dall’eco di quell’epiteto «dolci» dato agli amici, e con il contrasto di tenerezza e di pianto denso di lacrime. Se il nuovo poeta viene a paragone deliberatamente con l’antico, «Et iam summa procul villarum culmina fumant / maioresque cadunt altis de montibus umbrae», se il contrappunto è atteso anche dal confronto fra l’epigrafe che chiude l’idillio di Titiro e che conforta Melibeo alla sosta sulla strada dell’esilio, la lode va a Virgilio: mai tanto palesemente un’intenzione romantica cercò di stravincere, a paragone con un classico, lavorando a dismisura sul sentimento. Ma il secondo preludio richiama la mitologia, come suole Dante, per un’introduzione sacrale, che serva di mediatrice fra la poesia e la verità; poi subito d’ogni impaccio e proposito si libera affisandosi intensissimamente nell’immagine riscoperta: La concubina di Titone antico già s’imbiancava al balco d’oriente fuor de le braccia del suo dolce amico…30

dove la stessa animazione sensuale accresce l’intensità e la libertà dell’immaginare, quindi la vita di quel balzo dalla sfera del Purgatorio all’emisfero terrestre, anzi alla sua piccola patria, l’Italia: ché è in Italia l’aurora quando nel Purgatorio è la terza ora di notte non ancor compiuta. L’animazione mitografica si prolunga, con quel procedimento già scoperto nell’idillio del villanello, di animare, personificandole, le ore e le stagioni: e la notte de’ passi con che sale fatti avea due, nel loco ov’eravamo;31

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ma la verità più acutamente intesa è quel respiro alterno fra l’alba e la notte: s’addormenta infatti alla terza ora di notte, e sogna, quando anche nel Purgatorio è l’alba. E preludio al sogno, terribile e apocalittico nel roteare dell’aquila d’oro (è il tema imperiale: «aquila in auro terribilis»32 aveva scritto ad Arrigo, invocandolo; e nei vessilli imperiali, sopra Traiano a cavallo, armato, ondeggiano «l’aquile dell’oro», in vista, al vento; e argento d’oro distinto è Giove, nel cielo dei Giudicanti, al trasformarsi dell’M in aquila), è il pianto della rondinella presso alla mattina. L’accento del preludio è pieno e colmo, la fantasia arde e si dilata, le immagini fulgono e cantano.

Contrapposizione e integrazione dei temi Lungo i due canti gli sviluppi tematici si contrappongono e s’integrano. E il poeta avverte: quando sta per iniziarsi la scena della tentazione, ripetendo un procedimento già adoperato per l’episodio della testa di Medusa, raccomanda di fare attenzione: Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero, ché ’l velo è ora ben tanto sottile, certo che ’l trapassar dentro è leggiero.33

Ma, a conchiudere il racconto del sogno e del volo di Lucia, palesa l’intento dell’arte (come aveva avvertito, nel fitto della bolgia dei ladri, che la sua arte poteva stare a paragone, e vincerla, con quella degli antichi): Lettor, tu vedi ben com’io innalzo la mia matera, e però con più arte non ti meravigliar s’io la rincalzo.34

L’allegoria diventa introduzione: dilucidazione, appunto, e l’arte è conferma di una presenza. In contrapposto elementare stanno anche i temi centrali: quello della tentazione nel canto VIII e quello di Lucia nel canto IX. La scena della tentazione è puramente simbolica: ché di tentazione vera e propria non si può parlare, in quel mondo purgatoriale «dove poter peccar non è più nostro»; ma la suggestione tematica si distende assai lontano (alla scena sulle porte della città di Dite, appunto) e gli Angeli che vengono dal grembo di Maria prolungano l’animazione religiosa e cavalleresca che nel canto VII era stata affidata al cantar Salve Regina. Il volo degli angeli scende in basso, con il simbolo, quasi una virente fiamma, della speranza: stanno alla difesa, con le loro spade di fuoco spuntate; e che anche la valletta sia un pallido simbolo del Paradiso Terrestre lo richiama questa immagine appunto della spada di fiamma. Ma in alto sale l’aquila e in alto cammina Lucia: poco innanzi all’apparizione di Lucia, quando il serpente è fuggito al ventare delle ali verdi degli angeli, Corrado Malaspina chiede notizie di Val di Magra, introducendo il suo dire con un’immagine che a quei voli con140

tinui fra la terra e il cielo s’accorda; e introducendo l’altra immagine, domestica e affettuosa, di Lucia come di lucerna: Se la lucerna che ti mena in alto truovi nel tuo arbitrio tanta cera quant’è mestiere infino al sommo smalto…35

Ma Lucia ha suono denso, pur dimessamente come si presenta; e ci fa capire molte cose dell’arte del poeta, assai più di quanto scoprono coloro che la gravano di significati allegorici. La valle della vigilia del mondo, chiusa la giornata della storia dall’inno di compieta, attende nell’oscurità della notte mistica che giunga l’alba. La sera e le prime ore di notte sono trascorse in colloqui e in sentimenti generosi: la meraviglia nel conoscere che Dante è vivo, quel subito chiamar che fa Nino, esortando Corrado Malaspina che accorra alla meraviglia, all’utile incontro con un vivo che potrà pregare, poi il distacco da ogni amore terrestre attraverso la menzione di Beatrice d’Este, la madre di Giovanna Visconti: non credo che la sua madre più m’ami…36

Persino l’introduzione del tema misogino, d’accento teologale, non umanistico, Per lei assai di lieve si comprende quanto in femmina foco d’amor dura se l’occhio o ’l tatto spesso non l’accende,37

accentua un distacco fra il mondo stilnovistico e il mondo teologale: nella Vita Nuova, e ancora in parte nel Paradiso Terrestre, la mediazione fra il cielo e la terra era affidata a quelle accolte di donne gentili che aprivano l’anima alla contemplazione della verità e della bellezza; qui la problematica punta troppo sulla politica, perché sia dimenticabile l’intermezzo conviviale della poetica di Dante: la parte del tempo in attesa è assunta da quegli uomini politici; e una volta giunto al culmine della figurazione gerarchica della storia, quando Sordello ha esortato Dante a scendere nella valletta (in tre passi, forse rituali, già son giunti fra l’ombre), l’attesa e l’iniziazione della trasfigurazione è affidata a incontri dimessi e accorati, ad una pronta amicizia, ad una fiduciosità gentile. La violenza del tempo passato sulla terra è dimenticata, benché il rimprovero alle donne, inette al «concetto della bellezza loro», la riecheggi. «Nullo bel salutar tra noi si tacque»:38 e le tre stelle che risplendono in luogo delle quattro, le virtù teologali in luogo delle virtù cardinali, alludono a quel mutamento di tema che accade intanto, dalla politica, come rammarico di un passato incerto, alla liturgia come officiatura del tempo accettabile. Ecco che i modi artistici si intersecano e si sovrappongono, in apparenza contraddicendosi, a significare, anzi a suggellare, nell’estrema esattezza e concretezza di una forma, le inten141

zioni molteplici (e in realtà a determinare quel primo nesso espressivo, quella verità primordiale, da cui tutto il mondo della conoscenza del poeta si diparte). Il canto ottavo ha modulazioni prevalentemente narrative, con spazi aperti, fra un tema e l’altro, con tempi non chiaramente determinati, e quei distacchi un po’ casuali che da una suggestività generale di tutta un’atmosfera attendono di riassumersi in ordine e in unità: per contro il tono del canto nono è liturgico dal principio alla fine, dalla mitografia dell’Aurora e della Rondine sino alla scena della penitenza, e da Ganimede al ratto dell’Aquila: e alla liturgia conviene una esecuzione rappresentativa e drammatica. In apparenza la condotta stilistica dei due canti contraddice a questi propositi: perché il canto ottavo, raccolto in un luogo e condotto lungo scene determinate, con una distribuzione quasi di sacra rappresentazione, si appiglia a modi drammatici; e a modi narrativi invece si affida, esternamente, il canto nono, con il lungo racconto di Virgilio. La distanza è grande, fra l’impostazione e il risultato; ma appunto così segna il cammino percorso: il dramma iniziale della Valletta dei Principi cede al racconto di una intesa ritrovata attraverso un distacco: distacco dai ricordi della terra e degli affetti, oblio di un mondo troppo combattuto, intesa fra anime generose, dopo gli sdegni e i rovelli e l’ire terrestri; e la liturgia del volo oltre la sfera del fuoco è esposta didatticamente, lasciando all’intensità delle partecipazioni tutto il potere della reviviscenza.

Il rito del sacramento della penitenza Con la scena della penitenza cattolica, anzi il rito intellettualisticamente tradotto del sacramento della confessione, si chiude la vigilia terrestre del Purgatorio. La scena è austeramente immobile: nessuna effusione sentimentale, nessuna cadenza troppo aperta turba la severità del rito: che tuttavia s’innalza di quanto è sobrio e austero. Nella mitografia popolaresca, Pietro è il portinaio del regno dei beati: qui l’Angelo tiene da Pietro le chiavi, l’una d’oro, l’altra d’argento: la potestà carismatica della grazia e la scienza delle cose sacre. La presenza dell’Angelo in luogo di Pietro dà all’incontro un tono che dovrebbe essere più astratto, ed è invece più dimesso: lasciando diremmo a Pietro le sue funzioni di maestro e di giudice, quando si sia giunti in cielo. E i tre gradini, l’esame di coscienza, la contrizione, e l’amoroso proponimento di non offendere più la legge di Dio, sono la traduzione strutturale del sacramento, tre parti di un tempio: una pagina di Siccardo. Ma un’onda di suono alla fine canta l’inno della lode: Te Deum laudamus. Come si conviene al termine dell’officiatura dei notturni; e come si conviene al termine di quel preludio di vita che lungo l’Antipurgatorio ha guadagnato di riconciliarsi agli uomini e con Dio. Anche le porte di San Giovanni Laterano suonavano così, mosse; e la storia umana è allusa: il rugghio della rupe Tarpea. Due volti ha il mondo.

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If XXIX, 1-2. Pg VI, 43-45. 3 Pg VI, 47-48. 4 Pg VI, 118-119. 5 Pg V, 77-78. 6 Pg V, 79-81. 7 Pg V, 82-84. 8 Pg V, 89-90. 9 Pg V 94-96. 10 Pg V, 103; If XXVII, 61-63. 11 Pg V, 104-105. 12 Pg V, 51; 55-57. 13 Pg V, 85-86. 14 Pg VI, 26. 15 «Ma perché in tanta altezza, a quanta non s’era mai levato poeta, non si poteva costantemente tenere l’imitatore di Virgilio, l’uomo di parte, infoscato l’anima spesso o da odii crudeli o da dolori superbi o da non degni amori; le contradizioni al poema non mancano; e contradizioni sono, chi ben riguarda, anche certe malaugurate conformità. Per esempio, in questo Canto accennasi in due luoghi al passo di Geremia, laddove dell’Italia donna di provincie, e di Roma, che piange vedova e sola; ma lasciando stare che questa Roma è detta cosa d’Arrigo di Lucemburgo, e ch’ella piange perché questo Arrigo non la accompagna; in una lettera latina, parlando, forse simbolicamente, della morte di Beatrice citansi i Treni medesimi del profeta Geremia. E così i Treni paiono l’anello che lega in questo canto Sordello, il poeta iracondo, l’amante e rapitore della sorella d’Ezzelino, con la pura e mansueta e umile Beatrice»: TOMMASEO, Beatrice, Sordello, l’Italia, postilla al c. VI del Pg, ed. cit., p. 71. 16 Pg VI, 82-84. Nota «ed ora»: non si tratta di una distanza misurabile ad anni, fra il tempo del viaggio nell’oltretomba, 1300, e l’anno in cui scrive il canto. Si tratta di una distanza fra lo spazio e il tempo, del distacco fra la sfera sovrannaturale dove si era verificato l’incontro di Dante vivo con l’anima e quel tempo 1300 in cui l’azione si finge svolta. Dante non fa storia rapportando le figure alla dimensione del tempo (finché non si comprenderà bene questo, non si avrà il senso del procedere dalla cronaca al dramma spirituale; e nemmeno del distacco fra questo dramma spirituale dantesco e la storia intesa nel senso consueto, di giustificazione del tempo: nemmeno si avvertirà come la storiografia moderna si subordini alla intelligenza drammatica e totale del dramma spirituale), ma con una concentrazione energica della propria volontà di amorosa conoscenza, che si irradia verso l’oggetto, e determina una misura, cui rapportare l’infinita, ma assimilabile, varietà del reale. Dante va incontro alla storia, non la riassume nelle sue circostanze, per mutuarne una giustificazione del presente: il passato non si modula descrittivamente nella sua teoria, non ricama le molteplici circostanze, che infittite possono suggerire l’illusione di tutto il tessuto della realtà: della storia passata fa dramma, e della storia futura fa profezia. Il calcolo economico delle circostanze di tempo non lo tocca: e come nell’attualità di una perenne crisi spirituale, e con un riferimento liturgico all’anno santo milletrecento, sceglie una data che è in fondo estranea alla sua vicenda terrena, che solo l’indiscreto storicismo ottocentesco dei biografi poté giustificare dall’esterno (come se in quella primavera fosse accaduto qualcosa che non fosse comprensibile nella corte bandita del Giubileo), così esclude che il meccanismo delle cause abbia un peso altrimenti che come presenza drammatica. Si diceva, e si ripete, ch’egli sta fra il dramma e la profezia: tra due classi contigue, dunque, che non sono il passato e il futuro in quanto annullano il presente (che solo dal loro incontro si può riconoscere, che esiste solo in quanto esiste un prima e un poi): il presente, l’eterno ineffabile puntuale e reale presente, è la sola realtà autentica, e condiziona a sé il passato e il futuro: il passato come volontà morale giudicata, sia che cali nella sua forma superba, sia che si adombri nel suo trascolorare, sia che irraggi in una beatitudine purificata (sono i tre modi delle tre cantiche, s’intende); e il futuro come virtù di conoscenza, intellettuale dominio del possibile, acquisto di una dimensione che non decide nulla, anzi che vien deciso (basti il confronto fra la profezia infernale, che spesso è maledizione, «e detto l’ho 2

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perché doler ten debbia», e la profezia paradisiaca di Cacciaguida, che è vigilia d’armi («ché saetta previsa vien più lenta»; «sì come viene ad orecchia / dolce armonia da organo»; «non vo’ però che a’ tuoi vicini invidie»). Apoditticamente, se Dante scrivendo il canto di Sordello si guardasse intorno e lamentasse le discordie e misurasse una distanza materiale, non solo mostrerebbe di credere in chissà quale universal pace dell’anno milletrecento (l’anno in cui il luogo di Pietro «vaca» nella presenza del Figliuol di Dio; l’anno in cui si pensa al male, «là dove Cristo tutto dì si merca»), ma distruggerebbe tutta la superba consapevolezza e sublime della visione: non più un restringersi del tempo in quei pochi giorni del viaggio (uscir dal tempo non può mentre è vivo: si contrarne la misura), non più una situazione centrale e verticale da cui raggiare nel mondo, non più il puntualizzarsi di una presenza, insomma, ma una cauta o patetica scelta di falsi scopi, per intessere quindi il reticolato delle sue approssimazioni. La discussione, utile alla cronologia del Purgatorio, sul verso «giusto giudicio delle stelle caggia / sovra il tuo sangue» non deve subordinare ad una immediatezza di notizia appena ricevuta la sorte di Alberto Tedesco o di suo figlio Rodolfo: né tanto meno far che Dante, mentre scrive, attesti di trovarsi nella perplessità giustificata dalla situazione della visione in quella zona di tempo e di umbratile elegiaca spiritualità purgatoriale. Nella conciliazione pietosa e affettuosa dell’Antipurgatorio trovan luogo gli accenni diversi e modulati dell’apostrofe: la quale, se in principio rialza il tono apocalitticamente (e lo sdegno della poetica di Sordello vi avrà la sua parte), va poi discorrendo con accenti più pacati se non più lenti e si conclude con due modi che sarebbero fuor di tempo, se il tempo del «dittare» fosse supposto quando il giudizio di Dio s’era scatenato, quando la catastrofe fiorentina, in quel tremendo agone di esilii e di guerre, rendeva superflua l’ironia sulle vicende amministrative: «poi Fiorenza rinnova genti e modi» profetizza Vanni Fucci; ma qui: «leggi, moneta, officio e costume / hai tu mutato». Soltanto? E anche la prima invettiva contro Firenze aveva fatto centro dell’anno 1300 per annunziar la sciagura, di lì a poco, della guerra civile: «tu proverai di qua da picciol tempo / di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna». Quando i lettori antichi fissavano l’anno 1300 come data della composizione della Commedia, alludevano al fatto che il poeta s’immagina di scrivere nell’atto di vedere: «o mente che scrivesti ciò ch’io vidi»; e se postilla le vicende della sua vita, serba al dramma sacrale della visione la centralità liturgica dell’atto. 17 Pg VII, 96. 18 Così il CROCE, La poesia di D., cit. 19 Pg VII, 13-15. 20 Pg VII, 31-33. 21 Pg VII, 52-54. La spiegazione del Momigliano è insufficiente: «L’atto è tanto più solenne quanto più semplice»; ma a Tommaseo non era sfuggita la concordanza, che, pur senza commento, cita dal Vangelo di Giovanni: «Digito scribebat in terra». È presente, insomma, l’episodio dell’Adultera nel tema dell’adulterio politico. 22 Pg VII, 73-75. 23 Pg VII, 79-81. 24 Pg VII, 82-83. 25 Pg VII, 121-123. 26 Pg VII, 106-109. 27 Pg VII, 112-114. 28 Pg VII, 135-136. 29 Pg VIII, 1-6. 30 Pg IX, 1-3. 31 Pg IX, 7-8. 32 Ep. VI, 12. 33 Pg VIII, 19-21. 34 Pg IX, 70-72. 35 Pg VIII, 112-114. 36 Pg VIII, 73. 37 Pg VIII, 76-78. 38 Pg VIII, 55.

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Superbia

La struttura del Purgatorio Questo purgatorio della pena, dopo il purgatorio dell’attesa, e prima che il monte si schiuda sul riassunto, a suo modo parnassiano e arcadico, del Paradiso Terrestre, dell’ingenuità ritrovata, è, a mezzo del cammino dell’oltretomba, il più sorvegliato intellettualmente. Se i problemi di struttura, anzi la loro traduzione topografica, hanno meno affaticato il calcolo degli interpreti, questo è dovuto soprattutto all’evidenza della impostazione: scomparte quella zona del monte in sette cornici, noverate dal numero e nominate dal nome dei sette peccati capitali; nessun dubbio, in così esatto rigore: l’architetto è soddisfatto di una cifra tanto esplicita. Ma un perché più sottile di così pronta condiscendenza alla formula facile è che tanto le anime restano all’infuori della pena con la loro vita più intima: una vacanza penitenziale («io dico pena e dovria dir sollazzo»), che talvolta s’accende di un turbinoso entusiasmo ascetico, ché quella voglia a li alberi ci mena che menò Cristo lieto a dire «Elì», quando ne liberò con la sua vena1

(e anche qui leggi un accento gaudioso nell’inno: l’eco della sequenza cruciale, «dulces clavos, dulce lignum, dulcia ferens pondera», una via Crucis che ha al termine dell’itinerario un arco trionfale). Poco men suggestivamente provvisorie le cornici, che i cerchi dei cieli nelle danze liturgiche di Paradiso, prima che le anime si rivelino intiere nell’infinito abisso d’Empireo; ma della prigione eterna e scura d’Inferno resta, a quell’aria pura, un vago segno di minaccia, il ricordo di una stagione possibile e trascorsa. Il rigore della struttura è più facile perché, tanto, disinteressato. Nell’Inferno occorreva far calare un destino segnato e irrevocabile sul limite corporeo delle anime; e l’ansia, e la riluttanza, di quella forma esterna, di quel calco impresso sulla notevole nobiltà della persona, di quel bronzo imbestiato che mugghia con la voce dell’afflitto, portava a formule drammaticamente poste e contraddette; ma qui l’ordine può restare esatto e irremovibile, perché non è l’anima nel suo segreto, e nella sua integrità che gli si accosta: sono, appunto, stazioni. Noterai, ripercorrendo la classificazione virgiliana e platonica delle pene, che anche quella formula offerta, dell’amor del male, dell’amor del bene scemo, dell’eccesso d’amore, propone una intelligenza che esula da quell’inquadramento provvisorio: notizia di disposizioni che saranno poi propalate e diffuse, sino a smarrirsi nell’indistinto, nei primi tre cieli del 145

Paradiso; mentre per contro l’esattezza persino troppo agguerrita e puntigliosa era all’origine della classificazione aristotelica del canto undicesimo dell’Inferno. Capovolgimento significativo: la storia delle anime nel loro irrigidirsi infernale in una forma, in una condanna eterna, è predisposta, prelusa e sollecitata da quella perpetua malia delle Bestie: è un precipizio spalancato ai piedi del Colle e chiuso sul pavimento della ghiacciaia di Cocito: via via nei vari cerchi le anime s’arrestano, trovano ognuna il suo destino, danno un addio alla vita con quell’abbandono affranto che è di Ciacco (dopo l’abbandono appassionato di Francesca) fin dai primi cerchi; ma l’itinerario del Male prosegue dopo quell’arresto, dopo che sono state sepolte nella loro pena, suggellata o non che sia la tomba, come l’arche infocate degli Eresiarchi prima e dopo il Giudizio Finale: mentre le anime del Purgatorio visitano le cornici, si fermano più nell’una che nell’altra, a seconda della gravità maggiore o minore della colpa, e dobbiamo anche ammettere che tutte quante facciano il viaggio, prima d’esser rapite nel cielo per entro il vortice del grido «Gloria in excelsis Deo»: quando la montagna dall’ime radici si scrolla. Riassumendo: rispondente alla storia e all’itinerario del Male è la struttura d’Inferno, con le sue allusioni involute, che quasi si dipanano una dall’altra; conseguente alla natura e alla funzione ascetica della penitenza purgatoriale, alla provvisorietà della pena, direi a un compito parenetico, quasi di scuola ascetica, a dichiarazione dell’evidenza del male e in purgazion de l’anime converse2

è la rigorosa struttura del Purgatorio.

Gli “esempi” S’è detto, occasionalmente, scuola; e sull’idea che il Purgatorio sia scuola converrà tornare ancora: specie per una notabile differenza fra la dottrina quando è esposta nel Purgatorio e la dottrina quando è esposta nel Paradiso (del tono dell’esposizione vogliamo dire, ché in Dante la dottrina non è davvero immersa in un problematismo che la distrugge, e non si snatura, andando): nel Purgatorio l’ammaestramento è occasionale conferma di una disciplina prevalentemente ascetica; nel Paradiso è preludio alla gioia e alla figura della contemplazione. Il primo serrarsi in unità d’immagini e di ammaestramenti, e dunque la prima chiave offerta alla lettura di questo particolar modo, è la doppia serie degli «esempi» della prima cornice: esempi d’umiltà esaltata, esempi di superbia punita. Dante vi insiste con una preoccupazione evidentemente ammaestrativa: se cede alle condizioni estrinseche dell’arte (le condizioni estrinseche, in arte, attendono di diventare intrinseche occasioni; e anche qui), se non ne fa una galleria di cartelloni murali, se avverte e confessa e proclama il limite imposto dalla materia, che è la pietra, accade appunto perché è intento a far poesia dei limiti della materia: pone infatti qui le fondamenta di una poetica della scultura di cui non sarà mai scultore rinascimentale che non si ricordi. L’immagine della pietra è posata a 146

motivo conduttore della prima cornice: a capovolgere verso il bene il precipite mondo d’Averno occorre costruir dall’ultimo gradino toccato precipitando; e i superbi che si sono chiusi nell’estremo tradimento al Creatore, che chiedeva Amore, che han fatto di sé tomba di ghiaccio, han per contrapposto immediato quegli altri superbi che, dopo avere anch’essi amato il male del prossimo per innalzarsi, si sono aperti alla Grazia, hanno incominciato a risorgere staccandosi dal macigno che pur li grava, camminando sia pure a fatica sopra le tombe terragne che seppelliscono in effigie le superbie illustri. Ma una volta accettata l’indicazione tematica della «pietra», eccolo, diventato statuario, preoccuparsi della tecnica della scultura. E vi si rassegna a fatica: nella prima serie delle illustrazioni ogni suggerimento della sua poetica spiritualistica, che egli vorrebbe riguadagnare, con Casella, a ritroso delle petrose, urta contro la materia: Giurato si saria ch’el dicesse «Ave»! Dinanzi parea gente; e tutta quanta, partita in sette cori, a’ due mie’ sensi faceva dir l’un «No», l’altro «Sì, canta». Colui che mai non vide cosa nova produsse esto visibile parlare, novello a noi perché qui non si trova.3

E il contrasto lo conduce a superare anche il canone scolastico della imitazione della natura: non pur Policreto, ma la natura lì avrebbe scorno.4

Nella seconda serie di sculture, ad una affermazione così umilmente superba non s’avventura, quasi che l’incontro con Oderisi abbia il suo peso, anche in questo: benché sia vero che l’artificio mirabile delle tre composizioni sia attribuito direttamente al Creatore. Qual di pennel fu maestro o di stile che ritraesse l’ombre e’ tratti ch’ivi mirar farieno uno ingegno sottile? Morti li morti e i vivi parean vivi: non vide mei di me chi vide il vero…5

Ma gli esempi di umiltà si esaltano nella parete, già s’incamminano al cammino del cielo: gli esempi di superbia sono contristati dal faticoso calcare delle piante: «Or superbite, e via col viso altero, / figliuoli d’Eva»,6 raccomanda ironico.

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Una legge Un’altra legge lo sorregge: a muoversi per il cammino di Dio non vale tanto l’intervento della sua giustizia punitrice, che pure è conferma della sua volontà, quanto il gratuito atto d’amore; non tanto l’equilibrio ristabilito con la condanna di chi ha prevaricato, quanto il puro slancio verso il bene, l’incanto della virtù esaltata; la realtà dello spirito è positività, e il primo impulso non viene da un atto negativo come è la punizione di una colpa: ecco perché all’ingresso di ogni cornice si presentano al discepolo penitente gli esempi della virtù, a sollecitarlo; e all’uscita gli esempi del vizio punito, a confermarlo nel proposito.

Il contrappunto degli esempi di superbia punita Lo slancio verso il bene è indicato qui, fra i Superbi, proprio dall’esaltarsi, umanamente contraddittorio, dell’umanità: affermato ed espresso con un motivo stilistico già tante volte sperimentato: benignamente d’umiltà vestuta

a ripetere il motivo del saluto e della lode, così naturalmente ricollegabile col culto mariano; mentre giova alle illustrazioni della superbia punita questo riassunto non solo di esempi illustri, ma di tutto un mondo infernale scompartito in nuovi riquadri, con riprese decorative di parole (il riassunto della terzina ultima, con l’acrostico «vedeva», «oh», «mostrava»; i tre tempi della visita: guardare, commuoversi, ammaestrare dimostrando: è un curriculum pedagogicamente perfetto), e con un calcolatissimo contrappunto biblico, mitologico e storico, fra la caduta di Lucifero che apre la galleria e l’incendio di Troia che riassume la storia degli uomini, misticamente aprendo o necessitando la storia dell’umanità provvidenzialmente redenta.7 Storia sacra, Bibbia e storia profana si mescolano nell’abbondanza persin sazievole degli esempi: sui quali si riflette, attraverso il verso citato, l’ironia rivolta ai «Figli d’Eva», la storia della caduta: che si riappiglia, come di dovere Sumens illud Ave Gabrielis ore, funda nos in pace, mutans Hevae nomen

al primo esempio, quello dell’Annunciazione. L’inquadratura è rigorosa, lo scolasticismo del giuoco dei raffronti, l’abbondanza degli elementi strutturali, dichiarati così esplicitamente come non mai altrove, il gusto del riquadro e della cornice, danno un passo indietro sopra l’invenzione poetica dei primi esempi. Ma alla proposta dove sia poesia, anche un abbandono di prima lettura sa che cosa rispondere: è nello stesso preludio dell’Annunciazione, e nel dittico di Da148

vide e di Traiano, pietoso l’uno a Dio, pietoso l’altro alla giustizia, storia sacra e storia profana, coi due cori, l’uno liturgico, diviso in sette semicori, l’altro guerriero, con la schiera a cavallo, intorno all’imperatore, sotto il volo dell’aquile: Intorno a lui parea calcato e pieno di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro sovr’essi in vista al vento si movieno.8

È una spedizione crociata, questa che si celebra al suo principio con un atto di umiltà e di giustizia: preludio ancor esso al «mistero» di Traiano, nel cielo dell’Aquila. Ma anche alla domanda verso che si muova la poesia, quale vita inizi, in quale storia si celebri, risponde la lettura: appunto congegnando il mirabile slancio della pura invenzione nella struttura illustrativa e decorativa e, riassuntivamente, didattica della seconda serie: molta parte della storia della poetica della Commedia è chiusa in questo passaggio.

Ultima fase del figurare: sentimento e partecipazione Una significativa conclusione, o riassunto, della sua indagine intorno all’arte dispone in una similitudine, tratta anch’essa dalla scultura: Come per sostentar solaio o tetto, per mensola tal volta una figura si vede giugner le ginocchia al petto, la qual fa del non ver vera rancura nascere in chi la vede…9

Ecco l’arte riportata al suo compito più accreditato, di suscitare sentimenti: quelle cariatidi raffigurano un dolore immaginario; eppure eccitano una sofferenza inquieta: non si tratta più, come nei primi esempi, di dischiudere l’itinerario di una vita spirituale, vincendo la materia nell’immagine trascendentale; né di illustrare storicamente un fatto, riportandolo nella sua integrità agli occhi dello spettatore, ma subordinato a un compito gnomico; bensì di suscitare un sentimento, di evocare dalle forme morte la vita di una partecipazione: qui, la vita della solidarietà nel dolore. La fantasia del poeta si ripone in cammino, attraverso questo intermezzo dell’arte come, direbbero i moderni, intuizione pura del sentimento; e il rapporto stabilito fra il tema decorativo (ormai una cifra, nei motivi architettonici che i romanici avevano ereditato dalla classicità) e la realtà sentimentale si appoggia proprio al gran tema della solidarietà nel dolore. Introduzione al Purgatorio della pena anche questa, e felicissima. Bene che subito dopo aver detto: e qual più pazienza avea ne li atti, piangendo parea dicer: «Più non posso»10

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s’innalzi in coro la preghiera del Pater Noster; e che questa preghiera, la preghiera a Dio Padre, rimanga come nota tenuta, come preludio e riassunto, di tutte le preghiere, vie più liturgiche, che intonano le anime del Purgatorio, riacquistata ormai la fondamentale solidarietà umana, perduta ad opera, anzitutto, della superbia.

La parafrasi del «Padre Nostro» Dalla parafrasi del Padre Nostro ci attenderemmo che Dante mettesse in rilievo i temi dell’umiltà, e della filiazione divina, e dell’amorosa dipendenza dal Padre che è nei cieli; ma queste sono le condizioni preliminari del canto, della preghiera che nella parafrasi diventa inno, con sue scansioni meditate, con la cadenza salmistica delle terzine, con lo sviluppo calcolato di ciascun tema, ampliato nella elaborazione concettuale della parola di Cristo. Prevale anche in questo momento dell’episodio quella accentuazione didattica che dicevamo; anzi, intenzione di rappresentare in atto una scuola ascetica, oltre che di seguirla: necessario che il Padre Nostro apra anche questa officiatura, come ogni altra del Breviario Romano: necessario, dacché siamo in una scuola di penitenza, che mentre l’effusione sentimentale rimane allusa dal canto e sospesa nella sfera indeterminata delle aspirazioni, il commento alle parole sacre sia fatto secondo precise proposizioni dottrinali e catechistiche; costi pure, questo intento di rendere esplicite le circostanze accessorie, l’obbligo di lasciare nell’ombra ciò che è più attivo, seppure implicito, della preghiera. Ad una ad una le frasi evangeliche sono con precisione commentate: «sei nei cieli»; e lo scolastico rammenta che non si può propriamente parlare di una localizzazione di Dio, che non può essere «circoscritto»: né perché abbia limiti la sua potenza; ma perché più ama gli angioli e le creature celesti (senza nominare gli uomini, pur destinati alla patria celeste; ma questa è ascetica dell’umiltà); «laudato sia il tuo nome»; e si stabilisce il rapporto intellettualistico fra la misura della lode e la dignità della persona; «venga il tuo regno», e si insiste sulla gratuità del dono divino, della pace angelica che discende sugli uomini, fra i tanti vani conati di questi che la distruggono nell’atto stesso dello sforzo; e così via: finché l’ultimo versetto, «et ne nos inducas in tentationem», richiama alla mente e nel giro della preghiera la presenza degli uomini «che dietro a noi restaro», la turba della chiesa militante. Così continuamente avvicinandosi a un paragone, senza mai identificarsi in tutto, né con la parola né con l’atto. Ma questa è l’applicazione più coerente che mai sia stata tentata del distacco purgatoriale fra il penitente e la pena: di una sorte più degna, di una nobiltà che irraggia pur mentre l’uomo è prigioniero della Grazia. L’immagine della tomba, che a commentare orchestricamente il tema della morte correva l’Inferno, spiccando fra gli Eresiarchi, fra i Simoniaci, fra gli «spirti del cerchio di Giuda», e il tema complementare della pietra, a contraddizione di Pietro, su cui è fondata la chiesa di Cristo, ritorna qui, naturalmente; e s’è ancor questo alluso: alle tombe terragne. Ma il distacco è segnato, con una evidenza persin troppo ferma, con una forza che diventa violenza di materializzazione, dal fatto che la pietra non sommerge ormai in sé, nel suo sepolcro, l’anima; ma gli grava 150

le spalle. Con la materia bruta il vecchio uomo si identificava: ora la sopporta; e distaccarsene fu il primo e risolutivo sforzo per la redenzione: ne soffre, ne geme, piange, ma la sua sorte non è più di macigno. L’anima è dunque distaccata dalla sua sorte, per la prima volta, anche in senso morale; e mentre il contrappunto poetico di tante anime infernali giovava sì a Dante, ma non sottraeva quelle al loro destino, anzi, da Farinata a Ugolino, ve le ribadiva, ormai, vinto lo strazio del distacco da così dura matrice, l’anima è cosa diversa dal suo destino, non invoca più d’essere distinta, e riconosciuta per sé, non per quello, è a prima vista libera, superiore alla sua pena, arbitra della sua sorte.

Epilogo dei Superbi A un momento dato, il peso della pietra, che grava i Superbi, diventa per Dante, nelle parole di Virgilio, il peso della carne: Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi tosto, sì che possiate muover l’ala che secondo il disio vostro vi lievi, mostrate da qual mano inver la scala si va più corto; e se c’è più d’un varco, quel ne insegnate che men erto cala: ché questi che vien meco, per lo ’ncarco de la carne d’Adamo onde si veste, al montar su, contra sua voglia, è parco.11

Pagine di alta oratoria formano le allocuzioni di Virgilio: di rado diventano così drammatiche. Ancora il tema del peccato di Adamo, peccato di superbia, già alluso parlando dei figli d’Eva; e il tema alato del volo dell’anima, sgravata dal soccorso della giustizia e della pietà; e il tema del carco, con l’allusione al peso che inviluppa il vivo, non che gli sovrasta, che lo fascia e l’impaccia: prigione e tomba della carne. Ma all’altro capo dell’episodio, quando gli incontri sono accaduti, e attraverso loro Dante ha ricevuto se stesso in mistico dono del suo partecipare alla pena dei Superbi, hai l’episodio dell’Angelo. Fattura stilnovistica dello stile: ma è un’esperienza accresciuta di tutta la ricchezza della poesia dell’Antipurgatorio, estasi di spazi immensi e di luce di stelle e commozione che vibra nel segno dell’artefice, A noi venia la creatura bella, bianco vestito e ne la faccia quale par tremolando mattutina stella.12

Qui il commento all’immagine, che per sé sola vale, istituito dal poeta stesso, batte e ribatte sul tema della levità e dell’aggravio:

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Le braccia aperse, e indi aperse l’ale e agevolmente omai si sale Menocci ove la roccia era tagliata: quivi mi batté l’ali per la fronte, poi mi promise sicura l’andata.13

Persino un ricordo a cui non sa rinunciare, un paesaggio fiorentino, la scala di San Miniato al Monte, è ricondotto nello slancio del salire e dall’andamento volante dei versi dattilici al tema della levità e della trasfigurazione: per le scalee che si fero ad etade ch’era sicuro il quaderno e la doga; così s’allenta la ripa che cade quivi ben ratta da l’altro girone.14

Del resto, la conclusione del canto non è in questa quasi dispettosa citazione di un ricordo, anche se rimediata dalla nostalgia del buon tempo antico: è nel canto del Beati pauperes spiritu, la prima delle beatitudini che suonano di cornice in cornice, in quel transito verso la città dei santi: la liturgia introduce infatti il discorso della Montagna e la sequenza delle Beatitudini nell’officiatura di Ognissanti; e affacciarsi alla felicità empirea è già l’atto della liberazione da una cornice di pena. Voci disincarnate e misteriose, «che nol diria sermone»; e sottolinea il contrasto con l’ingresso alle cerchie infernali. Ancora una volta, l’accesso alla scuola penitenziale è un atto di letizia: come se si celebrasse ogni volta la levità dell’Antipurgatorio trasfigurata dall’attesa. E ancora una volta echeggia il tema della levità, in due riprese: ed esser mi parea troppo più lieve,15

dice dell’atto del salire per gli scaglioni santi; e: fia diletto loro esser sospinti,16

quando saranno cancellati dalla fronte del Poeta tutti i P che vi ha impressi l’angelo portinaio: poi, con più sottile intenzione, nell’atto di Virgilio: a che guardando il mio duca sorrise,17

che degli epiloghi dei canti è il più dolcemente smarrito ed assorto.

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I tre incontri Nel mezzo i tre incontri. E nota il nuovo stile di questa ritrattistica: ché sotto il peso del mondo «simile a quel che talvolta si sogna» Omberto Aldobrandeschi parla poche parole difficili, faticose, quasi a contraggenio si piegasse all’opportunità santa di chieder pietà e preghiera; i versi ribattono con moti aspri lo sforzo: e s’io non fossi impedito dal sasso che la cervice mia superba doma, onde portar conviemmi il viso basso, cotesti, che ancor vive e non si noma, guardere’ io, per veder se ’l conosco e per farlo pietoso a questa soma.18

La sua stessa superbia del nome è contraddetta, se pur cede al fatto concreto della grandezza del padre, un Gran Tosco, Guglielmo Aldobrandeschi, e al canone della nobiltà tradizionale, «l’antico sangue e l’opere leggiadre»: non so se ’l nome suo già mai fu vosco… come, i Sanesi sanno e sallo in Campagnatico ogni fante…19

È una nomea che si spegne: preludio al terzo ritratto, ancora di Siena: e ora a pena in Siena sen pispiglia.20

Ma Oderisi quasi diresti che muta l’inquietudine nell’ansia della ciarla fin da quel primo moto di affetto, quando lo sguardo del pellegrino, chinato in segno di rimorso alle parole di Omberto, incontra lo sguardo di lui, che per la colpa più lieve può, sotto il carco, storcersi e tener fiso a fatica lo sguardo: e videmi e conobbemi e chiamava.21

L’abitudine delle società d’artisti, la ciarla, pur con buona intenzione, e il parlar divagando, e le verità sentenziose dette all’impensata, non men vere, ma guastate dal tono, ritornano, quando la lode di Dante ha aperto le cateratte della sua malagrazia verbosa. Così sentenziando imbrocca un tema imponente, il progresso nell’arti: com poco verde in su la cima dura se non è giunta da l’etati grosse,22

accorre a un luogo comune, a una verità universalmente riconosciuta: 153

credette Cimabue ne la pintura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,23

e infine scatta quasi in una gaffe, conversando, in qualcosa che non è opportuno dire in quel luogo: «forse è nato / chi l’uno e l’altro caccerà del nido»:24 perché se la gloria della lingua toccasse ad altri, dopo Guido Guinicelli e dopo Guido Cavalcanti, anziché a Dante, non sarebbe un complimento; se poi toccasse a lui, non è opportuno rammentarlo, ché sta appunto pentendosi della vanagloria. E divaga: imita il linguaggio dei bimbi, per irridere meglio, bamboleggiando, la prosopopea della gloria, fa una rapida incursione nel campo della politica internazionale, e chiude con una sentenza oscura: La vostra nominanza è color d’erba, che vien e va, e quei la discolora, per cui ella esce de la terra acerba.25

Si tratta del Vento? O del Sole? O di un riflesso di luce divina, opera di Dio Gloria? Intanto, nell’apoftegma dell’eugubino, il tema della gloria è venuto a galla, scontrosamente sottinteso nel monologo dell’Aldobrandesco: quel tema che corre anch’esso il canto, a contrappuntare il tema del peso e dell’ali: non per nulla alata è la fama, non per nulla faticosa è la vita, e l’arte l’ha fatto per più anni macro. Ma appunto nella meditazione di questo tema si palesa uno dei segreti della vita penitenziale: la partecipazione alla pena, nell’incontro dell’anima con l’anima, distaccata dalla sua sorte; e progredisce il discorso del poema. Superbia della stirpe e superbia dell’arte, nei due “esempi” di Omberto e di Oderisi: i due moti di superbia che occupavano l’anima di Dante. E non è solo di esperienza individuale che si tratta: dietro Dante è la vita fiorentina, ancora una volta allusa, attraverso la menzione del momento cruciale della sua politica espansionistica, stroncata alla battaglia di Montaperti, da Siena, quando signore di Siena era quel Provenzan Salvani «che del cammin sì poco piglia / dinanzi a me»,26 come riferisce, cronisticamente, l’artista. Ecco, attraverso l’esperienza di questa pena partecipata da Dante, e nella persona di Dante, si palesa un modo d’evasione: ché quella superbia della stirpe diventa pur motivo di benfare, in sede politica; e quella superbia dell’arte motivo di opere degne.

Provenzano Il vertice del processo di purificazione è in Provenzan Salvani. Autoritratto fra i più potenti, questo: o definizione autobiografica attraverso l’incontro con una creatura sorella: ma poco tempo andrà che’ tuoi vicini faranno sì, che tu potrai chiosarlo.27

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Ma il dramma è necessario solo nel punto che Dante si è identificato con la sorte dei penitenti: e così sempre nel Purgatorio della pena, dove il vivo diventa il mediatore dei morti, e s’accresce della loro esperienza, e per loro si rivela. Un atto tremendo ed eroico, nella vita di Provenzan Salvani, converse in potenza di bene quell’empito di orgoglio che lo teneva legato al peso e all’opera della carne superba; ed è la carne stessa che trema, la sua persona che s’impietra, tutto il suo essere che si capovolge audace, e finalmente vittorioso, sopra di sé: Quando vivea più glorioso, disse, liberamente, nel Campo di Siena, ogni vergogna diposta, s’affisse; e lì, per trar l’amico suo di pena che sostenea nella prigion di Carlo, si condusse a tremar per ogni vena.28

Il terzo dei ritratti, prima di diventare autoritratto e di fondar la catarsi del dramma della superbia, contrasta sia lo strazio contraddittorio e riottoso del primo, sia la verbosità divagante del secondo: muto è Provenzano; e senza remissione con se stesso: ito è così e va sanza riposo poi che morì.29

E nella fierezza di una volontà tutta tesa all’opera di misericordia, come altra volta rattratta in sé, senza sosta, senza pietà, muto e terribile, cammina lentamente in giro per il cerchio. Anche la storia di Dante esule è riassunta in questo attimo tremendo ch’ebbe la sua cornice nel Campo di Siena: anch’esso ebbe a decidere di sé, e vinse, nell’ignominia accettata, voluta, sofferta. Da questa bassura della superbia, tanto vicina alla ghiacciaia infernale, l’anima di Dante si schianta; ma dalla gloria del cielo di Giustiniano scenderà l’elegia del dono confidente e non ricompensato: i due autoritratti, nelle due diverse effigie che l’artefice si presta, Provenzano e Romeo, si guardano affrontati: il dramma nell’attimo indicibilmente intenso della decisione ultima; e l’elegia andante e allegra del commiato «indi partissi povero e vetusto»,30 raggiato dalla gloria imperiale.

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Pg XXIII, 72-75. Pg XIX, 116. 3 Pg X, 40; 58-60; 94-96. 4 Pg X, 32-33. 5 Pg XII, 64-68. Tutto questo s’accentua graficamente, mettendo il punto esclamativo, per quel che vale e per una indicazione retorica e barocca che gli si riconnette, al posto dell’interrogativo che non ha ragion d’essere, dopo quanto ha detto. 6 Pg XII, 70. 2

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7 Il giuoco degli esempi paralleli è esaminato dal PARODI, Gli esempi di superbia punita, in Poesia e storia, cit.; e buone chiose dà lo Zingarelli nel paragrafo delle sculture terragne e delle tombe parallele. Ogni lettura vi insiste; ma toccò al Pietrobono (Dal centro al cerchio) approfondire l’indagine del concetto, o del senso, ordinatore. Ma «il complesso costituisce un acrostico, ed è uno dei peggiori esempi costruttivi di Dante, di significato morale e di gusto medioevale, artisticamente affatto inutili e dannosi» (MOMIGLIANO). Così della postilla. 8 Pg X, 79-81. 9 Pg X, 130-134. 10 Pg X, 138-139. 11 Pg XI, 37-45. 12 Pg XII, 88-90. 13 Pg XII, 91; 93; 97-99. 14 Pg XII, 104-107. 15 Pg XII, 116. 16 Pg XII, 126. 17 Pg XII, 136. 18 Pg XI, 52-57. 19 Pg XI, 60; 65-66. 20 Pg XI, 111. 21 Pg XI, 76. 22 Pg XI, 92-93. 23 Pg XI, 94-95. 24 Pg XI, 98-99. 25 Pg XI, 115-117 26 Pg XI, 109-110. 27 Pg XI, 140-141. 28 Pg XI, 133-138. 29 Pg XI, 124-125. 30 Pd VI, 139.

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Invidia

Tipologia dell’invidia Il ricordo della pena dei Superbi getta la sua ombra assai lontano nel poema; e nel colloquio di Cacciaguida, preludendo all’inno delle origini della città e della schiatta, la pena di Alighiero I rallenta il corteo delle generazioni: quel da cui si dice tua cognazione e che cent’anni e piue girato ha il monte in la prima cornice.1

Più prossima l’ombra è più ferma; e Dante stesso, nelle confessioni misericordi del canto degli Invidiosi, se ne rammarica: «Li occhi», diss’io, «mi fieno ancor qui tolti, ma picciol tempo, ché poca è l’offesa fatta per esser con invidia volti. Troppa è più la paura ond’è sospesa l’anima mia del tormento di sotto, che già lo ’ncarco di là giù mi pesa».2

Ma è Sapia, con la signorile condiscendenza della sua donnesca gentilezza, che l’invita a quel modo di colloquio. Un nuovo senso di vita, trepidante e aperto, prende da quando Virgilio, riaccennato il tema, con cui l’aveva invitato a trascorrere i Superbi, «lascia loro e varca» ché qui è buon con la vela e co’ remi quantunque può, ciascun pinger sua barca3

(è il tema della navigazione poetica; e non per nulla accennato: ché far poesia è un modo, come vincer la superbia, di oltrepassare le sollecitazioni e i pesi del mondo), esortatolo a liberarsi anche dell’attrazione pedagogica degli esempi morali, lo innalza: Drizza la testa: non è più tempo di gir sì sospeso.4

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Liberata da quel peso l’anima è piena di slancio inquieto: ha una repentinità giovane di moti, puerilmente tituba, s’appoggia malcerta, accorre al primo richiamo. Di circonstanziare gnomicamente il peccato d’invidia il poeta meno si cura, benché lo sottolinei con gravità: Fu il sangue mio d’invidia sì riarso, che se veduto avesse uom farsi lieto, visto m’avresti di livore sparso.5

Sono operazioni quasi meccaniche, vampe del sangue, letizia che diventa livore; e la severità contegnosa della condanna pare smentita da quella dimessa confidente semplicità con cui quest’anima, come l’altre, s’accosta al colloquio: accettano la mascherata dolorosa dei manti di vil cilicio, la tortura delle palpebre cucite con filo di ferro, mutano in vivacità sommessa, vivacità d’anima e d’attenzione, quel loro esser costrette, il vincolo del manto e della cecità: ché a tutti un fil di ferro i cigli fora e cuce sì come a sparvier selvaggio si fa, però che queto non dimora.6

«Fora e cuce» esprime la tortura che ribadisce la pena; ma l’immagine dello sparviero crudele e impetuoso, costretto e immobile, pur suscita l’idea di attribuire anche all’anime un impulso impaziente domato, una repentinità costretta, ma inizialmente selvaggia, di moti. Ben altra era, in Inferno, la diagnosi della colpa dell’Invidia: già si ricorda che aveva dipartita la Lupa dall’Inferno e scatenatala nel mondo; ed era intesa come un lungo livore non mai estenuato, che invadeva l’Abisso e discendeva alle risse maledette della città infernale, di frode in frode, di strage in strage. Adesso lupi e cani torneranno a popolar la favola bestiaria, ma la metanoia penitenziale, quel capovolgersi dell’anima verso l’infinito dello spirito, la conversione, par ch’abbia paralizzato la rabida potenza della Bestia, e il male è lontano, rievocato nei tenebrosi ricordi, quasi sogni; ma l’impulso vitale permane anche costretto e volto in direzione opposta: trepida, s’accende, si spegne.

La scuola degli invidiosi penitenti Il pellegrino, che coi Superbi andava «di paro», aggiogato ad una stessa penitenza, qui, senza accecarsi, s’investe dell’atmosfera psicologica della cornice: piange in silenzio, accenna a Virgilio, quando vorrebbe parlare, intona una allocuzione solennemente retorica sulla metafora della luce e sulla metafora del fiume, subito ridiscende alle prime parole accorte di Sapìa, che accortamente lo corregge, e parla da vicino e dimesso. Anche quando da Sapìa il colloquio passa a Guido del Duca e a Rinieri da Calboli, egli è sommessamente intento; e le sciagure annunziate paion venirgli da lontano, quasi non toccarlo nel vivo. Infine, si ascoltano senza parlare, certi gli uni della soccorrevole fiducia degli altri. 158

Noi sapevam che quell’anime care ci sentivano andar: però tacendo facean noi del cammin confidare. Poi fummo fatti soli procedendo.7

Anche la solitudine titubante è di un cammino cieco: così la pietraia (è il tema della pietra, che dalla cornice dei Superbi si ridistende su questa) diventa livida; e il colore dei manti le s’uniforma. La memoria ricorda il manto degli ipocriti, rutilante, quanto questo è squallido; e il ricordo aiuta a rovesciare in forza viva la penitenza, il «collegio degli ipocriti tristi» in questa classe, forse la più animata e gentile della scuola ascetica del Purgatorio. Quella solitudine che apre e chiude l’episodio, da «ombra non li è né segno che si paia»,8 al verso citato, «poi fummo fatti soli procedendo», è ancor la solitudine degli ipocriti, da «taciti, soli e sanza compagnia» al turbamento con cui Virgilio, a gran passi, si stacca dagli ironici Godenti; ma qui vale a introdurre non più lo sdegno del far parte per se stesso, ma il senso del commiato dalla vita. Così la preghiera conventuale, che qui allevia e conforta la pena, è quella della comunione dei Santi, le litanie che legano la milizia terrestre al trionfo paradisiaco: che è l’annuncio, quasi la presentazione a suo modo acclamata e trionfale, di quel gruppo, simile a una torma di ciechi «cui la roba falla»,9 a un santuario in una festa d’indulgenza. A chiudere l’episodio dopo che l’Angelo della Misericordia li ha invitati alla terza cornice, voci spirtali intonano la beatitudine dei Beati Misericordes; e un motto vi s’aggiunge, «Godi tu che vinci».10 Ancora un passo sul cammino della gloria: la città del mondo è indicibilmente lontana.

La conciliata commedia di Sapìa Chi ha introdotto questo senso di commiato dalla città terrena, e come dissipato il ricordo della città infernale dell’invidia, è stata la cittadina Sapìa, quando all’allocuzione di Dante risponde con una soavità che par sorridere: alzando intanto il mento «a guisa d’orbo». Il tono è di commedia; e l’autore prevede l’obiezione che gli potrebbero fare: com’era che Sapìa «aspettava, in vista»? Eccolo accontentato, il curioso. Nella storia, Sapìa entra di sbieco: zia del dittatore di Siena, Provenzano Salvani, l’eroe che con muto soffrire lentissimamente gira nella cornice di sotto: le zie, anche nella Commedia dell’Amore di Ibsen, non fanno storia.11 Nella cronaca s’affaccia starnazzando, mentre assiste a quella battaglia di Colle dove appunto morì Provenzano, e fu vendicata dai Fiorentini la rotta di Montaperti: volsi in sù l’ardita faccia gridando a Dio: «Omai più non ti temo», come fé il merlo per poca bonaccia.12

Volubilmente ciarlando si confessa; e determina quel giro di confidenze leggere, dove Dante stesso si lascia prendere: «odi s’io fui, com’io ti dico, folle, / 159

già discendendo l’arco dei miei anni».13 D’aver così folleggiato, non più giovane, stupisce; e lo chiama a testimonio, curiosa di veder se lui pure sarà curioso, preso dal caso strano. Strano? Essa aveva invaso a suo modo la vita cittadina con una violenza stolta e blasfema: pregando Dio che i suoi concittadini, giunti a battaglia coi nemici, siano sconfitti; e poiché Dio non esaudisce lei, ma persegue il Suo disegno, esulta e l’oltraggia. Noterai, nella compiacenza del racconto, un eccesso di violenza: né diresti che Sapìa sia in tutto purgata da una vanità orgogliosa di primato, un ripicco pettegolo, accanto alla gigantesca volontà di potenza di Provenzano. Ma la stranezza che più la sorprende è d’essere fatta segno di quella misteriosa operazione che la converte; e a questa stranezza chiama, quasi esigendola, l’attenzione curiosa del viandante. Diresti che la bestemmia diventa chiacchiera, e il dramma dantesco goldoniana commedia, se Sapìa non passasse d’una in altra meraviglia: perché è appena accaduto il miracolo del suo condiscendere a voler pace con Dio, ma non prima di esser giunta all’ultimo della vita, ed ecco accade l’altro miracolo di Pier Pettinaio: un terziario onestissimo e scrupoloso, assai distante nella vita sociale da quella invadente nobildonna, che l’ignora; e costui, l’umile artigiano mercantuccio, prega per lei non per altro che per carità: non compensato, non richiesto, in silenzio, soccorre la peccatrice ciarliera, s’innalza in silenzio di quanto l’invidiosa superba era caduta, le abbrevia la sosta e l’attesa nell’Antipurgatorio. Maestra dell’arte della conversazione, la matrona ha detto tutto di sé, non sa ancor nulla di colui cui parla; ma quando Dante s’è confessato, condiscende ad ammettere che i miracoli non si esercitano solo sulla sua persona: «Oh, questa è a udir sì cosa nova», rispuose, «che gran segno è che Dio t’ami».14

Il giuoco sorridente ed abile di questo commiato leggiadro dalla vita cittadina Dante non lo conduce tanto in là da distruggere la serietà dell’occasione: Sapìa, che in vita, lo giurereste, non ha mai chiesto nulla a nessuno, si adatta a chiedergli preghiere; ma sommessamente, da sola a solo, «però, col prego tuo talor mi giova»;15 poi altro gli chiede, e in compenso s’abbia quel che più desidera: che si dica bene di lei fra la sua gente. Nell’atto di raccomandarsi, con un bagliore di sorriso sul volto spento, non può fare a meno di prendersi beffe di loro, cui si raccomanda: «gente vana»; e un’ombra di maldicenza sfiora e chiude il colloquio, rammentandoli speranzosi delle flotte di Talamone e del fiume di sotterra.

Apocalisse dei popoli toscani Stupendo anticlimax, l’episodio di Sapìa, che introduce la distensione nel nodo della tragedia, e non una ma più immagini di una sola donna, come in certi ritratti (anche poetici: il Portrait of a Lady di T.S. Eliot, per esempio: uno studioso di Dante) nella modulazione di una sola linea di composizione stilistica o di monologo: 160

tutte presenti, la vecchia Sapìa e la nuova, l’invidiosa politicante e la chiacchierona patetica, la donna delle grandi collere crudeli, nel mezzo dell’orrore della mischia e della disperazione, e l’anima stupefatta ai prodigi. Ma le lontananze e le trasparenze che essa introduce nel discorso, quel suo modo di dir di là dalle parole e di alludere, e di lasciarsi intendere anche nelle svolte del discorso, rimane a dare il ritmo e lo stile anche d’altri episodi; seppure il commiato della città terrena, che essa ha pronunciato gentilmente ammonendo, sommuova nell’animo di Dante altri fondi di memoria. A ricordare egli è tratto quasi a forza, dal dialogo dei due ciechi, che ragionan di lui accanto a man dritta; e se l’orgoglio del luogo d’origine squilla altrove, «i’ fui nato e cresciuto / sovra il bel fiume d’Arno e la gran villa», qui c’è il peso della vita e del paese della fama: Per mezza Toscana si spazia un fiumicel che nasce in Falterona, e cento miglia di corso nol sazia. Di sovr’esso rech’io questa persona: dirvi ch’i’ sia saria parlare indarno, ché ’l nome mio ancor molto non sona.16

L’incontro con quell’altro chiacchierone, Oderisi, ma più con Sapìa, gli è stato salutare all’anima e al carattere; ma Guido del Duca (occorre il silenzio di Rinieri da Calboli, o il suo cauto intervenire, timoroso di quell’ignoto che trascorre fra i morti, per indurlo a più ampio parlare) risospinge nell’ombra ogni ricordo, e dopo aver gettato uno sguardo a tutta la catena appenninica, quasi per designare con un termine di orribile eccellenza la vallata del miserando fiume, intona la tumultuosa apocalisse dei popoli toscani: la virtù è perseguitata come un serpente da quegli sciagurati, ed essi si mutano in bestie: porci casentinesi, botoli aretini, lupi di Firenze e volpi di Pisa; e via via il fiume discende e precipita come se non l’attendesse il mare e il cielo che Aronta mirava, ma l’Inferno: fatto bestia lui pure, «e da lor disdegnosa torce il muso».17 «Povero calle», «vassi caggendo», «maledetta e sventurata fossa», «discesa poi per più pelaghi cupi»;18 su quel paesaggio si scatena la furia di Fulcieri da Calboli, «antica belva»: Vende la carne loro essendo viva: poscia li ancide…19

Che se passa l’Appennino e scende in Romagna, la sua fantasia (e la confessione l’ha resa ancor più audace) non si riposa; solo, allentandosi l’impeto del giudicare, egli rievoca appassionatamente la cortesia e il valore della vecchia gente di Romagna: una terra fattasi selvaggia, che prima, in quei termini geografici che la designano «tra ’l Po e ’l monte e la marina e il Reno», pareva un giardino. Ad uno ad uno come in una cavalcata passano i gentili antichi, e scompaiono alla svolta del tempo i moderni, buoni e malvagi, senza che alcuno della loro stirpe sopravviva, o prosegua una eredità dignitosa; e il discorso s’annoda dal suo centro, quasi in un motto d’impresa cavalleresca: 161

le donne e i cavalier, li affanni e li agi,20

verso ch’ebbe così lunga storia. Tra l’inferno della profezia di Toscana e l’epicedio elegiaco della gente di Romagna, il ricordo della dolce terra è scomparso.

Il commento delle voci Anche nell’intensità efferata della rievocazione apocalittica, come nell’accorata elegia del passato, si smarrirebbe il senso della attualità drammatica: dico del dramma che le anime soffrono, convertendo in amore l’impulso che la vita aveva degradato e imbestiato nell’odio; né la conversazione di Sapìa era certo suggestiva di senso tragico. A quell’attuale tragedia Guido del Duca si riconduce accommiatandosi da Dante: Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta troppo di pianger più che di parlare.21

Ma non avremmo il tema dell’angoscia della pena e la metanoia della carità soccorrevole senza il commento musicale delle voci, cornice che circonda la cornice. Forse anche a rimediar quel che di verboso ha l’attesa un po’ querula dei ciechi? Certo la parola qui dice meno della sua accentuazione musicale; la quale esprime con il ritmo quel che per sé non possono le parole: un empito volante in quelle voci che si inseguono ancor calme e solenni, con gli esempi di carità: dove la raccomandazione della Vergine, Vinum non habent, diventa impeto e soccorso «altamente disse… dietro reiterando»; il contrasto drammatico di Oreste e di Pilade diventa un tuono senz’eco, «passò gridando e anco non s’affisse»; e la terza, senza commenti, ecco la terza dicendo «Amate da cui male aveste»,22

scende pia e ferma come la voce eguale del Discorso della Montagna. Più severa e fiera suggestione di tragedia offrono le voci degli esempi d’invidia puniti:23 prima il tremendo grido di Caino, inscenato con indicibile violenza, tra lo schianto del fulmine e lo scroscio del tuono; poi la perduta confessione di Aglauro: folgore parve quando l’aere fende, voce che giunse di contra dicendo: «Anciderammi qualunque m’apprende»; e fuggì come tuon che si dilegua se subito la nuvola scoscende. Come da lei l’udir nostro ebbe triegua, ed ecco l’altra con sì gran fracasso che somigliò tonar che tosto segua: «Io sono Aglauro che divenni sasso».24

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La musica diventa suggestione e inquadratura scenografica; e mentre gl’incontri con le anime si sono svolti nel tono vario, ma trattenuto, di un giudizio sulle cose del mondo, qui l’invidia rivela il suo volto atroce: Aglauro invidiosa dei doni degli Iddii, e Caino geloso della Grazia su Abele: la tragedia risalta demoniaca.

1

Pd XV, 91-93. Pg XIII, 133-138. 3 Pg XII, 4-6. 4 Pg XII, 77-78. 5 Pg XIV, 82-84. 6 Pg XIII, 70-72. 7 Pg XIV, 127-129. 8 Pg XIII, 7. 9 Pg XIII, 61. 10 Pg XV, 38-39. 11 Cfr. un articolo di PIETRO ROSSI in D. e Siena, Siena 1921, e le ricerche documentarie di U. FRITTELLI, Si può rinfamare Sapia?, Siena 1920, e di A. LISINI, in “Bull. sen. d. st. patr.”, XXVII (1920). Alle donazioni ospitaliere, così connesse con la politica magnatizia nella cessione dei feudi e dei castelli ai comuni cittadini, non sarà da dare peso soverchio. Assai più al contrappunto dantesco: quello con Provenzano morto a Colle, «Andrai combatterai vincerai non morrai e la tua testa fia la più alta testa del campo», dove il capo mozzo fu issato su una picca, è evidente. Ma Benvenuto non trascura il riscontro sottile con Cianghella fiorentina (quella che sarebbe tenuta per maraviglia ai tempi di Cacciaguida): «quae nimis oderat populum senensem, sicut Zanganellam populum florentinum»; della quale a suo luogo (Pd XV, 128), ripetendo che «oderat populum Florentiae», racconta aneddoti: «fuit arrogantissima et intolerabilis: ibat per domum cum bireto in capite more florentinarum et baculo in manu, nunc verberabat famulum, nunc coquum…». Quasi lamentandosi di non aver sentito anche di lei cose altrettanto precise che quelle «quae audivi ab optimo patre meo Compagno». 12 Pg XIII, 121-123. 13 Pg XIII, 113-114. 14 Pg XIII, 145-146. 15 Pg XIII, 147. 16 Pg XIV, 16-21. 17 Pg XIV, 48. 18 Pg XIV, 45-52. 19 Pg XIV, 61-62. 20 Pg XIV, 109. 21 Pg XIV, 124-125. 22 Pg XIII, 28-36. 23 Anche qui giova la lettura parallela dei due commentatori più attenti alla virtù della parola. Tommaseo: «Seguono le voci vendicatrici dell’invidia; invisibili, per l’alto tonanti. Dante si stringe a Virgilio, non per paura qui, ma come al poeta de’ magnanimi affetti, quasi a precursore della pia carità». E Momigliano: «Queste voci che s’incalzano e scoppiano come tuoni, sono come la traduzione musicale del dramma che esse ricordano. (Tutto questo canto è scuro). Gli esempi di carità ondeggiano solenni per l’aria: questi, di invidia punita, si scoscendono procellosamente per l’aria; altra delle innumerevoli prove della stupenda concretezza della poesia dantesca». 24 Pg XIV, 131-139. 2

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Ira

Giuochi di luce A sottolinear quasi di un preludio mimico l’ingresso nella cornice degl’Invidiosi e la nuova scioltezza che proveniva dall’aver dimesso il peso della superbia, Virgilio aveva, prima d’invocare l’eterna guida del sole, disposto una specie di rituale propiziazione astronomica: Poi fisamente al Sole gli occhi porse: fece del destro lato a muover centro e la sinistra parte di sé torse.1

Qui il preludio è affidato direttamente alla luce del sole, colta in una immagine svagata di favola e di giuoco: la spera che sempre a guisa di fanciullo scherza.2

Variazione impensata del tema solenne di quella preghiera; ma vale a introdurre il tema della verità come ingenuità e liberazione; e a stabilire un contrasto luminoso fra questi giuochi di luce e i due episodi in cui s’inseriscono, frammezzandoli: quel canto oscuro della visione apocalittica di Valdarno e il buio d’inferno della cornice degli iracondi. Una sorpresa tematica richiama il motivo dell’oscurità, nel colmo dello scherzo festoso: vespero là, e qui mezzanotte era; e i raggi ne ferìan per mezzo ’l naso,3

che è maniera vivacemente allegra di eludere la pedanteria della notazione astronomica scientificamente esatta; e se non siamo alla poesia spiegata di certe introduzioni bizzarre, avrebbe meritato più attenzione, in lettori che non si lascino distogliere dall’indicazione ermetica dell’ora. Il giuoco delle luci è ripreso più liberamente nell’incontro con l’Angelo dell’umiltà: in una prima prova di quel naturalismo magico, che anima prodigiosamente l’osservazione più esatta di una legge naturale, e che darà tanta materia alla poesia del Paradiso:

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quand’io senti’ a me gravar la fronte a lo splendore assai più che di prima; e stupor m’eran le cose non conte: ond’io levai le mani inver la cima de le mie ciglia e fecimi ’l solecchio che del soverchio visibile lima. Come quando da l’acqua o da lo specchio salta lo raggio… per ch’a fuggir la mia vista fu ratta.4

Il giuoco delle luci si prolungherà per tutto l’episodio, nelle metafore («com’ a lucido corpo raggio vene»)5 e nelle notazioni dell’ora («contra i raggi serotini e lucenti»):6 e sarà uno stupendo commento pittorico a quella investigazione della verità che si prolunga in questi canti, e tocca taluno degli argomenti più importanti della filosofia politica e morale dantesca; nonché complemento figurativo di quelle visioni estatiche che qui tengon luogo d’esempio: quasi un succedaneo di quella regia musicale che le voci avevano istituito sopra il dramma dell’invidia: evasione estatica appunto dal carcere della passione iraconda.

Una sosta meditabonda a mezzo del Purgatorio Il mondo dell’ira non è drammatizzato, o scarsamente: forse per lo stesso impegno con cui Dante vi partecipa, e per quel suo trasferirsi in una ipotiposi autobiografica, Marco Lombardo; forse perché prevale sopra l’autopsia della passione lo studio dei modi onde il penitente se ne salva; e il più frequentato di questi modi è lo studio, la meditazione della realtà, quella pace o intellettuale calma che pure dona il processo dell’investigazione astrattizzante; l’altro modo, che vedremo, è tramutare l’ira, generosamente, in sdegno morale, far di una passione terrena, «si fa della vendetta ghiotto»7 (è brama di possesso!), un «dritto zelo»8 e l’attesa della giustizia. All’animazione poetica di questi canti, dove abbonda la dottrina, certo lo scherzo fantasioso dei giuochi luministici non basta; ma la riflessione che qui si continui, dottrinalmente e asceticamente, il metodo della scuola ascetica purgatoriale, aiuta a comprender meglio e a circostanziare il perché di questa sosta meditabonda a mezzo del Purgatorio e nei due canti centrali della Commedia; dedicati, come di dovere, all’ordinamento politico della terra, l’uno, l’altro all’ordinamento morale dell’universo. Il discorso dottrinario e l’indagine filosofica vengono allusi ed esemplificati come l’inizio di un processo attivo di reazione al posseder di forza il mondo che gl’iracondi vanno proponendo. Non che non vi fosse indizio di un processo di ricupero positivo nelle due prime cornici: sostituire l’umiltà alla superbia e la carità all’invidia è un altissimo guadagno; ma l’intelligenza di Dante può considerar quell’acquisto ascetico e mistico come dissociato da una problematica razionale; mentre l’investigazione sul «consorto divieto», cioè sulle ricchezze spirituali che si accrescono quanto da più son possedute, sulla divisione dei poteri nella città terrena e su Amore anima dell’universo, offrono una soluzione positiva, benché razio166

nale ed utile ad una sistemazione intellettuale del mondo. Introduzione alla vita contemplativa, dunque: per meglio dire, manuale per l’acquisto delle ricchezze della vita contemplativa; e trattatello gnomico per il bene del mondo, cui sian largiti anche i doni terrestri della grazia e della ragione.

Visioni e loro poetica La penitenza del peccato dell’ira diventa dunque metanoia e capovolgimento per una vita immensamente più ricca, dove i frutti della contemplazione arricchiscono anche la vita del mondo. Quanto più sale nel cammino della purificazione, tanto più territorio scopre il pellegrino sotto di sé, e tanto più vasta terra illumina della luce che gli è largita. Questo basti all’obiezione di una eccessiva preoccupazione ascetica nella discussione iniziale del consorto divieto: bisogna che Dante non tenga più fermo lo sguardo alle cose terrene: «se fai così», dice Virgilio, «di vera luce tenebre dispicchi».9

(Uno dei soliti giuochi luministici!) L’amor divino tanto si dà quanto trova d’ardore; sì che, quantunque carità si stende, cresce sovr’essa l’etterno valore. E quanta gente più là sù s’intende, più v’è da bene amare, e più s’ama, e come specchio l’uno a l’altro rende.10

L’accento iacoponico del tema attende un commento nel Paradiso: così come Virgilio rimanda a Beatrice il breve cenno della grande legge dello spirito. Intanto a dir di un primo acquisto di questa vita contemplativa, e staccandosi ancor più da ogni materialità nell’esecuzione degli esempi morali, il poeta introduce i suoi ammaestramenti di mansuetudine e d’ira punita attraverso le visioni estatiche: sobria la prima, e reverentemente aderente al testo evangelico, come sempre quando Dante cita direttamente dei testi sacri, che gli bastano per sé medesimi: Gesù ritrovato nel tempio, un fiore aggiunto alla corona che via via Dante sgrana nei sette gironi. Il secondo esempio introduce con modi acconci e una certa abbondanza colloquiale la figura di Pisistrato, in una situazione novellistica, non unica in questo episodio.11 Nel terzo la maniera dell’agiografia espressa in pittura, e il riassunto figurativo di un dramma sacro, se ricollega la visione estatica agli altorilievi della prima cornice, apre l’esperienza, partecipata poi da tanta pittura italiana, dell’effusione sentimentale e melodrammatica nel tema iconografico dell’agonia di santo Stefano: E lui vedea chinarsi, per la morte che l’aggravava già, inver la terra,

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ma degli occhi facea sempre al ciel porte orando a l’alto Sire, in tanta guerra, che perdonasse a’ suoi persecutori, con quello aspetto che pietà diserra.12

Più rilevato lo stile delle visioni d’ira punita; ed utile anche ad osservare un proposito apologetico: ché parlar delle visioni vuol dire spiegare e difendere la mirabile visione che è tutto il suo poema: O imaginativa che ne rube tal volta sì di fuor, ch’om non s’accorge perché d’intorno suonin mille tube, chi move te, se ’l senso non ti porge? Moveti lume che nel ciel s’informa per sé o per voler che giù lo scorge.13

I commentatori indulgono a notizie aneddotiche, a spiegar la facoltà di Dante d’assorbirsi in un’idea fissa: in realtà, la sua preoccupazione è di suggerir il senso di un interno miracolo, di un’immagine che piove dentro l’alta fantasia, «ristretta in sé», senza sollecitazioni del senso. Lascia aperta la duplice possibilità di una creazione spontanea fuor dello spazio («lume che nel ciel s’informa per sé») o di un intervento provvidenziale («voler che giù lo scorge»). E insiste sulla impermeabilità della mente, che non accetta nessun apporto esterno, di fuor non venia cosa che fosse allor da lei recetta.14

Premessa tale notizia, e trasferita così la suggestione fantastica in una sfera sottratta all’esperienza, e poste le basi di una poetica della visione che non svolge sistematicamente, ma che è illustrata da tutta la sua opera, indica tre modi dell’immaginare: una sollecitazione generica, epigrafica, e quasi astrattiva, per la favola di Progne de l’empiezza di lei che mutò forma ne l’uccel ch’a cantar più si diletta, ne l’imagine mia apparve l’orma15

(ma nota il contrasto tra il titolo «empietà di Progne» e l’energia con cui l’immagine s’imprime in lui, «l’orma»; e nota, ancora, indicazione preziosissima per rilevare la sfera di emozione patetica e musicale entro cui Dante colloca il crescere della visione e il suo definirsi, l’incantesimo del canto che aleggia sulla figura); un giuoco e sforzo di evidenza, quando rappresenta il supplizio di Aman, Poi piovve dentro a l’alta fantasia un crucifisso, dispettoso e fero ne la sua vista, e cotal si morìa,16

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con il gruppo aulico, intorno, di Assuero, di Ester e di Mardocheo: la tensione stessa dell’evidenza è tanta che la visione manca per se stessa e si rompe come una bolla, all’improvviso (o gli è venuta meno una forza di giustificazione, distratta la fantasia da quel concorso aneddotico e retorico delle tre figure complementari, estranee alla fierissima solitudine di quella morte?); e infine, ecco la soluzione patetica ancora, come la prima, ma condotta lungo gli avvolgimenti di un monologo, il teatralissimo «lamento» di Lavinia che deplora la morte di sua madre Amata fra i due tempi dell’elegia («ancisa t’hai per non perder Lavina») e della furia demente («perché per ira hai voluto esser nulla?»):17 nuovi sviluppi di una stessa poetica della visione che nell’Inferno tante e tante volte è stata coerente solo al suo proposito fondamentale della visibilità, e che ora suggerisce prosecuzioni di musica, di decorazione, di declamazione.

Soluzione contemplativa del problema politico Comunque, il poeta, dimessa ormai l’invadenza della volontà nel mondo, e giunto all’esercizio ascetico di spegnere il più immediato degli impulsi naturali, l’ira, l’accendersi dell’animo, lo scatto della volontà che si mette in moto, entra anche con queste visioni nella sfera della vita contemplativa, che, solo in apparenza inattiva, risolve meditando tutta intera la realtà. Contemplazione significa remissività; e la preghiera del coro delle anime è l’Agnus Dei: preghiera alla Vittima mansueta, che abbia pietà, che doni la pace. Un tema distaccato, questo, che rammenta come nutrita e sanguigna sia la figura di Marco Lombardo; ma conviene, anche per questa ipotiposi di Dante, tener presente che se l’iracondia del vecchio uomo traspare nell’impazienza dei suoi gesti Alto sospir, che duolo strinse in «hui»,18

pure la sua intelligenza si affisa in un quadro rasserenato, l’immagine del mondo pacifico, di una nuova Roma: soleva Roma, che ’l buon mondo feo, due soli aver;19

e che non è senza stanchezza scorata il commiato che Marco prende dal mondo dei vivi, dove solo tre sopravvivono, in cui rampogna l’antica età la nuova. Delle personificazioni di Dante, questa è la più circostanziata: di un uomo di corte che pur rappresenta la dignità di una condizione intellettuale e morale tanto superiore a quei ceti presso cui vive e che serve; di una disposizione iraconda dell’animo, che diventa santo sdegno e zelo del bene; di un veder sempre più lontano il tempo del bene, e pur non disperare, nell’attesa del meglio; di un uomo, che valendosi non d’altra investitura che di sé medesimo e dei doni che il cielo ha dato alla sua anima immortale, offre la medicina ai mali del mondo e traccia l’itinerario verso la pace. Una ricetta troppo facile a prescrivere, troppo 169

difficile ad applicare, avran detto i trattatisti di parte pontificia e di parte imperiale; e i filosofi, sorpresi da quell’evidenza delle immagini che raccontano la vita dell’anima, Esce di mano a lui che la vagheggia prima che sia, a guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia, l’anima semplicetta… se guida o fren non torce suo amore,20

avrebbero pur potuto tacciarlo di empirismo: anche se non si fermavano a dubitare di quell’affermazione troppo recisa intorno alla natura fondamentalmente buona dell’umanità: Ben puoi veder che la mala condotta è la cagion che ’l mondo ha fatto reo, e non natura che ’n voi sia corrotta.21

L’ottimismo storicistico «Roma che il buon mondo feo», e l’ottimismo naturalistico «e non natura che in voi sia corrotta», si riassumevano in un tono di universale condiscendenza: l’umanesimo già serra il nodo dell’illuminismo: secoli di storia.22

L’Amore e l’Universo Riordinato il mondo politico, o almeno fatta una diagnosi del male che l’affligge, resta da riassumere l’ordinamento dell’universo. Alla politica basta il distinguo; e un esule non può che invocare un minimo di buona volontà da parte di chi lo serra lontano dalla sua terra; ma nella metafisica possono affacciarsi le propensioni più intime e più libere dell’animo e nella cifra filosofica suggellarsi gl’impulsi più vivi: ecco il cosmo invaso da Amore. Dimesso il mondo della natura, con una assolutoria ancora una volta replicata, lo naturale è sempre sanza errore,23

l’amor dell’anima è accompagnato lungo i gradini delle sue deficienze, alla perfezione ultima. La teoria del male come defectus boni si cincischia in una partizione («resta, se dividendo bene stimo»)24 che rischia di annullarne il vigore; ma non importa tanto la coerenza dei risultati teoretici, quanto lo slancio per far traboccare in vita dello spirito quella classificazione che era servita alle pene infernali, in itinerario verso Dio i gradi dell’eterna prigione: dallo scacco del filosofare lo riscatta l’impulso romantico:

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Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l’animo…25

E dietro le apparenze corporee («altro ben è che non fa l’uom felice»)26 raggia l’immagine del bene infinito, del sommo bene, di Dio: così, all’uscir dalla cornice dell’ira, la spera del Sole entra fra i vapori umidi e spessi.

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Pg XIII, 13-15. Pg XV, 2-3. 3 Pg XV, 6-7. 4 Pg XV, 10-24. 5 Pg XV, 69. 6 Pg XV, 141. 7 Pg XVII, 122. 8 Pg VIII, 83. 9 Pg XV, 66. 10 Pg XV, 70-75. 11 Cfr. «Ma se’ venuto più che mezza lega / velando li occhi e con le gambe avvolte»; di lì a poco, ai vv. 121-122. 12 Pg XV, 109-114. 13 Pg XVII, 13-18. 14 Pg XVII, 23-24. 15 Pg XVII, 19-21. 16 Pg XVII, 25-27. 17 Pg XVII, 34-39. La soluzione operistica ed eloquente è anche più evidente se confronti con il lamento di Lavinia il mito di Amata, utilizzato per un’allegoria politica (Firenze) nella lettera ad Enrico imperatore (Ep. VII, 24). 18 XVI, 64. 19 XVI, 106-107. 20 XVI, 65-93. 21 XVI, 103-105. 22 E a intendere come tale ottimismo sia remoto così dall’avventismo gioachimita come dal conservatorismo della pubblicistica imperiale, ed anche a ricollegare tale orientamento politico-morale con la teoria della visione, vedi D. profeta di B. NARDI, in D. e la cultura medievale, cit., pp. 336 ss. 23 Pg XVII, 94. 24 Pg XVII, 112. 25 Pg XVII, 127-128. «Verso la cui verità solo il principio rosminiano dichiara» postilla il Tommaseo. 26 Pg XVII, 133. 2

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Accidia

Nuove occasioni offerte dalla struttura L’immagine filosofica si prolunga da Marco Lombardo a Virgilio, oltrepassa, quasi senza lasciar campo all’episodio di circostanziarsi, il commiato dell’Angelo della Pace, valica i contrasti di luce e d’ombra, dalla visione estatica di Lavinia al lume novo che rompe il sonno: quando le stelle appaiono da più lati, in una sosta affranta. Dante chiede a sé soccorso di forza, a Virgilio consiglio di dottrina; e nel silenzio della quarta cornice, vuota d’anime, deserta, la lezione dottrinale invade lo spazio notturno. La legge del Purgatorio, che le anime vanno incontro alla pena, senza che questa abbia la forza vincolante della condanna infernale, ha un’applicazione anche più deliberata qui: dove le anime, che erano nei tre cerchi inferiori costrette dai macigni, e, via via meno rigidamente, dai manti e dal fumo, le accorrono incontro, e l’adempiono nell’atto di muoversi verso di lei. Certo nei tre cerchi superiori, dove non si rinnega la fondamentale bontà dell’impulso naturale, e il peccato è solo d’eccesso, questo procedere alla pena, il prostrarsi al pavimento, l’accorrere alla seduzione dell’acqua e del pomo, o l’immergersi tra le fiamme, ridarà movimento più intrinseco e drammatico alle scene: benché pur sempre distaccate e distanti, per un’azione che ormai si esaurisce in allusione, non diventa, essa azione, materia di dramma; ma la cornice dell’accidia rimane singolarmente vuota, anche per l’assenza di una figura drammatica e centrale. Vi domina Virgilio, con il suo magistero, in compenso; e nel silenzio deserto, prima che l’anime degli accidiosi accorrano a simboleggiare con gesti fin troppo violenti, quasi umiliandosi in una apparenza disforme dalla consueta, la volontà d’esser diversi dal vecchio costume, l’oratoria didattica del savio si modula con piena libertà di spazio e di tempo, s’alza s’abbassa e svaria, fino ai limiti della rivelazione: Quanto ragion qui vede dir ti poss’io: da indi in là t’aspetta pure a Beatrice, ch’è opra di fede.1

Monacale tedio Mai Virgilio è stato tanto soddisfatto di toccare, nel suo itinerario metafisico, limiti tanto lontani. Ma non riuscirebbe piena la lezione del canto diciassettesimo e del diciottesimo che con lui quasi fa tutt’uno, se non tenessimo presente lo sfondo concettuale e strutturale, sia pur vagamente alluso: questa colpa d’accidia poco ha a che far con la pigrizia arguta e pensosa di Belacqua, più con 173

l’accidioso fummo delle anime che fitte nel limo bestemmiarono l’aer dolce che s’allegra del sole; ma soprattutto è conventuale acedia, monacale tedio: incuria delle preghiere e vuotezza d’animo che dispera.2 Con la guida di Virgilio, Dante vince questa tentazione del limite, questa inattività di chi, superata la tentazione del fare il male, non sa ancora decidersi per il bene; e investigare l’ordine attivo dell’universo e che cosa sia amore basta a far cadere la bilancia verso una volontà rinnovata, e a riempire quel vuoto: ma per essere il tema dell’accidia estraneo al poeta, che è propenso ad ogni attivismo pratico, sentimentale, intellettuale, fornito di una prodigiosa quantità di energia vitale, il suo contrappunto, l’indagine della forza attiva del mondo, non basta a far poesia, e a mettergli in moto la fantasia. La figuretta che appare in margine all’episodio, l’abate di San Zeno, vale in quanto allude a una cornice conventuale, e sta bene; o al guasto dei costumi conventuali contemporanei, e sta men bene. (L’intrusione violenta della politica nel governo ecclesiastico mette in quella sede abbaziale di Gherardo un bastardo zoppo di Alberto della Scala, Giuseppe, che, violento e pazzo, s’insanguinò, rubò e corruppe: atti che con l’acedia hanno poco a che fare, e strano rimedio alla tentazione del vuoto.)

Dottrina dell’amore Ma la discussione, nella sua lucida forza, basta a risospinger lontano i fantasmi attediati: «tacciolo, a ciò che tu per te ne cerchi», aveva detto Virgilio chiudendo il canto diciassettesimo; e il seguente comincia con un rimbalzo: ché se Virgilio si appaga nella dignità del ragionare che è giunto alla sua fine, «posto avea fine al suo ragionamento / l’alto dottore», Dante no, non è contento: «cui nova sete ancor frugava»; e, dopo aver sentito dell’opere universali d’Amore, vuole anche intendere della sua essenza. Il divario, sempre aperto alla discussione, riguarda il quesito se Amore sia sostanza o puro atto: se si esaurisca nel moto d’attrazione che sollecita la creatura verso le cose, o se l’anima serbi verso l’immagine che l’attira un potere, e suggelli con un segno di sé l’impulso che verso quella lo sospinge. Virgilio potrebbe essere più esplicito fin da principio; ma diresti che, fatto atto di ossequio alla ortodossia della sua dottrina, si preoccupi soprattutto di illuminare da artista, buon discepolo della poetica di Lucrezio, l’atto della ricerca intellettuale: nella vita della immagine l’attrazione amorosa serba una individuazione e un accento e una storia: Poi, come ’l foco movesi in altura per la sua forma ch’è nata a salire là dove più in sua matera dura, così l’animo preso entra in disire ch’è moto spiritale, e mai non posa…3

Il maestro comprende benissimo e anticipa l’obiezione che il discepolo va in sé formulando, e che gli dichiarerà subito dopo: 174

ché se amore è di fuori a noi offerto, e l’anima non va con altro piede, se dritta o torta va, non è suo merto…4

(vittorioso sillogismo, questo, calato nella misura dei versi, come una arma nel suo fodero, coperta ma pronta) e l’ha vinto in anticipo con un’immagine: non ciascun segno è buono, ancor che buona sia la cera.5

Costretto ad essere anche più esplicito, espone la teoria dell’anima intellettiva, unita e distinta dalla materia, che si manifesta nell’opera; ma a dir del segreto dell’anima, e che la bontà delle sue opere dipende da lei, ancora una immagine adopera: ch’è solo in voi, sì come studio in ape di far lo mele.6

Solo le creature razionali hanno notizia delle verità prime ed amore dei beni supremi; e la libertà del decidere dell’amor buono o dell’amore cattivo è innata: da cui deriva la possibilità di una vita morale. E gli raccomanda di non sfigurare, se Beatrice ne parli: La nobile virtù Beatrice intende per lo libero arbitrio, e però guarda che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende.7

Fantasia lunare Chiuso il ragionare con quell’autorevolissimo rimando, il racconto prosegue; e se la discussione aveva riempito il deserto accidioso della cornice, or una fantasia lunare lo sovrasta, introdotta dall’immagine appunto della luna calante, che sorge tardi, verso mezzanotte, simile ad una secchia ardente che si leva dal pozzo dell’oscurità: La luna, quasi a mezza notte tarda, facea le stelle a noi parer più rade, fatta com’un secchion che tutto arda.8

Attratto da quella fantasticaggine lunatica par che ciondoli nel sonno: svuotato e stanco, dopo l’ammaestramento filosofico. D’improvviso rompe la sonnolenza una turba affaccendata che «falca» il suo passo per il quarto girone (la notazione di moto, quasi grottescamente ingrandita, prosegue il racconto delle meraviglie). Gli esempi sono lanciati all’aria con fretta impronta, soprav175

venendo gente che par che un poco meno curi le parole, e più la volonterosa disposizione, lo «studio» e il «benfar» che «rinverde» la grazia. La scena, come si sa, è notturna; e più s’incupa nelle parole del colloquio di Virgilio alle anime, concettosamente barocche: «non vi bugio», «pur che il Sol ne riluca», «ond’è presso il pertugio»: d’una in altra rima, un’anima risponde: Vieni di retro a noi, e troverai la buca.9

Poiché il poeta sta lavorando sulle parole, forse anche «buca» riceve senso dall’accezione che acquistò già allora forse, e certo ebbe poi, nella pratica dei Disciplinati o Battuti: i cui convegni erano spesso notturni. A rotti frammenti, spacchi di un discorso che si insegue violento, gli esempi di accidia punita, tratti da due episodi singolarmente illustri di storia, sacra o profana che fosse, in entrambi i casi alla mente di Dante provvidenziale, incalzano la corsa dei pigri: e come i due all’avanguardia, rammentando l’esempio di Maria che «corse con fretta a la montagna»,10 e del fondator dell’impero che «punse Marsilia e poi corse in Ispagna»,11 riassumevano gran tratto di vicende immense, così quegli altri. La tensione inquieta, e il tempo strano della meditazione e della corsa, si sovrappongono in un ondeggiare malfermo di pensiero e di sogno: finché s’apre la nuova visione.

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Pg XVIII, 46-48. E ancora all’ambiente evocato sarà da ricollegare il fatto che la «lezione» di Virgilio è un «notturno», che il discepolo indugia il sonno ben oltre il crepuscolo, e che il tumulto delle anime che accorrono agli esempi gnomici lo distoglie dal torpore della sonnolenza (vv. 88-90). Ad una più sciolta disponibilità di paesaggista, dopo che a una preoccupazione cronologica di novelliere, apparterrà il paesaggio lunare (vv. 76-78). 3 Pg XVIII, 28-32. 4 Pg XVIII, 43-45. 5 Pg XVIII, 38-39. 6 Pg XVIII, 58-59. 7 Pg XVIII, 73-7. E converrà, almeno qui in nota, sottolineare quel programma eticopolitico riassunto nella terzina (vv. 67-69) gloriosa: «Color che ragionando andaro al fondo / s’accorser d’esta innata libertate: / però moralità lasciaro al mondo». È, in sintesi, tutta l’etica tomistica, nella correlazione di libertà e di vita morale. «Bello», postilla il Tommaseo, «che il dolce maestro cerchi con l’occhio negli occhi di Dante se la verità sentita lo appaga; atto di chi ama l’uomo, e ama la verità: bello, che l’ardito animo del Poeta e l’ardito ingegno sia timido a esporre i suoi dubbi a maestro così affettuoso. Non patiscono di tale timidità i nostri savi, i nostri eroi d’oggidì». Occorre infatti sottolineare il contrappunto amoroso dell’amorosa dottrina. Altro contrappunto, la solitudine notturna e lunare della lezione; altro, ancora, il vuoto siderale cui l’affaccia l’uscir dalla nube esplosiva dell’ira; quasi che in quella solitudine, in quel vacuo, nasca la meditazione metafisica di «color che ragionando andaro al fondo». Nasce anche la visione: «e ’l pensamento in sogno trasmutai» (v. 45). 8 Pg XVIII, 76-78. 9 Pg XVIII, 113-114. 10 Pg XVIII, 100. 11 Pg XVIII, 102. 2

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Avarizia

La Femmina Balba Il preludio della Femmina Balba è a lungo atteso e intento: nota quel brivido di gelo che lo percorre, fra la Luna calante, Saturno, la terra vuota ed oscura: non più termini di un repertorio astrologico, del resto facile, ma immagini attive in un discorso poetico, sollecitazioni della fantasia, operose presenze; nota quella figura del geomante, baroccamente caricata, forse con un sorriso, mentre scivolano i Pesci su per la volta celeste, liquida di più livida ombra, innanzi l’alba, a formar la Fortuna Maior dell’oroscopo (ma è preludio di un’apparizione bugiarda!). Nota lo stacco, anch’esso grottesco, dell’apparizione, l’enumerazione degli orridi tratti dell’antica strega, quasi quadro di poeta burlesco, quasi parodia del canone della bellezza stilnovistica. L’intervento del poeta, quando il suo desiderio trasforma in mirabil bellezza la vista, ha quella forza trasfigurante che s’appartiene ad amore: solo, retroversa; e la libertà ch’egli si è acquistato d’una in altra cornice, la dignità del suo intelletto confortato dalla dissertazione virgiliana sulla spontaneità amorosa, la certezza, che ha capovolto in forza attiva la vuota tentazione dell’accidia, la esercita, ma in sogno, precipitando in male la sua stessa operosa forza di bene. Vi pensava Boccaccio, scherzando sulla montanina gozzuta, a proposito d’una sua ardua canzone? L’incertezza sospesa della descrizione di quel trasfigurarsi, l’indicazione vaga e intensa, il rito quasi di una obbedienza ad Amore e lo smarrito volto, come Amor vuol, così le colorava,1

indicano un cammino che il poeta fa a ritroso, piegando verso dilettazioni sensuali la stessa elevazione spiritualistica del suo primo poetare. L’«intento» lavora insomma a rovescio; e il miracolo della vita dello spirito si esercita in una mediocre operazione di inganno per un abbaglio consentito. Liberata dalla sua bruttezza e dal suo gelo terrestre e lunare e saturnino (la musica delle battute del preludio riecheggia nell’immagine del Sole), la Femmina canta, come in pienezza di vita: canta come le donne sante nel Paradiso Terrestre, con quell’abbandono fidente, quella limpida commozione rapita di Lia, di Matelda, delle Ninfestelle del corteggio di Beatrice; musicalmente, due volte, tenta l’accordo: «Io son, cantava, io son […]», dilaga la melodia come sull’acque, fluendo sull’onda lunga, Ulisse torna indietro dal suo cammino, come se la Sirena avesse il potere 177

di sviarlo dal suo viaggio verso la Montagna Bruna, trionfa di chi la guarda con un brivido di gioia sazia: «sì tutto l’appago». L’apparizione della donna santa e presta, che rimprovera Virgilio e svela la bruttura della strega, lo stacco del sogno interrotto, il puzzo ch’esce dal ventre ignudo, valgono di replica all’intervento di Catone: ché la poesia, come or ora vedremo, quando concluderà in Stazio le sue riflessioni intorno ai beni del mondo, ha due volti: rivelazione della verità, e tale era il canto di Casella, se pure liminare, come di Limbo, e incerto; ma anche maschera della realtà; e Virgilio, come s’era incantato al canto di Casella, così nel sogno non interviene: solo tiene gli occhi affisi nella donna santa.

Preludi e riassunti A Virgilio tocca poi la dimostrazione del sogno, quando anche gli altri preludi del canto diciannovesimo sono trascorsi: la gloria del sole che inonda i gironi del sacro monte e l’angelo che introduce alla quinta cornice; preludi appena accennati, specialmente la scena dell’Angelo: il quale pronunzia una beatitudine che non s’attaglia rigorosamente al peccato («beati quelli che piangono, ché le loro anime saranno signore del conforto»), forse meglio, generalmente, alle gioie terrene dei canti che seguono, che presto tornano in pianto: che è il primo e più vivo segno della partecipe misericordia. Comunque, oltrepassati quei pochi accordi, il riassunto gnomico del sogno, dopo la lunga meditazione del pellegrino, fatta a capo chino, facendo di sé un mezzo arco di ponte, ha un tono sbrigativo di commiato: di cotali incantesimi del senso non si parli più: Bastiti, e batti a terra le calcagne: li occhi rivolgi al logoro che gira lo rege etterno con le rote magne.2

Attenda ormai solo alle bellezze del cielo: «Chiamavi il cielo e intorno vi si gira, / mostrandovi le sue bellezze etterne»;3 così altrove; e se ne ricorderà il Tasso, anche in una scena penitenziale, quella di Rinaldo sul monte degli Ulivi, di tanto più sottile compiacenza sensuale, di forza ascetica tanto meno ardita.

Papa Adriano Il canto attende apertamente l’episodio di papa Adriano V; e dopo il sogno della Femmina Balba indugia quasi ozioso; ma nella sua economia interna il contrasto deve stabilirsi fra la forza di una tragedia e l’illusione di un sogno: l’intermezzo dell’Angelo, e l’intermezzo del canto del salmo Adhaesit pavimento anima mea, passano poco rilevati; e distratta pare anche ogni altra menzione: quella della direzione del cammino «le vostre destre sian sempre di furi»,4 il consenso ad interrogar l’anima mutamente chiesto e lietamente accordato, e insomma l’altre didascalie del canto. Un tono di proclama hanno le parole latine: «Scias quod ego 178

fui successor Petri»:5 cui segue un bando araldico; ma il dramma, così sobriamente annotato che l’unica vibrazione sentimentale consentita è la fatica del peso, la materialità del gran manto, tocca il suo vertice al vertice stesso, figurato, delle ambizioni umane: «né più salir poteasi». La pena dell’ambizione d’un subito si muta in gioia: l’anima trova, al termine di una meta faticosamente raggiunta, che ci si può finalmente spogliare anche di quel peso, che si ha pagato intero il conto al mondo, e che lo spazio infinito s’apre al limite dello spazio finito: «Fino a quel punto […]» Ma d’allora la memoria di papa Adriano s’alza e discende come in un canto antifonario, fra l’esortazione parenetica e la constatazione gnomica: «Fino a quel punto […] / or come vedi […] / Quel ch’avarizia […] / e nulla pena […]. / Sì come l’occhio […] / così […]. / Come avarizia spense […] / così giustizia»;6 e la sua vittoria è in un aderire, come al pavimento di pietra, quasi sepolto, alla volontà di Dio, senza più moto, sommerso in quella tomba feconda, abbandonato e redento: e quanto fia piacer del giusto Sire, tanto staremo immobili e distesi.7

Altri appigli di lettura comparata si dimenticano in fretta: a stabilire il consueto e previsto contrappunto con il canto di Niccolò III, Dante, che là stava come il frate che confessa il perfido assassin, qui s’inginocchia; ma Adriano lo rimprovera: l’anima nuda è di un servo di Dio, conservo con lui e con gli altri; il pericolo dell’umiltà superba, insito nel titolo di Bonifacio VIII, servus servorum Domini, è annullato stancamente da questo richiamo all’eguaglianza. Ma anche il ricordo del tempo che fu vuol dimettere come molesto: vattene omai: non vo’ che più t’arresti, ché la tua stanza mio pianger disagia;8

e s’accomiata con il ricordo della buona Alagia: un nepotismo capovolto, ché alla nipote nulla dona, ma chiede a lei sola, chiede di lucrare indulgenze.

Ugo Capeto Semplicismo polemico, quello dell’episodio di papa Adriano Fieschi in quanto dovesse servire di pretesto e di contrapposto ad altri episodi: stupendo nella sua vita chiusa, ma attenuato dalla cornice; anche la maledizione dell’antica lupa par già scontata e stanca: «quando verrà per cui questa disceda?».9 In fondo, la soluzione individuale di papa Adriano resta la sola autentica. E a chiudere in un dittico la riflessione indiretta e allegorizzata sul governo del mondo, dispone il canto di Ugo Ciapetta accanto al canto del papa. Nell’intervallo, un altro dittico: l’immagine della lupa, da una parte, e dall’altra i tre esempi di povertà virtuosa. A preludere l’invettiva alla lupa, un misterioso richiamo al tema delle lacrime del mondo e del Veglio di Creta: 179

la gente che fonde a goccia a goccia per li occhi il mal che tutto il mondo occupa…10

e ad accompagnare gli esempi quel tono di dimessa limpidezza, quel narrar timidamente e fermamente, quello stile da lauda sacra e da racconto agiografico, che il poeta raccoglie ed insegna. Ma quando attacca il motivo che attende, tutto lo spazio di tempo che lo separa dal capostipite francese è abolito: la tecnica politica di cui qui si ragiona è identificata con una fermezza di osservazione da cui Machiavelli avrà da imparare: trova’mi stretto ne le mani il freno del governo del regno, e tanta possa di nuovo acquisto, e sì d’amici pieno…11

tecnica del colpo di stato, quale poteva essere applicata in una città italiana del Rinascimento. Cifrata così la regola della condotta politica di chi prescindesse, nel governo, da considerazioni morali, è ancor l’immagine della lupa che grava nel racconto: perché l’epopea dinastica francese è scatenarsi di cupidigia, perpetuo acquisto, «fame senza fine cupa» di preda. Il ritmo del racconto procede serrato, come una cavalcata immane: via via che s’approssima, volti umani e ritratti appaiono da quella muraglia di fatti, i due Carli scendono in Italia, par di vederli avvicinarsi, l’uno «vittima fé di Corradino» e risospinge al cielo Tommaso d’Aquino, l’altro giostra con la lancia di Giuda; e un terzo Carlo «preso di nave» par che acquisti i costumi della guerra da corsa, vende la figlia. Sempre gesti audaci e violenti: le insegne del fiordaliso entrano in Anagni e Cristo è catturato nel vicario suo. Poco si ricorda il poeta della lunga polemica sulla vacanza della sede papale: difendendo i diritti della Chiesa contro le usurpazioni della Casa di Francia, papa Bonifacio VIII rappresentava Cristo, si riscattava, soffrendo l’oltraggio della violenza, della sua stessa indegnità; per una volta il papa siede nella sua maestà pontificale; e se l’accordo fra il poeta e il politico non è né può essere perfetto, valga questo recupero di una animazione poetica, a mostrare quanto sia attiva la transvalutazione cui il poeta è in questo canto intento: l’umiliazione che redime, la sconfitta che esalta, la vittoria ascetica sopra i successi della carne e del mondo. Nell’attesa della vendetta l’anima appassionata di Ugo Ciapetta si esalta e tace.

Avari e prodighi Anima di avaro o di prodigo? Se leggi all’esterno, circostanziando le notizie secondo le ragioni della coerenza e della concordanza, la risposta non par dubbia: Ugo Ciapetta fu avaro. Ma stavolta viene in soccorso della poesia la letteratura, che, comunque sia, ne derivi o l’aiuti, le è più vicina; e l’antico romanzo francese, studiato dal Rajna, suggerisce un Capeto dissipatore: prodigo, dunque.12 Se torni al testo e rileggi nel filo del discorso, la figura di Ugo, fra papa Adriano Fieschi e Stazio (nell’ordine: un sacerdote, un politico, un poeta; rammenta: i 180

tre capitoli della missione dantesca!), ti appare concorde, non con le nozioni predisposte, di un inerte ordine didascalico, ma con l’animazione intima della fantasia; tre modi di una stessa inquietudine, insomma: ché il pontefice si sottrae con lento strazio, con accorata fatica, al peso delle cose, ma pure sbocca nell’infinito della libertà con un respiro profondo, in cui quasi si smarrisce; ma il politico capostipite dei politici di Francia investe le cose e le serra e le domina, si «prodiga» (se alla parola attribuisci il senso della consueta metafora), in sé e nei suoi discendenti, che pure sono animati dalla stessa febbre: febbre di possesso, ma pur di dispregio, vertigine di dominio e di licenza, non la custodia cauta e paziente del pugno chiuso; se mai, chiuso e subito disserrato; e il poeta trascorre disinvolto da un capo all’altro delle esperienze più diverse, molta attenzione dà alle cose, ma poco peso, comprende e non ha forza o severità bastante per esser fedele all’idea, fedele alla fede, si dissipa insieme con le cose, in una inquietudine allegra, fantasticante, benché proprio la curiosità, la pieghevolezza dell’animo, l’intima attesa dei prodigi, l’apra, su indizi dove tanti altri trascorrono senz’avvedersi, ai prodigi più grandi: per un verso meditato si redime, per un verso riecheggiato «con variazioni» si salva.13

Il «Gloria» Storie di un distaccarsi dalle cose: riassunte nella celebrazione più osannante e clamorosa che sia dato incontrare nel Purgatorio: vera anticipazione dei modi corali e dossologici del Paradiso: nuova franchigia annunziano i cieli: Noi eravam partiti già da esso, e brigavam di soverchiar la strada tanto quanto al poder n’era permesso, quand’io senti’, come cosa che cada, tremar lo monte: onde mi prese un gelo qual prender suol colui ch’a morte vada. Certo non si scotea sì forte Delo, pria che Latona in lei facesse ’l nido a parturir li due occhi del cielo. Poi cominciò da tutte parti un grido tal, che ’l maestro inverso me si feo, dicendo: «Non dubbiar, mentr’io ti guido». «Gloria in excelsis Deo» tutti dicean…14

L’analisi rivela più cose: il tema della morte, mistica, anzitutto, indirettamente alluso; e il contrappunto mitologico ai più ardui misteri cristiani; e l’intervento di Virgilio, trepidante e rapito, sulla soglia della rivelazione. L’inno degli angeli, che alla Natività invase i cieli, sale dal coro immenso del monte; ma nota, subito dopo, come Dante introduca il ricordo appunto della Natività:

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Noi stavamo immobili e sospesi come i pastor che prima udir quel canto, fin che il tremar cessò, ed el compiesi.15

Nel racconto, è un arresto che contraddice la fretta animata con cui si sottraevano alla malìa dell’antica lupa, e procedevano per la cornice; nella immediata suggestione poetica, l’estasi in ascolto allontana l’inno nella sua paradisiaca distanza, ma fa che riecheggi nella trepida anima commossa dello spettatore; nel presagio tematico di quel che poi accade, la pastorale natalizia richiama fin d’ora al tema della natura redenta tutti gli accenni alla poesia in genere e alla poesia pastorale in specie («io come capra ed ei come pastori», per citare solo il riassunto di quel contrappunto) che trascorreranno per questi ultimi canti del Purgatorio: canti e figure di poeti, ai vertici di una natura che s’apre alla vita della Grazia.16

Stazio Da più parti il poeta accorre all’episodio di Stazio: introdotto, tuttavia, con una disinvoltura novellistica, affabile e caramente disordinata, benché i temi importanti, via via allusi, si rileghino spontaneamente nella memoria, quasi in un discorso prosastico. A nessun lettore sfugge, per esempio, il tema di Emmaus, così denso di suggestione: Ed ecco, sì come ne scrive Luca che Cristo apparve a’ due ch’erano in via, già surto fuor de la sepulcral buca, ci apparve un’ombra… […] né ci addemmo di lei…17

tema della resurrezione, tema del viaggio, tema della presenza dello Spirito malavvertita, e un avvedersi d’aver saputo prima quello di cui poi ci si accorge: forse, una postilla di critica letteraria, nell’introdur la novella dell’incontro di viaggio, in quel citar Luca, che degli Evangelisti è il letterato. Ma il più dei lettori si lascerà prendere, senza sostare, all’incanto narrativo dell’episodio, e trascorrerà sui toni dimessi di quel vario e accorto raccontare, pensando che a Stazio basti la gloria di aver fatto Virgilio lampadoforo di verità a lui e agli altri: come se Stazio, pensano troppi commentatori, valesse solo a conferma di Virgilio. L’episodio è assai ricco: benché, letteratissimo, a comprenderlo occorra forse troppo di gusto e d’abitudine riflessiva, una lettura fatta da letterati, l’uso della consorteria: un’altra “religione”, insomma, un altro “convento”, diverso e pur non discorde da quello a cui allude Stazio stesso, quando spiega il prodigio della montagna che trema, benché sia sopra il livello delle perturbazioni atmosferiche. Ma leggi come il colloquio si svolga alto alto, cominciando, con quella 182

spiegazione appunto, che dice di una natura obbediente solo agli impulsi dello spirito, ma ciò non ostante, anzi per questo, ordinatissima: di quel che il ciel da sé in sé riceve esser ci puote, e non d’altro, cagione.18

Il preambolo di Stazio e quello di Virgilio non scadono da una dignità convenevole. «Dio vi dia pace», saluta Stazio; e Virgilio, rettificando: «Nel beato concilio ti ponga in pace la verace corte che me rilega ne l’etterno essilio».19

Il compianto della sua sorte, il rammarico del suo destino mancato, trema appena dietro le parole formali; e intanto camminano veloci, «e parte andavam forte», non con la fretta «che l’onestade ad ogni atto dismaga», ma con un moto eguale: grave benché veloce. La maraviglia trapela nella seconda battuta di Stazio: sì che Virgilio può diffondersi, e dir di sé con un’abbondanza che non ha adoperato con nessuna anima, sinora, di quante abbia incontrate. Tanto basta perché la prelezione di Stazio possa distendersi. La prima delle prelezioni: ché la seconda riguarderà la sua stessa vita, introdotta e condotta con un’apparatura biografica che solo il caro elogio di Virgilio interrompe: dalla menzione del tempo (ricondotta a una data capitale della storia provvidenziale dell’umanità, la distruzione di Gerusalemme per opera di Tito, vendetta del tradimento di Giuda e della crocifissione di Cristo), all’elenco dell’opera: la Tebaide, e l’Achilleide interrotta.20 Ma la storia della sua poetica si riassume nel culto dell’Eneide: la qual mamma fummi, e fummi nutrice, poetando: sanz’essa non fermai peso di dramma.21

Mutamento di tono improvviso, dopo tanto rispetto alle convenzioni accademiche e ai moduli solenni; ma l’entusiasmo, traboccando, veste una cara ingenuità. II canto può terminar sorridendo, «come l’uom che ammicca»; ma l’ultimo verso vale di epigrafe alla poesia: trattando l’ombre come cosa salda.22

1 Pg XIX, 14-15. Nella iconografia dantesca la Femmina Balba ha attratto l’attenzione di tutti i commentatori: e l’immediata concordanza dell’Ep. V, 13, «Nec seducat alludens cupiditas, more Sirenum nescio qua dulcedine vigiliam rationis mortificans»: dove pure occorre sottolineare, per meglio comprendere il passo della commedia, le parole vigiliam rationis: ché il tema della veglia dottrinale, della lezione del notturno, come nel Mattutino dell’officiatura

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liturgica, ritorna dovunque nel canto che precede; e se non è detto che sia la Femmina Balba che addormenta la ragione, cui è stato testé dichiarato il mistero dell’Amore e del Libero Arbitrio, è facile capire che quella magia, operando nella visione extratemporale, si proietta tanto sul prima che sul dopo (così Lia in sogno e Matelda). Occorrerà dunque riaccostare la Femmina alle Donne, e intenderla anche come dichiarazione di un moralismo che in Dante fiorentino non era senza incertezze; ma soprattutto studiarla nella tipologia donnesca che da Beatrice, attraverso quasi una novellistica sottintesa, riconduce a Maria. 2 Pg XIX, 61-63. 3 Pg XIV, 148-149. 4 Pg XIX, 81. 5 Pg XIX, 99. 6 Pg XIX, 112-123. 7 Pg XIX, 125-126. 8 Pg XIX, 139-140. 9 Pg XX, 15. 10 Pg XX, 7-8. 11 Pg XX, 55-57. 12 P. RAJNA, Hugues Capet dans la «Divine Comédie», Roma 1924. 13 Dante non sa o non vuole disporre una giustificazione dottrinale: «Veramente più volte appaion cose / che danno a dubitar falsa matera / per le vere cagion che son nascose» (Pg XXII, 28-30) che varrebbe, se lo tentasse, fosse pure nel senso di quel “troppo” e del contrario «la colpa che rimbecca / per dritta opposizione alcun peccato, / con esso insieme qui suo verde secca» (Pg XXII, 49-51), introdurre un’indagine che non potrebbe appoggiarsi ai metodi di una psicologia intellettualistica e moralistica, ma sviluppare una ricerca per infinitesimi, certo più dichiarativa dei misteri della religione cristiana di quella intelligenza stessa ch’egli e la cultura scolastica chiamavano in soccorso del proposito apologetico. Ma anche senza voler dare una spiegazione soddisfacente, egli tocca la verità della conoscenza poetica; quegli avari e prodighi commisti hanno sentimenti assai somiglianti e risentimenti identici. 14 Pg XX, 124-137. 15 Pg XX, 139-141. 16 E quindi, sottinteso, il tema della Resurrezione, che qui s’accompagna (così legato al tema della natività degli iddii e della natività di Cristo) a Stazio, il suo lettore. Notabile che in questo tema Dante abbia fatto un’introduzione indiretta, dall’apparizione di Stazio all’apparizione di Beatrice («Quali i beati, al novissimo bando […]»): giova pensare che per due motivi diversi abbia preferito alla rappresentazione diretta la suggestione polifonica: per circondare di più solenne mistero il dogma; e per rispettare la titubante melanconia di Virgilio, cui non è ancor presagita, come a Catone, la veste chiara nel gran giorno. Abbiamo detto motivi, non ragioni: se mai altrove, in questo episodio è folgorante la verità della preminenza della visione sulla riflessione, della poesia sulla dottrina. 17 Pg XXI, 7-12. 18 Pg XXI, 44-45. 19 Pg XXI, 16-18. 20 Nulla, è noto, delle Sylvae; ma se è vero che si scopre quello che si cerca, la disponibilità sentimentale e arcadica di quelle, e la loro fortuna rinascimentale, sono introdotte proprio dall’animazione poetica di cui Dante circonda il poeta nuovo, classico-cristiano: quasi prescienza di un’opera ignota, ma pur necessaria alla poetica di quello. 21 Pg XXI, 97-99. 22 Pg XXI, 136. Ed anch’esso valga alla storia della fortuna: ché questi versi T.S. Eliot trascrive come epigrafe di Prufrock «For Jean Verdenal, 1889-1915, mort aux Dardanelles»: lunga vicenda di un sempre risorgente sincretismo rinascimentale e cristiano.

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Gola

Nuove esperienze poetiche Gli ultimi colloqui della scuola ascetica del Purgatorio non si concludono più in ritratti: non solo la violenza dell’incontro con la colpa attuale è al tutto trascorsa; ma anche la suggestione sentimentale dei primi gironi, quel lasciar determinare le movenze e le figure dell’atmosfera poetica, pare esperienza oltrepassata. L’enjambement dei canti (così se l’accavallarsi dei ritmi oltre lo schema del verso suggerisce una emotività più prontamente sommossa) sottrae ad un’attenzione univoca il personaggio, e lo presenta via via in situazioni diverse: quasi un procedimento drammaturgico che dallo stile rigoroso e delimitato del ritratto drammatico passasse a una notazione di scena e di melodia continua. Ma questi e gli altri procedimenti tecnici e stilistici, che si possono annotare in una lettura più circostanziata (ed anche statisticamente annoverarli), prendono vita dal nuovo spirito che sospinge il poeta su su in altura, dal senso della libertà nuova che lo pervade, se pur non ha pagato ancora il suo tributo alle fiamme dell’ultima cornice, da un’aria più limpida e sottile che vi circola. Preludio di libertà immaginativa e fantastica alle scene del Paradiso Terrestre: come le scene del Paradiso Terrestre sono preludio di poesia alla trascendenza paradisiaca; e di preludio in preludio, lungo quel volo verticale dell’allodola «che ’n aere si spazia» alla luce silenziosa del cielo di Saturno: «tace contenta».1

Biografia interiore di Stazio Non ritratto, dunque, né incontro drammatico; ma nel canto ventiduesimo hai la biografia interiore di Stazio. Una fretta sospinge il poeta a trascurare il consueto atto rituale della purificazione angelica e del canto della beatitudine: se ne sbriga in un sol giro sintattico con un’allusione frettolosa ad un testo mutilo («le sue voci / con sitiunt, sanz’altro, ciò forniro»)2 e viene alla notazione che davvero gl’importa, E io più lieve che per l’altre foci m’andava,3

lieto d’essere in ottima compagnia, di poter pareggiare i suoi coi loro passi, di ascoltare così interessanti colloqui. Interessanti: la curiosità è tema frequentissimo qui; svagata ed ilare, pronta ad accorrere e a ripiegare, sempre aperta a quel185

la intelligenza delle cose spirituali, che non attenua la festa delle cose terrene, ma le dà senso; e mentre segue «in sù li spiriti veloci»4 si piega docilmente ora all’uno ora all’altro; di lì a poco altri colloqui con nuovi poeti porranno lui in primo piano: con Bonagiunta, con Guinicelli, con Daniello; intanto ascolta dai poeti antichi, ed impara. La figura di Stazio prende forma: non nel suo essere dicevo, ma nella sua docilità, nella sua pieghevolezza pensosa, nel vedere una verità dove altri trascorrerebbe ignaro; perché questa è la sua sorte benigna, e per questo si salva: per aver tratto verità dove migliaia di lettori erano passati senz’avvedersi; per aver letto, con un trasalimento di tutto l’essere, i versi famosi dell’Ecloga o della Tragedìa. Già da un incontro di letterati Virgilio ha imparato a conoscerlo: quando Giovenale discese «nel Limbo dell’Inferno» (la precisazione topografica, quel «lembo» d’inferno, par rammentare che si tratta di una località distinta: non proprio dentro, ma in disparte; una cura ingenua di far bella figura non va confusa in questi colloqui; e la seconda replica, che calca su «cinghio» e «cieco», ha altro tono), parlò di Stazio e come fosse affezionato a Virgilio; ora però vuol essere informato di un fatto: come mai lui, poeta, s’è impigliato in un così laido vizio? (Ma la domanda è fatta con tutte le scuse.) Al contrario, risponde Stazio; e già si sa che fu prodigo. Una citazione riempirà sempre di gaudio l’anima di un letterato citabile; e più quanto rivelerà un suo valore pregnante, come è di questa parafrasi che svela sottilmente un significato riposto, a cui Virgilio non aveva ancora pensato: Perché non reggi tu, o sacra fame de l’oro, l’appetito de’ mortali?5

A ogni lettore parrà parafrasi troppo ardita: ed erronea addirittura, a chi vuole a ogni costo immaginare un Dante volgare, che poco sapesse di latinetto; ma Stazio si è salvaguardato, «tra cotanto senno» che gli riempie il petto: ha notato in Virgilio un accento implicito, intesi là dove tu chiame, crucciato quasi a l’umana natura…6

e come uno sdrucciolare in quella polemica (qui sempre aperta) che vuole la natura umana per sempre ferita, e poco valere i soccorsi della ragione. Insomma, nel verso di Virgilio, come lo leggiamo noi in prima lettura, il poeta si lamenta che non ci sia delitto cui non spinga la maledetta fame dell’oro; ma nella seconda lettura di Stazio, quella che è dichiarata infermità della natura umana diventa solo un sospetto: può sì spingere a delitti esecrandi; e Stazio se n’era guardato con la pratica delle mani bucate; ma può anche, ammessa la sua fondamentale razionalità, imporre una misura. Virgilio se ne contenti: per sé Stazio ne è contentissimo, se così arzigogolando è riuscito ad evitare le «giostre grame» del quarto cerchio d’Inferno.

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La conversione Ecco concluso l’episodio della prodigalità di Stazio; ma c’è altro che l’affettuosa curiosità di Virgilio desidera sapere: la conversione. Qui per la prima volta la svolta decisiva della vita di un uomo è raccontata come dramma assoluto, vita di una illuminazione. Virgilio tenta Stazio ancora serbando un lampo di sorriso: visto che nella Tebaide non c’è traccia esplicita di cristianesimo (Virgilio mostra d’averla letta tutta quanta: così s’usa tra colleghi; e non par del parere di coloro che vedono nell’episodio del tempio della Clemenza un annuncio cristiano), quale luce fu che indirizzò Stazio? La luce diretta della Grazia, o la malcerta fiammella delle candele? Baroccheggiando, e d’immagine in immagine trascorrendo, le candele diventano guida alla navigazione: ché il poeta si mette nella scia della barca del Pescatore: qual sole o quai candele ti stenebraron sì che tu drizzasti poscia di retro al pescator le vele?7

Altro tono ha la risposta di Stazio; e come il musico riprende un motivo e nel farlo suo lo piega ad altro senso, così il blando scherzo di Virgilio, che prevedendo d’essere stato precorritore di verità, vuol confinarsi nella modestia (ma è una modestia virginea, quella del cantor de’ bucolici carmi, soffusa di confusione e pur luminosa), offre il destro alla metafora della notte misteriosa, prelusa dal rito di Parnaso, delle sue grotte, delle sue fonti: Tu prima m’inviasti verso Parnaso a ber nelle sue grotte, e prima appresso Dio m’alluminasti. Facesti come quei che va di notte, che porta il lume dietro, e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte.8

Qui non è più il caso di rintracciare attraverso una esegesi capziosa un senso celato: qui la verità si proclama; e se i lettori troppo provveduti di storia vogliono a ogni costo riportare il verso di Virgilio ad un fatterello di cronaca familiare in casa di un personaggio non di primissimo piano della politica romana, la nascita di un figlio del console Pollione, Stazio prende il motivo e lo solennizza con tutte le voci della sua orchestra, lo innalza, dal tono chiusamente profetico in cui si tratteneva il verso della profezia cumana, all’inno di ringraziamento, quasi ripete il Gloria che or ora aveva sonato dalle bocche fedeli: Per te poeta fui, per te cristiano,9

riecheggiando le voci della storia:

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Già era ’l mondo tutto quanto pregno de la vera credenza, seminata per li messaggi de l’etterno regno.10

La gloria suprema di Virgilio e della poesia è dunque di avere profetato l’Avvento: decisiva prova che al culmine della grazia naturale dell’arte si schiude la verità trascendentale dello Spirito, nella sua definizione più precisa. La verità allusa dalla poesia non diventa nozione concreta e fattiva: la storia di Stazio, nel suo terzo tempo, è umbratile e schiva e vile: tiepida e accidiosa, dirà il poeta; e mettiamo pure che a questa condizione sia giunto per la necessità di conciliare l’invenzione con la realtà cronologica: di più vero c’è la realtà del ritratto fantastico di questo Nicodemo della poesia (la religiosità del Rinascimento annovera molti cotali), che, scoperto che la parola di Virgilio si consuona ai predicatori del Vangelo, costuma di frequentarli; e via via si persuade della loro santità (quasi che i nuovi tempi avessero potuto incarnarsi senza concretezza d’opere: i limiti di una poetica inattiva e liminare non potrebbero esser più chiari, né quelli dell’indole di Stazio, criptocristiano); e quando la persecuzione di Diocleziano li martirizza, ciò non accade senza che egli pianga: ma per paura chiuso cristian fu’mi lungamente mostrando paganesmo.11

Nessun rammarico di quella viltà: quasi gli sembra connaturata alla sua indole di poeta-retore; ed ha pagato, con uno scotto di secoli, il conto: e questa tepidezza il quarto cerchio cerchiar mi fé più che ’l quarto centesmo.12

Può continuare a discorrere di cose di letteratura; e chiedere dei poeti antichi: tre commediografi e un drammaturgo. Virgilio risponde: e i nomi venerandi non altra eco possono avere che di se stessi, non memoria di vita e di poesia: personaggi mitici, di Grecia e di Roma; sopravviene infatti il catalogo dei personaggi di Stazio: doppia vita di Limbo.

Intermezzo Finito il colloquio di Virgilio e di Stazio, il racconto riprende a incentrarsi in Dante; e dapprima mantiene rispondenze evidenti con l’andamento dell’episodio letterario che lo precede: il tono vagamente scherzoso, quasi di sorriso, che si distende sulla rappresentazione di quella pena grottesca (non che si giunga alla dignità umanistica e curiale della conversazione dei due antichi: anzi, la commedia moderna comporta una agrezza di modi che con la superiore tranquillità dell’antica discorda, e invenzioni tanto più varie, e alla fine il senso di una vita tremenda, tra il lungo pianto di Nella e la caccia infernale di Corso), e 188

le cronache letterarie, con l’incontro di Bonagiunta: certo, è destinato ad altra conclusione; e se Virgilio si addormenta nel Limbo, con le animule blandule di laggiù, se Stazio si rannicchia nel pavido silenzio, le anime dei nuovi poeti hanno ben altro itinerario spirituale: apertamente si disfanno delle preoccupazioni letterarie, per attendere alla penitenza. Un breve preludio di pena, al termine del canto ventiduesimo, introduce la favola della foresta parlante: preludio fiabesco e anch’esso grottesco, della divina foresta spessa e viva, tema boschereccio nella grande favola pastorale che frequente ritorna a suonare nella polifonia del più alto Purgatorio, ma capovolto in stranezza, come quell’albero vietato, digradante con i rami maggiori in alto e l’acqua che sale a ritroso, il profumo ghiotto dei pomi «a odorar soavi e buoni», la raccomandazione iniziale non si tocca, «di questo cibo avrete caro»,13 e la melopea degli esempi d’astinenza ad uno ad uno sgranati come in un rosario. Intanto la pena dei golosi è baldanzosamente raccontata: giornata di vigilia, e quasi feria sesta, quella del sesto girone; il primo incontro coi conversi è di processione penitente: così di retro a noi, più tosto mota, venendo e trapassando ci ammirava, d’anime turba tacita e devota. Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, palida ne la faccia, e tanto scema che da l’ossa la pelle s’informava.14

Le riflessioni par che ammicchino ai penitenti, come poco prima Dante aveva ammiccato a Virgilio: un ricordo storico un po’ prezioso, Ecco la gente che perdé Ierusalemme,

rialzato dalla strana condizione di divorar non pur il proprio figliuolo, ma se stesso: quando Maria nel figlio diè di becco;15

ed uno dei soliti logogrifi: se l’acrostico di «Mostrava, Oh, Vedeva», nelle figure dei Superbi, suggeriva UOM, ecco una nuova moda, fra i Golosi, di imprimere la lettura dell’uomo nei riguardanti ascetici: chi nel viso de li uomini legge «omo», ben avria quivi conosciuta l’emme.16

E se riconoscere Virgilio era stato frutto per Stazio di lunghe avvisaglie, qui l’onda della riconoscenza sale a fior dello sguardo da scaturigini profonde:

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ed ecco del profondo de la testa volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso, poi gridò forte…17

Eran due che si conoscevan benissimo: e il grido che scoppia da quella bocca scarnita, o pare che da quelle occhiaie sfoci, contraddice un gestire di compagnoni esclamativi. Prima lento moto; poi luce: questa favilla tutta mi raccese mia conoscenza a la cangiata labbia…18

II colloquio prende subito un andamento pietoso ed umano: «la faccia tua ch’io lacrimai già morta»;19 e se ancora uno scherzo si consente, la reverenza al segno divino l’attenua: «per Dio, che sì vi sfoglia».20 Tutto diventa pensoso, caramente afflitto, e la baldanza ridanciana dei compagnacci cede luogo al rammarico di anime severe che s’affliggono dei costumi sciagurati. Nessuna pedanteria nelle battute dell’uno e dell’altro: Forese è, fra gli espositori e guide del Purgatorio, il più perspicuo e il più animato, se leggo la stupenda cadenza della spiegazione che illustra a Dante la pena: quel fluire di una miracolosa forza, prima che dall’acqua che la prolunga salendo, dalla provvidenza divina, onde discende l’animazione gentile delle cose («l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo / che si distende su per sua verdura»)21 e le riprese costanti del tema ascetico, così recise e soavi («Tutta esta gente che piangendo canta […] / in fame e ’n sete qui si rifà santa»; «Io dico pena, e dovria dir sollazzo»; «quando ne liberò con la sua vena»).22 Forese Donati vive nell’alone forte e sospeso di una conversione recente; ha nei suoi moti d’anima, confessati in così limpide parole, una fresca forza, s’è riconciliato con la sua vedovella, si riconcilia con l’amico, guarda alle sfacciate donne fiorentine senza temere, lui uomo di vita guasta, un tempo, di passar per piagnone. Dante si meraviglia che sia già giunto tanto in alto; e infatti, spiega Forese, Nella con suoi prieghi devoti e con sospiri tratto m’ha de la costa ove s’aspetta, e liberato m’ha de li altri giri.23

Nella, sola soletta alla Barbagia di Toscana. Ma la domanda di Dante, pur piena di tanta pertinentissima meraviglia, quasi di un ritentare in sé interrogando quale sarebbe il proprio destino, pare anche avanzata per guadagnar tempo: troppe memorie lo premono; e costa più a Dante che a Forese farsi indietro nel tempo. Forese si diffonde, acceso in santo zelo; ma non senza la malinconia delicata di quel verso stupendo O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?24

che introduce a fatica il vaticinio, anzi che accorrervi con la solita foga dei veggenti moralisti e vendicatori: «Tempo futuro m’è già nel cospetto…».25 E altri 190

mali verranno: ché infinite sciagure serba la Giustizia per la patria cara e sciagurata. Attorno al colloquio dei due la compostezza della vigilia: dietro loro la collera divina che tonando scoscende; e innanzi loro il ballo delle proterve, che a un tratto si muterà in urlo di angoscioso terrore: già per urlare avrien le bocche aperte.

Il dramma, ormai, è tutto nella bocca spalancata di quella maschera atroce. Forese insiste nella richiesta; ancora una volta dice: fratello. E Dante sale adagio con lui nella memoria, porta sù il suo carico greve: «Se tu riduci a mente…». Ricorda la foresta fonda dove gli appariva tonda la luna del solstizio. Può finalmente nominare Beatrice, confortato da Forese che la conobbe: Tanto dice di farmi sua compagna, che io sarò là dove fia Beatrice.26

Con un lungo sospiro, chiudendo il canto, rammenta in Stazio la sorte che li attende: l’ombra per cui tremava or ora lo vostro regno, che da sé lo sgombra.27

Presentazioni L’enjambement del canto ventiquattresimo prolunga il tema del colloquio austero: l’accento deve cader su Piccarda, la terza di queste degne donne fiorentine, nominate fra le anime corrotte (dunque non è così sola la sua purezza; ma conciliarsi con la città, perduta nel ricordo, non nell’affetto sdegnoso, è lento; e il ricordo del bene sale adagio fra tanto male); Piccarda, della quale esplicitamente chiede (a più tardi il turno del terzo della fraterna, Corso), già trionfa in cielo; e come se il ricordo dell’anima gloriosa avesse finalmente rotto il nodo di quella malinconia, ecco il tono del colloquio ha una svolta, Forese sorride lui pure: è ben necessario nominar quei penitenti, dacché, così magri, sono irriconoscibili: ecco Bonagiunta da Lucca, se un letterato è opportuno rammentarlo per il luogo d’origine, e papa Martino IV, che «purga per digiuno / l’anguille di Bolsena e la vernaccia»,28 e Ubaldino della Pila di Mugello, e Bonifazio de’ Fieschi, arcivescovo di Ravenna, e messer Marchese degli Argogliosi di Forlì, bevitore grande. Ciascuno è lieto; e in quella universale letizia, conciliatosi con ogni sorta di gente, papi e prelati, poeti e uomini di corte, può ben anche rappattumarsi con Lucca, «come ch’uom la riprenda». Merito di Gentucca, un’altra donna gentile: e come sia delicato il tratto è facile avvertirlo, dopo lo scoppio misogino di prima. Fra così aperta ed umana cortesia (forse la sola scena di costume dove Dante si concili con la vita d’Italia, godente e pur pensosa, gagliarda ma alla fine serena) Bonagiunta è pronto a ripagare con un interessamento gentile la carità di Dante: una citazione letteraria, della sua canzone della lode, il mes191

saggio poetico che aveva lanciato all’Italia (il nome mio ancor molto non suona, aveva detto più giù, nella scala del Purgatorio). Come potrebbe, a questo punto, Dante indiscretamente montare in bigoncia, fare una proclamazione di scuola letteraria, aprire a ventaglio la ruota della nomea? Ma ne abbiamo già parlato: quell’Amore che spira su per la montagna e nel mondo egli l’ascolta dettare, e scrive veloce e più non cura. Ben detto, risponde Bonagiunta; e questo era il nodo che aveva trattenuto lui e Guittone e il Notaio da Lentini. Poi, come se lo stesso impulso d’amore li guidasse a volo, la schiera delle anime si dispone in riga e via trascorre (qui rammenta il ritorno di un tema ch’era del canto di Francesca: «e come i gru van cantando lor lai / faccendo in aere di sé lunga riga», diceva laggiù: qui, con simile immagine: Come gli augei che vernan lungo il Nilo, alcuna volta in aere fanno schiera, poi volan più a fretta e vanno in filo).29

La ripresa del tema del volo d’amore non deve sfuggire, a chiusura dell’episodio di Bonagiunta: il termine di ogni vita, sia o non sia giunta la poesia ad affacciarsi alla purità gratuita della festa d’amore, è in quel volo: cui per altre strade si giunge.

Un presagio Ma il colloquio di Forese riprende; prima il passato e il presente, e un tristo presagio: la tristezza dei futuri danni s’affaccia ancora, inaugurata, attraverso il sospiro dell’amicizia pensosa: «Quando fia ch’io ti riveggia»? Anche l’anima di Dante s’invola: «Non so, rispuos’io lui, quant’io mi viva; ma già non fia ’l tornar mio tanto tosto, ch’io non sia col voler prima a la riva».30

È triste vivere laggiù; ma ora è tempo di dire la verità tremenda sinora taciuta, la più dolorosa per un’anima di fratello, sensibile a quegli affetti teneri e lunghi: Corso Donati (non lo nomina) sarà trascinato all’Inferno a coda di cavallo; e presto; ma anche è tempo di correre oltre. Qui, dopo il presagio della caccia selvaggia, Forese si lancia a corsa: ancora una volta l’immagine chiama altra immagine; e mentre Corso Donati precipita nella valle infernale, Forese balza come il primo dei guerrieri di una cavallata: e va per farsi onor del primo intoppo.31

Così termina l’episodio, con un accento eroico: perché eroica è, comunque, quella vita santa. Dante torna ai due poeti 192

che fuor del mondo sì gran marescalchi32

(ancora una metafora di milizia, attratta da quelle scene), ma segue con lo sguardo desideroso quella corsa dell’anima macra. L’una scena si dipana ormai dall’altra, rimanendo il pellegrino sospeso in un’ansia indistinta: vede i penitenti «quasi bramosi fantolini e vani»,33 ingenuamente tender le mani a un melo, più lontano quanto più lo bramano, e partirsene «sì come ricreduti»; ascolta la voce ch’esce dalle fronde, rammentando il divieto, e che l’albero è un germoglio di quello d’Eva, e gli esempi della gola punita, i Centauri e i mancanti compagni di Gedeone; si lascia sorprendere dall’Angelo: una voce improvvisa, una voce rutilante. Ora un empito di vita nuova lo rianima: E quale, annunziatrice de li albori, l’aura di maggio movesi ed olezza tutta impregnata da l’erba e da’ fiori.34

Sulla sua fronte purificata dal penultimo peccato scende l’alata beatitudine di chi ha fame di giustizia.

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Pd XX, 73-74. Pg XXII, 5-6. 3 Pg XXII, 7-8. 4 Pg XXII, 9. 5 Pg XXII, 40-41. «Nella versione dantesca il verbo latino cogere è preso nel significato, che pure ha, di “costringere, fare stare a segno”: oppure il suo testo gli dette a leggere non cogis, ma regis. E veramente, se al contesto virgiliano si addice il cogere (spingere al delitto), il dantesco ha più logica derivazione da un regis, poiché l’effetto di quelle parole era stato che Stazio si accorgesse deplorarsi in esse che la fame dell’oro (“esecranda”, così negli avari come nei prodighi, in quanto “fame”, ma di per sé istintivo “appetito”) non regoli, non governi, non “regga”, i sentimenti, le azioni degli uomini in quel giusto mezzo al quale egli dal peccato della prodigalità si ritrasse. Chi, in luogo del “Perché” legge “A che” è poi costretto a dare al verbo “reggere” il significato di “guidare, condurre”, o anche “spingere”, che non gli si confà». Così, nel suo Commento, Isidoro Del Lungo. Ma il Porena (II, p. 214, Il Cristianesimo di Stazio e la sua prodigalità): «Non è assolutamente possibile che Dante non ne comprendesse il vero senso». 6 Pg XXII, 38-39. 7 Pg XXII, 61-63. 8 Pg XXII, 64-69. 9 Pg XXII, 73. 10 Pg XXII, 76-78. 11 Pg XXII, 90-91. 12 Pg XXII, 92-93. 13 Pg XXII, 19-24. 14 Pg XXIII, 19-24. 15 Pg XXIII, 28-30. 16 Pg XXIII, 32-33. 2

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Pg XXIII, 40-42. Pg XXIII, 46-47. 19 Pg XXIII, 55. 20 Pg XXIII, 58. 21 Pg XXIII, 68-69. 22 Pg XXIII, 64-66; 72; 75. 23 Pg XXIII, 88-90. Né rinunceremo alla postilla del Tommaseo, esperto d’amicizia, d’affetti domestici, di carità di patria: «Più bella che Qual maraviglia! ch’esce di bocca a Brunetto, il maestro, perché più tenera e pia, è la parola di Forese, l’amico: Qual grazia m’è questa? che rammenta quella di Sordello a Virgilio, pia e modesta: Qual merito o qual grazia mi ti mostra? Tutto che involto dalle fiamme pioventi, il discepolo riconosce Brunetto; la lunga agonia della fame e della sete gli trasfigurisce l’amico così, ch’e’ non può riconoscerlo se non alla voce, e la voce poi gl’illumina la memoria a leggere in que’ lineamenti l’immagine antica. Questa è bellezza del cuore; e prova come Dante sentisse l’amicizia al pari, e forse meglio, dell’amore; e come di qui gli venisse merito a rendere tanto potente, e talvolta onestamente pietoso, lo sdegno. La ricordanza della moglie amorosa, è tra le più care cose di tutto il poema; e negli sdegni stessi contro l’inverecondia delle donne fiorentine, è compassione di loro, pietà della patria, la cui perdizione il retto suo ingegno vedeva venire tutta dal corrompere de’ costumi. Né egli tiene sé immacolato: ed è confessione vereconda ma schietta il bel verso: Qual fosti meco, e quale io teco fui. Di più austera bellezza, e di più generale moralità, l’altro: Io dico pena, e dovrei dir sollazzo; dichiarato poi dalla comparazione del Redentore che lieto patisce e insegna andare incontro al dolore che espia, accoglierlo con gratitudine e farne tesoro d’immortale speranza» (p. 290). 24 Pg XXIII, 97. 25 Pg XXIII, 98. «Luigi Fassò ha fatto notare finemente la malinconia di questo verso di trapasso al vaticinio, come vi si senta “lo sforzo che costa a Forese il continuare in tema così doloroso non solo a lui, ma anche al suo interlocutore”» (Lectura Dantis, Firenze 1921, p. 27) (MOMIGLIANO, II, 439). 26 Pg XXIII, 127-128. 27 Pg XXIII, 133. 28 Pg XXIV, 23-24. 29 Pg XXIV, 64-66. 30 Pg XXIV, 75-78. 31 Pg XXIV, 96. Già annotata col Tommaseo la concordanza con l’episodio di Brunetto; concordanza di schema ideologico, oltre che attinenza e conforto di temi: «E parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna […]». 32 Pg XXIV, 99. E il tema della milizia si prolunga negli esempi: guerra dei Centauri e di Teseo, guerra di Gedeone e dei Madianiti. 33 Pg XXIV, 108. 34 Pg XXIV, 145-147. 18

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Lussuria

Il muro di fiamma a guardia del Paradiso Ma la purificazione finale tocca alle fiamme: l’ultima cornice ne è invasa, e Dante per la prima volta partecipa direttamente e violentemente a una pena; ché coi superbi solo si chinava, e con gl’iracondi già s’immergeva nel fumo spesso, «di aspro pelo», e nell’aere «amaro e sozzo»: qui la pena è sensibilmente tremenda, l’incendio scotta come vetro bollente, ogni senso e fantasia n’è trafitta. Passa, bensì, ma non arrestarti, fra le attinenze autobiografiche del fatto: quel muro di fuoco che circonda il Paradiso Terrestre è una proiezione fantastica della spada di fiamma che il cherubino impugnava, a guardia del Giardino dopo che Adamo ed Eva ne furono cacciati;1 e il cherubino ora accoglie l’umanità reduce al suo natural bene, per la lunga via del peccato e della pena, con le parole di Cristo: «Venite, benedicti Patris mei»; ma troppo fulgido perché lo si possa guardare. Il raddoppiarsi di una anagogia più vasta sull’episodio aiuta a spiegare la sua condotta, lungo i tre tempi dei tre canti: didascalico il primo, mimico e colloquiale il secondo, liricamente trasfigurato il terzo; e l’incalzar della fantasia, che raramente è altrettanto libera e incostante su modi di stile tanto diversi. L’ultima tappa del viaggio aduna tutti i procedimenti usati dell’immaginare e del verso: eppure, in quell’aura poetica, il consueto procedimento dei richiami tematici non vale: i motivi si isolano in una loro forza immobile e stupenda, quasi ogni parola valga come per la prima volta detta, e non più da ripetersi: che accresce di indicibile violenza ogni evidenza e ingrandisce l’anima a paragone di quel firmamento che nell’ultima notte del viaggio si stende immenso sul sonno e sul sogno.

La generazione Lo studio delle concordanze vorrebbe esser pur qui sottile, ma s’arresta, vietato dalla stessa evidenza. Penseresti il tema didascalico della generazione introdotto a contraddire con una indagine intellettuale l’impulso oscuro del sangue: è anche questo; ma la fantasia prende qui i suoi diritti, e ci racconta una storia naturale dell’anima vissuta in due tempi, nello spazio e nell’iperspazio, remota dalle esperienze torbide e vittoriosa pur nell’atto delle pene sopra la realtà che la circonda. Le premesse drammatiche dell’indagine filosofica sono presto poste e presto risolte: la fretta del cammino, declinando il giorno; e il desiderio della conoscenza, anzi del volo, in quella affettuosa immagine del cicognin che leva l’ala, accordata alle immagini puerili e ingenue che tante volte in questa svolta 195

del poetare ricorrono, ma già come presaga di una nuova grandezza; e l’intervento di Virgilio, a spiegar come accada che le anime dimagrino «là dove l’uopo di nodrir non tocca»,2 con due immagini che, delusive quanto a rigor logico, son pur potenti quanto a suggestione e valide come verità di poesia: «Se t’ammentassi come Meleagro si consumò al consumar d’un stizzo, non fora, disse, a te questo sì agro; e se pensassi come, al vostro guizzo, guizza dento a lo specchio vostra image, ciò che par duro ti parrebbe vizzo».3

Virgilio, a un simile problema ch’egli si poneva, aveva risposto con un appello alla fede: A sofferir tormenti e caldi e geli simili corpi la Virtù dispone, che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.4

Ora, narrando la storia dell’opera divina della creazione, non la si riconnette a una legge di causalità, né la si chiude nella scala delle determinazioni; ma il «quia» è narrato con tanta evidenza che d’altro non c’è bisogno. Quelle due metafore, la favola di Meleagro e l’apologo dello specchio, anticipano i modi che Stazio dipana con altissima misura, e la storia evidente di quel divenire della natura mortale e immortale: quasi anticipano la vittoria di un conoscere per immagine («per speculum in aenigmate», direbbe san Paolo; ma è vero, e da troppo lo ripetiamo, che la nostra lettura di Dante, invece di rintracciar come spesso approdi ad una «illustrazione», indugia nel pregiudizio di una sua presunta puntigliosa applicazione degli schemi scientifici del suo o di ogni tempo: come se non bastasse, appunto, al sacerdote il suo altare, la sua poesia alla vita intera del poeta: e a noi la sua parola, per riconoscerlo), quel modo di conoscenza che è poi tanto più frequente nel Paradiso: Virgilio propone il tema musicale di quella scoperta: vita dell’anima come magia, vita dell’anima come specchio;5 e a lasciar che la scienza concluda: «Ecco qui Stazio»: un poeta che non aveva scarso il gusto del vedere, pur fra le tante seduzioni dell’intelletto, del sentimento, della memoria. E ancora al vedere Stazio allude: «Se la veduta etterna li dislego», rispose Stazio, «là dove tu sie, discolpi me non potert’io far niego».6

Qui comprendi meglio le circostanze del rifiuto di Virgilio, dopo la sua dichiarata impotenza del canto terzo: è un’anima santa, già assurta al Gloria dell’inno, quella che disinvolge dai groppi della terrestrità la «veduta eterna», 196

la realtà metafisica della generazione e dell’operazione dell’anima immortale; e se pur Virgilio vede, come ha dimostrato con le due metafore, l’autorità maggiore è di Stazio: benché, per cortesia, Stazio dichiari di rassegnarsi a parlare di quella eterna «veduta», solo perché non può sottrarsi a un ordine di Virgilio. E incomincia il racconto della vita dell’anima nel tempo e nell’iperspazio, con una lentezza pacata e assorta, con una castità limpida e cara. La soggettività diremmo, l’autonomia di quei moti vitali per cui l’anima si conforma da sé il proprio destino nella sfera immortale, comincia nel mistero di quel sangue che si serba intatto nel cuore, «quasi alimento che di mensa leve»,7 come un cibo non tocco e riposto, per dar luogo, nella sua integrità, ancor purificato, «ancor digesto», alla generazione, scendendo su altro sangue. Hai poi la storia delle vite: vita vegetativa, quasi di pianta; vita di medusa, tanto ovra poi, che già si move e sente, come fungo marino,8

vita d’animale e d’uomo. Al culmine della parabola della filogenesi, dove l’atto creativo di Dio scocca sopra il feto, quando «l’articular del cerebro è perfetto», una metafora soccorre anche Stazio: E perché meno ammiri la parola, guarda il calor del sol che si fa vino giunto a l’omor che de la vite cola.9

Come se ancora una volta il quia, espresso dai versi lo motor primo a lui si volge lieto sovra tant’arte di natura, e spira spirito novo, di vertù repleto, che ciò che trova attivo quivi, tira in sua sustanzia, e fassi un’alma sola, che vive e sente e sé in sé rigira,10

avesse opportunità di una illustrazione: supplementare, questa, aggiunta alle illustrazioni delle parole ammirande. Poi la morte, quando la materia vien meno, e il cadere dell’anima alle rive del Tevere o d’Acheronte, con la riserva intatta, anzi più ricca, delle facoltà che aveva acquistato quando era unita al corpo e distinta, e la nuova vicenda del suo proiettarsi nel nuovo spazio. Nuovo «loco» in quella vita ultraterrena dove, nell’attimo fuor del tempo, cade; e conosce quale le tocca dei due destini: Sanza restarsi, per se stessa cade mirabilmente a l’una de le rive: quivi conosce prima le sue strade.11

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Altre immagini s’accendono, in questo acme della storia; e l’ultima si ricirconda nel suo mistero: e come l’aere, quand’è ben piorno […] e simigliante poi a la fiammella che segue il foco… Però che quindi ha poscia sua paruta, è chiamata ombra.12

Nel velo della nuova realtà che la circonda opera l’anima, «organa ciascun sentire»,13 ride piange e sospira; ma nel ricordo la vita purgatoriale già è quella soltanto di un’ombra seguace: protagonista di tutta la realtà è l’anima.

Incontro e responsorio L’impeto lirico dell’acme raggiunta ha un effetto: la cortina di fiamme che invade l’ultima cornice del Purgatorio ha una forza fantastica che non si avvertiva più dall’Inferno: è una realtà davvero che l’anima stessa si crea, quel gorgo rutilo che scoppia fuor dal rilievo del monte e che il monte respinge in sù, sì che lasci un lembo sgombro: Quivi la ripa fiamma in fuor balestra, e la cornice spira fiato in suso che la reflette, e via da lei sequestra.14

Tutto vi par sospeso e assorto, come è il cammino dell’arte: ed io temea il foco quinci, e quindi temea cader giuso15

E il canto Summae Deus clementiae, sia che ripeta l’inno a Maria, o sia diversa lezione del Summae Parens clementiae (ma il sabato è giorno del culto mariano) dove è la preghiera Lumbos jecurque morbidum flammis adure congruis, accincti ut artus excubent, luxu remoto pessimo

che s’adatta tutta quanta alla colpa e alla pena, è un inno nell’intimo, remoto, affondato in un ardore non parvente, cantato a bassa voce, come il poeta ha cura di indicare, contrapponendogli il grido con cui rammentano la Vergine e Diana: gridavan alto: «Virum non cognosco»; indi ricominciavan l’inno bassi.

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Finitolo anco, gridavano: «Al bosco si tenne Diana, ed Elice caccionne che di Venere avea sentito il tosco». Indi al canto tornavano; indi donne gridavano e mariti che fuor casti, come virtute e matrimonio imponne.16

Altra immagine che sopravviene a rinforzare la violenza della fiamma (dopo l’intermezzo di quell’inno che serve di antifona agli esempi sacri, agli esempi mitologici, agli esempi che diremmo laici, e sottaciuti per una nuova commedia morale che sopraggiunga dopo tanto intervallo) è quella dell’ombra di Dante, che, percosso dai raggi del sole cadente, facea con l’ombra più rovente parer la fiamma.17

È una conferma esplicitamente introdotta a offrir la misura del sostanziarsi di una disposizione dell’anima. Ma il canto XXVI riprende l’andamento discorsivo e mimico che ne fa intermezzo fra l’altissima didascalia del precedente e la narratività assolutamente lirica di quel che lo segue. Nota che l’interrogazione di Guido Guinicelli, che non ha pur anco detto il suo nome, riman sospesa, anche così, a un tono di curiosità affabile, troppo facilmente contraddetta. Sopravviene un’altra schiera d’anime: la schiera dei sodomiti; ma ogni violenza d’orrore, che trapelava anche in Brunetto, quando finalmente aveva riacquistato parlando parte della sua dignità intellettuale e morale, è dimenticata: l’atto del peccato è lontanissimo nel ricordo, e l’attualità è tutta confusa e calata nel ripensamento e nel rito della penitenza; anzi, poiché a dir del tormento della fiamma penserà lui stesso dopo averlo provato, i gesti si effondono minuti e pensosi, con una cara umiltà, strana in quei violenti: Così per entro loro schiena bruna s’ammusa l’una con l’altra formica, forse a espiar lor via e lor fortuna18

dice delle due schiere all’incontro, che con candida solerzia si baciano «contente a breve festa» e si dilungano. Dei due semicori (ancora la consuetudine del canto antifonario, pur disteso in una rappresentazione) l’uno, dei sodomiti, grida «Soddoma e Gomorra», l’altro l’imbestiamento di Pasife; e l’imbestiarsi dell’anima, dunque, nelle «schegge» di una degradata maschera umana, anche quando il senso ubbidisce agli impulsi naturali. Gli intermezzi trascorrono, nella eguale atmosfera del canto; e lo stesso desiderio che aveva sollecitato una o due volte le anime, trova finalmente rispondenza in Dante: risovvenendosi della lezione di Stazio, risponde, con un’allusione anatomica e fisiologica che sarebbe affatto sconveniente senza quel risovvenirsi: non son rimase acerbe né mature le membra mie di là, ma son qui meco

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col sangue suo e con le sue giunture: quinci sù vo per non esser più cieco: donna è di sopra che m’acquista grazia…19

Tutte le sue preoccupazioni sono chiamate in opera: anche, con quelle or ora dette, la spiegazione visiva di Stazio («per non esser più cieco») e persino, che in quella cerchia è allusione fin troppo chiara, la donna. Così variando con tali temi l’ordine oratorio della risposta, giunge a trasferire in desiderio del cielo il terrestre ardore (la «voglia» che diverrà «sazia» spaziando nel più ampio cielo e più amoroso) e a inserire esplicita una menzione professionale, data la vicinanza di Virgilio e di Stazio, nella promessa implicita della preghiera: ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi, chi siete voi…20

Altra volta s’è verificato in queste commedie mimiche degli incontri di Purgatorio un tono scontroso; ma qui, mentre s’è per introdurre la menzione di Guido e di Arnaldo, pare eccessivo che la turba sia paragonata al montanaro che «rozzo e salvatico s’inurba»:21 il che importerebbe, se appunto il tono non fosse di svagato e distaccato divertimento mimico; altrettanto distaccata è la menzione che l’anime fanno del peccato della schiera compagna: «per che già Cesar, triunfando, / regina contra sé chiamar s’intese»: così, tanto prossimi al trionfo? E a dar la giusta derrata a cotali peccatori, quali con cui parla, che non si vantino troppo d’essere eterosessuali, o non lo prendano a scusa, la menzione di Pasife par metterli un grado più sotto. Altrettanto distaccatamente la notizia di chi parla: «Farotti ben di me volere scemo»;22 che significa: farai a meno di volermi.

Commiato Il resto del canto s’è già chiarito parlando o alludendo a questo distaccarsi, al termine del Purgatorio, e l’uno dopo l’altro incontrando tanti poeti, da ogni preoccupazione di polemica letteraria; Guinicelli con molta cortesia, ma con altrettanta fermezza, respinge l’entusiasmo del discepolo, anzi figlio: che del resto non giungeva a tanto da imitare in tutto l’esempio dello slancio onde Toante ed Euneo si gettarono a riveder la madre Issifile, al tempo dell’ira nequitosa di Licurgo re di Nemea; meglio «un dir d’un paternostro»:23 gli è più caro; e quanto alla fama dei versi di Guinicelli, che durerà quanto l’uso moderno, la palma della versificazione volgare tocca ad Arnaldo Daniello, cantar d’amore, e la maniera moraleggiante (noi diremmo lo storicismo) di Giraldo di Bornelh va tutta messa in disparte. Così terminano l’alte venture del collegio degli scrittori: altro chiostro li attende. Anche l’incontro con Arnaldo ha questo valore; forse più esplicitamente ancora: ché Arnaldo, pur parlando provenzale, adopera parole e modi stilistici umilmente dimessi, senza la minima sforzatura retorica (rammenta come parlasse Pier della Vigna), senza alcuno degli stilemi onde andava 200

celebre il suo dettato: una prosa ascetica, una preghiera, come di tanti letterati, ma senza la minima compiacenza letteraria, per invocare soccorso; ormai il suo pianto non è più finzione di un prezioso amor terreno, e il suo canto, anziché intonare suoi versi, ripete sommessamente l’inno liturgico: «plor e vau cantan»: rinnega dunque, per ben altra meta, tutta la sua poesia. Falco di Marsiglia è già presente al ricordo? Se «fabbro» è metafora che dura nel ricordo di Arnaldo, comprendi, e sorridi, anche a quel fuoco: poi s’ascose nel foco che li affina.24

«Fino», e non soltanto in provenzale, val «bello»: dunque la bellezza è ormai fatto d’anima, non più artificio tecnico alla conquista di una forma.

Una sinfonia Il canone dettato a Bonagiunta, l’obbedienza immediata ad Amore, è ormai tutto applicato ed assolto. Ma è bene che sia detto questo, prima del canto XXVII, che è fra i più puri di scorie, dei più calati in una forma lirica, dove la parola è essa immagine, e l’immagine non par fare tragitto, nonché sforzo, prima di giungere alla parola. L’introduzione stessa del canto è più densa e schiva, in quel tramonto di sangue fra il mare e la fiamma; e il comando dell’angelo echeggia in uno sfolgorare di letizia. A contrasto, la lunga tenzone del dubbio, a poco a poco tentata da Virgilio, quando Dante non vuol entrare nella fiamma e solo il nome di Beatrice lo vince (il passo ha una modulazione sola, crescente, nelle replicate istanze del maestro, finché, al mutamento di tono, Quando mi vide star pur fermo e duro, turbato un poco, disse: «Or vedi, figlio: tra Beatrice e te è questo muro»25

corrisponde la terzina mirabile di Piramo e Tisbe: quel riassumersi di una storia e di due vite in uno sguardo morente, senza parola più, quel vertice di commozione perduta, dove nell’abbandono tutto può accadere: la sfida alla fiamma e il miracolo della natura, il gelso fatto vermiglio). Ancora, lentamente, riprende il racconto: della pena; ma sopra vi aleggia il canto. Quindi l’immensa pastorale della sera, innalzata attraverso quel prodigio di luminismo ch’è l’ombra ottenuta dalla greve luce del sole meridiano a picco sul gregge immobile delle capre, con il commento, capovolto ancor esso, del notturno. Quindi ancora il sogno, il presagio di Lia, quando raggia sulla montagna solinga la luce di Venere: una landa fiorita, il gesto delle belle mani, un canto; dietro vaneggia, in una misteriosa luce, l’immagine del Paradiso. L’inno del sole, in quell’improvviso spalancarsi dell’orizzonte, altrettanto forte che l’ardore della sfera del fuoco nel sogno dell’Aquila, e la scena della investitura di Dante ad opera del maestro. La modulazione sinfonica è varia, e diversamente intenta; ma il ricordo non vale 201

tanto ormai alla lettura, come l’immediato sgorgare di una nuova modulazione. A comprendere quest’arte sopravverrà, dopo tre secoli, e quando solo una parte dell’enciclopedia delle invenzioni poetiche di Dante s’era lentamente rivelata, la poetica della monodia sopra la poetica della polifonia: l’inizio del nuovo teatro appunto, di una nuova commedia; vedi come l’immagine mitologica trabocca in una purità che purifica il dramma amoroso e insanguinato al vertice del nome di Beatrice; ascolta come s’allarga, nella cerchia roggia delle fiamme, il ragionar di Virgilio, «gli occhi suoi già veder parmi»; avverti i mutamenti dell’ora, «che ’l sol corcar, per l’ombra che si spense, / sentimmo», in un mutamento di tono e di ritmo, in quell’incontro arcano di sillabe e di suoni, che è la musica del verso, più magica qui che mai altrove, fra innumerevoli prodigi: lo spazio s’apre e si rinchiude in una misura lirica, mentre procombono sui tre gradi della scala santa, un velario s’apre sopra di loro nel cielo, note acute e lontane echeggiano, il dramma pastorale e sidereo si scorge per una fessura del monte, l’accompagna più luminoso il coro delle stelle. Il sogno. Il commiato. La musica s’innalza nell’inno trionfale della dignità umana riattinta: perch’io te sovra te corono e mitrio.26

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«Vi sono dunque due angeli in questo girone, uno fuori del giro delle fiamme, l’altro dentro. Il primo, che pronunzia la beatitudine, è certamente l’ufficiale del cerchio, corrispondente agli altri sei degli altri cerchi: e Dante, infatti, lo dice l’angelo (v. 6), non un angelo. Che esso cancelli l’ultimo P dalla fronte di Dante non è detto, ma è facile sottintenderlo: a meno che il poeta non abbia voluto farci pensare che quel P è cancellato dal fuoco. E l’altro angelo? È detto nel Genesi che Dio, cacciati Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, pose a guardia di questo un Cherubino con una spada di fuoco. Dante che con grande libertà rispetto al racconto biblico colloca il Paradiso Terrestre nell’alto del Purgatorio, con altrettanta libertà ha ritoccato quella parte del racconto. Il Cherubino sarà appunto questo secondo angelo; sennonché, invece d’impedire l’accesso al Paradiso terrestre, invita ad entrare, ché ormai solo anime purificate giungono avanti a lui, e gli uomini sono tenuti lontani dall’inaccessibilità dell’isola, rappresentata nell’episodio di Ulisse (If XXVI). Della spada di fuoco potrebbe essere reminiscenza il giro di fiamme» (PORENA, Commento, cit., II, pp. 257 ss.). 2 Pg XXV, 21. 3 Pg XXV, 22-27. 4 Pg III, 31-33. 5 È notevole il fatto che il commentatore moderno (Momigliano) si rammenti di un modo analogo, a proposito di Meleagro: Peau de chagrin del Balzac. Non che istituisca direttamente il paragone col Nostro: ma introdurrebbe la menzione, se il rapporto Balzac-Dante non lo avvertisse? Sicuramente no. Dice più innanzi, quasi per farsi perdonare il soverchio ardimento: «Naturalmente il paragone mitico addotto da Virgilio è puramente illusorio, perché rimane nel campo del fantastico e non risponde con una ragione logica alla domanda: è uno dei casi in cui si vede come la cultura classica urgesse nella mente di Dante. Il Manzoni, l’altro grande poeta religioso, non ha mai ceduto a queste tentazioni» (p. 45). Il fatto importante è proprio che per la prima volta si risponde a un’inchiesta con un’immagine, da parte di un Virgilio che può finalmente serbare a Stazio la scienza e tenersi la poesia. Quanto al Manzoni, vada per la

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mitologia, dopo l’Ira di Apollo; ma il realismo magico, dacché si è nominata Peau de chagrin, non è davvero ignoto al poeta dei ruspi di Agnese, né il surrealismo al poeta del viaggio di Renzo dal Lazzaretto al paese. 6 Pg XXV, 31-33. 7 Pg XXV, 39. 8 Pg XXV, 55-56. 9 Pg XXV, 76-78. 10 Pg XXV, 70-75. 11 Pg XXV, 85-87. 12 Pg XXV, 91; 97-98; 100-101. 13 Pg XXV, 101-102. 14 Pg XXV, 112-114. 15 Pg XXV, 116-117. 16 Pg XXV, 127-135. 17 Pg XXVI, 7-8. 18 Pg XXVI, 34-36. 19 Pg XXVI, 55-59. 20 Pg XXVI, 64-65. 21 Pg XXVI, 69. 22 Pg XXVI, 91. 23 Pg XXVI, 130. 24 Pg XXVI, 148. 25 Pg XXVII, 34-36. 26 Pg XXVII, 142.

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Paradiso e Parnaso

«Forse in Parnaso esto loco sognaro» La prefazione al dramma del Paradiso Terrestre, dettata nel canto XXVII, ha predisposto l’animazione poetica che regge tutto il racconto degli ultimi sei canti del Purgatorio: ivi è la tematica, ivi le cifre accertabili di ogni stilema, e la giustificazione stessa di un dilatarsi del racconto in una cadenza non legata ad un tempo preciso; fra il verso dell’inizio «Vago già di cercar dentro e dintorno»,1 che vale anche allusione a un meditar poetico, ad un’arte del trovare, e quell’attimo non commisurato di sogno, quel mistico sonno che prelude le trasformazioni del carro. Tre motivi vi si toccano, che poi sono variamente, e quasi in stil soluto, svolti nei canti dell’Eden: il tema pastorale; l’apparizione di Beatrice promessa, quasi lume nel vortice delle fiamme; e il vertice terreno della dignità umana, che poi consente, dalla sua propria altezza, e accanto a Beatrice, il riassunto delle vicende del tempo. Nei tre la presenza di Dante, ora uomo, ora personaggio, e poeta, si affaccia diversamente, ma sempre: portando di volta in volta necessità di nuova prospettiva, e quindi di un groviglio di sensi e di sovrasensi, l’intrico degli enigmi forti e l’attesa, nel tempo, dei fatti, che saranno le «Naiàde» solutrici degli indovinelli; ma come nella cronologia si dispongono i fatti presenti e futuri, i fatti storici che il poeta soffre e quelli che nella storia s’augura, così nel tempo armonioso del suo discorso si distendono le postille delle sue parole, e si dispongono le immagini. E la misura di tutto, il centro d’ogni luce terrena e d’ogni penombra, la chiave della vita d’ogni parola, è lassù.

Dignità della natura indenne introdotta da una poetica classicista E cominciamo dalla lettura del primo tema: dignità della natura indenne, cui pur la poesia riconduce. Da questa dignità primitiva altre risalgono: il trionfo della Chiesa e il dominio sui tempi; quindi, nell’economia dei canti, il rito e la profezia: aventi entrambi centro nella metanoia di Dante dal tempo all’eterno, attraverso l’incontro con Beatrice. Il tema era stato introdotto dalle stupende pastorali meridiana e notturna; e benché il trionfo mattutino della divina foresta sembri dimenticare i toni estatici di quel preludio, il nesso lo scorgi attraverso la stilizzazione musiva del quadro della foresta: presenza del mistero nell’uno e nell’altro, e un aleggiar di spazi grandi nella prima, come di quel vento astrale 205

nella seconda (ma più calcolato e dedotto quest’ultimo). La dignità della natura indenne è, anzitutto, libertà di vita e di via; e questo breve e amplissimo viaggio Dante riassume lungo uno schema descrittivo, che nello stesso tempo è modulazione musicale, un moto ancora animoso, dapprima, e come fervido di quella corsa alata che aveva innalzato il loro cammino lungo l’ultima scalea, ma via via più estatico nel protagonista contemplante, mentre si dichiara il tema che trasfigura la foresta, quel vento misterioso ed eguale, quel fiato musicale e divino che l’investe. Al cammino «lento lento» risponde il profumo del suolo «che d’ogni parte auliva»; e, dalle variazioni intorno all’aura («dolce, sanza mutamento»; il piegarsi concorde dei rami; il canto sinfoniale degli uccelli, accompagnato dal coro delle fronde: è il regno di una natura magica), approda ad un’immagine naturalistica, al quadro di una natura terrena pacificata, ad una solitudine silvestre e marina, nel fiato di un vento umido e grave: la pineta di Chiassi in un giorno di scirocco.2 Il metodo di tanta poetica classicista, di cercar l’immagine eterna attraverso un processo di astrazione, fa qui le sue prove; e sosta con più insistenza alla ricerca di una medietà aurea, che pur talvolta si denunzia nella sua immobile convenzione. Lo stesso processo del derivare e del concretare (che è il sommario della poetica del «trovare») è applicato agli altri temi: più evidentemente che negli altri, in quel rifrangersi dalla figura di Lia alla figura di Matelda. Lia appariva nella chiusa e quasi ghiotta sfera del sogno, «Sappia qualunque il mio nome dimanda […]», e il canto la circondava del velo di un’altra sfera lucente: giovane e bella in sogno mi parea donna vedere andar per una landa cogliendo fiori; e cantando…4

Altre applicazioni del classicismo È il tema sorgivo, l’abbozzo che conserva dell’invenzione poetica tutta la commozione del primo apparire, la primordiale immagine pura; ma l’apparizione di Matelda è celebrata col rito della parola: prelusa, introdotta, riassunta, e decorata d’ogni ornamento di retorico discorso: dove, fra l’emotività musicale della prima immagine fiorita e dell’ultima mitologica, l’episodio si distende a toccare con circostanziata circospezione tutti i particolari. Il tratto di Matelda si prolunga, dopo questa prima apparizione, ancora ricca della memoria di Lia, con un’applicazione sin troppo puntuale degli stessi procedimenti: un ritrattino che si aggentilisce in notazioni troppo minute, in didascalie preziosamente raffinate: vedi come la danza delle mani di Lia, «e vo movendo intorno / le belle mani a farmi una ghirlanda»,5 resti in vantaggio sulla prima presentazione di Matelda: cantando e scegliendo fior da fiore;6

vedi poi come diventi illustrazione miniata nel suo danzare: 206

Come si volge con le piante strette a terra ed intra sé donna che balli, e piede innanzi piede a pena mette, volsesi in su i vermigli ed in su i gialli fioretti verso me non altrimenti che vergine che gli occhi onesti avvalli…7

Né questo si dice per fare il computo dei pregi e dei difetti; ma per osservar da vicino, nella cerchia stessa e prossima delle operazioni del poeta, un tratto della storia della sua poetica, e quasi della sua fortuna: ché assisti al degradare, applicandosi, di una schiettissima immagine. E gli arricchimenti mitologici abbondano, che talvolta nel loro stesso fasto trascinano il poeta a un traboccar di fantasia: Non credo che splendesse tanto lume sotto le ciglia a Venere, trafitta dal figlio…8

(ma già nella fine della terzina «fuor di tutto suo costume», noti l’intrusione gnomica), tal’altra si irrigidiscono nell’esposizione scolastica e nel commento parenetico di un episodio: Tre passi ci facea il fiume lontani, ma Ellesponto, là ’ve passò Serse, ancora freno a tutti orgogli umani, più odio da Leandro non sofferse per mareggiare intra Sesto ed Abido, che quel da me, perch’allor non s’aperse.9

La gnomica pastorale Dimenticato parrebbe il tema pastorale: quello riassunto nella immensa meditazione del notturno: Quali si stanno ruminando manse le capre,10

ma in realtà si scinde nei suoi temi elementari: ché da una parte la poesia pastorale, allusione dell’età dell’oro e di una dignità integra della natura umana, vive in tutti questi canti del Paradiso Terrestre; e d’altra parte la poesia pastorale, dal tempo dei tempi e lungo una vicenda che appartiene più alla storia delle religioni, e solo subordinatamente alla storia della poesia, s’è disposta ad una conclusione gnomica e parenetica, che troverà la sua esecuzione più puntuale nelle Ecloghe. Matelda che spiega l’origine del vento e dell’acqua non è commedia di un didascalismo che s’avventa a ogni occasione, una specie di anticipato 207

niutonianismo per le Dame:11 il dogma della naturale sapienza prima del peccato originario basta, se ricordato, a togliere molto sospetto: in quel luogo felice anche la sapienza è spontaneità e letizia; e come un pastore virgiliano e miltoniano (anche roussoviano; ma qui toccò all’autore dimenticare troppe cose, per credervi, e l’insincerità è lo scotto di una istanza troppo facilmente proposta ed esatta, troppo voluta, anziché attesa in dono) può sempre sedere all’ombra e svelare verità arcane, così questa donna stilnovistica, appartenente a quell’aristocrazia storica e ideale che formava l’arcadia della poesia lirica dei nuovi tempi, dai provenzali ai toscani, può dissertare senza strazio della verosimiglianza, cioè della convenzione intellettualistica, in una danza di gesti cristallini, sullo specchio dell’onda bruna di Lete. E se nello squarcio della rupe, contemplando il cielo dai gradini dell’ultima scala, la meditazione notturna, dei poeti-pastori s’era volta alle stelle ardenti e grandi e vicine, qui l’intima animazione poetica della rivelazione scientifica scatta ancora verso l’abisso delle altezze: in questa altezza ch’è tutta disciolta ne l’aere vivo…12

Fin da qui, e anticipando i modi di lettura del Paradiso, occorre seguire la ricerca scientifica di Dante più nel discorso delle immagini, nella sintassi dei miti, che nella povertà (o ricchezza) della formula sillogistica: riecheggia l’ardire di quel canto eterno in vetta alla montagna, di quegli alberi frondenti e mormoranti nello spazio cosmico, di quel canto che si dispiega eguale e eterno come un inno di lode al Creatore da un campanile romanico, di grado in grado più aperto al cielo: vedi piover sul mondo da quella campagna santa le sementi che allignano in alberi e piante sulla terra di quaggiù, in volo anch’esse, scendendo, mentre i suoni paion salire; e mira il miracolo della fontana salda e certa che tanto dal voler di Dio riprende, quant’ella versa da due parti aperta.13

Dimentica, poetando, ogni più precisa ragione naturale che la sua scienza sapeva ben suggerirgli, a contraddire l’immagine: solo guarda a una realtà di natura-poesia; e le parole di Matelda sono a specchio di quel paesaggio divino che la circonda.

«Quelli ch’anticamente poetaro» Al termine delle sue parole, l’accordo di tante intenzioni pregnanti è cercato in una giustificazione della poesia come immagine di una natura felice, non ancor ferita dal peccato originale. Il paragrafo è sottolineato in ogni modo: dal suo annunzio,

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darotti un corollario ancor per grazia,14

e dall’assenso dei poeti, cui si rivolge lo sguardo curioso e soddisfatto del discepolo e vidi che con riso udito avean l’ultimo costrutto…15

e più dalla concitazione interna, dall’accento che dentro vi suona Quelli ch’anticamente poetaro l’età de l’oro e suo stato felice, forse in Parnaso esto loco sognaro. Qui fu innocente l’umana radice; qui primavera sempre ed ogni frutto; nettare è questo di che ciascun dice.1

Tanto valeva conciliare alla rivelazione l’idea e la lode della poesia antica: ché «in Parnaso» vale per ogni immagine della fantasia poetica; e il polisenso del verso non suggerisce certo di arrestarsi al suo significato più povero: i poeti antichi nelle loro fantasie, sognando in Parnaso, dissero di questo Paradiso Terrestre, parlando dell’età dell’oro; ma vale anche più in là: tutto Parnaso, tutta la rivelazione magica e fantastica della poesia, è segno di un’età aurea, immagine dell’età dell’oro: ogni sogno di Parnaso trasfigura l’immagine in Paradiso; e dietro la parola poetica aleggia il fantasma della divina foresta spessa e viva: poesia delle selve; come poi tante volte, dopo che s’ebbe la scoperta delle Sylvae di Stazio, quasi suggerita da questa intuizione di Dante; e l’Arcadia tutta quanta vi si ricollegò, per secoli. Qui si giustifica, più immediatamente, la frequenza del mitologismo in questi canti (e il suo prolungarsi nel Paradiso): non più esempio di locuzione, come nell’Inferno, o paragone di metafore, e non più apologo opportuno ad una deduzione moralistica, come negli esempi del Purgatorio; ma mito che nella sua trasparenza rivela sussistere un’immagine e quindi una verità perenne, chiusa nella sua purezza dal suo primo rivelarsi, non ancor contaminata dal viaggio che percorre in vita e fra la gente «in suo periglio». Questo tema si prolungherà con gli altri per gli altri canti del Paradiso Terrestre: perché sussiste, in tutti questi canti, dall’apparizione del Carro al colloquio profetico di Beatrice, e dal rito di Lete che dismemora al rito di Eunoè che ravviva, l’indice tematico qui raccolto: la cornice di natura, per esempio, il fulgore dei lumi a specchio dell’acqua e il folto della selva, rifatta selvaggia, dove è trascinato il Carro; e il liturgismo sacro accanto al rito solo in apparenza profano della danza di Matelda; e il didascalismo soverchiato dalla forza dell’immaginare, che intesse sopra le parole dirette altro discorso e sintassi di cose; e la dignità stessa del porger parola. Sussiste la dignità riacquistata di Dante, attraverso l’incontro e la scena con Beatrice; e la commozione del commiato di Virgilio, quelle parole della solenne investitura dottrinale e umanistica, cui Dante non rispon209

de, voglioso di cercar la selva dentro e dintorno, duran come sospese nell’aria, attendono, oltre il canto del saluto, «Manibus o date lilia plenis», l’elegia del distacco, quando il discepolo, sopravvenuta Beatrice, s’accorge che il Maestro l’ha ormai lasciato, «Ma Virgilio n’avea lasciati scemi / di sé, Virgilio dolcissimo padre». Sussiste e cresce l’accordo di poesia antica e nuova. E lo stilnovismo di Matelda sale, attraverso Beatrice, a ricomporre in unità la storia delle esperienze del poeta: ché qui hai la cifra più precisa di una vicenda di poesia di cui il poeta sia consapevole; puoi dire che nulla dimentica di quanto ha immaginato e visto e poetato, mentre trascorre in questo mondo dell’umanità non corrotta: rivede il meglio e il più bello del suo immaginare.

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Pg XXVIII, 1. Pg XXVIII, 5-21. Questa della pineta di Ravenna è l’immagine che più ha sollecitato, dal Boccaccio al Pascoli, gli esegeti attenti alle rivelazioni della Nachdichtung: ma il novelliere di Nastagio capovolgeva in favola mondana le mitografie ascetiche, e dei ricordi faceva notizie per una cronaca biografica; l’ermeneuta di Minerva oscura, rimasto esso pure al bivio fra la dottrina e la poesia, non ebbe coraggio bastante per dichiarare che era debitore alla sua propria poetica e al simbolismo europeo del nuovo splanamento del poema. 3 «Sanza mutamento»; «Non di più colpo»; «Tremolando pronte» (qui Dante sembra avviarsi ad una delle sue notazioni minime e felici; ma indugia a contaminare il «sanza alcun rattento» di quell’altra foresta percossa da un vento divino di tempesta, con il «tremolando» dell’apparizione angelica; e la virtù suggestiva del gerundio, con la sua novità stilistica e sintattica, non basta al rimedio; e il ricordo aiuta soltanto a misurare un divario); «Lasciasser d’operare ogni lor arte»; «Con piena letizia». Vorremmo tuttavia completata l’idea, per se stessa ovvia, che l’immagine naturalistica sia spia di questa invenzione della divina foresta: altrimenti tanto varrebbe, astrattizzando nella direzione opposta, affermare che le forme musive dell’arte ravennate si raddoppiano nel paesaggio della pineta e determinano la stilizzazione astrattizzante di quelle fronde, di quel vento, di quegli uccelli; tutti egualmente irreali. Il quadro ha in sé la sua storia, che si può rintracciare movendo a ritroso dalla pineta all’epiteto «divina», che pur vale come programma; ed è storia di una musicale attesa che si placa quando investe della sua vita di moto, cioè spazio e tempo, una realtà umanamente definibile, e l’affida a un ricordo preciso: quasi offrendo la misura del suo potere di rivelazione, in quanto non più misurabile astrattamente, ma applicabile a una realtà individuata. 4 Pg XXVII, 97-99. 5 Pg XXVII, 101-102. 6 Pg XXVIII, 41. 7 Pg XXVIII, 52-57. 8 Pg XXVIII, 64-66. 9 Pg XXVIII, 70-75. Anche puoi seguire, da Lia a Matelda, il progressivo applicarsi di un metodo di ritrattistica: la parola prima annunziata è ancor quella della donna stilnovista nel suo atteggiarsi e nel suo pronunziarsi; il che significa soprattutto due cose: anzitutto la coerenza della poetica dantesca, che dopo tanto cammino e tante esperienze, pur nel periodo neoclassico della sua storia, ritrova un senso più profondo alle immagini della sua vigilia poetica giovanile, e ritrae Matelda, presagio di Beatrice, in modi ch’eran propri di più antichi incontri (una terzina, a questo punto, si risovviene di un antico sonetto: «Tu mi fai rimembrar dove e qual era / Proserpina nel tempo che perdette / la madre lei, ed ella primavera» (Pg XXVIII, 49-51) dice a Matelda; ma di Beatrice, nella Vita Nuova, cantando «l’una appresso de l’altra maraviglia» aveva avviato una simile processione di donne nel rito amoroso: «e 2

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sì come la mente mi ridice, / Amor mi disse: “Quell’è Primavera, / e quell’ha nome Amor, sì mi somiglia”». E in secondo luogo che quel tanto di averroismo permeato nella poetica stilnovista non valeva già come affermazione di un immanentismo naturalistico, ma come rivelazione di una intrinseca dignità della natura umana; la conciliazione (ogni conciliazione) era possibile. 10 Pg XXVII, 76-77. 11 «Il discorso di Matelda, citando il salmo delectasti, par che tenga il principio del sermone» (TOMMASEO, p. 363). È, infatti, un discorso scientifico: e troppo evidente è la concordanza di Matelda con la donna del conforto. Più esplicito il Momigliano: «Con questa parlata la figura della bella donna soletta comincia ad impallidire: il fascino della poesia si rompe […]» (p. 479). 12 Pg XXVIII, 106-107. 13 Pg XXVIII, 124-126. 14 Pg XXVIII, 136. 15 Pg XXVIII, 146-147. 16 Pg XXVIII, 139-144. E avverti ancora la didascalia di Matelda: la quale introduce un «corollario» che diventa ipotesi, «forse»: «E avvegna ch’assai possa esser sazia / la sete tua perch’io più non ti scopra, / darotti un corollario ancor per grazia; / né credo che ’l mio dir ti sia men caro, / se oltre promission teco si spazia. / Quelli ch’anticamente poetaro […]» (134-139), come aggiungendo tra la filosofia e la cosmografia la trattatistica intermedia della poetica.

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Trionfo e mistero

Il mistero dell’uno e dell’universo Nel preludio di Matelda senti insorgere un divieto a che la divina foresta spessa e viva non diventi arcadica vacanza di umanità immatura: la natura immortalmente buona non era dono inerte di sé, ma provvido soccorso di Dio, un patto e il pegno del patto fra Dio e l’uomo; e l’atto del dono è posto sotto il segno della giustizia, e sulla colpa dell’uomo scende la condanna: che poi dimenticarono i secoli facilmente superbi: Lo sommo ben, che solo esso a sé piace, fece l’uomo buono e a bene, e questo loco diede per arra a lui d’etterna pace. Per sua difalta qui dimorò poco: per sua difalta in pianto ed in affanno cambiò onesto riso e dolce gioco.1

Descrivendo il Paradiso Terrestre il poeta poteva esser tentato di dimenticare le sue preoccupazioni più violente; e come una tentazione idillica è sempre al culmine di un cammino, poteva avviarsi a quella danza candida e blanda che è pur del Beato Angelico al termine della sua moralità confraternale; e di Sandro Botticelli (ma più pensosa: l’edonismo paganeggiante aveva già troppo chiaramente indicato certe sue conclusioni e i precipizi del senso e della morte); o dell’Arcadia, fra il Cinque e il Settecento, fra il Sannazaro e il Metastasio. A evitarla, e a confermarci l’autentico itinerario della sua esperienza totale d’uomo due circostanze aiutano: che l’uomo Dante compie il suo cammino, partecipando individualmente di un mondo infinito, in pro del mondo che mal vive; e che per questo atto violento di una santa apocalissi è necessario il giudizio del tempo e della persona: del tempo attraverso la persona. Ecco il verso rivelar che Matelda, nel muoversi, trascorre per l’idillio stilnovistico cantando come donna innamorata

e per l’idillio mitologico: E come ninfe che si givan sole per le salvatiche ombre, disiando qual di veder, qual di fuggir lo sole2

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e approda a quel partecipar dell’universo alla cronaca del singolo che era pur la consacrazione stilnovistica dell’intelligenza cosmica di un atto d’amore, il più minuscolo e perduto; e la deduzione necessaria, se leggi in quelle ninfe il preannunzio delle profetiche «Naiàde», della mitologia assunta dalla nuova civiltà cristiana: che la verità sta celata pur dentro l’ombre degli dei falsi e bugiardi. Tanto doveva esser detto non solo per accompagnare d’un’altra riflessione la lettura di Matelda; ma per aiutare a togliere il sospetto e la tentazione di una terza e più insidiosa sosta: l’idillio dell’allegoria, l’incantesimo che nella cifra dell’intelletto arresta il cammino del poeta e dell’uomo, che è verso l’individuazione, verso un personalissimo rispondere alla vita dell’universo. Qui non vogliamo che esemplare una volta ancora quanto altrove s’è detto e altrove si ripete: l’allegorismo, qui più fitto che altrove, a tutto può servire, anche ad esercitar l’ingegno, anche a ingannare il tempo; ma contraddice certo all’opera e all’intenzione del poeta quando non conduce la verità al suo servizio, con quell’umile gesto e santo onde tai tre donne benedette nella corte del cielo si curan di lui. Qui sono presenti due estremi ed insieme operanti: l’universo della storia del mondo, ché i tempi già vissuti e quelli che sono per trascorrere si riflettono nei simboli della Processione e del Carro, e l’Uomo-Dio stesso, in figura di Grifone, presenzia al rito della storia umana; e l’universo dell’uomo Dante, richiamato e riassunto nella sua apparenza più dimessa, smarrimento e pentimento e pianto, e morire della morte mistica del peccato e svegliarsi alla resurrezione mistica del Sacramento, povera ed umile cosa prima che sia riconsegnato alla rivelazione e alla gloria: così puntualizzato che di lui si dice con parole severe, che lo abbassano assai più di quanto s’era abbassato, quando s’era detto indegno della storia di Enea e di Paolo, prima che Virgilio gli svelasse da che parte era mosso il soccorso. Ma il contrasto fra un universo storico e la pochezza di un individuo che coglie la prima occasione per rassegnarsi ad essere mediocre, non è già per abolir questo in quello, e far dimenticare la sorte umile dell’uno nella enfatica gloria di tutti: anzi, è necessario da quella discendere a questo, e riproporre ancora una volta le idee al servizio dell’uomo in genere, ma di quell’uomo vivo, di quel cittadino, per il quale, se pur dispiaccia agli allegorizzanti, si muove Cristo, e trascina un Carro dove, severa prima che misericorde, sta la Donna che egli aveva in vita amato. Questo processo, o ditela pure processione, di idee a illuminare il caso singolo, al soccorso di una povera persona, sarà sempre dimenticato quando inseguiremo le idee in astratto, per una loro applicazione generale, per una loro predicabilità adattabile a ogni caso: dimenticando che son presentate per un uomo, Dante.

Un trionfo Ma gli allegoristi, che si rassegnano a far l’uomo servo delle idee, non più poste a soccorso dell’uomo, servono Dante in misura pessima: condannano ad un perpetuo esilio dal testo; né diversamente gl’ideologi condannano l’uomo ad un perpetuo esilio dall’umano. Poiché qui si assiste ad un trionfo, al primo dei 214

trionfi risorgimentali, occorre subito indicare quanto ne sia diverso, ché, tenendogli dietro, lo interpretavano in parte. La creatura divinizzata nel rito trionfale era appunto innalzata a paragone di ogni altra; e nella gloria si adempiva tutto il suo destino. Ma il trionfo che qui Dante dispone non percorre lo stesso cammino: non è ordinato per innalzare la creatura; anzi, la stessa creatura che vi si posa viene per soccorso e per guida: Beatrice; e la sua figura è tanto più umana e instante di quella, pur così affettuosa, ch’era discesa dal Cielo nel Limbo, sollecitata da Maria e da Lucia. Non che Roma di carro così bello rallegrasse Affricano o vero Augusto; ma quel del Sol sarìa pover con ello: quel del Sol, che, sviando, fu combusto per l’orazion de la Terra devota, quando fu Giove arcanamente giusto.3

Che il trionfo sia caduco non potrebbe essere meglio alluso; e la giustizia di Dio, che percuote e trasforma il carro, per un disegno misterioso, già si proclama. Altro sarà il trionfo di Cristo, in cielo; e Beatrice stessa, benché appaia sul carro (ma ne discende!), aveva già detto di sé e della sua gloria di paradiso. La grandezza è insomma una misura posta a servizio dell’effimero, perché si trasformi in eterno. Qui hai il capovolgersi delle consuete dimensioni; e la risposta della lettera ai cardinali italiani, col sospetto di una fondamentale impertinenza laicale nell’intervento di Dante e di un fedele nelle vicende della Chiesa: la Chiesa, e la storia del mondo e la sua gloria, e l’intervento stesso di Dio che s’è fatto uomo, tutto l’universo e il suo mistero, si concentrano su quell’umile creatura, che è qui rappresentata senza pur una delle allusioni commosse che la circondano altrove. Stabilito questo rapporto, tutto si dichiara più facilmente: ché ogni atto del dramma, e della liturgia della storia qui proposta, non vale già, astrattamente, in se stesso, non ha in sé la propria misura, ma aiuta la cronaca di quel piccolo uomo là giunto, in quel sentor di Paradiso, a disvilupparsi dai tanti impacci del tempo e della gente. Che se osservi tale proposta nella prospettiva della storia, già s’é detto, la retorica politica e artistica dell’umanesimo accademico capovolse il processo, e non chiamò già i simboli del divino a confortare la concretezza dell’esperienza umana, la pena delle fosse attraversate, la fatica delle catene, anzi ne fece un’aspirazione astratta e magniloquente: di diritto e per autonoma investitura il piccolo uomo ambizioso sale la scala dell’esistenza e si innalza alla pienezza dell’essere: che è l’itinerario dei Trionfi del Petrarca; ma se questi stessi fatti e temi di Dante osservi nella prospettiva del linguaggio religioso, t’avvedi che la liturgia è istituita appunto a solennizzare l’infinito intorno alla più trepida e incerta delle animule, dal suo centro eucaristico, che lega con le parole del Sacrificio al soccorso della Creatura Iddio che consente, alle più vaste periferie delle sue cerimonie, muri musiche e mimi, al giro millenario del rito del tempo. Nel Paradiso, con una ripetizione non osservata, in luogo dei simboli sacri, i pianeti e le stelle e i cieli son chiamati a guidare il cammino di 215

Dante, non solo, ma a svelare il segreto umano delle anime beate: una liturgia cosmica, un commento infinito alla dignità dell’uomo, i segni delle costellazioni fatti interpreti del destino della creatura infima fra le intelligenti, ma da Dio innalzata alla gloria sovrana.

Suono e luce Tutto ciò valga di introduzione remota alla lettura; ed alla storia della fortuna; ma per un accordo che immediatamente le preluda, vale altrettanto annotare il prolungarsi della mobilità emotiva e della disponibilità fantastica che l’uomopoeta ha appreso negli ultimi gradi della scala del Purgatorio. Il suo riassunto, e l’anticipazione della sinfonia processionale, è in quel sincretismo estetico che aduna più nozioni dei sensi nel baleno che invade la gran foresta: E una melodia dolce correva per l’aere luminoso…4

Se il sostegno dell’impalcatura oratoria non fosse così robusto, un intellettualismo appena un po’ cauto avrebbe denunziato la commistione barocca (o gotica, come vi piace), prima che il tema sinfoniale si definisca con ordine: tal quale un foco acceso, ci si fé l’aere sotto i verdi rami; e ’l dolce suon per canti era già inteso,5

e ad impedire che la stravaganza fantastica riporti le immagini poetiche, subito dopo, fuori della più ragionevole continenza logica: Di sopra fiammeggiava il bello arnese più chiaro assai che luna per sereno di mezza notte nel suo mezzo mese.6

E poiché la storia di tanta parte della poetica dantesca si svolge poi in Paradiso verso un complesso organico di notazioni luministiche, ti spieghi come qui prevalga, in questo preludio sinfonico, la notazione delle luci: accresciuta, con un accorgimento scenografico, dal riflettersi delle fiamme dei candelabri nell’acqua di Letè, insistita dal perdurare delle fiamme nel cielo a formar sette liste, rinnovata ancora dal sopravvenire degli animali apocalittici, dopo una pausa idillica: Poscia che i fiori e l’altre fresche erbette a rimpetto di me da l’altra sponda libere fuor da quelle genti elette, sì come luce luce in ciel seconda…7

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ma anche noti la preoccupazione dell’equilibrio fra le notazioni mimiche e le notazioni luministiche, in quel cenno di Dante a Virgilio e di Virgilio a Dante, in quel giuoco dello specchio d’acqua inondato di luce.8 Continuando il rito intorno alla creatura, la fantasia liturgica salva il narratore dal ridurre la visione a un giuoco letterario: si tratta di libri sacri che prendon vita di simboli, infatti: un giuoco libresco, d’uno che s’addormenta in biblioteca; la cultura ecclesiastica, che aveva appunto trasferito i testi sacri dalla lettura alla rappresentazione, gli giova: tanto che oltrepassa d’un balzo anche gl’inciampi esegetici: ma leggi Ezechiel che li dipigne come li vide da la fredda parte venir con vento e con nube e con igne: e quali i troverai ne le sue carte, tali eran quivi, salvo ch’a le penne Giovanni è meco e da lui si diparte.9

Le presenze illustri e sante non valgono per una loro suggestione diretta, di figura che le riassuma e le alluda: anzi, l’arguzia un po’ fredda dei riscontri (i ventiquattro seniori a due a due, coronati di fiordaliso; i due personaggi degli Atti e delle Epistole, indicati con un concettismo cincischiato, «mostrava l’altro la contraria cura […]», a menzionare il medico san Luca, accanto a san Paolo simboleggiato con la spada, e l’Apocalisse in figura di vecchio solo «venir, dormendo, con la faccia arguta […]») ci porta in una atmosfera di scuola, in una commedia di cifre su cui la fantasia scherza; la commedia letteraria, che tanto piacerà all’accademismo dell’età barocca, fra Boccalini, d’Errico e l’Arcadia, è qui testimoniata appena e trascorsa: d’altro discorso sarà degno l’episodio dell’intelligenza, la ricerca della verità scientifica. Comunque, ricordanze di scuola, ora che dalla scuola purgatoriale è uscito all’aperto di quel chiostro arboreo. Il tema offerto a questa immensa variazione liturgica è quello della seconda Parusia: il centro stesso della officiatura chiesastica. S’intenda, non si tratta che di una officiatura minore, variazione appunto dedotta per una applicazione secondaria: per la rivelazione (apocalissi) dei nuovi tempi si ripete in parte la storia annunciata per l’ultima apparizione di Cristo alle soglie dell’anno perenne, e la nuova fase del tempo che si prepara è soltanto una applicazione deduttiva di quella fase definitiva che precipiterà il tempo nell’eterno. Così il giudizio parziale che si celebra su Dante uomo è solo un’applicazione dedotta del giudizio universale; ma questo vale così alla solennità delle cerimonie come a comprendere gli accenti severi, da Giudizio appunto, conforme al passo evangelico del Presagio. Beatrice diventa un riassunto di Cristo e della Vergine e della Chiesa, in tale proiezione che conduce il sovrasenso apocalittico a incoronare l’episodio singolo di una vita: e come gli stilemi del canto gregoriano erano adoperati nella musica profana, per applicazioni di linguaggio che a lungo serbavano il ricordo, e quindi la suggestione, del significato primitivo, così ora la scena del Giudizio riecheggia i temi della narrazione e della tradizione escatologica.

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Parusia di Beatrice L’apologia segue dunque sempre lo stesso metodo: si applica al caso singolo di Dante e del suo tempo l’officiatura liturgica che contiene il presagio del giorno eterno e del giudizio finale. Beatrice non è la Teologia o la Rivelazione o la Grazia: è Beatrice; e il linguaggio che celebra la Rivelazione e la Grazia e la Chiesa e Maria e lo Sposo Eterno è applicato a quella concreta figura di donna, a quella creatura che poteva passar del resto inavvertita nel vuoto tumulto, ma non obliata da Dio, né dalla Chiesa, che aveva celebrato su di lei il suo rito, e sparso su di lei i tesori della sua ricchezza eterna. Sempre lo stesso punto del dogma cristiano: che l’universo è tutto quanto accentrato nella sorte di un’anima. Il canto processionale, dopo l’Osanna, Tutti cantavan: «Benedicta tue ne le figlie d’Adamo, e benedette sieno in etterno le bellezze tue!»10

è il canto della salutazione mariana, e il canto di Dio innamorato dell’anima; anche il triplice ritornello d’uno dei ventiquattro Seniori, e un di loro, quasi da ciel messo, «Veni, sponsa, de Libano», cantando gridò tre volte, e tutti li altri appresso,11

raddoppia in sé altrettanti significati. Già s’era visto, nella Vita Nuova, l’intenzione di esemplare Beatrice su Maria: intenzione ch’era cavalleresca e insieme religiosa, degna di quel san Bernardo che a Beatrice succede come guida, e che a Maria lo riconsegna, quando occorre che tanta intercessione lo soccorra e gl’impetri la visione di Dio; ora la trasposizione metaforica è più assidua, e all’invocazione di Beatrice soccorre il saluto delle Palme, «benedictus qui venit in nomine Domini», e il verso virgiliano su Marcello morto giovine, interpolato dall’o, quasi per una melodia alleluiatica: e fior gittando di sopra e dintorno «manibus o date lilia plenis!»12

L’equilibrio della lettura, che il lettore turba goffamente dove, per adeguare l’immagine alla dignità della citazione, si innalza astrattamente Beatrice, è ristabilito quando finalmente s’intenda l’intrinseca dignità di quella vicenda umana, degna del giudizio del cielo e della prova d’inferno, degna che la poesia liturgica si celebri tutta quanta sopra di lei, e che i misteri della Fede concorrano insieme a illuminarla. Il coro dell’Angelo e dei Beati, antifonando, era alternato, nella canzone della Lode, intorno all’attesa di Beatrice in cielo; ma qui l’esperienza nuova del realismo di Dante, che investe di tutto lo spazio celeste la sua minima avventura terrena, assegna a Beatrice un nuovo peso e una nuova realtà, tanto più concreta 218

quanto da più lontano discende l’investitura. «Io vidi», dice intonando il nuovo tempo della sinfonia, che riprende il tema dell’onda luminosa, e canta la nuova aurora; e dopo il trionfo dell’apparizione, ancora una esperienza diretta, circostanziata con una fermezza che il romanzo giovanile non conosceva, già cotanto tempo era stato che a la sua presenza non era di stupor, tremando, affranto,13

svolge sul tema del fanciullino il contrappunto della dignità trionfale: Tosto che ne la vista mi percosse l’alta virtù che già m’avea trafitto prima che fuor di puerizia fosse, volsimi a la sinistra col rispitto col quale il fantolin corre a la mamma, quando ha paura o quando egli è afflitto, per dicere a Virgilio: «Men che dramma di sangue m’è rimaso che non tremi…»14

Il tema del mistero non si contrappone, ma prosegue parallelo lungo il tema del trionfo: Beatrice è solennizzata in un intervento combattivo, paragonata a un ammiraglio, dall’alto della divina basterna, e dietro il velo fierissima, «regalmente ne l’atto ancor proterva»,15 e sdegnosa del penitente, quando il coro angelico interviene con la preghiera salmistica, In te, Domine, speravi, e al coro risponde; ma il penitente è continuamente soprappreso in atti nonché umili, confusi, colto nella povertà del suo gesticolare, Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte, ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba, tanta vergogna mi gravò la fronte,16

e disfatto in pianto non per virtù propria, ma quando solo per l’intervento del coro avverte di quanto è innalzato. La composizione della scena è perfetta, tra Beatrice che riecheggia la figura del Pantocratore giudicante, Dante in ombra, dimesso e smarrito, e il coro: e appunto perché al coro tocca di indicare la bontà e l’immensità e l’altezza del soccorso, e perché in lui il giudizio si annoda e si scioglie, mentre Dante e Beatrice son creature, la musica del canto solleva soprattutto il coro, e le didascalie amplificano il suo gesto, dall’inno dell’esordio fino agli interventi più lenti via via e più lontani, quando il dramma si muove fra la Donna e il Peccatore. Entro quella musica corale anche Dante si solleva: soccorso, come continuiamo a ripetere; così che il centro del dramma diviene quel traboccar di pianto, accompagnato a piena orchestra:

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Sì come neve tra le vive travi per lo dosso d’Italia si congela, soffiata e stretta da li venti schiavi, poi, liquefatta, in se stessa trapela, pur che la terra che perde ombra spiri, sì che par foco fonder la candela; così fui sanza lacrime e sospiri anzi ’l cantar di quei che notan sempre dietro a le note de li etterni giri; ma poi che ’ntesi ne le dolci tempre lor compatire a me, più che se detto avesser: «Donna, perché sì lo stempre?», lo gel che m’era intorno al cor ristretto, spirito e acqua fessi, e con angoscia de la bocca e de li occhi uscì del petto.17

L’immensità del soccorso è continuamente allusa: postille della vita degli Angeli, canto intento all’armonia delle sfere, intensità del loro persuadere, veglia eterna: Voi vigilate ne l’etterno die, sì che notte né sonno a voi non fura passo che faccia il secol per sue vie18

e Beatrice se ne lascia attrarre: la biografia di Dante, quale esce dal suo racconto, fatta davanti alla giuria degli Angeli, è inevitabilmente una biografia eroica, posta a quell’altezza, detta dalla donna beata in figura di giudice, ascoltata dal concilio angelico, osannata da quella luce, da quel suono, da quella terrestrità paradisiaca: questi fu tal ne la sua vita nova, virtualmente, ch’ogni abito destro fatto averebbe in lui mirabil prova.19

Ma dietro il profilo di Dante, ecco, più alto e intenso, il profilo di Beatrice: più assiduo il soccorso, il suo discendere in terra, l’apparirgli in sogno, la preghiera: quindi il mistero della sua discesa agl’Inferi. Ancora una variazione sul tema del Pantocratore, quel discendere: detto quasi sommessamente, con una sfumatura di disdegno: Per questo visitai l’uscio de’ morti, e a colui che l’ha qua sù condotto, i preghi miei, piangendo, furon porti.20

L’appello alla giustizia eterna risolleva il racconto alla dignità del tribunale degli Angeli. 220

Il “mistero” della vita di Dante È il «mistero» della vita di Dante, questo che qui si svolge; e come storicamente la forma del trionfo si affiancava alla forma del mistero, così qui, in un solo nodo di drammaturgia narrata, le due tavole del dittico contengono l’una la liturgia del soccorso angelico, l’altra la storia di un’anima; e come il soccorso angelico è descritto con una potenza di realizzazione visiva e uditiva, di pittura musiva e di musica corale, che non lascia nella incertezza e nella allusività alcun particolare, così il «mistero» del peccatore è circostanziato, anziché eluso da un processo di amplificazione allegorizzante. Quando Dante s’è spetrato ed ha pianto, dopo l’arringa di Beatrice agli angeli, incomincia il colloquio a due: d’un affetto, d’una commozione, d’un accento patetico che ha ben pochi paragoni: credo che si debba attendere il «sogno» leopardiano, per ritrovarli altrettanto intensi: che non basti nemmeno Petrarca. E la ripresa di un tema ch’era del canto di Francesca: Poco sofferse: poi disse: «Che pense?»21

mette in moto altri ricordi e altro smarrimento. Procedendo, Beatrice diventa sempre più attenta a lui, come chinandosi a chiedergli perché, da donna ad amante: e quali agevolezze o quali avanzi ne la fronte de gli altri si mostraro, perché dovessi lor passeggiare anzi?22

La risposta di Dante, generica, e rappresa a una formula, non interrompe questa linea di un affetto che cresce e si fa più intimo: gli chiede, anzi, di ascoltarla, come se non toccasse a lui di parlare; e parlando lei il bel volto ribalena di una luce di splendido ricordo: Mai non t’appresentò natura o arte piacer, quanto le belle membra in ch’io rinchiusa fui, e sono in terra sparte23

pur detto senza rammarico, ma tanto ricco: come se la bellezza corporea potesse bastare a portar l’amante alla contemplazione della bellezza suprema: cui la morte ruppe: e se ’l sommo piacer sì ti fallio per la mia morte, qual cosa mortale dovea poi trarre te nel suo disìo?24

Il tema della bellezza è ancora ripreso; e culmina sì da diventar il nodo dove il pentimento finalmente lo punge e diventa rammarico: sotto il velo e di là da Lete vincer pariemi più se stessa antica vincer che l’altre qui, quand’ella c’era.25

221

Davanti a quella bellezza, ancora una volta, sopravviene lo smarrimento della mistica morte.

Il rito della conciliazione L’ultima scena del mistero ancora si svolge intorno al tema della bellezza. Il canto delle ninfe vi allude: «Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle: pria che Beatrice discendesse al mondo, fummo ordinate a lei per sue ancelle. Merrenti a li occhi suoi; ma nel giocondo lume ch’è dentro aguzzeranno i tuoi le tre di là, che miran più profondo».26

E il finale del canto, orchestrato anch’esso a pieno suono, allarga ed innalza l’inno: O isplendor di viva luce etterna, chi palido si fece sotto l’ombra sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna, che non paresse aver la mente ingombra, tentando a render te qual tu paresti là dove armonizzando il ciel t’adombra, quando ne l’aere aperto ti solvesti?27

Il rito dell’immersione in Letè, dal sopravvenir di Matelda sull’acque, lieve come spola,28 al canto delle Tre danzando al loro angelico caribo29

si svolge alla luce di quel ricordo e di quel presagio: la vita del poeta è riassunta nella contemplazione di quella bellezza; e ogni altro ricordo, nella asprezza di una memoria sofferta, discende e s’allontana, mentre s’accende la vista e il Grifone appare alternamente ora umano ora divino negli occhi di Beatrice. Magìa degli specchi e dei ricordi, a concludere il rito della conciliazione.

Storia e profezia L’acquisto è del tempo: tra la pausa decennale intercorsa dalla morte di Beatrice, e il tempo che trascorrerà prima che giunga il Messo da Cielo (quest’altro messo: per la terza volta si conta). Il risultato primo della ricognizione di Dante persona, innanzi che salga in cielo, è che il tempo si riassume in una immobile 222

presenza; e in quella strana sfera, non più magica, come nel rito di Letè, ma di veggente, e con fermezza di sguardo, con il tono di chi assiste a una vicenda immediatamente osservata, si svolgono le visioni della storia e della profezia, del tempo che fu e del tempo che sarà. Prosegue una celebrazione gnomica, e sia pure acclamata, finché non si dichiarano i prodigi: Così dintorno a l’arbore robusto gridaron li altri; e l’animal binato: «Sì si conserva il seme d’ogni giusto».30

E le ultime vicende terrestri della parata della Chiesa militante hanno sì largo accento e una suggestione pregnante, ma propriamente di vittoriosa forza, che determina i gesti atto per atto: il tema dominante rimane insomma, sino al sonno mistico del Pellegrino, quello che ne aveva accompagnato il moto converso: vidi ’n sul braccio destro esser rivolto lo glorioso essercito, e tornarsi col sole e con le sette fiamme al volto: come sotto li scudi per salvarsi volgesi schiera, e sé gira col segno, prima che possa tutta in sé mutarsi.31

Ma poi il Pellegrino s’addormenta: fluttua sul suo sonno quel fantasticar d’uno che in sogno si rammenta e intorno ad un’immagine tesse la presenza della vita passata e della futura, il mito di Siringa riecheggia (è una suggestione di polifonia vocale: nel mirifico sogno dei Principi, la melodia della rondinella presso alla mattina introduceva arcanamente il volo dell’Aquila; qui al centro è il tema della custodia: Argo custode, appunto; ma il canto ermetico aleggia su quegli occhi intenti, e la favola pastorale di Pan e di Siringa discende, come fra poco il presagio di Beatrice: «Qui sarai tu poco tempo silvano […]»), il fatto evangelico sormonta, dal sonno lo desta una luce: S’io potessi ritrar come assonnaro li occhi spietati udendo di Siringa…32

Magistero della storia Al risveglio, dunque, il paesaggio lirico è mutato: i candelabri d’oro sono sorretti dalle sette ninfe, e queste stanno in cerchio intorno a Beatrice, rimasta a guardia del carro; subito, nel cielo della selva, s’innalza la profezia di Beatrice sul pellegrino, che di silvano diventerà cittadino della vera città, «di quella Roma onde Cristo è romano»33 (e così si sapesse sempre leggere, ché questo è un esempio prezioso del come la metafora si proietta nella sfera del sensibile e dello storico: la magnificenza storica e politica della Roma terrestre è proiezione 223

soltanto di quella Roma celeste cui Cristo regge: gli storicisti son tentati dal contrario). Per ora, in pro del mondo che mal vive, al carro tieni or gli occhi, e quel che vedi, ritornato di là, fa che tu scrive.34

Magistero della storia, e storia esposta in quadri allegorici: l’Aquila discende sul Carro, straziando l’albero della vita umana, ch’era, legatogli il Carro, fiorito; la Volpe affamata si avventa sulla cassa del Carro, ma è discacciata da Beatrice; ridiscende l’Aquila e vi lascia le penne; il Drago ne porta seco il fondo; si trasforma il Carro, coperto di piume, e mette fuori sette teste munite di dieci corna; sul Mostro siede la Puttana; il Gigante la bacia, e come ella volge gli occhi al Pellegrino, la flagella e trascina con lei il Carro lontano, celati dal folto della Selva. Allegorie evidenti: le persecuzioni dell’Impero, l’insidia dell’eresia, la donazione di Costantino, il mostro della Chiesa d’Impero, la collusione prima, poi la persecuzione della Casa di Francia e della Curia, la cattività di Avignone; e l’onda poetica che si arresta nel figurar tetro.

Il presagio dedotto Fin qui la storia; e non è senza senso che questa vicenda degli uomini dopo l’Avvento sia così rotta e scura, e apocalitticamente disumana, e bestiaria, e così trionfale la gesta dell’Aquila, a illuminar di colori in festa la vigilia operosa degli uomini prima del Riscatto, e quel che inconsapevoli prepararono, obbedendo all’ordine provvidenziale; mentre dopo il Riscatto cominciano i tempi del Giudizio, e gli anni sono tetri del presagio. Ma finito un intermezzo liturgico, e la salmodia della sventura, detta dalle Virtù in coro, intonando il salmo del Tempio profanato, Deus, venerunt gentes, Beatrice annunzia la Resurrezione: Modicum, et vos videbitis me. Il senso del tempo che si contrae nell’attimo domina il rito dell’ultimo soggiorno nella Selva e il cammino verso la corrente di Eunoè; dove un intrico troppo folto di senso chiede d’essere sciolto dalla semplicetta presenza di quel corteggio: le Virtù coi candelabri precedono la piccola processione di Beatrice e di Matelda, di Dante e di Stazio: quasi immagine del ricostruirsi della Chiesa nella illuminazione dello Spirito e con la salvaguardia intellettuale della Rivelazione. Beatrice parla «con tranquillo aspetto», ma Dante è ancor «com’om che sogna»: la profezia dell’una è dunque, per l’altro, presagio, e quel che per Beatrice avviene in un numero limitato d’anni, dopo che tanti passi e non più hanno percorso, per Dante accade ancora nell’alone di una visione trasognata. Così della profezia del «Cinquecento diece e cinque»: per Beatrice è un tempo esatto: ch’io veggio certamente, e però il narro, a darne tempo già stelle propinque, secure d’ogni intoppo e d’ogni sbarro…35

224

per Dante il rinnovamento dell’umanità, simboleggiata dalla pianta, come esistenza e come scienza derubata da Adamo ed ora derubata del Carro, è un antiveder faticoso, che il suo allontanamento da Beatrice, quando la sua vita morale era corrotta e la sua dottrina meno propensa al divino, ha impedito affatto: quando pur sarebbe bastato il soccorso della ragione per intendere: quando pensier vani e immagini di bellezza carnale lo offuscavano e lo macchiavano: Ma perch’io veggio te ne lo ’ntelletto fatto di pietra, ed impetrato, tinto, sì che t’abbaglia il lume del mio detto, voglio anco, e se non scritto, almen dipinto, che ’l te ne porti dentro a te per quello che si reca il bordon di palma cinto.36

Poiché ha visitato Gerusalemme, tornerà nel mondo col bastone di pellegrino adorno della palma trionfale; ma fra ora e il tempo dell’attesa c’è un vuoto che Beatrice si rifiuta di colmare altrimenti che con un volo altissimo sopra le cose.

Un problema di cronologia Per la curiosità del tempo e della cronaca, che più attrae, questo è passo che risulta men chiaro a intenderlo affidato a fatti concreti o sperati, più chiaro nel presagio del tempo eterno dello spirito. Men chiaro, dunque, se lo leghiamo a un tempo presunto della cronologia dell’opera, fra il 1310 e il 1312, gli anni della speranza di Dante in Arrigo VII; ché il significato più lato dell’episodio della profezia e della piccola processione fra Letè e Eunoè è questo: che a Dante si consegna una virtù illuminata, scissa dalle circostanze, e che gli si rimprovera di avere presunto, altra volta, di giungere alla vita intiera movendo dalle sue premesse minori, lasciando che i pensieri incrostassero la mente e i piaceri brancolassero intorno a vane parvenze presso l’albero di vita: per un cammino di presunte certezze, insomma, anzi che deducendo dalla verità. Come dunque potrebbe ora scambiare per verità il suo desiderio, e per realtà un evento che già si delinea? E non è la poetica del presagio, nella Commedia, un trasferire il contingente nella specie eterna, fuor del tempo, nella concretezza empirea? «Perché conoschi», disse, «quella scuola ch’hai seguitata, e veggi sua dottrina come può seguitar la mia parola, e veggi vostra via da la divina distar cotanto, quanto si discorda da terra il ciel che più alto festina».37

Per questo parla tanto: per segnare una distanza; ma misurare il divino dall’umano e stabilire una scienza induttiva e presagire il futuro non dalla nozio225

ne della dignità eterna e divina dell’albero dell’umanità, che appartiene, come la scienza, a Dio, e a Dio solo, ma da accorgimenti caduchi e dall’esame di una situazione politica, non è il modo della scienza dantesca riassunta nel Convivio, se ne togli, certo isterilendola, il fermento e il presagio della verità, quanto della Commedia già vi si consegna? L’albero della Vita è di Dio e di Dio è il Tempo; ma per ubbidire a Beatrice, Dante deve spogliarsi dalla presunzione intellettuale che la vita appartenga all’uomo e che il tempo sia una misura esatta: il sacrificio di Arrigo ha una corona già disposta in Empireo; ma cedere alla tentazione di un presagio confortato dagli eventi e dai tempi sarebbe stato, nel comporre questi versi dell’ultimo canto del Purgatorio, contraddire proprio all’ammonimento esplicito di Beatrice, che qui s’imparadisa e lo innalza al trascendente.

L’ultimo rito Poi l’ultimo rito: in alto il sole è più lento e più fulgido (ma quaggiù la vista umana ha per ciascuno una sua misura meridiana: la menzione dei tanti meridiani quanti sono coloro che osservano il sole, è evidentemente legata al discorso di prima e al rito di poi), in basso le sette Virtù si fermano in un luogo di pallida ombra qual sotto foglie verdi e rami nigri sovra suoi freddi rivi l’Alpe porta38

ad una fonte donde escono due fiumi. Tema magico del rito sull’acque, più volte toccato da Dante: per questo insorge, «che acqua è questa?», e interviene Matelda, esortata da Beatrice, a rammentargli la spiegazione già datagli; perché la verità, anche la minor verità dell’osservazione empirica, il frutto sapienzale della vita attiva, non è già cancellata dall’acqua di Leté; né Beatrice, che siede in cielo accanto a Rachele, rinunzia al suo soccorso. Tuttavia ora egli è assorbito da maggior cura, e tocca a Matelda ravvivargli, con l’altre virtù, anche la memoria, bagnandolo nell’acqua di Eunoè. Dalla santissima onda ritorna rifatto sì come piante novelle.39

Spoglio l’albero della vita; ma nell’uomo si rinnova il miracolo della primavera eterna.

1

Pg XXVIII, 91-96. Pg XXIX, 1; 4-6. 3 Pg XXIX, 115-120. 4 Pg XXIX, 22-23. 5 Pg XXIX, 34-36. 6 Pg XXIX, 52-54. 2

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7

Pg XXIX, 88-91. «L’acqua splendea dal sinistro fianco / e rendea a me la mia sinistra costa, / s’io riguardava in lei, come specchio anco» (Pg XXIX, 67-69). Non è libertà di fantasia creativa, questa, se rilevi (cfr. MOMIGLIANO) la fiacchezza delle rime, frequente; ma il nodo della versificazione dantesca è quasi sempre la parola in posizione forte, al principio del verso, e fortissima la rima: al solito, la stretta della legge diventa occasione di libertà, mentre questo è frutto di una predisposta disinvoltura. 9 Pg XXIX, 100-105. 10 Pg XXIX, 85-87. 11 Pg XXX, 10-12. Il Tommaseo, che sempre assiste il lettore di Dante più provvedutamente di ogni altro quando il tema è liturgico, circostanzia anche troppo «Tutti si fermano; Salomone invita Beatrice, la sapienza, a venire» (p. 385, Argomento del c. XXX); ma è indicazione preziosa: a stabilire i nessi fra amare e conoscere, infatti, aggiunge in nota al v. 11: «Salomone innamorato della Sapienza come è il poeta di Beatrice» (p. 386). E in una postilla all’Argomento: «Questa è forse la parte del poema ideata per prima da Dante: la tela, poi gli si venne ampliando più e più degnamente»: che è un modo alquanto provvisorio per indicare, se non una priorità cronologica, una centralità ideale. 12 Pg XXX, 20-21. «Dante ricorre ad una frase di Virgilio (Eneide VI, 883) che interpolata da un o, acquista l’apparenza d’un versetto sacro» (MOMIGLIANO). 13 Pg XXX, 34-36. 14 Pg XXX, 40-47 15 Pg XXX, 70. 16 Pg XXX, 76-78. 17 Pg XXX, 85-99. 18 Pg XXX, 103-105. 19 Pg XXX, 115-117. 20 Pg XXX, 139-141. 21 Pg XXXI, 10. 22 Pg XXXI, 28-30. 23 Pg XXXI, 49-51. 24 Pg XXXI, 52-54. 25 Pg XXXI, 83-84. 26 Pg XXXI, 106-111. 27 Pg XXXI, 139-145. 28 «Sovresso l’acqua lieve come scola» (Pg XXXI, 96) porta la lezione della Società dantesca: «scola» significava anche barchetta, scafo leggero: accezione derivata a sua volta da scola-spola. Nella poetica di Dante, anche se non illuminati, gli etimi si sovrappongono; ma se nella citazione diretta trascriveremo scola, nella parafrasi, perché sia pronta l’intesa, preferiamo spola. 29 Pg XXXI, 132. 30 Pg XXXII, 46-48. 31 Pg XXXII, 16-21. 32 Pg XXXII, 64-65. 33 Pg XXXII, 102; e non è da far cronaca o statistica di quante volte la tentazione ingenua di un immanentismo storico-politico esaltò, nella suggestione sintattica, piuttosto in Cristo la romanità che nella romanità Cristo. 34 Pg XXXII, 103-105. 35 Pg XXXIII, 40-42. 36 Pg XXXIII, 73-78. 37 Pg XXXIII, 85-90. 38 Pg XXXIII, 110-111. 39 Pg XXXIII, 143. 8

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Cielo della Luna

«Trasumanar significar per verba» Unica dichiarazione possibile e chiave, ad aprir la lettura del Paradiso, è che chiave o formula di lettura non esiste. La cosmografia dell’Inferno, con la sua pesantezza potente, ancora poteva incatenar la memoria fra i cerchi e i dirupi d’abisso: ché vi eran legate l’anime, e la prigione eterna stronca e serra quasi ogni itinerario infinito: se non quanto le anime, contraddicendo drammaticamente alla pena, consegnano di sé al pellegrino. E ancor la scuola del Purgatorio, con l’officiatura delle ore degli incontri, dichiarava un ordine per cui il transito era necessario: più chiaro quell’ordine e più serenamente accettato perché provvisorio, esemplare in ogni parte e assiduo. Ma in Paradiso solo la gloriola scientista di una cosmografia che presumeva di impadronirsi geometricamente e matematicamente di Dio, e il lungo indugio dell’intelligenza nello studio della struttura e architettura dell’universo, intesi come connaturata legge e disciplina di Dio, l’estrema illusione insomma e l’errore più superbo del razionalismo e del naturalismo alleati, e l’esclusivismo stesso della polemica dei Massimi Sistemi, che li ripeteva, trassero i lettori a sostar per sempre e perdersi nella cifra della struttura: che pareva, qui, ingenuamente offerta o imposta dalla materia stessa del poema e dall’invadente colloquialismo di Beatrice, vista non più come creatura, ma come simbolo, non come lettrice di una verità cui assiste e disvela per l’esistenza del suo beato esse, ma come scienza e sapienza allegorizzata in figura. Eppure non c’è parola o immagine del Paradiso che non travalichi il limite delle cose La gloria di Colui che tutto move per l’universo penetra,1

né atto della sua drammaturgia che non significhi trasvalutare; e il riassunto della sua storia altro non è che un trasferirsi sempre più intimo e lontano nel fuoco amoroso di Dio, donde guardare le immagini del creato.2

Superamento della cosmografia Viaggio all’Empireo, il terzo tempo della Commedia: dunque, ad un iperspazio che è impensabile nelle categorie della conoscenza sensibile; e nell’attimo che s’inizia, la misura intellettuale, dai consueti termini, è trascorsa, non più oltre potendosi, a rigore, parlare né di viaggio né di storia. La cosmografia, che pure eccede, come atto intellettuale (ma non atto puro: atto puro, per un cattolico, è 229

Dio; e identificarlo con l’atto intellettuale, attribuendo a questo ogni potenza, è eterodosso), «ogni contento / di quel ciel ch’ha minor li cerchi sui», diventa, di lassù, un’immagine trascorsa, una visione lontana e, nell’intimo, estranea, visitata dall’anima che s’india solo per aver contezza del suo distacco e allusione della propria grandezza. L’Empireo non è compreso dallo spazio cosmograficamente ordinato che Dante visita stella in stella con Beatrice; e se dici che lo comprende, cosa filosoficamente non impropria, forse ti precludi la più breve via a intender quel mondo del sovrasensibile e dell’eterno come attinente sì, in un ordine logico, ma esistendo estraneo al mondo del moto che pure gli si affisa: un regno donde si può continuamente gettar lo sguardo nei regni di quaggiù, ma senza separarsi da sé e neppure un attimo perdersi; un modo più che d’intendere, di comprendere, e, più, d’amare.3 La concezione dell’Empireo, e quindi ogni partecipazione alla vita paradisiaca che non sia distaccata contemplazione, un guardar dal basso, ancora pregando, una attesa di libera vita dalla prigione dello spazio, contraddice dunque, o per dir meglio trasvaluta, la concezione cosmografica del mondo: puoi dire, anticipando la storia della fortuna in una direzione non osservata, che poche esperienze, fuor che dei mistici, valsero quanto questa a spalancare di là dai limiti del sistema tolemaico la via dell’intelligenza; e poco importa che il sistema copernicano non fosse bene inteso nel suo compito di provvisoria dimora della conoscenza in un itinerario dell’intelletto: che, insomma, Niccolò da Cusa fosse trascurato: non è dell’intelligenza poter dire tutto in tutto, e sua condanna è inorgoglirsi dei doni che le sono largiti; certo il Paradiso di Dante è traduzione in termini intellettuali di una esperienza mistica, amplissimamente riconciliata all’intelligenza. Unica forma, or che la cosmografia vien dichiarata provvisoria, è la Trinità, raggiunta ed amata. Unica vita, la vita trinitaria. Nell’Inferno visitava la persona umana calata e impietrata, superbamente, nella forma attuale; nel Purgatorio esulava dai luoghi noti e dai noti volti e pregando e soffrendo sperava; ma nel Paradiso è Dio onnipresente, con più chiarezza di luce, e anche il dono del volto umano è in un subito raggiar di lume; e l’amor divino s’apre in gorgo ad ogni voce, ogni parola è preghiera ed ogni preghiera è inno di lode: atto di gloria, condotto dal polo di Dio al polo della creatura lungo l’orbita dell’universo. La drammaturgia degli incontri, giù per lo mondo senza fine amaro, su per il monte onde lo rapiscono i begli occhi della sua Donna, era itinerario del pellegrino, che di tappa in tappa si comprendeva, che viveva quella storia, che quella realtà umana scriveva a conoscenza di sé; ma qui, quando scocca l’arco infinito che nell’attimo lo balestra di cielo in cielo, nonché l’itinerario della conoscenza di sé, diventa irrilevante anche il viaggio nei cieli, se misurato dal basso, e meraviglioso come atto gratuito e benigno; e le anime che accorrono all’incontro formano segni e figure del loro affacciarsi al mondo dalla voragine della contemplazione di Dio, in cui riposano. I cori e gli inni delle anime sorelle erano, nel Purgatorio, una liturgia visitata dall’interno, casa di pena e di preghiera, quindi tramite ed ascesi; quei cori e quegli inni, e i templi celesti diventano ora simboli e segni visti da fuori e dall’alto: come la trama dei vetri istoriati svela e preclude il volto e lo spazio dei Santi.

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Poetica della trascendenza A questa realtà risponde la poetica: ché il verso del Paradiso procede traverso abissi dove il senso sprofonda e immensurabili spazi si spalancano ad ogni passo, e le svolte imprevedutamente rompono la direzione. Se la legge più assidua dell’Inferno era la definizione drammatica a dir della persona, e del Purgatorio l’atmosfera sentimentale a suggerir la situazione, qui il richiamo è costante a trarre in disparte, ad assistere distaccatamente e dall’alto ai segni, a godere delle cose senza imprigionarsi nel loro possesso. Atti repentini e violenti, un accendersi mirabile, ad arbitrio, delle metafore più ardite, che così luminoso e sottile dipanano il filo che lega l’immagine della parola all’ipotesi della cosa, che il filo vedi e perdi la parola e la cosa, l’atto del trasferire godi e nel moto riposi. Surrealtà di una parabola che s’affisa all’eterno, fuor d’ogni nostro costume, e gioia dell’attimo luminoso, senza luogo e giorno. Questa poetica è riassunta così: perché appressando sé al suo desire, nostro intelletto si profonda tanto, che retro la memoria non può ire.4

Dunque la memoria è immagine di quaggiù, abbandonata alle soglie delle porte eterne; e riguadagnarla significa tornare indietro: indietro rispetto all’abisso del desiderio eterno, né importa quanto questo “indietro” ci sopravanzi. La libertà mirifica che questa situazione consente, guadagnata lungo tanto travaglio di arte, se era allusa dalla disponibilità degli ultimi canti del Purgatorio, solo qui è perfetta: e subito sfolgora dalle prime battute del primo canto, in quel rapidissimo succedersi di immagini, come da una ferma luce raggiante. E se era sentito altrove come ardire specular la favola mitologica per intravvedervi, di trasparenza, la verità, qui avverti che al mito riguarda ormai dall’alto, e che la nuova poetica dell’esistenza cristiana, giunta alla pienezza della vita, può guardare giù a quei mitologici segni senza arrestarsi all’officiatura della riconsacrazione: Apollo è invocato con un atto di perfetta letizia: «fammi capace di accogliere la tua ispirazione, rendimi degno della gloria che mi largisci»;5 e se fin qui la sede delle Muse, Elicona, bastava all’opera terrena, ora all’opera divina si risponde dalla sede apollinea di Cirra. Né qui si arresta: del suo poetare dice in maniera nuova, come di un far luce dell’ombra e segno manifesto il sogno: O divina virtù, se mi ti presti tanto che l’ombra del beato regno segnata nel mio capo io manifesti…6

Dell’atto di giustizia che consegue alla condanna divina dice ricoprendo il dogma di esoterismi ellenici chissà per quali tramiti appresi, figurando Apollo esecutore della pena atroce, mentre spira sul gruppo statuario impassibile l’onda del canto armonioso: 231

spira tue sì come quando Marsia traesti da la vagina de le membra sue.7

Delle supreme altezze umane dice in un’onda di musica mesta per triunfare o cesare o poeta,8

ancora mirando lontano, alla commedia remota delle umane voglie, mentre qui accanto occlusa sfolgora ed arde gioia aggiunta su gioia, pur nell’atto puro del desiderio: che parturir letizia in su la lieta delfica deità dovria la fronda peneia, quando alcun di sé asseta.9

Quel ch’era intensità di poesia chiusa nella tensione prodigiosa del prologo del Paradiso si frange subito in giuoco di luci, in danza di lumi, quando la stretta s’allenta e incomincia un raccontar disteso: una larghissima ricognizione astronomica, che fa accorrere e coincidere in un segno di croce i cerchi celesti, s’apre con un sinfonico raggiar del sole sorgente, battendo il verso due volte su quel surge e su quel lucerna, prima di comporsi nel rito delle tre croci; il Paradiso Terrestre invaso dalla luce meridiana, mentre l’emisfero terrestre affonda nella sua tenebra, più lontano; e il rito di Beatrice, che guarda regalmente nel sole, aquila sì non li s’ affisse unquanco,10

al qual gesto risponde, «pur come pellegrin che tornar vuole»,11 il gesto del fedele, che anch’egli lo ripete e tenta. Il mistero è presente ad ogni svolta nel discorso della terza cantica, e un’indagine esegetica che vuol ridurre alla misura di una logica formale l’invenzione poetica se altrove fa prove valide, qui s’arresta di fronte a improvvise lacune: che significa quel crescere della luce quando Dante, a gara con Beatrice, ha guardato nel sole? Che s’apre a loro la sfera del fuoco? O una dimensione luminosa onnipresente ormai nel viaggio, fatto in una infinita, benché disuguale, intensità di luce, in uno spazio perennemente splendido, dove il poeta par che rimbalzi nel momento proprio raggiato dalle Tre Croci, dopo avere imitato Beatrice nella sua muta contemplazione del sole? Paragonabile alla preghiera di Virgilio al sole, amore, luce, immagine di Dio che solo amore e luce ha per confine, lo sguardo di Beatrice; cui segue il gesto di Dante; e segue l’inondazione luminosa e di subito parve giorno a giorno essere aggiunto, come quei che puote avesse il ciel d’un altro sole adorno.12

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Ma nella più intima e rivelatrice sintassi, che è del discorso poetico, la terzina giunge a concludere l’episodio stupendo delle luci: il primo di una serie ricca d’incontri, e il più libero, il più attivo d’invenzione fantastica, di vigor di scoperta.

Il poema della luce Modulazione di luce, immagini di luce, storia di luce: tale è la struttura del Paradiso, che una topografia poveramente esemplata sulla cosmografia solo in parte riassume. Compiuto che s’è l’atto primo della rivoluzione luminosa del cosmo dove d’ora in poi il mondo è immerso, e dimenticate le povere fasi del pellegrinaggio della luce nel mondo, ora occorre circostanziare la nuova umanità di Dante, che guardando Beatrice trasumana: Nel suo aspetto tal dentro mi fei qual si fé Glauco nel gustar de l’erba che ’l fé consorto in mar de li altri Dei.13

Dio del mare Glauco nel seno dell’onda profonda, dove il suo ricordo attrae il canto; e trasumanato nel cielo luminoso il poeta, consorto delle anime angelicate di lassù, e di Beatrice. Qui la mitologia non è velo favoloso intessuto sopra la verità: è storia ed esempio; quel che accadde alla creatura umana partecipe dell’immensità della vita equorea attraverso l’incantesimo dell’erba prodigiosa, di una natura attratta dal desiderio di diversa natura più grande, il mito di Glauco, diventa esempio appunto, autorizzato dal fatto: Trasumanar significar per verba non si poria; però l’esemplo basti a cui esperienza grazia serba.14

Spiegazione illusoria, direbbe un non incline al sincretismo umanistico: ché bisognerebbe ammettere pur nella vita della natura la possibilità del trascendersi; ma egli, riassunto ancora una volta nella mente quel mondo, trascorre folgorando. In quell’altra tesi imponente, che vorrebbe risolta la questione se il viaggio fu compiuto solo dall’anima, trascorre: Deus scit, risponde con Paolo, nella seconda ai Corinzi; e «tu il sai che col tuo lume mi levasti»:15 ché fu miracolo della luce. E trascorre, solo citando, la rivelazione dell’armonia delle sfere.

Una lezione di Beatrice La distensione dell’immagine prodigiosa affidata ai miti della luce avviene nella lezione di Beatrice. E intendi lezione in senso liturgico: soste espositive affidate a un itinerario razionale, ch’erano in Inferno imposte da circostanze esterne, e suggerite in Purgatorio a conferma dell’acquisto. Qui Beatrice, in termini assai 233

piani, e dopo un giuoco d’atti che traducono in gesti i modi variatissimi del canto, «la bocca aprio», «sorrise parolette brevi», «pio sospiro», «sembiante / che madre fa sopra figliuol deliro»,16 riconduce all’ordine della ragione il prodigio: naturalezza del miracolo, quale di folgore che salga; e se la tesi della lezione è violentemente rappresa in quell’immagine, folgore, fuggendo il proprio sito, non corse come tu ch’ad esso riedi,17

l’esposizione distende il moto dell’universo in una sinfonia larga e tranquilla: onde si muovono a diversi porti per lo gran mar de l’essere.18

La rivelazione di quell’ordine capovolto di natura vibrava ancora della violenza del miracolo; ma accettato il segno divino, e ricomposta la mente nella naturalezza del sovrannaturale, e nella pace di un ordine direttamente imposto dal volere di Dio, le immagini del prodigio sono esposte con una pacata movenza; come d’un rivo se d’alto monte scende giuso ad imo… com’a terra quiete in foco vivo…19

L’anima è placidamente assorta nel prodigioso potere che ha capovolto il mondo. Nell’atto Beatrice si riaffisa al cielo.

Poesia e metafisica Viver nella luce: questo il tema mirabilmente intonato nel preludio al Paradiso. Nel secondo canto, come ha fatto nelle prime cantiche, un unico tema, dopo che l’ha acquistato di slancio, è riflessivamente rielaborato. Giunge al primo cielo, della luna: non più il volo rapito per gli spazi immensi, ma luce di perla, e un affondare nella luminosa sostanza e un approdo, quasi un abitacolo, in un recesso non d’ombra, ma di minor luce. E dal tema deduce variazioni, qua e là riecheggiandolo a pieno suono, dopo che l’ha sospeso per la parentesi parenetica: O voi che siete in piccioletta barca…20

(Noterai, in questa parentesi dei vv. 1-18, la rapidità del riassunto, accanto alla sapienza del contrappunto; ché quel viaggio volante, prima che si riprenda al v. 23, «e forse in tanto in quanto un quadrel posa / e vola e da la noce si dischiava», era frenato e rallentato nell’immagine della navigazione poetica, armoniosa e composta,

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dietro al mio legno che cantando varca

nello spirar delle deità propizie; e i temi che vi si toccano sono imponenti – dalla proclamata superiorità della Rivelazione sulla ragione – ma la poesia è seguace di quella, se prima di questa; e a gara s’innalza, come forma di esistenza immediata – al mito di Giasone, nel rito della mistica aratura coi buoi spiranti fiamme.) Il quadro dell’approdo, con la sua musica lenta, è orchestrato intorno a due immagini di luce, affidate alla clausola di ciascuna terzina: Parev’ a me che nube ne coprisse lucida, spessa, solida e pulita, quasi adamante che lo sol ferisse. Per entro sé l’etterna margarita ne ricevette, com’acqua recepe raggio di luce permanendo unita.21

Ma il mimo della conoscenza, uno degli innumerevoli, fa episodio col contrasto dell’ombra: ché Dante irresistibilmente, vorrebbe rifarsi alla sua vecchia mentalità mitografica, informarsi e vedere le macchie della Luna, con quella stessa curiosità che lo guidava nel mondo terrestre. Ringrazia devotamente Dio, quanto più può, di esser lontano dal mondo mortale (la formula non nasconde un ingenuo desiderio di passar oltre) e vuol sapere dei segni bui di questo corpo, che là giuso in terra fan di Cain favoleggiare altrui.22

Era la stessa favola che altra volta gli era servita a designare la Luna: la favola di Caino e delle spine; dietro la quale egli ritiene che si nasconda una verità da indagare scientificamente. «Segni bui» è tocco che s’accorda col discorso luministico del canto, per contrasto: e lega il discorso al punto stesso dove s’inizia quella frattura risoluta fra la fisica e la metafisica che Beatrice andrà nel canto con sovrana tranquillità spalancando: poi dietro ai sensi vedi che la ragione ha corte l’ali.23

Altri tocchi luminosi sono come pilastri di questo edificio discorsivo: miti d’immagini (ma dovremo pur dire immagini mitiche – di parole, di temi, di fatti – senza più correre il rischio di essere confusi nell’alludere a una mitologia preesistente, che per Dante, storicamente, è la mitologia pagana, come per noi potrebbe essere il corpus enciclopedico dei personaggi nelle opere di letteratura): l’ipotesi dell’eclissi, l’esperienza dei tre specchi, alcuni versi che si rispondono, come

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La spera ottava vi dimostra molti lumi, li quali e nel quale e nel quanto notar si posson di diversi volti

riecheggia nel verso Lo ciel seguente, c’ha tante vedute…24

e soprattutto la forza poetica che investe altri e ne traluce: e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello;25

e riassuntivamente Per la natura lieta onde deriva, la virtù mista per lo corpo luce come letizia per pupilla viva.26

La conclusione della lettura è che il poeta propone per immagini la soluzione del problema metafisico. Il poema della luce, che qui canta, è la traduzione mitografica del problema dell’essere e del moto, le cui formulazioni teoretiche sono del resto nettamente indicate, con inoppugnabile esattezza. E la chiave psicologica del rapporto fra poesia e verità metafisica, la cifra di una storia dell’idea che diventa senso e verità poetica, l’offre in due terzine memorabili: Or come ai colpi de li caldi rai de la neve riman nudo il suggetto e dal colore e dal freddo primai, così rimaso te ne l’intelletto voglio informar di luce sì vivace che ti tremolerà nel suo aspetto.27

«Così la neve al sol si disigilla» dirà un’altra terzina stupenda, al termine del poema e per cantare altro e ultimo crepuscolo dell’essere (tanto vero è che le immagini hanno in lui vita continua e laboriosa: crepuscolo dalla scienza alla metafisica, qui; là dalla rivelazione al colmo esistere in Dio). La ricerca della verità oltrepassa dunque il modulo di una circospetta fenomenologia, lo sperimentare acuto e circoscritto: non vi ha più gusto; e se cominciando il canto ha trascurato ogni urgenza dell’indurre, S’io era corpo, e qui non si concepe com’una dimensione altra patio, ch’esser convien se corpo in corpo repe, accender ne dovria più il desio di veder quell’essenza in che si vede come nostra natura e Dio s’unio…28

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se dunque ha rimosso quasi violentemente in disparte la necessità di discutere un fatto che contraddice prodigiosamente alla legge di natura, per proporre la meditazione religiosa e la soluzione mistica del problema fondamentale dell’umanità, il coesistere dell’Uomo e di Dio in Cristo, suo necessario compito di poeta è dire i modi di quella vita superna che irraggia e discende dal cielo Empireo. Poesia della ricerca scientifica, s’è detto, ricordando Lucrezio: né mancano certo nella Commedia, soprattutto nel Paradiso, pagine dove climax drammatica è l’acquisto del sapere; ma più che la ricerca della verità è illuminato, in questo canto, il disporsi parallelo di un ordine estetico accanto all’ordine filosofico, la serie delle immagini giustapposte ad una serie, apertamente indicata, ma non esposta, di assiomi metafisici.

La realtà come processione dell’essere La realtà come processione dell’essere: tale potrebbe essere il titolo della tesi che è fondamentale della cosmografia dantesca: e annunziata con un tono ieratico che dice la solennità del rito della rivelazione, Dentro dal ciel de la divina pace si gira un corpo ne la cui virtude l’esser di tutto suo contento giace,29

che suggerisce, inoltre, la nostalgia della lontananza, l’attesa dell’eterne cose sperate. Dal cielo Empireo, di cielo in cielo discende la virtù operosa del moto: con un’efficacia d’artefice, Lo moto e la virtù de’ santi giri, come dal fabbro l’arte del martello, da’ beati motor conviene che spiri,30

con una forza plastica che anch’essa ci fa comprendere l’essenza inventiva e poetica del mondo sensibile tutto quanto, teoresi e prassi, pur che sia contemplato dall’alto. Le operazioni dell’intelligenza nel mondo sono come le operazioni dell’anima nel corpo, sciolte «per differenti membra e conformate a diversa potenza»: se da la stella valor no i discende

aveva cantato il Guinicelli: per la lunga strada Dante svolge lo stesso tema.

Il crepuscolo della volontà E svolgendolo, e come riacquistando in altezza, salendo, lo spazio disceso dalla virtù delle stelle, canta nel canto di Piccarda il crepuscolo della volontà. Poesia del voto. Circostanzierà poi il problema nei suoi termini di teologia dogmati237

ca e morale: per bocca di Beatrice giungendo ad una conclusione apologetica e parenetica del bellissimo terzetto di canti; qui il voto è poeticamente colto nello slancio del suo puro volere: che s’avverte sorpreso in una zona torbida e morbida e terrena che lo trattiene e l’impiglia e così lo fa palese. Anime difettive, dice il catalogo del Paradiso; ma il poeta non le guarda di su in sotto, con cipiglio di giudice, né annota di che mancano; anzi le contempla beate, le segue nel loro disciogliersi dai vincoli terrestri, e, come egli solo sa, capovolge in virtù attiva i limiti stessi frapposti, fa luce della stessa ombra. Del tema della luce non si dimentica: «Sole» è proclamata Beatrice in una dichiarazione giovanilmente schietta e baldanzosa, balzante come un gesto d’enfasi ingenua: Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto…31

e, dopo l’intermezzo di quel gesto interrotto (è l’inizio del tema del manco di voto, se vi pensi: Dante, distratto e trattenuto da una visione, non si rammenta della «confessione»), riprende a svolgerlo, con un’invenzione novissima: Quali per vetri trasparenti e tersi o ver per acque nitide e tranquille non sì profonde che i fondi sien persi, tornan di nostri visi le postille debili sì che perla in bianca fronte non vien men tosto a le nostre pupille…32

L’arte pospone le immagini, come in un giuoco di quinte che s’allontanano nella luce digradante di una prospettiva aerea: preludio al transito celeste delle desiose anime, di cui è detto alla fine con quella preghiera cristiana che misura più d’ogni altra le distanze fra la pochezza terrena e la plenitudine di un’immagine perfetta: Così parlommi, e poi cominciò Ave Maria cantando; e cantando vanio come per acqua cupa cosa grave.33

Poesia di suoni, dopo che poesia di luci; ma rilegati allo stesso tema e ad una simile modulazione. Il «pueril coto» di Dante, quel suo pensar fanciullesco che siano immagini specchiate dal lume perlaceo quelli che gli appaiono davanti, crede di viver tuttora con gli occhi opposti alla fonte della luce, nel mondo, per speculum in aenigmate, davanti a specchi della realtà, Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso ti stea un lume,34

e subisce l’illusione delle cose, in senso opposto, ma con inclinazione non diversa da quella di Narciso: squisita la sintassi dei moti e dei desideri, in così 238

raffinato psicologismo; e se vorremo fare omaggio a nomi moderni della virtù di questa scoperta poetica, ricorderemo Henry James e Marcel Proust. Beatrice lo riconduce sui suoi passi, nella direzione giusta, con un volenteroso atto di guida: dopo avere un attimo scherzato con le rime equivoche di vòto e vóto, suggestive in tal giuoco di «rari e densi» e del corpo «grasso e magro» ripreso dal primo canto, atto più volenteroso e fermo: Però parla con esse e odi e credi ché la verace luce che li appaga da sé non lascia lor torcer li piedi…35

dopo il quale non gli resta che «drizzarsi» all’«ombra che parea più vaga».

Piccarda L’ombra di Piccarda: non riconosciuta, dapprima, e tanto più desiderosa di attrarlo a sé; più bella nella nuova luce, pur impallidita, di Paradiso: non più legata alla terra con quella corpulenza violenta di ricordo che si traduceva, altrove, in masse grevi e ferme, costrette nel limite della loro stessa forza, l’Inferno, né distaccata con un atto reciso, di chi guarda lontana la sua vita trascorsa, in un dittico di luce dall’ombra, ma spirante, per entro la terra, al cielo, con una spiritual forza che la pervade. Il termine della sua storia non è quella allusa da Beatrice per iniziare il discorso, qui rilegate per manco di voto36

ma la beatitudine: beata d’esser nel primo cielo, beata della sua stessa tardità, beata del volto terrestre che l’accompagna, della lentezza di quelle postille umane, del peso delle operazioni maligne che ha disperso: beata sono in la spera più tarda.37

La sua vita, come la sua volontà, trascolora: come il suo volto. Ha già detto, presentandosi, cose che Dante non comprende: «il piacer de lo Spirito Santo».38 Eco di Francesca: «mi prese del costui piacer sì forte»; ma se quella volontà perversa s’era appagata al suo bene terreno, qui la volontà trasvola, raggiando palesa l’amor divino, «arder parea d’amor nel primo foco»,39 arde in Dio Spirito: e nell’intermezzo gnomico che Dante da lei vuole, svela il mistero del quietarsi in Dio di tutte le voglie. L’episodio si accosta a quello di Casella: ed è una donna del Dolce Stil Nuovo, codesta, pur nella stretta del suo dramma lontano; ma suo tema non è una composta gentilezza di forme, evocato dal tema della perla color di perle ha quasi, in forma quale convene a donna aver

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come il canone della bellezza nella canzone della lode; canone e rito e preghiera del suo esistere è l’accordo profondo con la volontà divina: E ’n la sua volontade è nostra pace,40

un discendere nel miro gurge; ella è quel mare,41

un comporsi, trascolorando, entro una ferma luce: Chiaro mi fu allor come ogni dove in cielo è Paradiso.42

Come il termine della conoscenza è la concretezza, il poeta non propone di svanire nell’ondina del misticismo, di annullarsi in un panteistico nirvana. Dopo il canto gnomico della pace uniforme, dell’essere (ma ben sé!) quale Dio vuole, il discorso prende un andamento mimico, «così fec’io con atto e con parola», da parte dell’interlocutore che chiede all’anima un rendiconto cronachistico «qual fu la tela / onde non trasse infino al co la spola».43 Ancora l’inchiesta a Francesca, «a conoscer la prima radice del nostro amor»? Ma la risposta di Piccarda immette nella sua storia (anche la sua è d’amore) il senso del moto: non s’arresta, guarda più alto in cielo alla sua patrona, Santa Chiara, fugge dal mondo, si chiude nell’abito monacale, si traccia un cammino. Un turbine di violenza, perdonato, la strappa dalla dolce chiostra, ma nel segreto di Dio il silenzio dell’attesa adorante si ricompone Iddio si sa qual poi mia vita fusi.44

Costanza Anche alla storia del mondo Piccarda, un tempo suor Costanza, affida il senso del moto: e questo precipita il mondo in una vertigine di scoscendimenti: Quest’è la luce della gran Costanza che del secondo vento di Soave generò il terzo e l’ultima possanza.45

Lei una luce irraggia immota, entro cui s’avvolse: non fu dal vel del cor giammai disciolta.46

Ma ad orchestrare in crescendo la ripresa del viaggio, Beatrice riprende e trasfigura il gran tema della luce: quella folgorò ne lo mio sguardo.47

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Libero arbitrio Il problema della volontà difettiva esige, in sede teoretica, d’essere svolto e risolto: richiede il teorema della volontà assoluta e la dimostrazione del libero arbitrio. Ma nella commedia dell’uomo, e in volo verso il divino, la ricerca diventa episodio: e in quella zona lunare del cielo, svanite nella luce diffusa l’anime che hanno accettato un luogo, per muovergli incontro, chiuso il loro transito empireo nel folgorar di Beatrice, l’indagine filosofica accetta di conformarsi in una struttura mimica: commedia appunto dell’uomo che si cerca. L’episodio s’annoda in tre tempi: la favola dell’uomo deterministicamente inteso e nella sua fralezza mortale diviso; l’inno a Beatrice; l’accorrere delle anime operose intorno al volenteroso pellegrino. Leggi il primo episodio, dimesso e comico; e rammenterai, poi, che una luce di quel riso lumeggerà affettuosamente la scena della peschiera e il ritratto di Romeo. Era un paragrafo illustre del problematismo medievale l’esempio dell’affamato indeciso fra due cibi: Famelicus si habet cibum aequaliter appetibilem in diversis partibus et secundum aequalem distantiam, non magis movetur ad unum quam ad alterum;48 e di lì a poco se ne farà apologo, e favola e luogo comune per beffare, nell’asino morto di fame, Buridano e il suo determinismo. Dante par che preveda (se non pur raccoglie) la conclusione favolistica dell’ipotesi teoretica che Tommaso esprime ancora in tutta serietà: e ride del «liber’uomo» (nota la posizione attributiva, col suo tono disinvolto) che muore di fame prima di recarsi ai denti il cibo; poi sorride dell’agnello fra lupi e del cane fra i daini, svagato; fioritura d’immagini dalla favola bestiaria, non necessarie, sul motivo magico dell’incantesimo che immobilizza la creatura. Ma un serissimo tema innalza di contro l’apologo: quello della volontà deliberante: e se l’uno appiglia a sé, deridendosi nella sua querula incertezza, sorpreso del folgorare, l’altro riferisce a Beatrice, paragonata al profeta Daniele; e se l’uno abbandona, salvo riecheggiarlo più tardi, l’altro innalza, dalle immagini della luce trasferendosi alle immagini del fuoco: verità operosa è il simbolo del fuoco caldo d’amore attivo: ché volontà, se non vuol, non s’ammorza ma fa come natura face in foco, se mille volte violenza il torza,49

e l’immagine è così fervida nella fantasia del poeta, che attrae, quasi contraddicendoli, gli esempi stessi eroici che seguono: volere intero, come tenne Lorenzo in su la grada, e fece Muzio a la sua man severo…50

due esempi, se osservi, di volontà umana, che, indomabile come il fuoco, doma appunto il fuoco. La storia contenuta nel dittico dei canti IV e V va da quello scherzo a questa prosopopea: l’ultima storia, dico, quella che il poeta tesse d’immagini, oltre il pretesto della teoresi. 241

Beatrice accorre all’opera di liberazione, profetando; e se Dante per quel che ha visto nel cielo della Luna, indugia nell’errore, o nella minor verità, dell’ipotesi di Platone, nel Timeo, che le anime tornino alle loro stelle, essa, dopo la sosta ancora una volta crepuscolare dell’idealismo platonico, innalza la teofania degli Angeli e dei Santi, sino al vertice della Vergine: il trionfo paradisiaco di quelle stesse vergini difettive che hanno incontrato: De’ Serafin colui che più s’india, Moisé, Samuel, e quel Giovanni che prender vuoli, io dico, non Maria, non hanno in altro cielo i loro scanni che questi spirti.51

Intesa a liberar l’uomo dal vincolo del luogo, appare: e a interporre quasi una dichiarazione di provvisorietà a quante immagini e parole il poeta andrà tessendo, mentre per dir della gloria dell’uomo in Dio segue l’esempio della Scrittura e della Chiesa e parla per metafore. Per questo la Scrittura condescende a vostra facultate, e piedi e mano attribuisce a Dio, ed altro intende; e Santa Chiesa con aspetto umano Gabriel e Michel vi rappresenta, e l’altro che Tobia rifece sano.52

La virtù dell’arcangelo Raffaele soccorre alla cecità dell’uomo. Ma senso della raccomandazione di Beatrice è di evitar lo scacco della sosta, l’ipostasi delle stelle e degli iddii: Questo principio, male inteso, torse già tutto il mondo quasi: sì che Giove Mercurio e Marte a nominar trascorse.53

E poiché il canto è di moto se alla teofania dei Santi risponde la teofania degli Arcangeli, le due schiere intorno a Dio, l’immagine trascorre con violenza, dall’una all’altra parola di moto: «tornarsi, pòntano, s’india, ha salita, condescende, riede»: dove s’appoggiano gli accenti del discorso. La seconda fase della lezione stabiliva un’antitesi, e dopo averla drammaticamente e dialetticamente composta nell’immagine del fuoco, e averla ripercorsa e riproposta nella tragedia di Almeone, che, di ciò pregato dal padre suo, la propria madre spense, per non perder pietà si fé spietato,54

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l’osserva pacatamente nella blanda luce di un compromesso: nel quale è tuttavia da notare che se l’intelligenza, Beatrice, condiscende alla volontà relativa che si rassegna ad evitare un male peggiore, lo spirito attivamente volto al suo Bene, Piccarda, benché in sé difettivo, intende la volontà assoluta. E la metà è quella.

Inno a Beatrice Qui scocca l’inno a Beatrice: preludia in termini arcaici «O amanza del primo amante, o diva»,

e ricomponendo la trama sui temi consueti del moto e della fiamma, il cui parlar m’inonda e scalda sì, che più e più m’avviva,

plasma una superba immagine dell’intelletto illuminato da Dio: Io veggio ben che già mai non si sazia nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra di fuor dal qual nessun vero si spazia. Posasi in esso come fera in lustra tosto che giunto l’ha, e giugner puollo, se non, ciascun disio sarebbe frustra. Nasce per quello, a guisa di rampollo, a pié del vero il dubbio; ed è natura ch’al sommo pinge noi di collo in collo.55

Il compromesso fra le due volontà era dunque una pausa: l’inno a Beatrice e il vigor nuovo del viaggio alla conoscenza, questo arduo itinerario di una scuola sapienziale, aprono una prospettiva infinita all’ulteriore cammino. La dialettica del conoscere è che la Natura, di balzo in balzo, fa nascere il dubbio e sospinge verso l’alto: e la verità rivelata appaga il desiderio di conoscenza; come all’atto intellettivo non può non corrispondere l’atto volitivo, la terza fase, gnomica, dell’episodio batte e ribatte sulla dignità dell’arbitrio umano, sulla necessità di tener patto, e sulla immutabile materia di che il patto si sostanzia. Dono supremo fatto da Dio all’uomo è il libero arbitrio: «Lo maggior don che Dio per sua larghezza fesse creando, ed a la sua bontate più conformato e quel ch’e’ più apprezza, fu de la volontà la libertate».56

Nel patto che intercorre fra gli uomini e Dio la vittima sacrificata è la libertà stessa: nulla può compensarla, che la valga, benché tuttavia la materia dell’of243

ferta possa, con l’autorità della Chiesa e con la sua sapienza, con «la volta / e de la chiave bianca e de la gialla» del «Pastor de la Chiesa» esser mutata: purché l’antica offerta stia alla nuova come il quattro nel sei. Alla libertà maggiore dell’arbitrio risponde la libertà minore della scelta mutabile, pur nella cerchia della Chiesa. Ma affermata tanta latitudine e riconsegnata alla Chiesa ogni ampiezza di giurisdizione, la parentesi di Dante si volge ad una prassi severa: che il dono della prima libertà non sia contraddetto dalla stoltezza della premessa: come il sacrificio della figlia di Jefte, che prima uscì danzando incontro al padre vittorioso; come il sacrificio d’Ifigenia che pianse […] il suo bel volto57

(è riassunto di un mito affidato all’intensità di un sol gesto, come lo sguardo di Piramo moribondo al nome di Tisbe).

Approdo al cielo di Mercurio Un improvviso silenzio: un tramutar del sembiante. Velocissimamente approdano al secondo cielo di Mercurio. Trionfo della vita attiva, e mediazione della gloria terrena verso la gloria celeste: eccellente premessa al trono secondo del trionfo eternale era il canto del libero arbitrio. Luce dentro luce era il tema dell’offerta traslata e della volontà relativa nella volontà assoluta e della gloria dei cieli dentro il cielo Empireo: a definir con un’immagine quella suggestione di metafore, ecco i lumi del cielo di Mercurio: la spera che si vela a’ mortai con altrui raggi,58

che si nasconde nell’alone della luce solare, come la luce della gloria terrena nella luce della gloria paradisiaca; e come il pianeta sfolgora della letizia di Beatrice, così splendono in sé chiuse le anime intorno a chi crescerà li nostri amori,59

accorrendo in più di mille splendori, parlando in ciascuno la voce di tutti. Un’ennesima variazione sul tema della luce: e un’anima, Giustiniano, intona l’inno della gloria del mondo.

1

Pd I, 1-2. Due saggi recenti guidano meglio a questa situazione esistenziale proposta alla lettura del Paradiso (ed altrove è il catalogo delle diverse esperienze): l’uno del compianto U. COSMO, 2

244

L’ultima ascesa. Introduzione alla lettura del «Paradiso», Bari 1936: dove l’analisi psicologica rarefà il dato biografico e intende la vita diventar poesia; l’altro per tutt’altra strada, ed anziché il processo caro allo storicismo, osservando il metodo della lettura testuale, e agli accadimenti, sia pur dello spirito, preferendo quegli altri fatti anche più decisivi ed intrinseci, che sono le idee (ma non quanto le parole), e indugiando con provveduta pazienza a sgombrare il campo dalle dottrine allotrie, giunge a indicare la chiave di un tono di poesia, pur quando si lascia ispirare più da situazioni dottrinali che dalla concreta realtà-verità della forma: «Se si volesse racchiudere in una formula provvisoria, didascalicamente orientativa, il contenuto poetico del Paradiso, si dovrebbe parlare di epos della vita interiore, di poesia della vita della grazia, di poesia dell’esperienza mistica, di lirica dell’adorazione» (G. GETTO, Aspetti della poesia di D., Firenze 1947, p. 125). E tutto il saggio, Poesia e teologia nel «Paradiso» di D., sottolinea quel «provvisorio»; ma la condizione illustrata è, come ha da essere, irremovibile; necessaria al lettore come era al poeta. 3 Qui si tocca il capitolo del realismo dei mistici, più volte alluso storicizzando la cultura di Dante, e nella letteratura predantesca esemplato in Iacopone; ma a dirlo con le parole d’uno che riassume la corrente dello spiritualismo, uscendo ormai dalla concretezza fuor dalle tentazioni decadentiste ed esoteriche, l’esperienza fondamentale di «chi di lassù discende» è il riacquisto del mondo: «Ed ecco l’universo intero aprire tutti i suoi tesori, umili e grandi, ai ridiscesi dalle vette della contemplazione al piano dell’esperienza umana. È acqua nelle salienti vene, nei torrenti impetuosi, nelle temporalesche piogge di Agostino, negli annaffiamenti discreti per giardini di silenzio, in Teresa; nei limpidi getti della fontana serena di Francesco di Sales; nel mare sconfinato di Angelo Silesio. È fuoco nelle fiammeggianti riviere davidiche e dantesche» (G. MANACORDA, Delle cose supreme, vol. I, Firenze 1950, p. 111). 4 Pd I, 7-9. 5 Diremo dunque, invece che «perfetta letizia», «perfetta latria»? Occorrerebbe ritornare al tema della meditazione trinitaria e al mistero unitivo del poeta che scrive sotto la «dittatura» di Amore; e superare frattanto, mentre si mira all’endiadi di Brémond, «poesiapreghiera», troppi divieti moralistici: «L’invocazione all’amante di Dafne è da scusarsi in quanto rammenta almeno una vergine pura, che dalla sua ghirlanda fa sorgere a ogni gloria di potenza e d’ingegno immortali corone» (TOMMASEO, III, 17). Diversamente cauto il PIETROBONO, Commento, Torino 1931, Paradiso, p. 2: «Sentiva che esiste davvero una virtù divina che, invadendoti il petto, ti mette nel cuore e fa sonar sulle labbra parole non più udite, le quali dipingono e cantano, e questa invocava col nome di Apollo, dicendo buono, ossia eccellente. Al resto o non pensava o annetteva il valore che può meritare una bella menzogna». Ma «divina virtù» è attributo di Apollo: e questa considerazione dovrebbe guardarci dal pericolo dell’emanatismo; mentre alla fase del Convivio potrebbe appartenere il ripiego della «bella menzogna». Ricollegare, come è necessario, al francescanesimo questo inno di gioia del poeta che sente in sé l’opera divina della creazione, può ristabilire la discussione del passo tanto ammirato e bistrattato nei termini esatti della filologia (che a questo punto deve render conto e di teologia e di storia). 6 Pd I, 22-4. 7 Pd I, 19-21. 8 Pd I, 29. 9 Pd I, 31-33. 10 Pd I, 48. 11 Pd I, 51. 12 Pd I, 61-63. Meglio d’altri, il Tommaseo s’accorge che l’accensione poetica definisce dopo di sé una figura cosmografica, e intitola Altra macchina del poema la postilla del canto I del Paradiso: «Beatrice dalla cima del monte altissimo riguarda al sole oriente; e lì riguarda anche il Poeta; e vede quasi un giorno raddoppiato e un sole nuovo aggiungersi al sole; e rivolge gli occhi alla donna, e in quel mirarla si sente trasumanato. Allora quella luce di sole soprafiammante gli si dilata tutt’intorno come acqua di lago, e per quelle correnti di luce egli vola, e parla e ascolta volando. E qui un’altra macchina del Poema, giacché quel maraviglioso che nella epopea pagana è in sua meschinità dal principio alla fine sempre il medesimo, e si

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vien ripetendo in atti o uguali o talvolta l’uno dall’altro minori, tanto quanto più si procede innanzi nel canto, quel maraviglioso nel Poema di Dante si viene nella ampiezza e altezza sua variando e rappresentandosi in aspetti nuovi, sicché par tutt’altra cosa, e nell’intimo è uno». Macchina sta per invenzione e per prodigio: sta anche, se riflettiamo a questi ultimi decenni di studi danteschi, per «struttura»; ed ecco indicato, come più suggestivamente non si potrebbe, il rapporto fra poesia come fantasia e struttura come sintassi dei «mirabilia». 13 Pd I, 67-69. 14 Pd I, 70-72. «Autorizzato dal fatto» diciamo nel testo: dal mito, dunque, e dall’esperienza di chi, per dono della Grazia, sia per farne la prova. La suggestione più immediata del testo è appunto di dare peso e concretezza di cose alla favola e alla promessa, e realtà al prodigio. Con acutissimo senso d’opportunità esegetica, che va tanto oltre la consuetudine erudita dei riscontri, il Torraca (Commento, VIII ed. riveduta e corretta, Soc. Ed. «Dante Alighieri», 1933, p. 634) cita dal Fresca rosa di Guido Cavalcanti il verso: «E chi paria pensare oltre natura?». 15 Pd I, 75. 16 Pd I, 87, 95, 100, 101-102. 17 Pd I, 92-93. 18 Pd I, 112-113. 19 Pd I, 137-138; 141. 20 Pd II, 1. Eppure la musica del verso contraddice la elezione aristocratica del proemio; ma c’è il «forse» ad attenuarla; e c’è che l’eroicità dantesca non è mai né esoterica né esclusivista. Del resto questo è un viaggio di scoperta e la larga ploia dello Spirito Santo non piove solo sulla «compagna picciola» che non aveva abbandonato Ulisse. Bene intitolò dunque Ettore Janni, In piccioletta barca, il «Libro della prima conoscenza di Dante», Milano 1921: un libro schietto e affettuoso, di là dalla dottrina e dai lunghi ripensamenti: un bel libro. 21 Pd II, 31-36. 22 Pd II, 49-51. 23 Pd II, 56-57. 24 Pd II, 64-66; 115. 25 Pd II, 130. 26 Pd II, 142-144. 27 Pd II, 106-111. 28 Pd II, 37-42. 29 Pd II, 112-114. 30 Pd II, 127-129. 31 Pd III, 1. 32 Pd III, 10-15. 33 Pd III, 121-123. 34 Pd II, 100-101. 35 Pd III, 31-33. 36 Pd III, 30. 37 Pd III, 51. 38 Pd III, 53. 39 Pd III, 69. 40 Pd III, 85. 41 Pd III, 86. 42 Pd III, 88-89. 43 Pd III, 94-96. 44 Pd III, 108. 45 Pd III, 118-120. 46 Pd III, 117. 47 Pd III, 128. 48 Per dirlo secondo la formula illustre di Tommaso d’Aquino, ben s’intende: Sum. Theol. p. I, II, qu. XIII, art. 6; che anch’esso consente di aggiungere l’apologo alla tesi: «Si aliqua duo sunt penitus aequalia, non magis movetur homo ad unum quam ad aliud».

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Pd IV, 76-78. Pd IV, 82-84. 51 Pd IV, 28-32. 52 Pd IV, 43-48. 53 Pd IV, 61-63. 54 Pd IV, 103-5. 55 Pd IV, 124-132. «I quali versi c’insegnano come il dubbio buono e fecondo, quello che viene da istinto di natura, e che serve all’ascensione dell’anima umana, è il dubbio che nasce a’ piedi del vero, ed è germe di quello; c’insegnano che se l’uom dubita, il genere umano crede; se l’uom esita, l’umanità procede; se alcuni uomini si dividono tra sé, la famiglia umana si aduna in se stessa più e più intimamente»: TOMMASEO, III, 59. 56 Pd V, 19-22. E leggeremo a suo luogo il passo del Monarchia che lo prolunga. Qui non giova ai commentatori cercare minuti riscontri scolastici e tomistici: nemmeno l’inno di grazie di Tommaso a Dio che all’uomo caduto pur concesse di essere libero: tutta la scolastica, tutto il tomismo, l’ideal summa del pensiero cattolico sta nello sfondo del prologo al «processo santo» che Beatrice dichiara. 57 Pd V, 70. 58 Pd V, 128-129. 59 Pd V, 105. 50

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Canto della gloria del mondo

Nel modo che il seguente canto canta.1

Fiducia e custodia La corona che scende sulla cadenza del canto quinto attrae al suo accento solenne il preludio del canto sesto e lo esalta: si sa che Dante ama accentuare le posizioni forti al principio e alla fine del verso e della cadenza e del canto; e se qui s’innalza per dar gloria epica ai gesta Dei per Romanos, ciò è perché l’argomento gli è congeniale, non è già un procedimento retorico, l’esecuzione di una raccomandazione astratta. Ma altro rivela, e più nell’intimo, la notizia stilistica: la prima parte del canto di Giustiniano, che è la sua autobiografia, sino alla pace dopo la gesta di Belisario, dice di un’altezza e di ampiezza, col senso di una custodia fida, di una storia difesa. Prima il volo dell’aquila a ritroso del cielo da Occidente a Oriente, e Costantino contro Enea; poi immagini come «stremo d’Europa», «vicino ai monti», «ombra»; e così, nel finire del tratto, prima l’ispirazione all’«alto» lavoro delle leggi e le guerre, poi il segno di pace e il raccogliersi in quiete: «che segno fu ch’io dovessi posarmi». Il canto delle gesta dell’Aquila non dice dunque, cominciando, l’empito di una volontà stragrande, non annunzia la solitudine eroica di uno spazio colmo solo del destino dell’uno: contraddice appunto la posa statuaria di Farinata, e suggella il fallimento dell’intervenir personalmente nella vicenda della politica; per contro, racconta di una fiduciosa attesa e di una umiltà consolata. Tale suggestione si proroga fin nel centro, e la gesta di Cesare, il «baiulo» del sacrosanto segno, dice di un’opera indefessa, di un’attività vertiginosa, ma senza spicco d’individuazione, fatti in cui la storia si nasconde, fra due tratti diversi come «Cesare armato con gli occhi grifagni» del Limbo e il «regina» della settima cornice. Il procedimento svela o illumina l’animo di Dante: più umile, e di tanto più alto; e la politica, di storia d’uomo diventa provvidenza dello Spirito Santo: per voler del primo amor ch’i’ sento.

L’Aquila sopra Giustiniano e Romeo L’emblema dell’Aquila è dunque ripreso nel senso e nell’immagine che ebbe nel sogno della Valletta dei Principi: altissima, con penne d’oro, a picco sul dormiente. E il canto si compone come in un rilievo di scultura simbolica, nella cor249

nice di un riquadro dove l’aquila imperiale allarga l’ali ad abbracciare tutto lo spazio, mentre sotto di lei ai due lati si raccolgono, minuscoli, Giustiniano imperatore e Dante in figura di Romeo. Della novità della figurazione la prima lettura non si rende conto; del lettore moderno, almeno, invaso dalle preoccupazioni politiche; ma attendendovi, anche la politica esce illuminata dal linguaggio delle immagini: metapolitica, come ora vedremo; e gli uomini che fanno la storia sono degradati (ma in realtà innalzati) ad esecutori di un disegno, indicato dall’alto; e la storia è opera fabbrile ma ispirata: umilmente obbedita. Di Giustiniano, tanto solenne nel fasto aulico del musaico ravennate, scompare ogni individuazione: sia che resti invincibile nella memoria la figura dei pesci accorrenti nella peschiera (qui t’avvedi che il pesce è una figura eucaristica: ma anche, nella simbologia bestiaria, il contrario dell’aquila), sia che il poeta, senza bene avvedersene, attenda la catarsi della sventura e la mortificazione che innalza, all’altro capo del canto: Romeo. Nelle mani di Giustiniano perviene l’impero «di mano in mano» come un peso trasmesso in una catena d’operai. E come Adriano V diceva «scias quod ego fui successor Petri» dice «Cesare fui»: resta eterno il nome della persona, non la dignità dell’investitura. Anche il cammino della Fede è faticoso: di monofisita ch’era, papa Agapito lo riconduce al dualismo dell’ortodossia cattolica: una fedeltà ossequente, un camminar sull’orme del pastore: «tosto che con la Chiesa mossi i piedi».2 Ricompensato, del suo credere, in cielo, perché la verità dell’asserto di Agapito gli appare ora luminosamente provata. Ricompensato in terra, poiché, tosto che è tornato alla Fede, Dio gl’ispira l’opra delle Leggi: «d’entro le leggi trassi il troppo e il vano»;3 e mentre vi attende, affida a Belisario la spada vittoriosa. Quindi, la pace. Ritratto in linee dimesse, come di quegli offeritori regali che nei quadri sacri si rimpiccioliscono accanto all’offerta. L’epopea scatta dopo l’introduzione biografica e il preludio politico: di su un tema virgiliano: E cominciò da l’ora che Pallante morì per darli regno4

(così, nel primo dell’Inferno, il tema virgiliano dell’«umile Italia»), il trionfo (perché nell’immaginazione del poeta la gesta si compone in processione trionfale: rammenta, a paragone di questo trionfo dell’Impero, quello della Chiesa nel Paradiso Terrestre) riassume la vicenda storica in serie di figure, più o meno spaziate, e introdotte dalla didascalia più epigrafica: «vedi» e «sai»; e ciascuna figura è allusa secondo uno stile figurativo che dall’agiografia sta passando ad una iconografia storica che qui si propone altrettanto rigorosa, con un tratto che la designa: il mal delle Sabine, il dolor di Lucrezia, Quinzio «che dal cirro / negletto fu nomato»5 e i giovinetti trionfali Scipione e Pompeo. Nel mezzo del canto la gesta di Cesare spazia per tutto il Mediterraneo: era un’indicazione che poteva trovare in Lucano, erede, nell’età argentea, di quella mitografia di cui Virgilio era stato il poeta e Ovidio l’agiografo; ma qui obbedisce proprio a una necessità di composizione, insegue e coglie un’intuizione spaziale, vede, vola, batte, folgora, riecheggia come suono di tromba: quel distendersi dell’ali 250

dell’aquila nella figura araldica che riprenderà poi nel cielo di Giove diventa animazione collettiva e gesto storico: quasi il moto contrario a quel riassunto delle parole degli spiriti giudicanti nel sesto cielo.6 Un passaggio un po’ distratto è l’impero di Augusto, forse assorbito dal troppo vivo ricordo del «latrato» di Bruto e di Cassio che segue il pianto di Cleopatra e la morte nera. L’ultima gesta è ormai apertamente sacra: poscia con Tito a far vendetta corse de la vendetta del peccato antico. E quando il dente longobardo morse la Santa Chiesa, sotto le sue ali Carlo Magno, vincendo, la soccorse.7

E segue il passaggio dal tono liturgico al tono apologetico: così, nel trionfo della Chiesa, dopo l’intermezzo del mistero, la storia; ora, dopo la storia, la metapolitica.

Metapolitica Ci serviamo di questa formula per appuntare qui, volonterosamente esposto dal poeta anche ad un’attenzione distratta, il superamento delle preoccupazioni politiche. Voglio dire che avvia ora il capitolo conclusivo delle sue meditazioni sulla comunità cristiana, retta dal segno dell’Aquila, che traduca in visibile simbolo e insegna l’operosa volontà della Provvidenza divina nel mondo: è passato oltre l’istanza del realismo politico figurativo nell’Inferno, e moralisticamente diagnosticato; è passato oltre il separatismo delle due potestà figurate nel Purgatorio: per la terza cantica serba la terza fase di un processo che (si badi bene!) non è storico, ma dialettico: processo di una ricerca intellettuale, intendo, non fase di una personale esperienza: le ubbie di una cronaca del pensiero (come se per chi pensa contasse la misura esterna del tempo!) sono troppo remote dall’intelligenza dantesca. Nell’Inferno il poeta è al di qua delle parti, «Giusti son due, e non vi sono intesi» e: «lungi fia dal becco l’erba».8 Nel Purgatorio è neutrale fra le parti: «Ahi gente che dovresti esser devota» e «Soleva Roma, che ’l buon mondo feo, / due soli aver».9 Nel Paradiso si trasferisce al di là, in una sfera metafisica dove la volontà di Dio si manifesta direttamente, e le operazioni concordi del mondo politico verso la provvidenza di Dio si affisano nello stemma divino, l’Aquila: Faccian li Ghibellin, faccian lor arte sott’altro segno…10

In questa finale proposta e nell’emblema tanto suggestivamente raffigurato, si conclude il suo pensiero politico: del quale saranno deduzioni, emblematiche appunto, i canti del cielo di Giove; mentre dal cielo Empireo ritroverà tutte le sue anteriori posizioni politiche, per così dire ipostatizzate in una sfera extratemporale. 251

Ma la rivelazione della poesia va oltre: e il canto di Romeo persona umile e peregrina11

rivela l’istanza dell’individuo, al di là della politica e della storia. È la terza, dopo Provenzan Salvani e dopo Marco Lombardo, delle figure che a se medesimo presta: per il cittadino di parte, la prima; per l’uomo di corte la seconda; ma questa è per l’esule profugo, per il «giusto» che rende dodici per dieci, per il perseguitato, per il mendico: E se ’l mondo sapesse il cor ch’ elli ebbe mendicando sua vita a frusto a frusto…12

Della gloria regale il pellegrino altri incorona: che circonda di più fasto le più alte cime. Il mondo lo loda, anche quando lo scompensa. Ma la sua gloria più vera è un segreto di sofferenza e d’angoscia. La prova di Provenzan Salvani era fatta al cospetto del mondo: «ogni vergogna deposta». E al cospetto dei vecchi custodi delle virtù antiche si sdegnava Marco Lombardo. Ma ora nessuno sa di quel gran cuore; il mondo conosce la giustizia del giusto e la pietà del mendico: ignora che più grande della gloria del mondo, più grande del sacrosanto segno è il gran cuore, dentro la squallida persona. Al principio del canto l’imperatore romano discende nel covo dell’aquila. Alla fine del canto s’innalza Romeo, più alto del grande imperatore che lo esalta.

«D’un atto uscir cose diverse» Gioverà alla lettura di questi canti l’ipotesi del Mandonnet,13 di una contraddetta vocazione sacerdotale di Dante? Della sua sostanza cronistica i biografi debbono sorridere, e squadernare il documento di quelle nozze puerili: troppo immature e troppo esplicite. E se il cielo di Mercurio (pur senza tener dietro alla esegesi amplificativa del Natali che di quell’«ecco chi crescerà li nostri amori» degli spiriti attivi vuol fare un documento autobiografico)14 allude a una esperienza che fu nel poeta instante; se il cielo di Venere allude a un influsso troppe volte dichiarato: non è necessario che il cielo della Luna significhi che Dante mancasse a voti sacerdotali. Del resto, chi non vi manca? Il giusto stesso, nell’atto del peccare sette volte ogni giorno. E ogni cristiano è sacerdote: che se stesso consacra, ed offre in sacrificio il corpo e il sangue di Cristo. E la vocazione sacerdotale di Dante è troppo chiara, se non è bastata, a cancellarla, l’ipotesi di Carducci: Dante, etrusco pontefice redivivo…

Bel gesto, dopo averlo rimpicciolito in una rissa di parte, in dispetto del Cristianesimo, farne un collega di Aronta. Ma il preambolo valga a sottolineare 252

il fatto che proprio seguendo l’indicazione di Piccarda, in questi canti dei primi tre cieli, occorre continuamente che il lettore si rivolga al senso del salire: ed eviti di arretrare e discendere, volgendosi a considerare le cose e le persone in un giudizio statico. Nel primo cielo ogni difetto è compensato dall’adeguarsi dell’intelletto alla volontà di Dio. Nel secondo cielo ogni imperfezione di gloria terrena raggia, al di là, nella gloria di Dio. Nel terzo cielo l’amore delle creature si trasfigurerà in amor divino. Tale la storia saliente della scalea di Paradiso. E a conclusione dei primi canti, e a prefazione del trittico del cielo di Venere, questo canto settimo è ben altro che uno squarcio dottrinale: chiude in sé tre temi capitali: delle contraddizioni amorosamente risolte; delle altezze ricuperate; della resurrezione della carne. Processo metafisico della trasvalutazione: Giustiniano intona il canto di lode: Osanna Sanctus Deus sabaoth superillustrans claritate tua felices ignes horum malacoth,15

variazione sul tema della praefatio liturgica, se occorresse sottolineare il carattere introduttivo del canto; variazione sul tema della luce amorosa, «i fuochi beati di questi regni», se occorre rilegarlo alla tematica più assidua del Paradiso; ma nei moduli delle variazioni liturgiche, o dirette o attratte dalla rima, sabaoth e (con grafia errata) malacoth, il suo accento cade su superillustrans: Dio illumina dall’alto con la sua chiarezza, luce su luce, la luminosa beatitudine di questi spiriti che una felicità, sia pure impallidita, conobbero in vita, operosi. Chiarezza, ho detto: e valga a caratterizzare anche questa lezione di Beatrice: ché chiarezza per Dante non è quella che per gli addottrinati sufficienti, rispondenza di moduli, di schemi, di frasi fatte, da un discorso all’altro; ma illuminazione interiore che si diffonde sulle cose. E al superillustrans, come dicesse «grazia acquista nel ciel che sì li avanza», risponde l’anima di Giustiniano, sopra la qual doppio lume s’addua.16

Fuga delle anime luminose nello spazio lucente: e dopo l’intermezzo del dubbio reverente e assonnato di Dante, le raggianti parole di Beatrice, intorno al dramma del Peccato e della Redenzione. Come quel peccato diventasse gioia, felix culpa, come l’ignominia della Croce gloria, è mistero cristiano che la parola della Chiesa assiduamente ripete, meditando celebra: ma nella meditazione dossologica di Beatrice assisti a una forza amorosa che investe e trasfigura le antitesi tragiche dell’Albero e della Croce, della superbia di Adamo e dell’umiltà di Cristo: Però d’un atto uscir cose diverse, ch’a Dio ed a’ Giudei piacque una morte: per lei tremò la terra e ’l ciel s’aperse.17

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La gloria paradisiaca schiusa sul terrore del mondo, a epilogo d’una disanima avviata dalle parole di Giustiniano: vendetta della vendetta; giustizia divina sopra l’errore umano che, pure errando, adempie a un giusto disegno. Ma la seconda parte della lezione illumina un tratto più segreto ed oscuro: Questo decreto, frate, sta sepulto a li occhi di ciascuno il cui ingegno ne la fiamma d’amor non è adulto,18

e il dir di Beatrice acquista esempio e modo dalla bontà divina stessa: La divina bontà, che da sé sperne ogni livore, ardendo in sé, sfavilla, sì che dispiega le bellezze etterne,19

e il dramma dell’uomo caduto, anzi che celebrato penitenzialmente coi toni e nei modi del pietismo ascetico, è innalzato verso la gloria finale dallo slancio dell’Osanna intonato da Giustiniano. Questa l’illuminazione lirica; ma la tematica del canto è ancor più indicativa, appoggiata a una continua misura di altezze e di precipizi, congegnata e costruita tutta in senso verticale: «inferma giacque»; «scender piacque»; «dal suo fattore / s’era allungata»; «drizza il viso»; «sbandita»; «si torse»; «mente ristretta»; «solver»; «sepulto»; «piove / libero»; «soggiace»; «raggia»; Né tra l’ultima notte e ’l primo die;20

«di Paradiso remota»; «ficca mo l’occhio per entro l’abisso / de l’etterno consiglio»; Non potea l’uomo ne’ termini suoi mai sodisfar, per non potere ir giuso con umiltate obediendo poi, quanto disobediendo intese ir suso…21

e dietro lo slancio dell’ascesa anche il terzo tempo della lezione s’innalza: acqua, fuoco, aria, terra, tutto viene a corruzione, mentre nella loro durata divina gli angeli e i cieli raggiano in alto. Il dramma sarebbe di una separazione eterna: ed ecco l’uomo, intorno al quale s’era svolto il dramma della Caduta e del Riscatto, al centro di quella distanza, invasa dall’animazione dello Spirito Santo che lo innamora di Dio; raggiato dall’alto, il mondo degli animali e delle piante pur nell’immagine discende: ma l’uomo, innamorato di Dio, sale. L’anima d’ogne bruto e de le piante di complession potenziata tira lo raggio e ’l moto de le luci sante; ma vostra vita sanza mezzo spira

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la somma beninanza, e la innamora di sé sì che poi sempre la disira.22

Quando tocca i vertici del mistero, la lezione si raccoglie nel tono dichiarativo e dimesso. E quinci puoi argomentare ancora vostra resurrezion…23

ma il gesto di Beatrice ha indicato il senso eterno della dignità dell’uomo.

1

Pd V, 139. Pd VI, 22. 3 Pd VI, 12. 4 Pd VI, 35-36. 5 Pd VI, 46-47. 6 «Und wie Cäsars Gestalt so auch Cäsars Geschichte» dice il GUNDOLF, Caesar, Berlino 1924, ricollegando al ritratto dantesco quest’epopea; ma la sua lettura è così ricca ed accorta che non direi irrimediabilmente discordante da questa, che pur sottolinea, prima che il tema dell’Eroe il tema della Provvidenza, entro cui l’Eroe spazia e s’innalza. 7 Pd VI, 92-96. 8 If VI, 73; XV, 72. 9 Pg VI, 91; XVI, 106-107. 10 Pd VI, 103-104. 11 Pd VI, 135. 12 Pd VI, 140-141. 13 D. le théologien. Introduction à l’intelligence de la vie, des oeuvres et de l’art de D. Alighieri, Parigi 1935. 14 Leggo la notizia nel Commento del PORENA, al v. 105 del c. V: «Può alludere semplicemente al fatto imminente che uno spirito di più da amare accrescerà l’amore di tutti» (cfr. Pg XV, 73-75). Ma GIULIO NATALI (in “Rivista letteraria”, Udine, fasc. 3°) pensa che gli spiriti debbano riferirsi a quando Dante, dopo morto, sarà del loro gruppo perché anch’egli è stato attivo per desiderio di onore e di fama (cfr. Pg VI, 112-114). L’ipotesi ha del seducente; ma quando Dante scriveva questo episodio, si considerava ormai più uomo di pensiero e d’arte che uomo d’azione (p. 45). Per verità il Porena sottolinea volentieri il divario che egli afferma fra la struttura planetaria e la struttura empirea del Paradiso: quando Dante sarà morto, fatto cittadino del cielo, non farà parte di questo o di quel gruppo, disposti alla ragione di Dante vivo, che ha opportunità di un processo astrattivo, dove ai Beati basta l’intuizione; e, nella fattispecie, non si vede che Dante abbia mai rinunziato ad essere poeta e politico, giudice insomma, dalle canzoni della «rettitudine» alla missione celeste. 15 Pd VII, 1-3. 16 Pd VII, 6. 17 Pd VII, 46-48. 18 Pd VII, 58-60. 19 Pd VII, 64-66. 20 Pd VII, 28, 30, 31-32, 34, 37, 38, 52, 54, 58, 71, 74, 112. 21 Pd VI, 97-100. 22 Pd VII, 139-144. 23 Pd VII, 145-146. 2

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Trittico del cielo di Venere

Mito di Venere Il prologo del canto ottavo sogguarda, allontanandolo, il mito di Venere. D’altri cenni par si ricordi: non credo che splendesse tanto lume sotto le ciglia a Venere, trafitta…1

ma qui la poesia non investe nel gesto singolo tutto il mito: per questo, appunto, scade l’animazione complessiva. Lo schema unitario del cenno, reperibile in una lettura che rammenti il significato dei contrasti, è appunto in quell’allontanamento del nome, del mito, del rito di Venere. Solea creder lo mondo in suo periclo…2

dunque, una distanza grande, cui il poeta religiosamente vuole consentire: ma il suo proposito (e non soltanto gnomico, ma suggestivo, fattivo: da un processo dell’intelligenza vuole che il mondo esca trasfigurato) è di mostrare che la realtà umana tutta quanta può per miracolosa grazia di Dio ricongiungersi a Dio, ripercorrere in direzione contraria verso di lui il moto onde da lui discendendo s’era, con un atto superbo della volontà, staccata: cui la grazia riconcilia. Mentre questa direzione percorre l’intenzione dialettica del prologo, tanto più dichiaramente indicata quanto più sono frequenti i distacchi e deliberata la misura della lontananza, e poi riassunta dalla inavvertenza con cui entra nel cielo, e con una contrapposizione anche più decisa nella citazione della canzone che riassume il suo immanentismo amoroso, Voi che intendendo il terzo ciel movete, rompe e si frange l’attenzione poetica sui frammenti del nome del mito e del rito: e su quel circospetto menzionare l’episodio virgiliano di Didone. Ecco tutto quel che rimane del mito: dispersi frammenti, luminosa polvere. Ma la stella che ’l sol vagheggia or da coppa or da ciglio

(e la menzione astronomica, con la sua chiara evidenza e il riferimento al sole, similitudine di Dio, basta a mutare il senso del discorso) può e deve essere altrimenti intesa: non già come follia amorosa raggiata da una operazione perversa, chiusa la deità pagana nella sfera minore, l’epiciclo, inserta alla sfera del terzo 257

cielo; ma come un sogguardare al lume maggiore ora davanti ora dietro. Nella lezione dottrinale non manca di riprendere tale metafora.

L’amoroso abbandono Da costei prende principio: al canto o alla vita? O a entrambi? Certo l’animazione amorosa, che pervade i due canti ha una radice troppo intima perché il poeta non vi riconosca una forza germinale al suo vivere e una grazia al suo volere: e nel processo di conciliazione cosmica, che nel Paradiso persegue, le persone e i fatti del cielo di Venere dicono di un vittorioso abbandono, di un’obbedienza trionfale: ché il tema ne è il moto gaudioso, l’armonioso accordo: Noi ci volgiam coi Principi celesti d’un giro e d’un girare e d’una sete…3

il ceder ad una forza non più folle, come Ciprigna, ma lieta, che è da Dio e qui refulgo perché mi vinse il lume d’esta stella…4

il ritrovare lietamente a me medesma indulgo,5

di là dalla colpa l’integra immagine di una disposizione originalmente pura, che la grazia di Dio rivela nella sua intima e vera sostanza: Non però qui si pente, ma si ride, non de la colpa, che a mente non torna, ma del valor ch’ordinò e provide.6

Valore, ordine, provvidenza: tre momenti di un solo atto puro; e accanto a Cunizza la meretrice Raab scintilla come raggio di sole in acqua mera,7

che è immagine col suo richiamo alla purezza, anche più deliberata di quella che commenta il contraddetto moralismo che ciarlava intorno all’amica di Sordello. Ma qualunque agrezza polemica distruggerebbe, qui, la letizia dell’amoroso abbandono, la blandizie dell’indulgere a sé medesimi. Non che, tuttavia, Dante disconosca il momento moralistico: solo lo sottace, e nel suo salire a ritroso verso Dio Amore, e verso il puro gaudio dell’animazione amorosa del mondo, lascia che solo la memoria suggerisca la menzione del suo moralismo iniziale (e necessario): 258

la chiusa cupidigia di Paolo e Francesca, avvolti nel gorgo d’una passione e di una morte, s’apre alla gloria di Carlo Martello e di Cunizza: il puro raggiar di queste anime, dove la luce è sorriso, respinge lontano il gesticolar del mimo di Taide: forse la stessa immagine dell’acqua pura illuminata dal sole entra in consonanza e in contrasto col Bulicame; e se Dante, a specchio della Femmina Balba, «ne li occhi guercia» la rivestiva di ogni seduzione di bellezza, se la Meretrice, dal carro, gli rivolgeva uno sguardo cupido e vagante, queste anime, direttamente guardando in Dio, vedono finalmente se stesse nelle loro sembianze originali: «Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia»,8

e offrono all’incontro con le creature, una rispondenza piena, che non è di chi vive: «s’io m’intuassi, come tu t’immii».9

Nessuna condiscendenza edonistica, insomma, nemmeno in Carlo Martello, e tanto meno di edonismo mondano e cavalleresco; ma nessuna rinuncia, ché il canone della religiosità cattolica d’Italia era che Dio ridia a mille doppi ogni gioia anche terrestre: l’ascetismo soteriologico più severo è riacquisto di letizia.

Terrestrità trasfigurata Ci attenderemmo dal poeta un esercizio di fantasia trasfigurante? Una composizione di alta scuola, che ripeta il tema della Femmina Balba, raggiando in quelle fredde membra la calda luce della Grazia? Ma il canone della bellezza illuminata da un raggio divino non è certo trascurato da Piccarda, «non mi ti celerà l’esser più bella»,10 ad Eva, di cui si dice solo con un atto di estasi puerilmente commosso «quella che è tanto bella».11 E non dimenticare il volto umano di Beatrice, che di cielo in cielo è più bella: mentre rintracci la trama del suo discorso logico, il discorso poetico è più nel «santo aspetto». E dando la sua parte alle contingenze della struttura, che vieta, sino al cielo Empireo, di mirare il volto umano dell’anime ora chiuso nel suo fulgore, qui è da notare un trasferirsi dell’accensione fantastica da metafora a metafora: e se i volti sono, come ritualmente, celati nel velo di fiamma, «quasi animal di sua seta fasciato»,12 s’apre al desiderio umano il volto della terra. Il tema è più ricco in Carlo Martello, che guarda dall’alto il suo retaggio: Provenza, il Regno, Ungheria, Sicilia; corsi dai fiumi, Rodano «poi che è misto con Sorga», Tronto e Verde, alle foci, Danubio «poi che le ripe tedesche abbandona», ingemmato di città, Bari, Gaeta, Catona, percosso dal vento. Ma anche Cunizza vi fa cenno, raccogliendo il suo sguardo nella Marca Gioiosa «In quella parte de la terra prava italica che siede tra Rialto e le fontane di Brenta e di Piava…

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E ciò non pensa la turba presente che Tagliamento e Adice rinchiude…»13

Il moralismo di Marco Lombardo aveva considerato un più vasto tratto di paese, «ch’Adice e Po riga», senza un moto d’affetto terreno: «solea valore e cortesia trovarsi, / prima che Federico avesse briga» (così Guido del Duca nel designar la terra «tra ’l Po e ’l monte e la marina e ’l Reno»: era viva solo nel suo passato: «Le donne e i cavalier […]»). Ma qui l’immagine della terra già s’avviva: sia del caldo sguardo di Cunizza che la mira, sia delle fonti sonanti e della laguna a specchio; mentre si contrista la moltitudine, la «turba presente», chiusa nei fiumi, né per esser battuta ancor si pente,14

e destinata a colorar quelle molte acque di sangue. Nel canto di Folco di Marsiglia luce lo stesso tema; forse men vivo, per non esser arriso: il poeta provenzale dichiara la sua terra nei moduli di una indicazione artificiata, compiaciuta quasi di un giuoco di metafore geografiche, di trasposizioni spaziali. Eppure ancor vi noti, e sia pure ridotto ad intenzione sottomessa dal prevalere della tecnica retorica, il dilatarsi sensuoso dell’attenzione, a cercare una misura che abbracci vastità più grande. È lo stesso moto che lo conduce a gloriarsi a paragone delle eroine dei mitici tempi: Didone, Rodopea, Alcide; un Alcide infemminito dalla custodia del suo amoroso segreto: quando Iole nel core ebbe rinchiusa.15

È lo stesso moto che lo conduce a spaziare nelle memorie di tanta storia, dalla guerra santa di Iosuè alle crociate, sotto il segno del trionfo di Cristo, dove l’anima di Raab s’incammina.

Folchetto di Marsiglia Ma l’episodio di Folco denuncia meglio tra i tre il ritmo onde la fantasia del poeta si propaga. Ha lasciato sottinteso, come abbiam notato, ogni moralismo, contentandosi di rinfacciarlo, mentre canta l’acquisto spirituale del senso purificato: ché non gl’importa più, ormai, di detestare il peccato del senso, se è così gaudiosa la sua origine. E vi sostituisce un moralismo politico ritrasmesso in eco, non già direttamente aggredito: Carlo Martello depreca la decadenza angioina, per quella corta intelligenza umana che non sa discernere le attitudini da uomo ad uomo diverse; e Cunizza ha a sdegno la burbanza volgare così delle moltitudini come dei principi che infestano il bel paese ov’è nata, le sciocche ribellioni dei Padovani che tingeranno di sangue le paludi del Bacchiglione, la spocchia signoresca di Rizzardo da Camino, che sarà tiranno in Treviso:

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tal signoreggia e va con la testa alta, che già per lui carpir si fa la ragna16

(nella poetica del Paradiso le animazioni sono intensissime e parziali: è un retorico della concretezza, quanto più sale), il tradimento di Alessandro Novello, vescovo di Feltre, che consegna al vicario di re Roberto, Pino della Tosa, i fuorusciti ghibellini di Ferrara: delitto che non suol punire la prigione ecclesiastica della Malta, nell’isola Bisentina del lago di Bolsena. Così Carlo Martello come Cunizza da Romano (qui sta il senso del moralismo politico sostituito al moralismo del costume) si disinteressano della loro consorteria: l’uno, monarca angioino, condanna l’avaro re da sermone, Roberto; l’altra scende nella contrada natia con altra fiaccola di quella con cui suo fratello Ezzelino le dette grande assalto. A Folco da Marsiglia, poeta e vescovo, tocca staccarsi da una consorteria di classe: condanna infatti papa e cardinali; acerrimo persecutore di eretici in vita, qui tempesta il conformismo dei decretalisti, cupido di fiorini: e la fantasia spazia irosa da Gerico a Firenze, poi ancora in Terrasanta, poi ancora al «Vaticano e l’altre parti elette / di Roma»,17 e ripete, sia pure in cifra, quell’immagine di città che, vedemmo, è il germe di ogni discorso del viaggio infernale: La tua città, che di colui è pianta che pria volse le spalle al suo fattore e di cui è la ’nvidia tanto pianta, produce e spande il maladetto fiore ch’ha disviate le pecore e li agni, però che fatto ha lupo del pastore.18

Ma «tosto libere fien de l’adultero».19 Noi non neghiamo che altrove il presagio di una riforma del mondo cristiano abbia più forte accento d’urgenza: che un calor d’ira e di sdegno possa indurre a pensare che Dante sia sollecitato da avviamenti e speranze contemporanee.20 Certo fra il «veggo già stelle propinque» di Beatrice e il «tosto» di Folco c’è un divario: questo «tosto» attende di concretarsi nella parola riassuntiva del barone san Pietro, con un altro «tosto»: Ma l’alta provedenza che con Scipio difese a Roma la gloria del mondo soccorrà tosto, sì com’io concipio,21

mentre la situazione psicologica di Folco è riassuntiva e, perciò stesso, demissoria.

Bontà intrinseca degli influssi celesti Ipotiposi pur queste tre figure, l’una e l’altra e la terza legate a Dante da più d’un legame: l’amicizia di Carlo, la domestica notizia di Cunizza, che finì in Firenze i suoi tardi anni, e l’itinerario di Folco dalla poesia alla religione. E Dante, rico261

noscendosi nelle tre, traccia anche un itinerario, dalla mondanità cavalleresca di Carlo alla mondanità amorosa di Cunizza alla moralità religiosa di Folco. A tale situazione corrisponde il senso della lezione dottrinale di questa «feria» nel pianeta amoroso: che contraddicendo in parte alle attestazioni di Marco Lombardo (anche qui è presente, l’iracondo sdegnoso!), sugli influssi celesti, lo cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti…22

osserva questi nella loro intrinseca bontà. Un influsso celeste non può esser maligno: e l’ipotesi «com’esser può di dolce seme amaro»23 vien dichiarata assurda. Lo ben che tutto il regno che tu scandi volge e contenta, fa esser virtute sua provedenza in questi corpi grandi. E non pur le nature provedute sono in la mente ch’è da sé perfetta, ma esse insieme con la lor salute: per che quantunque quest’arco saetta, disposto cade a proveduto fine, sì come cosa in suo segno diretta.24

Se non durasse nella mente del poeta l’immagine della natura corrotta, se il primo regno d’Inferno non fosse tutto quanto percorso dal ricordo di Adamo, e se Adamo non ritornasse poi periodicamente per tutto il Purgatorio e il Paradiso fino a un canto chiave, il XXVI, a riconsacrar l’umanesimo della sua poetica, se quest’immagine non fosse lì lì per fiorire, dalla sua diabolica radice nella città del fiore e del fiorino, diresti che il poeta cattolico stesse dimenticando il dogma del peccato originale: e tale, che la civiltà italiana che da lui deriva, l’abbia dimenticato, parrà a tanta cultura protestante, antiumanistica. A ricondurre ogni prospettiva nella sua giusta proporzione rammenta che poesia è nozione del concreto, e che il pellegrino, dopo aver bevute l’acque di Letè, ha bevute quelle di Eunoè; che al mondo egli guarda non direttamente, traverso l’opaca sfera della terra che ha lasciato alle spalle, ma leggendolo riflesso in Dio: e anco questo ho caro perché ’l discerni rimirando in Dio.25

Anche il vincolo d’amicizia, giungendo così al termine di una prassi stilnovistica, si suggella in Dio: Carlo vede in Dio l’amore di Dante. E così conclude Cunizza il suo dire: Su sono specchi, voi dicete Troni, onde refulge a noi Dio giudicante.26

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1

Pg XXVIII, 64-65. Pd VIII, 1-12. 3 Pd VIII, 34-35. 4 Pd IX, 32-33. 5 Pd IX, 34. 6 Pd IX, 103-105. 7 Pd IX, 113-114. 8 Pd IX, 73. 9 Pd IX, 81. 10 Pd III, 48. 11 Pd XXXII, 5. 12 Pd VIII, 54. 13 Pd IX, 25-27; 43-44. 14 Pd IX, 45. 15 Pd IX, 102. 16 Pd IX, 50-51. 17 Pd IX, 139-140. 18 Pd IX, 127-32. 19 Pd IX, 142. 20 Proprio a questo punto, toccato finalmente il vertice del processo della trasvalutazione del tempo, ci si può voltare addietro e considerare le due serie biografiche del poeta: la serie cronistica e la serie metafisica: nell’episodio di Folco, poeta e vescovo. Non seguiremo certo il Porena nelle sue ipotesi, «Io mi domando se non è soprattutto del vescovo che Folchetto vuol tacere. Come tale egli si segnalò per il furore con cui secondò la feroce crociata contro gli eretici Albigesi che desolò la Francia meridionale sul principio del secolo XIII, macchiandosi di stragi e devastazioni inudite; e Folchetto incrudelì anche contro quei conti di Tolosa a cui doveva gratitudine. Dante, pur condannando l’eresia, non poteva certo approvare la ferocia delle persecuzioni, e col silenzio di Folchetto volle probabilmente significare un suo pentimento»: Il vero significato dell’episodio di Folchetto, postilla al c. IX, p. 83. All’atto di una diretta responsabilità di governo, il poeta teocratico si sarebbe comportato, o avrebbe lasciato che altri si comportasse, certo più duramente di quanto tollerava il sincretismo conciliante dei politici romani; ma nessun dubbio che le sue simpatie andassero alle inondazioni furibonde e alle percosse «negli sterpi eretici». Anche il compromesso economico dei giurisperiti gli dispiaceva, perché troppo corrivo col mondo. E a legger bene nell’episodio, hai la cifra del modo con cui giudica in quella prima pausa di amoroso dominio del mondo, concessagli nel cielo di Venere: è in grado di far la storia di se stesso, staccatosi dalla «pianta» infernale. Infine, a definire il tono gnomico di questa imminenza, aiuta, forse indirettamente, il Commento del Pietrobono, quando postillando il proemio del c. X riassume: «Nella fine del canto precedente il Poeta ha gridato: Preparatevi che la liberazione è vicina» (vol. III, p. 119). 21 Pd XXVII, 61-63. 22 Pg XVI, 73-74. 23 Pd VIII, 93. 24 Pd VIII, 97-105. 25 Pd VIII, 89-90. 26 Pd IX, 61-62. 2

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Il segno dello Spirito

Il Convivio di sapienza nella curia del Sole Ne la corte del cielo ond’io rivegno…1

Nei tre cieli raggiunti dall’ombra della terra, Luna, Mercurio e Venere, era solo il preludio del trionfo beato; che da questo canto X comincia, e dal regno del Sole, sede allusiva della sapienza santa: così dal canto X dell’Inferno la città di Dite; così dal canto X del Purgatorio la scalea dei peccati. E finora le anime accorrevano senza ordine che di moto, i volti dei difettivi nell’albore lunare, i lumi degli attivi nel secondo cielo e quelle faville che nel cielo di Venere lasciano il giro degli alti Serafini;2 ma d’ora in poi, di cielo in cielo, si raccolgono nel simbolismo liturgico di un segno. Anche il poeta partecipa di questo rito: e dall’alto, ormai, sogguarda; e come la distanza della terra è più grande, non avverte lo sforzo drammatico del distacco. Non che l’astrazione prevalga sulla concretezza; tutt’altro: la realtà, nell’intelligenza dantesca, si domina tanto più fermamente quanto più dall’alto; ma il giudizio, che è d’amorosa sapienza, discende più severo e sereno, con una sovranità pacifica di gesto regale, che imparte. A riallacciare questo modo di poesia alla storia della sua esperienza intellettuale, niente più giova che il raffronto col Convivio; ha ragione Pietrobono quando elenca le metafore conviviali: Dio che «sazia» la sua quarta famiglia; e il vino della fiala dei beati per la sete del pellegrino; e la greggia «u’ ben s’impingua»; e il mondo che «gola» di saper novelle di Salomone; e il peculio «fatto ghiotto di nuova vivanda»; e il palato di Eva «che a tutto il mondo costa»; ed altre.3 Forse ha meno ragione quando lega questo giuoco di metafore soltanto alla rispondenza col cerchio infernale e con la cornice purgatoriale dei golosi; e non che una rispondenza non ci sia, nell’intima virtù delle consonanze che dall’intima virtù della presenza poetica unitaria irraggiano su mete predisposte; ma la metafora da cui l’altre han radice è il convivio sapienzale. Al banchetto filosofico del Convivio Dante moveva con una umile offerta generosa: le canzoni e i trattati; ed era lui, superbamente, che lo bandiva. A questo banchetto nella curia del Sole l’inchiesta non è più fatta dal basso, in una ricerca intellettuale certo feconda, ma non totale (e interrotta, come s’è visto, dallo scacco dell’invadenza umanistica di una elezione della persona, di una investitura individuale della dignità umana): la sapienza è rivelazione che irraggia dall’alto, investitura regale e divina. Quel muoversi alla ricerca che, nella prospettiva lirica e autobiografica del Convivio, era applicazione del canone stilnovistico della umiltà, diventa, nella prospettiva teologale della Commedia, un atto di superbia e di presunzione («Forse cui 265

Guido vostro ebbe a disdegno»), arroganza di poter camminare con le proprie forze. Naturalmente, poiché lo psicologismo di Dante è fatto di tali scompensi, e sempre nel giudicare s’addossa il carico altrui, la presunzione di quell’arroganza diventa suo sdegno: e dal banchetto solare della sapienza santa guarda in giù con tranquillità sovrana. Sdegnoso della plebe cristiana? (sed plebs tua sancta – dice il Canone della Messa…). Non ancora: benché le vite di san Francesco e di san Domenico contraddicano apertamente ai moduli delle agiografie popolari; e benché san Tommaso d’Aquino non manchi, a solennizzare in clausola il suo discorso metodologico, di beffarsi di donna Berta e di ser Martino che voglion presumere di veder l’anime dentro il giudizio divino. Antipopulismo? E sia: nella misura che è aristocratico l’umanesimo. E l’orgoglio, se è orgoglio la coscienza di una elezione della Grazia, di un amor divino che irraggia e innalza la dignità della creatura, non è già intellettuale e scolastico: al convito della Sapienza l’invito è stato fatto dall’Agnello; e il cibo, anziché sillogistico, è eucaristico. Questo anche spiega la centralità di un tema: meditazione della vita trinitaria, nei canti del Sole, dal proemio Guardando nel suo Figlio con l’Amore che l’uno e l’altro etternalmente spira, lo primo ed ineffabile Valore, quanto per mente e per loco si gira, con tant’ordine fé, ch’esser non puote sanza gustar di lui chi ciò rimira,4

all’inno, che trascende l’arte dionisiaca e l’arte apollinea: Lì si cantò non Bacco, non Peana, ma tre persone in divina natura, ed in una persona essa e l’umana.5

Dante conferma da Dio l’investitura della Sapienza, sopra l’incertezza della Natura, similemente operando a l’artista c’ha l’abito de l’arte e man che trema. Però se ’l caldo amor la chiara vista de la prima virtù dispone e segna, tutta la perfezion quivi s’acquista.6

Da quell’altezza della curia del Sole, immagine visibile della Sapienza Santa, il povero mondo è remoto.

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L’altezza e la chiarezza Una deduzione dottrinale potrà misurare i gradi di questo cammino: dall’idea di una natura inferma all’idea di una natura divina; e da una intelligenza che si muove da sé sola, coi lumi naturali, a una intelligenza soccorsa dalla rivelazione. Ma la poesia di Dante, per far mito di ciascuna di queste tappe dell’itinerario in Dio, si pone in disparte e sopra: «in luogo aperto e luminoso ed alto», come diceva la parafrasi del Limbo, per la scuola del signor dell’altissimo canto. Anche a questa nuova scuola, che è di Dio-Sapienza, del Verbo incarnato, del nostro Diletto,7

tema mitico è l’altezza sovrana, animazione lirica la conquista della chiarezza: La sua chiarezza seguita l’ardore; l’ardor la visione, e quella è tanta, quant’ha di grazia sovra suo valore.8

Dobbiamo citare, anticipando, un capitolo della storia della poetica. Il fervore dell’illuminazione supera quel didascalismo circostanziato ch’era di Virgilio, di Stazio, di Matelda (con diversa varietà di esigenza drammatica e di ritmo dialogico, naturalmente): questi teologi, e Dante fra loro, procedono investendo la materia di lampi e di fasci di fiamme e alla partizione logica sostituiscono l’animazione etica. Al tema della luce è da ricondurre anche questa suggestione: il sole (che è sapienza, dunque immagine del Verbo) diventa qui piuttosto Amore: e si palesa a ritroso, dal Sole a Marte a Giove, un itinerario che dallo Spirito conduce al Figlio, e dal Figlio al Padre. Così, tre personaggi principalmente sono celebrati: nell’ordine, il serafico Francesco, il cherubino Domenico, e lo spirito giudicante, il re sapiente e amoroso, Salomone. Inquieta è la fantasia, specie nel proemiale canto X: ora solleva il lettore: Leva dunque, lettore, a l’alte rote meco la vista;

ora lo lascia in disparte: Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco, dietro pensando;

ora fa centro del suo immaginar il Sole stesso, all’incontro dell’Equatore con l’Eclittica: Lo ministro maggior de la natura, che del valor del ciel lo mondo imprenta e col suo lume il tempo ne misura…

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ora segue il potente trasvolar di Beatrice, fuor di quella temporal misura: È Beatrice quella che si scorge di bene in meglio sì subitamente, che l’atto suo per tempo non si sporge;

ora invoca l’arte, ma fra l’ingegno e l’«uso»: Perch’io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami, sì nol direi, che mai s’imaginasse…

ora dimentica Beatrice: Beatrice eclissò ne l’oblio;

ora riguarda al basso: Ché sopra ’l Sol non fu occhio ch’andasse…

ora congaude alla prova dell’altezza: «Quando lo raggio de la grazia, onde s’accende verace amore e che poi cresce amando, multiplicato in te tanto resplende, che ti conduce su per quella scala u’ sanza risalir nessun discende»…9

Raramente il luminismo della poetica del Paradiso fa altrove prove così convincenti; raramente la potenza dell’isolar nell’attimo una situazione che qui è prevalentemente intellettuale giunge altrove a questi termini di perfezione; né altrove è più abilmente adoperato il contrappunto di luce e d’ombra: vedi la scena notturna dell’alone lunare quando l’aere è pregno, sì che ritenga il fil che fa la zona

per introdurre la corona dai sapienti; e il degradar da intuizione di luce a intuizione di suono: Io vidi più fulgor vivi e vincenti far di noi centro e di sé far corona, più dolci in voce che in vista lucenti…

e il giuoco musicale e mimico delle pause: 268

donne mi parver non da ballo sciolte, ma che s’arrestin tacite, ascoltando fin che le nove note hanno ricolte.10

Frammentarismo, forse; ma non come tecnica del comporre intendilo: vedilo come il risultato di una vita spirituale che si moltiplica in tutte le direzioni, a dar concretezza a innumerevoli oggetti; così il divisionismo era un possesso della luce, che si frangeva nelle gioie di innumerevoli faville.11

Teoria dei sofi santi A comporre in ordine intellettuale e curiale tale orgia di luce, di suoni, di moti, che spalanca un empireo veloce verso la turbinosa egualità di Dio «che solo in sé side», il poeta introduce il catalogo dei sofi santi: anzi la teoria, ché stanno come in corona di stelle lucenti. Da Tommaso si parte ed a Tommaso si ritorna: quasi in degradanti attitudini, se da chi gli sta a destra, Alberto Magno, giunge a chi gli sta a sinistra, Sigieri di Brabante. Dall’enciclopedismo teologico all’averroismo? La libertà d’immaginativa che il poeta si concede, pur nel comporre un catalogo (ma intreccia una corona, segue con lo sguardo una danza!) è assai grande; e non gl’importa disporre un piano di studi quanto dir di una storia, nella quale si dispongono attori operosi i sapienti: più operosi dalla sua destra, da Alberto «frate e maestro» a Graziano che l’uno e l’altro foro aiutò sì che piace in Paradiso,12

da Pietro Lombardo che, simile alla poverella del Vangelo, offre alla Chiesa le sue Sentenze, a re Salomone: La quinta luce, ch’è tra noi più bella.13

Con Salomone la teoria è più di contemplanti: a veder tanto non surse il secondo14

si dice di lui; e il contemplativo Dionigi l’Areopagita, anche lui, consumandosi in luce a guisa di cero «vide» le gerarchie angeliche; poi Paolo Orosio «avvocato de’ tempi cristiani» e provveditore a sant’Agostino di una organizzata riflessione storica intorno al Cristianesimo; e Severino Boezio, Isidoro, Beda, Riccardo, che a considerar fu più che viro.15

Ritratto in abito di contemplante, e maggiore di sé nell’atto, Riccardo di San Vittore sembra attrarre a sé l’apologo di Sigieri, che si distacca e s’innalza: 269

i «veri» non gli appartengono, l’invidia è di chi rimase turbato nei suoi interessi e non lo tocca; né di lui, né di Severino Boezio, né di Dionigi, né di Tommaso si racconta la persecuzione: anime che trionfano in gioia; ma di lui si dice l’ansia della trasfigurazione, l’attesa della piena vivida luce ultraterrena lo sorprende immerso nelle cogitazioni profonde: in pensieri gravi a morir li parve venir tardo.16

Sinfonia del mattutino Altra forma d’ordini il poeta inventa, dopo che ha descritto la corona dei sapienti, e sottolineatala col suo guardare (il tema su cui insiste: «di retro al mio parlar ten vien col viso / girando su per lo beato serto»):17 la sinfonia del mattutino: Indi, come orologio che ne chiami ne l’ora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perché l’ami, che l’una parte l’altra tira e urge, tin tin sonando con sì dolce nota, che ’l ben disposto spirto d’amor turge; così vid’io la gloriosa rota muoversi e render voce a voce in tempra ed in dolcezza ch’esser non pò nota se non colà dove gioir s’insempra.18

La corona dei sapienti diventa il coro che officia la liturgia del mattutino: ed è da aggiungersi agli altri temi conventuali che richiamano a quella priorità dell’immaginare i canti del Paradiso. Troppo attenti ad un’esegesi esterna, sfugge per lo più agli interpreti19 il passaggio e il sovrapporsi delle immagini: la notte meditabonda è squarciata dal canto, sorge l’anima a intonare al Diletto l’inno del suo desiderio, balza la Chiesa e inneggia nella liturgia del mattutino. L’orologio, alto, ha rotto il velo del silenzio; e da parte sua lo rompe il canto antifonario che l’una parte l’altra tira e urge,

come se esso canto fosse il moto alterno delle campane tin tin sonando con sì dolce nota.

Nel fervore del poetare riassume nel giro di una sola similitudine i tre tempi dell’immagine: la sveglia, l’officiatura e il canto paradisiaco; ed è l’immagine della campana, che pare insegua l’ore battute dall’orologio, sopravvenendo il canto, sopravvenendo l’inno beato, quella che regge il congegno del discorso a sgranarsi e squillare con un delizioso artificio. I temi del canto e dell’officio liturgico 270

tornano al tema del tempo, che anch’esso aveva corso il proemio, e che ritorna nel preludio del canto seguente. Ma l’immagine del tempo sfocia nell’eterno; ed è tema della pace celeste, di uno spazio eternamente colmo di luce, quello che corona l’armoniosa rivelazione della musica: l’eternità della gioia.

Immagine del mondo Quasi si risovviene uscendo da un sogno; e gli si presenta l’immagine del mondo, dove altra è la misura del tempo: giurisprudenza, medicina, sacerdozio, politica, furto, faccende cittadine, faticosi piaceri della carne, il torpore abbandonato e brutale, in mucchio. Un orgoglio conventuale, d’essere inteso ad una mirabile opera di edificazione, sostenta il suo dispregio; e forse la superbia degli spirituali, di contro l’opere del mondo: compresi d’aver attinto altissime vette e vita intensamente trasfigurata, guardavano in basso con disprezzo.20 Anche di Dante è questo guardare in basso: ma la rivelazione dall’alto procederà in lui ad investire proprio questo mondo attivo che per un momento disprezza. «Da tutte queste cose sciolto», accolto in cielo con la guida della Sapienza santa. Per il momento l’aver guardato in basso attenua la libertà dell’immaginare; anziché la surrealistica sovrapposizione simultanea delle immagini, come nelle similitudini, hai un ricordo di danza: dunque di cosa più concreta; un cero tuttavia risplende daccapo, anch’esso riportato in una cerchia liturgica, il tema del lume: Poi che ciascuno fu tornato ne lo punto del cerchio in che avanti s’era, fermossi, come a candellier candelo.21

Che è inizio di una contemplazione più raccolta e preludio meditabondo al tema del sole, che riapre il canto di Francesco.

Iconografia di Francesco d’Assisi Ripercorrere il canto XI e l’immagine sacra di Francesco d’Assisi che vi si campisce può significar riproporre di frequentare tutta la letteratura francescana: ché Dante l’invade; e se il gusto e la necessità della storia dell’intelligenza moderna hanno ritrovato e riamato di preferenza i moduli agiografici del pietismo spirituale, quelli che dalla Legenda Trium Sociorum si diffondono e si attenuano nella poetica dei Fioretti, è singolare il fatto che Dante è a capo di una intelligenza mistica, autore di un ritratto, e quasi capostipite di una iconografia, che accentua i dati dell’ardore, dell’estasi, del rapimento: e meno importa che negli episodi della sua vita vissuta e combattuta potesse esser vicino a quegli estremi che pur tornavano, per via diversa, ad una battaglia terrena, quella da cui s’era sciolto, accolto gloriosamente in cielo. Di Francesco d’Assisi s’impadronivano, inoltre, riformatori politici e sociali; ma qui la sua figura è meditata e cantata 271

in una cerchia conventuale, trasvalutata nel cielo del Sole, tanto in luce aperta quanto la vita claustrale è in ombra (vedi le similitudini dei corpuscoli nel filo di luce). Così la lotta tra Francescani e Domenicani è messa in disparte, nello scambio (è anch’esso modo del canto antifonario) con cui il domenicano Tommaso parla di Francesco e il francescano Bonaventura parla di Domenico, e nella conciliazione teologica: d’amendue si dice l’un pregiando, quale uom prende, perch’ad un fine fuor l’opere sue.22

Anche nell’intelligenza mistica della loro storia sono d’accordo: però ch’andasse ver lo suo diletto la sposa di colui ch’ad alte grida disposò lei col sangue benedetto, in sé sicura e anche a lui più fida, due principi ordinò in suo favore…23

D’accordo, infine, nella conciliazione trinitaria di Amore e Sapienza e Virtude.

Una chiave di lettura A paragone della sua immagine, del resto, vince il poeta; e se è vero, come diceva Ermenegildo Pistelli, che il canto di san Francesco va immaginato detto da san Tommaso nel chiuso fervore di una contemplazione immobile, diremmo noi, nella rigida verticalità di una preghiera che si fa forza per non abbandonarsi alla commozione; è anche vero che dopo la sinfonia solare del preludio s’intona un tema epico e cavalleresco, rutilo e squillante, con una forza distesa ch’è solo, altrove, del corno d’Orlando.24 Ma qui la santa gesta si guadagna; e il tema di Madonna Povertà, tema degli amori accanto al tema dell’armi, ha pur la vaghezza di contrappunto che Dante aveva appreso dai poeti profani, i provenzali (ma anche Francesco, appunto) e che trasmetterà a un poeta «cristiano» (chi lo direbbe?), a Lodovico Ariosto.

Gesta della gente poverella Dietro la gesta del Principe e di Madonna, fierissima, né valse udir che la trovò sicura con Amiclate, al suon della sua voce, colui ch’a tutto il mondo fé paura; né valse esser costante né feroce

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sì che dove Maria rimase giuso ella con Cristo pianse su la croce…25

dietro il fidato colloquio d’amore sospeso ad un riso interno, a uno sguardo fiorito, la lor concordia e i lor lieti sembianti amore e maraviglia e dolce sguardo facieno esser cagion di pensier santi…26

la gesta della gente poverella ha quel tono dimesso e mimico e cittadino che Dante non s’era proposto; un fioretto, appunto: si scalzano, corrono, vanno; un piccolo corteggio, umile e santo, e il capestro come corona. L’intermezzo è affidato a quel tema che sopravviene: l’autorità. Vedi i grandi della terra torreggiare austeri, or vinti, ora impenetrabili, con quella verticalità di linee che poi Giotto imita: e l’altezza eroica del «fi’» di Pietro Bernardone a riscontro: regalmente sua dura intenzione ad Innocenzio aperse… di seconda corona redimita fu per Onorio da l’etterno Spiro la santa voglia… E poi che, per la sete del martiro, ne la presenza del Soldan superba predicò Cristo e gli altri che ’l seguiro…27

Ma l’episodio finale torna a una contemplazione lirica: sale su alla Verna, discende sulla terra, apre il cielo nel volo dopo il gesto dell’amoroso commiato a’ frati suoi, sì com’a giuste rede, raccomandò la donna sua più cara, e comandò che l’amassero a fede.28

Poi torna al suo regno.

Il deuteragonista A spaziare il contrappunto, il poeta non introduce con un rigido parallelismo il canto di san Domenico: vero è che si fida dell’ispirazione e della parola. Quella nuova corona di spiriti beati che sopravviene e incorona di nuova luce amorosa la corona della sapienza, quasi evocata dal panegirico di san Francesco, schiude immagini sospese: Iride, Eco, la serenità dopo i giorni del Diluvio; musica e luce, occhi che insieme mirano, l’ago calamitato che si volge alla Stella Polare: allegorie ed emblemi dell’arte polifonica, dove voce risponde a voce, tema a tema. Aveva già detto dello scintillio che si vede nella fiamma, della voce che 273

trascorrendo s’intende sopra altra voce: nella sublimazione dei sensi, nella trasfigurazione in fantasia della sua vita affettiva, il tema di Domenico si raddoppia su quello di Francesco; ma serba tutta la libertà d’invenzione di una fuga: Occidente contro Oriente, il vento di contro al sole e persino, nell’inquadratura dello stemma di Castiglia, torre sopra torre, leone sopra leone. Il canto di Francesco spazia e si esalta, ma il canto di Domenico ha altro moto: risuona di frastuono guerriero sin dal principio e culmina con uno squillo araldico: l’amoroso drudo de la fede cristiana, il santo atleta benigno a’ suoi ed a’ nemici crudo.29

Quindi si raccoglie a cercare un centro d’animazione della persona; e se in Francesco questo centro era l’ardore caritativo, in Domenico noti un’assistenza prodigiosa: Francesco sposa la Povertà, ma Domenico la Fede, la luce di carità che irraggia dagli amanti francescani trae dietro l’umile famiglia, ma una visione divina irraggia sulla madrina di Domenico: la donna che per lui l’assenso diede, vide nel sonno il mirabile frutto ch’uscir dovea di lui e de le rede…30

uno Spirito si muove dal cielo del Sole a dichiarar nel suo nome la fedeltà al Signore. Cristo lo elegge agricoltore della sua vigna, suo messo, suo familiare. A questo punto scocca la consonanza polifonica fra i due canti: l’estasi di Francesco sulla Verna, già declinando, «da Cristo prese l’ultimo sigillo, / che le sue membra due anni portarno»,31 e la preghiera di Domenico fanciullo, che manifesta la prima beatitudine annunziata da Cristo nel discorso della Montagna: beati pauperes spiritu: Spesse fiate fu tacito e desto trovato in terra da la sua nutrice…

Preghiera dalla terra (Francesco muore sulla nuda terra) ed estasi dell’obbedienza gioiosa: «Io son venuto a questo».32 Dal centro dell’inspirazione estatica il canto s’allarga e divaga: ripresa, coi nomi di Ostiense e di Taddeo, della polemica contro gli affanni del mondo, cui guardano, sdegnando, dalla sfera del Sole, ripresa e anticipo della polemica contro gli ordini mendicanti corrotti; e, al termine del panegirico, ancora il movimento prestissimo e il tema tempestoso: Poi con dottrina e con volere insieme con l’officio apostolico

(ancora i tre motivi della sapienza, dell’amore, dell’autorità) 274

si mosse quasi torrente ch’alta vena preme; e ne li sterpi eretici percosse l’impeto suo, più vivamente quivi dove le resistenze eran più grosse.33

Bonaventura, come appartenente all’ordine francescano, può redarguire severamente i suoi confratelli; Tommaso aveva fatto altrettanto coi domenicani, ché il programma dell’intelligenza dottrinale voleva la riforma nell’intimo: ed è lume di dottrina e ardor caritativo verso «l’orto cattolico» il riformismo di Dante: nessuno più rigidamente ortodosso, nessuno più fiero nemico degli eretici; panegirista di Folco e di Domenico. Nessuno, anche per l’apoliticità che qui persegue, lontano così dallo spiritualismo estremo di Ubertino da Casale che coarta la regola, come dalla diplomazia astuta di Matteo d’Acquasparta, che la fugge.

La seconda corona Il catalogo della seconda corona non ripete la solennità della prima: sui nomi trascorre con cenni più indicativi che drammatici, quasi cartigli apposti a segni di persone; Illuminato ed Agostino, seguaci umili ed oscuri di Francesco; Ugo da San Vittore; Pietro Comestor, commentatore della Bibbia; Pietro Ispano (papa Giovanni XXI); il profeta Natan e Giovanni Crisostomo, accomunati dalla fierezza delle loro condanne alle corti di David e dell’imperatrice Eudossia; Anselmo d’Aosta; il grammatico e commentatore di Virgilio Elio Donato; Rabano Mauro. Forse c’è modulazione più varia d’uomini e di nomi, una più pronta divergenza dal reame della dottrina verso i regni, da una parte e dall’altra contermini, del misticismo e della letteratura. Ultimo Giovacchino del Fiore, «di spirito profetico dotato»: ché al di là della apocalittica e cabalistica macchina del tempo ch’egli aveva montato, restava in lui l’aspirazione e l’attesa a quello spiritual dominio dell’essere di cui Dante cantava il trionfo.

Una corona di stelle I nomi quasi mettono in moto la corona; ma per propalare all’universo la magnificenza di quella duplice danza, il poeta non si contenta più della squilla del mattutino né del canto antifonato: chiama le stelle del cielo, ricompone su quella scena notturna un duplice diadema d’astri scintillanti: le undici stelle di prima grandezza, le sette dell’Orsa Maggiore, due dell’Orsa Minore, e le avvolge in forma della Corona d’Arianna. Poesia allusiva e faticosa?34 Ma il poeta, come tante altre volte per una nozione drammatica, spalanca uno spazio. Qui canta l’incanto della regale sapienza: di una sapienza che non è la maggiore in senso assoluto,

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a veder tanto non surse il secondo,35

ma che pur è la maggiore che illuminasse un monarca. Hai la rivalsa del Convivio che non gli aveva procurato la dignità politica perduta e il ritorno in patria: sua patria è il cielo, e le stelle più luminose fanno da corona alla gloria dell’altro poeta della Sapienza Santa, re Salomone. Né le stelle qui son citate con un esatto riferimento scientifico, come fa sempre altrove: valgono popolarmente, come lumi e moto, e le più splendide, le più note; e la corona della figlia di Minosse, dal gelo della morte trascorsa al fulgore immortale, è un mito che gli si affaccia caro alla memoria: mito di un ripudio e di un trionfo. È il canto, nella lezione di san Tommaso, delle più alte dignità umane: Cristo, Adamo, Salomone; presagio d’altro trionfo, forse non suggestivo quanto avrebbe potuto essere illuminato direttamente dal suo immaginare, anziché indirettamente dal suo trasferire. È canto di gloria. Canto, anch’esso, trinitario, se la luce dell’immortalità è subito riferita a Dio-luce: Ciò che non more e ciò che può morire non è se non splendor di quella idea che partorisce, amando, il nostro sire; ché quella viva luce che si mea dal suo lucente, che non si disuna da lui né da l’amor ch’a lor s’intrea, per sua bontate il suo raggiare aduna, quasi specchiato, in nove sussistenze…36

Per l’ultima volta è ripreso il tema della processione divina sulle creature, e trasportato tanto più alto che altrove: risolto in dottrina e miticizzato in poesia come esistenza della creatura di Dio. L’approdo della Sapienza Santa non è alla dottrina scolastica: reverendissima cosa, e Dante, nonché burlarsi delle questioni che paion sottili e vane alla moderna enciclopedia, indica questioni assai severe: non per sapere il numero in che ènno li motor di qua sù…37

(poi si discusse, per burla, del numero degli angeli sulla punta di un ago: così della favola di Buridano) o una questione di logica formale o di metafisica o di geometria; ma la Sapienza è di qualcosa di più alto, tanto alta che per reverenza di lei occorre anche nel filosofare muoversi col piombo ai piedi, a evitare il volgare accorrere alle conclusioni errate, che è dei filosofi che «andavano e non sapean dove» e degli eretici: che furon come spade a le Scritture,38

sfregiandone il volto santo. Istanza suprema del miracolo nel mondo della sapienza e nel mondo della poesia! 276

Ch’i’ ho veduto tutto il verno prima lo prun mostrarsi rigido e feroce: poscia portar la rosa in su la cima.39

Eco della poesia petrosa? Presagio dei canti della candida rosa? Ma dall’uno all’altro il cammino era stato itinerario di sapienza: sapienza terrena, nell’intermezzo conviviale; poi, esaltandola e consacrandola, sapienza santa.

l

Pd X, 70. «Di fredda nube non disceser venti, / o visibili o non, tanto festini, / che non paressero impediti e lenti / a chi avesse quei lumi divini / veduti a noi venir, lasciando il giro / pria cominciato in li alti Serafini» (Pd VIII, 22-27). 3 L. PIETROBONO, Dal centro al cerchio, cit., cap. IX. 4 Pd X, 1-6. 5 Pd XIII, 25-27. E s’è indicato altrove come Dante tocchi i vertici del culto pagano, l’immagine della divinità che scende luminosa sul mondo, Apollo, e l’immagine della terrestrità che sale trasumanata al divino, Dioniso. 6 Pd XIII, 77-81. 7 Pd XIII, 111. 8 Pd XIV, 40-42. 9 Pd X, 7-8; 22-23; 28-30; 37-39; 43-44; 60; 48; 82-87. 10 Pd X, 68-69; 64-66; 79-81. 11 Certo non citiamo un’esperienza dell’impressionismo e del naturalismo ottocentesco per evadere dai limiti cronologici della storia della Commedia; e nemmeno, stavolta, per richiamare un modo d’espressione artistica più recente ad illustrare uno più antico; ma per sottolineare una parte ch’ebbe nella fortuna di Dante la chiarezza, intesa piuttosto che come illuminazione e come concretezza di attualità, come adequazione geometrica: Cartesio, con la sua metodologia matematica, avviò l’intelligenza là donde la distolse appunto l’Aufklärung. 12 Pd X, 98; 104-105. 13 Pd X, 109. 14 Pd X, 114. 15 Pd X, 131-132. 16 Pd X, 134-135. Qui converrebbe, per più certezza, ripercorrere ad una ad una, dalla poesia alla storia, le notizie dei Sapienti; ma possono dispensarcene le pur scarse indicazioni dottrinali offerte quando, seguendo l’alto itinerario della storia alla poesia, toccavamo questi stessi nomi: valga soprattutto per Boezio e per Sigieri. Resta che, a paragone di questa visione musicale e coreutica, che compone in armonia sofi attivi e sofi contemplativi, sette e cinque, come nella misura metrica dell’endecasillabo, intorno a re Salomone, è scarsa la possibilità di isolare in un’indagine astratta il polo dell’averroismo e il polo del tomismo. Leggiamo ora chi meglio ha riassunto in una lucida commossa postilla la situazione etico-dottrinale delle corone dei sapienti, a proposito appunto di Sigieri: «E questo spirito di conciliazione non significa già l’adozione da parte del poeta di un criterio eclettico, e tanto meno scettico, sì soltanto il riconoscimento di una più alta verità, che in varia misura si rivela a quanti con animo puro e serietà d’intendimento la ricercano e di fronte alla quale tutti ora son pronti a riconoscere i propri errori e i limiti connessi alla intransigenza stessa con cui da vivi accolsero e difesero un loro coerente e sincero, ma pur sempre unilaterale, indirizzo speculativo»: SAPEGNO, Commento, cit., p. 915. 17 Pd X, 101-102. 18 Pd X, 139-148. 2

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19 Ma non all’ultimo e di miglior gusto lettor di poesia, benché la limiti: «Questa descrizione è tutta circoscritta e non ha nulla di quello straordinario a cui Dante altre volte mira nei suoi quadri di paradiso: eppure dice più di quelli e, così isolata in un’aria di religioso silenzio mattutino, così infusa di pace e di fiducioso abbandono, dà veramente un’impressione di paradiso» (Momigliano). Il Tommaseo, affascinato dall’immagine dell’orologio a sveglia e del carillon, s’augura che si tratti di «musiche forse meno triviali di quelle d’adesso» (p. 140); ma leggendo non manca di notar l’accordo profondo: «e la ruota degli spiriti consuona alle note de’ pianeti, e sta nel sole, come l’oriuolo misura il corso del sole». A chi nota il sovrapporsi delle immagini sarà agevole oltrepassare la meraviglia di quello squillo di sveglia, ed osservare il trapassar della fantasia del poeta dallo squillo al canto. 20 Cfr. U. COSMO, L’ultima ascesa, cit., pp. 152 ss. per le attinenze con Pier Giovanni Ulivi e soprattutto con Ubertino da Casale, seguite in sede di lettura: «Per ciò appunto Dante non è mai da Francescani e da Ioachimiti tanto lontano come quando pare servirsi delle più caratteristiche loro figurazioni a dar forma, come nel Paradiso terrestre, alle speranze più intimamente e più caramente vagheggiate». 21 Pd XI, 13-15. 22 Pd XI, 40-42. «Erano le notazioni stesse di Ubertino, e la loro indeterminatezza tornava in questo momento al poeta opportuna» (U. COSMO, L’ultima ascesa, cit., p. 152). 23 Pd XI, 31-35. 24 If XXXI, 16-18. 25 Pd XI, 67-72. 26 Pd XI, 76-8. 27 Pd XI, 91-102. 28 Pd XI, 11211-4. 29 Pd XII, 55-57. 30 Pd XII, 64-66. 31 Pd XI, 107-68. 32 Pd XII, 76-78. 33 Pd XII, 97-102. 34 Poiché il tema importa, poesia delle stelle, vale la pena di appuntare qualche giudizio critico, fra i più noti: «Le prime terzine del Canto son le più vive», premette il Tommaseo alla lettura, quasi segnando in margine i luoghi notevoli (p. 159); ma contraddice nella postilla (p. 178) Grado della perfezione: «Il primo costrutto del Canto potrebb’essere meno involuto e di maggiore evidenza». Poi, subito rimediando: «Ma raccogliendo da più regioni del cielo le stelle che fanno di bisogno all’idea del Poeta, e ordinandole in due nuove costellazioni al suo cenno, dimostra come dal regno del possibile non solo la scienza, ma possa l’arte anch’essa ampliarsi». Il Momigliano ne prende spunto per un excursus molto provveduto sugli inizi dei canti; ma per questo conclude negativamente: «Uno degli esordi suggeriti da motivi pittorici è appunto questo; ma la figura è disegnata con prosastica e faticosa lentezza, escogitata dall’ingegno ma non veduta dalla fantasia. È simile a quella dei vv. 10-21 del canto XI, ma più lenta» (p. 656). Infine terzo, e a ragione, dopo i due che più suggeriscono al lettore i motivi di lettura, e terzo perché viene in tempi in cui nessun erudito può ignorar la poesia, sia giustapponendola alla dottrina, sia subordinandola all’invenzione per veder quanto n’esca illuminata, il Porena: nella postilla al c. XIII, Lo sforzo intellettuale nello stile del Paradiso (pp. 120 ss.): «Conoscenze astronomiche e sforzo di fantasia Dante li ha richiesti al lettore del tutto inutilmente». La soluzione va chiesta al di là dell’atto didascalico in sé; occorre seguirlo nello spazio e attendere alla sua meta, l’eulogio del re santo, amoroso e saggio. 35 Pd X, 114. 36 Pd XIII, 52-59. 37 Pd XIII, 97-98. 38 Pd XIII, 126-128. 39 Pd XIII, 133-135.

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Il segno del Figlio

La terza corona Il concilio di sapienza nel regno del sole è inizio d’altra vita e d’altro trionfo: lo sdegno non è mai, per Dante, una meta; ha guardato in basso, ha sprezzato la cupidigia e l’ignoranza, gli errori degli ordini e l’arroganza plebea; ma il suo andar fatale è verso l’alto. Una terza corona s’inghirlanda in cielo più ampia della prima corona dove prevaleva un tal quale dominio intellettuale della realtà, più ampia della seconda corona, dove cantavano spiriti più effusi, forse con più sensibile gaudio e con più ansia d’attesa. Certo erra chi tenta la poesia del Paradiso con una geometria troppo rigorosa: il regno «che solo amore e luce ha per confine»1 la sopporta anche meno dell’Abisso e del Monte; e come si rivelan precari ed inadeguati gli sforzi di chi pensa ai dodici e dodici spiriti sapienti come ai capitoli di un programma di studio, e sono una contemplazione siderea, così non vorremmo cader nell’errore, o nell’inadempienza, di indicare un tema preciso alla musica di ciascuna delle tre corone. Tuttavia, nella varietà polifonica della cantica, la suggestione del moto è fondamentale per condurre i temi: è essa stessa il motivo conduttore di tutto, dal primo verso all’ultimo, da quando si distacca dalla terra del Paradiso Terrestre a quando s’interna nel «volume» dell’Essere Trinitario; e d’aver posto il moto nel preludio al cielo di Marte, non è senza motivo: storia ancora una volta di un cielo che si spalanca, di un cammino abissale, approdo a un segno, la Croce, che è transito all’infinito: Dal centro al cerchio, e sì dal cerchio al centro…2

Il canto decimoquarto va letto, più d’ogni altro, l’occhio intendendo a quel che s’annunzia e la memoria intesa a quel che s’è lasciato. Anche il discorso vi è singolarmente diviso: la tecnica dei punti luminosi e delle suggestioni in penombra vi prevale, dove un’esegesi preconcetta attenderebbe l’applicazione scolastica del metodo della ricerca sillogistica; ma ha detto di essere oltre trascorso.

I corpi risorti «S’i’ era sol di me quel che creasti / novellamente, Amor…». Così cantava, involandosi: allo slancio di quel motivo cherubico (nascita dell’anima) una risposta è guidata: né gl’importa di dire che sì, il suo corpo è con lui, che nella luce diffusa delle sfere fa ombra, che respira aria di cielo (non è un viaggio di Giulio Verne 279

quello verso il cielo Empireo, e le suggestioni più instanti sono altre che le leggi della fisica, il rimario della scienza positiva); gl’importa di scoprire il senso del suo corpo. Ad accorgersene è Beatrice, che lo soccorre, rispondendo ancora una volta con un’antifona, quando tace, la «vita» di Tommaso glorificata: per la similitudine che nacque del suo parlare e di quel di Beatrice, a cui sì cominciar, dopo lui, piacque.3

Dante, benché non parli, anzi benché nemmeno pensi, vuol andare alla radice di un altro vero: rimarrà la luce di quegli splendori quando i corpi saranno risorti? È il tema della resurrezione che riappare, quel tema che scande tante tappe del cammino. E a dire che il suo senso non si limita al minor problema proposto (come non sarà impedita la loro vista da quel fulgore, quando saranno rifatti visibili?) si risponde, dopo un preludio corale che inneggia tre volte alla Trinità, fulgente di gioia paradisiaca, da una voce modesta forse qual fu da l’angelo a Maria.4

Il tema della Resurrezione si raddoppia dunque sul dogma della Incarnazione: nel richiamo sinfoniale di quell’estasi dell’Annuncio, che si distacca sopra il coro immenso giubilante, intendi che ancora è miracolo della vita trinitaria quello che assicurerà nella consumazione dei tempi, all’anime gloriose, di rivestirsi della povera, semplicetta contaminata materia ch’ebbero in vita, glorificata anch’essa; miracolo di un atto d’amore, come fu l’Annuncio, rivolto all’amorosa persona: la nostra persona più grata fia per esser tutta quanta.5

«Tutto che questa gente maladetta / in vera perfezion già mai non vada…».6 Significativo che l’annuncio di tanta gloria benigna si riannodi all’enunciazione pregnante della più alta poetica; dunque la poesia è pur essa una forma di incarnazione, un miracolo trinitario d’Amore, di Sapienza, di Potestade. Significativo che l’annuncio sia fatto da Salomone: «A veder tanto non surse il secondo…», il cantore amoroso della Sulamite, il mitico profeta delle nozze dell’Anima con Dio, l’autore sapiente, il re potente. Il nome del progenitore di Cristo non si nomina; ma nell’ombra sono dispersi i suoi peccati, di che «gola» la gente invidiosa: ed egli è tutto nella luce della Promessa. Poeta, sapiente, politico: forse non è il ternario della vita di Dante? E può dimenticare, chi legge, l’annunzio dato dal simbolo del suo libro, nella processione mistica, «Veni, sponsa, de Libano», tre volte? Al cui richiamo Beatrice apparve (e il commento sinfoniale apriva una voragine di suoni intorno al canto; l’annuncio della Resurrezione, ancora:

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Quali i beati al novissimo bando surgeran presti ognun di sua caverna…)7

Può dimenticar, chi legge, il canto d’amore, per tutti i toni dal desiderio luminoso all’estasi? Né dal mondo di Dante potrai cancellare quel tema dell’affetto carnale della famiglia, quella pura e ardente forza delle progeniture, quel prolungarsi della vita corporea dai padri ai figli: amor del corpo per amore di chi ce l’ha dato: forse non pur per lor, ma per le mamme, per li padri e per li altri che fuor cari…8

Preludio al canto di Cacciaguida: O sanguis meus! Ma il traguardo fra la gloria sapienzale e la resurrezione è il mistero del sangue e il segno della Croce.

Nel cielo di Marte Dopo un moto di tanta tenerezza, il tema dell’acquisto dello spazio riprende, ma venato di quella immagine della sera all’aprirsi delle prime stelle, mentre nel cielo di Giove luce s’accende sopra luce. Trionfo di Santi ignoti, prelusi dal canto di Salomone; «novelle sussistenze» che fanno un giro fuor dell’altre due corone; sfavillare dello Spirito Santo. Al mistero della terza corona non può che rispondere la visione del quinto cielo, in cui s’apre quando i suoi occhi riprendono virtù, abbagliati prima dall’insoffribile ardore di quello sfavillare, poi dalla ridente bellezza di Beatrice: ancora un altro ternario; e dal mistico tramortimento del riso di Beatrice si ridesta nel riso «affocato» della stella sanguigna. Ma il primo atto del nuovo mistero è atto di latria, anzi di olocausto, di sacrificio totale. Diresti che il simbolismo si chiude qui in cerchio, immediatamente, sulla persona stessa del poeta, che lo promuove e l’accoglie: il cielo di Marte, anzi dei màrtiri, di chi ha preso la Croce e ha seguito Cristo, non ha bisogno di una prospettiva allegorica, che spazi in una sfera intellettuale, senza un immediato riferimento, più direttamente sofferto che altrove, al Poeta; questo cielo dell’incarnazione, del sangue, della resurrezione, sfera della guerra, ludo della passione, si chiude sulla sua persona di cui qui si dirà più concretamente (biograficamente, anagraficamente) che mai altrove: e la preghiera che altrove è intonata dalle anime e dagli angeli, qui è offerta da lui in persona, che si prepara, riconciliato, a soffrire la vicenda dell’esilio e della milizia. Altrove l’allegoria, il simbolo, l’emblema, nell’ordine che abbiamo osservato disposto, creano un rito corale cui possono partecipare molti credenti o tutti gli uomini; ma qui la storia dell’Uomo si riassume più intrinsecamente nella storia dell’uomo Dante. Cristiano, si dispone sotto il segno della Croce, ma non dimentica che cosa significa questo: imitazione di Cristo. Il preludio è trionfale, come sempre nella liturgia, quando la Croce s’innalza: e la Croce splende in segno che il suo sacrificio è accolto:

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E non er’anco del mio petto esausto l’ardor del sacrificio, ch’io conobbi esso litare stato accetto e fausto; ché con tanto lucore e tanto robbi m’apparvero spendor dentro a due raggi, ch’io dissi: «O Eliòs che sì li addobbi!»9

Vedi come, attraverso la menzione del Sole (in greco, quasi per un richiamo alle origini: antifona di grazie a quel Kyrie che invoca pietà), il canto si lega al cielo quarto.

Prologo al “mistero” di Dante Dopo l’offerta il Gloria, dopo il Gloria la lezione, quasi compendiaria di un preludio sidereo: Come distinta da minori e maggi lumi biancheggia tra’ poli del mondo Galassia…10

(sinfonia di quel ponte immenso gettato fra le sponde dell’universo!), segno assorto e come geometricamente elaborato, prima di diventare simbolo e rito: sì costellati facean nel profondo Marte quei raggi il venerabil segno che fan giunture di quadranti in tondo.11

Luoghi di un’Epistola (san Paolo) e di un Vangelo («tollat crucem suam et sequatur me») accolti insieme e proiettati in un innologico prefazio: Qui vince la memoria mia lo ’ngegno; ché ’n quella croce lampeggiava Cristo sì, ch’io non so trovare essemplo degno: ma chi prende sua croce e segue Cristo ancor mi scuserà di quel ch’io lasso, vedendo in quell’albor balenar Cristo.12

Qui s’inizia, nel segno della Croce, per Crucem ad gloriam, il «mistero» della vita di Dante: non più soltanto la nozione di un «viaggio» che, secondo Virgilio, Beatrice gli avrebbe rivelato: «da lei saprai di tua vita il viaggio»;13 ma rito e sacrificio: e inoltre vigilia cavalleresca, fra il tramortimento della veglia e la milizia santa della schiera dei martiri guerrieri. Mistero di luci e d’ombre (secondo lo schermo luministico che ancora una volta capovolge l’ombra in luce

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così si veggion qui diritte e torte, veloci e tarde, rinovando vista, le minuzie de’ corpi, lunghe e corte, moversi per lo raggio onde si lista tal volta l’ombra)14

ed inno di gloria e di vittoria, ma affondato in una sinfonia dove non s’isolano le note e solo due parole splendono, di resurrezione e di gloria: però ch’a me venia «Resurgi» e «Vinci».15

Noi, leggendo, dal golfo mistico della Commedia non possiamo trarre che linee di pochi temi, per non poterli tutti ad uno ad uno indicare; e seguir ciascuno nell’intreccio della polifonia significherebbe ripercorrere dal centro al cerchio tutto il poema: ché ognuno consuona con tutti e altrove non sta l’unità intrinseca dell’arte, se non in questa universale e organica rispondenza delle innumerevoli immagini in una. Ma non vorremmo, questa volta, trascorrere il ricordo delle anime che vengono per la costa del Monte e per traverso cantando il Miserere, dei morti di morte violenta, qui dove si celebra il mistero del sangue. Una similitudine l’accende: Quale per li seren tranquilli e puri discorre ad ora ad or subito foco, movendo li occhi che stavan sicuri, e pare stella che tramuti loco, se non che da la parte ond’el s’accende nulla sen perde, ed esso dura poco; tale dal corno che ’n destro si stende a pié di quella croce corse un astro…16

che ha un’eco in quel canto quinto del Purgatorio: fiamma e lampi di contro un cielo incerto e torbido, laggiù, Vapori accesi non vid’io sì tosto di prima notte mai fender sereno, né, sol calando, nuvole d’agosto,17

ma qui la contemplazione di un puro aere immenso, e un limpido pacato meditare. Induci che se questo è mistero della sua vita e del suo sangue, s’accresce, cominciando, di quanto ha in sé e negli altri, compatendo, sofferto; ma giunto qui alla sua celebrazione e, implicitamente alla sua glorificazione, anche le immagini che accompagnavano gli episodi lontani di una sola storia diventano finalmente limpide: vanno, insomma, lette nel cifrario di questa finale chiarezza, e la vita di tutti è in qualche parte in lui redenta.

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Chiuso il preludio, e incorniciato l’episodio dell’accorrere del lume dentro il segno della Croce intorno a quell’immagine frequente delle stelle cadenti, il poetare muove a ritroso dal modo che aveva svolto il rito del viaggio da Giove a Marte: muove da un prefazio (ombrifero? L’ombra di questa storia di una vita d’uomo è illuminata dalla luce di quel rito); ancora il mistero della vita di Dante è osannato nel fervore dell’amor paterno: ma in latino: «O sanguis meus, o superinfusa gratia Dei, sicut tibi, cui bis unquam celi ianua reclusa?»18

Indi, per il tramite del latino sacrale passando all’esoterico: a udire ed a veder giocondo, giunse lo spirto al suo principio cose, ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo;19

finché si riassume nell’esplicita lode alla Trinità: la prima cosa che per me s’intese, «Benedetto sia tu» fu «trino e uno, che nel mio seme se’ tanto cortese!»20

Al prefazio di Cacciaguida Dante risponde con la lezione: esortato a farlo con ogni insistenza, attratto da un comando che cresce sonoro ad inno, la voce tua sicura, balda e lieta…21

assentito da Beatrice; e intona, prima titubando, ma via via più franco, la variazione sull’endiadi divina di affetto e di senno, di Amore e di Sapienza (ancora una volta riassunti nell’unità trinitaria: «come la prima equalità v’apparse»)22 che nella vita mortale si ridivide nella diversità di voglia e di argomento, di volontà e di potenza. E gli chiede il suo nome.

Vita del crociato Introdotto così, e celebrato, l’incontro, Cacciaguida parla di sé. Il canto, tante volte letto e da tanti, non esige illustrazioni minute: basti quel poco che non lascia troppa sosta a chi rimedita il suo valore storico o, moralisticamente, fa centro nell’immagine agiografica di Firenze; realtà, quella storia e quel sentimento, da cui pur mosse la storia del poeta; e lo vedemmo; ma perché la ritrovi in questo nuovo e limpido modo, dopo avere tante volte detto sciagure sulla progenitura cittadina e infamie sulla gente di città, è necessaria la vicenda sin qui percorsa, nella memoria, e nell’atto drammaturgico il coesistere di presenze che 284

convien sottolineare: da principio, un precipitoso risalir della storia da Dante al bisavolo superbo «che cent’anni e piue / girato ha il Monte in la prima cornice, / mio figlio»; da ultimo, «e venni dal martiro a questa pace», il tema del cavaliere di Cristo, del Sapiente e del Martire, di Boezio e di Cacciaguida. Appunto perché così si risale a ritroso, è l’immagine finale quella che conviene ritrovare nella memoria. Non si tratta di un paludamento araldico, e di non so che testa di moro da inquartar nello stemma; né di vanagloria nobilesca, in quella città d’artigiani e di mercanti, potendo annoverare un trisavolo cavaliere, e cavaliere d’arme, non cavaliere di roba: il mistero della vita di Dante incomincerebbe male, fra la compiacenza di una superbia gentilesca, che discende per li rami, «mio figlio fu, e tuo bisavol fue», e la vanagloria di una gesta crociata, chissà dove, al seguito dell’imperatore Corrado, chissà quale.23 In realtà, da quella superbia a quel martirio s’è svolto il cammino durato sin qui grazie alla Madonna, «che a l’alto volo ti vestì le piume».24 E il ritratto di Cacciaguida, dissipato ogni peso di superbia dal trapassar di quella luce, si riassume in un atto estatico d’amore, s’accorda col misteriosamente profondo atto di grazia e di veggenza. Direte che in quella mistica trasvalutazione il personaggio perde peso e figura? Ebbene: poesia è solo di peso e di figura? E altro canone che di romanzo storico e di naturalismo verista non debbono conoscere i lettori di Dante, solo perché le nuove letture del poeta sono contemporanee all’Assedio di Firenze o di Mastro don Gesualdo? Ha pur dimostrato di contenerli in nuce: né giungeremmo ad aggiunger lettura, a lettura, se non per esperienza di nuove poetiche, anch’esse implicite nel «padre della lingua». Scomparsi i tratti della persona, affioran relitti di cronaca familiare: Moronto, Eliseo, la donna venuta di Val di Pado. Cristo lo consegna all’eternità, se Maria «chiamata in alte grida» alla vita.

Offerta amorosa della città Per la seconda volta Maria si distacca dal canto, qui nominata in segno di grazia; e il suo nome si ridistende sull’immagine della città felice A così riposato, a così bello viver di cittadini, a così fida cittadinanza, a così dolce ostello…25

con l’onda di quel suono di campane che schiude il quadro della cerchia antica, «ond’ella toglie ancora e terza e nona»:26 melodiosa onda, da Oriente, dal campanile di Badia. Dunque, come l’immagine del cavaliere di Cristo trasumana il ritratto di Cacciaguida, quell’onda delle campane di Badia, e quella preghiera, trasfigura la città: «persona» di città, quasi fra due santi protettori, la Vergine e il Cavaliere. Scogli di cronaca e di peccato sormontano nella luce andante della pittura, che riecheggia in luce il ritmo delle campane: una Cianghella, un Lapo Salterello, catenella, corona, gonne ricamate, cinture vistose, la camera di Sardanapalo; sullo sfondo, l’Uccellatoio (e in cifra, accanto, Monte Mario). 285

Il moralismo la grava; ma non è un gusto idillico quello che gli si oppone: è propriamente un purificarsi dei ricordi nel rito delle memorie sante; figure dei grandi trascorrono, Bellincion Berti de’ Ravegnani, il paterfamilias dei Berti, il paterfamilias dei Vecchietti; e il coro delle donne s’aduna. Vita di donna: il nascere arriso dai padri, «non faceva, nascendo, ancor paura / la figlia al padre», il talamo «nulla / era per Francia nel letto diserta», la veglia sul figlio infante «a studio de la culla», i lavori donneschi «traendo alla rocca la chioma», la morte «ciascuna era certa / de la sua sepoltura»; e su loro, le madri, le meravigliose favole di un’antichità remota, come assonnando nel verso, de’ Troiani, di Fiesole e di Roma…27

«Reggimento e costumi di donna»; ma quel di Francesco da Barberino è didascalismo, benché spesso accorto e nitidamente scandito: qui le immagini sono il frutto meditato di una situazione lirica; parole d’altra favola, vegliata da un sacrificio e da una preghiera: veglia della Madonna e sogno del Cavaliere.

La cittadinanza antica Il canto della nobiltà dimentica dal suo principio l’immagine del cavaliere di Cristo: Dante cittadino vi sormonta, sia pur celebrato l’evento da quella raccomandazione di rinnovar con opere degne la nobiltà della stirpe (l’immagine del manto che il tempo raccorcia, sforbiciando intorno intorno, è una spassosa anticipazione della poetica degli emblemi, più avanti: era infatti, scendendo dalla corona, riserbato agli stemmi delle famiglie regnanti); e s’inizia un’indagine, che sarà anche statistica, ma soprattutto araldica, sulla città antica, anzi sulla cittadinanza; l’immagine della città è già stata offerta, liricamente animata: ora s’indaga; e benignamente, paternamente, Cacciaguida e Beatrice vi consentono, quasi chinandosi sopra di lui che chiede, in alto, numeri e nomi. Questo degradar di tono, che sarà per tutto il canto, dal tema della cavalleria al tema della nobiltà, per di più collettivamente intesa (vedine l’emblema impoverito nei Galigai: «dorata in casa sua già l’elsa e ’l pome»;28 ma Cacciaguida di sé e dell’imperatore aveva detto epicamente: «ed el mi cinse de la sua milizia»),29 ha un effetto immediato e un effetto remoto: il sorriso di Beatrice, quel condiscendere gentilesco e donnesco alla vanità di Dante, che la fa paragonare alla dama di Mallehault che ride nella scena di Lancellotto, «come Amor lo spinse»; e il corteo araldico delle famiglie illustri di Firenze, un secolo prima, che è scadimento della poesia, non confortato né dalla generosità dei sentimenti cittadini né dallo sprezzo nobilesco per la gente nuova, né forse da un tema che è troppo sommesso, la tragedia delle città e delle stirpi, «udir come le schiatte si disfanno»,30 la precarietà della sorte mortale «le vostre cose tutte hanno lor morte, / sì come voi», il flusso e riflusso della fortuna:

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E come ’l volger del ciel de la Luna cuopre e discuopre i liti sanza posa così fa di Fiorenza la Fortuna,31

che è immagine appassionata e grande, dopo quella sdegnosa e pietosa dell’inferma: troppo sommessa, o troppo prontamente soverchiata dalla filosofia politica un po’ spicciola e altera, una mutria nobilesca appunto, un sentenziar per pregiudizio di lignaggio Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade come del vostro il cibo che s’appone,32

e dal discorso inesauribile intorno alle vecchie famiglie: ciarla di gente spocchiosa, a confronto di quel favolar remoto della donna, quasi una parca, che in una cerchia muta fila e conta. Pur vedremo la via per dove, finendo, poesia si riacquista.

Gli emblemi araldici Un’eco, ma un’eco soltanto, del canto precedente hai quando menziona la data di nascita di Cacciaguida: Da quel dì che fu detto «Ave» al parto in che mia madre, ch’è ora santa, s’alleviò di me…33

ché subito sopravviene l’emblema araldico e l’oroscopo, a cancellarla: al suo Leon, cinquecento cinquanta e trenta fiate venne questo foco a l’infiammarsi sotto la sua pianta.34

Così scade la topografia cittadina a confronto della «cerchia antica» e dell’ora di Badia: il loco dove si truova pria l’ultimo sesto da quei che corre il vostro annual gioco,35

per dir di Porta San Piero; ma la suggestione della emblematica, con un’eco della suggestione magica che altrove assume, e questa è araldica, è già viva quando innalza ai confini della città i simboli del protettore pagano e del protettore cristiano, «tra Marte e ’l Batista»:36 rammenti il lamento del giudice dissipatore e suicida nella selva delle Arpie. E sopravvive, Firenze, per quella «pietra scema»: 287

il simbolo e la cagione della sua acre furia, la custodia del suo perpetuo strazio, immortale. Intorno a quei due segni la fantasia corografica appunta i nomi del contado: Campi, Certaldo, Fegghine, lontano; e vicino Galluzzo e Trespiano. Poi, trascorrendo a una geografia storica, Aguglione, in Val di Pesa, Signa, Simifonti, Montemurlo ed Acone e in disparte, per iniziare il presagio, la patria di Buondelmonte, Valdigreve. Ma finito l’intermezzo di filosofia politica, e dopo il primo piover di nomi, «Ughi, Catellini, Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi», la menzione, indiretta stavolta, dei Cerchi che abitano le case già dei Ravegnani sulla Porta San Piero, introduce l’immagine della barca: carico delle case sulla porta, carico della fellonia dei Cerchi sulla barca delle fortune cittadine. Di qui comincia la teoria degli emblemi: la Colonna del Vajo, stemma dei Pigli; i Chiaramontesi che «arrossan per lo staio»; anche le metafore si concretano in emblemi: il «Ceppo» dei Calfucci, le «Curule» degli Arrigucci e dei Sizii, le «Palle dell’oro» dei Lamberti: un rapido intermezzo e vivacissimo di cronaca cittadina, a cancellar l’ombra della tragedia degli Uberti: quei Tosinghi e quei Visdomini che sempre che la vostra chiesa vaca, si fanno grassi stando a consistoro;37

le sorti ancor meschine degli Adimari, «oltracotata schiatta», e quell’irrigidirsi di immagini in simboli che l’accompagna, «drago», «dente», «borsa», «agnello», la cui affinità sdegnava Ubertin Donato. Poi altre immagini: la postierla dei Peruzzi, le famiglie che inalberano lo stemma del vicario di Ottone III, Ugo di Brandeburgo, marchese di Toscana. E infine gli Amidei, La casa di che nacque il vostro fleto…38

Qui il canto svolta, per la sua fine: fosse morto annegato, Buondelmonte, e il compianto l’avrebbe accompagnato. E sulla vicenda del pianto di molti s’alzano due segni: il simulacro mozzo di Marte, l’idolo cui Fiorenza sacrificò, nel tramonto insanguinato della sua pace; e il Giglio, prima bianco in campo rosso, glorioso, poi, capovolto dai nemici nell’ignominia delle sconfitte, e di bianco mutato in rosso, insanguinato.

L’esule Il mito di Fetonte, che gli è fra i più cari (e l’aveva colto altrove nel precipitar superbo del suo viaggio celeste) qui si colora d’altro senso, nel prologo dell’esilio: sventato e sventurato Fetonte, che quando ha la conferma della sua genitura divina proprio allora gli tocca, e per quella gli tocca, di traboccar dall’alto sulla terra, e il pianto delle sorelle, nel chiuso mistero del giudizio supremo:

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per l’orazion de la Terra devota.39

Nella coerenza esplicita del ragionare il mito gli presagisce sciagura: ecco perché, angosciato e indomito, chiede a Cacciaguida di sapere. Nell’implicita suggestione dell’immagine, il mito lega il canto al tema delle altezze: O cara piota mia, che sì t’insusi…40

e al tema cristiano del Figlio sacrificato, «quando fu Giove arcanamente giusto».41 Anche il viaggio d’oltretomba è rievocato nel suo schema verticale, nel pauroso sprofondarsi in quel mondo dei morti (e la menzione di Virgilio è in risposta alle parole di lui: «quando sarai dinanzi al dolce raggio / di quella il cui bell’occhio tutto vede».42 Quanta confidenza nell’andante giambico di tal presagio; e quanta solennità severa nel largo dattilico della rievocazione attuale: mentre ch’i’ era a Virgilio congiunto su per lo monte che l’anime cura e discendendo nel mondo defunto…43

Sull’immagine ritorna di continuo Cacciaguida, rispondendogli: «scendere e salir per l’altrui scale» «graverà» «cadrai in questa valle»; poi, salendo, l’«Ostello» e la «Scala» e l’«Uccello». Nella terza parte del canto a paragone coi grandi della terra, il tema del discendere e del salire è ripreso quasi con le stesse parole, ma vi prevale il senso del salire, dove nella prima immagine le parole gravavano sul discendere): Giù per lo mondo sanza fine amaro e per lo monte del cui bel cacume gli occhi de la mia donna mi levaro, e poscia per lo ciel di lume in lume…44

La conclusione di questa vicenda dell’immagine è in quell’emblema del vento e delle cime che è fra i più potenti del poema, e di più immediata suggestione: tutta tua vision fa manifesta… Questo tuo grido farà come vento che le più alte cime più percuote; e ciò non fa d’onor poco argomento.45

Visione, voce, grido: una vasta e confusa corrente dell’estetica contemporanea poneva il grido, la voce, all’origine del discorso poetico; Dante al termine: come l’universo in un punto divino, così il poema in un grido umano.

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Le stazioni della via dell’esilio L’immagine delle altezze è il confortatorio del suo esilio: più erra solitario, più s’innalza. Tale l’animazione poetica del suo dramma: il quale ha tre stazioni: «là dove Cristo tutto dì si merca», tra le insidie e le perfidie della corte di Roma; la valle dell’esilio, con la compagnia malvagia e scempia; e, dopo la bella solitudine del far parte per se stesso, la glorificazione dell’Aquila, alla corte degli Scaligeri, fra Alboino e Can Grande. Il tema della matrigna, cominciando, attrae sul pellegrino la luce del grande tema cesareo, or ora alluso da Cacciaguida: Se la gente ch’al mondo più traligna non fosse stata a Cesare noverca ma, come madre, a suo figlio benigna…46

La Chiesa madre dell’Impero? Ma non a questa deduzione attende, pur nella spiritualità determinante della realtà paradisiaca: lascia in disparte la dialettica polemica che dalla nozione di Madre Chiesa deduce quella di Curia Matrigna; e sfiora appena, tanto prevale nell’immagine il pathos dell’esilio sulla suggestività dei richiami contrappuntati, il tema della Meretrice che nella Foresta gli rivolse l’occhio cupido e vagante, allusa dalla storia di Fedra, cupida d’Ippolito: si raccoglie tutto e s’abbatte nel pianto del distacco: Tu lascerai ogni cosa diletta più caramente,47

nell’amarezza del mendicare: tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui,48

nel peso della sua solitudine invasa: E quel che più ti graverà le spalle sarà la compagnia malvagia…49

Ma protagonista era nel primo tempo, fatto oggetto dell’insidia dei più potenti del mondo: protagonista, ma di una prova cruciale, nella passione dolorosa del secondo tempo; protagonista nel terzo, fra i protettori magnanimi, sotto il segno imperiale. Noi leggiamo con maggior simpatia l’eco del pianto indifeso del secondo tempo: perché tale è la storia, non della sua parola, che non è finita, ma della risposta della lingua e della letteratura alla sua parola; ed è più facile, in poesia, rispondere all’elegia che alla tragedia; ma non dimenticare, leggendo, che nel cielo di Marte è il segno della Croce; e aggiungi che molta storia cristiana si palesa, se interpreti in questa luce l’esilio di Dante: storia d’ignote anime sante, dalla strage degli Innocenti all’inno manzoniano d’Ognissanti. Per un attimo 290

Dante s’innalza ignoto al mondo. Poi riprende il cammino di gloria e la corte del signore lombardo l’accoglie.

La croce e la gloria Altro considerare, ed enucleare altro tema, c’induce a non sopravvalutare il pathos dell’esilio. La dignità di quell’esilio è figurativamente tradotta in quelle immagini d’altezza: riflessivamente è commentata con l’accettar la sventura. Ha una storia questa accettazione: il primo moto è di sfida, «avvegna ch’io mi senta / ben tetragono ai colpi di ventura»;50 ma anche questo primo moto si scinde: tetragono dice di una difesa immobile e superba; quel prevedere il colpo di saetta, «ché saetta previsa vien più lenta»,51 affrontarla guardando, rallentare il colpo nell’attenzione tesa e ferma, è già di una forza umana sostenuta da una chiara indicazione dottrinale che non solo resiste al male, ma lo contrasta e lo domina in parte. Le parole di Cacciaguida dicono come la Grazia dell’anima e il soccorso divino possano tradurre positivamente quella resistenza, quel rallentare: per virtù del sacrificio la croce diventa gloria, il dolore giubilo; per virtù della Provvidenza il disordine del male diventa ordine, l’odio amore, la dissonanza armonia. Cacciaguida non gode solo dell’atto di leggere in Dio, né solo esulta della preveggenza divina conciliata alla libertà dell’uomo: secondo lo schema di una celebre illustrazione teologica, ancora: quella gioia armoniosa, «sì come viene ad orecchia / dolce armonia da organo»,52 è segno di conciliazione provvidenziale; e non vi è male, in Dante, che non si redima in gioia, se il suo destino è di beatitudine. E in questa beatitudine già s’affisa, primo dei due, il padre, beato. Al figlio, dall’alto della gioia promessa, raccomanda il perdono: egli assisterà alla vendetta divina su quella umana perfidia, rasserenata giustizia: Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie, poscia che s’infutura la tua vita vie più là che ’l punir di lor perfidie.53

Tregua di guerra, quando l’inno alla magnificenza scaligera ha ricapovolto il male in bene: per lui fia trasmutata molta gente cambiando condizion ricchi e mendici,54

e con la rivoluzione, voltando la ruota della fortuna, riinnalzata la gloria del mondo. Ancora tre tempi nell’itinerario di Can Grande: viaggio aperto dalla magnanimità del fratello. Primo: le promesse ardenti della giovine vita: parran faville de la sua virtude in non curar d’argento né d’affanni.

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Secondo: universale coro intorno alla sua magnificenza (acclamazioni e laudi: di tale rito di corte il Bisbidis di Immanuel Giudeo sarà il contrappunto mimico e minuto): Le sue magnificenze conosciute saranno ancora sì che ’ suoi nemici non ne potran tener le lingue mute.

Terzo: presagio di una missione arcana: «E porterà’ne scritto ne la mente di lui e nol dirai»; e disse cose incredibili a quei che fier presente.55

1

Pd XXVIII, 54. Pd XIV, 1. 3 Pd XIV, 7-9. 4 Pd XIV, 35-36. 5 Pd XIV, 44-45. 6 If VI, 109-110. 7 Pg XXX, 13-14. 8 Pd XIV, 64-65. 9 Pd XIV, 91-96. 10 Pd XIV, 97-99. 11 Pd XIV, 100-102. 12 Pd XIV, 103-108. 13 If X, 132. 14 Pd XIV, 112-116. 15 Pd XIV, 125. 16 Pd XV, 13-20. 17 Pg V, 37-39. 18 Pd XV, 28-30. 19 Pd XV, 37-39. 20 Pd XV, 46-48. 21 Pd XV, 67. 22 Pd XV, 74. 23 Né questo si dice per risospingere al dubbio la discussione sull’imperatore Corrado, fuor dalla certezza, ormai acquisita con ottime ragioni (cfr. PORENA, Cacciaguida e l’imperatore Corrado, postilla al c. XV, pp. 148 ss. del Commento) che si tratta di Corrado III: vero è che la verità storica della Crociata suonava favolosa ai contemporanei di Dante, non meno che il quadro degli antichi costumi. E su quel senso favoloso si fermò e fondò il più fiorentino dei dantologi storicisti, Isidoro Del Lungo. 24 Pd XV, 54. 25 Pd XV, 130-132. 26 Pd XV, 98. 27 Pd XV, 126. 28 Pd XVI, 102. 29 Pd XV, 140. 2

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Pd XVI, 76. Pd XVI, 79-80, 82-84. 32 Pd XVI, 67-69. 33 Pd XVI, 34-36. 34 Pd XVI, 37-39. 35 Pd XVI, 41-42. 36 Pd XVI, 47. 37 Pd XVI, 113-114. 38 Pd XVI, 136. 39 Pg XXIX, 119. 40 Pd XVII, 13. 41 Pg XXIX, 120. 42 If X, 130-131. 43 Pd XVII, 19-21. 44 Pd XVII, 112-115. 45 Pd XVII, 128; 133-135. 46 Pd XVI, 58-60. 47 Pd XVII, 55-56. 48 Pd XVII, 58-59. 49 Pd XVII, 61-62. Gioverà sottolineare che preludio al sacrificio è l’Agnus Dei, «l’Agnel di Dio che le peccata tolle» (Pd XVII, 33). 50 Pd XVII, 23-24. 51 Pd XVII, 27. 52 Pd XVII, 43-44. Sono emblemi tradizionalmente applicati a dir la conciliazione di libertà e prescienza: «Qui Pietro cita Origene, Ugo da S. Vittore, S. Agostino (De Civ. Dei, X), e il Maestro delle Sentenze (II, 13)», postilla il Tommaseo. Un moderno, e probabilmente d’accordo con Dante, preferisce la dichiarazione di Boezio. Ma è assurdo rifiutarsi a intendere l’intimo senso (poetico e spirituale e morale) degli accostamenti per cui l’immagine della nave, già circondata da un’aura canora, «mio legno che cantando varca» (Pd II, 3) esprime qui la bellezza armoniosa del disegno provvidenzale. Eppure, il Pietrobono, che tante altre volte lavora felicemente a stabilire le concordanze degli emblemi strutturali, raccomanda: «La similitudine riguarda solo la naturalezza con cui egli legge in Dio, non la dolcezza dell’armonia» (postilla al v. 43 del c. XVII, p. 218 del Commento cit.). 53 Pd XVII, 97-99. 54 Pd XVII, 89-90. 55 Pd XVII, 91-93. 31

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Il segno del Padre

Il giudice del Regno Quando il poeta sale nel cielo di Giove, dal culmine del secondo ternario di stelle, dal vertice della storia del mondo illuminato dalla Grazia, s’asside e giudica. S’è detto dell’amorosa sapienza del Sole e del martirio di Marte. S’è pur detto di un mistero trinitario dallo Spirito al Figlio. Se questo cielo è più direttamente immagine del Padre, se, per dir meglio, il suo segno (come le Corone per lo Spirito e la Croce per il Figlio) indica il tema conduttore per il contrappunto del poema, e dopo aver visto quale vita di fantasia illuminava e trascendeva gli altri due cieli, la lettura registra subito un divario: l’animazione lirica è qui tanto meno efficace quanto più la sua volontà d’uomo (e ripetiamo: attualità d’uomo, uomo di politica, soggetto non oggetto di storia, condizionato a una vicenda mentre tenta di imporle volonterosamente una direzione e capace di valutarla, non capace di trasvalutarla: cronista e polemista delle cose occorrenti ai suoi tempi, non poeta del tempo avvenire) quanto più la sua volontà d’uomo è tesa al fatto. Nella storia dell’intelligenza, che elenca le proposizioni fondamentali utili alla humana civilitas, la sua «Imitazione del Padre» ha un’importanza grande: se pur la sua meditazione del mistero trinitario par qui meno profonda e feconda che altrove, nel suo discendere dal tema della giustizia al tema della lotta, anzi della polemica per la giustizia. A chi rintraccia il suo pensare, anche più importante è la ricerca, nella giustizia, di un accordo tra virtù di natura e virtù di grazia, come se Fede, Speranza e Carità, raddoppiandosi su Temperanza, Fortezza e Prudenza, potessero esaltarsi nell’unico valore di Giustizia (o altra danza di concetti personificati che si possa aggiungere al caribo delle Tre e delle Quattro intorno al Carro: al tramontare e al sorgere delle luci sante dal volto di Catone alla Valletta dei Principi). Imponente, nella cerchia di una letteratura che traduce volonterosa in suggestione di giudizio intellettuale l’ipotesi affidata all’immagine, quel suo dilatarsi, dopo aver giudicato le potestà terrene, a giudicar del Regno, quasi brandendone lui le chiavi, in nome della Giustizia che, con l’intercessione di un papa, salva il giusto Traiano, e, nell’abisso del consiglio di Dio, il «giustissimo» Rifeo: che promette infine salvezza a chi segue Cristo, pur senza conoscerlo: Ma, vedi: molti gridan «Cristo, Cristo!», che saranno in giudicio assai men prope a lui, che tal che non conosce Cristo;

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e tai Cristiani dannerà l’Etiope, quando si partiranno i due collegi, l’uno in etterno ricco, e l’altro inope.1

Vedi dunque, lungo questo intellettuale viaggio dalla politica alla teologia, che se immobile (e ritroso) è il poeta nel partecipar dall’alto del suo trionfo alla polemica, ancor l’intimo suo essere si mette in moto verso quelle zone remote di pensiero dove se non giunge la sua poesia giunge l’ingegno.

Andamento rapsodico del canto XVIII Il canto XVII termina con uno stupendo paragrafo della sua riflessione sull’arte: poetica dell’evidenza, «l’animo di quel ch’ode non posa / né ferma fede, per essemplo ch’aia / la sua radice incognita e nascosa, / né per altro argomento che non paia».2 Il canto XVIII s’inizia con il conforto di Beatrice che lo toglie dai pensieri tristi chiamandolo a Dio, cui ella è dappresso. Ma Cacciaguida ha da adempiere anche al solito compito di nomenclatore; e se Beatrice condiscende, ché non pur ne’ miei occhi è Paradiso,3

«la voglia / in lui di ragionarmi ancora alquanto»4 s’appaga. Poco rilievo ha il catalogo degli Eroi; e la gerarchia del moto, dal lampeggiare di Giosuè e dal rotar di Giuda Maccabeo, via via rallentando fino a Goffredo e a Roberto Guiscardo, non basta ad altro che ad una animazione registica e spettacolare. Un ultimo appiglio con la drammaturgia dell’uomo solo e dell’umiltà esaltata, che nel cielo dei martiri ha qualche richiamo, ha una terzina, gnomica solo all’apparenza: E come per sentir più dilettanza bene operando, l’uom di giorno in giorno s’accorge che la sua virtute avanza…5

Ancora un ritorno a una memoria vaga di care immagini terrene è la similitudine della donna che rapidamente trascolora. Quindi hai il rito dell’epigrafe: «Diligite iustitiam qui iudicatis terram». Il proclama dell’uomo assurto al segno del Padre, anzi dell’Imperator che lassù regna, è circondato di ogni fasto: decoro di un’animata similitudine: E come augelli surti di rivera…6

solennità dell’invocazione alla Musa: O diva Pegasea che li ’ngegni fai gloriosi e rendili longevi, ed essi teco le cittadi e ’ regni, illustrami di te…7

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Ma che la poesia risponda all’invocazione, che «paia sua possa in questi versi brevi», che meriti il canto la superba sintesi didascalica «illustrami di te», non diremmo. E nemmeno, dopo il rito del proclama alla politica del mondo, il rito dell’Aquila ha virtù poetica che non sia nell’astratta rispondenza del simbolo. Forse per questo, se accettiamo di trasferirci una volta tanto dalla psicologia della poetica alla psicologia dell’uomo poeta, allo scadimento della forza immaginativa egli sostituisce l’invocazione, la satira, l’invettiva. Superbo esempio di satira politica il mimo di papa Giovanni XXII affascinato dal fiorino, che per san Giovanni (che è selvatico e sciocco) rinnega, uomini dappoco, san Pietro e san Paolo. Ma fino a che punto riesci a dimostrar che il frammento è necessario al discorso? O non è un accorrere del poeta a sanzionar l’investitura dell’uomo nella dignità di giudice? Per la prima ed unica volta il poeta si trasferisce dal tempo del viaggio immaginato al tempo della sua scrittura: non vive più assorto nel fatidico Milletrecento; dispensa grazie là accumulate; parla ad un uomo, il papa, al tempo della polemica antipapale di Cangrande.8

I temi attivi Un verso rimane sospeso nel canto, utile alla vicenda prossima O milizia del ciel cu’ io contemplo, adora per color che sono in terra.9

E un’immagine misteriosa diventa pregnante: ch’io vidi e anche udi’ parlar lo rostro e sonar ne la voce e io e mio, quand’era nel concetto noi e nostro,10

a indicar quella singolarità d’investitura per cui l’uomo giusto raccoglie in sé e celebra la vita di una intera collettività operosa: vivo, l’uno e solo, nella comunione dei santi. E la variazione di un tema noto, l’impossibilità che la creatura colmi l’immensità dell’Essere divino, apre lo spazio alle due lezioni: l’una ricca della devozione di un orgoglio intellettuale che s’umilia e si sente esaltato nella imperscrutabilità del giudizio, invoca su di sé la grazia illuminante, cui accordarsi in allegrezza: Lume non è, se non vien dal sereno che non si turba mai; anzi è tenebra, o ombra de la carne, o suo veleno.11

L’altra, spalancati i termini della salvezza di là da ogni orgoglio di politeia cristiana occidentale, a Mezzogiorno e ad Oriente, agli Etiopi e ai Persi, grandina invettive sopra la lue del mondo, i malvagi reggitori che non si son fatti interpreti della volontà divina raggiante per il cielo di Giove. 297

Accento intimo e trionfale È da notare che la polemica politica dell’epilogo del canto XIX, sentenza di condanna sui principi del mondo, ritorna a quella centralità di cronologia ideale che fa capo all’anno della visione: pur nella guerra acerba contro i monarchi, e in particolare contro quelli della Casa di Francia, c’è un principio di distacco che non avvertivi nel mimo atroce del papa di Caorsa al termine del canto XVIII. Il XX è già in pace, quasi che s’affretti a quel trasferirsi anche più in alto della tappa giudiziale del primo o (meno) del secondo canto dell’Aquila: quasi che l’investitura che l’uomo solo, soccorso dalla Grazia, uno della Chiesa giudicante, pur se non abbia autorità terrena, trascenda l’atto della riprensione acerba e possa salire ad un’intelligenza amorosa di loro che il senso comune dichiara dannati; quasi, per leggere più concretamente in quella suggestione della poesia che il poeta stesso è il primo a intendere e obbedire, che l’urgenza del canto, insieme intimo e trionfale, rassereni lo spazio. E intimo e trionfale è il preludio stellato, pur nella calcolata suggestione scenografica di quel subitamente si rifà parvente,12

a dir del cielo che, consumato il giorno, si costella di luci. Ma altra volta è stato detto così l’apparir delle stelle fioco e incerto nel cielo del vespro? Anche più suggestivo il preludio musicale che sale per il collo dell’Aquila, fattasi strumento: udir mi parve un mormorar di fiume che scende chiaro giù di pietra in pietra mostrando l’ubertà del suo cacume.13

Ad annunziare i «fuochi sommi» ci attenderemmo non so che squillo di tromba, come un tempo per Traiano, che qui è nominato secondo dopo re Davide; invece il preludio annunzia un’estasi sonora, un commento sinfonico, misterioso e puro. Il fatto è che l’animazione lirica del canto è di umiltà fervorosa, e quei liquidi suoni di cetra e di zampogna e d’acque correnti sono attratti dalla menzione di Davide. «E più e men che re era in quel caso» aveva detto dello stesso episodio che qui rammenta, il cantor de lo Spirito Santo che Arca traslatò di villa in villa,14

e l’aveva raffigurato col verso «trescando alzato l’umile salmista»:15 mansuetudine della Giustizia nel terzo tempo e regno dello Spirito Santo. Anche gli altri atti dei ritratti regali sono disformi dalla vana prosopopea dei principi vivi, effigiati nei gesti turpi del canto che precede: Alberto, devastando il regno di Praga, muove la penna della Giustizia che registra il suo peccato; Filippo il Bello falsa la moneta e muore per l’assalto di un cinghiale; Edoardo I d’Inghilterra e 298

Roberto Bruce di Scozia folli di superbia; lussuria e mollezza di Ferdinando IV di Castiglia; viltà di Venceslao di Boemia e di Carlo II Zoppo; sino a «quel di Rascia» che ripete la gesta falsaria di Filippo: schiera di bestie. Qui hai l’umiltà di Traiano che «la vedovella consolò del figlio»; e la penitenza di Ezechia, che «morte indugiò per vera penitenza»; e la rinunzia di Costantino «sotto buona intenzion che fé mal frutto»; e Guglielmo di Sicilia e di Puglia, pianti dalla terra che ora piange Carlo e Federico viventi; qui Rifeo: ma alla sesta anima basta il mistero della Grazia invincibile, al cui prodigio in silenzio s’abbandona. Come in un commiato, a ciascun nome, suggellato dal suo tema, corrisponde una meditazione, «ora conosce…» e l’intensità della meditazione s’accresce di nome in nome, finché inneggia in Rifeo: ora conosce assai di quel che ’l mondo veder non può de la divina grazia, ben che sua vista non discerna il fondo.16

Qui lo schema antifonario e corale cede alla timida effusione della melodia: Quale allodetta che ’n aere si spazia prima cantando, e poi tace contenta de l’ultima dolcezza che la sazia.17

La meraviglia percuote l’accolito del Regno: «Che cose son queste?», cui risponde non già sdegno, ma gaudio. E dopo l’esegesi dell’evangelico Regnum caelorum vim patitur et violenti rapiunt illud, che interpreta la violenza come una conquista amorosa e ardita, introduce il mistero di Traiano e il mistero di Rifeo. L’accento è di meraviglia, perché ne vedi la region de li angeli dipinta,18

perché le due anime adornano i cieli, retti dalle angeliche intelligenze; ma è circonlocuzione necessaria a introdurre il mistero: la rivelazione della verità è messaggio angelico, nel segreto di una fede in Cristo misteriosamente schiusa in cuore: «fede implicita», dice la Somma di san Tommaso. Il mistero di Traiano è mistero della speranza: e ciò di viva spene fu mercede, di viva spene che mise la possa ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla,19

e nella speranza, venuta la seconda vita, s’accorcia il tempo dell’attesa, arde il fuoco della carità. Ma il mistero di Rifeo è senz’altro mistero della carità, evocato da lontananze prodigiose, nell’abisso dei cieli.

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L’altra, per grazia che da sì profonda fontana stilla, che mai creatura non pinse l’occhio insino a la prima onda, tutto suo amor laggiù pose a drittura.20

Il cantore della rettitudine, come definisce se stesso nel libro della Rettorica, scopre la direzione del suo meritare; e lo stilnovista che aveva riportato accenti della sua poesia giovanile nelle scene del Paradiso Terrestre, ancora si rammenta di quella danza: Quelle tre donne li fur per battesmo che tu vedesti da la destra rota.21

Ma il ricordo più vivo è del rito del fiume e della fonte nella canzone dei Grandi Discacciati. La storia di Rifeo ripete il senso della biografia interiore di Dante: dalla giustizia lo soccorrono altre grazie di rivelazione; e come quelli ebbe fede nei piedi «passuri» che aprono la via della verità e della vita, ecco lo sdegno magnanimo verso la paganità quando trionfava: ond’ei credette in quella, e non sofferse da indi il puzzo più del paganesmo; e riprendiene le genti perverse.22

«Iustissimus», dice Virgilio, «et servantissimus aequi»: amore alle radici della Fede e delle opere.

1

Pd XIX, 106-111. Pd XVII, 139-142. 3 Pd XVIII, 21. 4 Pd XVIII, 26-27. 5 Pd XVIII, 58-60. Non dovrebbe sfuggire l’accentuazione autobiografica della terzina: appressandosi ad essere giudice del Regno, Dante ascolta e annota una realtà, la gioia del suo ben fare, che tollera una precisazione cronologica della sua autobiografia interna. Ragionando su questo dato di lettura molto si spiega così dell’andamento della narrazione, che è tutta divisa e occasionale (vedi le superfetazioni dei concetti della poesia, di cui ragiona il COSMO, L’ultima ascesa, cit., p. 249: «Messosi per la via di piegare l’arte alla rappresentazione d’una successione di concetti, nessuna difficoltà poteva più trattenere il poeta»), come dell’annotata interruzione della cronologia interna della Commedia, il mimo del papa caorsino. 6 Pd XVIII, 73-75. 7 Pd XVIII, 82-85. 8 Così lo ZINGARELLI, La vita, cit.: «Il rimprovero tocca l’arrogante cassazione delle sanzioni e dei decreti imperiali di Enrico VII, pei quali si annullavano la condanna di Roberto e la nomina di Cangrande a Vicario: questo è il gran delitto del caorsino rispetto all’aquila, che qui si glorifica». E potremmo condiscendendogli su questa via, che lo conduce a circostanziare la Monarchia nella stessa polemica, fissare un anno, il 1317, l’anno della scomunica di Can2

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grande: ma la lettura degli ultimi testi databili della cronografia dantesca ci avverte dei modi del suo finale distacco dal contingente, e del capovolgersi, se mai, della commedia in mimo. 9 Pd XVIII, 124-125. 10 Pd XIX, 10-12. 11 Pd XIX, 64-66. 12 Pd XX, 5. 13 Pd XX, 19-21. 14 Pd XX, 38-9. 15 Pg X, 65. 16 Pd XX, 70-72. 17 Pd XX, 73-75. 18 Pd XX, 101-102. 19 Pd XX, 108-110. 20 Pd XX, 118-121. 21 Pd XX, 127-128. 22 Pd XX, 124-126.

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«Contento di pensier contemplativi»

Due similitudini e un divario Due similitudini parallele, l’una del cielo di Giove, l’altra di questo settimo cielo di Saturno, possono offrirci la nozione di un divario, e di un diverso acquisto. Il preludio del proclama ai giudici della terra, scritto dalle anime trionfanti, era affidato a un giuoco di voli (forse di trampolieri piovanelli? Ornitologia toscana e lettura di Dante ricca di compiacenze paesane van d’accordo; ma non credo che nella sintassi della memoria Dante non riaccosti le gru, facendo in aer di sé lunga riga; o gli storni nel freddo tempo a schiera larga e piena): E come augelli surti di rivera, quasi congratulando a lor pasture, fanno di sé or tonda or altra schiera, sì dentro ai lumi sante creature volitando cantavano.1

Ma la similitudine delle cornacchie, qui, è più precisa di nome e di fatti, più indecisa di rispondenze: E come, per lo natural costume, le pole insieme, al cominciar del giorno, si movono a scaldar le fredde piume; poi altre vanno via sanza ritorno, altre rivolgon sé onde son mosse, e altre roteando fan soggiorno; tal modo parve a me che quivi fosse.2

Dal parallelo t’accorgi che là mirava a disciplinar le immagini vaghe, qui per contro le avvia e s’accomiata: là, ancora un presagio e un auspicio; qui, un congedo. Canti di epilogo, infatti, questi due di Saturno, che attendono (e il tempo passa presto nella consueta misura) l’inno alla costellazione dei Gemelli e lo sguardo gettato giù al mondo che torbido e greve s’allontana.

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Il silenzio Silenzio, in quel cielo; e Beatrice non ride, consumandosi ivi tutta la vita nell’intimo. La musica, sottintesa od aperta, con quella misura d’assister perpetuo e d’ininterrotto intervento che sarà pur del coro sinfonico nel teatro dell’opera (era il rapporto studiato fra il coro e la monodia nel polifonismo rinascimentale: per indicare un modo di stretta attinenza dantesca), qui tace: e nella meraviglia sospesa ancora odono i beati. Beatrice par salire in silenzio e non guardarlo, mentre fra sé mormora: «S’io ridessi» … tu ti faresti quale fu Semelè quando di cener fessi: ché la bellezza mia, che per le scale dell’etterno palazzo più s’accende, com’hai veduto, quanto più si sale, se non si temperasse, tanto splende, che il tuo mortal podere, al suo fulgore, sarebbe fronda che trono scoscende.3

Scale… palazzo… fulgore… Fuori, un albero denudato dal fulmine: dentro gli specchi, in un gioco di riflessioni contrapposte: Ficca di retro a gli occhi tuoi la mente, e fa di quelli specchi a la figura che ’n questo specchio ti sarà parvente.4

La scala d’oro Appare infatti, quasi nascendo da una meditazione interiore, la scala d’oro, il magico segno dell’ultimo cielo, il visibile annuncio dell’Empireo senza luogo: di color d’oro in che raggio traluce vid’io uno scaleo eretto in suso tanto, che nol seguiva la mia luce.5

Visione di sogno, dunque, ma tale che non denunzia il limite fra il sonno e la contemplazione assorta: la trasparenza dell’oro è visione, il salire interminabile è di sogno. Anche l’apparir dell’anima che dovrà parlargli ha un che di sospeso; e Beatrice stessa, che indugia a consentire l’inchiesta, dì che rimane entro una zona che, per esser più profonda, par distratta. I colloqui avvengono in quel globo di vuoto silenzio, entro un incomprensibile stupore:

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«Tu hai l’udir mortal sì come il viso», rispose a me; «onde qui non si canta per quel che Beatrice non ha riso».6

Anche il pellegrino, in quel lume, davanti quella scala, nel tacer stupefatto, pare stranito; mentre parla, sogguarda: Vita beata che ti stai nascosta dentro a la tua letizia, fammi nota la cagion che sì presso mi t’ha posta.7

Ad ogni spirito «di sua seta fasciato»,8 «chiuso e parvente del suo proprio riso»,9 poteva chieder lo stesso. Perché a questo? Tutto è gratuita gioia, lassù: Giù per li gradi de la scala santa discesi tanto sol per farti festa.10

Quanto a capire il motivo di un divisamento divino: Ma quell’alma nel ciel che più si schiara quel Serafin che ’n Dio più l’occhio ha fisso a la dimanda tua non satisfara.11

Incomprensibile gioia è la risposta; e definisce, se non il perché, i modi di questo dialogar nuovo, che par che abbia bisogno, alla lettura, di una numerazione per paragrafi: «Così ricominciommi il terzo sermo»;12 distaccato parlare e rispondere, che nel discorso lascia cadere spazi distratti.

San Pier Damiano Tanto giova a trasvalutare l’incontro di Dante con san Pier Damiano. Osservato dal di qua, da questa sfera della polemica e della storia, e della biografia, l’opportunità par manifesta: il gran cardinale a colloquio con il laico che nella lettera ai cardinali italiani aveva pur tremato di toccar l’arca «per cui si teme officio non commesso»: il riformatore acerrimo, che tradusse in termini di polemica e di politica italiana, con una passione dolorosa e attiva, le alte intenzioni del movimento cluniacense, e il fiorentino esule che via via contraddetto dal tempo saliva ad una integrazione personalissima della storia, del costume e della parola; entrambi in meditazione sui monti: entrambi, al tramonto, «in sul lito adriano». Ma il poeta vuole che l’incontro non sia giustificato dal basso, da una casualità del costume e del tempo: vuole che discenda dall’alto; si riconoscono in Dio le due anime, non nei casi contraddittorii della storia: e in Dio sono fraterne quelle che nel tempo e nella condizione sociale erano distantissime. Ancora una volta, trasvalutazione: un salire più in alto per poter comprendere. E da quell’altezza 305

l’incontro (un incontro senz’occhi, senza sorriso, di parole monche e in sé mute) rivela l’una anima all’altra: non solo Pier Damiano si svela, ma Dante a Dante. Riconosce la patria, «Tra’ due liti d’Italia surgon sassi, e non molto distanti a la tua patria»…13

Su quei monti egli erra; da quei monti, guardando in basso, cercava Firenze: nei giorni di tempesta (forse è un ricordo, forse è un’immagine ch’egli introduce nella varia epopea appenninica che ha cantato: anche il Pratomagno e il Gran Giogo, nel canto della sera di Campaldino, li vede avvolti di nembi tempestosi) gli par di alzarsi sulle procelle del mondo. Alle radici di quei monti, nelle tappe dei suoi viaggi, sostava nei solitari cenobi a meditare, a pregare. Anche il ritmo dei giorni conventuali, e la stessa pratica dei digiuni, che accomunava il laico del Terz’Ordine ai monaci, dovette essere di certi suoi giorni, vuoti di cibo e d’anima sospesi: «pur con cibi di liquor d’ulivi», «contento ne’ pensier contemplativi».14 Versi, come quel tempo, e gli atti, e i pensieri, liquidi e paghi.

Satira dei prelati In tale disposizione d’animo la satira politica è violenta sì, ma par meno acerba che quella di Giovanni XXII. Là il giudice incalzava con una forza tremenda il mimo: qui non hai la commedia di una maschera pontificale, ma una caricatura descrittiva, pur fiera di segno e di tratto come una di quelle xilografie che accompagnarono le polemiche della riforma; in alto, un cappello cardinalizio: sotto quel segno, l’affollarsi di una coorte di servi, intorno al pingue dignitario: Or voglion quinci e quindi chi i rincalzi li moderni pastori e chi li meni, tanto van gravi, e chi di rietro li alzi,

e in basso quei panneggi gotici ad angoli duri, l’ira di pochi segni audaci della sgorbia: cuopron de’ manti lor i palafreni, sì che due bestie van sott’una pelle.15

Ma la conclusione è anch’essa assorta e remota: «oh pazienza che tanto sostieni!». Rapidissimo il rito onde le anime discendono dalla scalea e si raccolgono intorno a san Pier Damiano: come i monaci accorrendo dalle loro celle, che s’affollano intorno ad uno, commentano con unanime grido la sua voce: «e fero un grido».16 Ma il tuono, come di quei nembi del Catria, suona più basso che i gioghi dei monti.

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San Benedetto Tempo è di salire. Si accertano, come d’una reciproca fede, che la vendetta divina verrà. Non importa quando: verrà. Pensieri di morte hanno corso le ultime rime: morte estatica ed approdo alla vera vita, non rovello di chi si sente sfuggire la vendetta; ed è un modo (se rammenti un commiato di Cacciaguida, «non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie») di ricomporsi nella serenità dell’anima riconciliata a Dio: ogni incontro paradisiaco è, nel suo significato pieno, una «confessione». Quel grido dei Beati vien sopra la voce di Pier Damiano; e la voce sullo scherzo che disdegnosamente allontana la brutta figura. Il tempo dell’attesa deve ormai essere in pace: del resto, accadrà prima che muoia. La spada di qua sù non taglia in fretta né tardo, ma’ ch’al parer di colui che disiando o temendo l’aspetta.17

Leggendo, non legare a una cronologia esterna la maggiore o minore urgenza dell’attesa; né dire che questa minore risponde all’incertezza degli ultimi tempi della sua vita: forse che l’invettiva di san Pietro è meno ricca di tempo, di volontà attiva, di ferma attesa che la profezia di Beatrice nella Foresta? Non si tratta di trovare un’astratta situazione cronologica, ma una concreta situazione poetica; e qui, se dalle celle i cenobiti sono accorsi per un grido concorde, conviene che dopo un saluto s’accomiatino, e tornino ai loro pensieri: sui mali sono d’accordo; sulla certezza che sui mali pioverà la vendetta divina, sono d’accordo; quando l’accordo è così generale, un’insistenza parrebbe indiscreta. Per ogni grado del viaggio l’ira dantesca passa per una fase di tensione: la scena dei Giganti e della Meretrice n’è una, il giudizio di papa Giovanni un’altra, l’invettiva di san Pietro una terza; il Paradiso Terrestre; il Paradiso delle Stelle: e prima che i Beati lascino il loro messaggio tornando al cielo Empireo, dopo avervi ammesso Dante. Un ragionamento in parte simile seguirai per l’episodio di san Benedetto. Non è un episodio drammatico, cioè non procede alla designazione di un personaggio attraverso un dialogo e un’azione: tali modi sono della poetica della prima cantica; e nemmeno studia narrativamente il situarsi di un’anima in una cerchia concorde e in un’atmosfera: è la poetica della seconda. Concordemente ai modi della terza, dove l’anima si fa lettore di un sermone, o diacono di un annunzio evangelico, o cerimoniere di un’officiatura liturgica, e talvolta panegiristica e talvolta predicatore, hai qui la storia di san Benedetto e dell’Ordine, introdotta come riassunto di tutti quei modi; un episodio parafrastico, insomma: quasi le ultime raccomandazioni pressanti di un commiato. Appunta, leggendo, le concordanze più evidenti: Quel monte a cui Cassino è ne la costa18

è immagine che certo ripete quella di Assisi: il riassunto dell’opera missionaria di Benedetto, 307

e tanta grazia sovra me relusse ch’io ritrassi le ville circunstanti da l’empio colto che ’l mondo sedusse,19

ripete in cifra l’agiografia di Domenico e riecheggia modi del ritratto di Giustiniano; così della presentazione di Macario e di Romualdo: è un accento della seconda corona. Forse solo un tema, uomini fuoro, accesi di quel caldo che fa nascere i fiori e ’ frutti santi,20

è preludio a quel «caldo d’amore» che fiammeggia nel cielo Empireo. Anche la satira dei conventi, terza delle più intente, con quella del Papa e quella dei Cardinali, è la meno fervida, quella dove s’azzuffa più da lontano: Ma, per salirla, mo nessun diparte da terra i piedi…21

Anche la polemica per le ricchezze che la Chiesa custodisce, che sono «de la gente che per Dio domanda», par stanca. non di parenti né d’altro più brutto,22

e per la prima volta si pensa, da Dante riformista, che la carne è inferma: anzi, dice, blanda. Del resto, Dio ha fatto miracoli più grandi che il rimedio di questi mali. Veramente Iordan volto retrorso più fu, e ’l mar fuggir, quando Dio volse, mirabile a veder, che qui ’l soccorso.23

Attesa dell’Empireo Altro tema d’attesa è questo: perché non può mirare scoperto il volto dell’interlocutore santo? Però ti priego, e tu, padre, m’accerta, s’io posso prender tanta grazia, ch’io ti veggia con imagine scoverta.24

«Alto desio» lo chiama, rispondendo, Benedetto; ma è desiderio che sarà appagato solo nel cielo Empireo, quando di tutte le anime sante vedrà il vero volto. Filosoficamente, è argomento incommensurabile: quello è il termine della concretezza, quel divino luogo senza tempo:

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Ivi è perfetta, matura ed intera ciascuna disianza: in quella sola, è ogni parte là ove sempr’era, perché non è in loco, e non s’impola.25

In questo cielo dei contemplativi il termine di ogni moto è il cielo Empireo; e nel silenzio assorto cercano in Dio la certezza della propria vita, il loro essere eterno: e nostra scala infine ad essa varca.26

Inno alle stelle natali Distacco, dunque, e congedo: ché il canto anela alla scala santa. La scande di volo, con più fretta che corse la scala dopo il settimo cerchio di Purgatorio; e non Virgilio l’attende con la sua corona, ma capovolti i cieli dei Pianeti, e torbida, minuscola la Terra. Quelli son ora la sua corona. Il commento è stupendo: dall’alto della stella nativa, gli eterni Gemelli, il poeta innalza un inno che gli riconcilia il mondo, nel segno del sole, e la terra amara di Toscana: con voi nasceva e s’ascondeva vosco quelli ch’è padre d’ogni mortal vita, quand’io senti’ di prima l’aere tosco.27

E riconoscendo loro, «lume pregno / di gran virtù», tutto, qual che si sia, il mio ingegno,28

non è solo che contraddica il sospetto di un influsso definitivo sopra di sé dei cieli sottostanti, e in ispecie di Mercurio e di Venere, ma abbraccia col senso della sua nativa potenza poetica più tratto che lui stesso od altri abbia mai percorso. Inno modulato, dunque, secondo regole di retorica; ed appoggiato ad un emblema umanistico del poeta per antonomasia, ma, girato in cerchio, il simbolo è strofe; e le stelle fanno alle parole sentiero e alla figura corona. Se prima aveva invocato le Muse, ora le Stelle; ma per ricondurre alle schiere della Chiesa Trionfante, che gli si faranno incontro, un sembiante felice, egli deve riassumere con uno sguardo lo spazio celeste fin qui percorso. Una battuta per ogni astro: la Terra disprezzata, la Luna nitida, il Sole (sfolgora il verso titanico: L’aspetto del tuo nato, Iperione, quivi sostenni),29

mentre i pianeti minori, invocati i progenitori, Maia e Dione, gli si muovono accanto; e Giove, temperato fra il torrido Marte figlio e il freddo Saturno, padre. 309

Inno delle geniture divine; ma l’aspetto della terra, al primo moto sprezzata, «tal ch’io sorrisi del suo vil sembiante», quando vi ritorna s’apre sospeso: L’aiuola che ci fa tanto feroci, volgendom’io con gli etterni Gemelli, tutta m’apparve da’ colli a le foci.30

Perché vi ritorna? E non è gaudioso quel suo guardarla nella varietà innumerevole dei suoi aspetti? In realtà, attende di tornarvi, quando la veda stendersi sotto di lui rotante, nella cornice dei mitici segni di Ulisse e d’Europa.

1 Pd XVIII, 73-77. Bene Cristoforo Landino: «Gru, ceceri e simili»: che mostra averli così, quegli animali, visti, non meno che Chichibio; del resto, per le gru sta l’autorità massima in materia, Holbrook. Il Porena, elegantemente, nel cit. Commento: «Mi assicura Guido Prola, che cumula in sé le qualità di artista esimio, ornitologo e cacciatore, che la descrizione dantesca corrisponde perfettamente a quel che fanno i piovanelli, trampolieri che si vedono numerosi sulle rive dell’Arno». Appunto, il poeta lascia alle nostre immagini familiari anche la libertà del nome. 2 Pd XXI, 34-40. 3 Pd XXI, 4-12. 4 Pd XXI, 16-18. 5 Pd XXI, 28-30. 6 Pd XXI, 61-63. 7 Pd XXI, 55-57. 8 Pd VIII, 54. 9 Pd XVII, 36. 10 Pd XXI, 64-65. 11 Pd XXI, 91-93. 12 Pd XXI, 112. 13 Pd XXI, 106-107. 14 Pd XXI, 115; 117. 15 Pd XXI, 130-134. 16 Pd XXI, 140. 17 Pd XXII, 16-18. 18 Pd XXII, 37. 19 Pd XXII 43-45. 20 Pd XXII, 47-48. 21 Pd XXII, 73-74. 22 Pd XXII, 83-84. 23 Pd XXII, 94-96. 24 Pd XXII, 58-60. 25 Pd XXII, 64-67. 26 Pd XXII, 68. 27 Pd XXII, 115-117. 28 Pd XXII, 112-114. 29 Pd XXII, 142-143. «Ed è cagione di gioia grande superare gli ostacoli che una volta parvero invincibili. Non più la sola Beatrice può affissar gli occhi nel nato d’Iperione, nel sole… Cfr. Par. I, 48, Purg. XXX, 27» (TORRACA, Commento cit.) 30 Pd XXII, 151-153.

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Il trionfo della Chiesa

Poesia metafisica Terminata la lunga officiatura conventuale e liturgica dal quarto al settimo cielo, il Poeta è libero davanti la sua materia: direi che la materia stessa s’annulla, che la sostanza della poesia, se per tale poetica dell’Essere possiamo ristabilire una preliminare antitesi di contenuto e di forma, è tutta trascendentale, che il Poeta rivive l’atto puro del suo indiarsi. Questo soprattutto nel canto vigesimoterzo: ché i canti dell’esame, anzi della «confessione», o professione di fede, parranno richiamar limiti di struttura al canto; e il poeta camminerà sulla passerella delle definizioni teologali, dovrà riconquistar l’esser suo in una occasione minore; e gli stessi canti empirei capovolgeranno il processo della sua fantasia: quell’eterna certezza senza spazio, quella realtà finalmente concreta senza legge di natura, quel governo immediato dell’Essere, graveranno su di lui come un nuovo peso, aboliranno ogni prospettiva facendo tutto presente; non ci sarà più bisogno di collaborare alla creazione determinando sempre nuova realtà, se l’anima approda fuor del flotto della creazione all’immobile mare dove tutto è presente, colmo, divino, dove è vero il sogno surreale d’una realtà pura, non assistito dal divenire dell’Io. Poesia metafisica? Diciamo così per intenderci: può esservi poesia altro che metafisica, un puro trovarsi? Ma l’accento di questa ultima tappa del viaggio cade sulla libertà sconfinata del muoversi verso l’Essere con la naturalità purificata dell’Io più sgombro e più pronto: mentre nella prodigiosa immobilità dell’Empireo, comunque variata e contraddetta, la concretezza infinita della realtà par turbare quella assoluta disponibilità del Trionfo; e la disponibilità riprende infatti in quel terzo tempo dell’ultimo viaggio che è l’atto supremo della contemplazione beatifica di Dio, dalla preghiera di san Bernardo a Maria alla visione trinitaria. Problemi strutturali in questo canto non si presentano.

Liturgia della Chiesa Trionfante Trionfo di Cristo? Anzi, le schiere del suo trionfo: ché Cristo irraggia dall’alto l’incontro di Dante, finalmente prossimo ad essere assunto fra la cittadinanza celeste; e pioggia di lumi, a compiere il moto onde di soglia in soglia le anime s’erano avvicinate a lui, realizzando nella parzialità di un simbolo un processo che si attuava già fuor dal tempo (le anime, senza incarnarsi, non possono incontrar le creature se non in una presenza extraspaziale). Trionfo è dunque parola che ha già l’accezione petrarchesca e rinascimentale. Qui ci si ricordi della processione mistica del Para311

diso Terrestre: anche là Cristo, in figura di Grifone; anche là la Chiesa in figura di Carro. Emblemi e figure appunto; ma qui, presenze; dove la luce e la fiamma sono introdotte ancora come simbolo sì e parola (parabola), ma per negarsi: sono il meno di sostanza e il più di spirito onde una presenza possa essere più puramente allusa. Una processione dunque che si risolve quasi in nulla: una pioggia di lumi che discende, una pioggia di lumi che risale. In nulla e in tutto: perché in quella infinità di presenza infinita, assottigliatasi ogni corporeità a non esser che velo di fiamma, velo di luce, velo del tempo, il viaggio del poeta s’apre più lontano, ai limiti dell’infinito: dove finalmente, alle sue soglie, arriva. Cristo, con la sua Chiesa, si fa incontro al Pellegrino; e dopo tanta guerra d’Inferno, e scuola ascetica di Purgatorio, e conventuale liturgia di Paradiso, quella finalmente è la Chiesa trionfale, in vetta ad una trascendenza suprema: ché più in là non è più Chiesa, è presenza immediata di Dio. Dicevamo: tre tempi dell’ultima ascesa, dei quali il terzo è appunto questa presenza immediata; e il secondo è l’Empireo; ma il primo, che qui s’apre, è quello dove Fede, Speranza e Carità sussistono ancora, ma sublimate nella loro umanità più intensa ed alta: modi verso il possesso di Dio Trino ed Uno, secondo la meditazione trinitaria, che Dante ancora una volta ripercorre; e di sé medesimo a specchio: fede nella Fede, e speranza della Speranza, e carità d’Amore: fiso guardando pur che l’alba nasca.1

Poesia del canto XXIII Di là dall’alba e dal sole muove Beatrice, eretta ed attenta allo zenith del cielo stellato, dove s’aprirà il trionfo dei Santi, raggiato dall’altissimo lume di Dio. Poesia degli spazi immensi, ondante fra l’infinito e la purità miracolosa dell’immagine nitida, cristallina nel suo rigore; poesia del cielo notturno, mito della Luna e delle Stelle in una dolcissima pace: Quale ne’ plenilunii sereni Trivia ride fra le ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni…2

poesia delle meteore, pacifiche esse pure nella loro intrinseca necessità, che le fa parere strane, e non sono, Come foco di nube si diserra per dilatarsi sì che non vi cape e fuor di sua natura in giù s’atterra, la mente mia così, fra quelle dape fatta più grande…3

poesia del bel quadro compito, nell’equilibrio perfetto, esultante della luce e dei volumi, nell’obbedienza della natura all’immagine, che è scelta dall’uomo, ma 312

all’uomo si impone con la sua evidenza, perché l’ammiri senza fantasticarvi, e gli basti tradurla dal vero al quadro: Come a raggio di sol che puro mei per fratta nube già prato di fiori vider, coverti d’ombra, li occhi miei…4

e mito, infine, di quel tendere, affidato al simbolo più dimesso onde si ripeta il suggestivo divario fra l’umiltà del motivo e l’altezza del tema, ma forse anche per meditare l’iconografia degli angeli in figura d’infanti e la novità d’un suo tema: del poeta infante allattato da Polinnia e dall’altre Muse: E come fantolin che ’nver la mamma tende le braccia, poi che ’l latte prese, per l’animo che ’nfin di fuor s’infiamma, ciascun di quei candori in sú si stese con la sua fiamma, sì che l’alto affetto ch’elli avieno a Maria mi fu palese,5

e del cristiano verso la materna corredentrice. Tali le prove della sua nuova disponibilità alla poesia e forza dell’immaginare: che riflessivamente così intende, e con due altre immagini raffigura: Io era come quei che si risente di visione oblita, e che s’impegna indarno di ridurlasi a la mente.6

Alla disponibilità totale risponde un crepuscolo greve della memoria, come piovendo le immagini nel processo autonomo di una creazione surrealistica; poi, di slancio: E così, figurando il Paradiso, convien saltar lo sacrato poema, come chi trova suo cammin riciso.7

Non hai successione, non storia, non drammaturgia, nel canto. Tutto è presente, come sarà nell’Empireo, dove non è distanza. Qui è la Chiesa Trionfante. Qui è la luce di Cristo. Qui l’Angelo o gli Angeli in figura di corona di fiamma che perpetuamente gira, finché il trionfo non tornerà al suo cielo. Qui è canto: Regina coeli.8

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Il riso di Beatrice Qui è riso di Beatrice: l’amante la contempla stupefatto, ascolta in sé la meraviglia di quel riso indicibile, ché «il suo riso arde tutto», la ringrazia, di lei e delle migliaia di lucerne cui sovrasplende un Sole, Oh Beatrice dolce guida e cara!9

commosso singulta. A tratti, quando non il trionfo in sé, ma il trionfo a specchio del poeta prende più vigore, ella lo richiama: Apri gli occhi e riguarda qual son io,10

poi l’allontana: Perché la faccia mia sì t’innamora che tu non ti rivolgi al bel giardino?11

L’adorazione di Maria Qui è l’adorazione angelica di Maria: rose e giglio; dove ancora una volta il punto di partenza è segnato da una confessione umile e cara, dal nome echeggiato nella preghiera mattina e sera, da un’abitudine che non è più soltanto orazione, ma il respiro stesso del giorno, il nome del bel fior ch’io sempre invoco e mane e sera,12

e da quell’umile parola il senso si dilata altissimo, invade la luce e il suono del cielo profondo, si sospende in una cadenza cristallina (l’immagine è attratta dal «bel zaffiro del quale il ciel più chiaro s’inzaffira», tintinnìo d’arpe, squillo di campane, l’Angelus del mattino e della sera e innalzar di preghiera), riecheggia nell’unisono coro delle anime: gesto e musica in una sola corona. Così la circulata melodia si sigillava e tutti li altri lumi facean sonare il nome di Maria.13

Il trionfo di Cristo nella sua Chiesa Qui il trionfo di Cristo nella sua Chiesa, nell’arco trionfale del Primo Mobile, lo real manto di tutti i volumi del mondo,14

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nella luce che da lui irraggia sui Beati, più turbe di splendori, fulgorate,15

nel segno augusto di Pietro: Quivi triunfa, sotto l’alto Filio di Dio e di Maria, di sua vittoria, e con l’antico e col novo concilio colui che tien le chiavi di tal gloria.16

1 Pd XXIII, 9. Il preludio è dell’attesa: un motivo che sotto forme varie s’è spesso presentato negli ultimi canti, a distaccare il poeta dalle attenzioni più grevi: qui sinfonicamente intonato sul tema del nido e dell’alba. Fonte: Lattanzio, De Ave Phoenice; ma ha ragione Tommaseo, che dopo aver commentato il canto con un paragrafo Luce e Ghirlande, altro paragrafo aggiunge: La Madre e il Bambino: «Questo canto è ridente nelle immagini, di luci e di fiori, d’armonie e d’angeli, dell’amore materno e dell’infantile innocenza». La virtù poetica prende forza da questo ritrarsi verso una realtà dimessa, umile realtà di cose: del quale ritrarsi la fonte, Lattanzio, e quella metamorfosi della Fenice in uccellino, è la documentazione filologica. Ancora una volta, come tante, il poeta misura uno spazio: ché il poema, per quel che è dell’arte, è visione, ma è viaggio per quel che è della ragione; e qui lo spazio è tanto più grande quanto più il senso si ritrae nell’ombra familiare dell’albero, nella pace recondita del nido, nel profondo segreto della notte, quanto più si protende verso la viva sembianza, nel ricordo delle cose perdute, e dal nido sale ai rami più alti «su l’aperta frasca» e di lassù attende il sole. 2 Pd XXIII, 25-27. 3 Pd XXIII, 40-44. 4 Pd XXIII, 79-81. 5 Pd XXIII, 121-126. 6 Pd XXIII, 49-51. 7 Pd XIII, 61-63. 8 E ripetiamolo pure secondo la convenzione dimessa ma ormai vulgata, e seducente, che presume di allontanar la poesia dal possesso della dottrina: «Nella cantica del Paradiso, dove l’intellettualità sovrabbonda nella materia e nello stile, il presente canto è singolarissimo per l’assenza di quel carattere. Non insegnamenti, non ragionamenti, non disquisizioni: Beatrice pronunzia poche parole per dare a Dante notizie di fatto circa quel che vede, ed esortarlo a guardare. Per il resto, non v’è che contemplazione […]. Nei canti immediatamente seguenti l’intelletto prenderà la sua rivincita invadendo di nuovo il racconto»: PORENA, postilla al c. XXIII, p. 224 op. cit. vol. cit. 9 Pd XXIII, 34. 10 Pd XXIII, 46. 11 Pd XXIII, 70-71. 12 Pd XXIII, 88-89. 13 Pd XXIII, 109-111. 14 Pd XXIII, 112-113. 15 Pd XXIII, 82-83. 16 Pd XXIII, 136-139.

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La confessione

Mimo dell’esame e canto della fede Sì come il baccellier s’arma e non parla.1

Lettura e memoria dell’intiera professione di fede isolano volentieri il quadretto del baccelliere: forse perché è di stile minutamente osservato e pretesto di ritratto. Ma fino a che punto è esame? Sì, le domande e le risposte, specie nella prima prova, intorno alla Fede, si susseguono con un ritmo d’inchiesta: PIETRO – Dì, buon cristiano, fatti manifesto, Fede, che è? DANTE – Fede è sostanza di cose sperate ed argomento de le non parventi. PIETRO – Dirittamente senti, se bene intendi perché (Paolo) lo ripuose tra le sustanze e poi tra gli argomenti. DANTE – L’esser loro (delle profonde cose) v’è in sola credenza, e di questa credenza ci convene sillogizzare. PIETRO – Assai bene… Perché l’hai tu per divina favella? DANTE – La prova che il ver mi dischiude son l’opere seguite…2

Ma se appena ascolti più dentro il suono di queste stesse parole, e più se le accosti all’altre complementari del discorso logico, ma essenziali del discorso poetico («La grazia che mi dà ch’io mi confessi / […] da l’alto primipilo, / faccia li miei concetti bene espressi». «Il verace stilo / […] del tuo caro frate». «Se quantunque s’acquista / giù per dottrina, fosse così inteso, / non lí avria loco ingegno di sofista». «D’esta moneta già la lega e ’l peso». «Sì, ho sì lucida e sì tonda». «Questa cara gioia». «La larga ploia / de lo Spirito Santo»), t’avvedi che l’esame è confessione (questo lo si dice apertamente) e che la confessione è storia di un acquisto glorioso che via via sormonta gli ostacoli e di sé si fa forza, e la storia inno, e l’inno alleluia (questo lo suggerisce l’immaginare). L’anima di Dante urge e preme con ogni forza e senso, direi con orgoglio di Fede (Fede che è possesso), con certezza d’attesa (Fede è fedeltà), con abbandono (Fede è fiducia: Fede è sostanza, è speranza, è amore) alle soglie del «sodalizio eletto alla gran cena / del benedetto Agnello».3 E poi, pensa al modello quasi costante della sua poetica, in questo canto del trionfo di Paradiso: si restringe, si raccoglie, concreta e si converte per librarsi di slancio in più alto volo. Infine, la chiave di lettura è la presentazione di Beatrice: Se per grazia di Dio questi preliba di quel che cade de la vostra mensa,

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prima che morte tempo gli prescriba, ponete mente all’affezione immensa e roratelo alquanto: voi bevete sempre del fonte onde vien quel ch’ei pensa.4

Secondo la metafora del convito, ch’è di prammatica nella sapienziale Beatrice, a ripetere i canti del Sole ella chiede ch’egli sia dei loro; ma il banchetto non è solo di sapienza: è sapienza fatta «cosa», è la Cena dell’Agnello di Dio, è il banchetto eucaristico, sia pur la sua realtà carismatica di cibo del Corpo e del Sangue rappresentata soltanto per simboli e segni. La prova è dunque anche rito d’accesso alla Chiesa Trionfante, che gli scende incontro nel cielo stellato, e al Convito Eucaristico.

San Pietro Protagonista del canto è san Pietro; e il colloquio ritrova la forza drammatica del canto di Farinata, quando la virtù del dialogo era tanta che il protagonista aiutava e quasi costringeva la determinazione del deuteragonista, l’altro accrescendosi dell’uno. Certo i modi son diversi se, come si conviene a una drammaturgia non più tragica, ma liturgica, non umanistica ma sacrale, l’acquisto reciproco è gioia: non «è mestier di consorte divieto»; e dove prologo al canto di Farinata era un gesto violento «ed ei s’ergea», introduttorio di questo gran carme antifonato è l’inno di Beatrice, «santa suora» di Pietro, sorella dell’eroe della Fede; e lo invita a far la prova di Dante non perché non sappia, ma perché vita di Paradiso è vita di celebrazione e di realtà partecipata: «di lei parlare è ben che a lui arrivi». Già nel proposito di Beatrice l’esame diventa “dossologia”: «a gloriarla / di lei parlare»; e come nelle sue parole il «gran viro» si stacca sullo sfondo del cielo stellato con la forza d’evidenza e d’eloquenza della tradizione iconografica rinascimentale (il san Pietro di Masaccio muove di qui, quando la pittura si fece certa dell’eredità poetica di Dante), così qui è la prima delle storie del santo che il poeta racconta e affigge alla predella; e la più umana, quella dello slancio, del dubbio, del soccorso: modicae fidei, quare dubitasti? la fede per la qual tu su per lo mare andavi.5

Il gran ritratto si svolge dunque in due modi: l’uno è il responsorio liturgico del colloquio con Dante, dopo il primo segno di giubilo, «tre fiate in torno di Beatrice / si volse» e il primo stacco del dialogo, quel violento «dì»; l’altro, la riflessione, l’approvazione, la lode, ed una più intima partecipazione di parole, senso delle cose: Appresso uscì da la luce profonda che lì splendeva: «Questa cara gioia… onde ti venne?»6

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e, ripetendo intorno a Dante la danza per la sorella beata: così, benedicendomi cantando, tre volte cinse me, sì com’io tacqui, l’apostolico lume al cui comando io avea detto; sì nel dir gli piacqui!7

Terzo modo del ritratto agiografico, dopo il modo drammatico affidato al dialogo e il modo panegiristico che decora le battute e le allumina («primipilo», «verace frate» «barone», «spirto che vedi ciò che credesti») è nella suggestione narrativa delle storie, con relativa didascalia morale: entrasti povero e digiuno in campo, a seminar la buona pianta che fu già vite ed ora è fatta pruno…8

e, più concretamente veduto e rappresentato (la sintesi lirica d’ogni forma di discorso vi palesa più nuda la sua immensa forza, virtù di parola): sì che tu vincesti ver lo sepulcro più giovani piedi.9

Il testamento La conclusione discorsiva dell’esame è la confessione, dunque, il Credo: riassunto, anzi «simbolo» della fede in Dio Uno e Trino; traccia sommaria, ma ferma, dell’apologetica cristiana; e infine riflessione lirica del suo possesso nell’anima fatta per lei divina: quest’è la favilla che si dilata in fiamma poi vivace e come stella in cielo in me scintilla…10

e la conclusione lirica ne è l’autoritratto del preludio al canto XXV: Se mai continga che’l poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, sì che m’ha fatto per più anni macro, vinca la crudeltà che fuor mi serra del bello ovile ov’io dormi’ agnello, nimico ai lupi che li danno guerra, con altra voce omai con altro vello ritornerò poeta; ed in sul fonte del mio battesmo prenderò ’l cappello:

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però che ne la fede che fa conte l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi Pietro per lei sì mi girò la fronte.11

Potremo mai resistere, dicendo di Dante, alla tentazione di rivedere scritto, e ritrascriverlo per intero, il testamento spirituale? Gloria della perfezione interiore attinta e consegnata al poema, speranza del ritorno alla patria, carità del natio loco: un’esperienza pur essa trinitaria, se le rileggi per entro i tre atti della liturgia della Confessione; ma l’elegia che la traduce in forme così schiette, così miti e nitide parlanti, abbandona quella gloria d’architettura romana e s’accosta alla più dimessa umanità che, dopo il soccorso della Fede, trepida nello schiudersi della Speranza. Solo tre terzine, nove versi? C’è una proporzione palestriniana nei tre dômi dell’inno: «Se mai continga» «Cielo» «Terra»; ma, dimessamente ardito, può introdurre un ritrattino realistico in quel fasto basilicale «sì che m’ha fatto per più anni macro», dir così meglio delle sue povere pene le sue grandi speranze. Anzitutto, esule, che torni: «l’esilio che m’è dato onor mi tegno» aveva detto nella canzone dei grandi discacciati; ora si lamenta d’essere fatto segno alla inimicizia dei lupi: il Benedetto Agnello, se l’esalta alla gran Cena, anche l’umilia, sperduto in vita fuor dell’ovile ove ha dormito. E poi speranza di una gloria terrena, se pure familiare, e (dopo l’incontro coi «civi» dell’Empireo) cittadinesca: con altra voce, con altro vello ritornerà poeta. S’è aggirato lui, prima, lupo discacciato, intorno alla città assediata: torna ora ai sogni della puerizia e dell’adolescenza; e nel bel San Giovanni, dove ricevette l’acqua lustrale riceverà la corona.

Canto della speranza Di nuovo è in alto; e la danza di Pietro è presagio dell’incoronazione del poeta della fede. Ma il moto, oltre che suggellare il testamento, introduce il tempo secondo dell’esame, che è della speranza. Speranza sostanza di gloria: l’annunzio araldico ne è dato da Beatrice ecco il barone per cui là giù si visita Galizia…12

e su quel tema della magnificenza batte poi spesso il canto: solenne è il cerimoniale dell’accoglienza: così vid’io l’uno da l’altro grande principe glorioso essere accolto…13

(anche i colombi sono emblematici e cerimoniosi): il banchetto è imperiale, il cielo stellato, l’aula secreta, e, per più onore, gli apostoli conti:

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Poi che per grazia vuol che tu t’affronti lo nostro imperadore, anzi la morte, ne l’aula più secreta co’ suoi conti,14

e san Giacomo Maggiore, che Dante ritiene autore dell’Epistola Cattolica, è detto da Beatrice vita per cui la larghezza de la nostra basilica si scrisse…15

(basilica è chiesa; ed era, prima, tribunale; e fu aula regia). Infine, la definizione della speranza è impegnata sullo stesso tema, portato alla sua conclusione, la gloria: «Spene», diss’io, «è un attender certo de la gloria futura».16

Speranza, dunque, di gloria; e come squilla il fulgore di quella magnificenza nelle parole di Beatrice: ché, a evitare ogni sospetto di iattanza, è lei che risponde al secondo dei tre punti della domanda di Giacomo: Speme, che è? Come se ne infiora la mente tua? Onde a te venia? Nella prova della fede, Dante acquistava l’audace impeto di Pietro: qui forse il Barone è lasciato in disparte, affidato alle linee di un ritratto un po’ generico; in compenso, il tema delle opere gloriose che da lui viene, e dello spazio lontano ch’esso domina («per cui laggiù si visita Galizia»; e la Via Lattea, detta popolarmente la strada di San Giacomo) esalta il figliuolo della Chiesa militante al cospetto della Chiesa trionfante: nessuno ha più speranza di lui; e l’empito lo innalza per grazia fino alla gloria suprema, pur mentre dura la prova della sua milizia: però li è conceduto che d’Egitto vegna in Ierusalemme per vedere anzi che ’l militar li sia prescritto.17

Investitura cavalleresca di Beatrice, che Dante nasconde sotto la parabola del «discente ch’a dottor seconda»; poi, quando ha ripetuto della speranza la definizione di Pietro Lombardo, spes est expectatio futurae beatitudinis, veniens ex Dei gratia et ex praecedentibus meritis (e noterai che a beatitudo sostituisce, umanisticamente, gloria), ancora un lume di gloria poetica attinge la prova testimoniale: quei la distillò nel mio cor pria che fu sommo cantor del sommo duce;18

quindi, commentando il testo salmistico, Sperent in te qui noverunt nomen tuum, dal possesso della fede, con uno slancio orgoglioso: 321

e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?19

Ancora immagini di gloria nella citazione del passo di Isaia, In terra sua duplicia possidebunt, e in quella del «tuo fratello» Giovanni là dove tratta de le bianche stole.20

San Giacomo Maggiore Meno esplicito il ritratto di Giacomo Maggiore, se non nelle allusioni lette della dignità che lo circonda: egli appare severo e raccolto, guerriero chiuso nell’armi (tanto più diffusa la scena intorno: per la prima volta fa centro a Dante, «tacito coram me ciascun s’affisse»;21 e la luce abbagliante di quei fuochi intenti lo costringe ad abbassare il volto: utile contrapposto d’umiltà alla professione di gloria; e gl’interventi di Beatrice hanno ancora questo senso; ed è naturalmente da notare che via via che si procede Dante si rinfranca e il rito corre più familiarmente sciolto: la professione di fede, una volta per tutte, ha vinto la prova). Le parole hanno qui una sprezzatura robusta: «Leva la testa e fa che t’assicuri»22 e «la virtù che mi seguette / infin la palma ed a l’uscir del campo»;23 e la stessa approvazione di Giacomo non è altrettanto parlata ed effusa che quella di Pietro: Mentr’io diceva, dentro al vivo seno di quello incendio tremolava un lampo subito e spesso a guisa di baleno.24

Il ritratto è qui, in questa terzina; e l’immagine dice di lui più che la parola.

Il terzo colloquio Miracolo di varietà l’invenzione del terzo colloquio: chi ripensa al tema della prova di baccellierato? Nemmeno parleremo di una distensione che sopravvenga all’intensità liturgica della confessione prima e all’intensità emotiva del testamento poi e tanto meno di un ritmo nuovo, più vario, e suggerito, come espediente stilistico, dall’opportunità di variare i modi di uno stesso tema. Chi legge ha da preoccuparsi di guardare più a fondo, d’impegnarsi nella verità per essere sempre meglio eguale al testo e al poeta; e d’esser più se stesso, per esser più dell’autore; e una via per comprendere te l’offre quel senso di distrazione che con Giovanni Apostolo sopravviene: distratto, non perché abbia smarrito il suo segno, perché non sia fisso alla sua stella; ma perché lo spiritual dominio che nel terzo tempo della prova s’invera, consente e impone un più largo giro d’orizzonte, un guardar più allegro, un più pronto risentirsi. Prova d’amore, la terza; e Dante è terzo fra Beatrice e Giovanni.

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La danza nuziale L’introduzione mimica, la danza ieratica dell’Apostolo, non è più astratta, come un segno decorativo o un geroglifico: è già danza figurata; e il suo tema è dichiarato: danza nuziale, dove la Sposa è Beatrice: E come surge e va ed entra in ballo vergine lieta, sol per fare onore a la novizia, non per alcun fallo… Misesi lì nel canto e ne la rota: e la mia donna in lor tenea l’aspetto, pur come sposa tacita ed immota.25

È uno dei documenti più precisi sulla coreografia della canzone a ballo; il suo amico Giovanni del Virgilio, che in quel tempo gli era vicino e di quella scriveva, avrebbe ammirato:26 la sposa al centro della ruota; e ad uno ad uno si distaccano dalla ruota i ballerini, a tempo le fanno cerchio; e il coro ripete parole e gesto «volgendosi a nota». È un più ricco ridistendersi, fin quassù, della poetica dello stilnovismo nel suo paragrafo più mondano; ma l’indicazione del senso di quella poetica amorosa era già allora precisa, se non in tutto conciliata con gli altri paragrafi o più spiritualizzanti o più ambiziosi; la signoria d’Amore non era pura estasi rapita, ma, di lassù, dominio del mondo: non rinunzia dannata, esilio, vita preclusa, maledizione di una esistenza senza polo, consumata in giro in sé, fallita, come è dell’erotismo esistenzialistico moderno, ma conquista ed acquisto: amor profano, come or ora dirà mirabilmente, nell’intenzione dell’amor divino. Dal programma dell’amor mistico la poetica degli stilnovisti già si chinava ad animare d’immagini un mondo fatto da quello sguardo beato; ma non giungeva a superare quel dualismo di sacro e di profano che aveva dietro a sé, peso e pilastro, il dualismo trobadorico e manicheo. Giunto alla conciliazione cattolica e in quella soglia empirea, Dante sa di poter percorrere in un attimo il cerchio, e che per essere ormai presente a tutto il divino, nella prassi trinitaria di Dio, è presente a tutto l’umano: cielo riconciliato alla terra (e preludio al canto di Adamo). Dall’acquisto alla letizia; e dalla letizia a quell’affabilità discorsiva che anch’essa è dono della poetica dello Stil Novo: quindi, poiché s’è detto «distrarsi», un «intendere» a più cose, e di più gran cuore; quindi l’amorosa Beatrice in figura di sposa; quindi l’amorosa commedia delle inchieste sorprese, della ricerca del corpo, della confessione di amor terrestre arditamente intento al divino. Nell’immagine memore di quel cerchio canoro riecheggiano le monodie delle Rime; e il loro discorso vien qui suggellato.

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Dialogo dell’amore Ma Beatrice accorre all’annunzio: scena della Passione: «Questi è colui che giacque sopra ’l petto del nostro Pellicano; e questi fue di su la Croce al grande officio eletto».27

Similmente, alla curiosità un po’ vana di Dante, di vedere il corpo che, secondo una tradizione, Giovanni avrebbe portato in cielo (era una tradizione cui si mescolavano orgogli di spiritualismo estremo), «qual è colui ch’adocchia […]»,28 Giovanni risponde con le parole severe: In terra terra è il mio corpo…29

Cade la voce e la danza, Dante abbagliato, «che, per veder, non vedente diventa», non scorge più Beatrice. Per aver voluto vedere il corpo del Discepolo, cieco parla d’amore: Intanto che tu ti risense de la vista che hai in me consunta, ben è che ragionando la compense.30

Vita smarrita e non defunta, lo conforta l’apostolo. E come Paolo per imposizione delle mani riebbe da Anania la vista, già smarrita sul cammino di Damasco, tale virtù avranno gli occhi di Beatrice. Titubando nel tenebrore improvviso di quella luminosa regione, Dante le s’abbandona devoto, e confessa con un richiamo alla poetica del «dittatore» Amore (qui Amore-rivelazione legge: là Amore-natura detta): Lo ben che fa contenta questa corte Alfa ed Omega è di quanta scrittura mi legge Amore…31

Sempre chiuso nella sua cecità, risponde a due quesiti. Al primo: «chi drizzò l’arco tuo a tal berzaglio?»,32 dà una risposta filosofica, ma accordata al chiuso lume che cerca, e intonata ad una fuga di voci, inseguentisi intorno alla replicata parola «sterne»: Cristo incarnato, lo spirito di Dio che ispira la Bibbia e l’alto preconio del Vangelo di Giovanni. Ma all’amore intellettuale altri affetti si mescono; e l’apostolo nella seconda inchiesta li provoca. Sempre affondato nella sua oscurità Dante si confessa: con una frase barocca e violenta, che chiede al linguaggio dei mistici di esser giustificata, Tutti quei morsi che posson far lo cor volgere a Dio a la mia caritate son concorsi33

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accresce l’ebrezza devota: prima disse per quali ragioni amava; ora dice le cagioni del suo amore: l’essere che ricerca l’essere, la morte di Cristo perché la sua creatura viva, la speranza d’ogni fedele, tratto m’hanno del mar de l’amor torto e del diritto m’han posto a la riva.34

E amor di Dio è lode di Dio: il prefazio è detto con una tonalità dimessa e cupa, con una riflessione che affonda nel buio della meditazione; ma dalla notte mistica della cecità improvvisa sorge il meriggio del canto di gloria: dicea con gli altri: «Santo! Santo! Santo!»35

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Pd XXIV, 46. Cfr. Pd XXIV, 52-102. 3 Pd XXIV, 1. 4 Pd XXIV, 4-9. 5 Pd XXIV, 38-39. 6 Pd XXIV, 88-91. 7 Pd XXIV, 151. 8 Pd XXIV, 109-111. 9 Pd XXIV, 125-126. E a misurar la forza della sintesi poetica che tutto assomma, la corsa e l’ardire dell’entrar primo nel sepolcro, e la reverenza di Giovanni per il primato di Pietro: «ille alius discipulus (quem amabat Jesus) praecucurrit citius Petro et venit primus ad monumentum. Et cum se inclinasset, vidit posita linteamina, non tamen introivit. Venit ergo Simon Petrus sequens eum, et introivit in monumentum, et vidit linteamina posita…», rileggi tutta la cronaca del Vangelo secondo Giovanni XX, 1-9. 10 Pd XXIV, 145-7. 11 Pd XXV, 1-12. 12 Pd XXV, 17-18. 13 Pd XXV, 22-23. 14 Pd XXV, 40-42. 15 Pd XXV, 29-30. 16 Pd XXV, 67-68. 17 Pd XXV, 55-57. 18 Pd XXV, 71-72. 19 Pd XXV, 75. «Altre bellezze del Canto i versi Ignito sì, che vincea il mio volto – Misesi lì nel canto e ne la nota – Dell’anime che Dio s’ha fatte amiche. Ed è bello che la mente s’infiori della speranza; non men bello perché schietto: quello che la speranza ti promette. Ma di tutti bellissimo perché scatta dal cuore: E chi nol sa, s’egli ha la fede mia?» (TOMMASEO, p. 353). 20 Pd XXV, 95. 21 Pd XXV, 26. 22 Pd XXV, 34. 23 Pd XXV, 83-84. 24 Pd XXV, 79-81. 25 Pd XXV, 103-111. 26 «Festa dies fuerat sancto celebrata Iohanni / Baptistae: supplex limina sacra peto. / Et Dominae veniunt; juvenes, vaga turba, secuntur: / Bononiae sanctis plus celebratur Amor. / 2

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Ingredior templum varia de gente repletum; / intus et exterius templum pervolitabat Amor. / Offero denarium; post hinc altaria linquens / in pratum redeo lumina quaque ferens. / Hic glomerata cohors Dominarum ex parte sedebat. / Haereo quae Veneri sit magis apta notans. / Una puella vagos in me convertit ocellos: / illico flammavit me face saevus Amor. / Dumque morarer ibi Dominae coepere choream / in qua se juvenes inseruere mares. / E quibus ignifero Quidam conflatus Amore / talia de querulo protulit ore canens: / “Ornatae Juveni quae me sine jure peremptat / murmure multorum funde, cupido, preces…” / Iste recantus erat, resonis quem vocibus omnes / disjunctis manibus et pede stante canunt. / Tunc simul adjuncti digitos vocemque sequentes / et pede mutato cantica prima canunt…» (Rime giullaresche e popolari d’Italia, a cura di V. De Bartholomaeis, Bologna 1926. Appendice: Ballo in Bologna descritto da Giovanni del Virgilio, pp. 73 ss.). Ma Giovanni riassume nella decenza retorica del suo latino una dispersività cronistica: in Dante è ben chiaro il senso che al riassunto del reale occorre una situazione dell’Essere; e che la parola le si subordina. 27 Pd XXV, 112-114. 28 Pd XXV, 118. 29 Pd XXV, 124. 30 Pd XXVI, 4-6. 31 Pd XXVI, 16-18. 32 Pd XXVI, 24. 33 Pd XXVI, 55-57. 34 Pd XXVI, 62-63. 35 Pd XXVI, 69.

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Adamo e la terra

Il primo uomo Di tutti gli episodi della Commedia è il più pregnante; ma non è certo ricco di poesia esplicita. Basta il cenno del suo essere «l’anima prima / che la prima virtù creasse»1 e tutto è detto. La preghiera di Dante perché Adamo parli è un aneddoto oratorio, non ha valore d’immagine: «O pomo che maturo solo prodotto fosti, o padre antico a cui ciascuna sposa è figlia e nuro».2

Chi s’attenta a ricordare che di tale procedimento per antitesi è intessuta la preghiera di san Bernardo alla Vergine, stupisce che tal poeta fosse a tal punto inerte. Solo il commento mimico, doppio a contornar la parentesi della preghiera, s’avviva: Come la fronda, che flette la cima nel transito del vento e poi si lieva per la propria virtù che la sublima.3

Bellissimo; ma è detto di Dante: è un riassunto, nel gesto di ossequio, di tutta la storia umana, prostrata dalla sventura del peccato, e dalla redenzione innalzata ad una dignità più alta. In quel che d’Adamo dice, da qualunque parte lo volga, non trovi la forza che dà virtù attiva di discorso e di storia alle immagini: Talvolta un animal coverto broglia, sì che l’affetto convien che si paia per lo seguir che face a lui la ’nvoglia.4

Allegorizzando, puoi immaginare che Dante introduca la storia degli uomini, qui, fissando al caposaldo Adamo il termine a quo della cronologia e il primo e più importante capitolo della linguistica; e che la storia degli uomini appaia al poeta metafisico storia di una natura nascosta, di un animale iracondo e appassionato, gatto o falcone non importa: ma è filo che ti si spezza in mano. Meglio pensare alle consonanze e ai richiami del nome, alle molte volte che trascorre, segno e richiamo di superbia: per così lungo cammino si è esausto il potenziale suggestivo del primo uomo. Ora quella superbia è redenta e Adamo ha ritrovato 327

nell’Empireo il luogo eccelso che tocca alla sua dignità: radice, con Eva, della candida rosa, pare che Dante pensi che la storia degli uomini possa essere, contraddicendo alla decadenza, un ritrovare la dignità perduta, una pienezza di vita, anche corporea, di cui la prima creatura fu dono ed è promessa. In tal caso le risposte che il più sapiente degli uomini dà al novizio accolto nella Chiesa trionfante sono un capitolo d’inizio d’una dottrina che sarà svolta chissà quando. Se fra le rispondenze possibili trascegli le più spiccate, e osservi parallelamente il XXVI di ciascuna cantica, vedi come sia possibile legare il canto di Ulisse al canto di Guinizelli e di Daniello: l’uno muore in vista del Purgatorio, gli altri si rimandano il messaggio della poesia per poter meglio intendere alla penitenza. Non varrà, la dottrina esposta da Adamo redento, a riaprire una storia feconda e giusta dopo il varco folle di Ulisse, se la poesia, attraverso la penitenza e l’elezione della Grazia, ridiventa sapienza? Ulisse muore in vista del monte alla cui cima sono prossimi Guido e Arnaldo ne l’eccelso giardino ove costei a così lunga scala ti dispuose.5

E anche questo è inizio di storia. Sette ore rimase Adamo nel Paradiso Terrestre: da Orosio a Giovacchino, quanta fatica a rintracciare le sette età del mondo; né a Dante importa di elencarle: gl’importa che Adamo abbia in sé concluso la sorte degli uomini, e che riassuma la serie degli anni che gli uomini vivranno: Quindi onde mosse tua donna Virgilio quattromila trecento e due volumi di sol desiderai questo concilio6

(un moto, finalmente, di commozione eloquente). Altri che Dante narrerà quella storia: a Dante par che prema, pur mentre ne elenca la sua quadratura elementare, cronologica appunto, che caposaldo sia Adamo, forse anche che la storia degli uomini sia a chiarimento di Adamo, il nomenclatore superbo: che volle esser Dio, conoscente del bene e del male: Or, figliuol mio, non il gustar del legno fu per sé la cagion di tanto essilio, ma solamente il trapassar del segno.7

«Solamente»? Dunque qui si raccomanda un limite. «State contente umane genti al quia»? E la terra è come il Paradiso Terrestre che ritorna, redento il Peccato, dove le naturali gioie, nel limite dei divieti, sono care e assorte? Ma la storia degli uomini, che senso è per avere dentro quei limiti? Ecco, a illuminarlo, la storia della lingua. Nella Retorica Dante aveva creduto alla lingua dono di Dio, distrutto dalla superbia di Nembrotte; ma Adamo ora gli insegna che nessuna opera umana è eterna: sulle opere dell’intelletto, ambiziose d’essere eterne, interviene il «piacere» umano, mutevole secondo gl’influssi celesti («ho328

minum divumque voluptas!») che le rinnova; così della lingua: opera di natura che l’uomo parli; ma la natura lascia poi al piacere degli uomini, al loro senso estetico, l’un modo o l’altro, con assoluta libertà «secondo che v’abbella». Le lingue, tutte le lingue, scompaiono: anche la prima, che nella Retorica credeva consegnata da Dio agli uomini, e, pur dopo la confusione delle lingue, serbata dagli Ebrei: la lingua che Abramo parlava nel Paradiso Terrestre fu tutta spenta innanzi che la gesta di Nembrotte fosse attenta all’«ovra inconsummabile» di alzare una torre fino al cielo: che più? se il nome stesso di Dio era I finché visse Adamo, e fu El poi. Il pensiero di Dio è sì, nell’uomo, rivelazione di Dio, ma il nome con cui l’uomo cerca Dio e l’invoca è dell’uomo. Dunque la storia, par suggerire il primo degli uomini e il più saggio, è una mutevole gioia, e la terra, redento il peccato, un vario paradiso di delizie: cui accoglie l’ordine grande, ma limitato, del tempo; come le sette ore trascorse «nel monte che si leva più da l’onda»8 raccolsero da Adamo la varia vicenda di delizie, di peccato e d’esilio. La natura è lieta, non eterna. Dante voleva sapere più cose, in quest’ordine: da quanto tempo Adamo fu posto nel Giardino? Per quanto tempo il Giardino gli dette piacere? Per quale ragione la collera divina? Quale la lingua usata da Adamo? quella che lui stesso foggiò? Storia del mondo, storia del primo uomo, moralità, linguistica. Le risposte di Adamo seguono un ordine diverso: teologia morale, cronologia del mondo e di Adamo, vicende della lingua, cronaca del soggiorno nelle delizie. Se non c’inganna l’assottigliarci nell’esegesi delle intenzioni (ma è un inganno premeditato da Dante, un lusus), Adamo sostituisce a successioni di dignità astratte, e ad attenzioni distaccate e perciò curiose ma inorganiche e inefficaci, una risposta organizzata: il Peccato giudicato nel suo disvalore etico, anzitutto, non come fame di gioia, che è concessa, ma come intellettuale superbia che trasgredisce il segno; poi la cronologia universale e particolare, staccando la cronologia della vita di Adamo dalla vita del Giardino; poi la legge del piacere concesso e del mutare della natura secondo il piacere, esemplata nella questione della lingua, che è natural gioia; infine, a ricondurre i problemi al loro inizio, quanto tempo visse sul monte. In questo stile compendiario, che può essere esemplato accanto al denso rigore dell’esposizione dei mistici vittorini, le deduzioni sono innumerevoli, l’ordine è gran cosa: che le poche deduzioni nostre non paiano arbitrarie! Ma l’ordine par suggerire la priorità dell’intelligenza morale sull’astratta successione del tempo; e il senso prezioso, ma caduco, della gioia.

Senso del tempo Il tempo (per quel minimo di animazione poetica che si riassume nelle fratture del discorso logico) è, in terra, peso monotono d’esilio e vidi lui tornare a tutt’i lumi de la sua strada novecento trenta fiate, mentre ch’io in terra fu’mi9

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ed è, nel Limbo, drammatica attesa dell’istante della salvezza. Questo per la faccia del tempo volta all’eterno; ma la sua faccia volta alla terra rivela che le cose hanno un limite. Non creder che questa constatazione sia venata di malinconia epicurea ed oraziana: anzi è possesso di gioia, più cara quando altra gioia largita sottentra; il secondo epiteto del monte «che si leva più dell’onda» non accenna più alla sorte trascendentale dell’uomo, allusa dai due interventi di Beatrice nel Limbo e sul Monte; e il tempo di quella gioia si strugge in un lampo: da la prim’ora a quella che seconda, come ’l sol muta quadra, l’ora sesta.10

Senso del tempo, ed attimo della gioia terrena, dunque, proposti dal discorso, sapiente poesia che rampolla dalla struttura: l’inno beato che suona dopo la lezione di Adamo è, infatti, la dossologia del tempo eterno, il Gloria, che dal Padre al Figlio allo Spirito ripercorre in un giro strofico le origini, l’ora e il sempre nei secoli dei secoli.

L’invettiva Anche l’altro tema del colloquio di Adamo, la panoramica terrestre, attende d’essere illuminato: ma fra l’uno e l’altro si frappone l’invettiva di san Pietro contro i papi. Giustificazioni estetiche non occorrono: ogni pretesto par buono e il poeta è nel suo diritto di scegliere il come e il quando; ma dal convito sapienzale, se abbiamo letto bene, la tensione satirica s’era andata gradualmente allentando. L’impostazione strutturale più evidente è questa: che al trionfo della Chiesa, quale in questo canto, e di san Pietro, che dal principio alla fine col simbolo delle chiavi lo trascorre, occorre il “verso” della condanna. Resta da spiegare: perché dopo Adamo? Ma il sopravvenire di Adamo dopo la prova delle virtù significa che Dante è al culmine delle sue facoltà divine ed umane: egli è in possesso del mondo, ammantato dal «real manto di tutti i volumi»;11 sua è la terra come suoi i cieli. Alla terra, che prima dell’incontro con Adamo, sorgendo con gli Eterni Gemelli, aveva dato uno sguardo incerto, all’«aiuola che ci fa tanto feroci»,12 ritornerà ora con altro senso di leggerezza; ma anche l’invettiva è impegnata sullo stesso tema. Il suo preludio è la gioia: detta qui con un’immediatezza che vince la «fuga» famosa della letizia («amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogni dolore»),13 con una corposità di senso che dice, del realismo mistico, più di un trattato: l’itinerario dantesco è dare senso e gioia alle cose: Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso de l’universo… oh sanza brama sicura ricchezza!14

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Se l’impetuosa collera di Pietro sormonta, se un diverso pensiero lo soprapprende e trascolora, e quella che pria venne incominciò a farsi più vivace,15

se il ricordo di temi tante volte toccati riecheggia nel rito allegorico dello scambio della luce fra Giove e Marte e tal ne la sembianza sua divenne qual diverrebbe Giove, s’elli e Marte fossero augelli e cambiassersi penne16

(fra Giove, il pianeta della Giustizia, e quella luce rossa di Marte, il pianeta del martirio, cui il poeta ha affidato tanti ricordi della sua vita, dentro e fuori dei canti di Cacciaguida), questo accade perché la terra è straziata, brutta, corrotta dalla corruzione pontificale: fatt’ha del cimiterio mio cloaca del sangue e de la puzza…17

Altra «vendetta» più fiera contro Bonifacio VIII, tanti anni dopo la sua morte, non aveva ancor preso: segno di una attualità della collera dantesca, di un assiduo trasferirsi, quanto durò la sua vita, in quel tempo sacrale e poetico della visione, l’anno milletrecento. Non attenderti, però, che l’ordine sia capovolto, e che lo strazio della terra faccia scordare a san Pietro d’essere il capo della monarchica chiesa militante: ma, per acquisto d’esto viver lieto, e Sisto e Pio e Calisto e Urbano sparser lor sangue dopo molto fleto.18

Il dualismo di Dante non si risolve mai in monismo idillico: solo la gloria suprema della vita paradisiaca riporta anche in terra la gioia. Questa la linea del discorso; dove s’intersecano i due temi complementari: la condanna sistematica e autorevolmente folgorata e motivata della politica curiale: Non fu nostra intenzion ch’a destra mano de’ nostri successor parte sedesse, parte da l’altra del popol cristiano; né che le chiavi che mi fuor concesse divenisser signaculo in vessillo che contr’a battezzati combattesse,19

e l’investitura a Dante, che si faccia banditore della condanna: 331

E tu, figliuol, che per lo mortal pondo ancor giù tornerai, apri la bocca, e non asconder quel ch’io non ascondo.20

Ancora la terra e il tempo Pioggia dell’anime trionfali (a rovescio per chi guarda dal basso) verso la patria empirea. E poiché il motivo del Trionfo della Chiesa ripete abbastanza puntualmente l’ordine della mistica Processione, del Trionfo della Rivelazione, quando l’anime sono tornate al Regno, finita la parentesi della gloria, Beatrice esorta Dante a guardare in basso; poi, dal primo mobile, rincalza il presagio. Incolpevole degli errori, era rimasta in disparte, mentre durava la collera celeste e il mutar della luce, arrossendo lei pure. In due atti si disvela: quando esorta il Pellegrino a guardare ancora una volta in basso, alla terra, anzi all’«aiuola»: sì ch’io vedea di là da Gade il varco folle d’Ulisse;21

e quando presagisce per un tempo vicinissimo e remoto, «prima che gennaio tutto si sverni / per la centesma ch’è laggiù negletta», il ristabilirsi del buon ordine sulla terra già invasa dalla cupidigia e, nonostante il buon vigor terrestre, incapace di dar vero frutto dopo «il fiore». Riconsacrazione della terra: il male è raffigurato come un interrompersi del corso naturale delle cose: Ben fiorisce ne li uomini il volere; ma la pioggia continua converte in bozzacchioni le susine vere.22

E il bene è alluso all’immagine dell’età puerile, innocente: tale, pargolo, ha fede e purezza, e osserva i digiuni, e ama e ascolta la Madre, che, adulto, si corrompe, divora, desidera alla Madre la morte. Un’altra volta, il tema del male è correlato al tema della gioia; né verso più colmo disse altrove della bellezza: che Dio parea nel suo volto gioire.23

1

Pd XXVI, 83-84. Pd XXVI, 91-93. 3 Pd XXVI, 85-87. 4 Pd XXVI, 97-99. «Il padre antico diventa, di pomo, animale», ironizza il Tommaseo, che pur l’interpreta solennemente con similitudine di falconeria; ma il Porena: «Credo che al gatto in sacco abbia qui pensato, Dante». Sorpreso, il Momigliano ne approfitta per cogliere un dato utilissimo alla psicologia della poetica dantesca, in attesa di una giustificazione metodica 2

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di tanta «prepotenza visiva»: «La bizzarra immagine dell’animale che si agita sotto il panno che lo copre, sicché anche sotto di esso traspare il suo desiderio di scoprirsi, e le curiosità che danno luogo non ad una pagina di poesia ma ad una pagina di cultura, rompono la maestosa linea iniziale. L’immagine dell’“animal coverto” è forse il più eloquente segno della prepotenza visiva della fantasia di Dante. È chiaro che in questo momento l’oggetto che le sta dinanzi non è la luce del primo progenitore ma quello strano ricordo di un’osservazione fissatasi chissà quando con la precisione della modellatura d’uno scultore. Fra l’uno e l’altro oggetto, appunto, c’è una disparatezza profonda: la figura dell’animale che si muove sotto la copertura ha un’evidenza quasi da parata scenica; la luce di Adamo attraverso la quale traspare il suo ardore di carità, dovrebbe avere invece una spirituale indefinitezza di contorni». La critica della critica è spesso un diverticolo, quando non è un gioco cinese; ma «parata scenica» non è caratterizzazione attinente; e quel «dovrebbe» introduce la poetica delle convenienze nella quale, dopo tutto, quel che importa è la forza con cui un poeta supera il divario metaforico, lo iato tra immagine e realtà travalicata dalla «parabola». Ad aiutare il lettore, perché questo è il compito di ogni commento, e a gettar sassi nel guado che gli tocca passare, non rinunceremo a rammentare che la tragedia di Adamo è l’involucro di una carne corrotta e redenta; e di ciascun uomo. Il Torraca, che dapprima si lascia lui pur prendere dal desiderio di toglier l’impertinenza della metafora, nobilitandola («l’animal coverto può bene essere qualche volta il nobile cavallo») mette sulla strada giusta il lettore, nell’analogia del linguaggio: «Del resto, abbiam veduto (Pd VIII, 52-54) un altro spirito nascosto nel suo lume “quasi animal di sua seta fasciato”». Insomma, ogni metafora, nella poetica di Dante è provvisoria (nemmeno il discorso di Adamo si conclude qui); e anche il desiderio di Dante è implicito, e attende dal primo uomo di esser chiarito. 5 Pd XXVI, 110-111. 6 Pd XXVI, 118-120. Anche qui l’eloquenza è sollecitata e aiutata dal ricordo: «Per morder quella, in pena ed in disio / cinquemilia anni e più l’anima prima / bramò colui che ’l morso in sé punio» (Pg XXXIII, 61-63). 7 Pd XXVI, 115-117. 8 Pd XXVI, 139. 9 Pd XXVI, 121-123. 10 Pd XXVI, 141-142. 11 Pd XXIII, 112. 12 Pd XXII, 151. 13 Pd XXX, 41-42. 14 Pd XXVII, 4-5; 9. 15 Pd XVII, 11-12. 16 Pd XXVII, 13-15. 17 Pd XXVII, 25-26. 18 Pd XXVII, 43-45. 19 Pd XXVII, 46-51. 20 Pd XXVII, 64-66. E poiché «per» vale causa e vale scopo, raddoppiando i sensi l’uno dell’altro, nel fervore dell’ira magnanima, allude ancora all’attesa della concretezza corporea, al possesso del mondo, che trascorre questi canti del Trionfo. 21 Pd XXVII, 82-83. 22 Pd XXVII, 124-126. 23 Pd XXVII, 105.

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Gli Angeli

Il cielo senza dove Un’alternanza fulminea di concretezza e di illimiti atti: ora nel vertice del cielo, ora fra i mimi terrestri; tale la poetica del Paradiso, e più nel cielo degli Angeli. S’apre con la lezione di Beatrice sul Primo Mobile e si chiude con la satira di certa eloquenza che dovrebbe essere sacra. Ancora alla terra, ch’era il gran tema parallelo del canto di Adamo, ritorna per distaccarsene: La natura del mondo, che quieta il mezzo e tutto l’altro intorno move, quinci comincia come da sua meta.1

Nell’inferno, l’inerzia terrestre è simbolo e segno dell’arrestarsi del vivificante influsso celeste nella materia bruta di Lucifero: Principio del cader fu il maladetto superbir di colui che tu vedesti da tutti i pesi del mondo costretto;2

ma nella iconografia di questo canto metafisico, altra immagine appare: immobile è il cielo Empireo, immobile la Terra, che sono i due poli dell’Universo; e dall’uno all’altro, anzi da Dio a Lucifero, si svolge la storia del mondo. E guardando alla terra dice la gioia del mondo: la scoperta poetica del mondo gioioso è un’intuizione drammatica, non un suggerimento filosofico (tocca infatti ai dannati, con disperato rimpianto); per confermare, inoltre, che anche traducendo i filosofi e introducendo l’astratta indagine dei concetti nel suo concretissimo mondo egli è poeta: poeta di cose, ché i mondi son cose; e al servizio delle cose son le sue parole; nonché, come qui, il fraseggio del suo concettualizzare. Nota ancora, per discernere la virtù suggestiva dei “concetti” in quanto “cose”, attraverso il giuoco degli incontri, che la lezione di Adamo era affidata al tempo e al luogo: al tempo come cronologia, al luogo come terra. Qui assisti a un vanificarsi del luogo: E questo cielo non ha altro dove che la mente divina, in che s’accende l’amor che il volge e la virtù ch’ei piove.3

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Il suo «dove» è l’intelligenza angelica che, contemplando Dio, raggia in basso sul mondo finito. Eccoci dunque fuori dello spazio; e quando si uscirà anche fuori del tempo, saremo finalmente nell’Empireo: là, principio dell’Essere senza mediazione alcuna di creature e di cose alla sua efficacia, è Dio. Ma se il tempo nasce da fuori del tempo, ha le sue radici qui (con la stessa metafora, faticosa nella nostra esegesi, le «radici» dello spazio si potrebbero dire esser nel Cielo Stellato): E come il tempo tegna in cotal testo le sue radici e ne li altri le fronde, omai a te può esser manifesto.4

Luogo della contemplazione e dell’azione pura Il contrappunto di povere tristi cose, che Beatrice fa a questa proposta, presto trascorre nel presagio della navigazione felice e del frutto verace; ed è dimenticato affatto al principio del canto delle gerarchie angeliche. Qui vorremmo appuntare due temi e un modo di lettura: la trasvalutazione dello spazio nel canto vigesimottavo; il tema del tempo nel canto vigesimonono; e l’inizio, qui, di un vedere per visione (o di una visione nella visione: tutto il poema è visione), determinando la realtà, non attraverso un atto, un calcolo, un rapporto, ma meditando in una sospensione della concretezza corporea. L’immagine-chiave di questo modo di lettura è quella dello specchio e del doppiere: come in lo specchio fiamma di doppiero vede colui che se n’alluma retro, prima che l’abbia in vista od in pensiero, e sé rivolge, per veder se ’l vetro li dice il vero, e vede ch’el s’accorda con esso, come nota con suo metro: così la mia memoria si ricorda ch’io feci, riguardando ne’ belli occhi,5

che è riferito bensì al luminosissimo punto di Dio, ma non può prescindere da quell’accordarsi della mente di Beatrice alla profezia, quindi da una misura di tempo, e canta di un proceder nel buio, e di vedere, di là dalla propria, una sorgente di luce riflessa. Si rivolta, e vede altra luce: il luminosissimo punto di Dio. O non è piuttosto, nella chiusa sintassi dell’immagine, quel rivolgersi un atto di sogno, una visione? Non luce aggiunta a luce, sì che la prima, meno luminosa, paia ombra; ma «il pensamento in sogno trasmutai». E se l’eterna vigilia del cielo non consente né il tramortimento d’Inferno, per passare Acheronte o per uscir dal primo cerchio, ed avviarsi alla scuola della poesia e della sapienza nel Limbo, né il sonno che così agevolmente si trasmuta in sogno, come nel Purgatorio, visitato da Lucia, dalla Donna santa e presta, da Lia, ma solo una misteriosa estasi, un attonito stupore, cui soccorre la favola di un sonno, quella d’Argo e 336

di Siringa, per esempio, la similitudine l’equivale: per quel perfetto adeguarsi, lassù, dell’immagine alla realtà, dalla parola alla cosa, e dell’Essere al Verbo. In quel senza-luogo Dio è presente come pura luce; e gli Angeli, operosi di spazio, in basso, qui appaiono come armonia di cerchi: e quello avea la fiamma più sincera cui men distava la favilla pura, credo, però che più di lei s’invera.6

Le gerarchie angeliche Simbolo s’aggiunge a simbolo, nella visione, e la sfera è tanto più divina quanto più remota. Quello che «nel mondo sensibile veder / si puote» (è ovvio che qui siamo fuor del mondo sensibile, e che la figura dei cerchi concentrici è cifra e simbolo, non rapporto geometrico e di spazio) contraddice alla visione del Cielo Nono. Nella lezione di Beatrice l’obiezione è presto risolta: a maggior virtù nei cieli corrisponde maggiore efficacia di salutiferi effetti in terra, quindi uno spazio più grande dove la virtù piove; ma non è detto perché al maggior spazio reale corrisponda il minore della figura, se non trasferendo alla cifra di Dio il punto luminoso, la figura delle intelligenze angeliche. Nel mondo sensibile, insomma, Dio penetra nell’Universo; ma, come ha annunziato, più splende in cielo: il passaggio dal mondo sensibile al mondo puramente intelligibile per simboli è avvenuto nel trascolorare del Cielo Stellato e nella magia dello specchio; e di qui s’inizia la meditazione ultima, tutta trascendentale, del Primo Mobile e dell’Empireo: dove la realtà è visione e la visione è cifra. Il catalogo angelico, in questo canto, di tre in tre ternari (i tre ternari insieme, e ciascuna schiera in ciascun ternario) ripete, capovolto, il processo trinitario: Serafini, Cherubini, Troni; Dominazioni, Virtù, Potestà; Principati, Arcangeli, Angeli. E suggella in una figura di danza e in una cifra emblematica astratta un ordine che nel mondo si squaderna con moto inverso. Non mancano pause di polemica dottrinale: quel volontarismo, che non amava procedere per una meditazione intellettuale (mistici attivi, più o meno indipendenti dalla meditazione bonaventuriana: dei vittorini sarebbe da fare altro discorso), intende la vita spirituale come un diretto conformarsi della volontà all’Amore; ma Dante, che pone ovunque la mediazione dell’Intelligenza, ha anche bisogno di un raptus mistico, di una trance, di un tempo sospeso, per capovolgere il contingente nel trascendente. Così della polemica fra i seguaci di san Gregorio e i seguaci di san Dionigi, egli ora sorride: ché dopo aver sostenuto, nel Convivio, l’ordine esposto dall’uno, ora s’accorda col discepolo di san Paolo. Rise Gregorio sì tosto come li occhi aperse in questo ciel, di se medesmo.7

Così ora il poeta; ma «aprir gli occhi», dissonnarsi, è rito pregnante. Anche diremo pregnante il passaggio dal discepolato di papa Gregorio al discepolato 337

dell’apostolo Paolo? Tanto varrebbe cessar di servirsi delle concordanze di immagini per la lettura, ed usarle per un’astratta illazione, che potrà appartenere alla storia della dottrina riformista, non alla storia della poesia.

Il tempo La terza lezione svolge il tema del tempo: il senza-tempo della Creazione, la memoria, l’oggi; e il canto si plasma secondo un modo epico nella prima parte, didascalico nella seconda, satirico nella terza. Profondissimo il primo, dove la riflessione, trasceso il tema del senza-spazio, medita la creazione degli Angeli. Altrove quella del Paradiso è poesia della sapienza, altrove la contemplazione s’accende nel suo affisarsi nella cosa: qui la lezione diventa puro ritmo, e il tempo è la chiave del simbolo, la sua musicale sostanza. Non per avere a sé di bene acquisto, ch’esser non può, ma perché suo splendore potesse, risplendendo, dir «Subsisto», in sua etternità, di tempo fore, fuor d’ogni altro comprender, come i piacque, s’aperse in nuovi amor l’etterno Amore. Né prima quasi torpente si giacque: ché né prima né poscia procedette lo discorrer di Dio sovra quest’acque.9

Il motivo è svolto per antitesi, nella prima terzina, negativa: in una scansione sempre più profonda, che s’apre toccato l’abisso dell’eternità; con prodigiosa fioritura nella seconda; e si dilata nella terza con quel vasto gesto orizzontale che sarà di Dio creatore in Michelangelo: «Lo discorrer di Dio sovra quest’acque…». Il ritmo trinitario, per dir più e meglio che ternario, che accompagna l’opera della Creazione, si ripete più circostanziato nella didascalia dell’atto: forma, materia ed essere perfetto; s’illumina, in quella immagine anch’essa ternaria, del vetro, dell’ambra, del cristallo; si riassume a specchio nel raggiar dell’essere divino nell’effetto angelico. Un ordine cosmico fu creato e costrutto alle sostanze angeliche: in alto le pure consistenze e forme; in basso la pura potenza; nel mezzo «strinse potenza con atto». L’ordine trinitario della creazione, in questo abisso di storia, non comporta sostanza in basso, potenza in alto e unione di potenza con atto, come nella contingenza; ma «consistenza» in alto e potenza in basso: una mediazione fra il divino e il terrestre, dove le intelligenze angeliche partecipano del divino con il loro consistere e ne irradiano la potenza anteriormente all’atto, pur ripetendo nel termine intermedio l’unione di potenza e d’atto. Il dramma si svolge fuori del tempo: fino a che punto? Né giugneriesi, numerando, al venti sì tosto, come degli angeli parte turbò il suggetto de’ vostri elementi.10

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Significa davvero: pochi istanti dopo la creazione? O forse gli Angeli non si ribellarono a Dio fuor del tempo, un tempo anche brevissimo, per così immensa impresa e battaglia? E se il tempo fu brevissimo nella sfera del tempo che accolse il precipitar dei ribelli, cui soggiace la terra, non fu senza tempo l’atto «puro» della ribellione consumata nell’Empireo? O forse la tragedia avvenne bensì fuor dello spazio, non fuori del tempo: essendo l’intelligenze angeliche create nel senza-tempo, ma operose nel tempo? Di queste varie ipotesi resti, in questa sede, l’indicazione che giovi alla lettura: il poeta prende, per la sua aritmetica, quel sistema a base venti che gli viene da chissà quali ricordi di linguaggi volgari; e promette al calcolo esatto un «non», che lo distrugge al limite; così Beatrice quando apriva il presagio: «prima che gennaio tutto si sverni».11 Le ipotesi formulate non valgono per se stesse ad una discussione teoretica; nel loro contrapporsi aiutano però la definizione antifrastica: si serve, necessariamente, d’immagini sensibili, quindi legate al quando e al dove, per dire di ciò che non ha quando e non ha dove; né può dirlo che servendosi di immagini-limite. Perciò raffronta la menzione di Lucifero con l’affetto degli angeli obbedienti: Quelli che vedi qui furon modesti a riconoscer sé dalla Bontade che li avea fatti a tanto intender presti.12

E per conchiudere il cerchio di lezioni, ecco il dogma dei meriti, e l’anima che desidera di accogliere la Grazia: E non voglio che dubbi, ma sie certo che ricever la Grazia è meritorio, secondo che l’affetto l’è aperto.13

Satira Dopo la dottrina, la satira: violenta commedia, parodia della stessa lezione, grottescamente capovolta. In cielo Beatrice che, contemplando Dio e i Nove Cerchi nella solitudine cristallina del Primo Mobile, professa; in terra le favole gridate dal pergamo: Ora si va con motti e con iscede a predicare, e pur che ben si rida, gonfia il cappuccio, e più non si richiede.14

In cielo la Rivelazione, fattasi essa stessa contemplante: in terra il falso addottrinato, «un dice», che sostiene, positiveggiando, che l’eclisse alla morte di Cristo sia stata prodotta dalla Luna interposta. In cielo l’epopea degli Angeli: in terra il mimo del diavolo che s’annida nel becchetto del monaco. In cielo il più puro dei conviti sapienziali imbanditi dal poema, quello che più addentro 339

si sprofonda nel mistero della Creazione, e intende le creature più pure: in terra «ingrassa il porco sant’Antonio».15 Ma il canto non termina con la satira: «Siam digressi assai»16 dice Beatrice, quasi sdegnosa. E ancora, il tema del tempo, «sì che la via col tempo si raccorci»:17 ché è pur mezzo, il tempo, d’annullare, o tendervi, lo spazio. Fra tempo e spazio, il numero. L’epilogo del canto introduce nell’immensità di quelle presenze il limite e l’armonia del numero: Vedi l’eccelso omai e la larghezza de l’etterno valor, poscia che tanti speculi fatti s’ha…

e del numero la prima radice, l’unità: in che si spezza, uno manendo in sé come davanti.18

A Dio Uno dalla gioia degli specchi angelici ritorna.

1

Pd XXVII, 106-108. Pd XXIX, 55-57. 3 Pd XXVII, 109-111. 4 Pd XXVII, 118-120. 5 Pd XXVIII, 4-11. 6 Pd XXVIII, 37-39. 7 Pd XXVIII, 134-135. 8 Un’illustrazione dottrinale del problema è nel commento al passo del Convivio II, V, 6, nell’ed. citata del p. BUSNELLI, Firenze 1934; del quale vedi Il concetto e l’ordine del Paradiso dantesco, Città di Castello 1911. Ed ha un peso notevole il fatto che proprio nel Convivio la sua memoria fosse occupata da un’antifona liturgica, anzi che da testi dottrinali rigorosamente citati: si basa infatti sull’antifona al Magnificat dei primi vespri della festa d’Ognissanti; ora che si documenta con più rigore, non si ferma tuttavia alla superbiola della dottrina: la gioia è partecipazione dell’essere, non del riflettere. 9 Pd XXIX, 13-21. 10 Pd XXIX, 49-51. 11 Pd XXVII, 142. 12 Pd XXIX, 58-60. 13 Pd XXIX, 64-66. 14 Pd XXIX, 115-117. 15 Pd XXIX, 124. 16 Pd XXIX, 127. 17 Pd XXIX, 129. 18 Pd XXIX, 142-145. «All’immagine dell’Angelo superbo, gigante desolato, Da tutti i pesi del mondo costretto nel ghiaccio tenebroso, fanno splendido contrappunto le migliaia innumerabili d’ardori beati, ciascun di loro variamente raggiante; e ciascun d’essi è un grande misterioso universo» (TOMMASEO). 2

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Empireo

Poetica dell’attualità La poetica dell’Empireo è sciolta dalla legge del contrappunto: dall’uno all’altro tema il trapasso non avviene per gradi intermedi: di gradinar non c’è bisogno in un mondo che ha abolito la distanza; e d’armonia raccolta e riecheggiata di sui moduli costanti di linguaggio musicale neppure, in quel senza tempo. Sua unica legge è l’attualità: così intensa è la presenza del poeta, al suo oggetto assistendo, così vivacemente sorge e pieneggia la vita delle cose nell’attimo folgorato dalla poesia, che ogni discorso è abolito: né solo perché si vive in un’atmosfera di perpetuo miracolo, ma perché tutto è poesia nell’inderogabile intrinseco ritmo che ogni immagine per se stessa discopre. La poetica della visione, che pare più concreta quanto più precisata dall’oggetto, qui rivela l’ultimo termine della sua perfezione: che è di spaziare per un mondo infinito nella trasposizione innumerevole delle cose, prima di giungere non a precisare l’oggetto serbando un grado qualsiasi di dominio, una misura infinitesima di lontananza, ma a trasfondersi in lui, ad esser lui. Realismo, surrealismo, metafisica? Tre termini di un solo processo. E qui si canta l’eterno miracolo dell’Essere.

Il preludio La prima misura della novità è data, col suo primo indizio, dal famoso preludio: Forse seimila miglia di lontano ci ferve l’ora sesta…

Dove? Come? e questo mondo china già l’ombra quasi al letto piano, quando il mezzo del cielo, a noi profondo, comincia a farsi tal, ch’alcuna stella perde il parere infino a questo fondo; e come vien la chiarissima ancella del sol più oltre, così ’l ciel si chiude di vista in vista infino a la più bella.1

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Dunque la prima immagine meridiana è un pretesto dialogico per introdurre di necessità l’immagine tanto diversa della prim’alba. Contrappunto? Meglio, discordo; e solo il divergere, l’allontanarsi rutilante della ignea immagine a una distanza immensurabile, aiuta il miracolo nello spazio vuoto del sorger lento in puri accordi profondi dell’immagine nuova. Nel preludio del notturno della Valletta dei Principi la misura astronomica era esattamente riportata a giustificare il contrappunto; e la Notte, che sale silente col soffice passo alato, era legata ad uno stesso giro di spazio e di tempo con l’Aurora che esce dalle braccia del diletto e s’imbianca al balcone d’Oriente; in questo nuovo preludio il divario è incolmabile; ma appunto dal sentimento che lo spazio è perduto, che seimila miglia è un mito di incognita potenza nel miracolo del morir delle stelle ad una ad una in quel cielo (il Primo Mobile) assolutamente vuoto, metafisicamente vuoto, nasce l’altro sentimento operoso del perpetuo miracolo che s’aspetta e che si produce. A suggerir la sostanza poetica della vita del nono cielo parlavamo di visione; e qui è vero che Dante si disassonna, finché l’Empireo lo saluta con l’insostenibile barbaglio; ma non esce davvero dal mirabile sonno della visione per tornare a partecipare di un mondo di consueta misura; né la sua poetica si commisura a proporzioni esatte di tempo e di spazio, di causa: apre gli occhi e i sensi e il suo dominio di poeta par conoscere che tutto è possibile dall’eterno all’attimo. E forse questa è la metafora che può meglio suggerire la realtà nuova, appunto dopo i lentissimi accordi del preludio: il Pellegrino empireo possiede la realtà folgorandola, ormai; ed il Poeta.

Il ritratto di Beatrice Preoccupazioni metafisiche e preoccupazioni artistiche si riassommano nel ritratto di Beatrice (qui ponga mente chi crede ad una partecipazione eterna da poeta a poeta: il linguaggio di questo ritratto non è stato inteso, né la sua poetica seguita; ma tutto denota che il linguaggio dell’arte contemporanea, così nelle sue “intenzioni” come nelle sue esperienze finali, vi si approssima). Ricordate la prima immagine di Beatrice nel Limbo: «lucevan li occhi suoi più che la stella» e «li occhi lucenti lagrimando volse». Se la commisuravate al ritratto stilnovistico «color di perla», quella era velleità, e questa concretezza. Se ora commisuri a quella prima immagine questa nuova, quella è velleità, sia pur stupenda di persuasione e di moto; ed è concretezza questa; quella apre tante variazioni poetiche, e sonetti degli «occhi lucenti», da Veronica Gambara a Giulio Salvadori; questa resta nella sua immobilità perenne. Esige che il passato sia ricordato, e annullato; e vinto: La bellezza ch’io vidi si trasmoda…2

La prefazione alla nuova poesia metafisica si rassegna a veder tramontata ogni poetica di «tragedia» e di «commedia»: tutta la sua esperienza passata, insomma; ché «la mente mia da me medesmo scema»,3 il ricordo diminuisce nella 342

memoria, l’intensità della vista, del possesso, annulla il giuoco delle distanze di cui è fatto l’ordito del commentare. La terzina seguente, tutta nel senso dell’attualità, benché contraddittoria sia questa vita terrena a questa vita empirea (ma non già contraddittoria nel cielo Empireo, dove l’opposizione suprema alla terrestrità è nella concretezza delle sembianze corporee), dichiara di aver sempre potuto, poetando, tener dietro alla sua bellezza: non più ormai, come a l’ultimo suo ciascuno artista.4

Lascia a «maggior tuba» di dire la realtà ultima del sovrasensibile, la vita colma di ciò che questa vita ha trasceso, ed al bando della Resurrezione. Annunzio e abbaglio. L’annunzio di Beatrice vale come un inno contrapposto all’epigrafe della porta d’Inferno; ma l’epigrafe scandiva immobilmente proposizioni tremende: qui, nel cielo di luce e d’amore, la gioia è un abisso interminato; e se il vortice infernale batteva sul duro fondo, «sovra il qual pontan tutte l’altre rocce», e ristava, qui la gioia nasce da luce ed amore e solo luce ed amore ha per confine: letizia dell’Essere che infinitamente si contempla per mezzo delle sue crature: Noi siamo usciti fore dal maggior corpo al ciel ch’è pura luce: luce intellettual, piena d’amore, amor di vero ben, pien di letizia, letizia che trascende ogni dolzore5

(nota, di passaggio, il modulo musicale, palese nella cesura e nella ripresa, contrapposto alla scansione epigrammatica di quel bando infernale). E come all’ingresso d’Inferno, sulla riva d’Acheronte, il pellegrino tramortiva, qui un lampo di viva luce gli toglie ogni vista: rito d’iniziazione pur questo: Sempre l’amor che queta questo cielo accoglie in sé con sì fatta salute, per far disposto a sua fiamma il candelo.6

E come la morte mistica dell’iniziato ai misteri d’Inferno avveniva «sulla trista riviera d’Acheronte», così, quando ritorna in sé, «compresi / me sormontar di sopr’a mia virtute»,7 vede lume in forma di rivera fluvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera.8

E se il mal seme d’Adamo irresistibilmente si gettava dal lito nella barca di Caronte,

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Di tal fiumana uscian faville vive, e d’ogni parte si mettean ne’ fiori, quasi rubin che oro circunscrive. Poi, come inebriate da li odori, riprofondavan sé nel miro gurge.9

Proseguiremo nella ricerca delle concordanze? Anzi, le abbiamo proposte perché si avverta, alla lettura del senso riposto, e al senso della riposta lettura, che quest’ultima immagine è, nella sua verità, scissa da quella prima, e che nella memoria del poeta, quindi nella sostanza della poesia, palese nelle suggestioni più segrete, dentro gli anfratti dell’immagine parlata, quel primo segno scompare: libera, lieta, finalmente spontanea, quali sono i fiori e le faville di luce, è la sua poesia: dalla quale è ormai estranea, del tutto vinta, l’immagine infernale.

Finale della “commedia” L’ultimo simbolo, prima della conquista dell’immagine dell’uomo e del suo degno convivio, divinità della persona e della società, è ormai oltrepassato. A lungo la Commedia ha agitato vita nel simbolo, e vite sotto le maschere; ma ora è tempo che il volto divino della verità e della vita, giunta la via al suo termine, si scopra: Poi come gente stata sotto larve che pare altro che prima, se si sveste la sembianza non sua in che disparve, così mi si cambiaro in maggior feste li fiori e le faville, sì ch’io vidi ambo le corti del ciel manifeste.10

Qui termina idealmente la commedia così come termina la poesia d’amore fra l’ultimo ritratto di Beatrice e l’ultimo canto di lode. Termina la commedia con l’abbattersi delle maschere e lo scoprirsi dei volti: come nei vecchi mimi, quando l’applauso riportava tra le quinte l’attor comico col suo volto vero, dimesso e umano, al povero trionfo dell’atto concluso. E s’inizia l’ultima ascesa, la beatitudine sola del viaggio in Dio, l’estremo passo di vita che al cospetto della Corte celeste, avvocato Bernardo, mediatrice la Vergine, compie il Pellegrino: il possesso del mistero trinitario, che non si può ridire, l’ultimo canto alle soglie dell’ineffabile. Ma qui ancora, se Dio lo consente, la parola può seguire la cosa: O isplendor di Dio, per cu’ io vidi l’alto triunfo del regno verace, dammi virtù a dir com’io lo vidi!11

Anche il Primo Mobile, la misteriosa intelligenza senza luogo dove l’anima ha compreso la vita degli angeli, prende forma; la prende nell’architettura di 344

questi ultimi canti, essa e il coro: è lei che irraggia una luce che le rende visibile Dio; è lei, con la sua convessità prodigiosa, distesa per un’ampiezza di circonferenza che supera le decine di migliaia di miglia che Dante assegnava alle dimensioni del sole, che forma quasi l’arena dell’anfiteatro sulle cui gradinate seggono i beati. Noi diciamo anfiteatro, per prolungare il più possibile la suggestione di chiarezza che per tanto tempo ci ha dato la metafora della commedia, ma Dante non le s’attiene, nella sua nuova assoluta libertà d’immaginare: la convessità del Primo Mobile diventa luce che irraggia; e «in più di mille soglie», scalini (qui il ricordo è dell’Abisso e del Monte; ma anch’esso frantumato da quel mille), si riflette in quella luce, come un clivo montano in un lago, quanto di noi là sù fatto ha ritorno.12

Clivo e poi rosa e poi convento de le bianche stole.13

Poetica senza nessi e prospettiva La tensione ha raggiunto un grado estremo: vidi, vidi, vidi, ha detto tre volte, in rima; così tre volte aveva detto «per ammenda» nel giudizio della casa di Francia; e tre volte, sempre, Cristo. Ma non è che la tensione si spezzi: giunge al suo grado d’immobilità concreta. Può indifferentemente, senza trapassi, da quell’altezza mirare la corona imperiale sopra un gran seggio che attende Arrigo; e può deprecare, immobilmente, la cupidigia che ammalia gli uomini: vi ammalia, dice; della sua umanità non si risente. Può ricordare (lontananza remota, ma la distanza là non s’avverte, in quella onnipresenza) la pena di Clemente V. A sottolineare quella spontaneità ritrovata, due volte la similitudine dell’infanzia: il fantolino che si sveglia e accorre alla poppa, il fantolino che muor di fame e caccia via la balia. Nel giallo de la rosa sempiterna che si dilata, ed ingrada e redole odor di lode al sol che sempre verna…14

L’una immagine non si distacca dall’altra, né s’aiuta dei nessi e delle virtù del discorso; e nella memoria resta senza far corpo con il racconto; e non ha moto di parabola, ma rettilineo; è assoluta in sé e nello spazio. Intendi la stanchezza, subito vinta, di quel «dunque», quando è per cantare la milizia degli Angeli: «In forma dunque di candida rosa…».15 La rosa ora è candida, splendente; ma bianchi gli angeli, con le facce di fiamma e l’ali d’oro. La sembianza angelica, fatta di sostanza assoluta, neve, oro, fiamma, sopravviene dopo l’immagine georgica dell’api:

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sì come schiera d’ape, che s’ìnfiora una fiata e una si ritorna là dove suo laboro s’insapora…16

e, ancora, nessun legame: vedi come quel «dunque» non basti. Clivo, rosa, chiostro: ora, alveare. Non conosci limite, ché l’una metafora non è legata all’altra nemmeno dall’essere variazione di un tema. La prospettiva, lassù, è abolita. Dì la tappa più a lungo frequentata dalla civiltà umanistica, se vuoi storicizzare; e sai che Dante ne è al di qua: fra i moderni impressionisti e surrealisti, ora; e che ha percorso il cammino di tutti. Tutto si vede, lassù, a incommensurabile distanza; ma non vi è «mezzo» frapposto; e nemmeno il senso di una distanza da percorrere, che era il fondamento della poetica purgatoriale: «il mezzo, puro insino al primo giro, / a gli occhi miei ricominciò diletto».17

Inno a Beatrice Ora: parabola del pellegrino che è giunto alla sua meta: alla Gerusalemme Celeste, alla Roma delle promesse: stupore dei barbari: Stupefaciensi…18

estasi nella contemplazione della Veronica: «Signor mio, Gesù Cristo, Dio verace, or fu sì fatta la sembianza vostra?»19

Accanto: l’ultima guida, Bernardo di Chiaravalle. Perché predicatore della crociata, perché devoto alla Vergine, il suo «fedele», perché mistico, e fra i più ardui dei contemplanti? Avverti che qui «perché» non ha peso: Diffuso era per li occhi e per le gene di benigna letizia, in atto pio quale a tenero padre si convene.20

L’attore è ormai tutto nel ritratto, il dramma è calato nel personaggio, il discorso è nell’immagine: ogni contrappunto tace, nella monodia volante; e se l’altro cambio di guida, Beatrice con Virgilio, era sceneggiata con tanta sapienza di spettacolo, cantato con tanto “pathos”, commentato di tanta storia, qui Uno intendea, e altro mi rispose.21

E il suo accorrere con gli occhi, dopo la risposta breve di Bernardo, che sospinge il suo sguardo,

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E «Ov’è Ella?» subito diss’io. Ond’elli: «A terminar lo tuo disiro mosse Beatrice me del loco mio; e se riguardi sù nel terzo giro del sommo grado, tu la rivedrai…22

La distanza che «nulla mi facea» senti che è silenzio: all’apparizione di Bernardo risponde la preghiera del commiato: «O donna in cui la mia speranza vige, e che soffristi per la mia salute in inferno lasciar la tue vestige, di tante cose quant’io ho vedute, dal tuo podere e da la tua bontate riconosco la grazia e la virtute. Tu m’hai di servo tratto a libertate per tutte quelle vie, per tutt’i modi che di ciò fare avei la potestate. La tua magnificenza in me custodi, sì che l’anima mia, che fatt’hai sana, piacente a te dal corpo si disnodi». Così orai…23

Non è mai stata tanto presente, Beatrice, com’ora che da Dio guarda a lui, e a Dio ritorna; né mai poeta ha riassunto nell’attimo lirico, immobilmente, tanta vicenda: preghiera e poesia. Anche questa nozione unitaria delle due fonti della conoscenza immediata Dante conclude; ma non ingrandirlo ancora della storia che egli stesso inizia, protagonista del tempo nostro, e di chissà quant’altro avvenire. All’inno del commiato succede la gloria della Vergine. Per riprender più forza e culminare con il silenzio, nella trasparenza di quella luce riappare una tessitura di discorso, e un linguaggio polifonico risorge. Canto dell’aurora, quasi aurora consurgens: Io levai gli occhi; e come da mattina la parte oriental de l’orizzonte soverchia quella dove ’l sol declina, così, quasi di valle andando a monte con li occhi, vidi parte ne lo stremo vincer di lume tutta l’altra fronte.24

Inno della crociata: così quella pacifica orifiamma nel mezzo s’avvivava…25

Tripudio degli Angeli:

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Vidi a’ lor giuochi quivi ed a’ lor canti ridere una bellezza, che letizia era ne li occhi a tutti li altri santi.

Rieccolo, a questo punto, abolire ogni divario fra l’attore e lo spettatore, fra l’artista e il lettore, tra la forma e l’affetto: gli Angeli giuocano e cantano, la bellezza ride, annullata quasi la forma, la letizia degli uni è, nell’attimo stesso, letizia degli altri che ne partecipano. E s’io avessi in dir tanta divizia quanta ad imaginar, non ardirei lo minimo tentar di sua delizia.26

La conclusione di tanta poetica è dunque il silenzio; e la conseguenza ne è che la gnomica è altrettanto libera che la poetica.

Stile della lezione di Bernardo Affetto al suo piacer, quel contemplante libero officio di dottore assunse…27

Nel penultimo canto di Paradiso risorge così un’attenzione strutturale; risorge appena: quasi indice e memoria di quell’astratta geometrica chiarezza che nel resto del poema aiutava la lettura. Che noi poi, lettori non abbastanza provveduti d’altro che di vanagloria, si ritorni con fervida fretta alla scuola puerile delle scale, dei cerchi, delle distanze, e misuriamo la corolla della rosa in rapporto alla convessità luminosa, le scalee dell’anfiteatro rispetto all’arena, e ancora una volta qui nell’Empireo, dove non è se non immediatezza dell’Essere, riproponiamo all’invenzione della poesia, anteriore a lei, la cifra geometrica, questo è discorso che tocca noi, non la sostanza di quell’invenzione. Sempre accade che dove Dante ci offre più soccorso di notizia, là più ci s’arresta. «Affetto al suo piacer», dice: ché la sua volontà gioiosa si riflette essa su di lui, lo tocca; e il suo catalogo una, due tre volte s’interrompe. Libero officio ha assunto: non perché amico, non perché scongiurato: per piacere di sé. Lascerà dunque per sempre il suo abito di contemplante e il «dolce loco» per farsi provvedutissimo informatore e dottore? Anzi: s’affretterà a concludere, e insegnerà a pregare: ché la dottrina è introduttorio della contemplazione, e anche Beatrice siede con l’antica Rachele. Comincia, in realtà, dove finisce: E cominciò questa santa orazione.28

Anche Dante ha or compiuto il suo viaggio con Beatrice, pregando: così la preghiera alla Vergine conclude l’itinerario umano, alle soglie del Padre.

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Le madri e gl’infanti Il primo catalogo è delle madri, ai piedi della Vergine Madre: catalogo quasi assorto e sospeso nella bellezza di Eva: La piaga che Maria richiuse ed unse, quella ch’è tanto bella da’ suoi piedi è colei che l’aperse e che la punse.29

Tanto bella che l’un nome dopo l’altro diventa pioggia di petali: com’io ch’a proprio nome vo per la rosa giù di foglia in foglia.30

A riscontro di Maria, all’altro capo del diametro che da lei traversa il gran cerchio, è Giovanni Battista, e i Padri, i fondatori dei grandi ordini religiosi, Francesco, Benedetto ed Augustino. Con un gesto misurato, ma più di geomante che di geometra nell’immensità viva della candida rosa, nel miro gurge della luce e dell’amore, Bernardo scomparte i Beati: mezza circonferenza dell’anfiteatro è tenuta dai credenti in Cristo venturo, e qui ogni seggio è colmo; mezza circonferenza, con numero eguale di posti, fra i quali alcuni ancora vuoti, in attesa delle anime che vi saliranno alla fine del mondo, i credenti in Cristo venuto. Similmente, lungo una sezione verticale: metà beati per meriti propri, metà per meriti altrui, gl’infanti: Ben te ne puoi accorger per li volti ed anche per le voci puerili, se tu li guardi bene e se li ascolti.31

In loro par che il contemplante si distragga, così vivamente li guarda, ed esorta a guardare. Un dubbio nasce nella mente di Dante, un problema teologico che gli tocca risolvere in senso diverso da Tommaso d’Aquino: come hanno luogo diverso, e diversa dignità le anime degli Infanti, cui la Somma assegnava grazia in una stessa misura? Il realismo del contemplante non esita a prender parte: una egual misura di grazia sarebbe norma astratta, ma Dio le menti tutte nel suo lieto aspetto creando, a suo piacer di grazia dota diversamente, e qui basti l’effetto,32

e la diversità del dono non è misura della sperequazione, ma indice della creatività perenne dell’eterno valore, che fin nel ventre della madre prescelse fra i gemelli discordi, Esaù e Giacobbe. Rimedio alla tentazione d’inaridire geometricamente il tema della candida rosa; e affratellarsi di proposizioni realistiche con proposizioni naturalistiche concorrenti nella superiore unità del misticismo contemplativo: Bernardo fa la storia delle anime sante dei Pargoli: 349

Bastavasi ne’ secoli recenti con l’innocenza, per aver salute, solamente la fede de’ parenti.33

Ecco la natura disancorata dal Peccato senza segno, senza circoncisione o battesimo, per quella virtù che dalla fede è misteriosamente penetrata nella naturalità stessa corporea dei genitori, quasi trasmessa col sangue. Il ragionamento di Bernardo ha un suo evidente rigore di deduzione; e il riallacciarsi del naturalismo e del realismo al misticismo, anzi che all’astrazione matematica del positivismo, aveva avuto prima di lui, ed ebbe dopo di lui, una storia. Ha un più ricco valore di suggestione: infatti, l’implicito accenno ad una naturalità redenta dalla fede, nei primi secoli, è concluso con l’immagine di Maria: Riguarda omai ne la faccia che a Cristo più si somiglia, ché la sua chiarezza sola ti può disporre a veder Cristo.34

E con il rito dell’Annunciazione si chiude l’episodio degli Infanti: Gabriele raccoglie le ali adorando, canta Ave Maria gratia plena, rispondono alla divina cantilena i Beati.

I patrizi E infine il catalogo dei gran patrici di questo imperio giustissimo e pio.35

A sinistra di Maria, l’imperatrice, siede Adamo, a destra san Pietro: la radice naturale e la radice sovrannaturale della candida rosa; e Giovanni apostolo alla destra di Pietro, e Mosé alla sinistra di Adamo. È l’inquietudine che lo trasporta, per quel che d’attesa (ed è speranza) può offrire il gaudio di Paradiso? Il suo sguardo, se pur guarda, se distoglie gli occhi dal contemplare la Vergine, vola da san Pietro, lungo tutto il diametro del cerchio, ad Anna: Di contra a Pietro vedi sedere Anna, tanto contenta di mirar sua figlia, che non move occhio per cantare osanna.36

A quel modo, nel prologo al poema, la preghiera dell’intercessione era corda dalla Vergine a Lucia, e da Lucia a Beatrice, trasvolando: Bernardo lo rammenta: E contro al maggior padre di famiglia siede Lucia, che mosse la tua donna, quando chinavi, a ruinar, le ciglia.37

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Ormai il viaggio sta per compiersi fuor dell’Empireo, nella sottostante sfera dove Beatrice è scesa: il tempo fugge che t’assonna.38

Tanto di tempo era stato dato a Dante per il suo viaggio verso l’eterno: anche il contemplante rispetta la misura terrena come buon sartore che com’egli ha del panno fa la gonna…39

e poiché fugge, in quel mondo terreno cui l’uomo è sempre legato, pur nella sospensione del sonno mistico (e di un ultimo tramortimento dei sensi parla pur qui, mentre s’approssima l’ultima visione), conviene affrettarsi alla preghiera.

Contemplazione di Dio La libertà di fantasticare in completa disponibilità di abbandono qui si rinnova; e le dobbiamo i due vertici della sua poesia: la preghiera alla Vergine, che schiude la visione della Trinità; e il vortice delle immagini che prelude alla rivelazione dell’effigie umana di Cristo. Due poli, quella preghiera e quel vortice.

Preghiera alla Vergine La preghiera è di per sé miracoloso approdo alla pace: nulla la sostenta, nulla la condiziona; nasce e cresce con quella naturalezza suprema con cui, dietro la sua musica, si schiude l’immagine del fiore: Nel ventre tuo si raccese l’amore per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore…40

discesa dei toni musicali a una profondità commossa, quando sul vertice dell’immagine zampilla e s’erge la luce. Anche, cominciando, le aporie del dogma sono ad una ad una intese, accostate, sciolte: perché coesistono (altri le crede avverse), fioriscono; la vetta della prima scansione è, dall’esistere all’essere, «tu sei», come della seconda è «questo fiore»: Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio, tu se’…41

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Vedile non soccorse da un modulo noto di discorso: come potrebbe la stessa climax significare insieme salire e insieme discendere? Ma certo se «fiore» s’erge sul suo stelo, quando lo riascolti accanto a «tu sei» discende in gorgo nelle profondità del germe. Nel mirifico alternarsi della fuga, pur serbando echi di quelle altezze e di quegli abissi senza discorso, il poeta distende i suoi mottetti: tre terzine pur legate da un filo, il messaggio fra l’accolta dei Beati, specchio di quella pace, più grande del Sole, più lucente dell’Arena, Qui se’ a noi meridiana face di caritate42

e il segreto del mondo, fra i morituri, dove rampolla la fontana della speranza e giuso, intra i mortali, se’ di speranza fontana vivace.43

Così la preghiera sale e trionfa: fontana, volo, soccorso, e canta distesa: In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate.44

Il pellegrino ripete la storia dei mortali: era giù, nel profondo del mondo, ha viste ad una ad una le vite dello spirito, chiede di vedere più alto: come prima la preghiera a Maria era nel contempo affetto di Maria verso l’orante, così ora, verso l’interceditrice Bernardo fa parte con chi deve essere esaudito, ama come non ha mai amato, sale, solleva la preghiera dove il fedele ha da giungere: tutti miei prieghi ti porgo, e priego che non sieno scarsi, perché tu ogni nube li disleghi di sua mortalità co’ prieghi tuoi, sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.45

Dopo l’inno, l’oratio: che la Vergine stia a guardia dell’errante: Vinca tua guardia i movimenti umani.

Beatrice e tutti i beati congiungono le mani pregando: Vedi Beatrice con quanti Beati per li miei preghi ti chiudon le mani.46

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Ritornare dal sogno Un intermezzo s’apre tra la preghiera e il vortice. Guarda in Dio, ma, parlando, s’accorge che è al di qua della realtà vissuta: parola e memoria le sono inferiori Qual è colui che somniando vede, che dopo il sogno la passione impressa rimane, e l’altro a la mente non riede.47

Questo è preludio dell’intermezzo; ed è, insieme, affranta fatica di un ritorno, pena del viver così, limite invalicabile della parola, limite non più fecondo, perché di là è solo la memoria oscura, inattingibile. Un’immagine (non questa, che dalla trasvalutazione anzi si ritrae) riscatta con la potenza della poesia la potenza della vita: ché là diceva il ritorno desolato dal sogno, con la gravezza di un’esperienza pur sempre condannata e terrena; ma qui risale e canta; e dopo la neve liquefatta al sole, dopo il vento che ha rapito i responsi divini, resta pur la vita di quel sole, di quel vento, la forza dell’eterno moto, dell’inintermesso mutare: Così la neve al sol si disigilla, così al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla48

(ascolta che il ricordo dei nomi e delle immagini, la memoria stessa delle parole, non ha più peso: si dissigilla, si perdea; ma la forza della vita è già d’un balzo varcata). Preghiera alla somma luce, perché quell’albore di vita riceva luce e forza: O somma luce, che tanto ti levi da’ concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la lingua mia tanto possente ch’una favilla sol de la tua gloria possa lasciare a la futura gente.49

Riacquista forza: «io credo» «mi ricorda» «presunsi / ficcar lo viso». Il pullular delle immagini asintattiche è attratto dall’immagine che rovescia in luce l’intermezzo del punto oscuro: Un punto solo m’è maggior letargo che venticinque secoli a la ’mpresa che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.50

Ultimo rito del sonno mistico; e il dominio del tempo, delle lontananze, del mito, a questo suo nuovo navigar nel mare dell’Essere: «nel suo profondo vidi»! E tutto il mondo riassunto in un punto. 353

La nostra effigie Di potenza in potenza, mirando, cresce: l’Essere che gli è innanzi lo attrae a sé, con tale amorosa forza che nulla esisteva all’infuori di Lui; né l’Essere muta; ma il contemplante, rinnovato dalla mistica unione, vede mutare l’Essere che lo travaglia. Giunge all’emblema di Dio uno e trino: Ne la profonda e chiara sussistenza de l’alto lume parvermi tre giri di tre colori e d’una contenenza; e l’un da l’altro come iri da iri parea reflesso, e ’l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri.51

Un’altra pausa: oh, quanto è corto il dire! Riprende una volta ancora con la preghiera, medita la potenza di Dio, che sé sola intende, sola in sé esistendo. Ma nel cerchio interno della Trinità, che pareva lume riflesso, lentamente e intorno guardata dal contemplante, si rivela l’effigie mi parve pinta de la nostra effige52

e l’attrae. Ultimo termine del viaggio umano: riconoscersi in Dio-uomo. Ed ultima illuminazione, quando il contemplante indaga «come si convenne / l’imago al cerchio e come vi s’indova». Non che da sé avesse forza ed ala che basti ad investigare il mistero della natura umana e della natura divina in una persona; ma il suo desiderio e il suo volere si muovono ormai del moto di Dio, quello che muove il sole e le stelle, che accorda il suo esistere alla libertà infinita.

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Pd XXX, 1-9. Pd XXX, 19. 3 Pd XXX, 27. 4 Pd XXX, 33. 5 Pd XXX, 38-42. 6 Pd XXX, 52-54. 7 Pd XXX, 56-57. 8 Pd XXX, 61-63. 9 Pd XXX, 64-68. 10 Pd XXX, 91-96. 11 Pd XXX, 97-99. 12 Pd XXX, 114. 13 Pd XXX, 129. 14 Pd XXX, 124-126. 15 Pd XXXI, 1. 16 Pd XXXI, 7-9. 17 Pg I, 15-16. 2

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Pd XXXI, 35. Pd XXXI, 107-108. 20 Pd XXXI, 61-63. 21 Pd XXXI, 58. 22 Pd XXXI, 64-68. 23 Pd XXXI, 79-91. 24 Pd XXXI, 118-123. 25 Pd XXXI, 127-128. 26 Pd XXXI, 136-138. 27 Pd XXXII, 1-2. 28 Pd XXXII, 151. 29 Pd XXXII, 4-6. 30 Pd XXXII, 14-15. 31 Pd XXXII, 46-48. 32 Pd XXXII, 64-66. 33 Pd XXXII, 76-78. 34 Pd XXXII, 85-87. 35 Pd XXXII, 116-117. 36 Pd XXXII, 133-135. 37 Pd XXXII, 136-138. 38 Pd XXXII, 139. 39 Pd XXXII, 140-141. 40 Pd XXXIII, 7-9. 41 Pd XXXIII, 1-4. 42 Pd XXXIII, 10-11. 43 Pd XXXIII, 11-12. 44 Pd XXXIII, 19-21. 45 Pd XXXIII, 29-33. 46 Pd XXXIII, 37-39. 47 Pd XXXIII, 58-60. 48 Pd XXXIII, 64-66. 49 Pd XXXIII, 67-72. 50 Pd XXXIII, 94-96. 51 Pd XXXIII, 115-120. 52 Pd XXXIII, 131. 53 Pd XXXIII, 137-138. 19

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Storia della fortuna

Preambolo sulla fortuna

Definizione e limiti Storia della fortuna è vita di Dante nel tempo: dove “fortuna” significa l’esteriorità estrema di una vicenda, e ciò che nel tempo è meno guadagnato ed umano, le condizioni estrinseche che assistono a un acquisto senza che sian fatte proprie nella cerchia di una vita e di una parola; ma lo spessore della zona opaca par che diminuisca, via via meditando, e l’occasioni fortuite rivelare via via un senso, disporsi all’intelligenza, lasciarsi permeare (così dalla polistorica alla provvidenza, che è il cammino della storia), sì che «vita di Dante nel tempo» viene a significare il più possibile del guadagno opposto, della libertà e della coscienza sopra le cose, della elezione e della scelta sopra le occasioni, e dir di una volontà operosa che guadagna il segreto dell’uomo quanto più è possibile, e, attiva, rende diafana la parola che pareva prima armata di una impenetrabile magia e invincibilmente soccorsa dal caso. L’orgoglio ingenuo di ognuno che sopraggiunge è di aver percorso tutta la vicenda dalla fortuna alla vita; in realtà, vede quel che appunto vede, e il resto, anche se lo guardasse, non lo vedrebbe, e gli resterebbe comunque ignoto: così, al centro del suo cerchio, ignaro di una rispondenza infinita; ma anche in questo subordinare a sé l’oggetto, e farsi dispensatore d’intelligenza e chiarezza, è sottinteso che egli s’impegna nel largire, di quanto almeno l’altro acquista; così che la storia della fortuna diventa pur per questa via acquisto della coscienza, consapevolezza di sé e della propria storia. È forse vero che il tumultuoso fervore delle letture romantiche, espresse in cataloghi di notizie e in attualità d’immagini, abbia più guadagnato di Dante che la contemplazione tranquilla, l’assuefazione diligente e quasi inavvertita degli artisti del Quattrocento toscano? Ma Dante riecheggia di tanto quanto è lo spazio e la misura di chi gli parla: pena comminata a chi scrive, e limite della sua superbia, se almeno intende, toccando quella parete spessa e sonora, di quanta profondità riecheggi di là dallo spazio guadagnato; ma se pur neghi la possibilità del più e del meno, e la costanza di un successivo acquisto, e una linea progrediente nell’esegesi perenne, certo in ogni fase della successiva conoscenza di Dante si specchia il ritmo e la cifra dell’esperienza storica e civile cui il lettore appartiene; la storia di Dante nel tempo è un’altra via per la storia di noi nel tempo: uno dei cammini della conoscenza, se non il solo. Qui t’avvedi della fallacia di chi proponesse di escludere dalla sfera degli interessi attuali della lettura questa o quella zona, come «superata» dal tempo: ché non accetterebbe il canone della universalità e necessità delle partecipazioni, e si escluderebbe da sé a qualcosa di umano, proclamandolo alieno da sé; e per contro intendi e riprendi quel 359

moto di cui cominciando ti avvedevi, che conduce a render sempre più sottile la zona delle incomprensioni, sempre più scarsi i divieti all’intelligenza, sempre più penetrativo il senso, e acuta la lettura. Dante si riaffaccia a specchio del tuo universo umano attuale, se tu lo guadagni nel profondo; ed egli ti aiuta ad uscire dal flusso perenne del tempo, e, attraverso l’occasione del tempo, provvidenzialmente, a guadagnare la presenza umana. Ventura del nuovo pellegrinaggio: ché Dante per guadagnar l’eterno era uscito dal mondo; e noi, per riguadagnarlo, lo costringiamo nel tempo nostro e suo, perché da lui uscito e di lui suggellato.1

Cronache e statistiche dell’editoria come limite dell’accettazione passiva Ben inteso, per “fortuna” non s’intende la statistica delle edizioni, il novero dei codici manoscritti e dei libri a stampa, la frequenza dei richiami. Eppure di lì si comincia. Quel nome «fortuna» applicato a materia sì trita, a un catalogo di bibliografia nemmen ragionata, ha un’intenzione riposta o malavvertita che sembra salvare la dignità dell’operazione, pur che la si prosegua. L’accento umanistico della parola, con quella sua reverenza rispettosa, lo sdegno che un quantum rimanga così fuori e sopra l’umano e la virile accettazione dell’inevitabile, insieme rassegnata e crudele, riassume o ripete l’animazione onde tante indagini furono condotte, la gloria di strappare al tempo la pagliuzza d’oro di una notizia, la pazienza; ma nemmeno nasconde la pretesa di ridurre al segno del numero la storia, e nella guerra del tempo disporre come operazioni preminenti la rassegna e l’elenco. Si giunge a dimenticare il senso primo della parola e a incantarsi nel grafico fra l’ascissa degli anni e l’ordinata del numero delle edizioni; e veder crescere il numero dei codici nel Trecento e declinar nel Quattrocento, crescere il numero delle edizioni nel Cinquecento e declinar nel Seicento significa definire in cifre le rispondenze molteplici del linguaggio e degli uomini alla parola della Commedia e all’uomo Dante. Si dimentica, dietro alla magia delle cifre, che proprio nel bel mezzo della crisi umanistica della lettura di Dante l’umanesimo fiorentino, sollecitato direttamente e indirettamente dalla lettura che ne fecero gli artisti delle arti figurative, da Masaccio a Pier della Francesca, e da Jacopo della Quercia al Pollaiuolo, capovolse con Cristoforo Landino l’ordine delle letture; e che la nuova intelligenza di Dante risorse con Giambattista Vico quando l’editoria sembrava constatare esausto ogni interesse della lettura parenetica disposta al volgo e della lettura umanistica disposta agli intellettuali. Da tale cronaca del libro, dicevamo, si comincia: infatti, nella storia della fortuna, quindi della vita nel tempo, quel segno inerte del numero (in apparenza inerte: ricevere è pure il principio dell’accogliere; una passività totale non esiste forse nemmeno come fatto fisico, si deve dubitar che esista come fatto biologico, certo non accade nella vita dello spirito; chi riceve senza reagire non riceve affatto: appartiene a un’altra sfera, è l’abitante di un diverso universo) sta ad indicare emblematicamente il polo delle accettazioni: la misura che gli tocca è estensiva, in attesa che all’altro polo, quello delle partecipazioni, 360

che è la storia dell’esegesi, si ragioni non più di estensione, ma di profondità. E così, con la cronaca del libro, si comincia il capitolo della fortuna, con il fatto materiale di enne esemplari diffusi in quella determinabile dimensione di spazio e di tempo. E si dimentica, iniziando il capitolo nuovo, che la persona di Dante s’era pure esercitata in vita e andava esercitandosi in morte, attraverso il mito di sé e la sua presenza prima, il suo ricordo poi, in tal modo da avvalorare la parola dell’opera con la persona: dubitando spesso l’autore, quando rifletteva di sé e del suo fare sotto la specie di onore e di gloria, che la sfortuna della sua vita non danneggiasse la fortuna dell’opera, e sperando che la fortuna dell’opera riconducesse in porto l’esule pellegrino: dal rammarico titubante del Convivio «non solamente mia persona invilìo, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare»,2 all’inno speranzoso del Paradiso: «Se mai continga […]».3 Ma altro metodo non ci soccorre: non facciamo storia di un mito, ma storia di un libro; e ogni tratto della persona, una volta che siamo passati attraverso la lettura, è riassunto nella parola, deve esser ricuperato attraverso la poesia, operoso sulla materia poetica nel segnarla; nulla vogliamo sapere più, dopo che alla lettura siamo andati accostandoci con tutti i sussidi delle circostanze storiche e delle nozioni complementari, se non quello di lui che ci appare attraverso la verità della parola. Ma Dante è più vicino a Omero che a Davide, più a Shakespeare che a Goethe: benché poeta profeta come il re cantore, e, quanto o più che il cortigiano, operoso nella politeia dei suoi vivi. Dunque la storia di quella fortuna, che è pur fortuna d’uomo e di quel che più gli appartiene, la viva sostanza del suo io espressa, comincia dalla cronaca di un libro.

Vita della parola… Il criterio statistico del numero va posto e subito abbandonato: la vita della parola irraggia con una sua propria frequenza, con un ritmo creativo attraverso l’occasione; il numero le si subordina immediatamente, e se la frequenza statistica dei codici e delle edizioni era un indice necessario per la valutazione iniziale, subito che si entra a ragionar del vivo della irradiazione dell’opera, ecco che la stessa frequenza si subordina ai modi della lettura: vedi i commenti che della Commedia facevano un’opera devozionale, lungo il Trecento; vedi le iconografie dei Romantici, quando incominciò la lettura mitografica. E poi, un proverbio estratto da un canto fa un suo cammino, va fra la gente di bocca in bocca sfigurato: «messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba».4 E una parola viene a suonar diverso secondo che si colora dell’ambiente: «e ’l fiorentino spirito bizzarro…».5 (Bizzarro, anziché bizzoso, significò genialmente capriccioso, dopo che Boccaccio rievocò in quei suoi modi la società della Firenze dantesca, intorno a Filippo Argenti.) E nella sintesi del nuovo artefice la parola primitiva viene a subordinarsi ad altri apporti, tanto più ricchi essi stessi quanto è più profondamente appresa la parola del poeta, gli uni e l’altra subordinati all’intensità dello spirito vivificatore: Ferrara accettò anche da Dante, rispecchiato in certo arcaismo fiammingo, l’emblematismo dei suoi pittori quattrocenteschi; e a Firenze mandò 361

Savonarola. L’universo della parola riecheggia per vie misteriose, sollecita nuove attenzioni su temi prima impensati, coordina in nuovi discorsi le favole e in nuovi nessi sintattici le immagini. Seguir la vita della parola, presumendo di attingere una informazione completa, quale si può ottenere, se si può, intorno al fatto estrinseco di una attenzione meccanicamente impegnata (l’editore dell’editio princeps o la notizia intorno a un egregio commentatore), è impossibile, e pretenderlo è assurdo. La parola si diffonde nell’universo della parola e l’invade tutto quanto e se ne risente: come di cosa viva che è, che ha sue proprie leggi nel suo moto. Possiamo soltanto discernere i nodi delle frequenze, le soste e gl’indugi degli incontri, vedere come i fatti della riflessione e del costume (fatti che si adeguano con vie più rigorosa costanza ad una legge, fatti insomma che si organizzano e si connaturano, dono dello Spirito al mondo esteso, e il cristallizzarsi della libertà nella necessità) vadano disponendosi sopra le parole, e dalla cerchia delle immagini in danza ricevano quasi un segno per adunarsi secondo un modulo predisposto: così si prolunga la fortuna della terzina, così si atteggia il costume del poeta interprete della dignità religiosa e civile del suo popolo, così si compagina la fantasia dell’accolta nel canone della commedia; modi, questi e gli altri, che appartengono certo alla fortuna di Dante, ma che dalla libera suggestione della parola poetica, nella sua trasparenza iniziale, e nel moto con cui da prima pervadeva l’universo della parola, sono ormai distanti. Pur di questi moti facciamo la storia, e li indichiamo per comprendere la diversa efficacia con cui i nuovi vivi risentano del segreto dell’incomunicabile parola. Dal poema all’immagine alla parola è una sola vicenda; e nella parola si consegna quel che poi vivrà nella lingua, custode di una primitiva animazione, che può d’un subito imprevedutamente prorompere, rifattasi viva, e con lei l’uomo.

… e vita dell’uomo Ché la storia della fortuna è dalla parola all’uomo, se il cammino della poesia fu dall’uomo alla parola. O diremo: è stato? Certo la tesi dell’esegesi perenne, dunque di un continuo acquisto verso la verità, si integra nella tesi della filosofia perenne; e questa in quella dell’umanesimo perenne: di una trascendentale condizione dell’uomo. Ma limitare alla storia le responsabilità del metodo, e persino dubitare della sua efficacia futura, conferma che proprio a Dante poeta è dovuto molto di tale poetica della persona, se meno se ne parlava prima e senza di lui pare che l’opera stessa della poesia sfumi in un vago sovrasenso e si disperda. Ch’egli se ne vada e non riappaia, nell’atto d’ogni lettura, presente e operoso, che il suo messaggio sia affidato a quel tesoro della parola e distaccato per sempre da lui, non puoi nemmeno supporre; e l’esercizio linguistico meglio organizzato intorno al suo esercizio poetico si conclude sempre in una nozione della persona. Coesistono il mondo delle parole e il mondo degli uomini, e astrattamente puoi anche separarli; ma il mondo degli uomini, se lo supponi senza la parola, perdi l’intimità più vera del suo segreto, e lo costeggi soltanto, chiuso negli schemi della pratica e della logica, sbarrato; e il mondo della parola 362

scorre nell’orbite delle leggi, fluttua nella vicenda della storia, ma come viva di sé, e nemmeno se viva, non riesci a intendere. Ma Dante per primo nella nuova storia accetta di far della parola tutto il suo mondo, e per converso di non lasciar nulla della parola alieno da sé, e s’impegna, parlando e solo parlando (forse non voleva, o non sapeva di volere; ma appunto la politica lo respinse dai suoi metodi indiretti ed astratti, e lo aiutò a scoprire che di là dell’animale politico è più “persona” l’uomo sapiente, e di là dalla sapienza realizza più di se stesso l’uomo che parla: propedeutica della Retorica, quando nella sua vita il tempo fu maturo ad ogni soluzione attiva e di vita). Dunque non già risolveva se stesso in parola come aveva appreso a fare dai suoi maestri ed amici, «ragionar per isfogar la mente», e come subito dopo di lui riprenderà a fare il Petrarca; ma la parola, tutta la parola. Invadenza della persona: quindi, necessità del ritratto; non per nulla, né solo per le sollecitazioni estrinsecamente autobiografiche di Dante (che non hanno nulla del biografismo moderno, della sua ansia di disperdere il reale, nella confessione, e se stesso, per liberarsene) i suoi lettori sono tanto volentieri suoi biografi: l’Ottimo cominciò, e lo seguiva Boccaccio; e ad aprire i nuovi tempi della lettura di Dante, Foscolo si riallacciava all’uno e all’altro: davvero chi non risolveva la lettura di Dante in una esposizione dottrinale, moveva alla conoscenza dell’uomo. Ma gli antichi si lasciarono spaventare dalle sue maniere «dispettose»; i moderni accettarono i gesti più diversi per guadagnare dietro l’immagine dell’uomo esemplare l’immagine dell’uomo integrale: in questo senso fu feconda la ricerca della letteratura risorgimentale. Poi accadde che lo stesso rigore della disciplina che il poeta attraverso la parola e la vita impose a sé uomo paresse un gesto, un metodo, una prassi; meno segreta e men vera che i turbamenti e i segreti d’altri poeti: si accorreva all’uomo diverso. Diverso da lui, vien fatto di accorgersi: il rigore della sua poetica, lei sola capace di riassumere in sé il mondo dell’umano, consentiva la sperimentazione marginale d’altri esemplari umani; ma era stato lui a dichiarare l’impegno assoluto della parola: le libertà minori vivevano nella sua luce. Così l’officiatura di Dante autore alla ricerca di Dante uomo consentiva altre innumerevoli esplorazioni di diversissimi moduli biografici; e s’arricchiva il catalogo delle vite dei poeti, restando pur suo il primo paragrafo: di tante suggestioni svolte in direzione varia ed anche opposta è fatta la storia della fortuna di Dante.

Storia della esegesi come limite delle partecipazioni Ma rintracciare la vita dell’uomo, e superare la svolta della vicenda dal verbo alla verità, e dalla verità alla vita, comporta pure abbandonare affatto la sfera delle accettazioni, che s’incentrava, vedemmo, nelle cronache del libro, ed entrare nella sfera delle partecipazioni, quella che ha per suo polo la storia dell’esegesi. Assistiamo, trascorrendo di epoca in epoca e di persona in persona, a sempre nuovi incontri dove s’accrescono sempre nuove persone. Disporre la lettura di Dante lungo i secoli aiuta a seguire l’acquisto di Dante, ma anche l’acquisto da Dante: quello che da Dante la gente ricevette via via dicendo; mentre il “quan363

to” di vita accostata a vita scopriva le risonanze non intese della parola. La critica risorgimentale credette di potere stabilire un parallelo fra il rinverdirsi del “culto” di Dante e un ritornar della linfa vitale, di tempo in tempo, nel tronco dell’itala gente: curiosa oscillazione fra la storia e la natura, di quella cultura storico-naturalistica, che con il culto officiava la vita; e ben presto la venerazione del patriarca della poesia italiana diventava idolatria, se si immaginava che ad assicurar la vita di quel tronco occorresse curar che quei rami fossero verdi. Sarà difficile stabilire un così rigoroso parallelismo; più facile e fondato notar la presenza di Dante in ogni fase dell’intelligenza umanistica, quando appunto nel binomio fra arte ed artefice si opta per l’artefice (di qui il declino della fortuna di Dante lungo l’età barocca; e la riscoperta vichiana di Dante, accanto alla riscoperta del vero Omero, quando l’inventività barocca supera finalmente il separatismo di parola e di vita, l’invenzione si risolve in creazione e attraverso il moralismo della tradizione e del costume si ricupera il senso della unità della vita morale): più significativo notare il fatto che Dante consente meno di ogni altro poeta l’esercizio distaccato della lettura e della notizia, mentre impone di ripercorrere con lui, chiunque gli si avvicini, tutta la vita della parola e tutta la via della vita. Cosicché la storia della critica diventa novero e intelligenza di una società di uomini che sperimentano se stessi, integralmente, nella lettura, e che, leggendo il poeta del Giudizio, fanno giudizio di se medesimi: senza tuttavia interrompere le più solerti partecipazioni alla vita di tutti (Dante, che cominciò poeta esoterico, non tollera le conventicole dei cultori quasi segreti, i clubs degli ammiratori, le chiesuole dei patiti), anzi adempiendo anche in questo la sua raccomandazione prima, dell’impegno totale. Storia dell’esegesi; ma come punto di riflessiva intesa e di animata convergenza; ché ogni catalogo di notizie, notizie d’uomini e notizie di letture e di scoperte ermeneutiche, ci riporterebbe a quella prima sfera delle accettazioni: prima e dopo il fatto della riflessione critica di una lettura c’è la suggestione mimetica dell’immagine, che suggerisce altra immagine, e c’è la suggestione morale della vita che suggerisce altra vita. Storia della fortuna è anche raccolta di queste indicazioni preziose delle riflessioni più remote: vorremmo che fuor della persuasività immediata e prepotente del fatto cronachistico, che è altrettanto povero che evidente, ci si avvezzasse ad annotare la presenza di Dante operosa fin nei silenzi. V’è chi pubblica, chi commenta, chi soltanto legge; e chi ripete senza pur sapere che la sua parola ha in lui la sua fonte.

1 Poiché il preambolo non è un trattato ma una postilla, ci si consenta, anziché un riferimento trattatistico, un luogo di Croce, ovvia premessa di questo discorrere: «Ogni parola che ascoltiamo è una lingua nuova e straniera, perché non fu mai detta per l’innanzi, e noi, udendola per la prima volta, la comprendiamo solamente con uno di quegli atti di consenso e di simpatia che abbiamo riconosciuti fondamentali ed essenziali. Atti di consenso che sono preceduti sempre da sforzi, sempre da “preparazione filologica” maggiore o minore, spiccante o celata e quasi invisibile, attinta da libri o dalla propria memoria, faticosa e lenta o facile

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e rapidissima […]. E, del resto, la sentenza che ogni nuova poesia sia un nuovo linguaggio appartiene alla comune esperienza e riflessione». Non si poteva suggerir meglio l’idea che ogni nuova parola inizia un nuovo ciclo di esperienze, quindi una nuova storia (La Poesia, 3a ed., Bari 1943, p. 79). Alla premessa tocca una postilla: Difficoltà della nuova poesia a farsi comprendere (pp. 270 ss.); dove si cita un passo di Proust, di quella parte del romanzo del tempo perduto e ritrovato che ha per titolo A l’ombre des jeunes filles en fleur: una prosecuzione decadente ed un’officiatura squisita di certo stilnovismo prezioso che ritroveremo nella fortuna dantesca dell’Ottocento: «Toute nouveauté ayant pour condition l’élimination préalable du poncif auquel nous étions habitués, et qui nous semblait la réalité même, toute conversation neuve, aussi bien que toute peinture, toute musique originale, paraîtra toujours alambiquée et fatigante». A questo punto la discussione verterà sopra una constatazione storica (difficoltà e lentezza dell’acquisto della poesia nuova), o sopra una tesi polemica (propensione dei “poetae novi” a prendere per sufficiente la necessaria oscurità iniziale). Ma a noi tocca di arrestarci ad una constatazione metodologica: l’errore di un filologismo che si ferma al catalogo delle esperienze partecipate dalla poesia, anteriori a lei e da lei innovate e trasfigurate, o di un determinismo che di una situazione fa la condizione del puntualizzarsi di una poesia. Infine, a risospingere la postilla all’intelligenza di Dante, nota come il poeta per uscire dal chiuso delle esperienze neoteriche giovanili accetta una rispondenza universale: e cerca il luogo (l’Empireo) dove esser presente a tutto il contingente. 2 Convivio I, III, 5. 3 Pd XXV, 1. 4 Pd X, 25. La sua fortuna è dovuta anche al fatto di essere la conclusione, un po’ sdegnosa e da commedia, delle metafore conviviali notate nel Cielo della Sapienza. Non dubito che l’aneddotica, nell’attribuire tanto volentieri a Dante le storielle dei conviti alla corte di Cangrande, non abbia preso al balzo la palla gittatale. 5 If VIII, 62.

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Gli elogi funebri

Incontri con Dante vivo e con Dante morto Se la vita di Dante dopo che fu morto, la storia della fortuna, segui lungo la cronaca di un costume letterario, ti colpisce il divario fra l’animazione dei colloqui e degli incontri del periodo stilnovista (quando era così intrinseca l’intesa dei poeti, e bene apprese le parole non dette, quanto e più delle aperte, e affabile quel discendere dalla sfera rarefatta e pellucida del ritualismo alla festa e al giuoco della gente), e la solitudine di cui lo circondano subito dopo scomparso: ché la prova di una scuola poetica, e di una officina editoriale ravennate, presto fallisce, dove l’incontro colmava ogni divario, mentre il poeta era vivo, o quando eran calde le sue ceneri sante, fra i piccoli uomini, figli, discepoli, amici, e il giganteggiare della solitaria Commedia; e resta l’eulogio eloquente, resta l’ambizione di attingerla dottrinalmente, resta la disciplina della lettura e dello splanamento: per questa via più si profittava; ed era la via più vicina a quel sentiero che percorrevano gl’indotti, lasciando che le terze rime cantassero nella memoria e soccorressero, disavvedutamente, la favella. Storicamente, se esci dalla sfera delle suggestioni linguistiche e ti fidi delle indicazioni del costume letterario, una spiegazione ti soccorre: quella poesia stilnovistica era ben fiorentina, cresciuta certo ascoltando (Guinicelli, da Bologna) e ascoltata (beffardo Cecco, da Siena; e devoto Cino, da Pistoia), ma in una cerchia così stretta d’anni e di spazio che la frequenza faceva dimenticare le ambizioni tanto o troppo vaste di conquista: bastava un cenno, per comprendersi, e se Guido alzava la mano ammonendo, Lapo distoglieva lo sguardo e l’intento dalle cose reali, e trasfigurava in azzurro ed argento l’immagine e la festa del mondo. La tradizione stilnovistica continuò in Firenze anche quando Dante fu esule («e con ingegno sottrattigli del luogo dove erano, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore in Firenze», dice Boccaccio del ritrovamento dei sette canti, quasi per stabilire anche così un’ideale congiunzione fra la vecchia poesia e la nuova)1 e poi quando Dante fu morto; ma come cosa propria ormai e più ristretta, quasi accademia: com’ebbe ad accorgersi Boccaccio stesso, giovane, tornando a Firenze, e oscillando, in quegli anni, fra i ricordi dello stile internazionale e la maniera spiritualeggiante dell’Amorosa Visione. E invece la fama di Dante si colloca subito in una sfera nazionale, mentre echeggiano intorno a Ravenna i panegirici, e vi convergono attenzioni culturali sostenute con un certo impegno, presumibilmente, anche da interessi politici (e poi presto da Ravenna si polarizzano l’une, le attenzioni culturali, nella loro natural sede di Bologna, gli altri, 367

gl’interessi politici, fra Padova e Verona, quasi combattendosi anche così per la eredità della Marca Gioiosa, fra i ghibellini veronesi e i guelfi padovani). Luoghi danteschi, anche questi, di Dante esule, di Dante lombardo, di Dante adriatico. Dunque, il divario fra la cerchia della cronaca e l’ampiezza della risonanza sarebbe spiegabile dall’esterno, ripercorrendo le condizioni estrinseche della vita di Dante? In realtà, anche questo destino e questo divario sono intrinseci alla poetica di Dante, che determina essa la sua cerchia: fiorentina, in un primo tempo, ma astratta; nazionale, in un secondo tempo, ma concreta. Le linee di risonanza di quel nuovo linguaggio che il poeta ha inventato, mandando alla gente il messaggio della sua lingua, della sua parola, oltrepassano Firenze e si rivolgono alla nazione italiana: il che potrebbe essere anche un’allegoria, una parabola storica alla Cesare Balbo, non fosse invece un esempio concreto e documentatissimo di come i poeti determinano il tempo da cui l’homo oeconomicus crede sua gloria lasciarsi dominare. La vicenda del passaggio da quella cerchia cortese, elegantissimamente circospetta, a quella cerchia morale, tumultuosa ancora e così enorme da parer vuota, è tutta implicita nella Commedia; ma al tempo tocca circostanziarla, e al costume dipanarla: fra poco o molto, tutti saran persuasi e accetteranno il loro destino.

Eredità popolare ed eredità letteraria Del resto, quella solitudine è perenne; e la critica dell’Ottocento, orgogliosa, come annotava il Carducci,2 che mai prima di lei Dante fosse stato adeguatamente inteso e studiato, non s’accorgeva, poi, che il meglio della lettura di Dante lo ottenevano quei popolari che serravano da presso la sostanza delle cose, magari imprigionandovisi; e che cominciavano, come fece Carlo Porta, a tentar meditazioni e imitazioni vernacole della Commedia: dalla Commedia divina alla nuova commedia popolana, superato l’intermezzo della Commedia dell’Arte. L’intelligenza italiana, nel suo modo di reagire all’opera di Dante, si polarizzò subito verso l’apologia (ivi compresa la polemica) e lasciò alla lettura discorsiva gli acquisti più immediati. E così continuò a fare per secoli, finché si tentò di riassumere nella sfera della dottrina anche l’eredità popolare: con Vico. La Commedia, appena apparsa, serviva da catalizzatore: respingeva verso la concretezza della moralità e della socialità una cultura che, lungo tutto il Duecento, in Italia, s’era svolta tentando di sottrarsi all’impegno del moralismo lombardo e alle sollecitazioni realistiche del linguaggio mimico. Dante ritrovava quel terreno, e senza rinunziare a nulla della eredità illustre della Corte e della Scuola e dell’antiscuola dei fedeli d’Amore si riedificava il suo edificio: non per nulla, con una intuizione potente delle verità del passato e delle verità del futuro, chiamandola Commedia. Ma la sorpresa non era minore, per questo: quale garanzia avevano i letterati contemporanei che valesse la pena di abbandonare l’intesa della società letteraria siciliana e toscana, tanto bene accordatasi alla tradizione provenzale, per tentare un’avventura tanto spericolata, che pretendeva di trattare la materia più alta con il sermone mediocre? Si spiegherà anche così il sospetto del 368

Petrarca; il quale, per suo conto, andava traendo due fili dalla chioma della sua rocca, il filo della lirica e il filo dell’umanistica: il suo segreto e il suo programma pubblicistico, la sua “lirica” e la sua “grammatica”; ma, pur tanto conseguente, a paragone di Dante risultava solo. Appunto perché lo sentiva solo, era solo; e Boccaccio mosse pieno di baldanza e di sincerità affettuosa all’acquisto. E l’incontro dei poeti col Poeta prese esempio ed ordine dal disporsi della seconda e della terza “corona” intorno alla prima: vero è che le tre rotavano, o pareva agli storiografi, intorno a un solo asse: non si toccavano, dunque.

Il compianto di Guido Novello Boccaccio, Vita di Dante: Fece il magnanimo cavaliere [Guido Novello] il morto corpo di Dante d’ornamenti poetici sopra uno funebre letto adornare; e quello fatto portare sopra gli omeri de’ suoi cittadini più solenni, infino al luogo de’ frati minori in Ravenna, con quello onore che a sì fatto corpo degno estimava, infino quivi quasi con pubblico pianto seguitolo, in una arca lapidea, nella quale ancora giace, il fece porre. E, intorno alla casa nella quale Dante era prima abitato, secondo il ravignano costume, esso medesimo, sì a commendazione dell’alta scienza e della virtù del defunto, e sì a consolazione de’ suoi amici, li quali egli avea in amarissima vita lasciati, fece un ornato e lungo sermone […]. […] alquanti, li quali in quel tempo erano in poesì solennissimi in Romagna: per che ciascuno, sì per mostrare la sua sofficienza, sì per rendere testimonianza della portata benivolenzia da loro al morto poeta, sì per captare la grazia e l’amore del signore, il quale ciò sapevano desiderare, ciascuno per sé fece versi.3

E trascrisse quelli, quattordici (quasi un sonetto), di Giovanni del Virgilio: Theologus Dantes, nullius dogmatis expers, quod foveat clara philosophia sinu: gloria musarum, vulgo gratissimus auctor, hic iacet, et fama pulsat utrumque polum: qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis distribuit, laicis rhetoricisque modis. Pascua Pieriis demum resonabat avenis; Atropos heu laetum livida rupit opus. Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum, exilium vati patria cruda suo. Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli gaudet honorati continuisse ducis, mille trecentenis ter septem Numinis annis, ad sua septembris idibus astra redit.

Certo Boccaccio dispose il suo racconto anche per preparare il ritorno di quelle ossa in patria: rimproverando Firenze a paragone di Ravenna. Ma quel 369

quadro di Guido Novello che a stento frena le lacrime accompagnando al sepolcro il cadavere di Dante, e poi si ritrae nella casa che il defunto aveva morendo lasciato, e lì parlando lo ricorda, quasi lo richiama in vita «secondo il ravignano costume» fra gli affetti domestici, è, al di là del compito parenetico, cosa di narratore esperto. E di spirito fervido è l’epitaffio di Giovanni, chi sappia isolare nel giro tradizionale dell’epigrafe l’accendersi fra le parole di una curiosità sorpresa, la gioia che finalmente ci sia stato uno che abbia fatto quello che il dottor bolognese si propone, conciliar le muse ed il vulgo su un solo sentiero di gloria; e il dispetto che la morte abbia interrotto la promessa delle ecloghe rimanenti; e il cammino del Poeta al cielo, ad sua astra, il giorno delle idi di settembre (ma, per i cristiani, la festa della Esaltazione della Croce: a ricordo del cielo di Cacciaguida). Come ricondurre a una certezza trita, dicendo di Dante ravegnano, negli ultimi suoi anni, e di Dante adriatico, subito dopo morto, l’animazione elegiaca di tanti poeti? Carducci scrisse pagine di delicatissima invenzione a narrar della vita di Dante a Ravenna; e vi ritorna due volte, nel libro della sua varia fortuna, e lega la composizione del quadro intorno alla figura della figliuola Beatrice: si guarda intorno, per dir così, nella sua casa bolognese, chiede ed offre in scambio modi della narrativa realistica, modi del bozzettismo pittorico (Silvestro Lega: anche lui fra Romagna e Toscana); e anche Pascoli, i suoi pensieri ambiziosi, intorno a Dante, li raccoglie di su un vivo senso d’aria di paese, il suo paese. Ma è necessaria quella trita certezza? Quegli uomini di lettere ravennati, della commedia arcadica di Dante stesso, fanno, a un certo momento, un bellissimo accompagno.

Il compianto di Giovanni Quirini Morto che fu, accorrevano i letterati a colmar quel divario che la fortuna aveva aperto fra lui e loro: se s’era ritratto dal limbo della poesia e dell’attesa a vivere e parlar fra la gente, se aveva accettato senza riserve un impegno morale, una responsabilità civile e religiosa di vita che deve essere ed è vissuta con devozione sincera, adesso che era morto i letterati guardavano a questa riva terrena, e officiavano di canti il suo monumento. Non avevano ancora quella consapevolezza animosa e superba che alla società letteraria dette prima il Petrarca: il loro “corrotto” era ingenuo e prolisso, abbandonato e sincero; aveva un eccesso di sincerità (confrontalo col sonetto in morte di Cino, Piangete donne: un miracolo di grazia distaccata, di eleganza squisitamente superba e schiva, di “meditazione” musicale su un tema dato, un trattatello di critica, nel giro di una strofa epigrammatica): benché anche fra loro, in questa corporazione di poeti in lutto, con l’altra gente, per la morte d’un uomo illustre, ciascuno si facesse notare con un suo proprio modo; magari reagendo all’universale compianto con una stroncatura, per dir male, in lui, di tutti i nemici politici. Un Giovanni Quirini4 sta ancor sulle sue, rivendica la dignità della missione del poeta, chiede eclissi e segni celesti:

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Se per un puro homo avenne mai ch’el si oscurasse il sole o ver la luna, o aparesse stella, che fortuna significhi mutar con altri guai; dovean mostrarse maggior segni assai, e novità men usa e men comuna, quando la morte sceva, amara e bruna estinse i chiari e luminosi rai, che uscian dal petto adorno di vertute del nostro padre e poeta latino che aveva in sé quasi splendor divino. Or son le Muse tornate a dichino, or son le rime in basso decadute ch’erano in pregio ed in onor cresciute. Lo mondo plora il glorioso Dante, ma tu, Ravenna, che l’avesti in vita, ed hor l’hai morto, ne sei più agradita.

Risonanze nella pubblicistica in versi Eccolo una volta di più ritrascritto, questo famoso e prosastico pezzo, più caro quanto più presto si stanca del tono solenne: quando parlando s’intralcia. La pubblicistica fece chiasso a quella morte: i rancori di parte potevano esser tralasciati, o utilizzati senza inconveniente i fervori; sbigottiti i poeti ed orgogliosi: era dei loro; ma anche la comunità volgare aveva da dir la sua: a lei si era rivolto, ai laici e grossi;5 la crisi letteraria d’uno che, poeta, aveva tentato di parlare al mondo, e, abbattuti i muri di cinta delle cerchie concentriche della vita sociale, dalla città proibita della scienza era uscito alla città aperta dei popolari, era un mutamento troppo profondo: qualcosa, nella vita della parola, che poteva essere paragonato alla fondazione degli ordini mendicanti nella vita religiosa, un secolo prima. E Pieraccio Tedaldi, che si faceva vanto di un abbandono immediato alla parola e alle cose, e dietro l’evidenza celava il travaglio dell’esperienza, poco curandosi di contegno e di decoro apriva la bocca ad urlare: Sonetto pien di doglia, iscapigliato ad ogni dicitor tu te n’andrai, e con gramezz’a lor racconterai l’orribil danno il qual è incontrato. Ché l’ultimo periglio disfrenato, il quale in sé pietà non ebbe mai, per darne al cor tormento e pene assai, il dolce nostro mastro n’ha portato, ciò è il sommo autor Dante Alighieri che fu più copioso in iscienza, che Catone o Donato o ver Gualtieri.

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E chi ha senno di vera conoscenza ne dee portar affanno ne’ pensieri, recandosi a memoria sua clemenza.6

Una larghissima partecipazione, insomma; la morte cadeva quando la Commedia cominciava a diffondersi: dava all’opera il suggello di un messaggio definitivo, rivelava quel ch’era. In quella vita socialmente e politicamente tutta scoperta dei primi anni del Trecento, vita aperta all’ultimo giudizio, nella vacanza imperiale e papale, nel vaneggiar fazioso, nella tumida cadenza imperialistica dei grandi Comuni, nella dissoluzione della moralità tradizionale e nell’incertezza del conformismo dei ceti medi, tutto era e si sentiva disposto al messaggio di Dante. Non che lo si esprimesse in tal senso: ch’era opera feconda e segreta di una fortuna sommessa, il dono di una lettura vulgata, non di una riflessione esperta; ma lo si avvertiva. Ecco perché i temi politici tornano tanto frequentemente, e la contrapposizione di Firenze e Ravenna: sollecitata, probabilmente, anche da una situazione politica. Ma l’opportunità politica, cui non resiste nemmeno Cino da Pistoia, è seduzione troppo scoperta, per essere trascurata da una pubblicistica letteraria, che insomma celebrava in Dante l’uomo che era uscito dal chiuso della letteratura, che aveva fatto opera «realistica», che aveva parteggiato; né importava se tutte quelle considerazioni occasionali erano destinate a cadere di fronte a una seria lettura della Commedia. A questa serietà pare avvicinarsi l’anonimo del sonetto O spirito gentile, o vero dante, mettendosi sul piano di una meditazione religiosa e invocandolo santo e intercessore: O spirito gentile, o vero dante a noi mortali frutto de la vita, dandolo a te l’alta bontà infinita come congruo e degno mediante, o verissimo in carne contemplante di quella gloria là dove sortita è l’anima tua santa, oggi partita dalla miseria della turba errante: a Te, il quale io credo fermamente, rispetto a la tua fede e gran virtute, essere a piè del vero Onnipossente, mi raccomando, e per la mia salute prego che preghi quella Magestade che è uno in tre, e tre in unitade: della cui trinitade e del suo regno sì bene scrivesti quanto dimostran tuoi sagrati testi.7

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Il compianto di Cino Anche l’atteggiamento parenetico si rivela, nel sonetto, un limite: finché lo sostiene l’affetto, la realtà ne è autentica; quando occorrerebbe la dottrina, per l’intellettual dominio della materia, quindi dell’anima dantesca, che non può essere intesa solo con uno slancio di devozione affettuosa, la vena si esaurisce: scade a prosa, diresti; nota però che ivi è più ambizioso, e tenta sostentarsi. Troppo accorto letterato per cadere nel tranello di una illusione che da sé s’accarezza, Cino da Pistoia riporta al suo luogo la letteratura, il compianto: accetta l’impegno politico, ché certo non tocca a lui rinunziare all’investitura politica della letteratura, moderatrice della vita dei potenti; ma poiché ci giunge nel commiato, avverti ch’egli mantiene la distinzione tradizionale fra materia poetica e materia politica: Canzone mia, alla nuda Fiorenza oggima’ di speranza te n’andrai: dí che ben può trar guai, ch’omai ha ben di lungi al becco l’erba…8

Nella materia politica gli è più agevole accettare quella divulgazione proverbiale della poetica dantesca, che è il motivo popolarmente spiccato della fortuna nei primi anni: «ch’omai ha ben di lungi al becco l’erba»: diventava dunque l’emblema di ogni esule, quel verso violento. Lode dunque a Ravenna: e quella savia Ravenna che serba il tuo tesoro, allegra se ne goda, ch’è degna per gran loda. Così volesse Iddio che per vendetta fosse deserta l’iniqua tua setta.

Quel distico che chiude il congedo deve significare, dantescamente, condanna d’ogni particolarismo;9 ma altra soluzione poetica che la ripresa proverbiale di un verso dantesco, l’eulogio dell’ultimo rifugio e la condanna di Firenze, era stata avviata aprendo la canzone: «Su per la costa, Amor, de l’alto monte…». Cino ha in mente gli amorosi e sapienti colloqui del viaggio penitenziale di Dante, le attese della costa e gli incontri dei poeti negli ultimi canti del Purgatorio, gl’incontri di Forese e di Guido, il programma dello Stil Nuovo, il volo dell’aquila e il soccorso di Lucia: una tessitura d’immagini che discorre inavvertitamente d’una in altra reminiscenza: Su per la costa, Amor, de l’alto monte, dietro lo stil del nostro ragionare, or chi potrà montare, perché son rotte l’ale d’ogni ingegno? I’ penso ch’egli è secca quella fonte

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ne la cui acqua si potea specchiare ciascun del suo errare, se ben volem guardar nel dritto segno.

Il poeta d’amore tien dietro per un tratto al poeta della dirittura, e rammenta la gran scena dei discacciati, il rito della genitura delle virtù: imitazione di una struttura linguistica ancor da lontano contemplata, immagini che non si sono ancora definite in mito, né valgono ancora per la loro esatta coerenza di parola organizzata in discorso. Ad un’imitazione dantesca più attenta al colorito verbale, al mito della parola, inclina quando raccomanda al Creatore l’anima del morto: Ah, vero Dio, ch’a perdonar benegno sei a ciascun che col pentir si colca, quest’anima, bivolca sempre stata e d’amor coltivatrice, ricovera nel grembo di Beatrice.

1 Il testo citato è nel Commento, al verso famoso: «Dice Io dico seguitando, nelle quali parole si può alcuna ammirazion prendere, in quanto senza dirlo puote ogn’uom comprendere esso aver potuto seguire la materia incominciata». Né qui riprenderemo il problema dei due tempi della composizione del poema, per annotare quanto più sia fiorentino Dante esule cercando la città nel cuore, e come torni a lei dopo morto. Dell’opportunità di collegare i due ritrovamenti, Ritrovamento dei primi sette canti dell’«Inferno» e Ritrovamento degli ultimi canti del «Paradiso», si accorse Giovanni Papini, in un libretto di cui ci varremo anche più avanti, utile non solo all’aneddotica: La leggenda di D. Motti, facezie e tradizioni dei secoli XIV-XIX, Lanciano 1919; gli ultimi capitoli della raccolta sono infatti dedicati alla leggenda editoriale e letteraria; e ai due citati si inframmezza, pertanto, la Lettera di Frate Ilaro e il Ragguaglio di D. in Parnaso. 2 È nel saggio Della varia fortuna di Dante: sul quale ritorneremo; ma l’Ottocento, con ingenuità generosa, dal Foscolo («scrivevano gli uni per gli altri, e non mai per l’Italia», Discorso, cap. III) al Pascoli, dallo storicismo nazionalistico al simbolismo, credette che fosse solo suo quello che è di tutti: con la novità di un nuovo dono dell’essere, ritrovar nuova la poesia eterna. 3 Ed. Guerri, Bari 1918, vol. I, pp. 25 ss. 4 Anche per la prospettiva qui proposta e la saldatura fra stilnovismo e società letteraria dopo la Commedia, è bene collocarli negli studi di M. BARBI e V. PERNICONE, Sulla corrispondenza poetica fra D. e Giovanni Quirini, in “Studi danteschi”, XXV (1940). 5 Cfr. ZINGARELLI, La Vita, cap. XXXIX, La morte, i compianti, il ritratto e le leggende, pp. 1324 ss. E al paragrafo I funerali in Firenze riporta dal TOYNBEE, D. and the Badia di Firenze, in “Bulletin italien”, XI (1911), 2, p. 93, la notizia, tramandataci da Placito Puccinelli nella Cronica della Badia, sull’abate Azzone II, che nell’anno 1321, «quando Dante esule passò all’altra vita nella città di Ravenna, ricordevole dell’amicizia e del valore di tanto soggetto con nobile apparato in questa nostra chiesa gli apprestò in segno di gratitudine solenne offizio e sacrifizii» (p. 1328). Ma il secentista contamina la solennità della tradizione letteraria con una memoria affettuosa e dolente anch’essa fiorentina; bene Zingarelli corregge: «Probabilmente il fratello, Francesco, e la moglie, Gemma, richiesero i funerali e le messe, e questo cronista,

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che si mostra diligente e veritiero, deve aver consultati i registri della badia. Allora le squille che annunziavano ai fiorentini “terza e nona” (Par. XV, 98), sonarono pel mortorio di Dante». Nell’intimità religiosa di una vita parrocchiana così circoscritta e intrinseca converge insomma l’abate con i familiari: e il cenotafio è un simbolo liturgico, «e l’alma ha il sommo Padre», non la traduzione sociale e pomposa del tema letterario della fama in morte, che poi accompagna la fortuna fiorentina di Dante. 6 Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, a cura di A.F. Massera, Bari 1920, vol. II, p. 43. 7 Attribuito a Mucchio da Siena e a Pietro Faitinelli, v. in ZINGARELLI, La Vita, p. 1326: e, con tutta questa letteratura pubblicistica in quelle Poesie di mille autori del Del Balzo (vol. I, p. 277) che accompagnano e puntualizzano con una documentazione incomparabilmente ricca, anche se non sempre filologicamente controllata, la storia della fortuna di Dante. 8 Canz. Su per la costa, Amor, de l’alto monte. 9 S’interpreta comunemente la setta dei Neri.

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Le rime della dottrina

Inizio di una crisi della dottrina Ma anche il lamento di Cino rendeva sensibile una distanza: fra la tradizione della poesia cortese, con le sue circostanze ammodo, e la drammaturgia dantesca, che non si poteva trattenere nei limiti della vecchia maniera contemplativa; già l’anima «bifolca», dura e costante operaia della sua ricchezza, era meraviglia, per quei dilettanti della rivelazione gratuita ch’erano gli stilnovisti, quando leggevano Guido e Dante, ma levando via gl’incubi dell’uno e la forza fiduciosa dell’altro: meraviglia più forte che i lettori della Commedia che avessero drizzato il collo per tempo al pan degli Angeli, navigando sulla scia del poeta nella terza cantica, meraviglia più forte che quella degli Argonauti, «quando vider Giason fatto bifolco».1 La nuova dizione dantesca, quel senso pregnante del suo immaginare, il nuovo peso delle parole, la nuova consistenza umana delle cose dette, non tolleravano un vagheggiamento sfocato, né la disponibilità gratuita e blanda dell’avventura sentimentale, né la divisione ciniana fra mondo della dottrina e mondo della poesia. Espertissimo di rime, Cino, imitando i modi danteschi nel suo “omaggio” in morte del Poeta, faceva sapere a tutti i lettori di buon gusto che egli era al di qua di quell’assoluto impegno dantesco di fronte alla letteratura, che si tratteneva nella cerchia delle buone creanze antiche, che altro concedeva alle eleganze dell’arte, altro alla dottrina; era insomma l’ultimo degli uomini politici che, secondo una tradizione aulica duecentesca, si occupavano in separata sede di politica e di poesia: compito modesto, pur con tutta la sua devozione sincera, ricondurre nella sua piccola orchestra d’archi quelle agguerite falangi di ottoni, le dantesche trombe del giudizio; si salvava infatti nel luogo comune: Firenze e Ravenna.

Crisi dell’enciclopedismo E dall’invasione dantesca, che aveva condotto la poesia, dunque l’esigenza della parola individuata, in ogni sfera dell’umano, e addirittura armata nel territorio della politica, Cino si salvava fuggendo e, giureconsulto, si metteva al riparo degli schemi rigorosi della scienza organizzata: che appunto, da lui a Bartolo di Sassoferrato,2 s’allarga a comprendere un predicato più vasto, ma anche si rafforza e si difende nella presunzione di bastare al suo compito. Più difficile lasciar che la tradizione dell’enciclopedismo duecentesco, con le sue volgarizzazioni, concepite come un viaggio d’avventura piacevole, ma predesignato, con 377

una guida saggia e accorta, fra immagini ardue, ma benevolmente disposte, si prolungasse intatta. Brunetto Latini, che pure si rivela uom fervido, e che alla dottrina va incontro con una mentalità politica, riportandola dunque nel centro di una osservazione molteplice, che capovolge, come Dante, l’ordine stabilito, non rende la scienza, di oggetto che era del sapere, soggetto. Nulla appar capovolto, lì per lì, dopo che Dante ha percorso il suo itinerario sapienziale; ma s’è fatta, e con forza miranda, una esperienza decisiva: il centro della scienza non è l’oggetto, l’organizzazione riflessiva di un mondo fenomenico, in cui le leggi della conoscenza coincidono con le leggi dell’essere; pur restando immutato il canone della coincidenza dell’ordine gnoseologico con l’ordine ontologico, quel che conta è l’acquisto dell’anima, l’accrescersi dell’esperienza umana, l’approdo, attraverso la scienza, all’Empireo: e tutto il frutto ricolto dal girar di queste sfere.3

Ché veramente la vita del cosmo esiste perché la mistica rosa si schiuda al caldo dell’amor divino, e le schiere angeliche possano officiare, volando, i suoi petali; all’altro polo, nella sua immobilità perenne, il mondo dei dannati, di violenza e di frode sottratti alla loro natural sede, per sempre imprigionati nel mondo del finito.

Il soggetto della conoscenza Chi si metteva sulla strada, dopo Dante, di far poesia della dottrina, si accorgeva, presto o tardi, che l’enciclopedismo duecentesco non era più, che la dottrina non si poteva più percorrere come un territorio estraneo, serbandosi e serbandola intatta; s’accorgeva che l’oggetto primo ed ultimo se non unico della sapienza era l’uomo: e non l’uomo in astratto, un simbolo dell’umano, personificato nel pellegrino che dalla selva vuole risalire al monte, e che dal monte le tre belve respingono nella selva, e per riguadagnar la luce deve percorrere tanto spazio di mondo, sprofondarsi nell’abisso, salire alla superficie dall’altra parte della terra, riguadagnar la realtà perduta capovolgendo l’ordine vecchio, e anche sensibilmente elevandosi nella direzione opposta: a cercare metafisicamente una coincidenza degli opposti; ma Dante fiorentino, figlio di Alighiero II e di monna Bella, uomo di comune, conoscente di questo e di quello, da questo e da quello conosciuto e misconosciuto. La dottrina diventava implicitamente soggetto: certo, secondo una indicazione cristiana, se Dio s’è fatto uomo, è per redimere l’uomo, non già per raddrizzare l’asse terrestre e ricondurre la natura alla sua felicità edenica, o per rivelare i rapporti fra le cose, le leggi dell’universo. Se Dio aveva eletto l’uomo a sua creatura prediletta, anzi, se l’aveva fatto suo figlio, gettando fra sé e lui, come ponte, l’incarnazione del figliuolo suo, e se il mistero di questa incarnazione si ripete perennemente nel sacrificio, attuale e reale più che la più evidente delle cose del mondo; e se tutto questo era accaduto 378

e accade, tutto diventa secondario, per l’uomo, fuorché l’adempimento del suo autentico destino: tutto chiamando a servirlo, anche la scienza. Né si trattava di una incoronazione, di una investitura: la dottrina non era una specie di corona regale che calava sulla fronte dell’eroe designato per esaltarlo; era, invece, una esperienza concreta, un preciso soccorso di notizia e di scienza disposto all’uomo, un tesoro da non oltrepassare lasciandolo in disparte, ma da utilizzare per ottimo fine: figlia di Dio anche la scienza con la natura, amorosamente interessate al soccorso dell’uomo, pronte ad esaltarsi nella gloria del destino eroico dell’uomo: noi sem qui ninfe e nel ciel siamo stelle.4

Ed ecco che chi si riponeva a percorrere il tesoro della scienza e il catalogo della dottrina doveva pur accorgersi, a paragone del poema di Dante, che ogni orgoglio di sapere astratto cadeva, di fronte all’investitura cristiana di quell’uomo di comune: non Homunculus, artificialmente cresciuto negli alambicchi della scienza, ma figlio di Dio; simile al servo mentre è fanciullino, ma, secondo il detto di Paolo, padrone, quando è venuto il tempo del riscatto. Anche la scienza, di oggetto che era, si fa soggetto; ed ecco la reazione dei tecnici del sapere al poema, che è lasciato al volgo, dietro la giustificazione provvisoria di una doppia verità, l’una aperta matematicamente agli intendenti, l’altra svelata e velata dalle allegorie e dalle favole per gl’indotti; ed ecco, mentre si riconosce alla scienza un posto preminente nell’itinerario sapienziale e le si assegna, anzi, ogni autonomia di celebrarsi da sé, all’infuori delle giustificazioni metafisiche (che è qualcosa di diverso dell’autonomia del metodo: solo la polemica illuministica poteva equivocare su questo, e ritenere schiava la scienza quando le si assegnava un suo proprio dominio, e accusar la nuova spiritualità dell’umanesimo cristiano d’esser tiranna; si vide come, ridotto l’uomo a fenomeno, si tendesse e si tenda ad asservire la scienza ai compiti pratici che la direzione economica esclusiva dell’umano va imponendole), la sua subordinazione nella gerarchia dei valori spirituali propone la cessazione del dualismo. La poetica di Dante che esplicitamente parrebbe poetica della doppia verità teologica e scientifica, e della divulgazione del sapere attraverso la condiscendenza delle favole, diventa, implicitamente, poetica dell’antropocentrismo, e la scienza momento e soccorso, da Dio a Dio, del cammino dell’uomo.

Cecco d’Ascoli La crisi della dottrina solo lentissimamente matura; ma non mancano immediatamente episodi sonori, ad accompagnarla: ché era tempo di reazioni vivaci, e se gli schemi intellettuali in cui raccogliere l’incontro, pensiero ed azione, non erano altrettanto saldi che quelli disposti alle categorie dell’intelligenza pura, in compenso intelligenza sdutta, e acuta voglia di vivere, e risentimenti pronti, e un intuito vivace animavano le reazioni della vita sociale, anche nel suo frequentar la scienza. 379

E il più spiccato è l’episodio di Francesco Stabili. La scienza organizzata è cauta e lenta nelle sue difese, e poco si scopre; e non era opportuno, e tanto meno necessario, entrare in polemica con un poeta che si proclamava ed era suo adepto e che apertamente dichiarava di separare la poesia dalla scienza; ma Francesco Stabili, anzi Cecco d’Ascoli, era un dotto anche troppo avventuroso, tanto più pronto alla reazione quanto inquieto sui suoi fondamenti dottrinali, e voglioso di un’azione diretta: destinato all’astrologia e alla magia, e a guardare al passato, «diretro guarda e fa ritroso calle»; bizzarro, insomma, anche perché l’officiatura di una scienza astrologica, in cui credeva, è destinata a rimanere astratta, mentre era concretissimo il suo desiderio d’acquisto.5 Responsabilità dottrinali non ne aveva troppe, per quello che ci assicurano gli storici della scienza: è arbitrario, in tali condizioni, puntualizzare in un sistema rigoroso le sue tendenze scientifiche, e ricondurlo per questa via a un minimo di logica, nella sua polemica antidantesca; eppure, si può affermare che egli viaggiava in una direzione, e Dante in un’altra: pellegrini isolati entrambi, chi avesse voluto valutarli secondo un rapporto ufficiale; ma Dante aveva un’intima forza creativa, e tutta la scienza futura sarebbe dipesa indirettamente dalla sua sintesi, mentre lo Stabili starnazzava intorno all’edificio venerando del sapere. Dante, dunque, accettava tutte le separazioni provvisorie, anzi le promuoveva: fra la pratica e la politica; fra la politica e la morale; fra l’arte e la scienza; fra la scienza e la filosofia; fra la filosofia e la teologia; salvo ricondurre intanto all’unità della sua esperienza d’uomo che muove all’acquisto dell’essere ognuna di quelle esperienze parziali: che dal suo esempio, anche giustificate in un ordine scientificamente rigoroso, sarebbero poi sempre state tratte ad essere valutate nel complesso di una esigenza vitale, e ricondotte ad una unità metafisica o filosofica o epistemologica, se non addirittura, decadendo, pratica; ma Cecco d’Ascoli rimbalzava dalla pratica alla teoria secondo che l’occasione si presentava, e mentre dava opera a trarre il più possibile frutto dalle sue conoscenze astronomiche, lavorando intorno alla scienza degli oroscopi per rilasciare, quanto meno, patenti di nobiltà esaltata a chi ricorreva a lui (fra gli altri, il duca di Calabria), si opponeva poi alle contaminazioni dantesche di scienza e di poesia, di verità e di favola. In una prospettiva filosofica, Dante era un metafisico dualista, che da un’esperienza anche naturalistica e persino averroistica si riconduceva a quella tradizione tomistica che via via si sarebbe elaborata in costume, dopo che l’Aquinate l’aveva fondata in sistema (il tema di più ampio predicato che conoscesse l’intelligenza europea per tutti i secoli della tradizione rinascimentale, cioè fino all’Illuminismo compreso); Francesco Stabili era un adepto un po’ dilettantesco di un monismo spiritualista, che per amor di letteratura e d’arte, e magari anche per opportunità di realizzazioni concrete, aveva operato, come tanti, l’agevole passaggio in spiritualismo del monismo naturalistico di Averroè. Noi che abbiamo vissuto la crisi del monismo positivista e del monismo idealistico, e sappiamo facile capovolgere l’uno nell’altro, abbiamo un’esperienza preziosa per intendere quella crisi sua e del suo tempo: rammenta che un altro di quel tempo, suo contemporaneo, dalle meditazioni averroistiche usciva armato in battaglia e alla guerra di strada. Il suo dramma, pur così spettacoloso e patetico, ci è stato raccontato solo parzialmente: parzialità di notizie, intendo, ora dirette all’apologia, ed ora ad amplificare la sua 380

storia a storia di una generazione, episodio di una ribellione in nome della scienza alla sorveglianza teocratica dell’intelligenza; certo fu dramma, e il rogo umani corpi già veduti accesi6

fa un contrappunto potente e sbigottito alla sua vicenda picaresca e alla sua bizzarra parola. Quei versi famosi, anzi quell’epigramma con cui seppe, comunque, alzarsi a paragone di Dante, e serva pure codesto paragone più a una misura di lui che di Dante, confessa un tratto di storia della fortuna della Commedia. Con lui forse per la prima volta si documenta il concentrarsi della memoria dei lettori non più sui versi come fra i documenti bolognesi, ma sulle mitografie dantesche, e che la poesia vive non più proverbialmente, ma nei suoi episodi. Forse per dir meglio il suo disdegno per quei canti («qui non se canta a modo de le rane») e per quei suoni («qui non se sonna de la silva obscura»): qui non vegg’io Paulo né Francesca, de li Manfredi non veggio Alberico, che diè l’amari frutti in la dolce esca; del Mastin vecchio e novo da Verucchio che fece de Montagna qui non dico; né de’ Franceschi lo sanguigno mucchio…

la taccia di poesia plebea è implicita in questa condanna della menzione fatta dal poeta di alcuno degli episodi più clamorosi della storia dei signori d’Italia.7 Cecco pare indispettirsi di questa cronaca irrispettosa che è il Libro del Giudizio, la Divina Commedia; ma non può fare a meno di serbar nella memoria, e dall’Inferno, quegli episodi più rilevati che diventano più facilmente popolari. Lasso le ciance e torno su nel vero: le fabole mi for sempre nemiche.

Eppure «di lui mi dol, per suo parlare adorno», conchiude la polemica dove accentua l’autentico divario che lo separava dal seguace della Sapienza Santa: Tal corpo umano mai non fu divino né può, sì come ’l perso, essere bianco…

contraddiceva appunto alla lezione di Stazio ed ai canti del cielo Empireo: di lì il passo a negare il dogma dell’incarnazione era breve. «E corse infatti tra i suoi favoreggiatori la voce, del resto nulla probabile, che gli amici del Cavalcanti e di Dante avessero qualche parte nella sentenza».8 Certo una tradizione dottrinale fiorentina, che seguendo Dante avesse trasferito in conciliato dualismo la filosofia e la poetica di Guido Cavalcanti, è probabile, in quel primo trentennio del secolo; e certo meno probabile un’azione diretta (ma che non si può attendere dalle polemiche dove, per 381

non dare i colpi a patto, l’odio politico si mescola all’odio teologico?). Ed anche la discussione intorno alla nobiltà (se mai fu esplicitamente aperta: era comunque efficace, in potenza) separava Cecco, e la sua politica, oltre che la sua scienza, dalla situazione umanistica che Dante aveva affermato, riducendola ad individualità, quindi a grazia, ad atto amoroso: Cecco si preoccupava di risparmiare l’idolo del tempio e del foro, la nobiltà del linguaggio, su cui scendono benigni gl’influssi dei pianeti. Un’arcadia patrizia, quella proposta da Cecco; e una vita da rinarrare la sua; ma anche trascorrendo così di fretta fra notissimi versi, le linee di quella vicenda si dichiarano: un contrasto di scienza e di dottrina, certo più intelligente di quanto apparve a chi s’affrettò a scomunicare l’astrologo arso vivo in nome della divina poesia: «Più giustamente nei secoli appresso rimase indivisibile dal nome di Cecco d’Ascoli il concetto d’uomo invido e di rimatore meschino».9

Poesia della dottrina Un’opera d’arte è, nel tempo, attiva prima sul già noto; e il suo segreto, che è d’intima vita e di più remota trasvalutazione, si palesa tanto più tardi; e fino in fondo mai, finché vive: perché vivere è vederla più in fondo. La fortuna della Commedia si accese intorno alla poetica della dottrina, non già intorno alla poetica dell’immagine o alla poetica della parola: perché la dottrina era il più vasto e spiccato e riconoscibile territorio percorso da Dante; e si credeva possibile allora come sempre ripetere le operazioni di Dante dall’esterno, e pretendere attraverso un atto magico di impadronirsi del segreto della grazia. Quando la critica afferma che Dante non ebbe imitatori,10 propone una legge limite: la poesia non ha imitatori, perché non può essere attinta nel suo segreto; tanto meno la poesia dantesca, che non s’arresta alla commedia o all’accademia, che non si vagheggia ad un passo intermedio del suo cammino, che se muove alla scoperta del mondo, di là dal mondo intende l’uomo; ma le poetiche del Trecento, accanto alla riflessione deliberata dei maggiori, Petrarca e Boccaccio, restano naturalmente attratte dalle zone grandi percorse da quella poesia, e la mimesi si attarda fra le dignità auliche della dottrina. Con la stessa approssimazione che un’imitazione si nega, si afferma: solo occorre capovolgere il rapporto dell’incidenza, e osservare l’imitazione, naturalmente, piuttosto sul polo della poesia che sul polo della non-poesia. La fortuna di Dante, cioè la frequenza con cui le sue parole diventarono attive fra la gente, si avviò anch’essa dalla non-poesia alla poesia; e nella disponibilità mirabile in cui si trovava quella cultura, in una civiltà letteraria non ancora confermata, in una letteratura che non sapeva ancora di poter formare un luogo chiuso (l’avrebbe incominciato a sapere di lì a poco col Petrarca), l’imitazione era sollecitata verso la dottrina pur dal fatto che era proprio la dottrina l’esperienza più vasta percorsa da Dante. Da Dante del resto apprendevano quello che non potevano sapere dall’organizzazione scientifica della scuola: a portar verso la mediazione sapienziale la gente senza costringerla dentro le schiere scolastiche, e a ripetere il processo onde Dante stesso passava dal Convivio alla Commedia. Nota che i più disposti alla poesia, in quella vicenda, si tenevano non a Dante, ma agli esempi della poesia 382

dottrinale del Duecento: erano infatti molto più vicini a Brunetto. E la tradizione soccorreva i mediocri: ché esisteva pure un catalogo delle scienze cortesi, quelle frequentate dall’autore dell’Intelligenza e da Francesco da Barberino; e corrispondeva a questo catalogo uno stile poetico accogliente e disposto, il didascalismo stilnovistico, tanto più colloquiale che le lezioni sapienziali di Dante, tanto meno rigidamente composto nella scansione eroica e liturgica della dottrina; ebbene, chi cedeva alla suggestione di questa poetica, ch’era pur di Dante giovane, trovava nel discorso letterario graziosi modi e stilemi persuasivi; chi diventava pedisseque di Dante maturo, e accettava il canone dottrinale della Commedia e l’esperienza totale di una sapienza che è mandata in soccorso dell’uomo per il suo destino eterno, per rivelargli la sua sostanza empirea, non aveva ancora assimilato quel linguaggio e si trovava, sprovveduto di soccorsi quanto al discorso. Accadeva intorno a Dante e per opera sua, che aveva arditamente capovolto il corso del tempo, quel che accade intorno al nostro tempo, che con tanti autori mossi da ogni parte ha pur capovolto il tempo e imposto il senso delle partecipazioni totali: chi s’attarda fra i suggerimenti del linguaggio si trastulla in una perpetua vacanza, fitta di notizie e di cose, si svaga amabilmente dentro la staccionata del realismo nel giardino della storia; ma chi ha deciso, o per ambizione, o per solitudine, non può fare a meno di comporre sul palco i misteri squallidi della sorte eterna dell’uomo.

Iacopo I poeti dottrinali frequentavano insomma la «continenza» del poema di Dante: per adoperar la parola che uno di loro appunto, Iacopo,11 adopera per riassumere il poema: Di cielo in ciel ci avvisa come s’imparadisa chi con virtù comprende quel che da lor discende per l’influenza data, ma non necessitata…

vedilo circospetto nella definizione dottrinale; e attento ai ricordi men del testo paterno che della dottrina: voi che vivete, ogni cagion recate pur suso al cielo, pur come se tutto movesse seco di necessitate. Se così fosse in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per male aver lutto. Lo cielo i vostri movimenti inizia…12

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Ma anche Iacopo ignora che per acquistare Dante bisogna mettersi sul suo cammino, scendere con lui dalla parola verso la scienza, e dalla dottrina verso le cose: si trattiene nello schema astratto della dottrina; e pensa che qui sia la vittoria dell’uomo e il suo trionfo: che fu l’errore del Petrarca, nell’atto di riconciliarsi con Dante. Dante aveva pur esso aperto il divario: la realtà che egli percorre, quel mondo dell’oltretomba, quel cosmo trionfale che s’inarca intorno al suo viaggio, lascia intatta la sua figura d’uomo, né è diverso prima da poi, né conosce la forza trasfigurante del rinascere diverso: pure questo è tema che dopo di lui rimane aperto; e dopo le mistiche sue morti e sonni, se si riscuote col suo vecchio peso e senso: s’affida: Tu il sai, che col tuo lume mi levasti…13

Ma l’aver lasciato aperto il divario, valse d’investitura: che l’uomo possa quando che sia ripercorrere quel cammino cercando solo dentro di sé, nel suo proprio infinito. S’era intanto proposta un’osservazione del mondo universo, nobilissima, intorno all’uomo immobile.

Fazio degli Uberti Fazio degli Uberti14 accetta senz’altro la separazione del mondo dall’uomo: e se il protagonista della Commedia rimane, nonostante ogni allegoria ed ogni generalizzazione, Dante, se l’investitura e la missione egualmente non gli vietano mai di serbarsi persona, per Fazio, esule pel mondo come lui, ed esule sdegnoso ed inquieto, il mondo è di per se stesso godibile, e chi lo percorre è uno qualunque, che non ha bisogno di celebrare, nell’atto del viaggio, nessun giudizio finale. Se l’esegesi della poesia trecentesca non fosse così scarsa (siamo a stento giunti a riconoscere criticamente alcuni valori autentici, di un’epoca letteraria che è fra le più feconde d’uomini e di vicende), si potrebbe con miglior sicurezza tracciar la storia della poetica di Fazio lungo la traccia che gli era offerta da Dante; e rimase parallelo al Petrarca, solo sfiorandone il segreto. Non dallo stilnovismo attinge: la volontà di trasfigurare la realtà, il misticismo delle attese, la liturgia dell’intelletto attivo, egli ignora; ma se il suo avo s’era cercata per chiudervisi un’arca di fiamme, il mondo dove si aggira è blando e bello, e lo gode: come un paradiso terrestre dove, nell’aria immobile, divaga una processione di donne: e poco stante vidi una compagna venir di donne e di gaie donzelle, che tanto nova mai non fu veduta. Ciascuna lei saluta, ed ella allora, per più bella festa, poniesi in su la testa la ghirlandetta che sì ben le stava…

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E la canzone (Nel tempo che s’infiora e cuopre d’erba, la terra…) era cominciata anch’essa, come la liturgia dantesca della divina foresta, con l’apparizione di una donna solitaria: ferma questa, quasi in attesa del trionfo solitario di Laura sotto la pioggia dei fiori; il gesto ha una attenzione ferma e povera, ma l’eco di tanta poesia lo circonda: Per farsi una ghirlanda poneasi a sedere in su la sponda, dove batteva l’onda, d’un fiumicello, e co’ biondi capelli legava fior quai le parean più belli.

Egli avverte bene verso quale direzione s’incammini l’immagine dantesca; ma la contraddice: questa è la donna che fu in ciel criata, e ora è qui, come cosa incarnata…

che è canone nettamente distinto da quello dell’Alighieri, che con la poetica della trasvalutazione riporta sempre all’unità della natura ricreata ogni attimo del mondo finito. Si comprende come l’arresto della poetica pietrosa sia per lui definitivo; e come, attenuandone le invadenze sensuali, non pensi affatto di uscirne per una vicenda drammatica che investa tutta la realtà, non già la storia di una stagione intorno a un’immagine ardita. La contrapposizione della primavera all’inverno è già un trattenersi in una mentalità più prossima alla convenzione cortese: «Fuggita è la stagion ch’avea converse…» cantava Dante; ed egli, di rimando (canz. I’ guardo fra l’erbette per li prati): veggio svariar di più colori gigli, viole e fiori per la virtù del ciel, che fuor gli tira… E con soavi odori giunge l’orezzo che per l’aere spira; e qual prende e qual mira le rose che son nate in su la spina…

Giuochi di temi danteschi, variati per una decorativa delizia, che pur s’accende nella persona d’un perseguitato e profugo, che ogni gioia par dirsi fugace: Fuggit’han la paura del tempo, che fu lor cotanto greve, e ciascun par fra sé viver contento. E io, lasso! ho tormento, ch’io mi distruggo come al sol la neve, perché lontan mi trovo da la luce, ch’ogni sommo piacer seco conduce.

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Ed ecco la reminiscenza stilnovistica, attraverso la frequentazione delle pietrose, sbocca nella modulazione petrarchesca: «Ma, lasso, ogni dolor che ’l dì m’adduce / cresce, qualor s’invii / per partirsi da noi l’eterna luce…». In queste condizioni di spirito, così attento a circoscrivere altrui, mentre si restringe, si comprende come l’esito del Dittamondo sia di enciclopedismo descrittivo: dove il nitore dello sguardo, la modulata ricchezza della composizione, la felicità della festa degli occhi, che son le sue doti migliori di lirico, diventano, sul piano dell’intelligenza, chiarezza e perspicuità di dettato ed ordine dell’esposizione: segni anch’essi esterni che il suo è un mondo finito.

Federico Frezzi Nella storia della fortuna il compito di Fazio degli Uberti fu di verificare la necessità di procedere all’acquisto di Dante attraverso la parola; era il segreto che i poeti addottrinati dimenticavano più facilmente: facevano infatti schema della Commedia, e si contentavano di frequentarla dall’esterno, per un baratto di scienza. Fazio degli Uberti è insomma nel gruppo di Petrarca e di Boccaccio, e con più chiarezza di loro nel disporre i limiti della sua esperienza dantesca. Di questa virtù della parola direttamente appresa, naturalmente, senza superbia di dottrina, resterà esempio nei dottrinali minori del Trecento, e nell’anonimo di Virtù e Vizio:15 esperienza di una letteratura che non trascurava certo le due minori corone, nel frequentar la maggiore. Ma l’esempio di un allegorismo che pretende di essere autonomo, benché non rinunci al costume letterario, è del Quadriregio di Federico Frezzi,16 che disponiamo qui per seguir meglio il processo dell’imitazione astrattiva, benché anche cronologicamente sia giustificato parlarne dopo gli altri. L’indugio nell’arcadia allegorica delle Ninfe, sulle tracce di Boccaccio, è abbastanza rivelatore, di per sé; e di Dante riprende le forme lessicali più che il linguaggio delle immagini e l’iconografia fantastica, almen sulle prime: In terra torna il corpo animale; e l’alma, ch’è del ciel, su al ciel riede: ciascun al suo principio originale… Com’uom che va per la via non sicura, che mira e tace pel sospetto grande; così temendo intorno io ponea cura. E però Palla a me: «Mentre tu ande inverso a quella, a cui pervenir dei, perché pur temi, e di lei non domande?»

Già è chiaro che s’è formata una tradizionale tessitura dantesca di movenze narrative e dialogiche: quasi una commedia sulla Commedia.

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1

Pd II, 1-18. Bartolo, discepolo di Cino a Perugia, conosceva le canzoni di Dante, e accettava la teoria dantesca della Monarchia (cfr. ZINGARELLI, La Vita, pp. 494 e 681). L’incontro fra l’autonomismo, universitas superiorem non recognoscens est sibi princeps, e la concretezza che succede alla transvalutazione dantesca mentre si dissolvono, nel Trecento, gli universalismi politici, andrebbe studiato: incontro di lettura, intendo, non di dottrina. 3 Pd XXIII, 20-21. 4 Pg XXXI, 106. 5 V. PAOLETTI, Cecco d’Ascoli, Bologna 1905; A. BECCARIA, I biografi di Cecco d’Ascoli e le fonti per la sua storia e le sue leggende, in “Mem. Acc. Sc. Torino”, XX serie, LVIII (1908). Per i rapporti polemici con D. cfr. GUERRI, in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, LXVI (1915). 6 Pg XXVII, 18. 7 Dopo soli duecento anni «Vincenzo Acciaiuoli giungeva a dire che avrebbe pagato di buon animo qualunque moneta perché Dante avesse fatto menzione nella Commedia di alcuno della sua casata, e avesselo pur cacciato nella più cupa bolgia d’Inferno», rammenta il CARDUCCI, Della varia fortuna, cit., p. 294, che ricava la notizia dalla prefazione di Scipione Ammirato alle Vergini Prudenti di B. DELL’UVA, Firenze 1582; e suppone che cotesto sentimento doveva essere tanto più vivo nei contemporanei. Difficile pensarlo: sono sentimenti che crescono sulla proiezione pubblicistica della poesia, non direttamente sulla poesia. Ugo Foscolo pensava il contrario, e che la satira dantesca dovesse sapere di forte agrume; né la foscoliana «gloria dell’infamia» poteva aver luogo nella cerchia sorvegliata di una moralità cittadina. 8 CARDUCCI, op. cit., p. 29. 9 CARDUCCI, op. cit., p. 865. 10 N. SAPEGNO, Il Trecento, Milano 1939, cap. III, La fortuna di D. e la letteratura allegorica e didattica, pp. 112 ss. Il Sapegno riassume decorosamente (e sempre con finezza di lettura) una tradizione di storiografia letteraria che non sempre lo soddisfa: «In tanta discordia di giudizi e d’affetti, è vivo il senso d’una grandezza singolare e orgogliosa, di una ferrea volontà, di una fantasia magnifica e quasi divina». 11 G. CROCIONI, Il Dottrinale di Jacopo Alighieri, ed. critica con note e uno studio preliminare, Città di Castello 1895. 12 Pg XVI, 67-73. 13 Pd I, 75. 14 Fin dove può giungere l’informazione esterna della storia, della cronaca del costume (noi riconosciamo che in un poeta quale è Fazio, che volentieri si condanna all’esteriorità delle cose, pur fra ripensamenti audaci della vita e della parola l’indicazione resta preziosissima) ci guida R. RENIER nell’introduzione alle Liriche, Firenze 1883. 15 M. CORNACCHIA e F. PELLEGRINI, Di un ignoto poema d’imitazione dantesca, in “Propugnatore”, n.s., I e II (1888). Temo che sia tutto quello che ne sappiamo. 16 Rimandiamo, anche per un omaggio a uno studioso totus in illo, agli studi di ENRICO FILIPPINI: La materia del Quadriregio, Menaggio 1905; I codici del Quadriregio, Perugia 1905; Varietà frezziane, Udine 1912; Federico Frezzi e l’Italia politica del suo tempo, in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, LXXV (1920); Studi frezziani, Foligno 1922. 2

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Petrarca

Le circostanze dell’incontro Delusivo incontro del Petrarca con Dante: come dominato dall’ansia circospetta e tenace e nascosta di cercare altre zone, non frequentate da quello, al trionfo di una vita di poeta; ma nelle cronache di una letteratura ha senso anche tale riluttanza; e Petrarca seppe farne elemento positivo, tradusse in linguaggio e in realtà un’opposizione, poté ignorarlo, e circostanziare, organizzare in parola ed in costume quell’ignoranza; ché si valeva, per questo, d’ogni elemento che nella tradizione letteraria volgare e nella cultura internazionale potesse giovargli: pur che l’opposizione cruda non risulti gretta. Il canone dantesco si riassume nel processo di una fantasia individuante; e dopo aver cercato e vissuto dovunque, nella vita come nella politica, nella dottrina come nel dogma, quanto poteva giovargli a riconoscere in sé il solutore dell’enigma del tempo e della felicità, inaugura la parola e il nuovo tempo insieme, non codifica, ma propone la nuova realtà: ché la codificazione gli serve come termine intermediario per questo nuovo mondo ch’egli apre, tutto vissuto e futuro nel segno dell’io del Poeta; e non del poeta in astratto, officiatore di una liturgia di parole. Petrarca rinunzia proprio a quel dato e a quel dono della fantasia individuante; e per cominciare si avvale di quanti soccorsi gli possono venire dalla cultura internazionale, e dalla tradizione poetica latina ormai riconosciuta come termine d’eccellenza e dal costume della letteratura. Qui s’apre un paragrafo che occorrerà lasciar sottinteso al riassunto d’altre istanze storiografiche: quello di un paragone fra l’umanesimo di Dante e l’umanesimo del Petrarca; certo senza la concretezza di individualizzazione che Dante propose e attraverso il linguaggio volgare impose al costume d’Europa, che se la ritrovò intatta, quando l’umanesimo ebbe percorsa la sua prima fase di preparazione culturale e di riacquisto filologico dell’antico, all’avvento delle letterature nazionali, le proposte astrattive e generalizzanti del Petrarca alla cultura della nuova Europa sarebbero rimaste caduche: l’autentica verità è degli uomini, viventi e rivissuti nella concretezza della loro persona; e le idee servono al linguaggio matematico, di deduzione dunque e di riassunto; e come le idee quella società letteraria che le frequenta e le discute. La fortuna più vistosa, quella che frequenta le grandi parole e si inebria delle grandi astrazioni, visitò dunque l’umanista culturalista, Petrarca; ma, anche perché Dante non aveva sconosciuta nessuna delle forme filosofiche e culturalistiche e artistiche su cui si sviluppò la proposta letteraria del Petrarca, il messaggio di Dante rimase vivo proprio nella cerchia frequentata dall’antagonista bennato. La fantasia dell’uno era cresciuta e si propagò attraverso le esperienze culturali e sentimentali che 389

l’altro conobbe; e l’altro non si ridusse mai a rinnegare le istanze individualistiche per proporre un processo di astrazione e l’idolatria della parola: che furono i due mali, estetismo e ideologia, della decadenza umanistica.1

Occasioni della letteratura E prima di veder gl’incontri al vaglio appunto del testo, indugiamo un altro poco ad esaminar le circostanze. Già, Petrarca è sempre disposto ad utilizzar le circostanze: diciamo che non ne faccia talvolta occasioni per un acquisto della persona, se occasioni ha il senso goethiano di una comunicazione cosmica (ma questo quando, dopo aver percorso da solo la sua strada, si volge indietro a guardare: Sai che ’n mille trecento quarant’otto il dì sesto d’aprile, in l’ora prima, del corpo uscìo quell’anima beata).

La sua propensione è per una tematica in sé ben certa, che si può, lasciandone la definizione, ché tanto ciascuno già sa di che si tratta, contornare di vaghe allegorie e di decorazioni gentili: talvolta l’esplorazione che così conduce lo guida assai lontano per il mondo (canz. Di pensiero in pensier di monte in monte); tal’altra sceglie il tema, già tante volte riassunto, di amore e di morte, di Laura e della spiritual vita, e campisce l’una dopo l’altra belle tavole, con maliose allegorie (canz. Standomi un giorno solo a la finestra): Laura fera, Laura nave, Laura alloro, Laura fonte, Laura fenice; e al fin vid’io per entro i fiori e l’erba pensosa ir sì leggiadria e bella donna, che mai no ’l penso ch’i’ non arda e treme.

Laura donna. Commiato: Canzon, tu puoi ben dire: Queste sei visioni al signor mio han fatto un dolce di morir desio.

Ed è, quest’ultimo, il procedimento dei sei Trionfi. Ma circostanza massima, in quella temperie letteraria da cui pur Dante era uscito (appunto, ne era uscito: si era gettato allo sbaraglio dell’esilio; la decisione era di cercarsi per quella via della rinunzia, e far diventar provvidenza la sciagura), era l’allegorismo dell’Intelligenza e di Francesco da Barberino. Certo al ricordo del lettore non sfugge la delicatezza e la fermezza delle realizzazioni che il poemetto in nona rima o i Documenti consentono, la prova preziosa e cara che era riuscita tanto bene a Lapo: quel trascurare il dualismo ch’era stata la ragione poetica di Guinicelli, di 390

Cavalcanti, di Dante, quando affrontavano le giustificazioni teoretiche del loro esistere e il vitale accorrere alle forme della realtà, l’energia correlata del loro salire nei cieli della metafisica, e discendere a popolare il mondo d’immagini concrete; ed avvolgere in una sola aura di trasfigurazione gentile, in una sfera di musicalità poetica e pittorica la vaga storia di un mondo levitato e fiducioso: leggiadro, per dir la loro programmatica parola, polisensa. Poesia della letteratura non poteva farla neppure il prodigioso Petrarca senza letteratura; ed è vero che infeuda per sempre alla dottrina degli autori la letteratura antica, per una investitura che in dignità comunemente riconosciuta eguagli la tradizione imperiale o quella della gerarchia ecclesiastica; ma anche quest’acquisto lo fa dietro i procedimenti della politica letteraria abituale, seguitando la traccia del biografismo individualista delle razos e dell’intellettualismo enciclopedico degli allegoristi: dunque, da aggiornato uomo di lettere, che è la grande differenza che lo distingue dagli esperimentatori dei vari pre-umanesimi che s’eran tentati; la contemporaneità della storia, insomma, dunque la possibilità di riguadagnare il passato fondandosi sulla concretezza di una esperienza attuale. Anche questo era tema dantesco; ma Petrarca lo trova già nella tradizione dottrinale della cultura italiana, proprio quella, dal Notaro a Guittone, che Dante aveva sdegnosamente e ingiustamente oltrepassata. Questo per un processo di giustificazione deduttiva: quanto alla sfera cui consegnare il suo messaggio, e la fortuna ch’egli, come ogni poeta, voleva disporre alla sua poesia, egli propone la soluzione di un individualismo patetico, assai diverso, se non opposto, all’individualismo cristiano di Dante; non che sia anticristiano, né che l’opposizione si celebri altrove che nell’ambito di una civiltà matura e complessa: anche l’allegorizzazione, cara a Papini, di poesia dello spino secco e di poesia dello spino fiorito è provvisoria! Ma Dante, ancora una volta, sale per conquistare il mondo: Petrarca si effonde, e il suo cielo è in una sfera di confidenti abbandoni, nel “golfo mistico” di una velleità melodrammatica.

Variazioni su temi danteschi In tale situazione, l’incontro non va osservato nel ritrovarsi l’un dopo l’altro alle prese con lo stesso stilema o parola: il metodo comparativo di un Giambattista Gelli o di un Iacopo Mazzoni2 è assai meno attivo e probante di quanto risulta dal loro confronto intimo; dove Petrarca volle deliberatamente essere diverso da Dante, riallacciandosi alla tradizione letteraria unitaria e conseguente che Dante stesso aveva frequentato nelle Rime, abbandonandola o capovolgendola nella Commedia: che è la scoperta del Borghini. A paragone delle Rime vale il metodo delle variazioni: non confessato, ma chiaro omaggio da poeta a poeta; e l’intellettualismo lo porta (nella canzone Che debb’io far, che mi consigli, Amore, dove imposta nuove esperienze musicali e il metodo delle variazioni accorte ad un tema, e accosta il lamento «canzon mia no, ma pianto») alla officiatura della grande canzone dantesca del Presagio, Donna pietosa.

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Donne, voi che miraste sua beltade e l’angelica vita con quel celeste portamento in terra, di me vi doglia e vincavi pietade, non di lei, ch’è salita a tanta pace, e m’ha lassato in guerra… Quel ch’Amor seco parla sol mi ritien ch’io non recida il nodo.

Così s’era rivolto, officioso, ad Amore: Amor, tu ’l senti, ond’io teco mi doglio, quant’è ’l danno aspro e grave; e so che del mio mal ti pesa e dole, anzi del nostro…

E chi cercasse, così dalle Rime come dalla Commedia, l’imitazione diretta, dimenticherebbe, nonché l’affermazione in contrario del Petrarca stesso, la direzione della sua poetica, che era appunto, dopo Dante, di sciogliere la nuova suggestione letteraria dal vincolo della continenza verbale, affidarla ad una persuasione musicale e sentimentale che oltrepassi le parole, il «suono» di quei «sospiri».3 Del resto, altri paragoni sovvengono al confronto: quando Dante s’affaccia al pensiero della morte, il dramma esige una soluzione; e il transito di Beatrice in cielo diventa promessa d’altro volo, d’altra contemplazione del poeta: la morte sarà nodo per un capovolgimento totale, inizio della trasfigurazione, dunque condizione prima della mirabile visione. Ma Petrarca avventura l’immagine della morte di Laura, misera et orribil visione!

e se ne ritrae al di qua, di quanto almeno la speranza di Dante era di là, gettata di là dal vallo della vita terrena, ad abitare, almeno in immagine, nelle sembianze delle eterne idee: di qua dubitando: O misera et orribil visione! È dunque ver che ’nnanzi tempo spenta sia l’alma luce che suol far contenta mia vita in pene et in speranza bone? Ma come è che sì gran romor non sone per altri messi, e per lei stessa il senta? Or già Dio e natura no ’l consenta, e falsa sia mia trista opinione. A me pur giova di sperare ancora la dolce vista del bel viso adorno, che me mantenne e ’l secol nostro onora. Se per salir a l’eterno soggiorno

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uscita è pur del bell’albergo fora, prego non tardi il mio ultimo giorno.

Non varrebbe la pena di rileggerlo tutto, se non vi si documentasse con sufficienza persino soverchia, nella postilla di versi che declinano in prosa, la tematica dell’elegia in morte: morte immatura, e soggiorno beato in cielo e attesa anche per sé del morire, intorno al tema del dubbio e della speranza che il presentimento non s’avveri, anzi che la visione sia fallace. Ma quella visione, in Dante, e poscia imaginando di caunoscenza e di verità fora, visi di donna m’apparver crucciati, che mi dicean pur: «Morra’ti, morra’ti»,

diventa, nonché elegia, orrore e strazio di una morte mistica, mentre nel nuovo poeta si adducono subito prove di un movimento contrario, la medietà di una contemplazione abbandonata, ma non mai rapita ad una scelta decisiva, e il fluttuar dolce amaro sul limitare fra la vita e la morte: un mistero profano, un canto e un’atmosfera musicale intorno alla morte, non una situazione religiosa, e la decisione di una scelta metafisica. Una deduzione, dunque, dalle Rime dantesche, ma tale da distrarne la conclusione ultima, che valeva accettazione e scoperta dell’immortalità e di un cielo rapito di forza, e da eludere per questa via, che è come abbiam detto la poetica dei prosecutori dello stilnovismo e di Cino, la compattezza e la conseguenza della poetica di Dante, che dalle Rime passa di necessità, non importa dopo quanto, alla Commedia e sia pure attraverso le esperienze estreme delle petrose e del Convivio, opposte.

«Lasso me ch’i’ non so in qual parte pieghi» Di questa traccia storica, per la quale si disponeva dopo Cino e s’irretiva in una variazione dolente, ma inattiva, l’eredità dantesca, si accorge lui pure, e l’esprime a suo modo nella canzone Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi, che al termine d’ogni stanza fa omaggio di un verso ai poeti che l’hanno preceduto: Arnaldo Daniello, Guido Cavalcanti, Dante Alighieri, Cino da Pistoia, e quinto lui stesso; ma di Arnaldo il verso è variato verso una continenza petrarchesca.4 La terza stanza, che grava sul verso dantesco «così nel mio parlar voglio essere aspro», potrebbe essere il nodo di quella storia di poesia: Vaghi pensier che così passo passo scorto m’avete a ragionar tant’alto, vedete che Madonna ha ’l cor di smalto sì forte ch’io per me dentro no ’l passo. Ella non degna di mirar sì basso che di nostre parole

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curi; che ’l ciel non vole, al qual pur contrastando i’ son già lasso: onde, come nel cor m’induro e innaspro «così nel mio parlar voglio esser aspro».

Ride di sé: «Che parlo, o dove sono? e chi m’inganna / altri ch’io stesso e ’l disiar soverchio?»; e Cino l’aiuta a uscir dalla magìa delle rime petrose: ecco perché, quasi musicalmente scherzando, ha giuocato sulla variante del verso di Daniello «d’amor» e «demori»; è ben questo il programma della sua poetica contemplativa, tanto più tardi espressa nel verso «là ’v’io seggia d’amor pensoso o scriva». Ma Dante, attraverso la disciplina filosofica di Guido, era giunto al canone della drammaticità violenta e appassionata: Francesco, contrapponendogli Cino, Nessun pianeta a pianger mi condanna. Se mortal velo il mio veder appanna, che colpa è de le stelle o de le cose belle?

si tenne nel giro terreno del suo dolore e piacere alterni. Vale pur sempre, ad una lettura così avviata, la riflessione del Carducci, intesa a storicizzare le fasi dell’incontro: «delle tante imitazioni e rimembranze dantesche scoperte dal Mazzoni nel Canzoniere e sfilate per parecchi capitoli della sua difesa le novantanove per cento sono di tal fatta», cioè «appartenenti al fondo della lingua letteraria e suggerite ad ambedue dall’abito scientifico e artistico del tempo», e restano vere e proprie imitazioni solo quelle dei Trionfi composti dopo il 1359, dopo cioè che il Petrarca ebbe accettato di ammirar la Commedia. Circa il qual tempo dové essere stato scritto o ritoccato un sonetto, che è degli ultimi in morte di Laura, nel quale sarebbe difficile negare l’imitazione di due versi di Dante: Gran maraviglia ho com’io viva ancora: né vivrei già, se chi tra bella e onesta qual fu più lasciò in dubbio, non sì presta fosse al mio scampo là verso l’aurora,

tanto inferiore alla franchissima e affettuosa terzina, La mia sorella che tra bella e buona non so qual fosse più, trionfa lieta nell’alto olimpo omai di sua corona.5

Dice bene Carducci: «franchissima»: appunto da quella franchezza della poetica dantesca, da quell’impegno animoso e forte, da quel calar tutto nel segno il senso della vita morale, Petrarca si ritrasse; e anche quando la morte di Laura gli consente, quasi gli impone, una libertà e una concretezza di visione che è 394

segno di una fantasia liberata, anche allora chiede di chiudersi in un cerchio di solitudine: se mai scendendo alla pietà sorrisa d’un colloquio ormai candido, anzi canuto (son. Tranquillo porto avea mostrato Amore): Et ella avrebbe a me forse resposto qualche santa parola sospirando, cangiati i volti e l’una e l’altra coma.

Suggestione del verso e del proverbio Ma i Trionfi accettano finalmente, se non l’acquisto, l’incontro: quasi che non potesse essere più ignorata la Commedia, dopo la crisi di cui vedremo testimonianza nella corrispondenza col Boccaccio. E come ogni lettore di Dante riflette in sé più o meno fedelmente il ritmo della storia della fortuna, quella almeno del suo secolo, con suggerimenti del costume letterario e sociale, che su questo o quel modo di preferenza si fermavano, anche Petrarca, certo il lettore letterariamente più provveduto fra i Trecentisti, par lasciarsi prendere dalla suggestione delle locuzioni e dell’arte: se è lecito misurare un prima e un poi nella diversa intensità del riecheggiamento. L’intenzione dottrinale e la situazione strutturale della Commedia non sembrano esercitare così diretta efficacia come la persuasione del verso e l’evidenza della parlatura. Dopo così lunga antitesi, e una politica letteraria certo non apertamente dibattuta, nella fondazione di un costume che conobbe la dignità di un lavoro reciproco, piuttosto che la rissa della polemica faziosa, quale prevalse quando l’accademismo, nell’Ottocento, si paludò di intellettualismo, e si pensò di combattere guerre religiose nelle stanze di Parnaso, egli si arrese al canone dell’evidenza, e ad un’arte vittoriosa nella sua immediata efficacia, quasi prima di riconoscerle o di accettarne (che vi sarebbe stato costretto sempre, comunque: lo dichiara) la dignità dottrinale: soggiace infatti a quella suggestione proverbiale che è il primo paragrafo della fortuna di Dante. E se non accorre ai versi più scopertamente rilevati, se il suo variare è cauto e accorto, anche la sua memoria batte sul repertorio più frequentato: Le sue parole e ’l ragionare antico scoverson quel che ’l viso mi celava,6

dice della sua misteriosa guida (e non mancarono commentatori che vollero indovinare che fosse Dante: «vero amico ti son, e nacqui in terra tosca»; forse il nuovo poeta fa la prova del polisenso, e fin dove si stenda l’efficacia molteplice dell’immagine): Le sue parole e il modo de la pena m’avean di costui già detto il nome: però fu la risposta così piena…7

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ché di tanto la prima guida si nasconde di quanto Cavalcante prorompe; ma la direzione inversa non toglie, e quasi conferma, che sian due frasi parallele. E subito avviandone il discorso: E cominciò: «Gran tempo è ch’io pensava vederti qui fra noi: ché da’ primi anni tal presagio di te tua vita dava». «E’ fu ben ver, ma gli amorosi affanni mi spaventar, sì ch’io lasciai la ’mpresa; ma squarciati ne porto ’l petto e ’ panni». Così diss’io; ed e’, quando ebbe intesa la mia risposta, sorridendo disse: «O figliuol mio, qual per te fiamma è accesa!» Io no l’intesi allor; ma or sì fisse sue parole mi trovo entro la testa che mai più saldo in marmo non si scrisse. E per la nova età, ch’ardita e presta fa la mente e la lingua, il dimandai: «Dimmi, per cortesia, che gente è questa?»8

L’ultimo verso, così facilmente paragonabile ad una inchiesta di Dante a Virgilio «Maestro, che è quel ch’i’ odo, e che gent’è che par nel duol sì vinta?»9

cristallizza in un modo colloquiale una tessitura dialogica tutta quanta presa in prestito dalla Commedia. Ben diversi i colloqui delle rime sparse, anche i più scoperti e direttamente esibiti: «Non vede un simil par d’amanti il sole» dicea ridendo e sospirando insieme: e stringendo ambedue volgeasi a torno. Così partia le rose e le parole…10

così della scena di maggio; e dell’incontro in cielo: Per man mi prese e disse: «In questa spera sarai ancor meco…»11

Nessuna tessitura di dialogo, nelle Rime: una suggestione monodica, un annunzio effuso in canto, e una situazione, intorno, ricomposta in quadro; il vecchio saggio offre due rose agli amanti, che ne arrossiscono, e trionfale è il giardino fiorito; l’anima beata, in cielo, prende l’amato per mano. Ma la poetica della Commedia aveva insegnato ben altro: la commedia, appunto, e con una nuova sapienza nel definir le situazioni, una nuova sintassi nell’ottener dell’una 396

all’altra definizione caratterizzante il senso, il movimento drammatico e l’acquisto di una realtà unitaria. E nota che, se dovessimo fare storia non accertata dalla cronologia, ma sottoposta a quella, il sonetto dell’incontro in cielo è tardo, e appartiene a una fase parenetica che si conclude nella canzone alla Vergine: ancora sulle orme di Dante (il confronto fra la canzone alla Vergine e l’inno di san Bernardo nell’ultimo del Paradiso, ovviamente, va ricondotto alla generale nozione parallela del Canzoniere e della Commedia: questa protesa verso la trasvalutazione, che dalla preghiera alla Madre di Dio prende l’ultimo slancio per l’ultimo volo; quella reclinata in sé, e a modo di elegia ritornante sui suoi passi, e colma di passato e di rimpianto, nella paura dell’attesa: «il dì s’appressa e non puote esser lunge»: Petrarca non è mai poeta delle promesse, la sua storia non ha domani, è tutta nell’attualità sentimentale che ripercorre e ripercuote). Ma nei Trionfi, anche le legature narrative, i nessi fra un capitolo e l’altro, sono d’impronta dantesca: Stanco già di mirar, non sazio ancora, or quinci or quindi mi volgea,12

così che questo capitolo secondo, o canto, o frammento da aggiungere o da togliere al disegno predisposto (dunque, un poetar meno sorvegliato) incomincia da quella plenitudine come inebriata che era dell’entrar nel Paradiso Terrestre: vago già di cercar dentro e dintorno…

subito annotando la scoperta che innumerevoli cose si possono riassumere nel tempo sospeso della visione: guardando cose che a ricontarle è breve l’ora.13

Legature, tuttavia, alla lor volta legate dalla reminiscenza di un verso, che inizia lui la tessitura delle reminiscenze (la variante «stanco», sovrapposta a «vago», indica tutto un capitolo della tarda poetica petrarchesca: quella del reclinar pesante; e vedi anche il dualismo concettoso di «stanco» e di «sazio»). Ancora variazione sopra un verso restato prepotente nella memoria annoti nel Trionfo della Morte, ed ancora in un capitolo «extravagante», il II: Riconosci colei che prima torse i passi tuoi dal pubblico viaggio?

Le reminiscenze e le parole d’accento dantesco son più d’una: ma certo il motivo su cui s’esegue il canone è l’invito di Lucia a Beatrice: ch’uscì per te da la vulgare schiera…14

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Così dall’accento rilevato di un verso si lascia attrarre verso la sintassi e il dialogo: Vago d’udir novelle oltra mi misi tanto ch’io fui in esser di quegli uno che per sua man di vita eran divisi.15

Così, variando, sulla traccia di quella meditazione che abbiamo osservato al principio del canto II del Trionfo d’Amore, il volo di Paolo e Francesca riappare nel camminar composto di Sofonisba e Massinissa: Giva il cor di pensiero in pensier, quando tutto a sé il trasser due, che a mano a mano passavan dolcemente lagrimando.16

Situazione astratta della poetica petrarchesca Finalmente l’equilibrio fra le reminiscenze sue proprie («Di pensiero in pensier…») e le suggestioni dantesche è raggiunto intorno a un episodio che poteva far riecheggiare nei Trionfi le ambizioni del poema giovanile, Africa. E fin qui abbiamo seguito la vicenda di un ricordar letteralmente, che dal verso suggestivo ripercorre a ritroso la strada di dove il poeta è disceso. Sale infatti il Petrarca per questa via ad accertare quel mondo della dottrina dantesca che era anche il suo, ma con un accento diverso, che qui, a paragone di quello, scopre la differenza, con più chiarezza forse che mentre era intento a popolar di melodia la sua solitudine amorosa, o a fondare le consuetudini e le regole della nuova società letteraria, distaccata in parte dalla discussione teologica, distaccata in parte dalla preoccupazione politica. Il suo non è un mondo drammatico, che pur nell’attualità di ogni suggestione poetica (Dante capovolge in vita immanente la vita trascendentale delle anime, poetando; e il suo Inferno, il suo Purgatorio, il suo Paradiso, se ha una storia, ha storia del discendere di lassù a quaggiù) possa separatamente disporsi e contrapporsi: il suo mondo non è animato dall’afflato trinitario di Dio creatore, che si ripercuote nella trimurti diabolica delle tre bestie sospinte fuor d’Inferno dal Maligno, nelle tre facce di Dite; egli cammina il suo cammino di vita per una vita mediana, ha insegnato a sé, e insegnerà poi all’umanesimo letterario, come distaccarsi dalle preoccupazioni totali, come in una sorvegliata cerchia di vita raggiungere un grado eccellente di dignità umana; e l’amor di Donna riconduce in quel cerchio, ora adombrando l’Inferno del desiderio non corrisposto, ora adombrando il Paradiso dei purificati consensi; e l’amor di Dio aleggia coi suoi doni su quel dono terrestre. Ecco perché la sua storia trascendentale, l’organismo disposto ai Trionfi, priva di quel fecondo dualismo di Dio e di Satana, di Bene e di Male, o lasciandolo in disparte, celebrando appunto i doni terreni e terrestri di una natural grazia, immagina di non conoscere che Trionfi. Trionfo dell’immanenza? No: è la metafisica cristiana che 398

consente questa sia pur illusoria e momentanea pienezza di vita, e che indica con tanta chiarezza, fra i limiti pure opposti dell’amore terreno e dell’eternità, un cammino dal male al bene; ma nella zona separata di questa deduzione umanistica, dell’umanesimo letterario, ben si intende (ché all’umanesimo romanico e all’umanesimo dantesco toccò di renderla possibile, scoprendo un mondo tanto più lontano e grande) non esiste che bene: un minor bene accanto al più grande; che sarebbe ricordo della filosofia agostiniana e della teoria del defectus boni se il lettore di sant’Agostino, Petrarca, con tutta la sua buona volontà di apprendere come drammatizzare la sua situazione, non trascurasse nei Trionfi di riportar dell’Africano ogni benché minimo atteggiamento intrinseco, la violenza perduta e redenta di quel suo passar dal polo del meno al polo del più, e il dramma di una separazione, e l’Osanna paolino dell’uomo morto e risorto, del secondo Adamo. Intellettualista come fu, il Petrarca poté illudersi che bastassero i concetti e le idee astratte, i filosofemi, all’intimo senso di quell’arduo discepolato, attraverso il quale credeva infatti di ritrovare un cristianesimo più intrinseco: comunque, di opporsi al naturalismo intinto di averroismo d’ogni discepolo d’Aristotele, medico o letterario che fosse, per accettare, attraverso Agostino, uno spiritualismo più dichiarato; ma la lettura che egli fece di Agostino, e nonostante il suo soggiorno in Francia, ma propriamente in Provenza, fu appunto una lettura patetica: per comprenderla torna forse opportuno ripensare alle zone sentimentali frequentate dai romantici francesi quando si proponevano di leggere i moralisti del gran secolo. Non transito vertiginoso e mistico dal male al bene, dunque, costellato, come l’itinerario di Dante, da mistici sonni e da sogni dentro la visione, ma solo trionfi. E non luoghi: quegli accenni ai viaggi di Roma e di Provenza, se aiutano la postilla autobiografica del libro, poco valgono alla lettura; e non sono altro che una suggestione mediocremente geografica e paesistica sostituita alla cosmografia dantesca. Petrarca non avverte nemmeno la necessità, che poi avvertiva tanto chiaramente Mantegna, di disporre un’architettura al suo trionfo (ma è vero che Mantegna, con tutte le sue preoccupazioni accademiche, veniva pur da una scuola pittorica che tra Padova e Ferrara aveva assorbito tutte le esigenze realistiche dell’umanesimo pittorico fiorentino, che non si dimenticò mai di Dante): si contenta di gruppi umani che si specchiano in sé, quindi di un universo volenterosamente limitato, in cui gli attori agiscono senza alcun sussidio di elementi esterni, o quasi senza soccorso (non vorrei isolare un verso: Mossemi il lor leggiadro abito e strano e ’l parlar pellegrino,

nello stesso episodio di Sofonisba: se mai, è un esotismo tassesco, e le inquadrature estrinseche disposte al dialogo umanistico sono melodrammatiche). Quei gruppi formano dunque dei cori; e alcuni personaggi passano dall’uno all’altro, secondo le esigenze della distribuzione. Certo, l’importanza storica di questo sostituire alla cosmografia dantesca i «luoghi» della storia e della gloria non può esser diminuita. Non i «regni» dell’oltretomba, i luoghi metafisici dell’Inferno e del Purgatorio e del Paradiso, valgono per la nuova cultura, ma le idee astratte 399

se pure storicamente, celebrate, di Amore, di Pudicizia, di Morte, di Fama, di Tempo e di Eternità: le «sei giornate» del mondo creato, a ben guardare, da accompagnare alle sue epoche della storia universale; e non la sostanza terrestre dell’abisso che si sprofonda al centro della terra, il rigurgito del monte che s’innalza sull’eguale orizzonte del mare del Sud, il vortice dei pianeti e dei cieli; ma gruppi di personaggi storici: come se la vita dell’uomo potesse finalmente intendersi attraverso i concetti e la storia.

Ancora poesia e struttura Il problema di critica letteraria s’illumina ed illumina questa situazione astratta della poetica del Petrarca: ché esso problema comincia quando si tratta di verificare fino a che punto il poeta pervade quel suo mondo trionfalmente disposto alla sua storia e d’ognuno. Ma l’inchiesta di una lettura critica attenta alla confessione dell’arte poco risponde all’attesa: quella dottrina umanistica, quella sistemazione concettuale e storica della realtà morale e autobiografica, è pochissimo pervasa dalla animazione della poesia: resta stupenda e pomposa, trionfalmente vuota, imponente come impalcatura che fu, disposta ad una filosofia e ad una filologia non ignare già del divino cristiano, senza il quale non sarebbe nemmeno stata tentata, ma volentieri dimentiche di responsabilità più precise. E non vorremmo capovolgere l’indagine, e far che l’incontro di Dante e del Petrarca serva qui alla lettura del Petrarca più che a quella di Dante: Dante separava dalla dottrina la sua persona, percorreva restando eguale i regni dell’oltretomba; ma non dimenticare mai che era per tornare al mondo dopo aver visto Iddio; e che le sue parole erano d’uno che aveva contemplato, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna; così il dualismo era, nell’atto, colmato, e la storia della Commedia era pur la storia di Dante. Petrarca passa di trionfo in trionfo ben altrimenti attento a sé, se per avventura anch’egli muta; ma può crescere e divenire e avere storia solo nella cerchia volenterosa e vanagloriosa del suo io circospetto. L’intenzione del Poeta è di descriverci in questi sei moralissimi e leggiadrissimi Triomphi vari stati de l’huomo: che essendo animale rationale e mortale ha due principali potenze: l’Appetito e la Ragione.17

Ancora concretezza della persona e disponibilità del sentimento In una nuova linea si prospetta così l’una e l’altra ipotesi della critica, o che si tratti nei Trionfi di una allegoria della umana condizione, o che si racconti «non altro che visioni rappresentative dei casi di Laura e di esso poeta, secondo che nell’uno o nell’altra in diversi tempi trionfarono, cioè signoreggiarono, l’Amore, la Castità, la Morte, lo studio della Fama, il pensiero della fiacchezza e vanità 400

delle fatiche e delle opere umane incontro alla potenza del Tempo, e in ultimo la religione della Divinità», come diceva Leopardi,18 a specchio di sé nel testo, e con quel suo accento in «signoreggiarono», in «fiacchezza e vanità […] incontro alla potenza del Tempo», in quella smarrita lontananza della «religione della Divinità». Le due ipotesi, opposta l’una all’altra in sede di discriminazione e quadratura intellettualistica, si rivelano, a uno studio più attento, complementari; e anch’esse ci aiutano, entrambe concorrendo, a capir meglio, con l’animo di Leopardi e le ambizioni accademiche dei cinquecentisti, quanto di Dante leggeva Petrarca. Ché certo sostituire come abbiam visto or ora che fece, un ordinamento intellettualistico e concettuale al vittorioso, impetuoso e ingenuo oggettivismo di Dante, era deliberato, era volontà di trattenersi (ma pensava di progredire) in una zona di minore impegno, in un formulario meno ardito, in una soluzione dottrinale più facilmente accettabile (la cosmografia dantesca ebbe una popolarità immensa; ma, si rammenti la Questio, dovette subito subito suscitare, intorno, il dispetto del suo stesso eccesso di evidenza). E d’altra parte, per il cammino complementare della scoperta della persona, Dante accettava lo stesso canone dell’evidenza anche per il suo ritratto, smuoveva col suo peso i sassi del burrato, ansimava su per le scalee del Purgatorio, faceva ombra di sé sulla cortina di fiamme, e forse saliva col corpo nello spazio dei cieli; né Beatrice, ora pietosa, «gli occhi lucenti lagrimando», ora trionfante, «pareami più se stessa antica vincer / che l’altre qui, quand’ella c’era»,19 smetteva mai d’essere creatura: dava insomma alla persona una consistenza e una realtà così precisa da impegnarla per questa stessa estremità e assolutezza di vita in una realtà trascendentale: troppo se stessa perché alla spiegazione superba di sé, alla rivelazione del proprio essere e della propria missione, potesse mancare l’intervento diretto della Grazia (ma anche questa non è parola dantesca, introdotta, infatti, da un’eco novecentesca della grande disputa teologica del barocco: l’operazione delle donne benedette nella corte del Cielo è un intervento di persone concrete: Maria; e questa ottiene un rescritto imperiale, «sì che duro giudicio lassù frange», e delega il soccorso alle altre donne gentili, e queste a Virgilio, visto nella sua più esatta continenza storica). Da quella realtà del mondo e da questa realtà della persona Petrarca si ritrae in quella sua zona intermedia dove gli è caro vagamente fluttuare in un sentimento di perpetua attesa, disimpegnato, e lì chiamare a convegno (come in una zona intellettuale e morale che può fare a meno delle decisioni estreme, o dove si subisce, non si vuole) il costume e la letteratura. E non è a dire che Dante ignorasse questo modo minore; ma lo deduceva, musicalmente variando la sua cosmografia e il suo ritratto, affidava all’onda del verso una suggestione, altro che un fiato di vento,20

che il Petrarca contornava elegiacamente così:

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tutti tornate alla gran madre antica e il nome vostro appena si ritrova,

per un’epigrafe che il tempo melanconico cancella. Diceva l’uno, stupito che fosse tanto lontano: io fui nato e cresciuto sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa,21

e l’altro, suggellando nella canzone alla Vergine, in un solo giro innologico, i Trionfi e le Rime: Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno non è stata mai vita altro che affanno.

L’uno e l’altro dei modi danteschi sussistono, riassumibili in un solo realismo oggettivato; ma discostati dalle loro proposte estreme, si attenuano e impallidiscono: le strutture disposte divengono, come s’è detto, intellettualistici schemi, popolati di personaggi rappresentativi; e qui, che siamo alle illustrazioni testuali e a una casistica critica che reintroduca la lettura, aggiungi che si tratta di un appello all’eloquenza, di un ricorso alla retorica, intesa più come luogo dei riferimenti e dei nomi, che come arte del dire: alla cultura (a quella determinata cultura, intellettualistica e storica, dove la tradizione letteraria italiana dichiarò di volere albergare per sempre), dove l’uomo soggiorna con una nobile parte di sé, non con tutto se stesso. Gli umanisti che accompagnarono il Rinascimento e gli storicisti che fiancheggiarono il Romanticismo evitarono anche la sua deliberata confessione del segreto amoroso.

La corrispondenza Boccaccio-Petrarca su Dante Quando di questi incontri così variamente, ma con tanta costanza e coerenza testimoniati, dunque nel prima e nel poi della sua storia di letterato, ebbe a dare una giustificazione riassuntiva, nella corrispondenza con Giovanni Boccaccio, non ebbe altra necessità che di definirsi con molto decoro: ogni accento polemico sarebbe stato, nonché ingiusto, contraddittorio di quel disimpegno che egli aveva tanto meditato, poetando. Già la corrispondenza risulta preparata con molta cura dal Boccaccio, certo nel soggiorno milanese del 1359; e il carme dell’invito, che il minore rivolge al maggiore, accetta e cerca per Dante quella investitura di dottrina internazionale che vale abbastanza poco per il Boccaccio esegeta in volgare, ma che dovrebbe valere assai per l’internazionalista e culturalista Petrarca: Novisti forsan et ipse traxerit hunc iuvenem studiis per celsa nivosi Cirreos mediosque sinus, tacitosque recessus

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Naturae celique vias terraeque marisque Aonios fontes, Parnasi culmen et antra Julia Pariseos dudum, serusque Britannus.22

L’investitura è così solenne, e così ansioso il desiderio di proclamare la compiutezza dell’itinerario di Dante, che l’eulogio rischia di perder concretezza; e risulta meno fondato di quanto in realtà sia, sui fatti debitamente accertati. Ma qui occorre rileggerlo proprio come introduttorio, o come invito a una dichiarazione, per un’intesa fra due diverse se non opposte correnti di cultura: quale intesa migliore che quella fondata sulla serietà della dottrina? Si trattava infatti di evitar di considerare il significato e il peso della fama volgare di Dante. Valeva anche allora, e per l’entusiasta e fondamentalmente ingenuo Boccaccio, quello che, narrando l’incontro, proclamava Carducci: «E questa famiglia di dèi maggiori io dal basso gli adoro tutti; ciascuno col suo rito, ma tutti». E occorreva, anche per amor di giustizia, che il riconoscimento venisse dal poeta laureato ai versi del poeta esule: versi «ex patrio tantum sermone sonoros», di un poeta «frondibus nullis redimiti». E se la lettera accompagnatoria del carme è, prosasticamente, più cauta, «la quale, come apparisce dal tenore della risposta, pare che si scusasse nell’aver abbondato nelle lodi dell’Alighieri»,23 rispondendo il Petrarca adopera in piena sincerità, per giudicare, quello stesso metro che aveva adoperato per rivivere: perde ogni distanza in una comune aura di garbata accoglienza. Ché quanto più identifica le diverse persone dei presunti oppositori, lui stesso e Dante contrapposti, tanto più può disporli su un piano di reciproca tolleranza. Stia pur Dante per sé, con la sua fama: lui pure da solo: e tanta fidanza avevo preso di me, o più veramente alterigia, ch’io credevo bastarmi senza aiuto d’uomo mortale l’ingegno mio a farmi in quel genere una maniera mia propria. Del che quanto credessi vero, altri giudichi;

come traduce Carducci, beato di così misurata e sdegnosa eleganza. E gli dà ormai il pregio dell’eloquenza volgare: e lo vorrebbe immune dal volgo che lo deturpa (i letterati erano tutti d’accordo, su questo); poi, ognuno per suo conto, e tanto diversamente dal Petrarca, che disponeva con tanta saggezza e accortezza il testo autentico delle sue rime sparse, affidavano, così Boccaccio, così Sacchetti, alla ventura il testo delle loro novelle: ch’era la sorte toccata a Dante, fosse o non fosse voluta, d’immergerlo nel fiume vivo della lingua e della memoria. Che si trattasse di una metodica collazione di testi, non vuol dire: di un rifacimento piuttosto, di una rimeditazione poetica, dei Trionfi. «Né di lui soglio parlare se non magnificamente»24 aveva attestato a Boccaccio: e vale una promessa.

1 Ed ecco la conclusione di chi mosse il «parallelo» al di là dell’esercitazione retorica, e avviò la storia della fortuna chiamando alla lettura comparatistica se stesso poeta (e tracciava varianti ai Sepolcri, nell’atto: p. 111!) e un tesoro immenso di letture d’ogni tempo, e special-

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mente degl’Inglesi cui si rivolgeva: «Fermo nella mente il concetto “l’uomo allora esser felice davvero che libero esercita tutte le sue forze”, Dante percorse con passo sicuro il cammin della vita, raccolse opinioni, follìe, vicissitudini, miserie e passioni, onde gli uomini vengono agitati, e lasciò dopo di sé monumento, il qual, se ne umilia con la rappresentazione di nostre fralezze, dovrebbe farci insuperbire di far parte d’una stessa natura con un tant’uomo, e ci conforta al miglior uso di nostra vita transitoria. Il Petrarca da saviezza piuttosto contemplativa che attiva fu guidato a conoscere, come le travagliose nostre fatiche in pro degli uomini eccedano a gran pezza qual beneficio ne possa ad essi tornare, come ogni nostro passo non ad altro riesce all’ultimo che ad approssimarci al sepolcro; e come la morte sia tra i doni della Provvidenza il migliore, e il mondo avvenire l’unica dimora nostra sicura»: U. FOSCOLO, Parallelo fra D. e il Petrarca. (Saggi sopra il Petrarca pubblicati in inglese da Ugo Foscolo e tradotti in italiano da Camillo Ugoni, Opere, X, pp. 130 ss.). La storia dell’incontro di D., Petrarca e Boccaccio, e come l’Amorosa Visione, procedendo dalla Commedia, solleciti i Trionfi, è raccontata con un rigore di scienza filologica pari alla modulatissima scienza critica da G. BILLANOVICH, Dalla «Commedia» e dall’«Amorosa Visione» ai «Trionfi», in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, CXXIII (1946). 2 G. CARDUCCI, Della varia fortuna, cit., p. 383. 3 «Questi due fondatori dell’italiana letteratura furono dotati di genio disparatissimo, proseguirono differenti disegni, stabilirono due diverse lingue e scuole di poesia, ed esercitarono fino al tempo presente differentissima influenza. In vece di scegliere, come fa il Petrarca, le più eleganti e melodiose parole e frasi, Dante crea sovente una lingua nuova, e impone a quanti dialetti ha l’Italia il tributo di accozzamenti atti a rappresentare non pure le sublimi e belle, ma ben anche le più comuni scene di natura; tutti i grotteschi concepimenti della sua fantasia; le più astratte teoriche di filosofia, e i misteri più astrusi di religione»: U. FOSCOLO, Parallelo, cit., p. 107. 4 Il Petrarca con l’espositione d’Alessandro Vellutello, e con più utili cose in diversi luoghi di quella novissimamente da lui aggiunte, Venezia 1547, al v. «Drez e raison es qui eu ciant emdemori»: «Ma il Poeta volse in questo ultimo verso de la Stanza imitar il primo d’una Canzone d’Arnaldo Daniello Provenzale, il qual dice in questa forma, Drez e rason es que ie cante d’amor, cioè Dritto e ragione è ch’io canti d’amore. Ma perché non quadrava bene al suo proposito, cercò solamente quanto poté d’imitarlo, e non disse il verso intero, come veggiamo che fa in fine de l’altre Stanze». Le varianti fan parte della storia del provenzalismo italiano, nonché cinquecentesco; ma tutto il giro della canzone riconduce il Petrarca al senso primitivo di Daniello. Un’esperienza che alla poetica petrosa e dantesca s’arresta, ricollegandosi anche, in qualche passaggio, all’antistilnovismo di Cecco (e vedi lo schema arcaicizzante dei terzetti) è nel sonetto S’i fussi stato fermo a la spelunca: dove non basta fermarsi all’implicito senso del verso: «Fiorenza avria forse oggi il suo poeta» che nega il primato dantesco: benché corretto dal catalogo dei poeti classici, Catullo, Virgilio e Giovenale, cui si sarebbe aggiunto. 5 G. CARDUCCI, Della varia fortuna, cit., p. 385. E vi sarà da aggiungere, a riscontro, il fatto, ben noto alla fortuna del Petrarca, che più dai Trionfi furon tratti i versi più noti e passati in proverbio, e meno dalle Rime: per quella evidenza per cui passava e passa in proverbio Dante stesso. Ogni riserva deve essere, invece, fatta sulla tradizionale cronologia che Carducci propone della lettura della Commedia. Nessuno s’era accorto, prima di Billanovich, nel saggio cit., che la lettura di Dante, propostagli da uno dei primi editori critici della Commedia, ser Forese Donati, priore di Santo Stefano in Boteno, presso Firenze, da lungo esercitava la sua efficacia: dopo la generica menzione dei Rerum memorandum, 1343-45, «subito dopo il commiato di Forese, tra la fine dell’estate e il principio dell’autunno del 1352, scrisse al popolo romano la lettera maestosa per la prigionia e il processo di Cola di Rienzo: “Volvet motu continuo rotam suam instabilis Fortuna, et de gente in gentem volubilia regna versabit […]. O iniqua secula! […]. Tu vero nunc, infallibilis et incorrupte rerum arbiter Christe, quid agis? Ubi sunt oculi tui? quibus humanarum miserarum nebulas serenare solitus es? Cur illos aversit?”» (p. 21). Evidentemente il sesto del Purgatorio, il canto dell’Italia trascurata e straziata, commosse subito e intimamente il poeta della canzone Italia mia e delle epistole al doge Dandolo e all’imperatore Carlo IV. Non vedo che siano stati segnalati mai questi echi

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d’importanza fondamentale e evidente, anzi tutto per la loro data» (p. 21 n.). Ma, quanto all’anno 1359: «Alla fine della primavera del 1359, già disceso da quella commozione tumultuosa per le pagine di Dante ai riserbi permalosi della sua vigilanza usuale, che poi scontenteranno lettori e biografi, invece disposti a consentire alla passionalità franca e superficiale del Boccaccio […]» (p. 28). 6 Trionfo d’Amore I, 49-50. 7 If X, 64-66. 8 Trionfo d’Amore I, 52-65. 9 If III, 32-3. 10 Son. Due rose fresche e colte in paradiso. 11 Son. Levommi il mio penser in parte ov’era. 12 Trionfo d’Amore II, 1-2. 13 Trionfo d’Amore II, 2-3. 14 If II, 105. 15 Trionfo d’Amore I, 31-3. 16 Trionfo d’Amore II, 4-5. 17 Gesualdo in C. CALCATERRA, I Trionfi, Torino 1927, p. VII. 18 Ibi, p. IX. 19 If II, 116; Pg XXXI, 83. 20 Pg XI, 1001. 21 If XXIII, 94. 22 ZINGARELLI, La Vita, p. 521. 23 G. CARDUCCI, Della varia fortuna, cit., p. 372. 24 Ibi, pp. 391 ss. E valga la sua eleganza letteratissima, a raccomandarlo per sempre, anche e soprattutto nel tradurre. A rintracciare il senso dei passi controversi del Boccaccio ci aiuta O. HECKER, Boccaccios Funde, Braunschweig 1902 (cfr. ZINGARELLI, La Vita, cit., p. 526).

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Aneddotica

Franco Sacchetti La novelletta di Franco Sacchetti, CXIV, è uno specchio accorto dei modi di questa popolarità: riunisce in un solo giro il ricordo della poesia e il ricordo dell’uomo. Passeggiata di Dante fiorentino per le vie della sua città: Quando ebbe desinato, esce di casa, ed avviasi per andare a fare la faccenda, e passando per porta San Piero, battendo ferro un fabbro su la ’ncudine, cantava il Dante, come si canta uno cantare, e tramestava i versi suoi, smozzicando e appiccicando…

La popolarità sacchettiana è tanto più accorta quanto più disinvolta; e qui si dimostra consapevole delle mete della sua poetica, proprio nello stabilire il contrasto fra la solennità dell’autore, «lo eccellentissimo poeta volgare, la cui fama in perpetuo non verrà meno, Dante Alighieri fiorentino», e l’ambiente di cui lo circonda, il vicinato: «era vicino in Firenze alla famiglia degli Adimari», il fabbro cantore, l’esecutore del tribunale «il quale parea avere amistà col detto Dante», il cavaliere bizzarro degli Adimari, giovane altiero e poco grazioso quando andava per la città, e spezialmente a cavallo, che andava sì con le gambe larghe che teneva la via, se non era molto larga, che chi passava convenia gli forbisse la punta delle scarpette:

così si svia e si colorisce in aneddoto il dramma di Filippo Argenti. Fra quella dignità aulica della poesia oratoriamente panneggiata e questa varia cronaca, Franco si trae in disparte a guardare, tanto curioso d’occhi come dispettoso d’umore, ripercorrendo in tono minore, e con una variazione dimessa e pur fantastica lo sdegno del grande: uno sdegno iracondo, che si piegava pochissimo alle convenienze cittadine, intervenisse col fabbro o col giudice; e questa scarsa arrendevolezza, questa inurbanità d’uomo superiore che non transige né con la prosodia né con la giustizia, è naturalmente la notizia che più interessa i parlanti cittadini: Non dice altro, se non che s’accosta alla bottega del fabbro, là dove avea di molti ferri, con che facea l’arte: piglia Dante il martello e gettalo per la via, piglia le tenaglie e getta per la via, piglia le bilance e getta per la via… «Se tu non vogli che io ti guasti le cose tue, non guastare le mie […]. Tu canti il libro e non lo di’ com’io lo feci; io non ho altr’arte, e tu me la guasti…»

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e ancora: Voi avete dinanzi alla vostra corte il tale cavaliere per lo tale delitto; io ve lo raccomando comecché egli tiene modi sì fatti che meriterebber maggior pena; ed io mi credo che usurpar quello del comune è grandissimo delitto […]. Or ecco, io sono suo vicino, io ve lo raccomando. E per questo, essendo la principal cagione, da ivi a poco tempo fu per Bianco cacciato di Firenze, e poi morì in esilio, non senza vergogna del suo comune, nella città di Ravenna.

Conchiude dunque ritornando a quel tono solenne donde aveva preso le mosse; e riporta il ritratto del poeta sdegnoso nella solitudine del suo esilio. Il suggerimento verace è in questo ridiscendere dal ritratto oratorio alla cronaca di costume e risalire al distacco e al compianto in morte: è lo stile proprio del Sacchetti, s’intende, ma è, appunto per questo, il contributo che egli dà alla conoscenza di Dante. Non gli importa di trascurare il fatto, tritamente certo, che «il Dante» non poteva essere divulgato in Firenze anzi l’esilio: il fatto, pur nella minuzia della rappresentazione, è di sempre; e quel Dante che esce di casa e vi ritorna è un poco l’apologo della presenza perpetua di Dante fiorentino.

Altro modo dell’aneddotica dantesca del Sacchetti In quell’altra novelletta parallela dell’asinaio dispone un’intenzione diversa. Novella nota anch’essa, così duplicata: «la quale è breve, ed è bella». Scontra un asinaio «il quale avea certe some di spazzatura innanzi» (questa è, naturalmente, attitudine poetica del novelliere, che finge di sviar l’attenzione, mentre la concentra, e tien d’occhio il contrasto fra il ritratto eroico, «portando la gorgiera e la bracciaiola, come allora si facea per usanza», e il mimo volgare, e prepara il finale plebeo e insieme poetico): il quale asinaio andava dietro agli asini, cantando il libro di Dante; e quando avea cantato un pezzo, toccava l’asino e diceva: «Arri». Scontrandosi Dante in costui, con la bracciaiola li diede una grande batacchiata su le spalle, dicendo: «Cotesto arri non vi miss’io». Quando fu un poco dilungato, si volge a Dante cavandogli la lingua, e facendoli con la mano la fica, dicendo: «Togli». Dante, veduto costui, dice: «Io non ti darei una delle mie per cento delle tue».

Il sopravvenire nella memoria del narratore dell’episodio di Vanni Fucci è evidente: di quell’episodio appunto della bestialità disumana a paragone con Dio, che drammatizza tragicamente l’incontro del poeta profeta con la vita cittadina. La memoria s’era appiccicata intorno all’episodio, per il quale il gesto, di osceno, era diventato blasfemo: c’era una fortuna anche dei gesti; e a respinger questo dalla consuetudine mimica, la «fronte» del canto dei serpenti dovette aver la sua parte. Franco non annota più il fatto della divulgazione del libro, che 408

è fatto già noto: la sua fantasia s’avviva sulle cose e sui gesti, che sopra abbiamo annotato: quei pezzi d’armatura, cosa strana nell’iconografia di Dante, il cui ritratto si stabilizzò nella veste dottrinale ed oratoria (ma l’Ottocento, in vena di storicismo, qualche volta aprì il lucco fiorentino, e indicava il particolare delle calze trecentesche), e la spazzatura, a contrasto; e i versi e il grido plebeo, a contrasto; e il gesto dell’asinaio, e «le dolci parole piene di filosofia», a contrasto. L’episodio della Commedia diventa mitico; ma perde, nel viaggio della vulgata, ogni asprezza intrinseca; la memoria gli si ricompone intorno purgata: quel che il gesto aveva di volgare precipita e si disperde nel personaggio volgare, e la sua intenzione sacrale si raccoglie nel ritratto del dotto.

Parodia e ritratto Le novelle del Sacchetti sono il meglio della letteratura aneddotica intorno a Dante: solo il detto di Luis Milán, «sa il bene chi ha provato il male» può stargli a paragone; ma in mezzo a loro, anche nella vicenda degli anni, la musa aneddotica ciondola sbardellata, pronta a servirsi di quel nome illustre per appendere i suoi cenci. Vedila, in vena di far versi, attribuire a Dante la quartina del Fiore, e rinforzare l’attribuzione con la storiella: Chi nella pelle d’un monton fasciasse un lupo, e fra le pecore ’l mettesse, dimmi, cre’ tu, perché monton paresse, ched’ei però le pecore salvasse?

E i versi sarebbero stati detti al conte Guido Salvatico di Casentino, per metterlo in guardia sull’assiduità di certo frate, «bellissimo cristiano e valentissimo uomo», presso la contessa, «rimanendo con lei le molte volte solo in camera e a uscio serrato».1 Evidente la stilizzazione boccaccesca nel taglio del raccontare e nel dettato, imitata con una certa finta blandizie da chi probabilmente s’avvede che ascetismo dantesco e polemismo edonistico del Fiore, e del costume che gli si ricollega, sono gli antipodi. Fra la citazione autentica ed implicita del Sacchetti e la citazione esplicita ma apocrifa del codice Riccardiano da cui l’aneddoto è riportato, c’è una enorme distanza di efficacia e di attenzione poetica ed umana; ma il procedimento è lo stesso: far servire la poesia di Dante al ritratto dell’uomo, rivolgere alla conoscenza biografica, storica che fosse o polemica, l’opera poetica. In questo capitolo dell’aneddotica si adunano molti episodi. Il fondamentale, accanto a quello storico che abbiamo citato, del Cagnola e di Galeazzo Visconti e di papa Giovanni XXII, è quello delle donne di Verona, che stupivano a vederlo: e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso. Per la qual cosa avvenne un giorno in Verona (essendo già divulgata per tutto la fama delle sue opere, e massimamente quella parte della sua Commedia, la quale

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egli intitola Inferno, ed esso conosciuto da molti, e uomini e donne), che passando egli davanti a una porta dove più donne sedeano, una di quelle, pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era non fosse udita, disse all’altre donne: «Vedete colui, che va nell’inferno, e torna quando gli piace, e quassù reca novelle di coloro che laggiù sono?». Alla quale una dell’altre rispose semplicemente: «In verità tu dei dir vero; non vedi tu com’egli ha la barba crespa, e ’l colore bruno per lo caldo e per lo fummo che è laggiù?».

Boccaccio conduce su uno stesso fronte più attenzioni, e si preoccupa, qui, non soltanto dell’aneddoto, a illuminare il ritratto, ma della notizia sulla divulgazione dell’opera: che fu frammentaria, e tale da suggerire, di là dalla continuità compatta onde appare a noi, l’uno episodio legato all’altro da una continuità editoriale prima che narrativa, e narrativa prima che strutturale, il pensiero che Dante scendesse di tanto in tanto all’inferno, a riportarne notizie: al che doveva naturalmente accedere la recitazione giullaresca, di necessità episodica. Ed eccoci, lungo la storia interna di questo aneddoto, passare a un altro gruppo assai frequente: gli aneddoti, non tanto mossi dalla vivacità di questo o di quell’episodio, ma inventati o adattati per spiegare questo o quel verso; un modo tutto proprio della fantasia esegetica di Benvenuto da Imola e, prima, dell’Ottimo.

Il giudice coinvolto nel peccato Una prosecuzione singolare del mito del poema nel mito dell’uomo è quella che gli attribuì i vizi dei dannati. Di taluni, è noto, lui stesso si confessa: della superbia, e dell’ira, e della lussuria; e dall’uno all’altro al terzo motivo l’aneddotica perde di serietà: già s’imbratta col costume, facilmente sboccato. Ma anche sui peccati non confessati o impensabili s’arrabattò la leggenda: gli aneddoti dell’eresia, prima di tutto, probabilmente coniati per dar credito all’apocrifo «Piccolo Credo» in terzine, come l’aneddoto di Frate Ilaro poté far da prefazione a un’edizione; e gli aneddoti di Dante mago o di Dante indovino, sollecitati dal pianto sulla quarta bolgia. Si trattava di una proiezione della poesia, e di una verità certo non contraddittoria per essere meno aperta: che il poeta (come lo spettatore di un dramma, a dir di Bossuet) s’intinge della materia, che rinarra di sé, che ritraendo nella fantasia la vita umana ne è dapprima artefice e fino a un certo segno corresponsabile e succube. Ancora il Boccaccio, che troviamo a tutte le svolte della fortuna trecentesca, aveva molto insistito su questo e quel vizio: meno per staccarlo, penso, dal rigorismo di una letteratura ascetica cui pur l’opera apparteneva, e per collocarlo in una più sciolta atmosfera di costume letterario cittadino, che risentendosi egli stesso di quella contaminazione di fantasia e di vita che la critica deve dirimere, e l’esegesi ritrovare. Il costume ebbe la più grande parte nel far la scelta: sulla possibilità di un Dante lussurioso si rideva, e sulle possibilità di un Dante eretico si scrollava gravemente la testa; lo scetticismo nostrano e l’ironia d’ogni particulare sul disinteresse d’una attività politica generosa raccoglievano volentieri le calunnie di baratteria, fama pubblica referente, come diceva la condanna; e un inglese, Edward Wright, riportava la calunnia di Dante ladro, settecentescamente attenuata, come di dovere, in cleptomania: 410

This great man, we are told there, had a most unhappy itch of pilfering; not for lucre (for it was generally of mere trifles) but it was what be could not help; so that the friends whose houses he frequented, would put in his way rags of cloths, bits of glass, and the like, to save things of more value (for he could not go away without something: and of such as these, at his death, a whole room full was found filled.3

Curiosa storia: che Dante rubasse con gli occhi si potrebbe dire, pensando a quella sua invitta forza di sguardo: o sostituiva cose nuove alle vecchie, o lasciava cose splendide in vece delle squallide, «rags of cloths, bits of glass, and the like», che sottraeva. Ma qui puoi misurar per contrasto l’energia con cui Dante si sottrasse alla tentazione di una vita infera, decadentisticamente (o surrealisticamente) legata alla magia delle cose, se la sua saga poté trattenersi tanto poco nelle zone torbide della psiche: egli torna con un violento balzo all’aperto; e il suo cammino è in un respiro profondo, fuor dell’aura morta, alle stelle.

Aneddoti della vita di corte Poco servono, a questo proposito, gli aneddoti cui presta niente altro che un nome: l’aneddoto del guado o l’aneddoto dell’ovo o l’aneddoto dell’elefante. Ma vede bene Poggio Bracciolini, quando si serve di lui per definire umanisticamente l’attitudine del dotto nell’ambiente di corte: al confronto con il buffone carico di doni e di belle vesti, l’esule immerito fa trista figura: Tum Dantes: «Quando ego reperiam dominum», inquit, «mihi similem et meis moribus conformem, sicuti tu tuis, et ipse similiter me ditabit».4

L’aneddoto fu frequentissimamente ripetuto, in tutta Europa, introdotto dal Petrarca, com’era giusto: cioè da uno che voleva sottrarre la letteratura alla corte, e che ebbe autorità bastante a diffondere tal tema dovunque: Dantes Aligherius, et ipse concivis nuper meus, vir vulgari eloquio clarissimus fuit, sed moribus parum per contumaciam, et oratione liberior, quam delicatis ac studiosis aetatis nostrae principum auribus atque oculis acceptum foret. Is igitur exul patria, cum apud Canem Magnum, commune tunc afflictorum solamen ac profugium, versaretur, primo quidem in honore habitus, deinde pedetentim retrocedere coeperat, minusque in dies domino placere. Erant in eodem convictu histriones ac nebulones omnis generis ut mos est: quorum unus procacissimus obscoenis verbis ac gestibus multum apud omnes loci atque gratiae tenebat. Quod moleste ferre Dantem suspicatus Canis, producto illo in medium et magnis laudibus concelebrato versus in Dantem: Miror, inquit, quid causae subsit, cur hic, cum sit demens, nobis tamen omnibus placere novit et ab omnibus diligitur, quod tu qui sapiens diceris non potes? Ille autem: Minime, inquit, mirareris, si nosses quo morum paritas et similitudo animorum amicitiae causa est.5

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Certo qui giuocano più motivi, che si potranno aggruppare intorno a Dante, intorno al Petrarca e intorno a Can Grande: perché è evidente che Petrarca si preoccupa di segnare le differenze fra il modo dantesco e quello ch’egli qui e altrove propone: modo di riflessione letteraria, naturalmente, costume del dotto; ma non si saprebbe poi troppo bene distinguere fra la letteratura come vita e la vita come letteratura. Anche importa che l’aneddoto sia messo in scena alla corte di Can Grande: se monsignor Dionisi e Foscolo riescono ad andar d’accordo nel far l’apologia di Cane della Scala, c’era tutta una corrente politica e ideologica ostile agli Scaligeri, e alle corti d’investitura imperiale, nel Trecento e più tardi. A Cane, naturalmente, giocando sulle parole, era assai bello attribuire l’aneddoto degli ossi che per ischerzo si accumulano, durante un banchetto, ai piedi dell’esule immerito, per poi beffarlo come grande mangione: e lui a rispondere (rendiamo la parola a Poggio Bracciolini: «Minime, inquit, mirum, si canes ossa sua comederunt: ego autem non sum canis»). E dietro l’aneddoto i biografi, che pur devono avere attitudine all’ipotesi romanzesche, salvo distruggerle coi documenti, potevano investigare che cosa ci poteva essere di vero nella notizia di un dissenso più o meno aperto fra Dante e Cangrande, e se Dante non si sia preso una magnanima vendetta con la magnificenza dello stupendo elogio che fa di Can Grande un pantocratore, e quasi l’incarnazione del versetto del «Magnificat», Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles: «cambiando condizion ricchi e mendici». La rivendicazione della dignità del letterato alla corte toccò i letterati: e dietro Petrarca, che l’aveva fatta sua nei Rerum Memorandarum, appositamente sottolineandola, si misero John Gower e Sebastiano Brant-Hans Sachs e Jeremy Collier, riassunti, come di dovere, da Tommaso Carlyle. In quel tempo la saga di Dante era romanticamente romanzata e, alla maniera italiana, rituffata in una sfera d’indagine storica da Cesare Balbo. Ma l’aneddoto della dignità del poeta alla corte dei grandi è il punto estremo cui può giungere l’aneddotica trecentesca. Tentativi di un’apologia assoluta, che intorno a Dante ritrovi l’universo, e tenti la cifra dell’accordo fra l’uomo e il mondo, saranno ripresi dall’età romantica: che in Dante, riscoprendo nella sua poetica una verità che il Rinascimento aveva velata, volto ad altri interessi e ad altre letture, leggerà la sua seria preoccupazione. Ma in questa direzione si mettono due, isolatamente: l’uno è Matteo Palmieri, nel Quattrocento, col Libro della Vita Civile, fondazione di uno spiritualismo politico che, dantescamente ancora, ma sciolto dall’architettura teologale del Sacrum Imperium, celebrava nel mondo l’immagine della città eterna; dove s’immagina che un caduto di Campaldino «risuscitato o non morto che fosse m’è incerto» racconti a Dante «per ispeciale grazia mandato da un lume dell’universo» «quello infra le due vite ho in questi tre dì veduto».6 L’altro è dal Cortesano di Luís Milán: Y diciendo los florentinos por la ciudad estas palabras: qui sa lo bene? oyeran al Dante que iba disfrazado entre ellos, y respondióles: qui ha provato lo male.7

Con il fiorentino quattrocentista si entra nella sfera di una discussione metafisica che s’allontanava dal concreto realismo di Dante: con l’apoftegma del 412

cinquecentista iberico, la sostanza morale della Commedia è rivelata nella sua direzione perennemente attiva. Dopo di lui il silenzio si addensa; ma pur si è scelto per il compito più vasto il nome più comprensivo.

1 La leggenda di D. Motti facezie e tradizioni dei secoli XIV-XIX, con introduzione di G. Papini, Lanciano 1919, pp. 29 ss. L’aneddoto è nel Cod. Ricc. 2735, ed è riportato anche dall’altra silloge, meno recente, di aneddotica dantesca: G. PAPANTI, D. secondo la tradizione e i novellatori, Livorno 1873. II Papini indica le recensioni che alla raccolta, secondo l’ottima consuetudine di un bennato accademismo, aggiungevano materiale documentario; ma «Non sarà male notare che le recensioni italiane non contengono che lodi e solo le due straniere correzioni ed aggiunte» (p. 13). Le due recensioni sono di G. PARIS, in “Revue Critique”, VIII (1874) e di R. KÖHLER, in “Jahrb. f. Rom. u. Engl. Liter.”, n.s., XIV (1875), rist. in Kleinere Schriften, Berlino 1900, vol. II (pp. 12 ss.). 2 E nel Papini gli aneddoti che a questo del Trattatello in laude di Dante si ricollegano, riportato nelle Vite del Solerti: Benvenuto da Imola, Giannozzo Manetti, Cristoforo Landino, Giovan Mario Filelfo; aggiuntavi, di Emanuel Geibel, la traduzione dell’aneddoto nelle nitide forme dell’epigramma classicheggiante care alla reazione antirealistica tedesca nella prima metà dell’Ottocento e una immanentistica e pedantesca messa a punto: «Allen Schmerzen, den ich gesungen, all die Qualen, Grau’l und Wunden / Hab’ ich schon auf dieser Erden, hab’ ich in Florenz gefunden». 3 PAPINI, p. 39: «Forse questa grottesca tradizione, raccolta così tardivameme da uno straniero, è l’eco delle accuse di baratteria fatte a Dante per giustificare l’esilio. È però tradizione antica perché un contemporaneo di D. che forse lo conobbe e che scrisse un commento pochi anni dopo la morte del poeta, diceva di lui: “Credette molte volte per fraude prendere beni temporali, e vanagloriavasi d’acquistar quelli” (v. SCARTAZZINI, D. in Germania, Milano 1881-1883, vol. II, p. 292). Anche il Boccaccio accusò Dante di cupidigia». Indicheremo più innanzi qualche dato per una valutazione complessiva dell’Ottimo, cui qui si allude. Quanto alla tradizionale accusa di baratteria, sarà forse da ricollegare, oltre che alla condanna, all’attività bancaria degli Alighieri, ormai ben documentata anche dai documenti pratesi: cupidigia, usura e baratteria, specie in una diceria cittadina dove moralisti e antimoralisti si trovavan d’accordo a condannare chi si era fatto giudice dispettoso della sua città e del mondo, andavan facilmente confuse. 4 Facet. XXXIX, in La leggenda di D., cit., p. 58. 5 Rer. Mem., Basilea 1581, p. 427, e in La leggenda di D., cit., p. 57. 6 Firenze 1529; ibi, pp. 41 ss. 7 Madrid 1875; ibi, p. 37.

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Boccaccio

Suggestioni di una memoria verbale Ma la fortuna trecentesca di Dante s’annoda e si risolve nell’esperienza di Giovanni Boccaccio. Vedremo, andando, se lasciarla nettamente divisa fra una responsabilità letteraria che si perpetua nei commenti volenterosamente organizzati e nelle discussioni dell’umanesimo quattrocentesco, e una responsabilità mitopoetica, che si perpetua nella stagione dell’arte fiorentina successa proprio alla stasi culturale dei suoi ultimi anni di vita:1 toccò a lui dar la misura dei due indirizzi, esplorare quanto si poteva dire immediatamente vivo di quell’universo che veniva disviluppandosi dal poema e rivelandosi nel mondo, e insieme, ma in separata sede (ché dopo il Petrarca il mondo della letteratura è un mondo chiuso, un mondo finito, e presume di non accogliere altro che notizie, o forme vagliate secondo una precettistica deliberata), iniziare le reviviscenze dirette, gl’incontri fantastici, il moltiplicarsi, dentro la cerchia della fantasia perturbata, delle suggestioni prodigiose, la poesia insomma che parla in diversi linguaggi, e nelle forme linguistiche come nelle forme plastiche, nella pittura come nella musica. Egli pure comincia da quell’attitudine immediata, notata ai primordi dell’itinerario della fortuna, di chiamare alla memoria i versi mnemonicamente più attivi di Dante, quelli che hanno più pronta evidenza e spesso più facile orecchiabilità, e riportarli nel suo dettato: ora variati a una distanza che va misurando: Deh! che farò allora che vedere più non potrotti, donna valorosa? Seconda morte io non potrò avere, ben che la cheggia per men dolorosa…2

or accostati a una distanza più sicura: e ’l sì e ’l no nel capo gli contende…3

E fra questi due modi, del proverbiare e del variare, altri modi insinua, più accorti: quando rimaneggia iconografie dantesche, come quelle stilnovistiche tanto frequenti ovunque, anche nel Ninfale Fiesolano Gli spiriti di Mensola errando eran per l’aria buona pezza andati, e dopo molto nel corpo tornando,

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nelli lor luoghi si fur rientrati, quando Mensola forte sospirando si risentì con atti spaventati…4

e, naturalmente, nell’Amorosa Visione; e quando procede a un baldanzoso e devoto contornare, come nel colloquio di Pandaro e di Troilo del Filostrato: Quali i fioretti dal notturno gelo chinati e chiusi, poi che ’l sol gl’imbianca tutti s’apron diritti in loro stelo; cotal si fé di sua virtute stanca Troilo allora, e riguardando il cielo incominciò come persona franca: «Lodato sia il tuo sommo valore Venere bella e del tuo figlio Amore…»5

Noterai l’indifferenza artigiana per cui usa, in tanta diversità di situazioni, gli stilemi danteschi; ma è anche da aggiungere che egli ama il suo personaggio, e che non pensa di mancar di reverenza al suo Dante utilizzandolo dovunque nella cerchia della divina poesia: tanto più in quei riti amorosi dove il travestimento mitologico, nell’anacronismo internazionalistico che qui si propala, fonde ogni gesto e vicenda in un’aura di trasfigurazione galante e patetica; dove, dopo tutto, stilnovismo e cultura cortigiana potevano trovare un comun denominatore. E del resto, il concetto della auctoritas poteva aiutare il poeta fuor dall’immediata reminiscenza, a riconoscere nel suo centonare una operazione di alta letteratura. E si trattava, infine, di instaurare una consuetudine letteraria, che prendesse a modello Dante, simile a quella, che fu tuttavia tanto più riflessa ed accorta, dei letteratissimi petrarchisti del Cinquecento.

Ambizioni epiche e luogo della fantasia L’abitudine della reminiscenza, di cui si potrebbe tracciare un diagramma, lungo la sua attività letteraria, e aiuterebbe anch’esso la storia della sua poetica, che qui rintracciamo per giungere alla storia della fortuna di Dante, gli dura poi sempre: ché ognuna di queste abitudini e reazioni che andremo verificando, una volta acquisita, lo accompagna come esperienza che non si può più cancellare. Ma a dir dell’attenzione con cui guarda a Dante, fin dal suo noviziato, basterebbe il proposito, espresso nella Teseide, di cantare l’armi, a colmare la lacuna che Dante aveva osservato, quando teorizzava nel De Vulgari Eloquentia la storia della poesia volgare: che c’era in Italia il poeta d’amore, Cino da Pistoia, c’era il poeta della rettitudine, amicus eius, e mancava il poeta dell’armi: eccolo farsi innanzi, nel poetico aringo. Gli esiti sono diversi dal proposito: Dante aveva fatto riecheggiare nella lingua nostra alcuni dei più belli accenti epici e squilli guerrieri che mai sonassero nelle nuove letterature; trasfigurato nella concre416

tezza paesana di una novella d’amore e di morte il mito di Tristano; riassunto in un clangore tremendo, echeggiato in un verso fragoroso come una ruina di monte, la gesta di Carlomagno; e antiveduto gli esiti descrittivi e grotteschi dei romanzi cavallereschi nella cerchia cittadina con le terzine di Barbariccia; e invece Boccaccio deviava il canto dell’armi verso il patetico e il romanzesco del romanzo d’amore: come dimostrava anche troppo bene passando dalla Teseide al Filostrato. Una situazione fondamentale, antitetica ma simile nelle sue direttive, egli ripete dal Petrarca: cercare, al di qua dall’impegno dantesco, una zona d’attenzione; ed egli la ritrova non già nel sentimento lirico, come il suo grande amico, ma nei riferimenti di memoria e di costume alle cose raccontate; e come quello definiva il luogo della effusione patetica, egli, prima di avventurarsi tutto nel testo di Dante, definisce il luogo della fantasia. La sua memoria è dapprima immersa nei romanzi cavallereschi; e gli preme, sia di riprendere il tema noto, sia di definirlo con quella grazia minuta che è di uno stile di alluminatura, più che di un’evidenza narrativa e suggestiva: e il confronto con Dante è solo casuale, come, nel famoso episodio del Filocolo, l’innamoramento del giovinetto Florio e della fanciulla Biancofiore, davanti il libro degli Amores, alla lezione di latino: «Quel giorno più non vi leggemmo avante».6

Un progressivo acquisto L’applicare alla gran scena, e intorno al tema del libro chiuso, quel rimpicciolimento lezioso e agghindato ch’era dello stile internazionale nei suoi momenti più delicati, ha un effetto; ma non lo procura per contrapposto o per parodia: gli occorre che il procedimento diverso si rilevi ed al confronto si illustri. Naturalmente il suo ricordare non è preciso e un parallelismo minuto è impossibile: la poesia dantesca non opera nel profondo, sia che componga il Filostrato, sia che s’avventuri nella Teseide; Dante rimane fuori della cerchia narrativa che il giovane Boccaccio frequenta, altrettanto che era rimasto fuori della cerchia lirica di Petrarca; più ancora, ché nella tradizione stessa della poesia lirica Dante era indimenticabilmente presente, ma la narrativa poteva svolgersi in un ambito più indistinto e più largo. Idealmente, il passaggio da quelle forme di narrativa aperta a quelle forme chiuse dove ritroverà la sua piena misura, è segnato dall’elegia di Madonna Fiammetta: una Vita Nuova capovolta in cronaca, portando in piena luce i temi che il romanzo autobiografico scritto mezzo secolo prima lasciava nella loro luminosa penombra, dalla festa nel tempio ai messaggi, e rovesciando la gloria in morte della donna amata in pianto della donna abbandonata: un rovesciamento trepido e dispettoso, con cui l’autore tenta di distaccarsi dalla materia troppo direttamente vissuta e far favola di una sua patetica storia, ma vedi già apparire come una preoccupazione di centralità, e la volontà di risolvere anche la materia narrativa secondo un’esperienza intima: di mettersi al centro della favola, e di lì dominarne la tessitura. A questo punto, e naturalmente prescindendo da una troppo esatta preoccupazione cronologica, l’insegnamento di Dante può palesarsi direttamente efficace, nel Ninfale di Ameto e 417

nell’Amorosa Visione, mentre il Ninfale Fiesolano resta prova stupenda di un suo moto fantastico, di una sua inclinazione ad evadere dalla cerchia; così dalla cerchia cittadina della Commedia delle Ninfe Fiorentine, come dalla struttura più isolatamente intellettualistica del canone stilnovistico, Ameto vuole anche essere l’elogio dell’esemplarità cittadina di Firenze, il poema d’omaggio che il letterato officiosamente dedica al bel mondo della sua città, chiedendo d’esservi accolto in nome di una dignità poetica e dottrinale; e la prosa è tanto elaborata, sopra un modello curiale che fa ormai da cornice e da limite al nuovo immaginare, e sostituisce il cerchio della favola dei vecchi romanzi. L’Amorosa Visione è un omaggio anche più solenne: tanto che il poeta si lascia andare a credere che basti la solennità dell’allegoria a sostituir la forza della visione, e ingrandisce gli avvenimenti contornandoli di una luce fosforescente, dove si sperdono.7 Egli procura un processo di concettualizzazione dei temi stilnovistici, che certo non è senza efficacia nella storia della cultura fiorentina, anche se lui stesso, con la sua opera più viva, si muove in direzione contraria, e si accorda con la corrente realistica e mimica superando tuttavia il dissidio che avevano stabilito i primi realisti, quando consentivano o parodiavano lo stilnovismo. Come letterato, prosegue un compito di celebrazione e di divulgazione di temi solenni (e anche qui non rinunzia a un canone dantesco: prende in persona propria la responsabilità di quel che dice, racconta, in Ameto, di una persona riconoscibile fra altre persone riconoscibili, in una mascherata o “trionfo” allegorizzante dove il bello della festa era nel riconoscersi ciascuno e nel riflettere intorno alla sua parte: con quei nomi e quelle illustrazioni che del romanzo a chiave fanno una festa prima e dopo che un indovinello), e aiuta quell’accettazione che forma le premesse della nuova fase della cultura fiorentina quattrocentesca, con le sue illazioni idealistiche. Come poeta, messosi lui pure in maschera, si ritiene disimpegnato come ogni altro, ed ora racconta di sé, ripetendoci ancora una volta la storia miracolosa di Maria d’Aquino, sviata in commedia allegorica, ora insegue immaginazioni cui non sa di poter dare, proseguendo, vita.

«La Commedia umana» Anche il Decamerone è commedia delle ninfe fiorentine; ma Giovanni di Boccaccio di Chellino ha imparato un modo di vita più esperto di quando si beffava, tra voglioso e allegro, nella maschera del selvatico uomo fremebondo; e nella campagna lasciata vuota dalle immagini trascorse di Africo e di Mensola condurrà una brigata più contegnosa e leggiadra che quella del convento di Diana. È, oltre che più esperto, più accorto, nel far la sua proposta: l’intesa fra il costume e le giustificazioni universali che un’opera d’arte ha pur sempre da chiamare in causa quando vuol raccomandarsi, era là cercata (e non trovata) nel compromesso fra chi era viva persona dietro il finto volto, e cotali impalcature solenni e tentennanti del concettismo, ridotte infine a quel nulla che anche la storiografia moderna raccoglie dallo stilnovismo: il “concetto” dell’elevazione dalla vita sensuale alla spirituale attraverso l’amore; che è indicazione tanto ge418

nerica da riuscire ogni volta che la si ripete più vuota (è tutto e nulla, infatti). E quella stessa intesa necessaria alla “commedia” qui la cercava e la trovava fra una realtà instante e tremenda, che caccia fuori dalla cerchia cittadina i superstiti della strage, e quell’infinito mondo della vita umana in tanti suoi inesplorati avvolgimenti, in tanti giuochi e lutti incomprensibili e vivi, cui abbandonarsi nel pianto e nel riso; oppure, perché questo è termine e contrasto non predisposto, ma raggiunto nell’invenzione della poesia, la disponeva fra quelle persone vagamente alluse e la curiosità del perpetuo narrare, che era lo stimolo più vivo dei romanzi e delle novelle, delle avventure a catena, o di una catena di avventure (altro divario fra i generi non par che si possa suggerire, più preciso).

L’anno della peste La cornice, dunque, e il contrasto accortamente disposto, pur così delicato, e quasi da dialogo quattrocentesco, non tocca il vivo centro della sua fantasia. Ripensandoci, egli si sceglie un punto prospettico che abbia peso e decisione nella sua vita; e sceglie l’anno della peste. Ma così aveva fatto anche Dante; che s’era scelto, invece, l’anno del giubileo. I due temi sono così facilmente efficaci, nella memoria e nella storia, che possiamo senz’altro renderci conto del servizio che fecero agli autori, per divulgarli, e del rapporto che potevano reciprocamente stabilire; ed anche lasciarci andare a credere in qualche loro miracolosa virtù attiva; ed è deliberato l’atto con cui Dante entra nella Commedia attraverso il giubileo romano; così come è deliberato l’atto con cui Virgilio lo mette dentro l’inferno per la porta della scritta di colore oscuro; altrettanto che l’atto con cui la brigatella delle sette e dei tre esce di Firenze verso la campagna: attraverso l’atto, l’uno entra nel terrore del giudizio universale, l’altro si distacca quanto basti per abbracciare, dal di fuori, un largo paese e una varietà infinita di gente, ciascuno dietro il suo piacere. Noi, allegorizzando un poco, possiamo tentar di stringere da presso quel nucleo, quel vivo centro: ché a svelarlo nella sua concretezza di suggestione fantastica non basterebbe certo la descrizione pur famosa, e i lenti avvolgimenti della prosa illustre. Resta che anche di Dante si può dir lo stesso; e benché abbia un minimo di arbitrio, ha pure un massimo di risultati riandar la vicenda della sua fantasia prospettandola nel tema del giubileo e del giudizio, farne l’asse dove il mondo dei ricordi si capovolge nel mondo dei fantasmi, e l’introduttorio temporale fra la città degli uomini e la città eterna; così nel Decamerone la peste, nota tenuta lungo tutta la vicenda, ed abbandonata con una quietudine sorprendente, è pure il gran tema da cui occorre una purificazione e un riscatto. Dante s’avventura nel suo abisso e al suo vertice, con quel cammino a spirale, lungo un asse verticale; Boccaccio frequenta fantasie distese, sempre più lontane nel tempo dalla Firenze attuale, o divaganti nello spazio; ma il suo cammino di ronda, la sua cerca, è d’intorno la città vietata. Anche del Decamerone, di questo libro proverbiale, il Principe Galeotto del buon vivente, si può dunque dire che ha una stagione in inferno: dirò di più, la terra mutata in inferno. L’antitesi primordiale e fondamentale che 419

Dante stabilisce è fra la città di Dite e la città di vita; un simile capovolgimento d’emblemi, nella rigorosa violenza della fantasia dantesca, non è necessario per i modi più persuasivi e blandi dell’immaginazione boccaccesca: forare il mondo per sbucare nei cieli, che è l’applicazione conseguente di quel proposito di totale trasvalutazione, perdersi nella valle profonda, a lume di luna, per approdare sul lucidissimo lago empireo del mondo, dove il Primo Mobile fa di sé lucente pavimento a specchio dell’eterna gioia dei Beati, è viaggio eterno: e il nuovo poeta, sollecitato da immagini care e mediocri, percorre uno spazio più certo; venir da Firenze in popol giusto e sano, questo è tratto di satirico moralista che Boccaccio accoglie, sempre pronto, quando non giuoca e non si sollazza, a rimproverare austeramente i suoi concittadini; e infatti, la sua è una passeggiata da una città assediata a una campagna libera, percorre un tratto e si trova fra quel caro paesaggio. Eppure, anche se non accade, nell’operazione che egli propone al lettore, niente di così straordinario come il viaggio di Dante, il male che egli dispone all’inizio del suo cammino alla fantasia del lettore, per poter più oltre dire del bene, è anche più evidente che il male proposto da Dante: perché la selva è simbolo che ha bisogno di essere dichiarato lungo tutto il poema (e qui annota che lo splanamento risulta evidente proprio quando sostituisce a quel simbolo un’indicazione precisa, un capitolo della sua cronaca fiorentina ed europea), ma la peste, che «nelle parti orientali incominciata […] d’un luogo in un altro continuandosi verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata», è qualche cosa di generalmente avvertito e temuto; solo che, a contornare il suo territorio, a definire subito cominciando l’immagine di un mondo finito, il viaggio è poco lontano: in campagna appunto; dalla quale riguardare indietro e davanti, al mondo cittadino prima che la morìa lo assediasse, e al mondo dei viaggi e delle avventure di terra e di mare. Da quell’immagine di un male di natura, di cui la sua mente non si ferma a rendersi ragione «per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali» (la morte sopra i mortali: la tragedia si chiude in anello sopra se stessa), egli evade gratuitamente verso un altro paradiso terrestre, questa o quella villa della campagna fiorentina, e di là si volta indietro o si aggira intorno e lontano, a contemplare una scena vastissima, ma finita, dove le sue immagini han vita e la natura, se non in sé almeno nella intenzione dell’arte, è serena.

Struttura ed eloquenza Nell’intima vita di Dante l’immagine della città e il tempo del giubileo rimasero stabilmente, e quindi per sempre, disposti al principio della sua storia; ma per il Boccaccio si trattò di fare una scelta: e scelse l’anno della peste, non senza rendersi conto che da quell’anno in poi (il qual per un troppo facile oroscopo era pure il trentacinquesimo della sua vita, il mezzo del suo cammino) incomincia un prima lento e poi fervido rifiorire di vita; della quale toccò a lui d’essere antesignato e, per tanta parte dell’intelligenza e del costume cittadino, moderatore: fra queste attività elencando, naturalmente, anche l’apologia di Dante, 420

che per merito in gran parte suo si rifece di lombardo fiorentino. Né l’immagine della città, in Dante, né la cronologia giubilare, con quel che di apocalittico e di gioachimitico si ricollegan loro, han bisogno di essere diffusamente alluse: anzi, appunto perché vivono nella remota e instante sfera della fantasia, ne avvertiamo frammentariamente la presenza, per suggestioni remote, e tanto più efficaci quanto meno contraddistinte. Ma la scelta del novelliere deve essere circostanziata e dichiarata: e lo spazio fra l’immagine eletta ad essere rappresentativa, e se non emblema punto di riferimento, e il mondo armonioso ed adorno che si presenta al lettore, fra la descrizione circostanziata ed esatta della morìa (ma tanto riflessivamente dominata nel sapientissimo giuoco dello schema oratorio della sua prosa d’arte), e la struttura così ben cifrata del raccontare, è riempito dal discorso di Pampinea. Una specie di catarsi oratoria, quel discorso, dove anche il clima drammatico è svolto secondo un modulo d’alta eloquenza, pur serbando dietro lo schermo e il fastigio del dettato curiale l’evidenza del processo teatrale; ma tanto occorreva ad allontanarsi dalla suggestione immediata di quel male, che pur vibra e trema dietro le acconce parole, tanto a introdurre l’idea di una moralità letteraria che bastasse al mondo umano, senza pur escludere il divino, ma riportando ogni cosa pertinente all’uomo della stessa cerchia d’osservazione circospetta e circostanziata, senza odio e senza amore. L’introduttorio dell’eloquenza è necessario come è necessaria l’officiatura dell’armonia nella partizione delle giornate e delle ore: non una armonia nata dall’intima natura delle cose, dal segreto della vita creativa, che determina la legge del viaggio della creatura nella natura, ma una geometria di forme, una divina proporzione di cadenze, più o meno raggentilite dalla contemplazione di Pier della Francesca o dall’imitazione matematica di Luca Paciolo. Il discorso di Pampinea, nei termini esatti dove trascorre dalla rappresentazione già drammatica dell’orrore al carnevale della dissolutezza all’immagine idillica della campagna, dove trovar pace e scampo, è una proposta fondamentale per l’opera e per uno stile di vita e d’arte: vedilo subito dopo, liberato, muoversi agevolmente in termini ormai di commedia, al sopraggiungere dei tre giovani accanto alle sette donne. E con agile fretta procedere a comporre quel mondo che si prolungherà intorno alle novelle, come una nota tenuta, più che come il fregio di una cornice: fra l’ombra della strage e la luce della vittoriosa intelligenza è raccolto l’atto del raccontare; e questo atto aduna il vasto mondo, obbedendo al comando di una moralità riflessiva, che pur si trattiene, mentre la natura prosegue il suo cammino. Ecco, capovolta nel mondo finito, la vastità infinita dell’essere.

Calcolo di circostanze in luogo di una suggestione emblematica della città Anche qui, come nella Commedia Divina, un problema di struttura; ma una più deliberata volontà di scegliersi il dove e il come, mentre è evidente che il viaggio ultraterreno di Dante, per il fatto che il grandissimo poeta soggiace alla violenza dei dati stessi che egli ha accettato dall’esterno (i cieli e l’abisso), consente un’ani421

mazione fantastica che il Boccaccio, nonché non volere, evita con cura (vedi come è cauto nella definizione dei paesaggi intorno ai novellatori e negli episodi della loro vita di villa: elementi figurativi appena introdotti, nel rigoroso contegno e sviluppo della decorazione, a variare piacevolmente la cadenza costante): e diciamo pure che la conseguenza era preliminarmente necessaria, se Dante interviene nella libertà della sfera morale, se accetta l’incontro e la missione fra uomini che devono essere liberati, se l’assoluto è il suo principio come il suo fine, mentre il Boccaccio interferisce nel costume, che, già fondato su consuetudini mutevoli, egli guida a una ragionevole stabilità, rendendo più armonioso il coesistere della gente, di quanto gli riesce di rendere più elegante e circospetta l’osservazione del mondo. Il tempo della peste, l’anno terribile del suo medio cammino, resta dunque un punto fermo, senza più oltre almanaccarvi, senza tirarne oroscopi, senza altri presagi: si sa che quella gente torna al luogo di prima, dopo quei giorni sospesi, in Santa Maria Novella, i giovani per attendere «ai loro altri piaceri», le donne per tornarsene alle loro case. Il tempo dunque è escluso, dopo l’ordine chiuso di quei giorni disposti a una vacanza; e non è rinunzia di poco peso: escluso ed eluso il tempo, la soluzione petrarchesca dei Trionfi era anch’essa esclusa ed elusa, non che la soluzione religiosa di Dante; ma l’immagine della città non resta già nascosta: solo ritorna in atto diverso, corsa da gente ora appassionata ora godente, popolata di nuovi ingegni, vaga di nuovi costumi che converrà rappresentare e disporre con ordine, certo sostituendo l’impegno della misura riflessiva a quello della raccomandazione censoria. Quando di Firenze si comincia a parlare, nella novella terza della giornata terza, il proemio ha un suo spicco dantesco: «Nella nostra città, più d’inganni piena che d’amore e di fede»: pronto, ben s’intende, a lasciar da parte ogni preoccupazione moralistica, per rappresentare i suoi mimi. Ma introduttorio autentico ad una rappresentazione del costume fiorentino è la novella di Cisti fornaio: che non per nulla si dispone fra i personaggi danteschi quando Bonifazio papa manda in Firenze «certi suoi nobili ambasciatori per certe sue gran bisogne», che smontano in casa di messer Geri Spini, «ed egli con loro insieme i fatti del Papa trattando»: di contro a quell’episodio di alta politica l’accorta misuratissima cortesia dell’artigiano, nel suo giuoco sapiente di libera profferta e di rispetto di sé, dopo che degli altri. E la giornata sesta «nella quale si ragiona di chi, con alcuno leggiadro motto tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno» è tutta fiorentina, volentieri disponendo le vicende novellistiche intorno ai tempi di Dante, e a personaggi danteschi: principalmente intorno a Guido Cavalcanti, del quale si dà il ritratto famoso fra le arche intorno a San Giovanni: certo richiamando modi e temi della Commedia, anche nella menzione dell’arche (gli restano nella memoria le tombe degli eresiarchi), con il rapidissimo tema dell’immortalità toccato e subito trascorso, ma ripreso umanisticamente («a dimostrare che noi e gli altri uomini idioti e non litterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti») e di contro al cenno di Firenze ancora una volta allusa in una cifra moralistica: «Dovete dunque sapere che, nei tempi passati, furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna n’è rimasa, mercé dell’avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l’ha discacciate». 422

Luoghi e nomi danteschi Altri luoghi e nomi danteschi richiama il Decamerone: ed esemplarmente alluso, quasi istituzione dell’uomo di corte nella sua dignità più solenne, Guglielmo Borsiere: valente uomo di corte e costumato e bene parlante […] non miga simile a quelli li quali sono oggi, li quali non senza gran vergogna de’ corrotti e vituperevoli costumi di coloro li quali al presente vogliono essere gentil uomini e signor chiamati e reputati, son più tosto da dire asini, nella bruttura di tutta la cattività de’ vilissimi uomini allevati, che nelle corti. E là dove a que’ tempi soleva essere il lor mestiere, e consumarsi la lor fatica, in trattar paci dove guerre e sdegni tra gentili uomini fosser nati, o trattar matrimoni, parentadi ed amistà, e con belli motti e leggiadri ricreare gli animi degli affaticati e sollazzar le corti, e con agre riprensioni, sì come padri, mordere i difetti de’ cattivi…8

Similmente, capostipite della nuova arte, Giotto, «avendo egli l’arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni, che più a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere allo ’ntelletto de’ savi dipignendo, era stata sepulta, meritamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote […] sempre rifiutando d’essere chiamato maestro».9 E ancora Ciacco, e ancora Filippo Argenti «uomo grande e nerboruto e forte, sdegnoso, iracondo e bizzarro»,10 e Ghino di Tacco. Ma la più complessa delle reminiscenze (si tratta di ricordanze poetiche: di poesia che la poesia muove) è quella di Nastagio degli Onesti nella pineta di Chiassi. Qui l’incontro è particolarmente impegnativo. I nomi della Romagna dantesca richiamano Guido del Duca e quella distanza afflitta che egli percorreva con tanto rammarico, prima di lasciarsi andare a piangere (e la cronachetta s’affretta a quel soggiorno romagnolo del Boccaccio che gli par rimasto nella memoria con un suo tono affettuoso, come di paese e di gente che si ricorda volentieri). La pineta di Chiassi stende nell’ombra notturna l’incantesimo (byroniano, a noi sembra, leggendo dopo tante altre parole) della novella di Elinando e della caccia selvaggia. La giovinetta dei Traversari riprova in sé, paurosa, la vertigine di Francesca, e il mito comico, «tutte le ravignane donne paurose ne divennero che sempre poi troppo più arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono, che prima state non erano»,11 si sovrappone al mito tragico, pur richiamato in vita per questa via della sacra rappresentazione dell’amor profano. La prova è grande, e il novellatore adotta uno stile di suggestioni polifoniche che non gli è frequente; e ardisce di introdurre nella festa cortese il mito dell’amor passione, nella sua terribilità selvaggia, a bilanciare il mimo dell’amor divertito. Leggilo accanto alle novelle avventurose, dove la fantasia del poeta spazia per tante terre e mari, ora afflitta dai casi miserandi, ora, e più spesso, divertita: ma se l’evasione del novellare conosce quello spazio terrestre e marino, a guadagnare un ideale impero dalla zona raccolta della vita di villa, nella giornata estiva mentre il sole degrada, fra quel continuo murmure di fronde e variar d’ombre, la direzione dell’intensità fantastica nel limite circoscritto di spazio e di forma, che è quella di Dante, altrove non è tentata con tanto e tanto deliberata forza come nella novella della pineta di Ravenna. 423

Trascendenza dantesca e immanentismo decameroniano Anche il lupo di Talano di Molese ha nella sua fiera forza una poetica ascendenza; e il tema del convito funesto, quando vi ricorre, è visto attraverso un prisma dantesco;12 e la solitudine silvestre di Madonna Beritola con i due cavriuoli ha in quell’isola la potenza deserta del tremuoto spirituale che percuote il Purgatorio a parturir li due occhi del cielo…13

ma potremmo postillare tutto il libro: non bisogna oltrepassare di troppo la zona troppo più facile degli accertamenti diretti. La storia della commedia umana è storia di una narrativa ricondotta in cerchio, dove la storia della commedia divina offre temi e cifre e linguaggio, e soprattutto una attitudine a intendere il mondo, subordinandolo alla persona di chi lo guarda; gli esiti sono diversi: la istituzione della persona umana resta fondamentalmente in Dante, e la stessa drammaturgia gli si subordina; mentre il proposito del Boccaccio è di esplorare la varietà serbando il filo d’Arianna che lo riporti nella vita certa dopo il laborioso errore del labirinto. Due grandi opere si illuminano, portate a paragone l’una dell’altra, e illuminano l’età che esse hanno creato profetando, il tempo cui hanno dato vita e segno: sorprende che nonostante le attinenze, continuamente indicate, e il parallelismo ingenuo e devoto con cui il certaldese rintraccia il Dante, il divario sia sì grande. Ché la devozione del minore è innegabile, e nessuno, né prima né dopo, trasse tanto frutto dalla lettura del maggior poeta; e ogni paragone è posto senza la minima vanità stizzosa, dimenticato affatto il gesto di Cecco d’Ascoli, dimenticata anche la sufficienza remota di Francesco Petrarca: con quella sua baldanza serena e ingenua Boccaccio accorre a Dante, si entusiasma del nuovo linguaggio e della nuova intelligenza come s’era a Napoli entusiasmato dei romanzi francesi, direi che a poco a poco, studiando, acquista, dal Ninfale d’Ameto all’Amorosa Visione al Decamerone, quella ingenuità fantasticante che prima possedeva nativa quando giovenilmente raccontava di Florio e di Biancofiore o intonava, abbattuto dall’amor-passione, la storia di Troilo; giunge insomma sulla guida della Commedia a quel massimo di ingenuità lirica e fantastica cui si può giungere attraverso una istituzione umanistica: dopo di lui e, fino a Goethe, tutti i letterati europei passeranno per una simile prova, e forse a nessuno riuscirà tanto felicemente. Ma l’avere esemplato se stesso sul libro di Dante, la sua seconda nascita alla letteratura dovuta a Dante, l’esplorazione umanistica dell’antichità perseguita sull’indirizzo di Dante (sviluppando quel tema della poesia come teologia, che diventa il canone fondamentalmente della sua retorica, e che persegue appunto nel Trattatello), non toglie il fatto preminente che egli si muove in direzione contraria a Dante. Il moto d’anima, l’itinerario nell’universo, cercando al di là di quello la rivelazione del proprio essere, il viaggio d’Ulisse nel mare dell’essere, sino alla morte mistica del senso e al risveglio nella luce della gloria empirea, sono di Dante; ma il distinguere profano da sacro, il raccogliersi a discernere con sufficiente esattezza e con docile pieghevolezza verso tutte le varietà del costume e dell’animo lo spettacolo del mondo di 424

qua dal moto rapito onde l’anima esulta in Dio, questo è di Boccaccio: che è moto appunto contrario al primo, un raccogliersi facendosi forte del tono trascendentale, un ripiegar su se stesso, non già stanco, anzi fervido e pronto, ma presto dimentico dell’origine della propria ricchezza. Donde provenne, se dall’esperienza dei singoli procedi al senso della vita partecipata, il carattere del costume d’Italia durante l’età umanistica, che visse sì nell’alone della Commedia, ma tenendola in riserva come una ricchezza solo parzialmente attribuita a cui ci si sarebbe potuti rivolgere quando che fosse, dopo la gioia della vita percorsa nelle cento città, fra tante feste di sole e d’aria e di pietre effigiate, al tornar degli anni bui. Ancora si accende, nel ricordo, il volto del poeta minore, se lo vedi a specchio del costume italiano, scettico bensì e godente, ma con una segreta riserva di vita, beffardo ma agilissimamente commosso, frodolento e forte, ed ecco stroncato da una subita commozione ed effuso e risorto nella liturgia patetica di un sentimentalismo sovrano: ché la vita della commedia umana scese sul costume d’Italia con una forza più grande di ogni evento, di ogni presenza, di ogni istituto. Ma solo la deduzione politica e programmatica di quel movimento, di quella storia boccaccesca, di quel ritrarsi nel mondo finito, di quella narrativa, come s’è detto, rappresa in cerchio, poté dare alla poetica del Boccaccio una interpretazione politica filtrata attraverso un costume machiavellico, e addossare al Decamerone la grettezza di certo laicismo sbracato dell’Ottocento: che qui annotiamo anche perché si intenda fin dove poteva essere dedotto il moto discendente della deduzione decameroniana, nonché per giustificare le deduzioni polemiche di tante letture dantesche dell’Ottocento, anticattoliche. Per tornare all’antitesi che questa ideal lettura decameroniana stabilisce con la Divina Commedia, l’aver scelto una direzione contraria al trascendentalismo della Commedia, quel guardare in basso e intorno, quel giuoco, diremmo, da Chichibio, quando sostiene che le gru hanno una gamba sola, e che occorreva, per farle metter fuori l’altra gamba, fare sciò anche alla gru imbandita, si conclude in un conformismo pratico e nella fondazione di un costume, poi soccorso da secoli di linguaggio. Per isolare il fatto nello schema che ci soccorre, di una storia dell’esegesi del poema, la prevalenza che si diede, nella lettura, ai problemi strutturali dipese anche da questo: che si vide il problema della struttura in Dante con la stessa mentalità con cui si leggeva il problema della struttura in Boccaccio. Restringendosi e degradando per accogliere una più circospetta e godibile immagine del mondo, Boccaccio aveva elaborato dall’esterno la sua struttura, e l’aveva posta a circonvallare il mondo del novellare, con la stessa preoccupazione di un architetto che costruisce una loggia o un teatro perché dentro vi si svolga la stagione della vita cortese. Le due settimane di quella elegantissima “dozzina”, scarnite poi nel numero sacrale delle dieci, e la cifra dei tre e delle sette, non più cabala, ma numero e segno e cotillon provveduto a cura del solerte direttor della festa, e le ore del novellar blando e della ricreazione, la stessa preoccupazione di lasciar in disparte dalla vita vissuta nella vacanza quei temi che ritornano nel racconto, come denudati (quegli uomini sono amanti di tre donne; ma ogni indiscrezione è sospesa dietro il velo di un’allusività cautamente trattenuta), tutto ciò è il frutto di una sapiente regia della vita, che per modularla si trattiene al di 425

fuori, e che può soppesare accortamente ogni circostanza. Ma Dante non elabora la struttura che impone al mondo sovrannaturale, consapevole troppo bene che si tratta di un accorgimento provvisorio, di una emblematica suggestiva per intendere il fondamentale processo della trasvalutazione. Chi invece legge Dante avvezzato al costume boccaccesco, immagina un eguale comportamento nell’uno e nell’altro, e che la metafisica e la dogmatica siano nient’altro che formula escogitata da una parenetica, di cui si avverte soprattutto e soltanto l’urgenza politica: dove Inferno e Purgatorio e Paradiso sono scenari più o meno abilmente scombiccherati, al modo stesso che sono scenari, più facilmente ritrovabili nella realtà della vita italiana dell’età umanistica, le ville le campagne e i conversari decameroniani. Per dare consistenza all’indagine strutturale si predilesse la formulazione matematico-geometrica: così anche gl’interpreti d’architettura, quando vogliono ricondurre un edificio alla sua giustificazione razionale, anziché di linguaggio e di costume; ed era soltanto un mezzo rispettoso per contraddire Dante, che aveva con chiare note indicato la direzione del suo cammino: «in eterno io duro», aveva detto dell’Inferno (non del Purgatorio!) e aveva raffigurato l’abisso pieno di crepe e di frane, percosso dalla discesa di Cristo e sconvolto, anche dal Messo da Cielo; ché in eterno, tutti là intorno lo sapevano, dura la condizione spirituale dell’anima in eterno avulsa da Dio, non i cieli e la terra: «i cieli e la terra passeranno», annunzia Cristo. Ville e giardini decameroniani durano mezzo mese; ma a chi misurava la serietà e la realtà di Dante dall’esterno, sembrava che la sua maggior cura dovesse essere di far durare il suo burrato e il suo monte e le sue luminarie celesti per l’eternità, rincalzandole con attenzione. Il problema è però più vasto: Boccaccio nel suo primo avvio indirizzava verso il mondo finito la civiltà umanistica, e le indicava le mete certe di una vita goduta e ricondotta in cerchio alla cerchia che la rivive; non escludeva, tuttavia, la possibilità di riconoscere, quando che fosse quell’altra direzione saliente: anzi egli stesso la indicava, con quell’apologia della generosa magnificenza, attribuita alla giornata decima; più tardi, il movimento saliente sarà indirizzato, anziché al costume, alla nazione intera, da rendere indipendente (Machiavelli) e libera (Risorgimento); i discettatori strutturalisti, invece, legati al loro compito di accertamento sistematico, non potevano ammettere questa conversione idealistica, e proseguivano le misure e i calcoli della struttura. Ancora, leggendo la Commedia in una mentalità decameroniana, e accettando il dualismo che questo indica fra mondo dello spirito e mondo della carne, si era tratti a considerare lo stesso dualismo come pertinente alla Commedia e a tutta la civiltà medievale, dietro di essa: che avrebbe turbato il ragionevole equilibrio fra i due termini pesando teocraticamente sulla prevalenza dello spirito; ma il dualismo in Dante è anch’esso un dono del mistero trinitario, e Dio uno e trino è immaginato (dico proprio così: visto, fantasticamente, sensibilmente contemplato) pervadere l’universo e offrire di una realtà sola due aspetti. Spinoza? Altra deduzione, in senso di religiosità panteistica, questa: irrisa dal circospetto costumismo dei decameroniani.

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Imitato il canone della ritrattistica dantesca Boccaccio tocca il limite massimo della intelligenza della Commedia compatibile con la deduzione cortese della civiltà umanistica, così volgendosi indietro, e riconducendo il mondo a una immagine saviamente ricomposta fra i termini estremi di Ser Ciappelletto e della Griselda: che è anch’esso dominio sulla realtà, vittorioso. Resta da alludere a modi della poetica dantesca, che Boccaccio consegna nel suo libro: né ci possiamo diffondere, se non tralasciando di tener Dante al centro del nostro dire. Ser Ciappelletto, or or nominato, ha bene una sua cifra dantesca: quel Musciatto Franzesi che lo manda alle esazioni in Borgogna, era accanto a Geri Spini, rappresentante del papa, la mano destra di Carlo il Senzaterra; ed altri lesse in questi Gerione, a entrar di frode nella città della frode (perché non Gerione in Geri?). In quella terra di Borgogna di fede ingenua e di forza prepotente, egli porta la sua volontà perversa, e ridotto allo stremo della vita mette in piedi la commedia spietata della falsa confessione e della santità infinta senza nessun interesse personale, per gratuita malvagità, ad esempio degli untorelli usurai che l’ospitano, impauriti: mito di una contraddizione maligna che volta le spalle al divino e all’umano, e fa del sodomita bestemmiatore e frodolento una figura che occupa con impensata forza la fantasia del poeta. Con lui il vallo, che divide trascendenza da immanenza, è scavato per sempre; non che egli sia più di qua, fra la gente d’ogni giorno, nella moralità delle consuete regole e voglie: anzi è tutto di là, creatura perversa e perduta, che il narratore francamente intende e indica come dannato, benché, mettendolo al servizio del mondo di qua, come una sentinella morta, se ne compiaccia e ne rida. Ma con lui è anche acquisito il canone dantesco del ritratto che crea e determina la situazione drammatica, quasi sempre perseguito, e più nelle novelle più famose: benché Boccaccio conosca altri modi, e fra essi il modo epico della evasione avventurosa, nella giornata dei viaggi, e il modo elegiaco del lamento (la novella della Lisabetta) e il modo della celebrazione magnanima, nella giornata decima: la quale, ancora con una preoccupazione strutturale (ma si tratta di una imitazione del Petrarca dei Trionfi, non di Dante; o di un Dante visto attraverso il Petrarca: non per nulla, la novella di Griselda fu tradotta in latino dal celebratore di Laura), chiude trionfalmente la nuova commedia. Quello della giornata decima è il cielo di Griselda: una figura immota, un autoritratto accademico, a dir lo stento con cui la carità ascetica si traduce in liberalità cavalleresca: vuol dire che nella zona infera, come a guardia del tristo buco d’Inferno, è il notaio di Prato. E la magnificenza è canone della cultura cortese dell’Occidente, invade la civiltà borgognona, si trasmette, attraverso l’etichetta della corte asburgica, alla prammatica cortigiana d’Europa, etichetta e prammatica, appunto: finché il dinamismo barocco ridette nella conquista dello spazio terrestre e cosmico moto e senso alla volontà illimite. Ma alla fondazione del costume d’Italia più giova quest’altra più diretta sua intenzione d’arte, la potenza del proiettare un personaggio in un’azione, rivelandolo così per quel che è: che è a dire, per quel che vale (ripensa Frate Cipolla, che maledice se stesso, beffato, e non si sgomenta che Guccio Imbratta sia trascutato). La commedia, dico la commedia come linguaggio scenico e come riflessione del 427

costume, la capacità a osservare la realtà (in quanto avviata e conformata da un ritmo di carattere), si esercita qui per la prima volta, e di qui si irraggia nel mondo cittadino. La commedia umana diventa anche per questa via intermediaria della Divina Commedia: trasporta fra la gente una attitudine minore, e la radica, benché risulti contraddittoria di quella primitiva intenzione. E tuttavia Dante, nei suoi ritratti drammatici, traguarda il personaggio verso l’infinito, e non c’è prigione infernale che tutto quanto lo serri, non c’è ignominiosa condanna che spenga in lui del tutto una favilla della dignità divina: «cotanto ancor ne splende il sommo duce»: la forma in cui isola il suo gesto è finitissima; ma l’intelligenza del gesto accorre da una zona infinita e divina. Boccaccio chiude in mezzo il suo personaggio nella prigione di uno spazio finito, e lo riguarda dall’alto verso il basso, dalla dignità sostenuta e confortata della vita sociale, da una zona distaccata e superba, dove la riserva dell’io non è mai tale da imporre all’ascoltatore di accorrere tutto quanto a perdersi nella sventura fraterna: un distacco c’è sempre, anche nelle novelle patetiche, fra chi ascolta e chi soffre. E se il gruppo dei popolari, sollecitato da quel nodo di commedia, accetta di impersonar collettivamente la sorte di ciascuno, la danza in cerchio è destinata che duri un limitato tempo: anche per questo Boccaccio introduce le forme chiuse; anche per questo, se il polifonismo italiano, sull’esempio di Dante, sarà, col Palestrina, tutto aperto, la commedia italiana, e anche il melodramma barocco e romantico, sarà volentieri chiuso. Una danza corale è sempre alla base del teatro nostrano; ma il libretto universale della commedia italiana, chi lo raccolse e lo definì, fu il Boccaccio: ancora una volta applicando in un canone ristretto e finito l’invenzione prodigiosa della Commedia di Dante. Intanto anche così è dato valutare l’opera di Boccaccio interprete; che nel tempo va tanto al di là della portata pur grandissima del suo Trattato e del suo Commento: introduttore di una forma di linguaggio e di costume intorno alla quale converge per secoli la vita cittadina. Questo messaggio della commedia lasciava alla sua gente; ma per conto suo, e in compagnia dei dotti, procedeva oltre; e a fondamento della cultura umanistica riconosceva non l’opera, isolata e cristallizzata nella sua portata economica, ma l’uomo, e alla ricerca dell’uomo mosse in una indagine che per essere periferica non fu meno ansiosamente frequentata; anzi più: ché nella storia del Boccaccio l’incontro con Dante, dopo che ne ebbe tratte indicazioni memorabili e storicamente estesissime, conobbe episodi di commozione feconda, una devozione protratta per decenni, una lettura attentissima, una conquista devotamente filiale. Si mise sulle orme di Dante; lo cercò nella sua vita e nella sua persona; lo intese in sé, dal suo stesso esser diverso. E l’acquisto della persona, o intuirlo nella sua presenza lontana, fu l’ultimo capitolo di quell’incontro.

Lettura di un discepolo di poesia Scorse le sue pagine d’arte, prima di ristudiarlo intento alle pagine di dottrina, vien fatto di raccostarlo a Petrarca poeta; e t’aiuta il detto di Benvenuto da Imola, di colui che raccolse la tradizione dei lettori di Dante nella direzione della 428

storia e dell’aneddoto e della commedia: «Quanto Petrarca fuit maior orator Dante, tanto Dantes fuit maior poeta ipso Petrarca»:14 Petrarca lesse appunto la Commedia da oratore, se per oratore intendi chi accetta in sé e suggerisce altrui le mediazioni persuasive, chi frequenta la zona di penombra intorno alla forma concreta della parola e della vita, l’amplificazione del gesto e l’emozione dell’accento, chi si avvale e cede all’enfasi del sentimento ora precursore ed ora seguace. E Boccaccio la lesse come novizio e discepolo di poesia, vivamente vinto dalla parola segnata dalla sostanza umana, dall’anima consustanziata all’immagine. Così che, se Petrarca cercò, quando risolse di accordarsi con quel grande, la zona allotria e oratoria dei Trionfi, frequentata con animo distaccato e grave, mesto e solo, camminando in un mondo deserto, di tratto in tratto percorso da sognanti fantasmi, Boccaccio cedeva alle suggestioni evidenti della poesia, ne apprendeva modi ed emblemi per contrassegnare la realtà, e cercava, a dichiarazione di se medesimo, la persona umana dietro quei segni. Naturale che tendesse al ritratto, e che suggellasse la nozione e poi la norma della persona di Dante nel trattato. Come poi oltrepassò anche questa esigenza, e fedelmente, sospinto dalle circostanze, e per atto di omaggio ingenuo e devoto di cui ebbe a pentirsi, arrivò alle pubbliche lezioni e al Commento, ritornava sui suoi passi alla suggestione delle letture immediate, alla devozione di chi per un lungo giro, dopo avere ceduto ad una suggestione di parola irriflessivamente appresa, cerca di ritrovar l’ingenuità della parola e del primo incontro, attraverso la mediazione di una dottrina riofferta alla poesia.

Incontri nella cerchia della dottrina Parallelamente a questa linea seguita nella poesia volgare, egli svolgeva un’indagine dottrinale nelle opere latine, sia che facesse di Dante l’esemplare cittadino di Firenze, a contrasto con Gualtieri duca d’Atene, «Quid, civitatis nostrae decus eximium, has inter lacrimas dolentium, merito spectabilis mansuetudine veteri, gradum trahis? esset ne tibi mens, ut post patrium clarum genus tuum et opera memoratu dignissima, furiosam ingratae patriae repulsam, laboriosam fugam, longum exilium et postremo caelo sub alieno te clausisse diem describerem? Scis, pater optime, quod tenus tanto oneri mihi vires sunt?». «Siste, fili mi, tam effluenter in laudes meas effundere verba, et te tam parcum tuarum ostendere. Novi ingenium tuum, et quid merear novi […]. Ecce igitur post tergum sequentem me domesticam pestem et inexpiabilem florentino nomini labem. Hunc moresque eius et casum, si quid mihi debes, describas volo, ut pateat posteris quos expellant quosque suscipiant cives tui»15

(l’intenzione politica è evidente; ma anche accostandosi agli interessi della oligarchia fiorentina, Boccaccio non rinunziava a mantenere la dignità e la solitudine del giudizio morale di Dante in sé: «averti fatta parte per te stesso»; benché qui scenda in un discorso più diffuso); sia che arricchisca di menzioni e di inten429

zioni dantesche la sua enciclopedia mitologica, come figurando Gerione,16 sia che a giustificazione della poesia postuli il significato allegorico, e di là da quel dualismo già miri ad una giustificazione unica e totale, alla poesia come teologia: Nec sit […] audisse difficile, uti et poetae quandoque sacri possunt appellari theologi. Non Dantes noster quidquid consistit in sacrae theologiae sinu sub poetico velamento contexit? Quapropter et sacer theologus appellandus est.17

Sua meta immediata il ritratto; sua meta remota la giustificazione unitaria della poesia come teologia: se l’itinerario così disposto gli riusciva agevole nella trattazione dottrinale (la scienza è il mondo delle ipotesi, ed anche al concretissimo Boccaccio accadde di trovarsi più a suo agio, quasi fantasticando, nella chiusa cerchia della dottrina che all’aperto, fra i suoi concittadini, parlando con la loro lingua), il fatto è che la cultura volgare partecipata non era capace di accogliere e di tradurre in sé le conseguenze estreme che in Dante indicava il Boccaccio; tanto più quando il consiglio gli veniva dal poeta che più di ogni altro l’aveva aiutato a chiudersi nella cerchia pratica e costumistica della commedia umana; e quel proposito della poesia come teologia (nelle sue due intenzioni: l’una espressa nel canone della sacra epopea; l’altra nella constatazione storica: «aevo nostro a caelo ampliores venere viri») contraddiceva proprio il costume separatista: toccò alle arti figurative riguadagnarlo, in un ciclo che aperto da Giotto si chiuse con Michelangelo: col Giudizio Universale, appunto. Diventò mitico questo dissidio fra le mete additate all’esegesi di Dante e in qualche parte definite nelle opere dottrinali latine, e quel poco di cui si sentiva capace la cultura volgare, direttamente sperimentata nelle lezioni di Santo Stefano di Badia, se non sono autentici i sonetti dispettosi dove dice di scontar nel corpo ammalato la colpa di avere prostituite le Muse al Vulgo: non cal che più mi sien rimproverate sì fatte offese, perché crudelmente Apollo nel mio corpo le ha vengiate…18

Che se fossero suoi, cosa tutt’altro che impossibile, se non vogliamo sempre sostituire alla concreta responsabilità di Dante una reazione generica della cultura fiorentina, sarebbero testimonianza diretta di un fatto troppo facilmente avvertibile in pagine sicuramente autentiche.

Vita di Dante L’intenzione del ritratto domina nella Vita di Dante e le è accanto la giustificazione della poesia: e par che definendosi redazione sommaria abbia in qualche parte sfrondato le circostanze accessorie per insistere con più vigore d’ordine e di dettato in quei due propositi, di cui non intende quanto siano complementari. Dalla sua abilità di ritrattista si lascia perfin prender la mano, quando ritrae Beatrice: 430

una figliuola del detto Folco, chiamata Bice, la quale di tempo non passava l’anno ottavo, leggiadretta assai e ne’ suoi costumi piacevole e gentilesca, bella nel viso, e nelle sue parole con più gravezza che la sua piccola età non richiedea;

che è mediocre maniera di novelliere che traccia a penna un disegno in margine al suo raccontare. E il profilo di Dante par disposto per fissare in quei termini che divennero tradizionali l’iconografia di Dante: Fu il nostro poeta di mediocre statura, ed ebbe il volto lungo e il naso aquilino, le mascelle grandi, e il labbro di sotto proteso tanto, che alquanto quel di sopra avanzava; nelle spalle alquanto curvo, e gli occhi anzi grossi che piccoli, e il color bruno, e i capelli e la barba crespi e neri, e sempre malinconico e pensoso.

Preoccupazioni astratte, pur nel proposito della somiglianza. E una simile preoccupazione di somiglianza astratta, se si consente il termine, di riferimento a dati fisionomici irrilevanti, intorno ai quali dovrà poi giuocare il processo della intelligenza, a cogliere il segreto della vita, è nella scelta degli episodi; definitissimi episodi di vita, che ne risulta scandita in grandi riquadri, con poca preoccupazione della successione cronologica, molta di indicare i temi su cui deve fermarsi la cifra biografica del poeta: l’amore di Beatrice, l’ingratitudine dei concittadini, gli studi, l’umanità del poeta, la sua dignità sacrosanta. Non per nulla termina allegorizzando il sogno della madre di Dante sotto uno altissimo alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte […] partorire un figliuolo, il quale in brevissimo tempo, nutricandosi solo dell’orbache, le quali dell’alloro cadevano, e dell’onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore […] e nel rilevarsi, non uomo, ma uno paone il vedea divenuto.

Che parte abbia avuto nella leggenda il pettegolezzo cittadino e l’apologo familiare, qui non importa cercare: importa che Boccaccio ne faccia una cornice favolosa al suo ritratto; una cornice tanto ampia che contenga, con alcuni punti della sua didattica dell’arte (ivi compresa l’apologia umanistica del celibato dei dotti), la glorificazione teologica della poesia. Ed era pur questa, del poetateologo, l’indicazione più importante che Boccaccio raccoglieva dalla persona di Dante: e se non ne poteva intendere quella varietà di sensi che i secoli saranno andati intravvedendo, certo è lui che impedisce, pur mentre l’accetta in parte, il dualismo di poesia e di dottrina; dove l’allegoria è ponte fra le due diverse apparenze di una sola sostanza: Se noi vorrem por giù gli animi e con ragion riguardare, io mi credo che assai leggermente potrem vedere gli antichi poeti aver imitate, tanto quanto all’umano ingegno è possibile, le pedate dello Spirito Santo [nella prima versione aveva detto «vextige»]; il quale, sì come noi nella divina Scrittura veggiamo, per la bocca di molti i suo’ altissimi segreti rivelò a’ futuri, facendo loro sotto velame parlare ciò che a debito tempo per opera, senza alcun velo, intendeva di dimostrare.19

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Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove uno medesimo sia il suggetto; anzi dico di più che la teologia niun’altra cosa è che una poesia di Dio.20

Il Commento Del Commento, ch’è il termine ultimo, cronologicamente e eruditamente riassuntivo di questa varia e diversa meditazione intorno a Dante (e non pertanto la sintesi del suo pensiero, ch’egli non volle o non poté mai cifrare, lasciando aperto anche il trattato della Vita), del Commento diremo, accostandolo al senso più intimo dell’incontro, che siamo andati rintracciando. L’occasione esterna è lusinghiera, e non certo insignificante, a comprendere l’impostazione della lettura, e quindi la sua stesura, nel dibattutissimo testo, e anche le reazioni dei sonetti (e ripetiamo che non importa esser certi qui della loro autenticità: sono anche un fatto di costume «intorno» alla lettura, non un atto pertinente alla poetica boccaccesca nel suo cimentarsi all’incontro con Dante). C’era qualcosa di troppo facilmente illusorio nell’invito alla pubblica lettura del Dante: una troppo pronta fiducia di poter celebrare il ritorno di Dante esule in Firenze, «l’ombra sua torna ch’era dipartita», la fretta, che è sempre dei politici, nel celebrare conciliazioni, quando credono che l’accordo non abbia pertinenza politica, ma valga a inarcare su di loro un nuovo arco di trionfo, non importa quanto duraturo: Pro parte quamplurium civium civitatis Florentiae desiderantium tam pro se ipsis quam pro aliis civibus aspirare desiderantibus ad virtutes, quam etiam pro eorum posteris et descendentibus, instrui in libro Dantis ex quo tam in fuga vitiorum quam in acquisitione virtutum, quam in ornatae eloquentiae possunt etiam non gramatici informari… eligere unum valentem et sapientem virum, in huiusmodi poesiae scientia bene doctum […] ad legendum librum qui vulgariter appellatur el Dante in civitate Florentiae, omnibus volentibus, ut in similibus fieri solet…21

Boccaccio ci crede, tanto più facilmente quanto più egli stesso, anni prima, nella Vita di Dante, aveva appunto promosso una simile mentalità, che adesso trovava una pubblica sanzione. Delle possibilità autentiche che Dante tornasse a rivivere, a cinquant’anni dalla sua morte, nella pienezza della responsabilità poetica che Boccaccio avvertiva in lui, forse Boccaccio non si rese conto; e può ben darsi che ne sentisse rammarico; eppure la concezione del commento non è apologetica, e nemmeno soltanto esplicativa: non vuole soltanto chiarire i luoghi danteschi, che altri aveva ed altri avrebbe fatto; né vuole prender le mosse di lì per una applicazione sistematica della sua teoria poetica: si propone propriamente di convogliare da più punti l’attenzione sopra il testo: che è metodo esegetico forse non ovvio quanto sembra. E se ne risultava un sovraccarico, il peso del polisenso, la faticosa disciplina di concentrare intorno a Dante, cui pur si riconosceva pubblicamente il merito di condurre i cittadini a guardarsi dai vizi e a seguitar le virtù, tanta dottrina e tanta civiltà, tanta scienza e tanto costume, Boccaccio non se ne spaventa: si stanchino pure o s’indispettiscano, gli altri. 432

Perché è vero anche questo: che il Dante era libro volgare, e che l’esegesi poteva sembrare strapparlo dal volgo e riportarlo fra i dotti; il contrasto fra una lettura volgarizzante e una lettura addottrinata, poteva sempre essere aperto, con conseguenze polemiche facilmente prevedibili: quelle di cui si rendono interpreti i sonetti a tenzone. Adunque, acciò che quello che io debbo dire sia onore e gloria dell’altissimo nome di Dio, e consolazione e utilità degli uditori, intendo, avanti che io più oltre proceda, quanto più umilmente posso, ricorrere ed invocare il suo aiuto: molto più della sua benignità fidandomi che d’alcuno mio merito…

Così proemiando; e avea or ora citato il Timeo di Platone, libro anch’esso dantesco; ed è per citare l’invocazione a Giove, dall’Eneide: libro anch’esso dantesco. Ma aveva pur letto il primo verso della lezione dantesca: «Nel mezzo del cammin di nostra vita». Dunque, dove Dante entra così pianamente nel discorso, e dice cose da tutti intese, e con un’allusione tanto dimessa, il commentatore accorre ai luminari della dottrina antica, greco l’uno, il più grande, l’altro il più grande latino.

1 La tesi storiografica, ben nota, si appiglia volentieri alla notissima canzone del Sacchetti Ora è mancata ogni poesia, in morte di Giovanni Boccaccio, appunto: dove anche si lamenta che vien meno la speranza di una resurrezione dantesca, «che surga Dante», dacché non si trova chi lo sappia leggere, «e Giovanni, ch’è morto, ne fé scuola»; ma è per se stessa fondata, come dimostra D. Guerri ripercorrendo il problema del commento del Boccaccio, anzi la storia tutta dell’incontro: Il commento del Boccaccio a D. Limiti della sua autenticità e questioni critiche che vi emergono, Bari 1926. Singolare il fatto, appurato dal Guerri, che il centro della ripresa quattrocentesca della fortuna di Dante in Firenze fosse l’agostiniano convento di Santo Spirito: proseguiva insomma la tradizione apologetica di un libro religioso che sembrava più attivo in una cerchia d’alta cultura teologica, e pareva interrompersi la fortuna più propriamente poetica, anzi mitopoetica, raccolta dalla letteratura e dall’aneddotica: ma non era questo l’indirizzo promosso dal B. stesso? Almeno sottolineando il divario fra le letture del poeta giovane, documentate dal Guerri nell’Appendice II, Stralci di pensieri su D. da tutte le altre opere del Boccaccio, pp. 217 ss., e l’elaborazione di una dantologia testimoniata dalla biografia e dal commento. E BURICH, Boccaccio und D., in “Deutsches Dante-Jahrbuch”, XXIII (1941), e soprattutto il nuovo storiografo della cultura del Tre e Quattrocento, G. BILLANOVICH, fra le altre opere in Restauri boccacceschi, Roma 1945. 2 Teseida X, 104. Sul «bizzarro mostro» di Chirone Aschiro, fraintendimento di Pg IX, 37, cfr. CONTINI, Le Rime di D., cit., p. 150. 3 Ninfale Fiesolano, st. 233. 4 Ibi, st. 254. 5 Filostrato I, 80. 6 «Partitosi, soli lasciò Amore i due novelli amanti, i quali riguardando l’uno l’altro fiso, Florio primieramente chiuse il libro e disse: “Deh, che nuova bellezza t’è egli cresciuta, o Biancofiore, da poco in qua, che tu mi piaci tanto?” […]. E così stando in questi ragionamenti, co’ libri serrati avanti […]» (l. II dell’ed. Moutier, Firenze 1827-34, vol. VII). La degradazione del tema verso un trito, ma candido, frammentismo novellistico è evidente. Che

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se ne avveda lo dimostra anche il Commiato al Filocolo, indicato dal Guerri, p. 217: «Né ti sia cura di volere esser dove i misurati versi del fiorentino Dante si cantino, il quale tu, siccome piccolo servidore, molto dei reverente seguire». La distanza fra quei «misurati versi» e il «piccolo mio libretto» è tracciata; ma anche un impegno di ossequio e di discepolato, assolto lungo tutta una vita letteraria. 7 «Dentro del coro delle donne adorno, / in mezzo di quel loco ove facièno / li savii antichi contento soggiorno, / riguardando vid’io di gioia pieno / onorar festeggiando un gran poeta, / tanto che ’l dire alla vista vien meno. / Aveali la gran donna mansueta / d’alloro una corona sulla testa / posta, e di ciò ciascun’altra era lieta. / E vedend’io così mirabil festa, / per lui raffigurar mi fe’ vicino, / fra me dicendo: – Gran cosa fia questa. – / Trattomi così innanzi un pocolino, / non conoscendol, la donna mi disse: / “Costui è Dante Alighieri, fiorentino, / il qual con eccellente stil vi scrisse / il sommo Ben, le Pene e la gran Morte: / gloria fu delle muse mentre visse, / né qui rifiutan d’esser sue consorte”». (Amorosa Visione, l. V. ed. Moutier, in GUERRI, p. 218). 8 Giorn. I, Nov. 8. «Sul nome di Guglielmo Borsiere», postilla il Guerri riferendola, «tesse la figura ideale dell’“uomo di corte”. Cfr. Inf., XVI, v. 70 segg.» (p. 220). 9 VI, 5. E l’introduzione all’eulogio lavora sul tema dantesco dell’arte che si modella sulla natura e sul «non vide me’ di me chi vide il vero»: «Molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto». 10 IX, 8. 11 V, 8: l’ultimo citato è tratto farsesco, a rompere la tensione drammatica: se ne togli l’accentuazione comica, non infrequente del resto nemmeno in Dante, e non nel solo Inferno (cfr. Pd XVI, 1-15), il ritmo della struttura è dantesco anche per quella rottura. 12 Cfr. Banchetti tragici dell’ORTIZ, Genova 1947, cap. V. 13 Pg XX, 132. 14 In SAPEGNO, Il Trecento, cit., p. 118. 15 De casibus virorum illustrium, I. IX, De numerosa querulorum turba, in GUERRI, cit., pp. 236 ss.: «Tra una turba di oppressi dalla Fortuna gli si fa incontro l’ombra di Dante, cui domanda se debba tesserne la storia di glorie e di dolori; ma il Poeta lo ringrazia della sua effusione e gli mostra invece l’ombra del Duca d’Atene: di lui discorra, perché veggano i posteri quali uomini i fiorentini hanno bandito e quali hanno chiamato». 16 Dal De Genealogiis I, in GUERRI, p. 237 ss. Noterai la variante della coda: «eamque Cociti innare undis». Altro passo riportato dal GUERRI (pp. 238 ss.) il discorso sull’origine dei fiumi infernali. 17 De Genealogiis XV, 8, in GUERRI, p. 242. 18 Son. S’io ho le Muse vilmente prostrate. Cfr. GUERRI, p. 17, sulla autenticità, negata, dei sonetti; che V. Branca, nella Nota premessa alla silloge delle Rime ecc. afferma. 19 Redazione compendiaria. 20 Prima redazione. 21 GUERRI, cit., p. 206: Petizione dei cittadini di Firenze alla Signoria per la lettura pubblica di D.

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I commenti

La tradizione del commento perpetuo L’intervento del Boccaccio nella varia esegesi dantesca la guidò in direzione che qui solo conviene osservare: ché fu riassunto ed ordine imposto ad una tradizione semisecolare di letture troppo avventurose e contrastanti per definirsi da sole; e cristallizzò con la sua presenza quel che poi si fece. La vicenda del commento a Dante (quasi per parlar di un’opera collettiva che si ordina in un ritmo molteplice ma concorde) procede da una sottolineatura poco più che editoriale (quella che muove da Iacopo Alighieri, intesa ad una esplicazione divulgativa, che confermasse l’immagine di Dante poeta sapienziale) al commento dottrinale e bolognese di Iacopo della Lana: si prolunga nell’esegesi apologetica di Pietro Alighieri, ma trova il suo centro di raccolta nell’opera significativamente anonima dell’Ottimo: il classico della lettura trecentesca di Dante. Atteggiamento comune è una valutazione da contemporanei, equilibrata fra l’informazione cronistica, cui non si deve attribuire una parte preminente, e la dilucidazione dottrinale, sulla quale insistere per ristabilire la dignità del dettato, e sottrarlo alle letture casuali (e magari giullaresche e volgari): gli interessi risultano insomma equamente distribuiti, e si serve la Commedia, non ce se ne serve.

Iacopo della Lana E Iacopo della Lana1 la serve come meglio può, inquadrando ogni canto (ma lui dice capitolo: preoccupazione trattatistica, ma anche di liturgia e di sermone) in una intelligenza gnomica rigorosamente scompartita. Il testo obbedisce al senso letterale, e Iacopo ne ha quel rispetto che si ha per cosa di cui non si può fare a meno, ne discorre con sufficiente chiarezza, ma con disinvoltura: anzi, la sua chiarezza è di chi vuol disporre dei limiti facilmente visibili a un certo modo, volgare, di guardare le cose, per poter trascorrere all’indicazione che più gli preme. Leggi in un canto tipicamente autobiografico e fiorentino, il XXIV del Purgatorio: Nel presente capitolo l’autore intende trattare cinque cose. La prima, seguendo suo poema e continuando sua parlata con Forese predetto, domanda d’una suora del detto Forese, e soggiunge che a lui piaccia di dirli se a quella pena è alcuno delle sue contrade, cioè italiani, persone di grande menzione. La seconda cosa introduce Bonagiunta da

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Lucca a parlare […]. La terza è che Dante tocca in sermone alcuna cosa de’ vizii de’ fiorentini, per la quale vita all’autore predetto rincresce vivere. La quarta tocca l’autore alcuna cosa della pena de’ golosi, biasimando lo vizio predetto. La quinta cosa ed ultima introduce l’Angelo a devellerli lo P dalla fronte del vizio goloso. E così termina la sentenzia del suo capitolo.

Dove già vedi che il commentatore approfitta di ogni occasione per oltrepassare la «sentenzia» del poema, se si ferma tanto volentieri ad un elenco di soggetti: poco curando il profondo e radicato moralismo di questa intelligenza della vita e della storia fiorentina, per fermarsi all’occasione gnomica: «tocca in suo sermone alcuna cosa de’ vizii de’ fiorentini»; e come se quel cammino penitenziale fosse soprattutto un dipartirsene: «per la quale vita all’autore predetto rincresce vivere». Ma riprendendo il percorso del canto, e disfattosi dell’episodio di Forese in quanto occasione di racconto, «della prima chiaro apparirà nella esposizione del testo a sufficienza», la cornice dottrinale prende il posto del quadro: Alla seconda è da sapere ch’elli è natural cosa alli uomini lo parlare e potere pronunziare con la lingua quello ch’elli hanno in core, ma lo parlare pulito e non pulito acquistano li uomini da scienza come da rettorica, e dritto e non dritto da grammatica, e nuove cose a usare, la filosofia e teologia […]. Alla terza cosa è da sapere siccome dice lo Filosofo nel primo dell’Etica: al vertudioso appartiene volere ogni perfezione sì di parenti come d’amici, ed eziandio d’amici delli amici, le quali cose chiaro appaiono nella Politica […]. La quarta e la quinta cosa nella esposizione del testo apparirà.

Commento dottrinale, dunque, e glossa letterale: quasi a fissare due termini complementari che si salderanno l’un l’altro senza un intervento diretto. La postilla è abbastanza disinvolta: vedi la cronaca dello stesso canto, volentieri vagabonda: Fue uno Bonagiunta da Lucca dicitore in rima, e corrotto molto nel vizio della gola, e già ebbe nella prima vita domestichezza con Dante e visitònsi insieme con sonetti,

che è menzione adattatissima alla lettura, anche in quella molto discutibile notizia: ché certo Bonagiunta, che discuteva con Guinicelli sul poetare ermetico, interviene anche qui con la stessa mentalità di letterato riflessivo e di polemista garbato («ma dì s’io veggio qui colui che fuore…»), benché prontamente risolva il suo dubbio nella fin de non recevoir spiritualista di Dante: proclamazione del regno dello Spirito anche in letteratura, quando finalmente il poeta è giunto quasi al vertice del suo cammino terreno, il Parnaso del Paradiso Terrestre. Il testo resta dunque attivo nella sua forza icastica e fantastica, quando egli lo contorna: e dove è più cronistico più l’accetta in sé. (Per un raffronto immediato: nota ai vv. 58-63 del c. XVIII dell’Inferno: Segue lo poema mostrando che universalmente i bolognesi sono caritatevoli di tali doni, cioè di roffianare parenti e cognoscenti chi meglio meglio. E però dice che quella bolgia

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è piena di bolognesi; ed a far comparazione quanti sono, dice che tra Savena e Reno non sono tante lingue accese, cioè vive, che dicano sipa, quante sono quelle che sono in quel luogo…

che è attenzione in tutto diversa da quella del commento introduttorio Circa lo qual capitolo è da notare che questo peccato de’ roffiani ed ingannatori si commette adulando, cioè in modo di lodare lo fine a che tendono; lo quale non è giusto, né bello, né ragionevole…2

pur mediato e sapiente, in quel porre la dossologia del male come termine comprensivo del mondo della frode.) Intanto, il commento polarizza un divario fecondo, fra dottrina e poesia, e quasi attivo come quello che ai nostri tempi vedemmo fra poesia e non poesia, solo (che meno conta) capovolto: riserbandosi naturalmente ogni dignità alla dottrina, e minore alla poesia.

L’Ottimo Ma la chiarezza di Iacopo della Lana nel serbar distinta la dottrina del commento e l’acume ermeneutico ed esegetico delle postille non pare interessi altrettanto l’Ottimo commentatore.3 È un commentatore disinvolto, perciò attento alla lettura, pronto a prendere il suo bene dove lo trova, e a valersi dei commentatori precedenti come di quella anonima attività glossatoria di lettori di Dante non investiti d’autorità quanto pervasi di passione. Il suo giuoco d’attenzioni è complesso ed agile, come quando, attento al fatto, all’evidenza emblematica più che al simbolo, osserva le tre teste di Lucifero: «significa che abbia una giustizia sopra li peccatori delle tre parti del mondo», commenta; e a sostegno cita Fulgenzio; ma il dato dottrinale non ha importanza, quanto l’attenzione a quel protrarsi del tema dell’invidia cupida, che lega il «gran vermo» al «vermo reo che ’l mondo fora», e le tre Bestie, attraverso Cerbero, al triforme Gerione. Non sarà difficile, quando si smetta di considerare i commentatori come delle macchine ermeneutiche, e si vedranno piuttosto nell’occasione del loro tempo e della loro scuola, e nella concreta personalità del loro operare, non sarà difficile sottolineare l’enciclopedismo toscano dell’Ottimo e la varietà dei suoi risentimenti: sia che sottolinei, con un tratto argutissimo, le «divise» dei frati godenti, «di sotto bianco e di sopra nero portavano: viveansi con le loro mogli», che è un evidente richiamo al manto in eterno faticoso degli Ipocriti, sia che attribuisca a frate Alberigo, quel dalle frutta del mal orto, non uno ma due tradimenti (duplicazione di apologo e di mito), sia che si distenda a raccontar di Piccarda, lavorando di finitezza stilistica sopra il dato di Iacopo della Lana: Piccarda, sorore di Messer Corso dei Donati di Firenze, entrò nel monasterio di Santa Chiara dell’ordine de’ Minori. Fue bellissima donna. Stata questa donna nel ditto monasterio, concorse al ditto messer Corso bisogno di fare uno parentado in Firenze, non

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avea né chi dare, né chi torre, sicché fue consigilato: tòi Piccarda dal monisterio, e fa tale parentado. Credette costui a tal consiglio, e sforzosamente la trasse dal monisterio e fé tal parentado. Piccarda, suora di Forese e di messer Corso Donati, e figliuola di Messer Simone, essendo bellissima fanciulla, dirizzò l’animo suo a Dio, e feceli professione della sua verginitade, e però entrò nel monisterio di Santa Chiara dell’ordine de’ Minori. Questa cosa fece per quello, che s’avea proposto nell’animo; e perocché li detti suoi fratelli la avevano promessa di dare per moglie ad uno gentil uomo di Firenze a nome Rossellino della Tosa, la qual cosa pervenuta alla notizia del detto Messer Corso (ch’era al reggimento della città di Bologna), ogni cosa abbandonata, ne venne al detto monisterio, e quindi per forza (contro al volere della Piccarda, e delle suore e badessa) del monisterio, la trasse, e contra suo grado la diede al detto marito: la quale immantinente infermò, e finì li suoi dì, e passò allo sposo del Cielo, al quale spontaneamente s’era giurata.

È un commentatore ricco del suo, l’Ottimo, che nel testo poetico interviene con una sensibilità commossa, anche se per rilevarla ti tocca attenderlo al varco del racconto e della parola, in una larga parafrasi dove si discernono quegli elementi che non può testimoniare in un giudizio estetico. Delle sue attenzioni all’arte resta memorabile la notissima testimonianza: Io scrittore udii dire a Dante che mai nol trasse a dire altro che quello ch’avea in suo proponimento, ma ch’elli molte e spesse volte facea li vocaboli dire nelle sue rime altro da quello ch’erano appo gli altri dicitori usati di esprimere.

E s’affida alla suggestione della poesia con una prontezza che gli altri ignorano, più attenti di lui forse al processo dottrinale e al dettato; e dove Graziuolo de’ Bambagliuoli4 dice di Brunetto Latini ciò che è ovvio ad una conferma della dignità filosofica, ma nello stesso tempo insiste sulla leggenda che voleva che il maestro avesse cavato l’oroscopo del discepolo, maldestra o puntigliosa traduzione del verso veggendo il cielo a te così benigno

«fuit optimus astrologus, physica et moralitate preclarus»; dove Iacopo della Lana appena tocca il tema dell’oroscopo, e l’intimità d’affetti dell’incontro, Questo ser Brunetto Latino fu uno fiorentino, fino notaro, e compuose fra li altri un libro universale sì di filosofia naturale come morale, ed eziandio toccò delle scienze matematiche, meccaniche, e teologia, lo quale è appellato Tesoro; e a utilità della comune gente lo fece in lingua francese, imperocché è intesa da più che non è la litterale. Il qual ser Brunetto fu un tempo maestro di Dante, e fu sì intimo domestico di lui, che il volle giudicar per astrologia e predisse per la sua natività com’elli doveva pervenire ad eccelso grado di scienza. Per la qual dimestichezza l’autore li portava reverenzia quando parlava con esso. Or lo prega ser Brunetto ch’elli voglia essere un poco seco a ragionare con lui,

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l’Ottimo par che elabori il ritratto di Brunetto sulle indicazioni di Dante stesso: Fu un valente uomo, e scienziato di Firenze, e visse nella gioventute dello Autore. Fu uno onorato parlatore; seppe morale, filosofia e liberali arti; e gran parte della vita fu onorato in tutti i grandi fatti del Comune di Firenze; e, siccome appare, l’Autore prese da lui certa parte di scienza morale.

E dove di Folco di Marsiglia gli altri tacciono, questo, che dei commentatori è il primo che confessi e sostenga interessi letterari, dà una circostanziata notizia: Fu Folco di Marsiglia figliuolo di un mercante genovese di nome Anfuso; altri dice: ch’elli fu pure di Linguadoco; il quale morendo il lasciò molto ricco. Costui istudiò in ciò che appartiene a valore umano e fama mondana; seguiva li nobili uomini; e, come appare, trovò in provenzale coble, serventesi ed altri diri per rima; fu molto onorato dal re Riccardo d’Inghilterra, e dal conte Ramondo di Tolosa, e da Barale di Marsilia, nella cui corte conversava. Fu bello del corpo, onorato parlatore, ed in amare acceso, ma coperto e savio; amò per amore Adalagia, moglie di Barale suo signore; e per ricoprirsi facea segno d’amare Laura di Santa Giulia e Bellina di Pontevese, sirocchie di Barale; ma più si scopriva verso Laura di che Barale li diede congìo; ma morta la moglie di Barale doglia meravigliosa ne prese e rendé sé con la sua moglie e due suoi figliuoli nell’ordine di Cestello; poi fu fatto abate di Toronello, e poi vescovo di Marsilia, donde cacciò molti eretici.

Al commentatore poco importa di palesare o nascondere la fonte della notizia: che rimarrebbe esterna ed astratta, se non fosse evidentemente riportata al testo di Dante (i temi della rapsodia di Venere sono questi stessi: amore, avventura terrestre, itinerario verso una disciplina spirituale attraverso la poesia), e, di là dal testo, ad una ideale biografia del poeta, palese per più segni. Certo l’Ottimo in questo servizio disposto al testo non si cura di dimostrare se stesso altro che come altrettanto o più acuto, più provveduto, più «sottile», come lui dice, che gli altri commentatori: appunto perché non ha da salvaguardare, o meno che gli altri, gerarchie dottrinali, e si comporta verso la poesia con quell’apertura, con quella disponibilità feconda, che è della cultura fiorentina, aperta alla conquista dello spirito attraverso l’invenzione delle forme.

Una lettura comparata In questa condizione, Boccaccio cristallizza in sé e condiziona gli avviamenti di Iacopo della Lana e quelli dell’Ottimo. Del primo egli accetta e ricerca la dignità dottrinale; ma non già per staccarla dalla dignità poetica: anzi, promovendo una unione in un solo atteggiamento di sapienza e di dottrina, attribuendo a Dante, né s’ingannava, di avere avviato una nuova rivelazione, una poesia umana e divina, musiva e sapienziale insieme. E del secondo accetta e ricerca la disponibilità verso la suggestione fantastica, la ricchezza delle modulazioni e dei riecheggiamenti, la baldanza avventurosa e nell’intimo orgogliosa. Una diversità 439

è primamente in questo: che i commentatori precedenti firmavano poco più che per impegno editoriale (è una preoccupazione evidente nei figli di Dante) e piuttosto miravano a scomparire che ad apparire trasparendo nel testo; e questo Boccaccio non vuole, non può fare, comunque gli costi, in quell’ultimo atto della sua vita letteraria, non potere nascondersi tutto dietro il monumento venerando, come pur sembra desiderare, e ritrovare la gioia dell’anonimato. Gioverà tracciare, cominciando dalla dottrina e tornando alla dottrina, il diagramma della sua lettura di Dante. E il primo atto di questo percorso, evidente nella cura della trattazione polisensa, e nel parallelismo del significato letterale e del significato allegorico (è, ancora, separatismo: ritrova la tradizione separata di Iacopo e dell’Ottimo; dispone la tradizione ancora separata ma ormai complementare di Benvenuto da Imola e di Francesco da Buti) è di indicare chiaramente la dignità dottrinale di Dante chiamando un corredo amplissimo di dottrina enciclopedica a sostegno e a illustrazione del testo. Ma a questo punto, dove Iacopo o quell’altro bolognese, commentatore latino dell’Inferno, il Bambagliuoli, si sarebbero arrestati soddisfatti, egli intende che quella dottrina è cosa che lo tocca da vicino, e riesce ad animarla con una vivacità figurativa che apprende sì da Dante, ma confortandola con temi e modi dell’arte sua: Oltre a ciò questo disonesto appetito è velocissimo in permutari, e salta tosto d’una cosa in un’altra: un muoversi d’occhi, un atto vezzoso, un riso, una guatatura soave, una paroletta accesa, una lusinga, d’uno amore in un altro, come vento foglia, gli trasporta; ora avendo a schifo questa che piacque, e ora desiderando quella che ancora non era piaciuta, dimostrano il lieve movimento della lor mente. La infelice Didone, secondo Virgilio, per un forestiero affabile, mai più non veduto, subitamente dimenticò il lungamente e molto amato Sicheo; assai bene verificando quello che l’autore, nel Purgatorio, delle femmine dice: Per lei assai di lieve si comprende quanto in femmina fuoco d’amor dura, se l’occhio o ’l tatto spesso nol raccende.5

E aveva appena citato un lungo passo della Cistellaria di Plauto: cui certo è attratto dalla traduzione mimica di quel giuoco amoroso che segue nell’allegoria della lussuria. Il verso di Dante gli serve dunque per traguardarvi le sue molteplici attenzioni di scrittore: che significa (è ancora una via indicata dall’Ottimo) legare l’uno all’altro i termini di una tradizione letteraria, in una catena che si perpetua; e in questo Boccaccio ha da molto tempo, quando lo invitano a tale compito di lettura di poesia dottrinale e morale, dimostrato d’esser ben fiorentino. Tale successo del far convergere nella lettura interessi letterari sempre più liberi, e in realtà sempre più capaci di disviluppare il nodo della poesia dantesca e di accompagnarla verso una totalità di rispondenze, è osservabilissimo in un episodio che già per se stesso era il nodo dove lo spiritualismo dell’educazione poetica stilnovistica di Dante si capovolge, senza perder nulla della sua primitiva forza ed estensione, in moralismo, e la patetica attesa dell’eredità cortese diven440

ta forza di operare sopra una realtà umana fino in fondo sofferta. Nella loro successione cronologica i commentatori scoprono via via quanto sia fecondo il tema; e se esprimono questa scoperta in formule mitografiche, se si avventurano a fabbricare una novella sempre più circostanziata sulla sintesi drammatica di Dante, questo accade perché la sintesi stessa, l’immagine, che è all’origine di una nuova intelligenza dell’amore come passione e come colpa, palesa la forza e l’estensione delle sue applicazioni possibili. Nota che il tema della gelosia, che il mito di Tristano nascondeva dietro il convenzionalismo dell’amor cavalleresco, risulta per questa via preminente, e s’insedia in una tradizione che diventerà popolaresca, o tornerà tale (il mito della Donna Lombarda si localizza nella sua azione a Ravenna; Dante può essersi ricordato di Rosmunda: certo se ne ricordano i cantori popolareschi di Dante e di Francesca), specie ad una nuova fase del populismo letterario, quella romantica. Dice di Francesca il Bambagliuoli: Haec duae animae fuerunt Paulus filius domini Malatesta de Malatestis de Arimino et domina Francischa domini Guidonis de Polenta, uxor Jannis Ciotum de Malatestis qui siquidem mutuo in tantum se dilexerunt quod dictus Jannes occidit dictam dominam Francischam uxorem suam et dictum Paulum fratrem suum cum ipsos invenerit diligentes se ad invicem.

Perfino nel Lana si insinua una variazione novellistica nel resoconto, ed è una variazione moralistica, come si conviene al suo grado di dignità dottrinale: La quale Francesca […], correttane più volte dal suo marito, non se ne castigava.

Con l’Ottimo la variazione novellistica si accresce di una evidenza ritrattistica, che sviluppa il gran tema della «bella persona»: «donna bellissima di corpo e gaia ne’ sembianti», dice di Francesca; e di Paolo il bello, quasi prolungando parallelamente il procedimento: «uomo molto bello del corpo, e ben costumato»; e indugia nel richiamare la vicenda cavalleresca, da buon lettore letterato: un libro della Tavola Rotonda, nel quale era scritto come Lancillotto innamorò della reina Ginevra, e come per mezzana persona, cioè Galeotto lo Bruno, Signore dell’Isole Lontane, elli si congiunsero insieme a ragione del loro amore, e come il detto Lancillotto per virtù di quello ragionamento conosciuto l’amoroso fuoco, fu baciato dalla reina…

Ultimo viene Boccaccio, nel quale la novella s’accresce dell’episodio del matrimonio ad inganno; e con uno scrupolo di esattezza cronistica con cui riesce a nascondere non dirò certo il gusto della finzione novellistica, ma lo slancio con cui crede al suo proprio linguaggio di narratore, vuol togliere alla cronaca del fatto proprio quel legame che lo vincolava alla tradizione romanzesca: la lettura del «libro»: Ma io credo quello esser piuttosto finzione formata, sopra quello che era possibile ad esser avvenuto, ché non credo che l’autore sapesse che così fosse.

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Eppure non è questo novellare, pur così esperto e accorto, l’ultimo segno del commento di Dante: quella tradizione cavalleresca che espunge dalla novella, pur riconosce ampiamente nella lettura postillata; e al passo così rilevato nel dettato di Dante, «Amor che a nullo amato amar perdona», fa seguire la menzione, non già dei passi stilnovistici che più, storicamente, gli convenivano, ma di un passo di Dante che trasporta in senso morale il detto: Questo, salva sempre la reverenza dell’autore, non avviene, di questa spezie di amore, ma avvien bene dell’amore onesto, come l’autore medesimo mostra nel seguente libro nel canto ventiduesimo, dicendo: amore acceso da virtù, sempre altro accese, pur che la fiamma sua paresse fuore.

«Leggere Dante con Dante», come suona il dettato della scuola storica? Anche; ma il processo è più sottile: si tratta di leggere in Dante tutta la cultura contemporanea, di farlo diventare il caposaldo della nuova letteratura, l’autore per eccellenza della nuova poesia e della dottrina umanistica. Tutti i poeti del catalogo dantesco, e buona parte di quelli su cui si eserciterà la lettura degli umanisti, ritornano nel commento del Boccaccio: poesia aggiunta a poesia, dunque, prima che dottrina e filosofia aggiunte alla poesia. Ma dopo aver utilizzato dottrina e poesia egli procede a far convergere nella lettura la tradizione storica e cronistica, come nell’episodio di Farinata, che così volonterosamente è trasportato da una cerchia cittadina e toscana ad una italiana ed europea, raccontandosi una novella delle origini dei nomi e delle parti guelfe e ghibelline, affidata a quel personaggio di romanzo che da Donizone a Tommaseo fu sempre la contessa Matilde (e naturalmente Boccaccio crede che la Matelda dantesca sia dessa «delle cui laudevoli operazioni distesamente si dirà nel canto vigesimottavo del Purgatorio»). Resta dunque aperto il commento, così come è interrotto a proseguire nella strada iniziata; e si accrescerà senz’altro, fino alla vulgata cinquecentesca: dalla quale, per farlo uscire, occorrerà che Vico lo rituffi nella sua temperie popolare e favolosa. Intanto, l’autorità dottrinale e poetica del Boccaccio aiuta il cristallizzarsi dell’esperienza dei due più provveduti commentatori del Trecento: Benvenuto da Imola e Francesco da Buti. Egli è novelliere, e capace di ridurre a una mentalità novellistica, se non ancora anedottica e episodica, un testo: il suo discepolo Benvenuto naturalmente si mette su questa strada (Boccaccio una volta sola si confessa discepolo di qualcuno: dell’astrologo Andalò). Ma ancora la sua autorità aiuta a leggere dottrinalmente il poema. Avrà un senso che a questa seconda impresa si ponga la cultura toscana, dal Buti al Landino: e che resti alla cultura d’oltreappennino la variazione novellistica.

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Benvenuto da Imola Una variazione, in Benvenuto,6 tanto protratta verso la concretezza da diventar violenta; e sempre aspra di parole, in quel linguaggio tipico e mitografico, che codifica in fretta in latino la dispersa popolarità del volgare: egli rammenta, a distanza di un secolo, fra’ Salimbene da Parma e la baldanza con cui la vita volgare accetta di atteggiarsi in panni curiali negli scritti di notai e di cronisti; e precorre d’un altro secolo senza quelle velleità polemiche, la forza inquieta di certo populismo maccheronico. La novella di Francesca degrada verso la formula plebea, a dir dell’adultera; e per tenerci a una documentazione meno spinta, anche di Folchetto di Marsiglia il segno del ritratto è volgarmente, ma sapidamente inciso: Ipse dedit operam valori humano et fame mundane: sequutus est nobiles viros: dicebat pulcre et facunde in rhythmo: fuit valde acceptus et honoratus a Richardo rege Anglie, a Raynaldo comite Tolosano et a Barali de Massilia, in cuius Curia conversabatur. Nec miror, quia Massilie sunt formosissime mulieres. Fuit siquidem Fulcus iste pulcer corpore, lingua disertus, poecunia liberalis, ergo vere venereus. Adamavit autem Adalagiam uxorem Baralis […]. Mortua uxore Baralis, amarissimum dolorem concepit, sicut olim Dantes de morte sue Beatricis: et dedicavit se cum uxore et duobus filiis ad monasterium cisterciense. Postea factus fuit abbas Torrinelli: demum episcopus massiliensis, de qua expulit haereticos.

Basta la menzione di Beatrice a stabilire il rapporto autobiografico nell’episodio, non importa se grossamente indicato: non è per questo meno vero; e a confermare il moto discendente dell’attenzione del poeta, dal motivo idealizzante della Vita Nuova al motivo realizzante della Commedia, ecco, accanto a quella figura parallela di Beatrice, il corteggio delle donne di Marsiglia, formosissimae. Appunto su questo movimento di concentrazione è da riflettere: si tratta sempre di far convergere tutta una cultura nel testo della Commedia (e anche perciò rimane valida la prova del Boccaccio, che aveva chiamato a raccolta, per la lettura del Poema, tutto lo scibile, l’enciclopedia della dottrina, ed anche il tesoro della mitologia e della novellistica); ma qui l’accento cade sulla cultura volgare, fatti e modi d’essa cultura: e il motivo artistico che Dante più di ogni altro promuove, l’evidenza del visibile, e la traduzione ritrattistica di ogni intelligenza dell’uomo singolo, è reintrodotto e applicato con una varietà mirabile, e con un vittorioso proposito di concretezza: Iste namque Ghinus Tacchi fuit vir mirabilis, magnus, membrutus, niger pilo, et carne fortissimus, ut Scaeva levissimus, ut Papirius Cursor prudens et largus […]. Sed fere nullus incurrebat in manus eius, qui non recederet contentus, et amaret et laudaret eum. Et audi morem laudabilem in tali arte latrocinandi: si mercator erat captus, Ghinus explorabat placibiliter quantum ille poterat sibi dare; et si ille dicebat quingentos aureos, auferebat sibi trecentos, et reddebat ducentos, dicens: Volo quod possis negotiari et lucrari. Si erat unus sacerdos dives et pinguis, auferebat sibi mulam pulcram, et dabat ei unum tristem roncinum. Et si erat unus scholarus pauper vadens ad studium, donabat sibi aliquam pecuniam et exhortabatur ipsum ad bene agendum et proficiendum in scientia…

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Ecco come il mito italico del buon masnadiero si incorona delle menzioni illustri degli eroi antichi: che tuttavia rimangono solennemente introdotti e subito abbandonati, perché il narratore si preoccupa piuttosto della sapida commedia delle beffe. «Res iucunda narratur […] et fuit diu magnum solatium in populo», racconta di Guido da Montefeltro e di Guido Bonatti e del villano che per predire il tempo si fidava più dell’asino che delle arti dell’astrologo: di un astrologo appunto che «tam clare tradit doctrinam de astrologia, quod visus est velle docere feminas astrologiam»: quasi uno stesso intento di divulgazione guidasse il poeta, il commentatore e l’astrologo, toccando sempre la vittoria al buon senso naturale di Bertoldo. La sua cerchia è storica, e assai ben fondata:7 e allo studio del Boccaccio accorre per meglio assodare, sopra la dottrina, il suo gusto del realismo popolano; ma della tradizione di Dante romagnolo si vale per definirlo sempre in un mondo di certezze: era quella di Romagna la gente che aveva visto negli ultimi anni il poeta, già famoso ma ancor vivo. Curioso che più tardi, dopo secoli, quella tradizione romagnola si capovolga in dignità letteraria, in gusto della maniera grande; e lo storicismo in spiritualismo.

Francesco da Buti La cifra del ritornar di Francesco di Bartolo8 verso quelle preoccupazioni dottrinali che Iacopo della Lana aveva circoscritte a cornice del commento, e che Boccaccio chiamava nel discorso e nelle postille, può essere data dall’episodio della Pia. Benvenuto non rinuncia al canone dell’evidenza novellistica: Accidit ergo quod dum coenassent, et ista domina staret ad fenestram palatii in solatiis suis, quidam domicellus, per mandatum Nelli, cepit istam dominam per pedes et precipitavit eam per fenestram, quae continuo mortua est, nescio qua suspicione.

Al narratore aneddotico importa il gesto, non la causa o il pretesto del delitto; e si fa forte della penombra inorridita dove lo lascia la donna dolente, «salsi colui…» per disinteressarsene: «nescio qua suspicione». Francesco da Buti sa quel pochissimo degli altri: «E per certo fallo che trovò in lei l’uccise sì secretamente che non si seppe allora» e lo dice perché bisogna adempiere agli obblighi dell’illustrazione; ma la sua attenzione è tesa altrove, e da quel delicatissimo tratto della Pia «quando tu sarai tornato al mondo, e riposato da la lunga via», prende pretesto per liberarsi, in una notizia cosmografica, d’ogni appiglio realistico: E riposato da la lunga via: bene è lunga la via passare dall’una superficie de la terra e l’altra per lo centro. Montare lo monte altissimo, passare la spera del fuoco, montare al paradiso delitiarum e poi per tutti li cieli infine al cielo Empireo, per certo questo è lo più lungo e più alto viaggio che mai si facesse; ma allegoricamente si dè intendere essere fatto questo viaggio con la mente, e quanto a la verità, che ben sarebbe grosso chi intendesse altramente.

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Ecco, inconsapevolmente egli pensa troppo spesso che sia grosso affidarsi alla poesia; e non per nulla, anche quando s’imbatte nel canone del Dolce Stil Nuovo, seguire il dittatore Amore non significa altro che seguire «strettamente i movimenti naturali de la mente». Anche di Francesco da Buti la notizia vulgata è da ripercorrere tutta quanta, per definire il suo apporto alla lettura, che è di un’enciclopedista provvedutissimo, con dichiarate attenzioni naturaliste. Certo alla lettura non soggiace, anche quando porta il contributo della sua notizia cronistica; e alle prese con le visioni par sottrarsi di proposito a quella libertà emotiva e fantasticante cui cede il poeta. Quando espone il sogno della Femmina Balba, la sua preoccupazione è di sottolineare la introduzione, «e il pensamento in sogno trasmutai», quasi per togliere, almeno in parte, l’intervento soprannaturale: Mi venne in sogno: cioè a me Dante; e dice studiosamente, a denotare quale specie fu di sogni, in sogno: imperò che sogno è, come dice Macrobio, quando si vede confusamente quello, che poi chiaramente si conosce; ma non inanti che avvenga; et insomnio si chiama quello che l’omo chiaramente vede; ma addiviene perché n’ha avuto pensieri inanti. E però si potrebbe dire che in sogno fusse una parte e non due, e che l’autore chiami questo insogno, perché prima n’ebbe pensamento, come appare di sopra… Questa femina descritta, così imperfetta significa la falsa felicità mondana, la quale li uomini pognano in cinque particulari beni: cioè in ricchezze, signorie, onori, fama e diletti carnali, li quali sono tutti imperfetti e fallaci: sicché, come dice Boezio, nel terzo libro de la Filosofica Consolazione, per tutto quello libro come appare a chi lo legge e ne la prosa seconda dice: Atque haec sunt quae adipisci homines volunt… Le sirene sono detti mostri di mare, e sono ditte tre, de le quali l’una canta con voce, l’altra con ceramelle, e l’altra con corde […]. Queste furono filliuole d’Acheloo, et furono con Proserpina quando fu rapita da Plutone […]. La verità fu che queste furono tre meretrici, le quali arrecavano quelli, che passavano per le loro insule, a povertà…

Sforzo di traslatare in una riflessione scientifica e moralistica la favola: quasi come dice di Cunizza; e dove Benvenuto ancora una volta ne fa un ritratto novellistico, «recte filia Veneris, semper amorosa, vaga […] et cum hoc simul erat pia, benigna, misericors, compatiens miseris, quos frater crudeliter affligebat», egli pudicamente trascorre al mutar vita: «Fu molto molestata da l’amore mondano; ma a la fine si riconobbe». Così, alla fine, dopo l’intermezzo poetico, egli aspira alla scienza: che si riconosca.

1 Una indicazione unitaria e storicamente valida sui commenti trecenteschi va ancora oggi riportata agli studi della varia fortuna: al CAVALLARI, La fortuna di D. nel Trecento, Firenze 1921, e al saggio del ROSSI, D. nel Trecento e nel Quattrocento, in D. e l’Italia, cit., 1921, e nel vol. degli Scritti di critica letteraria, Firenze 1930. Riassuntiva dei precedenti studi, Witte, K. Hegel, Paur, e attenta alla tradizione nostrana l’opera di L. ROCCA, Di alcuni commenti della DC composti nei primi vent’anni dopo la morte di D., Firenze 1891. Un utile catalogo nell’Enciclopedia dantesca dello SCARTAZZINI, Milano 1896, vol. I, pp. 411 ss. Raffronti sulle

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tradizioni commentatizie in F.P. LUISO, Fra chiose e commenti antichi, in “Arch. stor. ital.”, s.v., XXXIII (1904). 2 Edizioni mediocremente attendibili sia antiche (Venezia 1477, Milano 1478) sia più recenti (Milano 1865, Bologna 1865-67); e va ricollegato a lui il testo latino del contemporaneo Alberico da Rosciate: cfr. A. FIAMMAZZO, Le versioni latine del Lanèo, in “Bull. d. Soc. dant.”, n.s., IX (1902). 3 L’Ottimo Commento della DC. Testo inedito d’un contemporaneo di D., citato dagli Accademici della Crusca, a cura di A. Torri, Pisa 1827-29. L. ROCCA, Di alcuni commenti, ecc., cit. Se si potesse sicuramente identificare in Andrea Lancia l’Ottimo, qualche postilla che nel testo s’avventura rimarrebbe confermata dalla presenza autorevole del «contemporaneo» che propose alla signoria fiorentina d’abbandonare il latino per il volgare e tradusse «riformagioni» e leggi, nonché l’Eneide. Supposto questo, resta certo che Andrea Lancia appartiene alla fortuna di Dante. 4 Testo a cura di A. Fiammazzo, Savona 1915. G. LIVI, D., suoi primi cultori, sua gente in Bologna, Bologna 1918. 5 Ed. Guerri, Bari 1918, vol. I, p. 178. 6 Testo edito da G.W. Vernon, «curante Jacopo Philippo Lacaita», Firenze 1887, 5 voll.; e cfr. M. BARBI, Il testo della «lectura» bolognese di Benvenuto da Imola nel cosiddetto Stefano Talice da Ricaldone, in “Bull. d. Soc. dant. ital.”, n.s., X (1908); L. FRATI, Un compendio del Commento di Benvenuto da Imola, in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, LXXX (1922). L. BALDISSERI, Benvenuto da Imola, 1921. 7 È noto che toccò prima al Muratori pubblicarne frammenti d’interesse storico nelle Antiquitates; ma tutto il Settecento, nonché tornare a Benvenuto per lo studio che nutriva della realtà cronistica, pur mirando alla storiografia, lesse Dante in una prospettiva cronistorica (ancora una volta Vico e Muratori s’incontrano). 8 Testo edito da C. Giannini, Pisa 1858-62, vol. 3; G.M. MAZZUCHELLI, II, IV; I. BRACCICAMBINI, Francesco di Bartolo da Buti ed i suoi tempi, 2ª ed., Prato 1915.

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Polemiche dell’intelligenza umanistica

L’umanesimo letterario verso Dante Le proposte dei Trecentisti, a paragone con Dante, non ottengono partita vinta: dopo di loro, dopo lo strenuo e pur sempre irriflessivo attivismo del loro poetare come dopo la conciliazione che propongono, in sede morale, fra la poesia e la dottrina, perdura quella situazione culturale di cui a un certo momento si sono preoccupati. Perdura, del Petrarca, non l’atto di ossequio proposto nei Trionfi, ma la cauta distanza osservata nella corrispondenza col Boccaccio; e gli orgogli addottrinati degli umanisti, vogliosi di soppiantare gli scolastici nella direzione culturale dell’Occidente, anche allungano la distanza. Perdura, del Boccaccio, e in antitesi con quella cauta accoglienza della cultura ufficiale, il dantismo entusiasta e cronisticamente appassionato: quasi che il Certaldese fosse da collocare accanto a un Antonio Pucci, illustratore cronachistico delle glorie cittadine. Tuffati nelle diatribe colleriche della politica letteraria, accorrono alle formule nuove ed alla nuova scuola, pochissimo salvano del principio di individualità, pochissimo comprendono della missione futura di Dante, nulla gli riconoscono di quanto essi stessi hanno imparato da lui, che, lo leggano o no, ha pur fondato la condizione elementare, umana e linguistica, di sentimento e di costume dopo che di parola, che consente a loro di essere quello che sono: un Dante umanista è il più difficilmente inteso dagli umanisti, tutti presi dal rito della bella letteratura, naturalmente latina, e dal filologismo grammaticale; e ch’egli avesse epicizzato e drammatizzato, e vissuto in sé per consentir loro di riviverlo, il canone dell’uomo nuovo, che dal trascendente ridiscende al mondo per un dominio immenso sopra la realtà dello spazio e del tempo, non sanno né vorrebbero ammetterlo, intenti alla regolamentazione erudita e scolastica e accademica di quella dantesca e religiosa istanza di vita. Abbia il suo peso, in questa fallacia d’incontri e d’opposizioni e d’incomprensioni, il necessario tecnicismo dove degrada la storia dell’intelligenza italiana nel Quattrocento: tecnicismo di politici nella trasformazione aziendale dello Stato comunale e tecnicismo di cultura nei loro seguaci e pedissequi propagandisti; gli umanisti, confidando nel generico e nell’astratto, contraddicono la più autentica vita morale di Dante: che di tutto faceva occasione d’una scoperta dell’uomo, e che accettava l’astrazione massima della struttura e della dottrina per dare meglio il senso della universale rispondenza dell’uomo individuo. Ma per fortuna loro e della sistemazione culturale che sono per propagandare tanto fuor della loro cerchia, per tutto dove si stende la civiltà dell’Occidente, in uno schema che appunto salverà quei valori religiosi e poetici di cui sembrano dimenticarsi, puntigliosamente intenti al regolamento 447

del pedantismo filologico, la parola non cessa di operare dentro loro e fra loro; e mentre accanto a loro la cultura fiorentina e toscana e italiana acquista sempre più di Dante, pur trasferendo le sue attenzioni fuor della cerchia della letteratura, fra quelle arti belle che esercitano una efficacia tanto più diretta sopra l’immaginazione e il costume del popolo, così che non c’è artista del Rinascimento, piccolo o grande, che non abbia scritta esplicitamente o confessata la pagina del suo incontro con Dante, da Giotto a Michelangelo e dai musici dell’Ars Nova al Palestrina, la politica letteraria oscilla e divaria senza mai rifiutarlo del tutto, senza mai accoglierlo sino in fondo: paga di stabilire una sospensiva, prima di render giudizio senz’appello; che in fondo aiuta anche così il dualismo di poesia e di cultura che sembrava loro garantir meglio la dignità della nuova scuola, e la candidatura che avanza, ad esser guida della repubblica cristiana, con o senza un previo accordo con l’egemonia della Curia.

Leonardo Bruni Leonardo Bruni1 accetta anche questa sospensiva: ma le circostanze del suo lavoro e della sua riflessione lo conducono a protrarre la sua attenzione a Dante ben al di là del previsto, se fra i Dialoghi, riferibili al 1401, e la Vita di Dante, che è del 1436, prosegue lungo una così chiara linea di evoluzione. Il suo processo (anticipiamo il giudizio) è acquisto di concretezza storica, attraverso un approfondimento di vita religiosa: cui convergono molte suggestioni, sia dal circolo di Santo Spirito, col platonismo temperato della tradizione agostiniana, sia dalla sua attività diplomatica e politica, intenta a procurare una federazione toscana con la guida fiorentina. Tutto lo conduce, pur movendo dal sospetto verso quella cultura «fratesca» (e con le stesse parole, fino ai prosecutori illuministici di quell’umanesimo, nel Settecento e nell’Ottocento, la cultura italiana dichiarerà di tenere in sospetto Dante teologo), a intendere quella grandezza umana; e se non supera il dualismo di dottrina e di poesia, prima scendeva, ora risale: prima, con gli altri umanisti, gli uni irridendo, gli altri compiangendo, rompeva l’unità dello spirito dantesco per sgombrare il campo verso la nuova cultura archeologica e storica, e verso una filologia che soppiantava la filosofia, e tralasciava Dante; ma ora, movendo verso un riacquisto dell’unità di scienza e di sapienza, ritrova Dante: Lo studio suo principale fu poesia, non sterile, né povera, né fantastica, ma feconda e arricchita e stabilita da vera scienza e da molte discipline.2

Tale il tema apologetico che attinge di Dante: l’aveva ricollocato sopra un piedestallo. Ma di contro alla sua indipendenza di giudizio (che lo fa caposcuola dell’umanesimo fiorentino, e promotore di quella conciliazione che offrirà il terreno più fecondo alla fioritura del secondo Quattrocento, capace finalmente di superare il divario polemico che irretiva gli umanisti meno generosi), i «detractores» di Dante hanno a lungo buon giuoco. Si tratta di un atteggiamento 448

spicciolo, ben inteso; e forse nessuna apologia esplicita valse più di questo fatto: che chiunque si metteva a ragionarne, movesse pure da una presunzione risoluta, a un certo momento deve dimostrarsi, se non dichiararsi, toccato. La parola volgare, che pure in questi umanisti era la lingua materna, con tutto ciò che questo comporta, anche in gente orgogliosamente spiritualeggiante, e per questo disposta a rifiutare per il platonismo il naturalismo degli aristotelici, giungeva a loro necessariamente carica di reminiscenze dantesche: per liberarsene non hanno che da accentuare l’accademismo, e rifugiarsi nel ciceronismo di stretta osservanza. Chi di loro si dichiara più sciolto dall’imitazione, quello, come Coluccio Salutati, come Poggio Bracciolini, rimpiange che Dante non abbia scritto in latino: che avrebbe eguagliato Virgilio ed Omero.

Sussidio dell’intelligenza fiorentina Di fronte ai «detractores» e alla loro ciarla disinvolta, ma significativa, esisteva una forza autentica: la tradizione fiorentina; ma sarebbe meglio dire l’intelligenza fiorentina, per quel ch’ebbe di difesa concreta di una realtà di fatto, la nuova cultura, al di fuori delle codificazioni dottrinali e scolastiche: toccò infatti all’intelligenza fiorentina di impedire un assurdo ritorno al passato, e quella idolatria delle forme antiche che avrebbe definitivamente sostituito la pedanteria della stretta osservanza filologica e grammaticale e lessicale alla sistemazione medioevale, condotta su uno schema intellettuale e gerarchico. Sia che considerasse la cultura antica, sia che considerasse Dante e la cultura moderna, la tradizione fiorentina non si dimenticava mai di quel processo di acquisto che la «nobile figliuola di Roma» aveva perseguito per guadagnarsi la sua dignità; e i volgarizzamenti erano stati il segno più evidente di questa volontà; e Brunetto Latini un consapevole mediatore verso l’universalismo enciclopedico; e Dante stesso aveva rifatto attuali gli uomini e le forme dei tempi antichi con una evidenza ignota: i grammatici vivevano dell’entusiasmo di quel ritorno, «l’ombra sua torna ch’era dipartita». Il Dante letto a dovere (e la prima condizione per leggerlo era appunto di abbandonarglisi; cosa che i fiorentini potevano fare meglio d’altri, come partecipi di una tradizione in cui s’inseriva il poeta) rivelava abolito il divario fra gli antichi e i moderni, e che tutti si erano mossi, in sogno o lungo una disciplina ascetica, verso quel Paradiso Terrestre vagheggiato in Parnaso dagli antichi; e che le forme della poesia antica riecheggiavano nel nuovo verso: quando dicesti: Secol si rinnova, torna giustizia e primo tempo umano, e progenie discende dal ciel nuova…3

in una traslazione che serbando l’andamento ieratico delle antiche parole vi univa lo slancio inquieto della primavera. Così da Brunellesco a Donatello si riscopriva l’attualità piena delle antiche forme musive: non archeografi, ma poeti; non catalogo di forme inerti ma reviviscenza verso la perenne attualità del passato. 449

Così dietro il filologismo umanistico, pur deviato verso il culto dell’eccellenza e la presunzione di una inattingibile perfezione antica, andava lentamente chiarendosi la sfera della storia. Meno importa l’errore della concretezza umanistica, che dopo essersi lasciata guadagnare dall’idea della pienezza dei tempi cristiani, e avere inteso che la conciliazione dantesca fra l’antico e il nuovo era una specie di riscatto mediato ab aeterno, disposto nel tempo e perciò vincolante il tempo tutto quanto verso la pienezza dei tempi, si irrigidisse in sé, si postulasse sufficiente, e lasciasse decadere e affondare nell’ombra propria la condizione prima del riacquisto, la filosofia dei secoli cristiani. Il Dante letto a dovere lasciava sussistere il dualismo provvisorio del metodo umanistico e della filosofia tradizionale, finché l’unità intrinseca della vita storica «rivelata» dal cristianesimo anche per i tempi anteriori a Cristo, percorsi dalle profezie delle Sibille a paragone con le profezie dei veggenti d’Israele, si dichiarasse finalmente: quasi negando, nella generalità della vita umana, l’ordine inderogabile del tempo. Così la cultura fiorentina celebrava, anche in questo minor capitolo della fortuna di Dante, il suo assunto: ch’era di respingere il sospetto di un ritrovamento meramente filologico e catalogico degli antichi, riletti senza frutto dai moderni, ed egualmente la tentazione di interrompere la vita moderna nel culto idolatrico degli antichi. La prima proposta è dunque dualistica: lasciar Dante alla favola e venerare la sapienza nel culto della dottrina, perseguendo le vestigia dei classici; ma quando ci si avvede quanta vita del tempo e d’oggi si riassume in Dante, e quanto degli antichi si ritrova nella persistenza delle forme, o nella loro possibilità d’essere rivissute, allora si intravvede una soluzione storica del problema, o si chiama la storia a confermare la concretezza del vivere attuale. In questa direzione accorre Leonardo Bruni.

“Dialoghi ad Petrum Histrum” Gli uni affermavano dunque che se Dante avesse scritto in latino sarebbe riuscito poeta tale da venire a paragone con Virgilio ed Omero; e su questa traccia s’era messo, penso, l’autore della novella di Dante al monastero di Santa Croce del Corvo, con la finzione di una Commedia prima scritta in latino: Ultima regna canam fluida contermina mundo, spiritibus quae lata patent, quae premia solvunt, pro meritis cuicumque suis etc.

Ma altri, dovendo a un certo momento riconoscere l’innegabile efficacia della poesia di Dante, eran tratti a capovolgere il contrasto a favore del volgare. E qui giunge l’Aretino. Il suo primo intervento è nei Dialoghi ad Petrum Histrum, dove la preoccupazione maggiore è di evitare la formazione di una coscienza classica, quasi di un culto, intorno a Dante. Non per nulla uno degli interlocutori, il Niccoli, insorge contro i “triumviri” del volgar fiorentino, Dante Petrarca Boccaccio. La sua inquieta sete, capricciosa di cose remote e rare, sdegna quella che gli sembra condizione mediocre e cittadina; e l’erudizione grammaticale e 450

preziosa aborre da quel dettato dantesco latino in cui la grammatica è una tradizione, non una ricerca documentata. Egli non ammette che si discuta d’altro che dell’eccellenza del latino, ed è contro la scarsa conoscenza del latino che più s’impunta; che Dante sia poeta di calzolai e di fornai, questo era un argomento politico che egli doveva, in Firenze, lasciarsi scappare con una certa cautela, se glielo rimproverano i suoi avversari: Cino Rinuccini dell’Invettiva contro certi calunniatori di Dante e del Petrarca e del Boccaccio, e Francesco Filelfo; e anche questo è segno, se ce ne fosse bisogno, che Dante è sentito, anche nel colmo della egemonia culturale degli umanisti grammatici, come termine d’eccellenza per la vita volgare e gloria cittadina. Se c’era d’andar gridando qualcosa nelle piazze, era questa o quella discussione grammaticale e prosodica e filologica capace di lasciar stupefatti, senza muover lo sdegno di chi aveva tutto il diritto di chiedere alla poesia una immediata rispondenza di suggestioni.4 E nel primo dei Dialoghi del Bruni, il Niccoli insiste sui «loci communes» dell’«idiozia» dantesca che giungeva a interpretar male il famoso quid non mortalia pectora cogis auri sacra fames; che fa di Catone, morto a quarantanove anni, un vecchiardo; che condanna il tirannicida Bruto Secondo allo strazio di Lucifero, e mette nella gloria del Nobile Castello Bruto Primo, ribelle al suo re legittimo: appunto opponendosi, dall’alto di una mentalità che finge universalmente riconosciuta, alla mentalità sorpassata di Dante e del suo tempo, all’arbitrio delle letture deviate verso strani sensi contraddittorii, delle rievocazioni in stile oratorio, delle sovrapposizioni. Nello sfondo resta sempre, non toccata, l’opposizione alla dignità della cultura volgare: ché i novatori attaccavano, con Dante, anche Petrarca e Boccaccio; ma nel secondo dialogo, con una svolta anche troppo repentina, lo stesso Niccoli è introdotto a far l’elogio di Dante, dopo che si son rifiutati a ciò Coluccio Salutati e l’estensore, Leonardo Bruni. Una palinodia, insomma, che nella stessa disinvoltura della ritrattazione lasciava la questione impregiudicata. Che peso darle? Era vecchia gherminella, questa; e di serio aveva, in chi fosse poeta, solo l’affermazione indiretta che la fantasia del poeta si serve dell’occasione contenutistica, non le serve. Bene per un poeta; ma Niccolò Niccoli non è poeta; dir quel che ha detto, fingendo di prendere in trappola il savissimo avvedutissimo Salutati, e poi prorompere in un elogio spampanato, diventa esercizio retorico e sofistico. E qui rimarrebbe la questione, irrimediabilmente aperta e controversa, se proprio non importasse vederci la testimonianza di un dubbio dell’autore stesso, Leonardo Bruni: per il quale, evidentemente, hanno giusto peso le ragioni pro e le ragioni contro, senza che si possa, in quella diversità di giudizio, trovare una conciliazione. Egli dunque muove a cercare il terreno dell’intesa, e un giudizio spassionato. Lo troverà nella presenza storica di Dante.

Dante e Petrarca nel pensiero del Bruni Una preoccupazione scientifica, dunque, sussunta da un’intenzione politica: l’apologia della cultura fiorentina, e la documentazione di una splendida intimità di vita cittadina e di poesia. Nella vita parallela di Francesco Petrarca, che 451

lo storico dispone accanto a quella di Dante, egli è spirito troppo libero per regolamentare i modi dell’intervento di un poeta in una civiltà, e per lodare quelli di Dante, ad esclusione di ogni altro; e poi, siamo in un periodo di equilibrio, e la polemica fra classicizzanti e volgarizzanti, che aveva avuto nel Niccoli un assertore tumultuoso, si è ormai quietata (anche Lucula Noctis è un episodio che nonostante qualche asprezza vale a muovere gli animi verso una accettazione equanime delle due culture; anche il circolo del convento di Santo Spirito lavora in questo senso: forse non con altra intenzione che di offrire un luogo per un libero dibattito, e l’intesa ne sarebbe prima o dopo venuta). Leonardo Bruni può pertanto lodare nel Petrarca il fondatore dei nuovi studi umanistici e lodare in Dante il grande poeta e il dignitoso cittadino: pausa e sosta, nella polemica, accettazione volenterosa di entrambi i canoni, e insomma uno scadere della preminenza dell’umanesimo filologico, se a questa fase di equilibrio subentrerà alla fine del secolo l’avvento della classicità del volgare; il circolo culturale politico di casa Medici seguirà, mutando lui pure, questo mutar della situazione. Due parti sono nella lingua latina, cioè prosa e versi; nell’una e nell’altra è superiore il Petrarca, perocché in prosa lungamente è più eccellente, e nel verso ancora è più sublime e più ornato che non è il verso di Dante, sicché in tutta la lingua latina Dante per certo non è pari al Petrarca. Nel dire volgare il Petrarca in canzone è pari a Dante; in sonetti il vantaggia: confesso niente di manco che Dante nell’opera sua principale vantaggia ogni opera del Petrarca.

Il calcolo computistico non potrebbe essere più equanime; né più precisa l’indicazione su cui si doveva mettere la politica letteraria del Cinquecento; né più irresoluto il problema di quella solitaria strapotenza della Commedia: quando che fosse, lasciato il dare e l’avere, si poteva sempre tornare a lei. Similmente per il ritratto di Dante, che precede il parallelo delle poetiche, la simpatia dell’autore va senza dubbio al primo poeta: Che Dante nella vita attiva e civile fu di maggior pregio che ’l Petrarca, perocché nell’armi per la patria e nel governo della repubblica laudabilmente si adoperò […]. Oltre a questo Dante in esilio e da povertà incalzato non abbandonò mai i suoi preclari studi, ma in tante difficoltà scrisse la sua bell’opera.

Ancora: In scienza di filosofia e nelle matematiche Dante fu più dotto e più perfetto, perocché gran tempo gli diede opera, sicché il Petrarca in questa parte non è pari a Dante. Per tutte queste ragioni pare che Dante in onore debba essere preferito.

Ma «volgendo la carta» altro discorso si può fare del primato del Petrarca, benché rimanga indubbia la simpatia dell’autore a chi vada. E questa simpatia par mossa dall’amore per la vita civile e per una condizione umana che non si sottragga a nessuna delle proprie leggi; curioso che vi aggiunga un affetto quasi 452

idillico: a considerar le vite parallele e a ripercorrerle in volgare, dice di essere mosso da un desiderio di riposo dopo studi faticosi: «Mi venne appetito di volere, per ristoro de lo affaticato ingegno, alcuna cosa volgare». Ma la cultura eroica ed oratoria era naturalmente la cultura classica. A cercare il conformarsi della cultura volgare alla cultura classica, egli si oppone al novellismo del Boccaccio; e innalza Dante, osservandolo partecipe di grandi vicende, e combattente per la patria: che era regola ed onore del vivere cittadinesco, nonché moralità antica: Dante virtuosamente si trovò a combattere per la patria in questa battaglia: e vorrei che il Boccaccio nostro di questa virtù più tosto avesse fatto menzione che dell’amore di nove anni e di simili leggerezze che per lui si raccontano di tanto uomo. Ma che giova a dire? La lingua pur va dove il dente duole, ed a cui piace il bere, sempre ragiona di vini.

Similmente, è moralità cittadina, e moralità antica, fondar la famiglia; e contro il misoginismo del Boccaccio (e degli umanisti) Leonardo può dimostrarlo: E Marco Tullio, e Catone, e Seneca, e Varrone, latini sommi filosofi tutti, ebbero moglie figliuoli ed offizi e governi nella Repubblica. Sicché perdonimi il Boccaccio, i suoi giudici sono molto frivoli in questa parte e molto distanti dalla vera opinione. L’uomo è anima civile, secondo piace a tutti i filosofi: la prima congiunzione, della quale multiplicata nasce la città, è marito e moglie; né cosa può esser perfetta, dove questo non sia, e solo questo amore è naturale, legittimo e permesso.

Fin qui l’opposizione a Boccaccio, benché rispettosa tanto; ma l’intenzione del suo ritratto va ben oltre: tocca una fase politica ed una fase poetica. La fase politica si ricollega al già detto, alla lode di Dante combattente; ma lo storico di Firenze rilega per la prima volta e per sempre alle vicende fiorentine la vita di Dante con una chiarezza memorabile di visione e di documentazione. Equo giudice della ormai remota, ma pur sempre dolorosa, contesa di parte, egli assiste come a tragedia a quelle vicende di ingiustizie e di lutti: il confino delle parti avverse, il richiamo dei Bianchi, la falsa scrittura della presunta congiura dei Bianchi, l’ambasceria a Roma, il sacco e il bando, la lega dei fuorusciti, le lettere dell’esilio e i tentativi di ribandimento, le speranze alla venuta d’Arrigo: Pure il tenne tanto la riverenza della patria, che venendo lo ’mperadore contra Firenze, e ponendosi a campo presso la porta, non vi volle essere, secondo esso scrive, con tutto che confortator fusse stato di sua venuta.

E termina con un’elegia severa, la morte dell’esule. Questo il ritratto storico: affanni suoi pubblici, stato domestico, suoi costumi e studi.

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Il ritratto ideale E poi il ritratto ideale del poeta; Leonardo, pur con quel suo arguto e fermo ingegno, non rinuncia certo all’enfasi umanistica: chi più grande dei tre grandi di Firenze? E la trasfigurazione dantesca del poeta aveva pur sollecitato l’umanesimo fiorentino a veder nei poeti antichi il segno di una presenza sovrumana, la rivelazione di un tempo più grande, il presagio dei figli di Dio. Egli formula l’allegoria del poeta, ne tratteggia una figura oratoria, ne campisce un volto emblematico; l’umanesimo romantico avrà ben altro coraggio nel tentare il segreto e la verità concreta di quell’eccellenza attraverso il testo poetico: per ora questa ambizione umanistica si contenta di additare la meta; anzi, a tentar di gettare un ponte fra la presenza divina e la concreta operazione umana, fra l’ispirazione e lo studio, egli divide in due gruppi i poeti: poeti ispirati e poeti riflessivi; in questa seconda categoria pone Dante. Nota, ancora, che a chiarire il rapporto fra i due egli stabilisce un raffronto significativo, benché proverbiale, fra la santità ispirata di Francesco d’Assisi e la disciplina scolastica di monaci e di teologi: un raffronto acuto, senza dubbio; ma si proponeva così facendo più di un tema d’indagine: l’idea di una poesia ispirata, gratuita, anzitutto, e di una presenza poetica che soverchia e oltrepassa gli accorgimenti predisposti; e, per il giuoco delle immagini contigue, il richiamare in qualche modo la poesia volgare a quella prima origine santa: il mito di Orfeo, con il suo senso parallelo, la rincalza. E per darmi ad intendere meglio, dico che in due modi diviene alcuno poeta. Un modo si è per ingegno proprio agitato e commosso da alcun vigore interno e nascoso, il quale si chiama furore ed occupazione di mente. Darò una similitudine di quello che io voglio dire: il beato Francesco non per iscienza né per disciplina scolastica, ma per occupazione e astrazione di mente, sì forte applicava l’animo suo a Dio, che quasi si trasfigurava oltre il senso umano, e conosceva di Dio più che né per istudio né per lettere cognoscono i teologi; così nella poesia alcuno per interna agitazione e applicazione di mente poeta diviene, e questa è la somma e la più perfetta spezie di poesia: e qualunque dicono i poeti esser divini, e qualunque li chiamano vati, da questa astrazione e furore che io dico, prendono l’appellazione. Gli esempi li abbiamo da Orfeo e da Esiodo, de’ quali l’uno e l’altro fu tale, quale di sopra è stato da me raccontato; e fu di tanta efficacia Orfeo, che e ’ sassi e le selve moveva con la sua lira; ed Esiodo, essendo pastore rozzo e indotto, solamente bevuto l’acqua della fonte Castalia, senz’altro studio poeta summo divenne; del quale abbiamo l’opere ancor oggi, e sono tali, che niuno de’ poeti letterati e scientifici lo vantaggia. Una spezie, adunque, di poeti è per interna astrazione ed agitazione di mente; l’altra spezie è per iscienza, per istudio, per disciplina ed arte e prudenzia; e di questa seconda spezie fu Dante: perocché per istudio di filosofia, teologia, astrologia, aritmetica, per lezione di storie, per revoluzione di molti e vari libri, vigilando e sudando nelli studi, acquistò la scienza la quale doveva ornare ed esplicare con li suoi versi.

Diresti che un attimo d’arresto sospenda la classificazione: o la presunzione d’aver risolto il problema del dualismo dantesco ancora una volta ci illude? Ed ogni lettura di poeta serba di là dagli accertamenti un’immagine segreta, dove trasferiamo ogni divinità di poesia. A difesa della nozione vulgata di Dante «Mi454

nerva oscura d’intelligenza e d’arte», come suonava l’epigramma dello pseudoBoccaccio, e suggeriva l’enciclopedia scientifica, Leonardo Bruni colloca Dante fra i poeti studiosi, fra i poeti di seconda intenzione; non però accetta di mescolarlo a quella turba di lettori di poesia che nei nuovi studi parevano accaparrarsi tutto il territorio della letteratura. Anzi, nei successivi paragrafi, dove procede all’inverso, separa la figura e l’opera di Dante dalle attività propriamente riflessive e pratiche, e lo risospinge in alto, attraverso lo studio, a quella divina eccellenza di dove con la prima classificazione sembrava averlo detratto: Per aver detto insino a qui, conosco che non sarebbe inteso il dir mio; sicché più oltre bisogna aprire l’intelletto. Dico adunque che de’ libri e delle opere poetiche alcuni uomini sono leggitori dell’opere altrui, e niente fanno da come addiviene al più delle genti; altri uomini sono facitori d’esse opere, come Virgilio fece il libro dell’Eneida, e Stazio fece il libro della Tebaida, e Ovidio il libro Metamorphoseos, e Omero fece l’Odissea e l’Iliade. Questi adunque che ferno l’opere, furono poeti, cioè facitori di dette opere, che noi leggiamo; e noi siamo i leggitori, ed essi furono i facitori. E quando sentiamo lodare un valente uomo di studi e di lettere, usiam dimandare: «Fa egli alcuna cosa da sé? Lascerà egli alcuna opera da sé composta e fatta? […]». Fare opere non si dice se non in versi; e questo addiviene per eccellenza dello studio, perocché le sillabe e la misura ed il suono è solamente di chi dice in versi: e usiamo di dire in nostro vulgare: «Costui fa canzone e sonetti»; ma per iscrivere una lettera a’ suoi amici, non diremo ch’egli abbia fatto alcuna opera. Il nome del poeta significa eccellente ed ammirabile stile in versi, coperto ed adombrato da leggiadria ed alta finzione […]. Or questa è la verità certa e assoluta del nome e dell’effetto de’ poeti; lo scrivere in stile letterario o vulgare non ha che fare al fatto, né altra differenza è se non come scrivere in greco od in latino.

Dignità del volgare Batteva così in breccia, e sia pur con avvedutissimi modi e con alta cortesia, il costume della società letteraria umanistica, dove il merito dell’officiatura filologica aveva altrettanta efficacia che la grazia divina; e lo scambio epistolare (se vi allude) stabiliva rapporti e codificava riflessioni che parevano avere importanza superiore ad ogni altra. Né si spaventa di adottare propositi e termini e ragioni del buon senso volgare nel distinguere l’opera creativa dall’opera commentatizia o storica. L’ultima frase riportata compie l’ultimo passo, e butta all’aria l’idea del primato del latino sopra il volgare: ai fini della creazione poetica scrivere in greco, in latino, in volgare è la stessissima cosa: Ciascuna lingua ha sua perfezione e suo suono, e suo parlare limato e scientifico; pur, chi mi domandasse per che cagione Dante piuttosto elesse scrivere in vulgare che in latino e litterato stilo, risponderei quello che è la verità, cioè che Dante conosceva sé medesimo molto più atto a questo stilo vulgare ed in rima che a quello latino e letterato.

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Petizione di principio o appello alla natura? Se uno scrittore dice qualcosa nei suoi movimenti interni, se palesa un segreto più fecondo, talvolta, soprassalendo al suo stesso proposito, questo è il caso del segretario della Repubblica quando parla di Dante. I limiti predisposti son lì ben chiari: superamento del novellismo boccaccesco, come abbiamo notato; accettazione della dignità dottrinale di Dante, che a nessuno veniva in mente di respingere, a conferma della dignità cittadinesca e della storia del Comune; infine, quando si tratta di offrire una valutazione complessiva, un giudizio di valore, che non può essere che giudizio estetico, si trova davanti il muro di una critica insufficiente; e fa tranquillamente quella proposta della dignità del volgare, capovolge i canoni accettati dalla cultura umanistica. Nota, ancora, che vi arriva riconoscendo la naturale attitudine di Dante al poetar volgare; che una stagione naturalistica aristotelica che sia o scolastica, filosofica come nel Pomponazzi o letteraria come nel Folengo, sopravvenga, e l’idealismo platonizzante e astrattizzante degli umanisti filologici sarà sconfitto, sopravvivendo al più nel conformismo della sintesi classico-cristiana proposta dalla cultura pontificia: dove anche a Dante sarà fatta una decorosissima parte. A una proposizione così impegnativa Leonardo Bruni non par si sia mosso deliberatamente: vi giunge per il cammino disposto, tuttavia, e una volta accettata la dignità della figura storica di Dante. Tanto valeva riconoscere la dignità storica del volgare, ormai: a distanza di un secolo dalla morte del poeta, farlo significava introdurre una misura di tempo e stupire che ne fosse passato tanto, e constatare che quella poesia durava. Si poteva anche intravvedere un parallelismo fra la storia politica e la storia letteraria, per questa via. Tanto valeva, più in là della stessa condizione ambientale che lo storico frequentava volentieri, cercare nel poeta una legge e una forza di natura, e la sua grandezza nell’averle obbedito. E ritrovare per questa via quella grandezza di investitura divina, quel dono di grazia, che ancora non sembra disposto a riconoscergli, quando esemplando su Francesco d’Assisi i modi di una spiritualità immediata e rapita, vede in Dante la fatica di una verità conquistata, anzi che divinamente donata dall’alto.

Cristoforo Landino Cinquant’anni dopo il Bruni, e quando la signoria medicea si era ormai affermata come capace di riassumere in sé tutta l’eredità della vita fiorentina, Cristoforo Landino presentava alla signoria il suo Commento: in un’edizione superbamente adorna delle illustrazioni di Sandro Botticelli.5 Di queste vedremo più tardi: ché ci tocca seguire anche argomenti esterni per guadagnare successivamente il senso della partecipazione complessa, e del riflettersi del tempo nuovo nell’opera che l’aveva creato; ma l’offerta significava il ritorno dell’esule; e concludeva il proposito espresso dal Boccaccio nella Vita di Dante, quando rimproverava a Firenze di lasciarlo in esilio. E le tappe di quel ritorno erano state, idealmente, la lettura del Boccaccio in Santo Stefano di Badia e l’apologia politico-poetica di Leonardo Bruni; ed ora il commento del Landino, che riaffacciava Dante 456

alla nuova cultura, e se non ne faceva dipendere, storicamente, tutta la vita, pure dimostrava un accordarsi, in lui, di quanto il pensiero era venuto via via maturando. Riacquisto filosofico e riacquisto poetico: anzi, con la presenza di Sandro, riacquisto di tutta la nuova cultura, nel suo senso più vasto e profondo, che vi si riconosce. Tanto Cristoforo Landino che Marsilio Ficino dichiarano l’intenzione: ritorno dall’esilio6 e adempimento del voto del poeta: «Se mai continga…». E s’accordano alla politica del Magnifico Lorenzo, intenta a fondar culturalmente una spirituale egemonia fiorentina in una Italia federata: la fortuna di Dante a Ferrara, da Leonello d’Este a Tito Vespasiano Strozzi, dimostra quasi la necessità di far presto, nell’apprestare tal riconoscimento solenne; prima che i papi medicei trasferiscano a Roma il primato fiorentino, Ferrara era l’altra capitale d’Italia capace di una parola nuova. E se, ripetiamo, è estraneo alle loro preoccupazioni, di tanto quanto è presente nelle nostre, storicistiche, stabilire quanto del nuovo è dovuto a Dante, e annodare alla Commedia l’alta ventura dell’arte e del pensiero di Firenze lungo due secoli, basti che l’accettino contiguo, che dalla presentazione dei poeti, fatta da Lorenzo a Federico d’Aragona, a questo commento, la presenza di Dante sia rassicurata. Nel sincretismo politico del Magnifico, in quel suo non lasciar perdere nulla, e tutto accogliere trascolorando nella vaga malinconia di una morte giovane, di una fine prematura, di un prossimo tramonto nel fiore della bellezza, l’onore fatto alla Commedia è, naturalmente, onore fatto a Firenze: atto politico, dunque, benché di una politica così disinteressata e animosa e personale da sembrare atto di pura contemplazione poetica. Eletto, all’opera, Cristoforo Landino; e nessuno più indicato di lui, se si sapeva, come si fece, chiamare ben altre forze a sostenerlo nella sua opera di commentatore pedissequo: le forze di Sandro appunto e di Marsilio, l’invenzione dell’arte, giunta al suo fiore e alla sua sera, e la speculazione filosofica.

Il platonismo del Commento Sincretismo culturale ed intenzioni politiche abbastanza evidenti; ma soprattutto, confrontandolo con la vulgata cinquecentesca che si paleserà di lì a poco, il riassunto addottrinato del Landino non rinunzia ad una dichiarazione platonizzante:7 dovuta, tale dichiarazione, ad una accettazione inerte? al fatto che, predominando il platonismo, questo predominio doveva e poteva rispecchiarsi anche in un’opera venuta su in diverso clima di pensiero? Due fatti contraddicono la facile ipotesi: prima di tutto che una cultura organizzata ha bisogno di accogliere più che di respingere, ed era compito di tutta un’ala della filosofia fiorentina del Quattrocento assorbire nell’intelligenza platonizzante ogni aristotelismo, forse ogni naturalismo, tutt’altro che spento là intorno, se pur relegato allo scopo subsecivo della vacanza, della poesia dilettantesca: quindi Dante, che di quell’aristotelismo scolastico era stato il più vulgato assertore, e del realismo artistico fiorentino il promotore più forte. L’altro era che il Landino accettava di accordarsi con tali intenzioni solo fino al punto che concordavano esse con 457

lui, con il suo itinerario intellettuale, con la sua maturità d’intelligenza. Ora il Landino si era mosso fin dai suoi primi tempi proprio su questa via delle conciliazioni: con tanta sincerità pieghevole ad accogliere che non c’era zona delle parti avverse che, osservata dalla sua docile intelligenza, non colorasse di qualche riflesso il suo dire. Quando c’era stata battaglia fra la vecchia e la nuova scuola umanistica intorno al suo nome, ed aveva vinto lui, naturalmente accomodante, contro il rigore filologico dei novatori, ne aveva portato un’attenzione ai fatti verbali, della quale più di una traccia è nel commento; e dopo che alla cultura di Cosimo, arcaico e platonizzante, sottentrò la cultura dei tempi del Magnifico, che intese classicismo e platonismo come motivo di una personale reviviscenza, che colorì di un risentimento lirico l’avventura umanistica nei regni della sapienza, egli se ne valse per ritrovare nel poema stesso di Dante questa molteplicità di attenzioni che la sollecitavano. Anche dell’allegoria che leggeva nell’Eneide (un’allegoria così generica, del resto: il viaggio di Enea è il viaggio dell’uomo dalla vita dei sensi, con suo danno precaria e distratta, alla vita integra, cui s’affaccia dopo altre illusioni, preminente quella politica, vita di rigorosa contemplazione dell’Essere; e che poteva ritrovarsi un po’ dovunque: un’allegoria sussunta a ritroso dalla Commedia, infine) egli si vale per circondare di una cornice di decorosa meditazione la sua operosità; dalle seduzioni di un emblematismo rigoroso non si lascia attrarre: è lontano dal concettualismo araldico della scuola ferrarese, lontano dalle vibrazioni fantastiche intorno alle immagini allegoriche, della scuola veneziana: due soluzioni che la lettura di Dante matura, ma che gli rimangono indifferenti. E infine il viaggio di Dante all’Empireo gli consente, sulle orme di Marsilio Ficino, di capovolgere in platonismo anche il frutto del realismo aristotelico. Ma nella interezza della vita culturale fiorentina del Duecento, l’arte, che è sintesi del reale e dell’ideale, anzi la poesia, nella sua prima espressione letteraria, fondando una civiltà che poi era stata integrata in ogni sua forma di figura e di musica, aveva proposto un motivo convergente al moto idealizzante che si identificava nel platonismo e al moto realizzante che si identificava nell’aristotelismo: aveva indicato, anche con la teoria dell’intelletto attivo, quelle situazioni che organicamente dedotte consentivano una inquadratura platonizzante di tante forze e parole d’arte. Per il suo sincretismo egli era d’accordo, insomma, con gli antichi.

Il Magnifico Lorenzo D’accordo anche e soprattutto con le raccomandazioni che potevano venirgli dalla sua cerchia medicea; ma un monumento, anche un monumento erudito come il Commento, non si costruisce se non sopra solide basi di riferimenti attuali: beato si sentiva il Landino di avere accanto e sopra chi gli illustrava l’opportunità del suo accordo, chi poteva con una agevolezza suprema, ed una estrema sincerità, dare autorità politica alle voci che da tante parti movevano intorno a lui, esecutore fattivo di una volontà comune che moveva dalla concordia di una intelligenza armoniosa. Il Magnifico Lorenzo dei Medici, quando 458

nell’ottantuno il letterato fece il suo omaggio del Dante ridotto a miglior commento, definisce con quell’atto di politica letteraria una intenzione maturata a lungo; e dispone l’intenzione politica ad un atto di cultura; ma nelle Disputationes Camaldulenses era toccato a lui dimostrare la superiorità della vita attiva sulla contemplativa, e insomma limitare la cerchia della discussione filosofica, insieme orientandola. Anche in quelle, per il dato storico concernente la sua persona che è dato ritrovare dietro la messinscena del dialogo, egli fissa un punto di riferimento, e poi lascia che ciascuno si muova per suo conto: promotore di una libertà culturale, accetta una parte che non si disconviene alla responsabilità della sua persona politica, ma vuole anche lasciata indenne e franca la responsabilità della sua persona spirituale; e le voci che intorno a lui sorgono, un poco pur sempre gli appartengono: come è della Nencia e d’ogni altra opera che gli è attribuita; come è del compito delegato al Landino del Commento. Le sue predilezioni si muovono in altra direzione: per esempio, verso il Cavalcanti, che doveva parergli esemplare più complesso e natura più congeniale; più trattenuto in una sfera di suggerimenti sospesi, ed uomo più francamente audace: se è, almeno, da attribuire a lui, a un suo rapporto di lettura, a una simpatia maturata attraverso un confronto segreto, quel passo della lettera a Federico d’Aragona stesa forse dal Poliziano: non dubita il nostro onorato Dante padre appellarlo [Guido Guinicello] suo e degli altri suoi migliori che mai rime d’amore usar dolci e leggiadre. Costui certamente fu il primo da cui la bella forma del nostro idioma fu dolcemente colorita, quale appena da quel rozzo aretino era stata adombrata. Riluce dietro a costoro il delicato Guido Cavalcanti fiorentino, sottilissimo dialettico e filosofo del suo secolo prestantissimo. Costui per certo, come del corpo fu bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo, così ne’ suoi scritti, non so che più che negli altri, bello, gentile e peregrino rasembra, e nelle invenzioni acutissimo, magnifico, ammirabile, gravissimo nelle sentenzie, copioso e rilevato nell’ordine, composto, saggio ed avveduto: le quali tutte sue beate virtù d’un vago, dolce e peregrino stile, come di preziosa vesta sono adorne. Il quale, se in più spazioso campo si fusse esercitato, avrebbe senza dubbio i primi onori occupati.8

E loda sovra ogni altra la «lode» dell’intelletto possibile, la canzone Donna mi prega, fondazione, infatti, della cultura spiritualista fiorentina: quella, aggiungi, trascurata da Dante lombardo. Diremo che, onorato, resta nell’ombra? Sarebbe contraddire, in parte, quel che si intende dietro la predilezione manifestata per Guido: il quale aveva sospinto altrui per una strada; così tocca a lui, Lorenzo: esser presente, e quasi centro ideale di una intelligenza o di una armoniosa cerchia di poeti. Quanto al realismo (perché di quel realismo di Dante occorre ormai parlare, mentre si è definita, da lui e fuor di lui, una corrente culturale idealistica), egli lo utilizza nella parodia cittadina dei Beoni. Dalle arti apprende quel modo che pur da Dante era derivato, la figurazione esatta dei paesaggi e l’equilibrio non turbato della rappresentazione dell’uomo in un quadro di natura. Le sue predilezioni, i suoi gusti (e in un dilettante, anche grandissimo, i gusti hanno gran peso; ma era troppo accorto e animoso per lasciarli prevalere quan459

do fosse inteso ad un’opera politica) vanno nella direzione che la storia della sua poetica discopre; le indicazioni per il commento di Dante le rileviamo, pur nella lettera a Federico d’Aragona, muoversi in altro senso: nel senso di una difesa della dignità del volgare, in parte esemplata sulla rettorica di Dante, aggiuntavi la dignità anche dottrinale delle opere scritte in volgare. E però non pare che l’essere comune a tutta Italia la nostra materna lingua li tolga dignità, ma è da pensare in fatto la perfezione o imperfezione di detta lingua. E, considerando quali sieno quelle condizioni che danno dignità e perfezione a qualunque idioma o lingua, a me pare siano quattro […]. Quella che è vera laude della lingua è l’essere copiosa e abbondante ed atta ad esprimere bene il senso e il concetto della mente. […] E per quello che insino ad ora massime da Dante è stato trattato nell’opera sua, mi pare non solamente utile, ma necessario per li gravi ed importanti effetti che li versi suoi sieno letti, come mostra l’esempio per molti comenti fatti alla sua Commedia, da uomini dottissimi e famosissimi, e le frequenti allegazioni che da santi ed eccellenti uomini ogni dì si sentono nelle loro pubbliche predicazioni.

Stilemi danteschi nelle rime burlesche Questa, ch’è tutto sommato scrittura pubblica e politica, non rispecchia tanto l’opinione personale di Lorenzo (benché l’accento posto su Guido Cavalcanti abbia un peso) quanto la generale della cultura e dell’intelligenza fiorentina; e tiene d’occhio il complesso della fortuna di Dante con una singolare chiarezza: ultimo capitolo e quasi riassunto della fortuna fiorentina di Dante, filtrata nei canoni dell’intelligenza quattrocentesca (dignità oratoria di dettato e dignità dottrinale di contenuto), e introduzione alla fortuna del Cinquecento; cui importa la vulgata, cioè una medietà di memoria e di giudizio custodita in pace, perché non contesa, e nel silenzio feconda. E vedila in cerchio, quella fortuna, tornare a quella proverbialità ch’era stata il suo atto primo quando l’opera non era conosciuta per intero, e se ne stampavano (nella memoria) frammenti. Tale perenne divulgazione aveva troppo peso, nel proposito di una cultura fiorentina che diventasse italiana, perché un politico potesse trascurarla: quel politico stesso che nella cerchia più sua accettava i modi divulgati della poetica della Commedia per tratteggiare i ritratti eroicomici dei Beoni: L’altro che drieto vien con dolce riso, con quel naso appuntato lungo e strano, ha fatto anche del ber suo paradiso: tien dignità, ch’è pastor fiesolano, ed ha in una sua tazza devozione che ser Anton seco ha, suo capellano. Per ogni loco e ogni stagione sempre la fida tazza seco porta, non ti dic’altro, sino a pricissione. E credo questa fia sempre sua scorta,

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quando lui muterà paese o corte, questa sarà chi picchierà la porta, questa sarà con lui dopo la morte, e messa seco nel monimento, acciò che morto poi lo riconforte.

Anche il Boccaccio si serviva dei memorabili stilemi danteschi per i suoi versi; ma vi accorreva con una memoria impetuosa: nel circolo di Lorenzo intorno a quelle reminiscenze si scherza; e l’eleganza vuole siano accennate sì, non scoperte: palesarle con un’allusione più aperta significava degradar la terzina a fare il servizio del capitolo bernesco; e il canone della evidenza dantesca al giuoco dell’allusione grossa nel canto carnascialesco.

Postille al commento del Landino Ma Cristoforo Landino si trattiene; e se non sempre resiste alla tentazione di accorrere ad almanaccare sopra un indovinello, più spesso non turba il suo decoro, e passa oltre con un suo gesto di sussiego. Si impiccia in Pape Satan, per esempio: ché non può dimenticarsi degli spassi ermeneutici da filologo meno esperto, quello della prima maniera, avventurosa ed entusiasta: Pape est interiectio admirantis, che è voce che dimostra meravigliarsi, onde il sommo Pontefice, come cosa meravigliosissima tra’ christiani, è chiamato Papa. Adunque è a dire Pape Satan, come a dire oh Satan, et per mostrar maggior meraviglia congemina, cioè ripete le parole, dicendo due volte […] Et poi per dimostrar di dolersi dice Aleppe. Perciocché in Hebreo dicono Aleph, quello che i Greci dicono Alpha e i Latini A, et perché chi si duole usa questa interiezione Ah.

Scienza invero non peregrina né acuta; ma rinunziare a far festa, come tutti, dotti e indotti, intorno all’indovinello, non poteva: quanto all’interpretazione, era tradizione concorde, suggellata in quei termini del primo sincretista dei commentatori di Dante, l’Ottimo, e quasi da tutti seguita. Dove l’universale consenso glielo consente, nel passo parallelo di Nembrotte, è ben contento di passare oltre: «Queste parole niente significano, et posto significassino, non se ne può trar sententia intera». Cauto, insomma, e circospetto, specie di fronte agli enigmi forti, dove pur non rinuncia a ricingere il poeta di un alone di scienza astrologica (ma vedi che dice matematica): Io credo che il poeta, come ottimo matematico, avesse veduto per astrologia, che per l’avvenire avessero a essere certe rivoluzioni dei cieli, per la benignità delle quali abbi del tutto a cessar l’avarizia. Sarà dunque il veltro tal influenza, la quale nascerà tra cielo e cielo, o veramente quel Principe, il quale da tal influenza sarà prodotto.

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Si mette a una certa distanza dal testo e procura di porlo d’accordo col pensiero dei più. L’emblematismo del veltro gli sfugge; ma la cultura fiorentina ha perduto ormai da troppo tempo il gusto dell’arcano, ed ha ridotto il vigore della visione dantesca al canone dell’evidenza: e se gli ingenui che almanaccavano intorno all’enigma avvertivano inconsapevolmente quella forza anche poetica di suggestione, egli è attento a spiegare secondo una formula che tutti possono accettare, e con una modulazione culturale che tenga conto piuttosto del realismo scientifico e matematico dei suoi tempi che della forza invadente della sapienza dantesca. La chiosa non è dunque una scoperta: è propriamente un contorno elegantemente segnato al testo. È finito il disdegno degli intellettuali umanisti, e la celebrazione volgare, se pur prosegue, non potrà mancar di risentirsi di quest’accoglienza che fa al suo testo l’alta cultura. Certo scompaiono, nel commento landiniano, proprio quelle asprezze, quegli impulsi generosi, quel gusto del fantasticare sull’immagine, o invelenirsi nell’ira polemica, che aveva accompagnato sino allora la lettura, e che risorgerà intatto nell’Ottocento: l’antologia della letteratura volgare dell’Umanesimo non può fare a meno della Commedia, e il tentativo di conciliazione neoclassica del Certame Coronario è ben lontano; né si tratta di fare buon viso a cattivo giuoco, se la dignità dottrinale del testo sopravvive al di là della sua fortuna volgare: e infine questa fortuna è un elemento positivo nel giuoco della politica letteraria, o della politica senz’altro. Ecco dunque Dante riaccolto; ma raffinato, levigato alquanto, ammesso ricavando dal suo naturalismo quegli elementi spiritualizzanti che pareva aver dimenticati dopo le rime petrose, per ritrovarli nel Paradiso Terrestre, subito soprappresi dal violento allegorismo politico e liturgico. E il disegno di Sandro modella stilnovisticamente la processione degli emblemi.

Si è citato di sfuggita il saggio di V. ROSSI nel vol. D. e l’Italia del ’21: più ricca informazione elenca lo stesso autore nel suo Quattrocento: v. l’ed. del 1898; ma, più comprensiva, quella del 1933, Milano, «libro nuovo»: dal par. V, L’umanesimo e il volgare, sino alla fine dell’intero capitolo secondo, Il pensiero critico; e v. soprattutto a p. 106 Risurrezione dantesca intorno al 1440. Troppo inferiore al tema, pur nella nuova impostazione che gli assegna, tanto più vasta che il solito capitolo della fortuna, lo studio di R. MONTANO, D. e il Rinascimento, Napoli 1942. Le notizie sul Bruni si ricollegano alla Vita che ne tracciò Vespasiano da Bisticci e alla prima ricognizione storicamente fondata da C. MONZANI, in “Arch. Stor. Ital.”, n.s., V (1857). Il problema che ci tocca è coordinato, fra gli altri studi di E. Santini, nel saggio La produzione volgare di Leonardo Bruni e il suo culto per le tre corone fiorentine, in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, LX (1912). 2 Testo nelle Vite cit. del Solerti. 3 Pg XXII, 70-72. La parafrasi dantesca dell’Ecloga Quarta ha naturalmente valore e suggestione poetica: non intende solo celebrare in Virgilio l’annunzio cristiano; ma definisce i modi, quasi l’accento, di un ricorrente momento rinascimentale. 4 V. ROSSI, D. nel Trecento e nel Quattrocento, cit., p. 288. 5 Poiché il Landino si colloca riassuntivameme nel Quattrocento fiorentino, occorre a questo punto rimandare al bel libro di PH. MONNIER, Le «Quattrocento», 2 voll., 1901 che di questa corrente di cultura dà un quadro animato di vivacissima vita, cfr. II, pp. 440 per la 1

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caratterizzazione del Landino. E aggiungi Rossi, nella citata I ed. del Quattrocento, pp. 234 ss. e nella cit. II, pp. 333 ss. E ancora per il posto che assume nella polemica dantesca, il citato D. nel Trecento e nel Quattrocento. Per uno studio indiretto, ma non meno importante «fino a che punto egli sente Vergilio attraverso Dante, e come vedemmo or ora, anche attraverso i suoi commentatori» (p. 195) v., come spesso per gli altri argomenti toccati in questo capitolo, il I vol. dell’opera di V. ZABUGHIN, Vergilio nel Rinascimento italiano da D. a Torquato Tasso, Bologna 1921. Infine la ricerca che a tutt’oggi meglio inquadra le prospettive parziali: M. BARBI, Dalla fortuna di D. nel sec. XVI, Pisa 1890. 6 V. ROSSI, D. nel Trecento e nel Quattrocento, cit., p. 314. 7 G. GENTILE, prefaz. al terzo fascicolo dei dialoghi De nobilitate animae, Pisa 1915-17. Per un cenno che è nel testo, n. che i dialoghi sono dedicati al duca Ercole di Ferrara. 8 Dei problemi critici che si riconnettono all’epistola tratta direttamente C. TRABALZA, La critica letteraria, Milano 1915, p. 70 ss. e indirettamente il Barbi, studiando la Raccolta Aragonese di rime antiche, negli Studi sul Canzoniere di D., Firenze 1915, pp. 220 ss. È noto che l’epistola è attribuita al Poliziano dal Riccardiano 2773 (cfr. V. ROSSI, Il Quattrocento, II ed., p. 345); letteratura cancellieresca, comunque, data la carica, allora, del Poliziano: e la responsabilità politica nonché l’intenzione ne ricadono sul Magnifico.

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La vulgata cinquecentesca

Medietà della lettura del Cinquecento Il frutto più copioso del commento di Cristoforo Landino e delle accoglienze fatte dalla cultura umanistica fiorentina alla Commedia fu la vulgata cinquecentesca: quell’immagine media e diffusa, quel “ritratto” di Dante, divino e terreno, e quell’insieme di valori accettati, collocavano il poeta nel Parnaso italico senza togliergli nulla o poco della sua immediata rispondenza fra la gente. Vero è che Cristoforo Landino dava, come altre volte la cultura fiorentina, una consistenza e stabilità di riflessione letteraria ad una tradizione che aveva fatto cammino piuttosto fra le arti figurative, e soprattutto nella popolarissima fra quelle, la pittura, che nelle arti scrittorie; vero è che Dante partecipava ai riti dell’intelligenza rinascimentale e della sintesi classico-cristiana frescati da Raffaello nella Stanza della Segnatura, come poeta in Parnaso e come teologo nella Disputa del Sacramento; vero che, nello stesso tempo, l’energia del figurare e il canone, come più volte abbiamo detto, dell’evidenza erano passati nelle stampe popolari, e riecheggiavano nelle ottave dei cantastorie, di eredità fiorentina anche in terra lombarda; ma chi voleva informarsi sul poeta accettava il suo ritratto oratorio, e l’accoglieva in quell’aria di ricevimento ufficiale che gli era stata disposta per l’«offerta» del 1481. Anche i commenti ne dipendono, a cominciar da quello di Alessandro Vellutello (e non sono molti: si preferiva ristampare il Landino). Anche la polemica, quando vi s’indulge, è spesso uno scendere a paragone con l’accademismo landiniano: vedi la «sposizione» di Lodovico Castelvetro. Parte per se stesso fece il Gelli, che maturò assai riflessivamente quella custodia dantesca che una popolarità inveterata e cauta amava. Anche le vite di Dante sussistono fondate e ripetute sulle linee fissate dalle biografie del Boccaccio e del Bruni, complementarmente intese, e si rifanno ancora all’epitome del Landino: la romanzatura retorica che tentava il figlio del Filelfo, Giovanmario, non valse che a confermare, nel contrasto, la serietà di quei propositi. Predomina, in ogni direzione, il senso dell’equilibrio e il riposo di un’immagine ormai bene accetta. La stessa poesia, quando si rammenta di Dante, ne accoglie un allegorismo illeggiadrito e blando; né direttamente, del resto: le favole polizianesche, pur memori della Commedia, la ritrovano attraverso il linguaggio della pittura e della scultura; e le allegorie ariostesche, troppo divertite nel giuoco delle rispondenze misteriose e nell’eleganza che riesce a far dimenticare persino i doppisensi corrivi, ritrovano l’incanto e l’arte della Femmina Balba attraverso l’allegorismo della pittura ferrarese e veneziana. Dante è nel comun discorso dei letterati: un’opera che non si può ignorare, per debito di creanza e di cultura; ma non cercato 465

nell’intimo, non incontrato col senso che un destino ne dipenda. Né diremo che si sospendesse, per questo, l’efficacia della lettura: ogni poesia è tale che la si riguadagna poco o tanto, pur che la si legga, ed anche innavertita opera nel profondo; la medietas in apparenza indifferente, pur nella reverenza, della lettura del Cinquecento, sgombra il terreno: e nell’apparente deserto dell’età barocca prepara la solitudine all’incontro di Vico coi mostri e i miti dell’età dantesca.1

Il paragrafo dantesco di ogni letterato cinquecentista Da tale immagine vulgata, da una lettura scarsa, ma aperta e non pregiudicata, vengono le reminiscenze e i temi danteschi di quella letteratura: come non era stato nel Quattrocento, come non sarà perfino nell’Ottocento, si può puntualmente aprire il paragrafo dantesco per ogni letterato, piccolo o grande che sia; né più per i grandi che per i più piccoli, come nell’Ottocento: segno anche questo di una lettura corrente; e se le statistiche delle edizioni, a tentar di dare il grafico della fortuna, parlano di frequenti edizioni petrarchesche e di scarse edizioni dantesche, anche questo può essere segno della medietà non mediocre della lettura di Dante. Il Peregrino del Caviceo riassumeva il gusto biografico e romanzesco in una cornice allegorica che lo rendesse gradito e adorno ai ceti aristocratici (fu infatti un approdo ferrarese, alla corte di Lucrezia Borgia); ma passato per quella stessa corte il Bembo, e imperando nella pubblicistica letteraria l’Aretino, non si cercò più l’allegorismo dantesco se non traverso l’allegorismo petrarchesco, come indica la Filena di Niccolò Franco: ché di un incontro dell’Aretino si può pure e si deve parlare. Gli stessi trattati d’amore, dietro i romanzi (e disporremmo qui un ordine, una scala, per una vicenda letteraria che si dimostra nonostante tutto più severa e più pensosa quanto più si allontana dai facili e falsamente squisiti conformismi della corte e del costume: il petrarchismo fu una lunga e ardua disciplina, imposta da una facile avventura letteraria; data la presenza normativa delle corti, in Italia, e la garanzia che esse davano alle forme vulgate, l’imitazione petrarchesca era a suo modo una assoluta ricerca, se non una ricerca dell’assoluto), tentano un compromesso platonico-psicologico più d’accento dantesco, che petrarchesco. Avrà il suo peso, in questo, il fatto che naturalismo, aristotelismo, e difesa di una concezione vulgata, che mira ad una elezione di vita, valendosi di soccorsi accolti da ogni parte, e soprattutto dalla umana convivenza delle città e delle corti, si oppongono al solipsismo spiritualistico del Petrarca: sant’Agostino declina nel linguaggio dei più; e la levità della fantasia, come il segreto delle attenzioni psicologicamente raccolte, è piuttosto cercato in una modulazione squisita della vita dei sensi, che in un doloroso transito dalla carne allo spirito. A cominciar dal trattato Natura d’amore di Mario Equicola, le disquisizioni rinascimentali sull’amore si rallegrano ad ogni passo di imbattersi in Dante sulla via per Platone. Bembo stesso, se molto prende a quel trattato, se può con suprema eleganza riportare i canoni ufficiali dell’amor cortese, sincretisticamente accolto dal costume cinquecentesco italiano, che non voleva rinunziare a quella gran moda amorosa, manichea che fosse o cattolicizzata, rincalza le sue letture platoniche e neoplatoniche, assai vaste, con un’arte 466

imaginosa ed emblematica che si ricorda di Dante: o forse se ne ricorda per lui, anziché l’autore stesso negli Asolani, Baldassar Castiglione nel Cortegiano; ma non è indice da trascurare, né una ricerca inutile sarebbe, veder quanto di dantesco ritrovi l’elegantissimo costumista mantovano (e perciò volgarizzante) nel maestro del petrarchismo. Naturale che i trattatisti più corrivi, quelli che tra i filosofemi di Leone Ebreo ed Il Raverta di Giuseppe Betussi optavano per il linguaggio vulgato dell’amor platonico, e preparavano quel curioso dualismo di cui dà così copiosa testimonianza la Commedia dell’Arte fra la pratica dell’amor profano e il linguaggio dell’amor sacro, si ricordassero dell’itinerario e del linguaggio dantesco: era insomma più vicino a loro.2 La stessa presenza dantesca potremmo ritrovare, dopo che nei trattatisti d’amore, negli allegoristi; qui il discorso meriterebbe più attenzione che di solito non si faccia: l’emblematismo, che è alla base del concettismo, e come tale essenziale a comprendere la cultura dell’età barocca, ha una storia troppo più densa di quel che si sia fin qui sospettato; scrittori come Marcello Palingenio e come Antoniotto Fregoso a torto si considerano sopravvissuti a una civiltà medievale od umanistica circoscritta nel Roman de la Rose o nel neoplatonismo: anzitutto perché la cultura italiana riesce a diventare europea facendo leva sopra l’impalcatura dottrinale che era sua come di tutta la società cortese d’Occidente; e il Roman de la Rose, nella sua duplice accezione, nel moto idealizzante della prima versione e nel moto profano della seconda, bastava a molto costume, e a opposte e complementari tendenze; in secondo luogo perché l’emblematismo è un fatto imponente della nostra cultura, e imprese, stemmi, e simboli, dal giuoco dei tarocchi alla pittura ferrarese, tengono uno spazio tanto grande che per minor cura è facile oltrepassarlo. Ma noi, per opportunità di esposizione, ed anche per obbedire ad un fatto statistico (l’emblematismo appartiene per grandissima parte alle arti figurative; ma è scarsissimamente raccolto dalla letteratura: benché non per nulla ancora il Castiglione inizi la sua commedia cortese con uno scherzo sopra una «impresa», e con un sonetto emblematico) ci ricorderemo di questa corrente seguendo la fortuna di Dante appunto nell’arti.3 Intorno alla Cerva Bianca del Fregoso Fileremo l’allegorismo tiene gran posto in quella letteratura: già l’abbiamo rammentato in Ariosto; certo la letteratura ne fa un motivo a sé, e la sua intenzione sensuale sbocca poi nel canto delle ninfe al giardino del palagio d’Armida; e la farà propria, sviandola in scenografia, Giambattista Marino. Qui basti la sottolineatura costante: di tanti fatti e correnti di politica letteraria e di costume gl’Italiani si rammentano attraverso Dante; e Dante è presente ad ogni passo della evoluzione storica di tali forme: come confermerà il passaggio dell’emblematismo barocco al mitologismo eroico in Giambattista Vico. Ma il riassunto delle frequentazioni letterarie dantesche nel Cinquecento lo offrono ancora i riassuntori autorizzati del canone letterario, il Bembo e il Della Casa: meglio in loro (con una fondamentale simpatia di stilista in questo, con una fondamentale riserva di gran politico della letteratura in quello) che nell’opere più proclivi al costume si legge quel che lì per lì il Cinquecento fosse disposto a davvero accogliere di Dante; un incontro, ripetiamo, non un culto, come nell’Ottocento, né un soggiacere ad una strabocchevole potenza, come nel Trecento.

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Il Gelli Ogni secolo ha il suo sectator Dantis e nelle zone amorfe dell’ombra si sperdono i dectractores (solo l’Ottocento vede la poetica vulgata del ritrovamento, e i lettori di Dante sono “popolo”: così favolando erano stati popoli greci il poeta Omero). Il riassuntore più pensoso e provveduto della vulgata dantesca del Cinquecento è il Gelli; ma anche in questo vedi la curiosa passività, il desiderio di riassunto, l’accoglienza decorosa ma non decisiva che fa il secolo al poeta: ché nonostante la ricchezza dei motivi che il lettore porta all’incontro, la lettura del Gelli rimane mediocremente efficace, e vale di conferma della generalità di un’ammissione, non di una nuova fortuna. Il Gelli contrappone all’astratta dignità letteraria dell’accademismo italiano la consistenza attenta e operosa dell’accademismo fiorentino: accademismo granducale, s’intende, dimentico ormai delle intenzioni filosofiche che l’accademia ficiniana proclamava, pur dimessamente atteggiandosi nella conversazione del Magnifico Lorenzo. Nell’ambiente fiorentino crescono eruditi illustri, s’intende; e basterebbe per tutti il grande Borghini, se ci toccasse lo studio e il catalogo dell’organizzazione scientifica della lettura della Commedia, anziché seguire per andirivieni e direzioni imprevedute l’avventura della fortuna, il prodigio della vita seconda della parola, vita storica, dopo il miracolo della vita prima, vita creativa.4 Ma il Gelli a maggior ragione accetta di nascondere la propria sostanziale dignità culturale quanto più vede quegli accademici più solenni atteggiarsi familiarmente, seguitar la ricerca in una cerchia di osservazioni concrete e di riflessioni documentate. Egli aggiunge a questa familiarità, a questa sprezzatura, il gusto di un programma cittadinesco e artigiano e bottegaio.5 Era riflessione di un certo peso politico, questa: anzi grande, se il grande concilio di Trento metteva all’indice, nei Capricci del Bottaio, con gli evidenti errori di metafisica, la non meno evidente intenzione popolana, quel trecentesco, in realtà, ma in apparenza luterano, intervenir dimessamente e tenacemente nelle discussioni spirituali, quel partecipare attivamente, quella fiducia più nella persona concreta di chi vive e pena e lavora ed ama, che nella dignità astratta dell’uomo. La lettura della Commedia, pur condotta con tanta devozione, non serve meno a queste intenzioni del Gelli e della civiltà fiorentina che a Dante. E la politica granducale nei suoi primi tempi né vuole né potrebbe fare a meno della tradizione cittadina: almeno finché conserva qualche preoccupazione egemonica, e l’illusione che non sia finito il tempo della guida d’Italia attraverso la letteratura, durato da Cosimo a Clemente VII, lungo una dinastia, la dinastia mercantile e papale, nell’un modo e nell’altro, da Firenze a Roma, cittadinesca (il papato di Urbano VIII segnò un ricrescer di speranze, e i Barberini tentarono con larghissimi mezzi e un fervore autentico l’impresa di galvanizzare il primato toscano: inciamparono, è noto, nel processo di Galileo, un altro lettore di Dante, matematico, questo). Ed era, esplicitamente, una vendetta allegra su quelli che per tanto tempo avevano beffato il poeta dei calzaiuoli e dei bottegai. Figlio di un vinaio e calzolaio egli stesso, sulla autentica qualità artigiana del Gelli si possono elevare dei dubbi: la sua cultura è sistematica e fondata con più rigore che non voglia lasciar credere; 468

la sua riflessione, consapevolissima delle conclusioni per dove s’incammina, è di una chiarezza estrema nel disporre lo spazio intellettuale che intende dominare; e non ha un dubbio nello scegliere i suoi autori, anche i misteriosofici, dove occorra, dai neoplatonici a Ermete Trismegisto: degnissimo di diventare il primo lettore ufficiale dell’Accademia Fiorentina; che volle essere la custodia di una cultura viva di fronte a una cultura appunto accademizzata e filologizzante. Per questa via, Dante diventa un emblema: che era arrivato alla cultura salendovi da solo (si sta dimenticando per strada, infatti, la tradizione dello studio bolognese e dello studio parigino e dello studio oxoniense); e se la classe sociale del rampollo di Cacciaguida era diversa e più alta, importava ancor più riportare la cittadinanza alla sua condizione dantesca: «pura vediesi nell’ultimo artista».6 Questo è uno degli esiti e dei successi del populismo cinquecentesco, in Lombardia come in Toscana, guardare al popolo, in quella colluvie barbara delle guerre d’Italia, come a custode di una primitiva forza.

Cultura e moralità nel Gelli Non è che salisse all’Accademia dalla Letteratura: cominciò ad occuparsi sul serio di letteratura e di scrittura da quando aveva con gli altri fondato l’Accademia Fiorentina; non dall’arte alla cultura, dunque, ma dalla cultura alla letteratura: il contrario di un itinerario artigiano. Ma anche per questo le Lezioni su Dante (e un ragionamento analogo si potrebbe seguire anche per le Lezioni sul Petrarca, che sono anche più scaltre) divengono stupendamente riassuntive di una lunga disciplina; e accademicissime, nonostante il loro disinvolto dettato: l’idea di concentrare la sapienza nella attività commentatizia non è ancora dismessa, anzi si celebra in quegli anni con un fervore più grande da tutti i naturalisti, memori di quel naturalista che «il gran commento feo»; Gelli prende Dante a suo testo: altrove si prendeva la Bibbia. Ma l’acquisto che egli ottiene leggendo Dante da artista, in quelle “imitazioni” e favole allegoriche e “moralità” che sono i Capricci del Bottaio e la Circe, è anche più fecondo: la prova autentica della sua maturità, dopo l’investitura accademica, che, conformista nell’intimo, come sono tutti i riformisti, loro buono o cattivo grado, gli consente quella libertà nuova di fingersi dimesso, ma di potere e dovere essere ascoltato. Dal Bottaio alla Circe più di un movimento è notabile: fra l’altro, il più accentuato spiritualismo umanistico dell’uno, il più accentuato naturalismo dell’altro; seguiva il Gelli il cammino che tutta la cultura vulgata aveva percorso, dalla metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento lungo l’epoca che il periodizzamento tradizionale chiama Rinascimento italiano; ma notabilissimo è questo: che arriva così alla Commedia movendo da preoccupazioni di spiritualismo un po’ generico, per concentrarsi in un moralismo assai attento e nutrito. Similmente la lettura della Commedia era raccomandata dagli spirituali: ma la comprendeva meglio chi vi scendeva a un intrinseco colloquio coi motivi dell’arte. I dialoghi di Giusto bottaio con l’anima possono essere o parer confessioni di un uomo con la sua propria coscienza, provveduto abbastanza di dottrina quanto è provveduto della scienza fondamentale di se medesimo: situa469

zione evidentemente preriformistica, che non sarebbe del resto affatto spiaciuta ai moralisti italiani del Trecento e ai moralisti fiamminghi del Quattrocento: cattolicissimi, appunto. Ma il favolismo della Circe, a prescindere dal giuoco delle metamorfosi, che ha perso ogni agrezza di intenzioni panteistiche, coglie dentro il velo delle allegorie una sapienza piana: quella stessa dove giungeva il lettor di Dante, quando s’affidava alla suggestione immediata delle allegorie, e si raccoglieva nella scorta saputa e fida di Virgilio dopo l’incontro con le Bestie o con i Demoni.

Il Commento Il Commento, come ogni altro commento, è dispersivo: fa punto sopra un’opera grande, ma non si rassegna ai motivi stessi che l’avevano mosso (qui un appunto: solo i commenti ottocenteschi presumono di dir tutto su Dante, concentrandosi nell’illustrazione erudita del testo: tipico lo Scartazzini, per questo; fino al Gelli i commenti sono un “luogo”, e più vie se ne dipartono di quante non siano quelle che vi convergono). E sembra precorrere la curiosità dispersiva degli ascoltatori, che, pur sollecitati dal Lettore, hanno ciascuno un suo modo di riflettere e una via da percorrere, dilungantisi dall’occasione offerta del Dante. A osservar le lezioni del Gelli come luogo d’incontro, puoi scegliere quel passo della lezione settima dove dichiara il verso Qual che tu sia, o ombra o uomo certo7

e si ferma sul valore lessicale e concettuale di «ombra», e cita da Petrarca «leggiadramente in un suo sonetto» volsimi e vidi un’ombra che da lato stampava il sole

(la reminiscenza dantesca è tanto evidente che il Gelli può affatto trascurare la pedanteria del rilevarla), e cita da Virgilio ter conatus ibi collo dare brachia circum, riallacciandolo a Dante stesso, «o ombre vane fuor che nell’aspetto», e cita dal Filosofo nel primo Dell’Anima «che chi dicesse: l’anima mia odia o ella ama, farebbe quel medesimo errore, che chi dicesse: ella fila o ella tesse» (osserva, giuoco di un realismo arguto: ma così confinava nella favola anche i capricci di Giusto bottaio, che dall’anima sua si separava). E ad osservarle come luogo di dipartita, puoi seguirlo nel suo commento al gesto di Vanni Fucci, luogo molto ripreso e biasimato da alcuni […] da la quale calunnia volendo noi difendere, come ragionevolmente si merita, il Poeta, presupponiamo per fondamento verissimo che il nervo principale della poesia è, in tutte le azioni che si descrivono e si rappresentano, osservare in tutto e per tutto il decoro delle persone, cioè che ciascheduna persona che si finge, parli e operi solamente quel tanto che si conviene al grado della persona ch’ella rappresenta.8

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Così il canone della magnificenza astratta era scavalcato; ma il Gelli ne prende occasione per una digressione sul carattere d’evidenza dell’arte (qui l’attinenza è ancor precisa) e per una digressione anche più lunga e romanzesca sull’assedio di Federico Barbarossa a Milano, e sull’origine degli Umiliati, e sulla spiegazione del gesto di Vanni, con un’abbondanza aneddotica che riaffaccia il commentatore accademico, nonché al mondo del naturalismo cinquecentesco, alla vena novellistica di Benvenuto da Imola.

La vulgata del testo Ma la documentazione più definita della vulgata cinquecentesca è nell’opera offerta dagli editori e dai commentatori nel fissar la lezione testuale: che è problema che qui accenniamo appena. Il testo cinquecentesco è insomma la traduzione della lettura cinquecentesca: con intenzioni che si riassumono nell’epiteto di Divina, definitivamente aggiunto nel Cinquecento al titolo di Commedia.9 Anche il Gelli alla tradizione vulgata è attentissimo: quel passo sopra indicato, il commento all’episodio di Vanni Fucci, lo dimostra bene. E gli altri con lui, lessicologi acerrimi, dal Castelvetro al Caro. Fenomeno di un conformismo linguistico che si rovesciava su un testo che gli era estraneo? Le intenzioni del Trissino, introduttore della Retorica di Dante fra noi, potrebbero essere intese anche sotto questa luce. Del resto, se così fosse, che la società letteraria volgare non volesse rinunziare al testo di Dante, pur conformandolo in una nuova forma, potrebbe avere un senso. Più propriamente, si dimostra fenomeno di traduzione e di conferma. Ma attraverso la vulgata cinquecentesca, che rende esplicite anche linguisticamente certe implicite intenzioni di Dante, la lettura di Dante è, nel Seicento, un acquisto che si può far direttamente e popolarmente, senza la mediazione della dottrina.

1 Valga per l’informazione di tutto il processo divulgativo l’opera citata di M. BARBI, Della fortuna di D. nel sec. XVI, Pisa 1890. Sul Vellutello, uno dei primi letterati che, fattisi pubblicisti, vanno studiati nella prospettiva di una storia dell’editoria (e lui tocca la responsabilità maggiore di quella cifra topografica dell’Inferno che non fu distrutta nemmeno dalle invenzioni romantiche del Doré), si potrà trovare qualche notizia complementare nel LUCCHESINI, Della storia lett. di Lucca, in Opere, XVI. Dei XXIX Canti dell’Inferno commentati dal Castelvetro è giustificato il giudizio negativo e sbrigativo del Toffanin: «residuo forse di un intero commento, che sarebbe riuscito imparagonabilmente inferiore alle pagine dantesche lasciateci da tanti altri studiosi di quel secolo» (Il Cinquecento, Milano 1929, p. 530). Cfr. A. FUSCO, La Poetica di L. Castelvetro, Napoli 1904. Per la biografia dantesca del Filelfo (Firenze 1828), che pur com’è, avventurosa, riflette che Dante è, in questo secolo, figura in cui l’interesse del pubblico s’accentra volentieri, vedi di L. AGOSTINELLI e G. BENADDUCI, Biografia e bibliografia di G. Mario Filelfo, Tolentino 1899. 2 La ricerca, nonché non impiantata, è qui sfiorata appena; e nell’assenza di una lettura sistematica, che varrebbe anche a riconoscere fino a che punto talune zone del costume

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cinquecentesco si riflettono in Dante, non resta che riferirsi alla silloge dello ZONTA, Trattati d’amore del Cinquecento, Bari 1912. 3 «Che ognuno dica ciò che crede che significhi quella lettera S che la signora Duchessa porta in fronte» propone l’Unico Aretino (Il Cortigiano I, IX). Il sonetto è riportato dai commentatori: «Consenti, o mar di bellezza e virtute, / ch’io, servo tuo, sia d’un gran dubbio sciolto, / se l’S che porti nel candido volto, / significa mio stento o mia salute, / se dimostra soccorso o servitude» e così via. Che appartenga ad uno dei soliti giuochi dell’emblematismo, per cui Dante dopo aver riconosciuto l’M nel volto dell’Omo divorato dalla cupidigia, lo trasforma in Aquila, anch’esso fra gli estremi della politica e dello scherzo concettoso, non c’è da dubitare: prima che a Bernardo Accolti, l’Unico, la battuta era toccata a fra Serafino: «Se volete un bel giuoco, fate che ognuno dica il parer suo, onde è che le donne quasi tutte hanno in odio i ratti, ed aman le serpi». Basta questo perché l’Unico accorra ad evitare illazioni sgarbate che su quella cifra della Duchessa (si chiamavan così: v. la n. del Cian all’episodio nella sua ed. del Cortegiano, II ed., Firenze 1910, p. 30) aveva proposto il buffone mantovano, e scombicchera, fingendolo improvvisato, quel sonetto che ha composto e sa a memoria. Se la scena sia frutto di accorta regia o di festevolezza geniale, poco importa sapere: certo, a comprendere i sottintesi, varrà anche la pena di notare che se è vero, come osserva il Cian, che il poeta evita la parola scorpione nel suo sonetto (il Luzio e il Renier congetturarono che la S fosse «l’iniziale di Scorpio, un’impresa forse che aveva la sua origine nel simbolismo zoologico medievale»), evita anche la parola serpente, cui invece allude subito cominciando: «Una ingrata, la qual, con occhi d’angelo e cor di serpente mai non accorda la lingua con l’animo». E del resto anche lo Scorpione è il freddo animale che con la coda percote la gente, dice Dante. Insomma, l’Unico, autor di una «commedia» di Virginia, che traduce in ottave la novella di Giletta di Narbona, non è mai stato abile come ora, attore di quella sapida commedia cortigiana, dove la sua parte era di fare il patito ufficiale della duchessa: e di ricondurre a un decoroso garbo la scena. Quanto a Dante, ne lardella di reminiscenze il suo discorso: «Né si ritrova così velenoso serpe nella Libia arenosa», «La qual non solamente con la dolcezza della voce e meliflue parole, ma con gli occhi, coi risi, coi sembianti, e con tutti i modi è verissima Sirena», «Avvenga che questa sia un artificioso velame». L’emblematismo dantesco era infatti sentito come illustre, in quell’ambiente: e il tono del letteratissimo impediva anche così le deformazioni parodistiche. Quanto a questa letteratura cortigiana, sarà necessario, sia pur sulla traccia del D’ANCONA, Del secentismo nella poesia cortigiana del secolo XV, in Studi sulla lett. ital. dei primi secoli, Ancona 1884, e tenendo conto delle possibilità di una lettura di poesia proposta dal GETTO, Su la poesia del Cariteo, in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, CXXIII (1945-46), ripercorrerla tenendo d’occhio il concettismo e l’emblematismo da cui la fortuna di Dante è inseparabile, pur nella sua popolarità potente. Per il Palingenio cfr. E. TROILO, Un poeta filosofo del ’500, Roma 1912 e G. BORGIANI, Marcello Palingenio Stellato e il suo poema Zodiacus Vitae, Città di Castello 1913; opere che restano marginali al nostro tema. Per il Fregoso, meglio collocarlo in uno studio del FLAMINI, che può avviar queste ricerche, Viaggi fantastici e trionfi di poeti, nel vol. Per nozze Cian Sappa-Flandinet, Bergamo 1894. 4 Ruscelleide ovvero D. difeso dalle accuse di G. Ruscelli, a cura di C. Arbia, Città di Castello 1898. 5 Opere, a cura di A. Gelli, Firenze 1855. Letture edite e inedite sopra la Commedia di D., a cura di C. Negroni, Firenze,1877, 2 voll. E per ogni riferimento alla fortuna di Dante v. il citato vol. del BARBI. 6 Pd XVI, 51. 7 Ed cit., vol. I, pp. 103 ss. 8 Vol. II, pp. 467 ss. 9 P. RAJNA, Il titolo del poema dantesco, in “Studi Dant.”, IV (1921).

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Immagini nell’arti

Da forma a forma: unità dell’intelligenza D’ogni accenno fatto a suo luogo sull’educazione artistica di Dante, musico e pittore, su quanto seppe dell’arte espresso in formule tecniche, sulle sue, come or ora dicevano, emozioni estetiche, qui conviene dimenticarsi: non cerchiamo più il patrimonio educativo di cui partecipò con gli altri; ma le forme che promosse: non più soggetto di storia, ma oggetto; e attraverso la definizione formale della sua materia (la parola), capace di promuovere altre definizioni formali, che per essere intese si riappigliavano a una comunanza di sentimenti, a una eloquenza di emozioni, alla definizione di un mondo atteggiato secondo la volontà della sua intelligenza, informato dal suo proprio individuarsi, suggerito da lui a prova del suo dominio sulla realtà. Altri accorse al suo segno; e si dichiarò esplicitamente o implicitamente partecipe della spiritualità ch’egli aveva modulata; e concorse alla fondazione della comune intelligenza: il comun frutto, più smisuratamente opimo quanto più frequentato, fu la civiltà del Rinascimento, della quale Dante aveva dato la più ampia giustificazione dottrinale, chiedendo a sé, uomo comune, ma soccorso della Grazia, di annunciare la perfezione dei tempi e la vita dell’uomo nuovo, e offerto prodigiosa copia di esempi. Tra quel poco che, nonostante la compiutezza della sua educazione, non immemore delle arti, egli ci attesta di sapere e di potere lungo le regole e nel limite dei mezzi inveterati, e il moltissimo che egli promuove proponendo il suo nuovo modo di vedere e di giustificare e di porre l’uomo soccorso dall’alto al centro dell’universo, il segreto è in lui; e la frattura fra i vecchi tempi e i nuovi apparirà tanto più grande quanto più lo si misura.

Iconografie Né ci soccorrerà più che tanto, in questa ricerca, il ricordo degli illustratori: una tradizione assai lunga, dal Signorelli al Flaxman, dai miniatori dei codici trecenteschi a Doré; ma è cronaca che appartiene, se guardi bene, più al commento che all’esegesi, più alla glossa della lettera che all’incontro spirituale. Non che poco giovi: quell’illustratore del codice trivulziano che adorna la rubrica del primo canto del Purgatorio, e nell’occhio del P (l’asta ne pare un albero scortecciato) apre l’ala di una vela crociata, e nella barca assisi dispone a poppa Virgilio barbato in attitudine di docente, e a prua Dante raccolto in umiltà attenta di discente, lavora a concretare in immagine direttamente visibile una metafora: Per correr miglior acque alza le vele…

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Accentuazione umanistica cui risponde, a piè di quella notissima pagina, la figura di Catone, sul più alto della piaggia declive, e il rito della purificazione nel più basso, a chiuder quasi fra parentesi la scena di Virgilio chino sul discepolo in ginocchio e la scena di Dante che alza gli occhi e la mano a schermo dei raggi delle quattro luci sante. Una simile indagine si potrebbe ripetere per innumerevoli pagine miniate di innumerevoli illustratori; ed avrebbe anche più valore delle tavole delle concordanze che noi veniam disponendo accanto al testo della Commedia, per scegliere la migliore interpretazione, o farci una ragione del cammino di verità dall’una all’altra, ora avanti ora ritroso: ché ci dicono di una risonanza e ci documentano di una sensibilità di lettura che talvolta la preoccupazione dottrinale e sistematica dei commentatori non palesa, attenti al nesso verbale, al discorso logico; mentre i disegnatori ricelebrano una vita fantastica: così ci aiuta Giovanni Stradano a intendere quanto di “gotico” leggevano in Dante gli uomini del tardo Cinquecento o Francesco Scaramuzza a intendere la rielaborazione patetica e melodrammatica dei lettori della Francesca del Pellico. Senonché, come bene si vede discendendo nel tempo verso di noi, l’esegesi degli illustratori segue un moto sempre più refluente, dalla sensibilità di una cultura al testo della Commedia; meno importa il processo di dichiarazione che il processo di riflessione, meno discendere dal testo e col testo verso il mondo, che rifluire, a rifugio e conferma di sé, dal mondo nel testo: atto di riacquisto liturgico, più che splanamento. Il punto di convergenza deve essere stato probabilmente l’opera di Michelangelo, che aveva illustrato un’edizione del Landino, quella stessa che era servita alle illustrazioni del Botticelli: un Dante fiorentino, da riacquistare dopo un viaggio di tutta la terra; ma l’esemplare, se possiamo in qualche modo immaginar quale fosse, andò perduto in un naufragio. Certo il capitolo degli illustratori è immenso, e qui rincresce di restringerlo a così poveri cenni e rimandi; ma dobbiamo affrettarci a studiare altri incontri, più distratti in apparenza da un compito di precisa lettura, e in realtà tanto più impegnati nella scoperta.1

Meditazioni pittoriche di una poetica spiritualista Aggiungi che l’illustrazione muove verso un testo alieno, seppure devotamente amato, mentre l’incontro si definisce in un testo nuovo, dove di necessità prevalgono, nel giudizio assoluto dello stile, le esigenze della nuova persona che nella ricreazione si scopre. L’illustrazione diventa documento di cronaca, indice di un gusto, tanto più vasto e accogliente quanto meno impegnato. Converrà dunque, nel riandare le vicende della fortuna di Dante per entro la tradizione delle arti figurative, tener presenti contemporaneamente queste intenzioni opposte, della sensibilità e del linguaggio: ché l’arte degli illustratori persegue un compito parenetico del gusto, celebra una rispondenza e conferma quel moto di compiacenza a specchio ch’è pur sempre del lettore che si tenta a paragone con un testo; ma l’arte degli incontri decide dell’artista e sia pure con un tratto di artifex additus, e propone, attraverso il proprio impiego totale, di passare da un linguaggio (quello che l’esegeta raccoglie dal testo che legge) ad un nuovo 474

linguaggio (quello che l’esegeta propone irraggiante, per quanta forza n’abbia, dal suo proprio testo, che detta). Allo storico questa precisazione giova in quanto anch’egli frequenta la cronaca per guidarsi e guidare nell’assoluto; le celebrazioni gli interessano, tuttavia, più delle ricreazioni: ché fatalmente il destino dei ricreatori è di straniarsi dall’opera che loro serve, mentre i commentatori (e nel caso nostro gl’illustratori che li sostituiscono) designano opportunamente le zone per dove passa l’attenzione vagabonda della gente. La cultura poetica rispondeva nel Trecento alla cultura pittorica, e lo spiritualismo stilnovistico aveva innumerevoli attinenze con lo spiritualismo pittorico: dico che, al di là della comune nozione e intenzione di intendere la realtà fuor delle astrazioni più solenni del liturgismo e dell’astrattismo bizantino, nella sua animazione più segreta e più fattiva, più intima ma più amorosa, poeti e pittori procuravano insieme una mitologia e una mitografia, allacciate con grazia: come di quell’angelo che Dante dipingeva, come racconta, sorpreso dagli amici. Ars una species mille; e l’Ars Nova dei musici si apprestava a trar frutto dalla poetica dei dicitori in rima. La poesia del Duecento, da Iacopo a Guido, aveva ben popolato il mondo di immaginazioni gentili; e il suo frutto più copioso è in quella traduzione costumistica che ne fanno i realisti, fra il parodista Cecco e il surrealista Folgore, quasi reagendo all’estremismo delle nuove rime dantesche, intese a risolvere in spiritualismo assoluto la vaga attesa dello spiritualismo psicologistico di un secolo di gentilezze. Di quella intenzione cortese si impadroniscono gli artisti che possono, per di più, ritrovarne le origini e le attinenze nella cultura cortese di Francia: tanto più facilmente rifacendosi a quel canone internazionale quanto più amavano allontanarsi da una rigorosa «dittatura» di amore che si concludeva in una assolutezza dogmatica e stilistica, troppo scomoda a chi si contentava di frequentare le cerchie del costume, e che voleva, dall’esempio di Francia, trarre conforto per insistere in una medietà decorosa e facile. Ma reagire a Dante poteva esser facile, finché Dante si limitava ad una poetica stilnovistica non del tutto impegnata: finché, per essere più precisi, si limitava a fare una proposta astrattiva, a proporre che il canone della gentilezza, perseguito da tutti, fosse più severamente osservato, e condotto a quelle sue necessarie conseguenze da cui riluttavano così la varia discorsività del Notaro come l’attenzione politica di Guittone; quando dai canoni della scuola, astrattamente proclamati, e rincalzati dalla dottrina sapienzale del Convivio, passò alla poetica della Commedia, la poetica del visibile, dove tutto, anche l’astrazione più remota, diventa concreto, dove Beatrice piange, dove Dio è persona, dove è sensibile l’inferno, e la commozione tocca fondo del suo paradiso, reagire a Dante diventa difficilissimo. La proposta spiritualistica, e sia pure estrema, in senso guinicelliano, che Dante aveva fatta propria, poteva ancora tollerare l’ossequio dei prosecutori blandi, come Gianni Alfani, e come i pittori della gaia vita senese, o l’opposizione dei realisti irriverenti o diversi, fra l’Anonimo del Fiore e il Maestro della Beata Umiltà; ma quando sopravviene sopra quella proposta la poetica del visibile, quando Dante in sede di filosofia scopre che la via verso lo spirituale è via verso il concreto, e in sede di poesia dà esempi tremendi e terribili di come possa imporre la realtà del suo vedere, la vaghezza e l’ampiez475

za delle poetiche che le arti riassumevano in sé cede a una necessità d’impegnarsi: tanto più forte in quegli artisti, i pittori, che appunto nell’atto del guardare e del vedere concentravano la vita dell’anima e la tecnica dell’arte. La musica può trattenersi, per tutto il Trecento, in una commozione trasfigurante, come Casella sulla spiaggia del Purgatorio, e l’accordo d’arte francese e d’arte nostrana proseguire nei fecondi scambi; ma la pittura no, non può più; dopo qualche incertezza e tentennamento deve decidersi. Se Duccio di Boninsegna riesce a render melodici gli insegnamenti bizantini, e a purificare le intenzioni in una commozione sospesa, se Ambrogio Lorenzetti, «gentiluomo e filosofo», come disse il Vasari, ripeteva nelle sue allegorie le proposte che un Guittone aveva fatto pochi anni prima alla civiltà cittadina, quando la pittura chiede all’artefice di tutto osare, perché tutto può con l’atto degli occhi, il dissidio si matura fra il vecchio e il nuovo e il nuovo s’apre e più non si colma. È il senso dell’avvento di Giotto: e accanto a lui un Simone Martini, con tutta la sua genialità non può altro che divagare e fantasticare nella varietà illusoria delle esperienze internazionali: quasi come Boccaccio giovane, prima che ritornasse a Firenze e a Dante. (E come Boccaccio, ritornò a Dante anche la pittura.)

L’arte nuova e la poetica del visibile Una parte di questo rivolgimento dovette averla la riscoperta del precetto evangelico, che l’uomo è contaminato non da quel ch’entra, ma da quel ch’esce dai suoi occhi: par di avvertirla anche in Iacopone, tale intenzione, al di là dai generici dettami ascetici, di custodire gli occhi; e la forza dell’arte visiva, la sua potenza di creare e ricreare il mondo, di decidere della sorte ultima dell’uomo, sottolineata dai miracoli di Cristo sui ciechi, quando accorrono alla sua parola apocalittica, «apriti», l’epopea insomma della pittura rinascimentale, umanistica ed eroica, il centro autentico della cultura d’Italia e del mondo, trovava in quei passi e in quelle raccomandazioni la sua dogmatica, la sua morale, la sua liturgia. Ma, se è stato persuasivo il paragrafo sulla poetica del visibile, chi giustifica in ogni modo dottrinalmente, ed esempla l’arte nuova, è Dante: O mente che scrivesti ciò ch’io vidi,

ripetiamo. L’intelletto diventa misura e cornice della cosa vista; e lo scrivere, per un’etimologia remota, diventava atto del dipingere.

Giotto Il verso di Dante legò il nome di Giotto ad un passaggio di storia dell’arte: «Credette Cimabue nella pittura / tener lo campo, ed ora ha Giotto il grido […]» ed alla storia stessa della sua fortuna: «Così ha tolto l’uno all’altro Guido / la gloria della lingua […]».2 Ma il passo dell’XI del Purgatorio è pur dominato 476

dalla faticosa, penosa collera di Oderisi, che per umiliarsi nomina un ignoto, forse un da nulla, cui piaceva l’illusoria gaiezza della moda francese, un Franco Bolognese;3 e affacciarsi alla storia e alla pratica dell’arte in tante direzioni, fra questa discussione e gli esempi scultorei, non giova alla riflessività di un giudizio perentorio: quale poi lessero i posteri, confortati dal successo; che forse su questa traccia fecero di Giotto di Bondone un discepolo di Cimabue. E l’aneddotica poi crebbe, su quel passo, e sugli incontri padovani, quando apparve chiara la parentela spirituale che legava i due grandissimi fiorentini: dichiarando meglio e più di quel ch’era nel testo del poeta, facendone un capitolo di storia. Il ritratto giottesco di Dante, autentico o no, meno importa: riassume comunque benissimo questo legame che la tradizione cercò su dati estrinseci, e che è così potente e indissolubile, se lo meditiamo nell’intimo della loro esperienza; forse per dare all’incontro un’aria di ingenuo fervore, accostando Brunetto a Dante ed a Corso Donati, quasi in una vigilia nostalgica di storia fiorentina, quando Brunetto fosse ancor vivo e Corso solo vittorioso, Dante vi è ritratto giovane, e il tratto del dipinto è così vago e sospeso, senza dramma, in una limpida attesa. E come Dante andava in cerca di dottrina frequentando i poeti nuovi e antichi, e dai siciliani risalendo ai provenzali, da Iacopo ad Arnaldo, così Giotto s’apriva agli esempi della stupenda retorica di Giovanni Pisano, impetuosa e potente, e cercava la gloria di Pietro Cavallini, come Dante leggeva Guittone e seguiva Brunetto. Fanno riassunto entrambi dell’arte e dei suoi modi, si liberano attraverso l’atto dell’apprendere, e quando hanno compiuto un tratto, si rivolgono indietro a guardare, s’accorgono che dalla nuova esperienza anche le forme scolasticamente apprese ricevono un nuovo senso.

Noviziato di Giotto e noviziato di Dante L’itinerario di Giotto lo conduce a una drammaticità sempre più potente, con mezzi sempre più semplici: non si avvolge su se stesso, si libera. Accetta i dettami della scuola, ch’era per lui la scuola della pittura bizantina, come Dante accetta i dettami della sua scuola, toscana o siciliana o provenzale: l’uno da Oriente, l’altro da Occidente; ma se procedevan lontano avrebbero trovato un punto d’incontro fra quelle divergenze, un luogo di comune origine. Scoprono la verità lavorando nell’intimo e nel profondo; e se il poeta subisce nella sua vita una violenta vicenda, che lo spinge alla risoluzione totale, a far giudizio intorno a sé del mondo, il pittore parla un linguaggio più continuo e più egualmente meditato, ma giunge altrettanto lontano. Percorrono entrambi un itinerario spirituale, a chiarezza di sé; ma la ricerca di Dante è tribunalizia, e processuale, la ricerca di Giotto è narrativa: l’uno manda sul mondo sguardi interrotti, ora corrucciati, ora amorosi, l’altro lo visita il mondo, e ne riporta forme e segni gentili, che ad uno ad uno depone a ricordo accanto alle sue composizioni drammatiche, quasi chiamando anche lui tutto il mondo di fuori a rivivere le grandi cose che si raccontano in chiesa, degli avvenimenti conclusivi della storia del mondo. E l’uno aduna tutti e tutto intorno a sé, introduce tutto e tutti nel suo segreto, 477

nella visione, traverso il suo corpo vivo; l’altro va fuori e peregrina sulla faccia della terra, ma ancora le sue storie, meditate prima in silenzio, raccolte in una adorazione sommessa, filtrano attraverso la sua persona ancora, prima di affacciarsi alla finestra del quadro. L’uno e l’altro viaggiano per quasi tutti i luoghi di questa terra d’Italia, Dante capovolgendo in sé ogni città e vicenda, Giotto accostandosi appena a quello che accade; e l’uno fa tempio della sua stessa mente, l’altro degli spazi mondi e sgombri dei muri, che vi si specchi il mondo; ma il centro dell’itinerario è pur sempre la persona: e la sua forza raggiante.

Cronache parallele La loro cronaca potrebbe essere parallela: frequentano gli stessi luoghi. Puoi anche parlare di interferenze, fra i due: dice qualcosa anche il fatto che Dante peregrino, il Dante del Purgatorio, potrebbe avere imparato da Giotto, per le sue figurazioni: quelle dell’ira, dove è evidente il contrasto fra un tumulto di folla: Poi vidi gente accesa in foco d’ira…

e la pace di quel martirio: ma degli occhi facea sempre al ciel porte,5

il dominio di quella volonterosa estasi, di quella struggente forza, che consuma, del suo lume e cheta fiamma, l’irrompere di quell’altra bestialità brutale: come fra lo sguardo di Cristo, baciato da Giuda, e il tumulto della gente «cum fustibus et lanternis» nella scena della Cappella degli Scrovegni, che Dante pur vide, prima che componesse la sua scena. La suggestione parrebbe evidente, ma è riconducibile a una esperienza poetica anteriore di Dante stesso, che pur ne riceve conferma, mentre vi si ritrova. Era il canone stilnovistico più chiaro, quel dominio interiore sulle cose e sul tumulto della gente: una compostezza che consumava la forza crudele dell’esterno, quel passare trasognato e angosciato, in cerca di una superiore calma, dentro le paure di una vicenda apocalittica: la storia, se si ricorda, della canzone Donna pietosa. Appaiono dunque piuttosto spiriti fraterni, ed essersi intesi ciascuno movendo da una comunione d’intenti: entrambi cantano un poema sacro, anzi il poema sacro, ché non è dato, nella civiltà cristiana, cantare altre lodi che di Dio, e raccontare altra storia che della riacquistata paternità di Dio; ma movendo da una condizione comune, quella determinata in Firenze sugli ultimi del Duecento dalla cultura stilnovistica, procedono ad una stessa meta predesignata. L’itinerario di Giotto e l’itinerario di Dante trascorrono per una selva di favole e di storie; e se il poeta le raccoglie dentro la cornice di un ordine più osservato e prezioso, nell’intellettuale edificio che contorna l’oltretomba, il pittore, più artigianalmente, si fida dell’ordine dove la provvidenza, attraverso il committente e l’architetto, ricomporrà le sue disperse parole. Viaggiando, acquistano spazio: Dante, clerico grande, lo misura 478

in termini geometrici; ma Giotto lo conquista con una profondità più pensosa, chiama lo spazio a coro del dramma che le figure dei suoi personaggi rappresentano, lo studia con una misura di volume di voce e di scala di tono, in una sinfonia, come una architettura armoniosa intorno alla melodia della parola pura. E l’incontro definitivo avviene ad Assisi, quasi a ricollegare a san Francesco così lunga storia che da lui promana: come in Dante l’esperienza drammaturgica si consumava prima dell’XI del Paradiso in vicende tragiche in sé, che chiamavano nella cifra di una astratta violenza le stesse ragioni strutturali dell’opera, ma con il canto d’Oriente tutto il mondo è finalmente chiuso nella contemplazione verticale, nella meditazione santa di un viaggio assorto in Dio e nell’interno lume, così negli affreschi assisiati il dramma, senza perder nulla della sua forza, è trattenuto nella luce santa di una meditazione interiore: si svolge nell’intimo, in una cheta profondità d’anima, in quella zona assorta dove senza gesto l’anima assiste all’universo; e le figure, accanto al cheto raggiare del dramma spirituale, sono segni allusivi, metafore di una intenzione non meno pura, quasi notazioni musicali, che anch’esse, nella loro chiarezza, indicano la strada verso il segreto di ciascuna nota. Così, intorno alla morte di san Francesco, in Santa Croce, pregano i confratelli, e l’anima coronata dagli angeli s’invola: cantano inni, così, nel cielo del Sole, le corone degli spiriti contemplanti, e s’involano nello spazio divino.

L’intellettualismo fiorentino Le suggestioni che or ora aduneremo intorno ai grandi artisti fiorentini del Quattrocento parranno anche troppo sottili; e trascurare quel dato più persuasivo che, assistendo al tradursi in formula dottrinale di una intuizione d’arte, in concetto di una parola poetica, e insomma della poesia in cultura, riuscirebbe a determinare la fortuna di un poeta, come dominio sull’intelligenza, una volta che si dimostrasse che quel poeta è veramente l’autore di quella cultura. Ma Dante, pur con la sua dottrina, quella che raccoglie e quella che propaga, si risolve in parola, e la parola in atto dell’esistenza, e se è attivissimo mediatore ed autore di indirizzi culturali, questa mediazione e questa autorizzazione avviene sempre attraverso suggestioni liriche e mitiche, non già attraverso una codificazione del pensiero. Non è Petrarca, per dir del suo vicino, che provvede all’organizzazione della cultura, lasciandone in disparte, segreta, quella più pura ombra di sé che confessava alle rime; non è Goethe, per dir di colui che più gli si accosta, per esercizio d’autorità sopra un secolo, il quale traduce già da sé stesso in formule dottrinali quello che i posteri dovranno imparare da lui, e li induce a staccare troppo facilmente le idee dalle forme, i concetti dai miti (ecco il perché della sufficienza audace dell’enciclopedismo hegeliano: dopo Goethe tutti si arrogarono di trattar politicamente le idee-forza, i miti che, isolati dall’uomo, si pretende facciano la storia). Dante accetta e impone la mediazione della poesia a tutta la sua vicenda; e il suo tradursi in immagine è troppo costante e troppo felice, perché chi è immerso nella vita che raggia dalla sua parola, suo popolare ed artista, si dimentichi dell’immagine da vivere e s’appicchi all’idea per com479

battere. Le idee che dominano la cultura fiorentina sono il rinascimentalismo del Ghiberti e l’intellettualismo spaziale di Pier della Francesca: due artisti, appunto, e quali! anche se le idee del primo si divulgarono quasi per tradizione orale, e le idee del secondo trovarono l’espositore invadente Luca Pacioli, e se ne lasciarono sopraffare: staccandosi appunto, in vista di una esecuzione astrattamente geometrica e matematica, quella della divina proporzione, dalla viva immediatezza che dava loro l’opera e l’immaginar dell’artefice. L’una e l’altra idea sono ben dantesche: l’idea di una perfezione dei tempi, da attendere e da promuovere, che riporti l’umanità alla dignità della sua prima condizione creata, e il singolo uomo nella integrità originaria della sua persona; ma Dante, che avrebbe ben potuto svolgerle dottrinalmente, come dottrinalmente svolge le idee politiche nella Monarchia, dopo averle integralmente vissute nella poetica, e le idee cosmografiche nella Questio, dopo averle figurate nella sua imago mundi, nel viaggio della mirabile visione, le propone chiuse nel mito, non le dipana e le illustra e le commenta in aperte lezioni. Puoi dir che questo avvenga per una prevalenza della poesia sulla dottrina; ma sarebbe un’indicazione troppo vaga, troppo legata al metodo della lettura moderna, che le separa, troppo poco attenta alla storia della poetica di Dante che di entrambe fa un solo modo di essere. Occorre, per comprendere meglio i modi onde egli si tradusse nella civiltà fiorentina del suo tempo, e attraverso la civiltà fiorentina, cui assicurò (per lo stesso rispetto onde fu circondato in tutta Italia, prima che in Firenze stessa) un primato, e una generosa accoglienza d’ogni sua parola, rifarci a quel nodo accennato nella storia, della poetica del visibile. Egli è, dicemmo, il regolatore, l’autore di quel modo d’esistere che chiama a paragone della vista il mondo, e attraverso il giuoco degli occhi proporziona l’uomo nel cosmo: tutto egli vede, tutto propone all’altrui vedere. Ma accanto a questa notizia, disponi subito un’altra, rivelata forse a lui stesso, certo ai suoi seguaci, da Giotto: che del mondo lo spirito si fa centro, e del mondo si guadagna, anche per gli occhi, quanto lo spirito ne investiga e ne riassume in sé. Giotto, ancora Giotto: solo di Michelangelo si potrà dire altrettanto, per introdurre una nuova intelligenza di Dante, un nuovo capitolo della lettura. Giotto, per quel che l’esame stilistico ha rivelato, celebra una intuizione spaziale, quando è giunto ad animare di nuova esperienza, di nuova intelligenza, di nuova vita, il linguaggio formale dei bizantini; e nell’apertura del quadro sul mondo, come dalla finestra aperta di una visione sognata ad occhi bene aperti, inizia un viaggio, e conquista lo spazio: sensibilmente traducendo in sé quel moto che lo conduce a chinarsi trepidando con Francesco sugli uccelli, perché non s’involino alla parola della rivelazione, e a prosternarsi con la Maddalena ai piedi dell’agricola Cristo nell’Orto, in uno slancio conturbato e beato. Giotto inizia il viaggio nel mondo sensibile, quando la meditazione ascetica l’ha condotto alla rivelazione, e comincia col misurare lo spazio; non così Dante: che, più in là, codifica quello spazio in un ordine architettonico dell’universo. Questo processo, che traduce l’invenzione della poesia in dato dell’intelligenza, in dato astrattivo e matematico, intendo, non si cristallizza già in una formula geometrica: promosso dall’arte, subito all’arte ritorna, e l’emotività che si riflette in questo dominio sul mondo spaziale, si suggella 480

non già in vaghe allusioni oratorie, o in eloquenza di sentimenti musicalmente espressi o sviati, ma in precisi stilemi. Ogni passo della cultura fiorentina, per secoli, nelle sue vie, è contrassegnato da una precisa nozione stilistica, individuato con esattezza suprema in una chiarificazione del segno: tutto è indicato, tutto è aperto, tutto è dichiarato e suggellato nello stile, costi pure questo impegno la rinunzia a una più umana disponibilità, a condiscendere all’uomo, a correre con lui il suo miglio e il suo doppio miglio.

Il dominio dello spazio Di qui la ragione per cui una storia della fortuna di Dante, che pervade la cultura fiorentina, non si può seguire in astratto nelle vicende intellettuali d’essa cultura, ma in concreto nelle opere degli artisti, anche quelle ignare che un contenuto per avventura estraneo sia ricondotto dal segno stilistico tanto vicino all’esperienza dantesca. E per seguire adesso l’una delle due tracce, quella dell’intuizione spaziale, vedi come le intenzioni e la storia di Dante si dichiarino se le rileggi dopo aver visitato con lui le opere degli artisti suoi vicini. Certo conviene disfarsi dell’ingrato geometrismo in cui gli esegeti mal provveduti riassumono scolasticamente i tre mondi; ma anche per questo, vedi, a paragone dello scolasticismo e delle pedanterie ottocentesche, nella pittura di Domenico di Michelino: fra il Monte e i Cieli, tra Firenze e l’Inferno, la cifra riassuntiva si anima di un candido piacere di rilettura, il dono è messo nelle mani devote di chi guarda con animo commosso. All’altro lato la bocca d’Inferno attribuita all’Orcagna, volutamente immemore dei suggerimenti intellettualistici della Commedia, sbigottita e contristata nel terrore della minaccia ascetica, avvilita nella paura d’inferno: lì non spazio, dacché il mostro spalanca tanto vicino l’antro della sua bocca che il contemplante già si sente divorato; soggiace dunque all’immagine, che è il primo segno dell’itinerario dantesco, il suo incontro con le Bestie infernali. Fra quel didascalismo razionale e questa idodulia barbarica, la storia autentica di Dante reduce in Firenze si prolunga attraverso Filippo Brunelleschi: non certo per una esegesi illustrativa che abbia condotto sul testo del poeta; in questo senso, quei due avvicinamenti, tanto scolastici e risaputi, prima che siano, proclamano apertamente il nome di Dante, e dovrebbero valere alla fortuna più di colui che voltò la cupola; ma la loro è una fortuna esterna, e tutta intima quella di Brunelleschi. E quanto già dell’aer piglia Santa Maria del Fiore…

metteva in bocca Carducci al poeta esule di Parte Bianca: quasi che la cupola fosse una conclusione attesa da un secolo, in quella forma. Ma appunto le forme del Brunelleschi, così spesso proseguite dietro e dopo di lui attraverso indicazioni che lo ricercavano celebrandolo, quasi si trattasse di una lettura eseguita sopra una notazione musicale sommaria, ma possibile ad uno spirito intento e 481

fraterno, ad un consonare di intenzioni e di attenzioni, ci aiutano a capire tanta poesia dantesca, a guardare allo spazio percorso dal viaggio, non già dalle strettoie dell’Inferno, in quegli scoscendimenti e fessure d’abisso, dove solo la morte e la discesa di Cristo al Limbo sembrano avere portato la furia di una liberazione impetuosa, ma dalle splendide cerchie dei cieli: e fra il chiuso spazio infernale e l’aperto spazio celeste, fra la pressura delle rocce che pontano sopra il corpo di Lucifero, e l’immenso capovolto in un punto, dove i cieli si consumano nella immobile luce empirea, la mediazione è offerta dalle architetture del Purgatorio aperte ordinatamente fra la montagna e il mare, sotto l’arco percorso dal sole. La cifra che Dante offre all’opera di scultura nella prima cornice del Purgatorio, è ancora gotica: quasi tombe terragne; eppure i concorrenti delle formelle per le porte del Battistero, Brunelleschi appunto e Ghiberti, si valgono anche di quella composizione fittizia per serrare in un ordine musivo le storie; ma quel sole si inarca come lo slancio misurato ed esatto degli archi a tutto sesto sulla vita severa e pura che una meditazione religiosa, quella di Dante nel collegio penitenziale del Purgatorio e quella dell’architetto della cappella de’ Pazzi, propone allo stesso popolo.

Masaccio La seconda tappa di questo cammino è Masaccio: tappa più feconda di acquisti, quanto più in Masaccio che in Brunelleschi si specchiava una commozione avventurosa nell’accostare al modulo della nuova intelligenza, che di spirituale diventa morale, le esperienze più complesse: quelle dell’arte, par sicuro, se la scultura non proseguì tutta sola da Giovanni Pisano a Iacopo della Quercia, in attesa di riassumersi nella pittura-scultura di Michelangelo; ma anche quella lettura ascetica dell’umanesimo che si celebrava nel circolo di Santo Spirito. Masaccio è tutto questo; e nella sua breve vita riassume la cultura fiorentina; ma è innegabile che lavorando sul tema dell’acquisto spaziale, e sul dominio umano del mondo, si ricorda di Dante; e fino a che punto se ne avveda lui, non importa, pur che lo si sappia noi. Dicevo: intelligenza che di spirituale diventa morale: non certo perdendo l’intensità della prima e più pura elezione. Ma questo passaggio non è il moto che conduce Dante verso la Commedia? E se Masaccio non ha una drammaticità così violenta e centrifuga come quei marosi che Dante poeta d’inferno suscita nel mondo infero dei mal vivi, gli manca quel risentimento individuale della tragedia, quel provocare in sé l’urto del male e il risentimento della catastrofe, quale ebbe Dante prima ed ebbe poi Michelangelo. La sua morale è eloquente; non per questo meno intensa: una moralità da Convivio; e quei corteggi di re, quelle spirital corti degli Apostoli, l’ordine alleluiatico e liturgico in cui si compongono i suoi gruppi intorno al fatto apologicamente interpretato, appartengono ad una intenzione che si avvale di pari passo delle raccomandazioni della sapienza e delle raccomandazioni dell’eloquenza. Si rammenta, appunto, dei sofi e dei vati del Limbo, quando compone con tanta gravità di panneggi nelle persone e di ritmi liturgici nei gruppi i suoi 482

canti a celebrazioni dei fatti e dei fasti chiesastici. Ognuno di quei suoi grandi par che si ricordi dei versi: Genti v’eran con occhi tardi e gravi di grande autorità ne’ lor sembianti: parlavan rado con voci soavi…6

ed ogni episodio dell’epopea di san Pietro par ricordarsi del dramma e del processo che il «gran viro» celebra nel Paradiso di Dante. Anche nelle intenzioni l’opera della cappella Brancacci è una lunga apologia della Chiesa; e Dante l’avrebbe sottoscritta, dal tributo alle porte di Cafarnao alla crocifissione capovolta dell’impetuoso principe, quell’allegoria della storia della Chiesa. Che più, se perfino il desco da parto del museo dell’imperator Federico par che rammenti le invettive di Dante in quel vento trionfale e terribile che soffia dalle trombe gigliate e prorompe alla nuova vita? La città partita era pur sempre il centro della storia anche per l’oriundo del Valdarno.

Pier della Francesca Il dramma è alieno dalla persona del terzo, Pier della Francesca; ma il suo dominio sul mondo è tanto più vario. S’apre all’allegrezza, rigorosamente condotta in giro di danza, come quegli epilli colorati che interrompono e infiorano la vicenda del viaggio dantesco: così la festa del corteggio della regina di Saba è festa di donne gentili, che avvallano gli occhi onesti, o li innalzano arditi; così la battaglia di Costantino, a rompere il rigido partito delle lance, intorno a lui parea calcato e pieno di cavalieri

e l’aquile muoversi al vento nei vessilli imperiali. E il canto che nella Commedia trasvola, e tutta quanta partita in sette cori…

è il canto che balza dal coro angelico, nell’adorazione del Bambino. E di dantesco Pier della Francesca ha pur l’esercizio di un immenso dominio culturale attraverso forme poetiche: perché il rigore con cui si traduce in un ordine geometrico, quasi suggerendo di contentarsene (e lì accanto a lui ognuno poteva accorgersi qual divario poteva separare la prospettiva geometricamente calcolata dall’acquisto dell’armonia spaziale ch’egli così musicalmente otteneva), è assai simile alle formule dell’intellettualismo dantesco: né l’uno né l’altro se ne contentano; ma i posteri vi si disciplinano. Poi nella Resurrezione prorompe pensoso l’eroe. 483

Così la concentrazione spirituale, tradotta in dominio umano dello spazio, e formulata in legge di prospettiva, ha svelato l’importanza e l’origine dell’intellettualismo fiorentino: che ha in Dante certo il suo più fecondo assertore. Da Giotto a Pier della Francesca, il cammino è uno solo; ma Masaccio ha introdotto nella conseguente avventura dei grandi fiorentini una preoccupazione morale che già si atteggia; e di questo atteggiarsi Pier della Francesca ha fatto un costume. Intorno a lui la fortuna di Dante celebra altri fasti, in apparenza più cospicui, ma soltanto vistosi: per questa processione l’intensità autentica del linguaggio di Dante si traduce e si riproduce. Altri modi di Dante rimangono in disparte o nello sfondo: come quel gesto oratorio che addita il cielo, nell’Adorazione del Bambino (ivi, nella figura della Vergine, l’accento cade su «umile», ma nel quadro di Masaccio, con sant’Anna, l’accento cadeva su «alta»). L’intenzione spirituale si è via via connaturata al costume, è penetrata in ogni strato della vita sociale, si apre, con Piero, alla ventura di una vita che ritrova la festa del suo vento e del suo sole pur nell’armonia indicibile di quelle pure cadenze. Certo altre parole anche questa volta soccorrono il poeta pittore: ché quel dominio si esercita sopra un paesaggio culturale che contiene ogni esperienza, dall’avventura internazionale dei sanesi alla fierezza intransigente dei Disciplinati. Un dominio che si estende senza guerre: più esteso quanto più profondo. E un discorso in ogni parte equilibrato e persuasivo. L’accordo fra civiltà cortese e spiritualismo era tutto celebrato; ma Dante non smette di operar nel profondo. E ancora dantesco d’ispirazione e di stile è il capolavoro liturgico dell’umanesimo toscano: la Resurrezione di Borgo San Sepolcro.

Le porte del Paradiso Le “porte del Paradiso”: in quella Firenze duttile e pronta, dove i dati offerti dalla fantasia e accolti dall’immaginazione erano celebrati con tanta vivacità di moti, in una comune attenzione cittadina continuamente sollecitata, commossa per spontaneo moto, più pronta ai richiami aperti che paziente dei circoli chiusi della dottrina e del catalogo, le sculture che Dante vide nel contornare il primo girone del Purgatorio rimasero a suggerir molto in poco. I tre gruppi dell’umiltà avviano stilemi che evadono dai vincoli di una tecnica plastica che voglia acquistar forza dalla materia trattata: l’Annunciazione vuol suggerire una immagine docile e forte, una grazia commossa, un’onda emotiva tradotta dal segno dell’artefice in una modellatura dolce e lenta, quasi struggente; la curiosità dell’intenditore d’arte, in quella vigilia dello spirito che è la rinunzia alla superbia, si volge al proposito di superare i limiti della materia: e non sembiava immagine che tace

ma una nozione più precisa accompagna Maria: come figura in cera si suggella,7

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che è frase facilmente volta dal suo significato circoscritto (la parola taciuta si imprime nel segno marmoreo così docilmente come il sigillo s’imprime nella cera) ad una tecnica d’artista, quasi diretta a trattare la pietra come cera. E certo l’emblematismo ha la sua parte in questo, ché la pietra è simbolo di superbia, e con Maria per la prima volta l’annuncio regale dell’angelo diventa prodigio di umiltà: «Ecce ancilla Dei». Più facile, e diciam pure più pittoresca, l’animazione delle altre due figurazioni, che biancheggiano dietro Maria: la storia di Davide e di Micol, con quel moto andante dei cori e degli incensi, e il contrasto fra la danza di Davide e la postura superba di Micol, affacciata alla finestra di un gran palazzo; la storia di Traiano, con la scansione dialogica fra il protagonista imperiale e l’antagonista derelitta, e quel vento epico che gonfia i vessilli dell’aquile. La scultura fiorentina, quando fu libera dagli impegni compositivi, si ricordò molto volentieri di questo impegno di superar con la suggestione emotiva il limite della materia, non più «sorda al rispondere», ma pronta alla parola, allo spirito: che è ancora un capitolo di quello spiritualismo fiorentino che appartiene alla invenzione della cultura stilnovistica, intento al segreto dell’anima e alle trasfiguranti rivelazioni d’Amore; ma quando si rassegnò e si chiuse in un ordine celebrato dall’esterno, le erano più prossime e instanti le figure e le formelle degli esempi dei superbi: lasciava che una tradizione immensa, ma contermine, da Iacopo della Quercia a Michelangelo, cercasse non già fuori, ma dentro il limite della materia la liberazione drammatica dello spirito, d’accordo più con l’intima poetica del Dante poeta dell’Inferno che con i suoi dettami e suggerimenti culturalistici. Le cronache furon piene, e le ciarle, di quella contesa per le porte del Battistero che vide gareggiare Donatello, Iacopo e Lorenzo; e l’aver scelto il sacrificio d’Isacco significava bene spostare l’attenzione verso quella storia sacra che anche in Dante era trattata come avventuroso presagio, con modi di romanzo: e forse il tema era un compromesso fra le possibili evasioni ed il cristocentrismo liturgico. Vinse chi si dichiarò per un accordo, che seppe svolgere in canone d’eleganza, rispettando il compito primamente decorativo che gli era stato assegnato, le indicazioni di quello spiritualismo ormai connaturato. La storia di Lorenzo Ghiberti intento all’opera delle porte del Battistero proseguì poi per suo conto, prevalendo accanto a lui l’intenzione di scoprire un canone più profondamente umano attraverso le forme dell’arti; ma la sua attenzione di uomo di cultura, e perciò circospetto e conseguente, se fece come Dante nelle formelle dei superbi, se accettò di tradurre in decorazioni e illustrazioni una cifra geometrica, «vedea, mostrava, oh…», ripercorse insieme con Dante l’idea della fondazione di un’arte rinascimentale, si riallacciò agli antichi come a custodi dell’idea di una natura redimibile, sdegnò ogni forma di iconoclastia, venerando nell’arte la genitura divina.

Donatello Egli riassumeva idee e forme da cui gli artisti più giovani e più geniali movevano per una liberazione più impetuosa: Donatello capovolse appunto i canoni dell’umanesimo più circospetto, quello che raccomandava all’uomo, per una 485

sua presentazione solenne e decente, la riscoperta dell’antico; mentre per lui erano le stesse forme antiche che potevano aiutarlo alla scoperta dell’umano e di sé. Quale più vicino a Dante di questi atteggiamenti umanistici? quello filologico del Ghiberti o quello individualista di Donatello? Certo il secondo, se Dante non ebbe notizia di una esecuzione grammaticale della ricerca dell’antico, e benché per lui l’arte della retorica, anzitutto, quanto l’esercizio dell’arte, fosse ricerca dell’eccellenza; benché poi accompagnasse questo superbo intento con un’ansia troppo profonda che entrava di diritto nella più feconda vita morale: «l’eccellenza ove il mio cuore intese». Ed anche connaturata a Dante è la libertà dell’immagine fantastica, che sorge impensatamente dalle più diverse occasioni: non maturata nella vigilia artigiana, come in Lorenzo, ma accesa all’improvviso da un estro irrefrenabile. I culti e i misteri orientali risorgono in questo innovatore epigono, e il senso di una esaltazione orgiastica accompagna il dinamismo della composizione: quante volte il tema della danza ritorna. Ma Dante era rimasto, anche per influenza della musica, nei limiti di una coreutica medievale, compositiva, non dionisiaca, svolgentesi lungo la linea di una melodia non contratta nel nodo di una antitesi e di una soluzione drammatica: benché, ancora sulla traccia di reminiscenze antiche, avesse inteso il senso del culto dionisiaco, e alluso scene di orgia: E quale Ismeno già vide ed Esopo lungo di sé di notte furia e calca, pur che i Teban di Bacco avesser uopo.8

Nel proporsi di ricondurre l’investigazione dell’antico al quadro della liturgia, Donatello non è altrettanto rigoroso che Dante: par che gli basti l’atto di ossequio esterno, la condizione preliminare che egli accetta, di lavorar per la liturgia. Indifferenza? No, se questo dionisiaco sfrena più impetuoso il vortice della danza quando è più sicura l’indicazione liturgica: nei rilievi della Cantoria. Quando è a trattar l’uomo per se medesimo, da Niccolò da Uzzano al Gattamelata, si vale di tutti i soccorsi della psicologia e dell’oratoria. E Dante, per cercare l’indice estremo di questo parallelo, è attento ai cori e alle danze degli angeli, nel cerchio supero della natura; nel cerchio infero, Donatello sostituisce agli angeli danteschi i suoi putti, e alla donna angelicata, che egli ignora, l’infante e l’adolescente carico di impulsi e di presagi. Comunque, nella zona mediana, quella più utile agli incontri e più feconda, è ancora dantesca la libertà donatelliana, di servirsi di qualunque occasione, come Dante trae a nuovo senso qualunque metafora o mito, la fecondità improvvisa dell’inventare, la certezza di poter tutto dire, anche sopra il già detto: taccia Lucano. Il serto pastorale nella vigilia eroica di Davide giovanetto è una di queste invenzioni: come la morte di Piramo nella vigilia di fiamma sul Purgatorio.

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Il Pollaiuolo La soluzione più frequente dei miti in Dante è la ricerca di un pathos che sospenda ogni giudizio morale, e quasi ogni responsabilità che non sia dal sentimento al senso: «e riguardolla», dice appunto di Piramo; ed è nella cortina di fiamme (ma Virgilio ribatte la suggestione di quello sguardo d’agonizzante: «gli occhi suoi già veder parmi»). Antonio del Pollaiuolo non accetta tale soluzione, anche se nella sua Dafne un tremor di sorriso, cui risponde l’ansia di una supplica già certa dell’errore, interrompe la fuga e prelude alla trasfigurazione arborea. Altro mito egli apprende da Dante ed altro cammino: quello dei Centauri, le «fiere snelle» che battono la campagna contermine alla città; e se l’estetismo botticelliano si fermerà volentieri ai miti patetici, egli accetta il mito della forza e della saggezza ingenua, del moto e della primitiva violenza: vedi che nel ratto di Deianira9 al patetico accento della bella che con la persona accorre alla riva abbandonata (ma la testa invincibilmente declina verso il rapitore) risponde l’ira aspra di Ercole che tira l’arco; e mentre la persona equina balza alla riva, la persona umana di Nesso s’allenta in una supplica accorata, per trattenerla: quasi apologo riassuntivo del mito dei Centauri. E il gruppo di Ercole e dell’Idra diventa una danza pirrica, nel moltiplicarsi dei gesti e delle linee, nei viluppi serpentini, negli avvolgimenti del fiume, nel vivo moto della spoglia leonina, nel brandir della mazza: li ne diè cento e non sentì le diece.10

Il mito classico diventa il soggetto di una rappresentazione disinteressata: Chiron prese uno strale e con la cocca fece la barba indietro a le mascelle.11

Sandro Botticelli Con il Botticelli, che è tanto meno artigiano e tanto più pensoso del Pollaiuolo, il prevaler della notizia affettuosa accompagna altra scelta dei miti: anch’essi danteschi; e nell’apprestare a quel crepuscolo della vita quattrocentesca un’enciclopedia per immagini, Sandro si rifà a Dante più che a ogni altro testo; certo, se la filosofia di Matteo Palmieri e la dottrina di Cristoforo Landino (con entrambi ebbe attinenza d’opere) si accampavano orgogliose in quegli anni, egli non lascia di Firenze una memoria baldanzosa: anzi, colori preziosi, tanto opimi da annunziare che presto saranno disfatti, e un’eleganza tanto squisita da apparir peritura, l’annunzio malinconico e irrimediabile della morte nel trionfo della primavera e della bellezza. Con questo sentimento, che è la sua musica, va incontro anche a Dante, gli parla, quello gli risponde: l’universalità del poeta non dovette essere mai avvertita tanto distintamente che allora, rispondendo egli a tanti, e tanto diversi. A contrasto col Pollaiuolo dipinse Pallade vincitrice del Centauro; e la fuga degli As487

siri «poiché fu morto Oloferne» tiene nello sfondo del quadro di Giuditta, dove domina la stanchezza di una impresa necessaria, e pur nella sua necessità remota, incompresa: «ed anche le reliquie del martiro», nella testa mozza portata in capo dall’ancella, mentre Giuditta s’incammina in danza portando la spada; ma Dante aveva preferito il gran corpo decapitato, a invadere lo spazio della sua scultura. Ancora di un dantismo delle Rime, di una Firenze duecentesca rivissuta attraverso il Poliziano, si rammenta nella Primavera; ma quando è all’impegno di illustrare la Commedia, lascia che prevalgano, pur nella intensa rapidità del segno, gli atti di un ossequio oratorio. È ancora sua la scrittura di quei ricchi altissimi contorni; sua la cadenza delle misure; sua la compiacenza di certi rilievi del commento, le danze angeliche o le catene dei Giganti; ma l’ossequio, involontariamente, misura una distanza; e del poeta apocalittico, nell’apocalisse fiorentina dei Palleschi e dei Piagnoni, egli non intende il gran motivo resurrezionale: i suoi segni, involontariamente, impallidiscono nell’ombra, dove la vita dei sogni di Dante era stata ed era un vittorioso protendersi al tempo futuro.

Luca Signorelli Più gagliardo nel raccogliere l’eredità dantesca Luca Signorelli; ma egli viene dalla provincia toscana e s’allontana sulla strada di Roma; e il discepolato di Pier della Francesca gli dovette dare il gusto dei riassunti complessivi: mentre il dantismo dei fiorentini era più attento ai particolari preziosi, accettava, più volentieri, il frammento dell’insuperabile artista che il discorso dell’imparagonabile poeta. Standosene così in disparte, e nella orgogliosa solitudine provinciale avvertendo la necessità di ritornare indietro sulla strada delle forti credenze, egli accetta di leggere Dante facendo centro a quella preoccupazione apocalittica che l’umanesimo aveva trascurato; accetta inoltre, che ai fini della cultura dantesca è anche più importante, di ripensare Dante secondo una linea e uno stile dantesco, che inevitabilmente in lui appare goticizzante, o almeno fortemente squadrato, secondo quelle cadenze ritmiche che erano dei contemporanei tedeschi. È la prima proporzione dottrinale che si risolve in una situazione storica, fra i lettori di Dante; e le meditazioni fratesche che erano spiaciute ai lettori estetizzanti vengono intese come il succo e il frutto più autentico del poeta dei vivi e dei morti. Botticelli, anche quando legge e illustra Dante, si ritrae da quella gran luce e forza, compone secondo un solenne decoro, ma lascia che gli spazi bianchi prevalgano sui neri, traccia un contorno che valga come di suggerimento statuario, e la sua dolente meditazione prosegue altrove; ma Luca, di Dante riaccetta tutto: l’arcanismo della contemplazione mitologica nella Scuola di Pan e la violenza plastica nella flagellazione di Cristo; accetta, soprattutto, di rendersi illustratore del suo tema centrale, riportandolo alla dignità musiva e liturgica della megalografia sacra: Quali i beati al novissimo bando surgeran presti ognun di sua caverna la revestita carne alleluiando,12

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diventa il motivo conduttore di tutto un quadro; e se l’altre scene, d’inferno e di paura, accompagnano gli altri quadri, l’annunzio della vittoria corre tutta la drammaturgia pittorica della cappella di San Brizio, ogni volta che si ripete, quasi tema melodico, il motivo dell’ali che invadono lo spazio accompagnando il coro degli angeli, in arco sopra i beati: anche nel volo dei diavoli risuona quel motivo. Questo o quel particolare episodico o ritrattistico riprende da Dante: solo carica della peccatrice formosa, anziché dell’anzian di santa Zita, l’omero superbo dell’angelo cornuto. E ancora dantesco è il tramortimento che abbatte gli uomini nei Fatti dell’Anticristo: sonno mistico di una storia arcana che la pittura dichiara.

Emblematismo ferrarese e allegorismo veneziano Questo paragrafo, qui introdotto anche per non smentire le responsabilità assunte portando la poesia di Dante a paragone del linguaggio più vasto e in mille sensi pieghevole della civiltà d’Italia, il linguaggio della pittura, istituisce o avvia o soltanto indica come possibile un’indagine parallela: perché nell’arte fiorentina e toscana la lettura del Dante è un impegno costante e confessato e del resto in mille modi avvertibile; ma nell’arte dell’Italia settentrionale tale familiarità d’incontro è da escludersi: se ne ricordano i letterati che stanno avviandosi a riconoscere l’egemonia della cultura fiorentina nella cultura italiana; e del resto, la necessità di un compromesso fra toscanesimo e umanesimo, dato che per accettar l’uno i “Lombardi” non volevano rinunziare all’altro, visto nella sua classificazione più filologica, imponeva la scelta del Petrarca, a preferenza di Dante. Eppure, consapevolmente o no (ogni parola è onnipresente nel linguaggio, come una mica di sale si dissolve in tutto il mare), immagini e modi danteschi possono essere portati al paragone di una cultura che pare ignorarli. Altri altro di lui prende: e se tace in zone che prima erano piene di lui, hanno insegnato qualcosa di lui a diverse che aperto non ne parlano.

Dalla Romagna a Ferrara Rammenta la violenza e la baldanza con cui la Romagna, popolo e addottrinati, gli si volse: quasi rispondevano al suo invito, cercavano lui che li giudicava, erano attenti ai suoi proverbi, dalla storia di Francesca alla condanna pensosa e iraconda della politica partigiana, a quella beffa della propaganda che par la notizia dell’assassinio e mazzeramento della Cattolica. E il costume romagnolo, rissoso e carnale, ingenuo e mutevole, quasi si compiacque di quel ritratto, cercò poi di restarvi simigliante, diresti che modulasse anche la parola con una nuova forza scabra, se gli stilemi dell’uso moderno non rispondono a quanto Dante avvertiva, cercandovi uno dei vertici del volgare illustre. Poi la fortuna di Dante in Romagna tace improvvisa; ma nella fioritura della contermine cultura ferrarese, nel Quattrocento, se la curiosità letteraria si volge tutta quanta a mantener la 489

tradizione estense della lirica cortese, tanto signorilmente aperta ai Provenzali, e il gusto nobilesco e guerriero dei romanzi francesi, la pittura, che è linguaggio assai più popolare e vulgato, attende a uno stile violento e audace. Qui la storia della pittura bene ci mette sull’avviso, e indica e documenta influenze e reminiscenze fiamminghe; ma anche quella ricerca di stile doveva nascere da una necessità spirituale: in arte le “influenze” non si determinano mai passivamente, subendo un influsso; gli artisti, per sé e per il loro popolo, fanno la scelta; ed anche un conservatorismo goticizzante significa che si accettano le raccomandazioni del passato: fra queste, nel Quattrocento, era Dante. Accanto ai fiamminghi passano e soggiornano in Ferrara artisti d’ogni parte d’Italia e di fuori; e obbediscono, più o meno trasformando, secondo le indicazioni del committente, la loro maniera, a quell’ambiente, a quell’atmosfera, a quella natura: ché gli Estensi, anche in quella loro lunga e quasi tradizionale successione per linea illegittima, sono i principi d’Italia più connaturati col loro popolo, più pronti a riconoscere la presenza di impulsi elementari, magari obbedendovi essi primi, bestialmente talvolta. Non siamo ancora, ben inteso, al complesso naturalismo di Lodovico Ariosto e di Dosso Dossi; ma la pittura ferrarese sta cercando come armonizzare così diversi impulsi quali vengono da ogni punto dell’orizzonte, da van der Weyden come da Michele Ongaro, dal Pisanello come dal Maccagnino; e se il dato corrente è la moda dell’internazionalismo gotico, anche qui rammenta, come meglio si vedrà in seguito, studiando la fortuna europea di Dante, che il gotico fiorito leggeva Dante attraverso l’allegorismo cortigiano, prima di riscoprirne la forza. A volgere in nuovo senso la storia della pittura ferrarese fu anche Pier della Francesca; e quel suo intellettuale e sensibile dominio sopra il reale, che s’è pur dovuto ricollegare a Dante, fu appunto riscoperta di forza; e il poetico giuoco delle immaginazioni gotiche diventò veemenza fantastica, dinamismo mitopoetico e, nella accezione più ferrarese, emblematismo. Cosmè Tura, Francesco del Cossa, Ercole Roberti, Lorenzo Costa fanno una via diretta, dopo quella scoperta, appresa da Piero, che l’immagine della pittura è una cifra per l’acquisto della realtà; ma se Pier della Francesca liturgizzava lo spazio, questi non dimenticano l’allegorismo dello stile fiorito né l’austerità della intelligenza gotica: per questa via riscoprono Dante; né importa che ne abbiano o ne diano contezza: importa che lo rivediamo noi in quella luce, e distinguiamo per questa via le due fasi del simbolismo rinascimentale, emblematismo dei ferraresi, allegorismo nei veneziani: si riapriva il dualismo dell’arte trecentesca fra Dante e il Petrarca.

Da Ferrara a Venezia La soluzione dei Ferraresi fu di un’arte araldica: non per nulla erano tutti quanti al servizio politico di una Corte vicina al popolo, e di un’arte surrealista; non per nulla la loro riscoperta in parte precorse, in parte coincise con le mode dell’arte moderna emblematica, dal cubismo, che fa forza alla luce dell’atmosfera ondante e suasiva e s’accampa in uno spazio definito, al fauvisme, che tenta i simboli e i 490

riti di un animismo primitivo. Rivelano, nella loro giovanile stagione, quella fresca forza che par attenuarsi e ammorbidirsi nelle sagaci attenzioni dell’Ariosto, nella matura armonia con cui il divin Lombardo si equilibra fra tante proposte, aperto sul costume ed aperto sulla natura, uomo di corte, che nel suo canto raccoglie tutta la tradizione della poesia cortese, ed uomo di teatro, che ha l’abito e il gusto delle rispondenze esatte. Ripropongono nel simbolismo una parola magica: di una magia naturale, ben inteso, per nulla propensa alle contorsioni dei ciurmadori, per nulla stregonesca ed ipocrita, per nulla intellettuale; ma da una intelligenza aperta e soccorsa chiamata ad esercitarsi in una ricca materia spirituale, chiamata a dir la forza delle attenzioni volenterose e pensose. Portano un vessillo in quei loro paesaggi aperti e dirotti: dicono una parola che di là dai drammatici divari stabilisce un’intesa. Perché resta notabile che a fondamento di questo emblematismo araldico ferrarese ci sia pure sempre il dichiarato dominio dell’uomo sulla natura, amica e nemica. Altrettanto dominio è nei Veneziani: ché Ferrara s’affaccia al mare nei vasti spazi dei suoi cieli, nella fluviale immensità delle sue acque; ma Venezia s’affaccia alla terra dal suo mare. Qui la soluzione dell’arte (da Giovanni Bellini a Tiziano, attraverso il Giorgione) fu assai modulata, più attenta all’eloquenza dei sentimenti, più musicalmente persuasiva; contro il mistero non si avventano con la forza ancor dura del Tura e del Cossa: l’attenuano, in una eleganza superbamente composita, dapprima, poi, quasi ritornandovi col pensiero, in una disposizione musicale, in una blanda accoglienza che non vuol chiudersi, irrigidirsi. Operano suggerendo quel modo più sapiente al loro vicino grande, Dosso Dossi, e al loro vicino grandissimo, Ludovico Ariosto. La loro allegoria non è un dato invadente, non è un emblema che, innalzato da un campione guerriero, deve annunciare ai nemici il loro futuro spavento: è piuttosto un tema per una riflessione immaginosa, un crittogramma blando che, risolto, svagherà un’ora felice. Così delle allegorie di Giovanni Bellini, così delle allegorie di Tiziano; così, per tutti, delle scene ermetiche del Giorgione, che aprono tanto spazio al mistero, e si compiacciono delle penombre come delle melodie coloristiche, alte e basse, in uno svariare di toni maggiori e minori, nelle armonie diatoniche. Ma i Fiorentini attraverso Agostino erano giunti al divino Platone: l’umanesimo veneziano, che non si poteva mai dimenticare del prossimo naturalismo padovano, e del panteismo orientale, attraverso Agostino giunge al neoplatonismo, quando non pure alla gnosi; e, se non Tiziano nei ritratti, alla conclusione personalistica dell’ermetismo spiritualistico si sottraggono: piace loro un sogguardare blando, il sogno crepuscolare di chi «sognando desidera sognare»: Dante? Oh, no; qui è visto dai decadenti: Gozzano.13

Ariosto Tutto ciò si dichiara, con una regola più ligia al nostro preordinato intento, quando si osserva come il grande poeta di questa epoca e di questa civiltà, l’Ariosto naturalmente, ritrovi Dante attraverso loro: ché s’intravvedono meglio allora, e 491

si definiscono, le rispondenze fra Dante e i ferraresi, fra Dante e i veneziani. Dell’Ariosto la citazione dantesca è assai facile; ma noi, certo cercando la via per seguitare le forme più vulgate, quelle che più comportano ad una storia in extenso, ch’è la fortuna, additiamo le citazioni facilissime; né ci rincresca che, sottraendo l’Ariosto al capitolo che più superficialmente sarebbe sembrato convenirgli, quello del Cinquecento, lo aduniamo qui, fra i pittori. (Per tutti i letterati cinquecenteschi che han letto Dante, dal Berni al Firenzuola, dagli autori di capitoli agli autori di favole e di apologhi, abbiamo scelto il Gelli: il più scoperto e il più artigiano fra i suoi laudatori.) Un ovvio citare: le Arpie che insozzano le mense del re d’Etiopia, come devastavano i barbari l’Italia; e nell’Inferno dannate le donne ingrate, Lidia; e il viaggio di Astolfo nella luna. Ludovico rilutta a condurre a termine gli episodi nel senso voluto da Dante: appunto si ferma alle soglie d’inferno, e dei cieli non va più in alto che quel della luna. Il mistero della trascendenza è accettato nella sua indicazione preliminare; non dimenticato, certo, e tanto meno irriso, come legge chi subordina nel testo poetico l’illustrazione storica all’intelligenza autentica: accennato; e poi, nell’ora concessa allo svago ed al sogno, trascorso. Ma appunto in questo la tecnica artistica dell’Ariosto si rivela per qualche senso opposta a quella di Dante; benché l’uno e l’altro poeta cristiano: come di Ludovico diceva uno che se ne intendeva, Michele Cervantes. Egli si muove nell’atmosfera umana e sentimentale e fantasticante del simbolo e del segno: e si compiace di trattenersi in questa zona nel preambolo terreno d’inferno che è la superbia in amore, nel preambolo terreno di paradiso che è la raccolta ironica di tutte le cose perdute. Il senno si ritrova in cielo; e dove è mai la superbia intellettualistica dei pedanti filosofi e letterati e riformatori religiosi, se il senno, la ragione, si può ritrovare nella luna? se l’evangelista Aquila guida il paladino, sceso dal cavallo alato, in una delle innumerevoli corti che costellano la terra sciagurata e felice, e finalmente anche i cieli? Il modo di quell’immaginare, anche se amabilmente deformato, e l’allegorismo più da Trionfi che da Commedia, ancora riporta al Petrarca: come tutta quella cultura, del resto; ma l’allegorismo più scoperto, e meno rigoroso nell’ossequio ai dati dell’intelletto, indica una custodia dantesca. Nel giro enciclopedico di quella cultura, se l’officiatura era più sentimentale (petrarchesca) che spiritualistica (dantesca), Dante appariva a buon titolo come tutti gli altri poeti, che lo imitassero o no, che accettassero il suo rigoroso imperio: così Raffaello lo dispone, con l’Ariosto, nelle Stanze. E Dante di questa lata accoglienza fatta alle immagini della letteratura era stato il primo esempio: o non era suo il verso mirabile del sogno della cortesia antica, fiorita fra la gente di Romagna nelle generazioni passate? Le donne e i cavalier, li affanni e gli agi,14

trascorrendo per Luigi Pulci, il verso era stato accettato dall’Ariosto a intonare il preludio del suo poema. Poeta cristiano l’Ariosto, nel suo umano attendere a cose belle, a cose degne, a cose «pertinenti a loro», come dice di un’accoglienza cortese; poeta di un costume cristiano. E poeta cattolico Dante, nella inesausta forza di soccorrere il mondo, nella gioia della terra e della gente redenta, nella 492

gloria delle certezze: poeta di un costume cattolico, che per la storia accetta e attende e prega i soccorsi della Provvidenza. Quel verso ci riporta alla Romagna: donde questo giro era mosso.

Michelangelo Anche Michelangelo, lo spirito più dichiaratamente dantesco del Rinascimento, passato per proverbio, muove da un’immagine di Dante volgarizzata: il suo Dante, il suo vicin fiorentino, l’esule che nella solitudine della vita giudica l’inferno ed il cielo; ma all’immagine vulgata va poi incontro con una ritrosia fremente ed audace, ripercorrendo da sé quel cammino del Giudizio Finale; e in Dante legge a preferenza una parola, la liberazione degli eroi, dannati o salvi, nel gesto, la testimonianza di essere nel loro cammino di vita e di morte giunti alla rivelazione di sé, e il loro dominio non già dello spazio in astratto, che era stata l’applicazione che l’intellettualismo fiorentino aveva fatta del viaggio di Dante nel cosmo, ma del loro spazio concreto, di quel che loro appartiene, dominato da loro, pieno del loro gesto: rinunzia dunque a quell’intellettualismo. Poiché allegorizzare è facile, troverai che il destino del superbo tagliapietra, per quel che identifica se stesso con i suoi eroi, ha pure attinenza con il destino inflitto da Dante ai superbi: d’essere dannati nella pietra; dal «soverchio» del marmo li libera per impietrarli nel gesto, e vietar loro d’andare oltre; e tutt’al più lascia ai discepoli di accomodare i suoi duri fantasmi al linguaggio corrente, di accompagnare i suoi titani fra la gente, con la generica levigatezza dell’ultima mano. Tornino le sue opere, per merito dei lavoranti, all’ammirativa indifferenza dei molti; ma il suo noviziato di scultore incomincia nei giardini medicei, con gli altri giovani a copiar marmi antichi, e giunge sino alla liberazione ascetica della Pietà Rondanini: il suo noviziato culturale conosce Dante prima d’ogni altro testo, per ritornare a lui ad ogni tappa del suo cammino di vita, e concludersi con lui. Gli serve, tuttavia, non l’enciclopedia dantesca che la tradizione pittorica rinascimentale aveva elaborata lungo la direzione che abbiamo fin qui considerata, ma la nozione comune intorno a Dante, con quella mentalità politica, morale e religiosa, che aveva incominciato a definirsi in morte del poeta: Dal ciel discese, e col mortal suo, poi che visto ebbe l’inferno giusto e ’l pio, ritornò vivo a contemplare Dio, per dar di tutto il vero lume a noi. Lucente stella, che co’ raggi suoi fé chiaro, a torto, il nido ove nacqu’io, né sare’ ’l premio tutto ’l mondo rio: tu sol, che la creasti, esser quel puoi. Di Dante dico, che mal conosciute fur l’opre sue da quel popolo ingrato, che solo a’ giusti manca di salute.

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Foss’io pur lui! ch’a tal fortuna nato, per l’aspro esilio suo, con la virtute, dare’ del mondo il più felice stato.15

In tale forma diretta egli ripete quelle proposizioni vulgate del mito dantesco; ma ad ogni intenzione poetica quando tratta lo scalpello o il pennello egli giunge scomponendo o rompendo un canone in modulo frequentato, sperimentato, posseduto: mentre questi stilemi dimessi appartengono ad un tono popolaresco, a quella sprezzatura che un Berni, suo ammiratore, sapeva tanto bene mantenere pur nella sorvegliata decenza di uno stile letteratissimo. Vi leggi tutto quel che di Dante si sapeva e si diceva: il meraviglioso viaggio «col mortal suo», dimenticando, come Dante stesso dimentica, nella verosimiglianza del suo favolare, il dubbio già espresso: «S’io era sol di me quel che creasti / novellamente, amor che ’l ciel governi…»; e insiste: «ritornò vivo». Certo il quadro concettuale, dove colloca la storia di Dante, è quello del platonismo cristiano: disceso dal cielo, al cielo risalito. Ed appartiene alla polemica anche dantesca contro la piccola patria cittadina il contrasto fra la stella lucente e il «nido» oscuro; premio di quella luce non sarebbe tutto il mondo empio e peccatore: solo Dio può essere premio di tanta creatura. Ancora alla polemica vulgata contro Firenze appartiene la prima terzina: «quel popolo ingrato»; ma ingenuo e suo è l’augurio d’essergli eguale: «Foss’io pur lui!». Ingenuo e generico il proposito finale di «dar del mondo il più felice stato»: beatitudine sua e beatitudine di tutti, guadagnarsi la grandezza «per l’aspro esilio, con la virtude». Resta dunque quaggiù ad operare nel mondo, che poco prima sprezzava. Par che dal Dante apprenda per prima cosa l’attitudine a proverbiare; e ve ne sono altre testimonianze, dal sonetto del «Vostro Michelagniolo in Turchia»: Qua si fa elmi di calici e spade, e ’l sangue di Cristo si vend’a giumelle,

con la sua generica, ma accesa, preoccupazione politica, a quel frammento di modi petrarcheschi e danteschi, che pesca nella memoria con quel suo gusto, popolaresco anch’esso ed incolto, della reminiscenza diluita: Mille rimedi invan l’anima tenta: poi ch’i’ fu’ preso alla prestina strada, di ritornare indarno s’argomenta. Il mare e ’l monte e ’l foco colla spada in mezzo a questi tutti insieme vivo; al monte non mi lascia chi m’ha privo dell’intelletto e tolto la ragione,

all’altro frammento, così immediatamente memore di didascalismo stilnovista:

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Amore è un concetto di bellezza immaginata o vista dentro al core, amica di virtute e gentilezza…

Enciclopedia vulgata, ripetiamo; e valga per lui quel che fu detto per Sandro Botticelli illustratore di Dante sull’edizione landina: che da quella vulgata era bene movesse ogni individuata lettura. Forse la sua illustrazione della Commedia perduta in un naufragio (ma ti verrebbe fatto di dire diluvio, pensando a quella sua mitografia della fuga sul monte, fra l’arca e le grandi acque) è leggenda: leggenda suggestiva e significativa, comunque, se toccò a lui, più che ad ogni altro, dire il senso di una catastrofe della civiltà italiana («oh diluvio raccolto da che deserti strani per inondare i nostri dolci campi…»). (Vero ch’egli rilutta a dir le grazie deliciane del giardino terrestre; ma non ha nemmeno bisogno di sottintenderle, tanto gli s’affollano intorno: nella sua opera c’è una lunga polemica contro l’idillio; e la polemica già si sa che apre o sottintende il termine avverso.) Dunque un’opera sistematica di commento figurativo a Dante poté o non poté andare sommersa; ma il fatto, vero o inventato, serve a dar cornice a quella perpetua reminiscenza, anzi richiamo dantesco ch’è nella sua opera tutta quanta. A una costruzione complessa da paragonare alla Commedia si sa che lo costrinsero, più che non l’accolsero; e quando proponeva che i lavori della Sistina fossero affidati a Raffaello, forse voleva serbarsi in quella indipendenza di fantasia frammentaria e lirica, di drammaturgia per immagini intense, senza mediazione di piani intellettuali, lasciando al più docile avversario l’obbedienza matura e squisita alle indicazioni riflessive, e di tradurre in canone armonioso le molte voci che s’inseguivano lungo la penisola. Fu infine costretto a ciò che gli era commesso; e se nella prima fase, la volta della Sistina, lascia che la predisposta cadenza architettonica gli suggerisca ritmi alle storie e cornici alle figure, nella seconda fase, la parete del Giudizio, propone che l’intuizione lirica domini su ogni altro aspetto e momento del conoscere, canta, racconta, discorre, e insomma proclama una pagina che è prima di tutto eloquente, che nel pathos dell’uomo aduna tutti i complessi motivi del gran tema. Luca Signorelli, un discepolo più riflessivo di Dante, e più legato al canone umanistico dell’eccellenza razionale della persona, aveva segnato spazi e geometrie ad accostare l’umano e il divino nell’atto dell’immensa tragedia; ma lui chiede che solo il movimento gli basti, e indica poche linee elementari, due tre direzioni infinite al moto. Da quella prima a questa fase finale è la svolta che nella stessa lettura di Dante noi dobbiamo a Michelangelo. Fino allora erano stati attenti, leggendo, principalmente alla fondazione dell’intelligenza umanistica italiana basata sopra un chiaro discorso intellettualistico, su giustificazioni tutte quante aperte e riconoscibili e prestissimo partecipate anche se i più si rivolgevano dal suo fondamentale tomismo all’accezione platonizzante della dottrina chiesastica, o più tardi, quando il secolo di Michelangelo declina, dall’idealismo platonico al naturalismo aristotelico, di nuovo: ch’era stato il punto di partenza della cultura di Dante. Ma con lui, che legge popolarmente, che nella sua polemica predilige l’immediatezza del patrimonio poetico e popolare, contro la cultura, Dante 495

torna a valere nelle proposte immediate, nella memoria dei frammenti; così, si noti fin d’ora, tornerà a leggerlo il gusto popolare dei romantici. E ancora di qui s’inizia, da ricollegare a Vico, il culto degli eroi: ché c’è veramente, in lui, un culto, e una premessa retorica di quel rito dell’uomo svelato e seppellito nel gesto. In Dante, se la nostra lettura è stata condotta a dovere, parrà ben chiaro che nulla è arbitrario, che la definizione lirica della figura è esatta da una precisa circostanza di struttura e di dottrina, e che l’immagine della poesia è scoperta dopo una lunga vigilia e un lungo, anche se sottinteso, riassunto di pensiero: aiutando ogni circostanza di dottrina e di storia a dichiarare quel che era prima della fantasia creativa. Ma con Michelangelo incomincia l’immensa retorica della persona, l’arbitrio di uno sforzo volenteroso diretto a bruciare le tappe e varcare ogni mediazione dell’intelletto fra l’anima e l’immagine, l’eloquenza insomma che con uno strappo ardito concili la verità all’immagine: quindi la forza, quindi la passione, quindi l’irruenza, e tutti i moti del cuore diretti a un riscatto che si avveri nell’uomo, per il sacrificio dell’uomo che consuma ed offre la sua stessa grandezza; i suoi ammiratori populisti fiorentini parlavano in verità, per lui, di cose contrapposte a parole: Ho visto qualche sua composizione: sono ignorante, e pur direi d’havelle lette tutte nel mezzo di Platone: sì ch’egli è nuovo Apollo e nuovo Apelle. Tacete unquanco, pallide viole, e liquidi cristalli, e fere snelle: ei dice cose e voi dite parole

con il Berni;16 ed è intelletto troppo sottile per rifiutare a caso, mentre parla in terzine, dunque in un metro che i popolani avevano accettato da Dante, e accanto agli stilemi petrarcheschi, quella frase «fiere snelle», che i mitologisti estetizzanti avevano pure preso da Dante (e direi che si ricorda anche dell’altra «fera», quella «alla gaietta pelle»; e si disfà per questa via anche di troppo allegorismo).

Dante dopo Michelangelo La lettura popolare di Dante continuò dunque, per merito di Michelangelo, sottolineando gli episodi eroici; e dimenticò quei riferimenti più proverbiali e spiccioli che a Michelangelo erano spesso bastati: Se dice il Poeta di Pistoia, istieti a mente, e basta…

Ma sopravvenne Vasari, a indicare in Michelangelo il custode di ogni grandezza, il culmine eroico di tutta l’arte toscana; e Dante fu spinto per quella stessa strada di Michelangelo: in una vicenda parallela, che va dai manieristi toscani 496

ai classicheggianti emiliani del Settecento, e appunto dal Gelli ai letterati della “maniera grande”, al Monti. La lettura allegorizzante del Giudizio, coi suoi riferimenti a Dante, spesso indiscreti, restava in disparte; e invece prevaleva nella memoria il gusto delle cose grandi: una conferma indiretta di quel dualismo che aveva separato la politeia letteraria italiana fino dai tempi del Petrarca: da una parte gli eroi, dall’altra parte l’Arcadia. Nel linguaggio pittorico toccò a Michelangelo di confortare la tradizione eroica; e di sostenere per parte sua la tradizione dantesca.

1 Una prima rapidissima informazione catalogica è alla voce Illustrazioni della DC, in SCARTAZZINI, Enciclopedia dantesca, cit., pp. 993 ss. Per gli illustratori qui citati, il Botticelli fu pubblicato dal Lippmann a Berlino, 1887, lo Stradano a Firenze, 1893, il Flaxman a Londra, 1807 e lo Scaramuzza a Milano, 1874-76. Il più popolare di tutti, Gustavo Doré, a Parigi dal 1861 al 1868. Si tratta, naturalmente, di dati esterni: ma suscettibili, comunque, di essere integrati. 2 Pg XI, 94-99. Il rapporto fra Dante e Giotto, tradizionalmente stabilito, fu confermato dal Vasari, in eccesso. La critica moderna preferì servirsene per questioni di datazione. Resta la coincidenza delle megalografie giubilari a Roma, dell’opere padovane e ravennati, delle celebrazioni dantesche a Firenze. 3 Dopo gli studi del Toesca e sino ad oggi, la conoscenza della miniatura bolognese ha progredito: così da farla diventare uno degli episodi importanti dell’arte italiana del Duecento e del Trecento; non altrettanto dei miniaturisti. Nel contrappunto dantesco, dei due temi ivi presenti, e storicamente validi (l’influenza francese e l’influenza giottesca) a promuovere un rinnovamento sopra gli stilemi bizantineggianti, sottolineiamo il primo; ma come si dice poi nel testo limitando il giudizio, l’inquietudine della parlata di Oderisi si proietta in più d’una direzione, accorre qua e là come quel vento della fama: è la condizione meno propizia per formular giudizi, anche sull’arte. 4 L’accenno ha il suo peso anche nell’iconografia dantesca: che trascuriamo; ma è certo che la tradizione ritrattistica è un capitolo della fortuna. Vedine, comunque, la discussione e la bibliografia in ZINGARELLI, La Vita ecc., pp. 1331 ss.: «Non disegnò né il giovane, come si crede comunemente, né una figura ideale; ma una specie di santo, in perenne giovinezza, con attributi simbolici, come si usava dei santi. E questa dev’essere la ragione per cui Leonardo Bruni, che pensava principalmente al suo poeta cittadino e filosofo, non ve lo riconosceva, e preferiva l’affresco di Santa Croce; sicché le sue parole “l’effigie sua propria” sembrano dette per contrapposizione; e in quella riconosceva l’uomo, non dov’era nella gran folla sottostante ai Beati del Paradiso». Non tutto di questo passo risulta da una lettura adeguata dell’opera: l’effigie non sarebbe meno ideale, se si potesse parlare di una ideale canonizzazione; né meno giovane se ritratta in forma perenne. 5 Pg XV, 106-114. 6 If IV, 112-114. 7 Pg X, 39; 45. 8 Pg XVIII, 9193: che è detto dei pigri accorrenti. Qui la nozione del mitologismo e del sincretismo dantesco va ripercorsa: ché nel momento del noviziato culturale era lui che investigava quel mondo remoto e lo riscopriva misteriosamente attuale nelle sue attinenze col Cristianesimo, superata l’antitesi polemica: «faceano onore / di sacrificio e di votivo grido» (Pd VIII, 4-5); ma nel momento della fortuna, la sua nozione, suggellato che abbia in immagine quel riacquisto, lo propone al nuovo sincretismo, che misurando una distanza sente conciliabile a sé anche quel preludio: «Lì si cantò non Bacco, non Peana» (Pd XIII, 26).

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9 «Quegli è Nesso / che morì per la bella Deianira»: così raccoglie un nuovo tema, da raccostare al ciclo dell’amore e della morte; ma il tema della forza selvaggia, su cui insiste il Pollaiuolo, scatta al termine della terzina «e fé di sé la vendetta elli stesso» (If XII, 69). 10 If XXV, 33. 11 If XII, 77-78. 12 Pg XXX, 13-15. 13 Introduciamo il cenno anche per un richiamo occasionale alla fortuna di Dante nel crepuscolarismo: benché le attinenze dell’emblematismo siano piuttosto con il decadentismo simbolico (con il Pascoli: la storia della fortuna dantesca nella poesia contemporanea in Italia conosce lui, che per troppa devozione e per trasmodante ossequio alla scuola vi si smarrisce, dove i poeti stranieri, con Rilke, George ed Eliot si ritrovano: e qui si citano perché passano tutti per Ruskin; e Ruskin per la cultura veneziana). La critica ha da tempo segnalato le reminiscenze del Gozzano dalla poesia classica, e specialmente dal Petrarca (Calcaterra): qui l’evidenza dell’incontro fra il finale di Una risorta e la vergogna di Dante per essersi abbassato alla curiosità del mimo di Adamo (If XXX, 136-138) non concilia già, ma allontana. 14 Pg XIV, 109. 15 Le variazioni sul dantismo di Michelangelo sono cominciate col Varchi, continuate col Vasari e col Condivi: né questa sarà l’ultima serie. Le Rime erano citate dall’ed. Foratti, Milano 1921 e riscontrate ora nella laterziana a cura di E.N. Girardi. 16 Ma la tradizione si prolunga a Giovanni Papini: «Aiutami un po’ te, semmai traligno, / Michelagnolo mio da Settignano, / che stavi a tu per tu col tuo macigno» (A Michelangiolo, in Pane e vino) con un parallelismo evidente con Dante: «Io ti vengo alla libera e sincero / poi che tu fosti mio concittadino, / Dante Alaghieri di Porta a San Pietro» (Preghiera a D. nel sesto centenario della morte). Qui varrà la notizia del prolungarsi di un popolarismo artigiano: la poesia A Michelangiolo si svolge nel volume biografico; ma in D. vivo quel comunicativo entusiasmo è impossibile; e a sottolineare la crisi della letteratura intorno a Dante nel centenario anno 1921, ecco la satira, che carduccianamente rialza i modi berneschi: «Né passa giorno che una mosca scempia / poi ch’è impinguata d’erudito sterco / non venga a nettar l’ali alla tua tempia, / e dopo che ogni pelo t’ha ricerco / colla tromba merdosa e il ventre molle / con ronzoni e con brusche muove alterco».

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Sannazaro, Vida e il sincretismo romano

Sincretismo romano e cultura barocca La cultura cinquecentesca, quale si tesse intorno a Michelangelo, eroicamente isolato, non con lui, benché continuamente lo sogguardi, si preoccupa di un tema dantesco, la conciliazione della classicità e del cristianesimo, ma crede d’aver troppo buon gusto per accettare quello stile gotico di lui. Il suo capitolo fondamentale, sorretto in ogni modo dalle direttive della curia romana, è il sincretismo classico-cristiano: rendere laudi e grazie a Dio, che nonostante tutto il peccato e tutti i peccati, la natura potesse per sua grazia tornare quale gli era uscita di mano, pura ed indenne. Un tal compito (con tutti i pericoli che comportava, e la contingenza di ferire i più rigorosi, e con loro anche i più fervidi, e di travolgere le forze morali e storiche della tradizione medievale, cioè dell’umanesimo scolastico, per riguadagnare le forze della tradizione antica e talune plaghe della cultura orientale, che si credevan devote alla classicità più che non fossero, nella catastrofe dell’impero d’Oriente sommerso dall’islamismo statolatrico dei Turchi), un tal compito fu perseguito in ogni modo; ma nella fretta, ingenua fretta, strana in quei gran politici, che pure nella politica letteraria erano tanto spesso ingenui, si badò piuttosto alle astrazioni del programma che alla concretezza delle opere, e andarono travolte le intenzioni sincretistiche che erano contenute in tanta poesia e in tanto pensiero del Trecento e del Quattrocento, per accorrere alla organizzazione della cultura fissata dagli umanisti sulle tracce del Petrarca. Dante rimase oltrepassato: si lesse in lui non il discepolo di Virgilio, ma il lettore dei poeti provenzali e francesi; eppure, se lì per lì parve andar perduto, la stessa formulazione sincretistica valse a farlo ricuperare in parte quando la cultura, superato il Barocco e l’Arcadia, si riaffacciò a considerare più equanimemente il passato, nella buona accoglienza che la erudizione settecentesca riserbava a tutte le forme e a tutte le testimonianze della storia. La maniera grande, con la sua eloquenza affettuosa, se per un verso si avvaleva del culto degli eroi, per altro amava riconoscere e accettare tutto quanto era romano-cristiano; dunque anche Dante: fu una delle strade battute per raggiungere a ritroso dei secoli l’unità storica della cultura occidentale, dopo che venne meno, nel catalogo della grande enciclopedia, la presunzione di ridurre tutto ad una misura di razionalità matematica. La nuova lettura di Dante, se oltralpe lo lessero dietro Klopstock, fu fatta in Italia in una cerchia di eloquenza barocca, cui serviva rammentare, di là da tutti i soccorsi ch’egli apprestava all’eloquenza illustrativa degli oratori e degli autori descrittivi alla Zappi, la sua offerta di pace cristiana al mondo delle parole e dei segni. 499

Sannazaro La mediazione offerta rimase tuttavia negletta e remota. Come Raffaello nelle Stanze, lo si invitava nel novero dei grandi, non si accettava da lui una indicazione troppo precisa, impegnativa, quel suo risolver tutto in figura e in dramma, dopo aver accettato tutte le esperienze della dottrina e della cultura. La Commedia era una sacra rappresentazione popolaresca, che aveva dopo tutto e purtroppo dato nome alle profanissime rappresentazioni popolaresche delle Maschere: della cultura di Dante si pretendeva fare a meno, dacché lui stesso aveva risolto tutto in poesia; e le sue elucubrazioni dottrinali sembravano sorpassate. Anche per questa via, pareva che avesse quel che gli era dovuto: infatti, l’intelligenza letteraria del Cinquecento è ostilissima ad accettare le forme rappresentative dell’età di mezzo; e se tollera le rappresentazioni sacre del Gonfalone e le sopravvivenze popolaresche dei Misteri, vuole risolvere in narrazione epica ogni forma di celebrazione del dogma e del culto. Il poema latino-cristiano per eccellenza diventa quello del Sannazaro. Il quale, troppo buon poeta volgare per conto suo, riserba appunto a Dante le buone accoglienze di cui sopra: guardandosi dal farlo arbitro del proprio modo di immaginare la fede e i suoi misteri. «Assonanze» le chiama lo Zabughin, modulazioni di un incontro musicale, d’immagini che valgono per la suggestione melica, più che per le necessità d’impianto del racconto e dello stile: a tutto questo bastava Virgilio. Il Teque amor et liquidis flagrans alit ignibus aura del Partus Virginis gli sembra riecheggiato su: Nel ventre tuo si raccese l’amore per lo cui caldo ne l’eterna pace così è germinato questo fiore.1

Dove si potrebbe pur leggere un’onda d’eco maggiore, se la naturalezza insieme poetica e carnale del poema è pur paragonabile al fervore naturale e insieme mistico della grande terzina. Eppure potremo leggere nel Sannazaro una ideal prosecuzione del tema che Dante accoglie. Il passo che lo Zabughin cita puerum tepido […] involvit amictu, exceptumque sinu, blandeque ad pectora pressum detulit in praesepe,2

è la determinazione affettuosa, e il patetico commento di una scena cui Dante evita, come sempre fa per la Vergine, una concretezza rappresentativa troppo circoscritta: in Dante quell’ospizio dove sponesti il tuo portato santo3

è tutto quanto, con il suo contorno architettonico, può consentire di realistico alla scena dell’adorazione; ma d’essersi arrestato alle soglie della sacra conversa500

zione, dove la musa popolare entrò con tanta franchezza, non implica che non ci fosse in lui la via per quella tenerezza: una tenerezza sospesa: Ecco dolenti lo tuo padre ed io ti cercavamo!

Vida Nell’immaginazione già barocca dei prosecutori del Sannazaro, i punti d’incontro con Dante sono offerti da generiche reminiscenze trecentesche e quattrocentesche, per lo più arretrate rispetto a Dante: come l’Inferno, nel poema del Vida, «un groviglio di cieche caverne» e il Paradiso in forma di «pina» quale lo scorgiamo in più dipinti quattrocenteschi e nella visione di santa Francesca Romana.5 Eppure, quando meno si sorveglia, il Vida cede più del Sannazaro: Pilato cessa di essere «crudele» come era nella Commedia, e ritorna quel magistrato romano investito di autorità imperiale che sopravviene nella Monarchia; e quando Maria chiede ai carnefici di Cristo di essere crocifissa lei pure, può essere una eloquente rivalsa di un eloquentissimo modo che Dante aveva adoperato per la lauda di Madonna Povertà: sì che dove Maria rimase giuso, ella con Cristo salse in su la croce.6

Bisognerebbe, naturalmente, qui pure, come negli innumerevoli passi reperibili, rammentare sempre che a un certo momento la fonte di questi poeti illustri che celebrano in latino l’epopea cristiana, era, al di là di Dante, interrogato e direttamente ascoltato, una tradizione popolare, che aveva ben più numerosi modi di incontrarsi con Dante e di rispondergli. Ma anche per questa via si sottolineerebbe quel che importava notare: questi poeti sincretistici, comunque attentissimi ai nuovi canoni, non escludono affatto quella mentalità popolare e quella tradizione cui aveva dato forma la religiosità duecentesca, passata poi sia in Dante, sia nella lirica e nella musica dei laudesi, sia nella iconografia, lungo secoli di immenso fervore nell’immaginare parole secondo la fede, nel portare alla fede il tributo regale della nuova parola. Valgono, in sede di politica letteraria, a non disperdere affatto l’eredità dei secoli del cattolicesimo popolare, come accadde dove la politica letteraria fu disciplinata più dalla Monarchia che dalla Chiesa: certo era più difficile abolire Dante che abolire Villon, cancellare il volgare della Commedia che il volgare delle prose di romanzo; ma per questa via del sincretismo cinquentesco, anche Dante, benché in disparte, rimase. E fu operoso: nei molti sensi di quella molteplice vita, il suo poteva essere accolto, fra le altre “cose”.

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Palestrina Il rapporto fra la poetica di Dante e l’opera di quello che fu chiamato il Michelangelo della musica prescinde, come è naturale, dalla notizia di contatti diretti: Palestrina non commenta, non imita, non si dispone al paragone; ma il linguaggio musicale che elabora ha come premessa non mai abbastanza meditata la civiltà della poetica dantesca. Ad uno ad uno sarebbe facile elencare gli aspetti minori del raffronto: la preoccupazione personalistica nel celebrare l’acquisto del divino, la prospettiva morale, cui dispone la riflessione moralistica, e, più nell’intimo, perché non la comprendi se non l’intendi nell’intima forza, l’estensione del mondo umano dove la sua parola s’irraggia. Qui fermi un primo punto che ti conduce dirittamente nel vivo dell’incontro: la ventura storica dei due, non pur parallela, ma quella del secondo tempo conseguente a quella del primo; ché Dante propose la norma della “commedia”, di una vita umana portata all’aperto dai suoi misteri teologici e metafisici, rappresentata ad edificazione della gente, per cominciare attraverso la parola la seconda vita della promessa e il regno di Dio fra gli uomini, ed ogni drammaturgia della civiltà nuova, si dispose naturalmente in questo amplissimo quadro scenico ch’egli propose; ma Palestrina volle lo stesso, concorrendo a quell’invenzione con il linguaggio musicale: un servizio ch’era, o diventò per merito suo, anche più intimo di quello con cui alla fondazione di una drammaturgia concorsero pittori e architetti e scultori; perché il linguaggio musicale si preoccupa di cogliere ed elaborare una notizia spirituale più sottile e penetrante di quella d’ogni altra arte (benché così non fosse, ma così era inteso, e a teatro le intenzioni proclamate hanno un loro particolarissimo peso, ed una efficacia, finché non sono respinte). Anzi, a paragone di Michelangelo, che nell’incontro con Dante non mancò di portare l’audacia di una sincerissima retorica, e l’autoritratto che bastasse ogni volta a identificare l’autore, cioè un modello di stilistica e di autobiografia di marca evidentissima, dantesca, egli, che non dice «foss’io pur lui», gli si rivela vicino proprio nella sincerità della commozione, nel senso del peso e della fralezza umana umiliata ed esaltata, nelle confessioni introverse e patetiche, piuttosto che nelle confessioni estroverse e oratorie: accentuando, naturalmente, la confessione penitenziale, a paragone della confessione laudistica, e proponendo a sé e alla civiltà del cattolicesimo romano un’attenzione all’intimità dolente e la pioggia dell’amor divino sopra tutte le creature, e la grandezza della misericordia misurata dalla grandezza del peccato: qualcosa che non risultava dalla lettura di Dante condotta innanzi dalla cultura fiorentina, dominata come sappiamo dalle biografie di Boccaccio e di Leonardo Bruni; qualcosa che i Romantici ameranno, a rendere “unico” Dante, collocando questa scoperta degli affetti danteschi accanto alla scoperta del mondo eroico di Dante, che fu la scoperta vichiana.

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Dante e il polifonismo Un altro modo di Dante raccolse la musica di Palestrina: anch’esso destinato ad essere ricompreso nella cultura europea dell’Ottocento, quando la musica ebbe divulgato questa intenzione. Il sincretismo rinascimentale era stato violentemente contraddetto e spezzato dalla Riforma: che si ritrasse indietro, verso la civiltà gotica e scolastica, al riacquisto della interiorità spirituale e morale, spregiando i soccorsi della storia e degli affetti; la civiltà barocca accettò la battaglia, su questo tema, e chiamò la musica al soccorso, per commuovere, come chiamò tante volte l’eloquenza, per persuadere. E Dante, che da politico aveva portato nella battaglia riformistica l’accanimento delle tanto più tarde guerre di religione, da artefice aveva raccolto tante voci diverse e discordi, risolvendo il fondamentale contrasto di classicità e il cristianesimo nel senso che sappiamo. Ma aveva collocato gli esemplari di vita diversa in una giustapposizione, pareva, giustificata solo intellettualisticamente, su quella base del criterio dell’eccellenza formale dal quale difficilmente si allontanarono gli umanisti. Ora l’antico e il nuovo eran proposti in uno stesso afflato eloquente, camminando lo spirito di Dio sopra l’acque. Ancor più in là, il sincretismo si svelò nel polifonismo: ché le diverse voci, i temi e i modi della molteplice vita, accettato una volta per tutte il pluralismo (e Dante l’aveva accettato, se qualche vita si riscatta pur nella condanna, se nulla di vivo è peggio del non essere nati, se il sommo Duce risplende «cotanto» pur nell’Inferno), coesistono nella perenne attualità dello spirito, e a svelarli, se è buono il discorso della parola e il discorso del tempo, nulla è tanto suggestivo come il loro coesistere e il loro riecheggiare. Il polifonismo stabilì una rigorosa sintassi a questa suggestione dell’onnipresenza, e Palestrina la svolse in senso drammaturgico e liturgico, offrendo alla drammaturgia anche profana ciò di cui abbisognava, per cercare altra presenza e contemporaneità che quella intellettualistica degli aristotelici. Ma questo stesso modo giovò poi a comprendere la Commedia, in quel suo assiduo legame di parola parlata, e nell’atto ricordata, di voce che mette in moto tutte le voci del linguaggio, di perpetuo riecheggiamento orchestrale dell’immagine e della forma. Le rispondenze dei canoni e delle fughe riaprirono un amplissimo paragrafo nella lettura di Dante; e il mondo universo, pur inteso nel precipizio del gurgite divino, sì svelò, toccato il vertice sommo, nella sua attualità ricomposta.

1 V. ZABUGHIN, Virgilio nel Rinascimento italiano da D. a Torquato Tasso, cit., vol. II, p. 219, n. 84. Nel testo, ragionando sul tipo di Maria presso il Sannazaro, dichiara di non riuscire affatto a vedere qual filo logico possa portarci da Maria a Didone, da Maria a Venere. Presso Virgilio l’«Aeneadum genitrix» offre spunti psicologici di maternità gentile, non precisamente frequenti nella letteratura antica; ma si tratta di una dea, madre di un mortale, non già di una mortale, madre dell’Uomo-Dio. La sovrapposizione di maternità tragica e di quella mistica è propria della sola arte cristiana: qui Iacopo ebbe per guida Dante, forse meno di quanto creda il Belloni, ma pur certamente (p. 185). Non si tratta, mi sembra, di trovare un

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filo logico, ma di osservare quanto della poesia antica poteva illuminarsi alla luce della nuova verità, quanto di una naturale sapienza precristiana poteva intendersi come preludio e attesa della Rivelazione. Ma ammirabile è la cautela dell’eruditissimo comparatista, al quale ci confessiamo debitori di tanto magro compenso dell’ingratitudine di troppi, anzi, per decenni, di tutta la cultura nostrana ufficiale e ufficiosa. Si potrebbero citare parecchie assonanze formali tra Iacopo e Dante: Ald[ina] 3 v[erso] (Par. Virg. I, 141), «Aeternamque datura venis per saecula pacem»; Pd XXXIII, 8-9; 4 v. (I, 219) «Teque ecc.»; Pd XXXIII, 103-105; più importante ancora è Pg X, 34-45 (anche qui si parla della «molt’anni lagrimata pace»), primo spunto di un’epopea mariana nella letteratura del Rinascimento. Però, tutte codeste assonanze sono, lo confesso, ben lievi e le differenze ben profonde. La maternità della Vergine presso Dante è tutta mistica: nella Commedia intravvediamo Maria alle nozze di Cana (Pg XXII, 142-143) e ai piedi della Croce (Pg XXXIII, 5-6; Pd XI, 71-72), troviamo l’Annunciazione e la visita a santa Elisabetta (Pg XVIII, 100); vi cercheremo invano la Madre col Divin Fanciullo in braccio. Ora, presso Iacopo, la Vergine (Part. Virg. II, 334-338, Ald[ina] 14 v[erso] Laur. 19 r, Vat. 19 r), pur in mezzo ad una fervida preghiera all’Onnipotente, esclama: «Ergo ego te gremio reptantem, et nota petentem / ubera, care puer, molli studiosa fovebo / amplexu? (Aen. VIII, 238) ecc.». Dante non esaurisce, evidentemente, le deduzioni di quel sincretismo e di quel naturalismo di cui propone le condizioni linguistiche e mitopoetiche. 2 ZABUGHIN, cit., p. 220. Part. Virg. II, 360-379; 377-379; riferito ad Aen. VII, 518. 3 Pg XX, 23-24. 4 Pg XV, 91-92. 5 ZABUGHIN, cit., p. 193. 6 Pd XI, 71-72.

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Vico

L’accademia ed il “gusto” Per opportunità di esposizione, l’esame della fortuna di Dante fra i poeti dell’Occidente, dal Medioevo al Romanticismo, si rimanda al preludio di questo: ché solo allora la politeia letteraria, cercando altra unità al suo molteplice vivere che di dottrina, o di conformismo accademico ai canoni sperimentati e accolti, accettò di aprirsi a tutte le voci dei secoli, si modulò in una varietà di esperienze innumerevole, tentò la libertà dell’arte, prima e dopo che nel profondo dell’anima, nelle direzioni multanimi. Quel che da Dante appresero le letterature “gotiche”, rimasto sospeso in una tradizione che l’intellettualismo rinascimentale allontanava volentieri nel dispregio della barbarie, non ebbe efficacia sulla tradizione italiana (e invece fu immensa l’efficacia che esercitarono sulla lettura italiana di Dante gl’incontri dei poeti romantici e il riassunto che della Vita Nuova e della Commedia fece l’intelligenza letteraria: valsero di nuova investitura, in una cultura europeizzante, e smaniosa di riconoscimenti dall’estero). I nostri, sino a Vico, insistettero sopra i vecchi temi, al più accettando il divario tra fortuna popolaresca e disdegni accademici come un soggetto di dialogo comico o di «cicalata». Trarre deduzioni rigorose dall’offesa o dalla difesa non varrebbe: c’è sempre, nella letteratura del Seicento e del Settecento, un presupposto accademico; e l’accademia non si dimentica mai delle forme comiche, accanto alle forme solenni di adunanza e di tornata, e si divide volentieri il compito assegnando ad uno l’accusa, all’altro la difesa, con quella stessa ilarità di veduta e disinvoltura di ripiegamenti che aveva indicato prima di tutti, e per il nostro argomento, il dialogo ad Petrum Histrum mettendo in scena la “conversione” del Niccoli. L’incarico della difesa di Dante era assegnato, come di dovere, alla Accademia fiorentina; ma in una cultura letteraria che pretendeva di riposare sulla riflessione (o sulla variazione, che fa lo stesso) e di conoscere ormai tutto il conoscibile della poesia, dacché conosceva tutte le regole stilistiche e retoriche, e di poter sempre con la stessa disinvoltura impegnarsi e sottrarsi di fronte ai nuovi testi, in tale cultura, fino a Vico che pur non la vince d’un tratto, e la frequenta, e si rassegna di buon grado ad alcune immobili convenzioni, il panegirico non ha molto più valore che la contumelia: scandalizzarci dello screanzato Beni1 significa non saper stare al giuoco.

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Boccalini L’intervento di un Tasso o di un Tassoni, nella polemica dantesca, è ormai più utile al critico che all’autore: indica predilezioni di gusto o prevalenza d’umori, quando non è pretesto. Il poeta resta immobile, codificato in una ammirazione o in una detrazione generica. L’indice più significativo di questa lontananza è dato dal Boccalini, che pur dall’Accademia accetta i modi comici, e se fantastica di Parnaso e dello Stato di re Apollo, non è certo per trarne rivelazione di nuova vita: alla sua libertà di scherzare o di fantasticare basta la larghezza delle consuetudini accademiche. Mentre il famosissimo Dante Alighieri si trovava l’altro giorno in un suo casino di villa, che in un luogo molto solitario si ha fabbricato per poetare, alcuni letterati ascosamente gli entrarono in casa: ove non solo lo fecero prigione, ma avendogli posti i pugni nella gola e appuntati gli archibugi nei fianchi, gli minacciarono la morte s’egli non rivelava loro il vero titolo del suo poema, se veramente lo chiamò commedia, tragicommedia o poema eroico.

Si sa che lo liberò Ronzardo «prencipe dei poeti franzesi»: il quale, messo alla tortura perché denunziasse i delinquenti, sopportava fieramente la corda, ma non il tormento del cavalcare un cavallo che andasse di passo lento: Scendetemi, disse agli sbirri che gli erano allato, scendetemi, fratelli, ché son morto; scendetemi presto, ché voglio dir la verità, e chi ha fatto il male ne paghi la pena: quelli che chiedete sono stati monsignor Carrieri da Padova, Iacopo Mazzoni da Cesena e un altro che non avendolo riconosciuto, potrete sapere dai due che vi ho nominati.

Valga l’apologo famoso dei Ragguagli di Parnaso a dir di un modo di disinvolta lettura: Dante se ne vive in solitudine; ma la cornice del suo vivere è arcadica (quel casino di villa) e il soccorso gli viene da chi non immagineremmo.3 Così idealmente viveva, in disparte, ma quando veniva richiamato da quella solitudine era per mescolarlo alla mentalità corrente nella vita letteraria. Quando Benedetto Fioretti lo loda, e quando ne annota le contraddizioni e i peccati contro il buon gusto, questo è capitolo di uno sterminato catalogo di notizie critiche (I Proginnasmi Poetici di Udeno Nisiely), dove sarebbe strano che non dicesse la sua su tanto poeta. E altrettanto si dica di Nicola Villani: «Non è così oltre maraviglioso e così divino come gli idolatri suoi lo fanno»; e per difendere l’accademia dalla «esagerazione» della poesia, e il buon gusto dal barocchismo ante litteram di Dante, annota le discordanze e gli errori di dottrina anche prima che di gusto. La difesa di cotali contro l’offesa del Beni, è naturalmente una difesa della cultura toscana contro i suoi detrattori; ma appunto perché l’offesa del Beni non s’appoggia ad altro che all’ufficioso riconoscimento del catalogo dei valori, rimangono sullo stesso piano. Tutti quanti, toscani e non toscani, ammirano i «quattro gran vati»: il senso di un impegno personale della partecipazione, la volontà di andare incontro ai poeti con una individualità attiva e viva 506

alla ricerca del loro essere vivi e attivi, non li turba e non li inquieta. Si sono, ripetiamo, divise le parti. Ma se è insipida la burla dei detrattori, non è molto sapido nemmeno lo scandalo ottocentesco contro chi osava dir male di Dante o contrapporgli i poeti barocchi: innalzar la bandiera della lirica marinista contro Dante significava difendere la meraviglia dell’invenzione contro la custodia dell’accademia.

Custodia dell’Accademia Fiorentina Tale custodia, anche se solo mnemonicamente consapevole, nella plaga toscana s’arricchiva di ricchi sensi e di ripensamenti arguti. I letterati lo leggevano, naturalmente; e non c’è poeta del Seicento sul quale non si possa esercitare l’indagine della fortuna e testimoniare l’incontro: è una cultura poetica molto circospetta, quella, e tutt’altro che disposta a rinunziare al catalogo stabilito dei valori e all’antologia riconosciuta dei poeti; se l’esercizio delle variazioni metaforiche e grottesche è più di frequente avvalorato dal Petrarca, non mancano reminiscenze dantesche rincalzate dallo scendere a un esplicito paragone. Ma in nessuna parte la lettura avviene con quel senso di misura e di familiare reverenza di cui l’accrescono i letterati del Seicento toscano. Per loro, dal Redi al Magalotti, si tratta di richiamare alla memoria, familiarmente, un testo venerando e caro: la pienezza di vita che per altre vie che una rigorosa sperimentazione letteraria conseguono, la riportano volentieri nella lettura della Commedia. Tale il senso anche di opere deliberate, come il commento del Magalotti ai primi cinque canti dell’Inferno. Meno impegnative, a paragone, le postille del Redi; meno anche gli studi di Galileo: che dall’Accademia Fiorentina, dunque dal centro della custodia della lettura di Dante, muove anche per le due Lezioni circa la figura sito e grandezza dell’Inferno di Dante. Si tratta, sul terreno pratico, di acquistarsi titoli per una cattedra di matematica nell’università pisana; e per quel che è dato di rilevarvi di intenzioni culturali, si tratta di trattenere Dante nella cerchia dell’intellettualismo, dimostrandolo suscettibile di deduzioni matematiche; si tratta, infine, di difendere l’interpretazione dell’intellettualismo fiorentino, che aveva stabilizzato la cifra topografica dell’Inferno, con Antonio Manetti, nel Quattrocento. Galileo lettore di Dante4 non direi che non invada il territorio non suo della poesia per quel suo matematicismo centripeto, anzi esclusivo, che chiama suggestioni essenzialmente poetiche a offrire le misure di un calcolo geometrico; né si poteva giungere a tale codificazione topografica, senza pensare a un’operazione preliminare intellettualistica di Dante, come di un poeta che delibera freddamente il disegno dell’opera, costruisce quasi il plastico del mondo ultraterreno che descriverà in parole: così legate, esse parole, alla realtà su cui si appoggiano, realtà oggettivabile in formule matematiche, che basterà ritradurre le loro indicazioni in cifra per ricostruire il tutto. Il grafico manettiano, precorso e seguitato come fu, non distingueva tanto la poesia dalla geometria, quanto subordinava quella a questa, come fioritura in superficie, efflorescenza di un’immagine gradita e cara sopra un mondo logicamente concepito e matematica507

mente figurabile: che è la posizione fondamentale di ogni intellettualismo (o panlogismo!) nel suo accostarsi alla Commedia, ritrovabile sotto ben altra veste, e con più densi trucchi, a mascherarsi, lungo tutta la critica romantica. Galileo, che pure amava affacciarsi al mondo delle immagini e al naturalismo padano del Cinquecento (lettore appassionato del Ruzzante, si rammenti: quindi aperto, lungo il soggiorno padovano, a quelle suggestioni che la commedia, raccoltele dal Folengo e dal Ruzzante, aveva sistemate e rese tradizionali; e a Padova propenso a tradurre in intellettualismo matematico anche il naturalismo filosofico e la tradizione del Pomponazzi), non avverte, e non vuole avvertire quello che al Vellutello, lettore nell’intimo più spontaneo, cioè più docile, più devoto al suo testo, appariva ovvio, la preminenza dell’immaginazione poetica sopra la formulazione cosmografica. Quando Dante propone questa o quella misura del suo mondo lo fa ritraendosi nel suo centro di composizione direi più scenografica che cosmografica: i dati aritmetici sono offerti con elusiva abbondanza in quel mondo del Basso Inferno dove tutto si restringe nel gravame terrestre (e molto serve all’inganno, di quanto vi si dice); via via che sale, sempre più chiaramente la subordinazione della cifra alla presenza dello spirito, e per esso alla fantasia, si rileva: la misura della bolgia di Mastro Adamo, mezzo miglio di larghezza e undici miglia di circonferenza, confrontatela con la montagna del Purgatorio, che svetta oltre il limite delle perturbazioni atmosferiche; ma a notar la prevalenza dell’emblema anche in quel tratto, confronta l’immagine del Catria, nel canto degli spiriti contemplanti che si sottraggono meditando in silenzio agli accidenti della terra e trascorrono lievemente caldi e geli: «tanto che ’ troni assai suonan più bassi» dice di quel monte, che è trasposizione5 emblematica appunto e terrena della montagna del Purgatorio. Apriremo qui una polemica contro l’intellettualismo rappresentato dall’Accademia Fiorentina, solo perché utile a quest’opera proporzionarsi e distinguersi per entro l’intellettualismo della scuola storica e della scuola idealistica? Giovi a comprendere la transitorietà del divario attuale il riconoscere, che è facile e necessario, quanto dovette la fortuna di Dante alla custodia proprio di quell’intellettualismo: in un’epoca che vide seppellire tanti capolavori medievali solo perché parevano estranei all’esclusivismo orgoglioso dei secoli illuminati, l’intelligentissima cultura fiorentina, sia pur di Firenze granducale, custodiva e tramandava la lettura della Commedia. Vero: era un dono che Dante aveva fatto alla cultura italiana, quel dominio dell’intelligenza, dono di poesia autenticato da una potente vita morale e traducibile in una politeia letteraria che si sentiva sempre d’accordo con la ragione; riaveva, nella custodia, quel che aveva donato.

Crisi dell’età barocca Quanto v’era di insufficiente in questa pur valida e assidua disciplina dell’accademismo fiorentino, era destinato ad esser messo in luce proprio dalla poetica dell’età barocca: non direttamente, perché quella poetica non si divulgò a dispetto del predominante intellettualismo, ma, almeno in Italia, giovandosi di 508

una grande tolleranza che il costume lasciava ai poeti; i quali non solo approfittarono del «quidlibet audendi», ma soprattutto della prevalenza del costume, che prolungò in atto il populismo comunale, anche quando era negato o non difeso dall’intelligenza; e la vita di tutti si riparava e sopravviveva, stabile nelle sue forme secoli indietro assunte, salvandosi proprio al riparo delle sue più gravi minacce: il regolamento intellettualista della cultura e della filosofia (che applicato rigorosamente l’avrebbe tolta di mezzo, o tollerata come villereccia arcadia) e la monarchia spagnuola (nelle sue ambizioni universalistiche rispettosa dei particolarismi innocui). I poeti, in Italia, erano drammaturghi al servizio della musica e scenografi al servizio della pittura, coreografi e mimi, anche favolisti, quando si riducevano al linguaggio delle parole: di preferenza, in dialetto; ma quando sopravviene, al termine appunto dell’età barocca, e per salvarne l’eredità verso i Romantici, Giambattista Vico, quelle forme che erano rimaste efficaci solo perché tollerate, si preparano a diventare attive anche attraverso la mediazione dell’intelligenza critica. E allora accadde (e per meglio dire cominciò ad accadere, perché fu vicenda che si prolungò lungo l’età romantica) la seconda fase della lettura di Dante: la prima, quella del Rinascimento, aveva accettato, come ne fosse precorsa, il dominio dello spazio e una figura geometrica della realtà, e l’intellettualismo sulla sua prosecuzione razionale; ma la seconda comincia qui, da questa conquista del tempo, da questa partecipazione dello spirito, dal dilatarsi dell’animo perturbato e commosso verso tutta la realtà umana: un secondo umanesimo. Diresti, riassumendo da ultimo quelle constatazioni subsequenti che non toccano di necessità diretta l’incontro di Vico con Dante, diresti che al modo che il razionalismo estetico si distaccò dal complesso delle suggestioni esercitate da Dante nel definirsi della civiltà nuova, e ne prese gran parte, e ne fu il simbolo riassuntivo, ma pur sempre parziale, così nella nuova cultura lo storicismo: ch’era soltanto una parte del mondo corso dalla spiritual luce; ma l’invase e diede nome.

L’incontro di Dante e di Vico Ci gioverà, osservando l’incontro, trascurare l’esigenza sistematica che stabilisce, o tenta, una consequenzialità logica nell’itinerario del pensiero vichiano: il sofo della poesia, incontro al poeta della sapienza, procede per diretti acquisti e per suggestioni spesso emotive, sempre primamente intente alla rivelazione della fantasia.6 E se l’uno getta nel reale una luce intellettual piena d’amore, e dispone l’universo in un ordine vittorioso, e stabilisce l’itinerario dall’uomo a Dio anche attraverso l’armonia di un universo razionale, mentre l’altro oltrepassa proprio questa zona dichiarata e perspicua, e porta alla luce la realtà primigenia di quella mente, e il caos confuso e vitale da cui quel breve cosmo era uscito, e circonda la chiarezza della zona della civiltà intellettualistica di un altrettanto vittorioso dominio sopra l’oscurità della poesia e degli evi, anche questo rifarsi indietro per guardare e guadagnare più spazio del mondo stesso ch’era appartenuto a Dante, vale a comprenderli parallelamente: entrambi di509

sposti a dichiarare il mondo sobbarcandoglisi; entrambi religiosamente persuasi di dovere adempiere a una missione nel mondo: che l’uno risolve in etica, ma tenendosi sempre fedele alla rivelazione di un itinerario sapienziale; che l’altro risolve in dianoetica, ma anch’esso fedele espositore di una rivelazione, e pellegrino lungo le strade terrestri, in compagnia dei molti (se il primo camminava solo al soccorso dei molti). La missione del poeta non era già stata di elevarsi verticalmente ad una immensa immagine di sé, ma di trasfondersi nella vita dei molti; e il piccolo erudito napoletano, il borghesuccio solitario, l’autodidascalo professor d’eloquenza, d’una materia decorativa cui non si attribuiva ufficio e serietà di scienza, vive immerso nella vita popolare per quella sua stessa misera condizione che non gli consente lo schermo di una qualsiasi distanza fra sé e l’irriflessiva gente plebea. E se il patrizio fiorentino anche nell’apprendere tiene ben ferme le classificazioni delle dignità della dottrina, quel figlio di popolani, immobile nel brulichio di una vita feconda, capovolge, senza avvedersene, il canone e le classificazioni della scienza, e muove in cerca di una nuova nobiltà tanto più alta quanto più profondamente partecipata: discesa dall’intimo, chiusa nel segreto degli evi. Ma questo torna a dire che l’incontro è da poeta a poeta, come da Michelangelo a Dante, benché l’ultimo fosse senza vincolo di disciplina retorica o formale e giungesse all’epopea delle età remote senza, per cantarle, proporzionarsi nei registri rigorosi di una tecnica e di uno stile: incontro più da uomo a uomo, dunque, e frequentare insieme la stessa selva di fatti sotto la loro specie eterna. Anche Michelangelo voleva dare «del mondo il più felice stato» quando pensava a Dante: la religione vichiana era calata così profondamente in un costume felice che la necessità della vicenda, la parola che la Provvidenza diceva nella vita di tutti per confortarli attraverso la partecipazione, con il sussidio di tutti a ciascuno, sembrava offrire a ritroso il soccorso cercato; e il Parnaso, o la Selva del Paradiso Terrestre, era ancora alle origini, benché si riaffacciasse la mente ad immagini di bruti e di eroici mostri, se da quella selvatichezza era discesa l’umana esperienza lungo una linea di necessario acquisto di libertà e di dignità. Il male, come il bene, era nelle origini; e l’itinerario umano era sospeso fra un primo e un dopo ricorrenti su sé, a chiudersi nel cerchio armonioso. Epopea delle origini ed epopea della fine: il mito d’Arcadia portato alle sue conseguenze estreme, a risolvere le sue innumerevoli contraddizioni; mito ed apocalissi in un solo cerchio: e il sofo ripercorrere il cammino del vate, risalire dalla vita di tutti, cui quella parola era stata comunicata, solitario, al destino d’ognuno. Certo il popolarismo di Dante è ancora ecclesiologico: egli si preoccupa del mondo perché il messaggio di Cristo è stato bandito a tutti, e perché tutti, il giorno del giudizio, saranno chiamati ad ascoltare la sentenza irrevocabile che toccherà a ciascuno; ma anche comincia a preoccuparsene perché esce da una vita di comune, dunque da una cerchia osservata, da un vivere fitto e contiguo, che nelle sue animazioni più generose riconosceva a sé il necessario attributo di “popolo di Dio”, e chiamava la vita politica a integrare, con la concretezza del suo sperimentare in atto, la vita universale del laicato; ma per Vico già puoi parlare di quel populismo di cui egli è il fondatore consapevole, quando appoggia la nozione di vita storica, dunque di costume e di rispondenze collettive, non 510

ai politici che la guidano in atto, e nemmeno alle condizioni oggettive, che si valutano secondo la norma di una dottrina o secondo un canone statistico, ma ai mitici eroi che la vegliano nei cieli della fantasia, e a tutte le rispondenze della fantasia, del sentimento e del costume che tessono la vita di tutti, appunto all’infuori delle celebrazioni politiche e accademiche, fuor della boria dei dotti e di quella delle nazioni. Anche in questo, Vico è l’epigono di un costume popolare cui Dante aveva contribuito più di ogni altro a dare dignità, parlando la sua lingua volgare e parlandogli; per giudicar di Dante, all’incontro, Vico deve farsi indietro più su che Dante, e comprenderlo.

Priorità della fantasia attuata da Dante e teorizzata da Vico Dante aveva serbato il mondo del forte immaginare alla vita della parola, con le sue attinenze pratiche, e alla vita della religione, che abbraccia tutte le altre forme: aveva, per così dire, assediato tutto intero il mondo umano con la sua fantasia, ma accettato che al centro di questo mondo fosse una disciplina intellettuale che traducesse l’intervento della ragione in schemi sillogistici, nella sovrana compostezza di Beatrice docente. Ed ecco che anche per questa via, a noi che abbiamo ripercorso tutta l’esperienza dantesca accettando la sua centralità poetica, il primato della fantasia, la luce raggiante della gloria e l’«emisperio di tenebre», appare cosa precaria e momentanea (non per questo meno assolutamente valida) la caratteristica matematica del suo sillogizzare: perché la vita sapienziale della seconda persona, voglio dire di un Cristo visto più come logos che come Dio che s’è fatto Uomo, seguìto nella suprema chiarezza del suo esser Verbo più che nella passione della sua Croce, e nostra, è così ricca di partecipazione che l’isolamento matematico e sillogistico, la pura razionalità, ne riesce impossibile, chi ripensa lui, non il costume filosofico accanto a lui, che l’accomuna al trionfo secolare della Logica formale, trionfo che si perde nella solitudine, o nell’ombra di una selva. E l’isolamento di Beatrice, nell’atto stesso ch’è solennizzato nel suo fulgore di raggio e nell’amore del suo riso, come carità e come luce, splende di un calore umano e si riattuffa nei gorghi di una poetica che chiama tutta l’esperienza della persona a sorreggere il cammino della parola. Vico autodidascalo, cioè disposto a cominciar sempre da sé e sempre in sé a finire ragionando, oltrepassa ingenuamente quella zona proibita della razionalità pura, vi occorre dal di fuori, ne evade, par quasi che essa non lasci traccia in lui, pare che alle sue verità egli voglia accorrere con esperienza tanto più lontana, ripercorrendo il cammino di sé uomo nel mondo, lontano quanto il moto. E come Dante si fa assistere, nella sua vita e nella sua opera, da persone concrete, prima che per lui ricevano parola e senso di figura, e se le sente accanto, così egli chiama intorno a sé la concretezza di innumerevoli cerchie umane: non più solo della cerchia comunale fiorentina, capovolta nella città dell’Inferno, ma di altre moltissime, conosciute nelle storie e nelle leggende: storia e leggenda, finalmente, l’una dall’altra indivisa. Forse Vico stesso si trattiene, leggendosi e illustrandosi, nell’idea di un’immagine posta a servizio della dottrina, e spiega 511

la «dipintura proposta al frontespizio che serve per l’introduzione dell’opera»; ma questo allegorismo, cioè deduzione di metafore ricavate per analogia, e decorazione, e illustrazione, da ultimo, come ha da essere, non toglie che la scienza sia una officiatura, quasi una liturgia apologetica insieme e parenetica di una immagine o di una serie di immagini, di un discorso mitologico insomma e poetico, di una «storia fatta di storie». Quel «forte imaginar dov’io entrai»7 è un po’ la cifra del viaggio di Vico nella “selva” dei miti; ma è pure un dei primi atti di Dante poeta; e l’ultima missione, in pro del mondo che mal vive, è riassunta in una delle prime degnità: la filosofia, per giovar al genere umano, dee sollevar e reggere l’uomo caduto e debole, non convellergli la natura né abbandonarlo nella sua corrozione.8

Già s’è visto che anche il fama crescit eundo, per proverbiale che sia, era già stato raccolto da Dante. E ancora dantesca è la fiducia nella natura umana, nel cercare un rimedio che, per venire dal regno della luce, non deve meno, per questo, scendere nel regno della natura, rispettoso delle leggi di questa. Ma dovremo tenerci equidistanti così dall’ipotesi di un incontro troppo vago, attraverso un processo di genericizzazione, come dal cercare in ogni frase vichiana l’accento dantesco: da una attinenza troppo rigorosamente teoretica, che sarebbe assurda, mentre la filosofia dell’altro è “sapienzale”, come s’è detto ad satietatem, come da un riscontro troppo rigorosamente lessicale, non può dar tutti i suoi frutti, se la possibilità di definizione verbale, che è dei poeti, e di esprimersi tutti nella parola, è diminuita in Vico dal fatto che deve pure assistere il principio della organizzazione logica e trattatistica del proprio discorso.9

Poesia e teologia Sopra una traccia dantesca Boccaccio aveva ridotto a teologia la poesia: tanto valeva il converso. E Vico che riduce a «serioso poema» il diritto romano antico, e a «severa poesia» l’antica giurisprudenza, riconduce allo spirito (intendi: allo Spirito Santo, non ad un ente panlogistico, che identifichi la prima e la seconda e la terza Persona, e il Creatore con la Creatura) anche le Leggi: «per voler del primo Amor» aveva detto Dante di Giustiniano, di quello stesso Amore che «ditta dentro» ai poeti. E la Metafisica dalle tempie alate che nell’impresa della Scienza Nuova s’affisa in Dio, e l’occhio di Dio le manda un raggio in cuore, non per nulla cammina sopra la sfera del mondo uranio, appoggiata essa, o in approdo, all’Altare. Lo stile delle figure attenua in lezio di allegoria illuministica il fondamentale «concettismo» barocco; ma solo indirettamente ci aiuta a capire il fondamentale emblematismo vichiano: lontano dall’allegorismo illuministico di quanto la stilizzazione accomodata di questa impresa è lontana dal forte fabulare del poeta sapiente. È lui che investiga il linguaggio degli emblemi e delle imprese gentilizie: linguaggio e scrittura eroica è il linguaggio delle immagini e la scrittura geroglifica, che appunto è per immagini. Sarebbe, tale discoverta, 512

riconducibile ad una costante applicazione della cultura barocca, sarebbe una di quelle acutezze di cui Vico tante volte si compiace citandole da ogni parte (come se a tutto potesse rinunziare, salvo che a divertirsi con le parole), se non le collocasse in un ordine storico, che è in realtà di storia della poetica. Ché egli osserva quei segni propagarsi fra la gente, e discendere dai ceti chiusi degli eroi nel volgo, e dalle caste nei popoli. Qui, leggendolo, ti accorgi che quel suo mettere in moto il mondo è anche il frutto di una solitudine e di una meditazione poetica, che nel vuoto che par circondarla cerca le condizioni del respirare e del vivere, e che nel divenire osserva la direzione e la forza del suo immaginare: Onde con la stessa mente degli antichi Latini gl’Italiani appellarono «poderi» perché acquistati con forza. E si convince da ciò che i barbari ritornati dissero «presas terrarum» i campi co’ loro termini, gli spagnoli chiamano «prenda» l’imprese forti: gl’Italiani appellano «imprese» l’armi gentilizie, e dicono «termini» in significato di parole (che restò in dialettica scolastica), e l’armi gentilizie chiamano altresì «insegne», onde agli stessi viene il verbo insegnare. Come Omero, al cui tempo non si erano ancora trovate le lettere dette «volgari», la lettera di Preto ad Euria contro Bellerofonte dice essere stata scritta «per YN\SGZG», per «segni».10

E ancora: Per la stessa inopia di scrittori, nelle cose antiche non osserviamo parere ove non sia intagliata una qualche impresa. Altronde, da’ latin barbari, fu detta «terrae presa» il podere co’ suoi confini, e dagl’italiani fu detto «podere» per la stessa idea onde dai latini era stato detto praedium: perché le terre ridotte a cultura furono le prime prede del mondo e furono i fondi detti «mancipia» dalla legge delle XII Tavole, e detti praedes e mancipes gli obbligati in roba stabile, principalmente all’erario e «iura praediorum» le servitù che si dicon «reali». Altronde dagli spagnuoli fu detta «prenda» l’impresa forte, perché le imprese prime forti del mondo furono di dare e ridurre a culture le terre […]. L’impresa di nuovo agl’italiani si disse «insegna» in concetto di «cosa significante» (onde agli stessi venne detto «insegnare»); e si dice anco «divisa», perché l’insegne si ritrovarono per segni della prima divisione delle terre ch’erano state innanzi, nell’usarle, a tutto il genere umano comune. Le quali poi passarono imprese pubbliche in pace.11

La nozione critica del testo di Dante Se convieni che tanto un lettore riceve quanto sa ridare di sé al testo, questo primo paragrafo sulla affinità di Dante con Vico risulterà complementare del secondo che ora tracciamo, della nozione critica che Vico dispone a Dante, quasi rifluendo a ritroso dalla propria all’altrui natura. Non che sia abbondante lo spoglio; ma il parallelismo, presto stabilito, fra Dante ed Omero, il poeta della prima e il poeta della seconda barbarie, fa che l’attenzione convogliata sopra Omero rifluisca in parte sopra Dante. E certo egli sceglie Omero, perché si rende conto che rituffare nella staticità di un disegno provvidenziale le origini 513

elleniche significava avere partita vinta contro la prevalente nozione intellettualistica della civiltà, tradizionalmente (ma che fosse tradizione nemmeno s’avvedevano) ricollegata ai Greci; ma anche perché la sua cultura e le sue letture e l’ambiente in cui vive, una città greca, conducono fasci di luce sopra quei tempi: trasfigurati tutti nella luce della favola mitica; ma il parallelismo è fecondo, la «discoverta», dico scoperta propriamente di un territorio dello spirito, di un paesaggio immenso e prima non visitato, apre immensi spazi. Spazi visitati dalla fantasia? È un mondo primigenio, divino ed eroico, bestiale e superumano che esce dallo sguardo perturbato e commosso: qui, all’idea di un’umanità ferina e divina, si era arrestata ed arresa la mitografia del naturalismo del Cinquecento. Uno storicismo più rigoroso, sopravvenendo, quello muratoriano ed erudito, penetrerà in quella foresta della barbarie seconda portando la luce e l’ordine del catalogo; e anche Dante, dal Dionisi al Foscolo, sarà sollecitamente collocato nel quadro delle conoscenze storiche; e per tutto l’Ottocento si amerà circondare la figura di Dante non più con quell’aria di epicità mitologica di cui lo circonda Vico, ma di una passione politica, eloquente nel poeta perché eloquente nei cuori che ascoltano. È una perdita, come vedremo, non rimediata dal ritrattismo drammatico, ma ridiffuso narrativamente, di Francesco De Sanctis; e solo le vaghe aure profonde della misteriosofia simbolistica del pascolismo troveranno modo di colorire altra atmosfera. Vico, che per conto suo è disposto a togliere di mezzo il soverchio teologismo della poetica dantesca, avverte che una esplicitazione storica del verso di Dante costituisce una specie di sapienza «riposta» sostituita alla sapienza «volgare» del poeta mitografo. Poteva essere una indicazione preziosa, da accompagnare a quell’altra che audacemente gettava un ponte fra il concettismo barocco e l’emblematismo medievale, del parlare e scrivere per immagini; ma andò perduta, quasi del tutto. Comunque, l’ethos degli eroi danteschi, così accompagnati agli eroi omerici, sopravviveva anche quando se ne potevano dare tutte le precisazioni storiche di contorno: tale era stato anche delle figure mitiche di Omero. Restano nell’immaginazione e nel ricordo come figure superumane: non per nulla la lettura romantica predilige le figure eroiche, di statura più che umana, le anime consegnate nel gesto; anche il ritrattismo dunque desanctisiano, se è rimedio di un eccesso di storicismo, è anche prosecuzione vichiana. Bellincion Berti vid’io andar cinto di cuoio e d’osso…

Era un ritratto di cronaca; e la figura di riscontro: e venir dallo specchio la donna sua sanza il viso dipinto…12

basta ad avvertire che quelli sono ricordi di osservatissima vita cittadinesca; ma Vico anche di un dato cronistico si serve per stabilire un amplificante parallelo:

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Gli scudi poi degli antichi furon coverti di cuoio, come si ha da’ poeti che di cuoio vestirono i vecchi eroi, cioè dalle pelli delle fiere da essi cacciate ed uccise. Di che vi ha un bel luogo in Pausania ove riferisce di Pelasgo (antichissimo eroe di Grecia, che diede il primo nome che quella Nazione portò, di «pelasgi»: talché Apollodoro, De origine deorum, li chiama G[PZU\IZUTG «figliuol della Terra», che si diceva in una parola «gigante») ch’egli «ritruovò la veste di cuoio». E con maravigliosa corrispondenza de’ tempi barbari secondi co’ primi, de’ grandi personaggi antichi parlando, Dante dice che «vestivan di cuoio e d’osso», e Boccaccio narra ch’ivan impacciati nel cuoio. Dallo che dovette venire che l’imprese gentilizie fussero di cuoio coverte, nelle quali la pelle del capo e de’ piedi, rivolta in cartocci, vi fa acconci finimenti…13

Davvero, anche Vico va letto come Dante, trascorrendo a cercar la vita fantastica fra le contiguità dei segni della sua emblematica scrittura: quel tema dell’«insegna» gentilizia, che qui ritorna prepotente, accanto agli iddii-eroi, ai giganti, ai personaggi danteschi: una sola realtà in epoche diverse, riassunta nella stessa cifra. Ed ecco che in quella atmosfera di rievocazione eroica non conta più nulla l’antitesi fra quello che è in Dante pretesto al ritratto di Bellincioni Berti (l’antitesi polemica, la notizia costumistica, poco rilevata in sé o solo beffarda) e non conta più nulla l’approssimazione dell’altra notizia del Boccaccio (chissà di dove avrà preso pretesto per questa sua reminiscenza colma…). Anzi, si scopre, attraverso lui, che il ritratto di Bellincione è davvero circondato di un flotto di sonorità eroica, «vid’io» vale come rievocazione, e cuoio ed osso è davvero l’involucro di una ferina umanità più alta della comune misura degli uomini d’oggi. Gli altri accenni insistono ancora sullo stesso tema: parallelismo fra Dante ed Omero; mitografismo storico; la barbarie feconda: La costanza poi, che si stabilisce e si ferma con lo studio della sapienza de’ filosofi, non sapeva fingere gli dei e gli eroi cotanto leggieri, ch’altri ad ogni picciolo motivo di contraria ragione, quantunque commossi e turbati, si acquetano e si tranquillano; – altri nel bollore di violentissime collere, in rimembrando cosa lagrimevole si dileguano in amarissimi pianti (appunto come nella ritornata barbarie d’Italia) – nel fin della quale provenne Dante il toscano Omero, che pure non cantò altro che istorie – si legge che Cola di Rienzo – la cui Vita dicemmo sopra esprimer al vivo i costumi degli eroi di Grecia, che narra Omero – mentre mentova l’infelice stato romano oppresso da’ potenti in quel tempo, esso e coloro, appo i quali ragiona, prorompono in dirottissime lagrime…14

E vedi, leggendo, come ne risulti animata la storia, come felice quella sottolineatura della vita di Cola, che sempre più risulta degno d’essere fra gli eroi più osservati di quel rivolgimento dei tempi, Wandlung seiner Zeit, come la stessa parentesi del riferimento non necessario a Dante solleciti l’attenzione verso Cola di Rienzo, un suo eroe post litteram. E quanto appartiene all’ingenuità ritrovata della cultura del teatro dell’opera quella prontezza di effusione sentimentale? E per questa stessa natura della barbarie, la quale per difetto di riflessione non sa fingere (ond’ella è naturalmente veritiera, aperta, fida, generosa e magnanima), quantunque egli fusse dotto di altissima scienza riposta, con tutto ciò Dante nella sua Commedia espose

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in comparsa persone vere e rappresentò veri fatti de’ trapassati, e perciò diede al poema il titolo di «commedia», qual fu l’antica de’ greci che, come sopra l’abbiam detto, poneva persone vere in favola. E Dante somigliò in questo l’opera dell’Iliade, la quale Dionigi Longino dice essere tutta «dramatica» o sia rappresentativa, come tutta «narrativa» essere l’Odissea. E Francesco Petrarca, quantunque dottissimo, pure in latino si diede a cantare la seconda guerra cartaginese; ed in toscano, ne’ Trionfi, i quali sono di nota eroica, non fa altro che raccolta di storie […]. Il popolo non vuole drammi per musica, de’ quali gli argomenti son tutti tragici, se non sono presi da istorie; ed intanto sopporta gli argomenti finti nelle commedie, perché, essendo privati e perciò sconosciuti, gli crede veri.35

Sapienza volgare, sapienza riposta, meditazione sulla Provvidenza In quella prospettiva del mitologismo melodrammatico cui Vico si riduce per osservare tanto tratto di storia dalla civiltà italiana (ed era nel vero: e se poco del suo tempo fin qui si capisce, è dovuto proprio al non aver tenuto conto che per il teatro dell’Opera passa tutta la storia della cultura italiana; e se la nostra intelligenza fu sviata dal riassunto letterario che ne dette, proprio a Napoli in quegli anni vichiani, Metastasio, occorre ora riproporsi la stessa prospettiva) la favola eroica si riconduce alle sue origini, la commedia dantesca, per altro che per un giuoco pur suggestivo di analogie etimologiche: dico la favola eroica d’Italia; o la storia, che val lo stesso; e il dissidio fra la sapienza «riposta» di Dante, altissima, e la sua sapienza volgare viene ad essere quello che anche noi siamo giunti dopo tanto a vedere: che la sapienza riposta, la cifra dottrinale della sua cultura, per quanto grande, è un elemento occasionale di quella sapienza “volgare” che mette in moto tanta storia, salvo diventare essa stessa, ridotta in cifra, e aggregata al sapere degli addottrinati accademici, al culmine della civiltà che dai mostri è passata alle “accademie”, sapienza riposta; la nostra sapienza storica, appunto, per Vico, il fondatore della nuova scienza, e della nuova storiografia, è essa stessa sapienza riposta, se non s’apre alla vita religiosa della Provvidenza, e non si riassume in pietà umana e divina per il passato, per l’ordine del tempo, che dagli uomini riconduce a Dio: un itinerario dantesco.

Lettera a Gerardo degli Angioli La lettera a Gerardo degli Angioli è una qualificazione di questi pensieri della Scienza Nuova, mentre procede all’esercizio di sperimentarli sopra un’occasione mediocre, «alquanti sonetti e un capitolo» dove s’avverte «un molto maggiore ingrandimento di stile»: illusione retorica, quella della maniera grande, che ormai primeggia, e benché servisse a guadagnar dall’esterno quanto di Dante poteva un’eredità di cultura barocca compromessa con i limiti intellettualistici dell’enciclopedismo, troppo ancor lontana dalla fondazione di una nuova poetica: per ora basta un “recipe” arcadico: «Le selve e i boschi, che non sogliono fare gentili gli animi né punto raffinare gl’ingegni, han fatto questo vostro tanto 516

sensibile quanto repentino miglioramento». La lettera è ricca di una distaccata sapienza: quella pace degli ultimi anni della sua vita, quel confidente abbandono alla verità della Provvidenza finalmente intesa, operosa nei secoli e nel suo cuore, feconda di requie e di luce; e la polemica contro i tempi non la turba: Ella è venuta a’ tempi di una sapienza che assidera tutto il generoso della miglior poesia, la quale non sa spiegarsi che per trasporti, fa sua regola il giudizio de’ sensi ed imita e pigne al vivo le cose, i costumi, gli affetti, con un fortemente immaginarli e quindi vivamente sentirli…

Ed ecco la mediazione parenetica, la raccomandazione di una poetica, la mediazione fra Dante ed Alfieri. Ancora alfieriana è la valutazione della «qui tra noi rifiorente toscana poesia» e dei «poeti eroi» del Cinquecento; ma ignara di quel che verrà poi nel tempo, per affisarsi quasi religiosamente nel suo oggetto, è l’immagine dantesca: Vi compiaceste di Dante, contro il corso naturale de’ giovani […]; e voi con un gusto austero innanzi gli anni gustate di quel divino poeta che alle fantasie dilicate d’oggidì sembra incolto e ruvido anzi che no, ed agli orecchi ammorbiditi da musiche effeminate suona una soventi fiate insoave e bene spesso ancora dispiacente armonia. Codesto le fu dato dal melanconico amore di che Ella abbonda…

Altro itinerario migliore non si saprebbe proporre alla lettura, se vi è detto di cercare una consonanza di natura fra il lettore e il poeta, e allontanarsi dal tempo per cercare nella solitudine la verità. Il riferimento ai tempi eroici: egli nacque Dante in seno alla fiera e feroce barbarie d’Italia, la quale non fu maggiore che da quattro secoli innanzi […]. Firenze, rincrudelì […]. Gli uomini doveano menar la vita nelle selve e nelle città come selve, nulla o poco tra loro e non altrimenti che per le streme necessità della vita comunicando…

viene ad attenuare, collocata dopo la personalità di quell’incontro da uomo ad uomo a ritroso delle indicazioni dei tempi attuali e della morbidezza del costume, viene ad acquistare valore di commento, di illustrazione, di nozione di contorno, quasi perdendo affatto quella suggestione di essere causa determinante che pareva avere nella Scienza Nuova. Ancora ad una qualificazione storica della Commedia appartiene il riferimento al carattere religioso della dottrina: la Provvidenza, rimenandovi i tempi divini del primo mondo delle nazioni, dispose che almeno la religione con la lingua della chiesa latina (lo stesso per le stesse cagioni provvide all’Oriente con la greca) tenesse gli uomini dell’Occidente in società, onde coloro solo che se ne intendevano, cioè i sacerdoti, erano i sapienti…

benché sia anche qualificazione tematica, a pari della collocazione storica: poema epico e poema religioso la Commedia. Anche il problema della lingua è 517

sfiorato, translatando in una concezione storica la concezione formalistica del linguaggio illustre: «dovette raccogliere una lingua da tutti i popoli dell’Italia, come, perché venuto in tempi somiglianti, Omero aveva raccolto la sua da tutti quelli di Grecia». Forse troppo lontano il parallelismo parenetico della Commedia coi poemi di Omero: Così Dante, fornito di poetici favellari, impiegò il colerico ingegno nella sua Commedia: nel cui Inferno spiegò tutto il grande della sua fantasia in narrando ire implacabili, delle quali una e non più fu quella di Achille, ed in membrando quantità di spietatissimi tormenti, come appunto nella fierezza di Grecia barbara, Omero descrisse tante varie atroci forme di fierissime morti […]. Ma nel Purgatorio, dove si soffrono tormentosissime pene con inalterabile pazienza; nel Paradiso, ove si gode infinita gioia con una somma pace dell’animo, quanto in questa mansuetudine e pace di costumi umani non lo è, tanto a que’ tempi impazienti di offesa o di dolore, era maravigliosissimo Dante, appunto come, per lo concorso delle stesse cagioni, l’Odissea…

Giova avvertire il richiamo di una immagine arcadica dei tempi, in quel commento al Paradiso, certo men letto che l’altre cantiche; e per essere soprappreso dal ricordo dei contemporanei, Vico ritorna sul paragone iniziale e sul tema della impopolarità della Commedia. Il passaggio serve al Vico per fondare, di sulla poetica della Commedia, un abbozzo di didattica dell’arte, alfieriano anch’esso: entrare nelle cose stesse che volete voi dire… sentimenti vari poetici, perché spiegati per sensi, non intesi per riflessione… i vostri componimenti sono propri de’ subietti di cui parlate, perché non gli andate a ritrovare nell’idee de’ filosofi per cui i subietti tali dovrebbero essere, onde le false lodi sono veri rimproveri di ciò che loro manca.

Anche per questa via la lettura della Commedia diventa fondazione delle nuove poetiche.

1 Di Paolo Beni detrattore di Dante (di un Dante visto nella prospettiva fiorentina e cruscante) nella Comparazione d’Omero, Virgilio e Torquato (1607) e nell’Anti-Crusca (1612) e nel Cavalcanti (1612) si occupò A. BELLONI, Un professore anticruscante all’Università di Padova, in “Arch. Veneto-Tridentino”, I (1922). Del Belloni vedi le notizie sugli studi secenteschi intorno a Dante (Villani, Fioretti, Tassoni, Beni, Buonmattei, l’interessantissimo commento del Magalotti ai primi cinque canti dell’Inferno su cui rincresce trascorrere) nel Seicento, Milano 1929, p. 571. 2 Bari 1910, ed. Rua, vol. I, pp. 301-303: «Dante Alighieri, da alcuni virtuosi travestiti di notte essendo assaltato nella sua villa e maltrattato, dal gran Ronzardo francese vien soccorso e liberato». 3 Avrà il suo significato, in quella parodistica topografia di Parnaso, che il gran Ronzardo abbia «non molto lontana da quella di Dante la sua villa»? O si tratterà di un aiuto, consapevolmente accettato, che la più attiva cultura italiana riceve dalla Pléïade, per riscoprire la

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poesia “medievale” al di là dei divieti accademici? In questo senso si moverebbe il Chiabrera, che giunge agli stilnovisti (E.N. GIRARDI, Esperienza e poesia di Gabriello Chiabrera, Milano 1950, p. 44) e par solo contornar la Commedia. 4 Una lettura diligente è in A. CHIARI, Galileo e le lettere italiane, in Saggi e conferenze nel terzo centenario della morte di Galileo Galilei, Milano 1942, pp. 357 ss. Anche per il Galilei lettore di Dante, come per tutti i paragrafi della lettura secentesca, una collocazione prospettica assai vasta è offerta dal CALCATERRA, Il Parnaso in rivolta, Milano 1940. 5 Pd XXI, 108. 6 Ha un interesse diretto per seguire il volgersi della fortuna vichiana nella direzione degli studi danteschi la Bibliografia vichiana di B. CROCE, particolarmente la parte II, «contenente il Catalogo dei Giudizi e lavori storici intorno al Vico», Napoli 1904, con i successivi supplementi, anche in collaborazione con F. Nicolini. Hanno attinenze più o meno dirette con il rivolgersi del Vico a Dante, oltre l’opera fondamentale del Croce, La filosofia di G.B. Vico, 3ª ed., Bari 1933 e gli Studi Vichiani di G. GENTILE, 2ª ed., Firenze 1927, A. SORRENTINO, G.B. Vico e la critica dantesca del Settecento, Cava de’ Tirreni 1919, e le opere che evitarono il cristallizzarsi di una immagine vichiana nella formula della teoresi storico-idealista: del CHIOCCHETTI, del BARIÈ, del GIUSSO, e la bibliografia intorno alla questione collaterale della «discoverta del vero Omero»: G. PERROTTA, Le teorie omeriche di G.B. Vico, nel vol. Italia e Grecia, Firenze 1939. Infine, centrando finalmente il problema, M. FUBINI, Stile e umanità di G.B. Vico, Bari 1946. 7 Canz. Donna pietosa e di novella etade. 8 Ed. Nicolini, Bari 1928, vol. V, p. 129. 9 In questa direzione si mise la lettura vichiana più feconda: del Cuoco, del Monti, del Foscolo, dello stesso Gioberti, attraverso il quale passò al Risorgimento. Ma vedi, per le attinenze di filosofia e di linguistica, le opere citate del Fubini, e del Giusso: per il quale ultimo ritorna una preoccupazione di tradizionale filosofia sapienzale italiana. 10 Ed. cit., par. 433. 11 Ed. cit., par. 433. 12 Pd XV, 112-114. 13 Ed. cit., par. 564. 14 Ed. cit., par. 699. 15 Ed. cit., par. 817.

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Difesa di Dante

Limiti della lettura settecentesca vulgata Le discussioni settecentesche non oltrepassano i termini del vecchio accademismo, e paiono contornare senza avvedersene il territorio della «discoverta» vichiana; se non che due fatti s’avvertono, l’uno intrinseco, l’altro estrinseco: che quella discoverta era pur presente, benché sommessa (forse leggendo meglio fra le pagine dei letterati maggiori e minori, e sottraendoli al conformismo dei quadri storici dove si confinano, quella presenza apparirà più operosa: si replicherà la vicenda cesarottiana, d’un letterato che par spaventato di dover dare il nome di Vico a certe sue elucubrazioni, al suo muovere verso la mitologia e mirabile barbarie del Settentrione); e che via via che le invenzioni secentesche entrano nel discorso dell’intelligenza europea, poco paga ormai dei limiti fissati dall’accademismo francese, il gusto si fa più pronto a comprendere Dante; né mancano i soccorsi della scienza storica, e la frequentazione medievale degli eruditi. La denuncia del limite è tuttavia avvertibile fin dall’esterno: Vico aveva proposto una lettura che impegnava la storia e il costume; ma primo ed ultimo termine di quella lettura restava un’affinità di animo perturbato ed acre, una feconda malinconia, una sincerità e grandezza di affetti. Il canone del costume letterario settecentesco impone una graziosa disinvoltura, una sufficienza garbata, la sentenziosità sterile di chi si trova troppo bene coi più e difeso dal culto del generico. Bisognerà tuttavia riconoscere che in quella cultura unitaria l’accademismo italiano sopravviveva circondato da una certa grandezza, dalla risonanza che l’intellettualismo francese, suo cognato, otteneva in Europa e nel mondo, divulgando i risultati ottenuti dalla cultura, anzi dalla civiltà francese (ch’era la traduzione talvolta formalistica di quella): gli scherzi accademici italiani, e la commedia della letteratura, traducevano un proposito di difesa dei valori riconosciuti dall’intelligenza classicheggiante; e richiamare nel circolo dell’intelligenza europea, come il Romanticismo si apprestava a fare, le persone dei vecchi poeti, ed opere immense e troppo diverse da quel facile ossequio soddisfatto, sarebbe stato come far scendere in piazza, dall’alto del frontone di San Pietro, le statue degli apostoli: Voltaire e Benedetto XIV lo sapevano.

Intorno a Voltaire Voltaire ha la sua parte, e grande,1 in questi discorsi antidanteschi, quasi premessa al catalogo degli autori dell’Enciclopedia: e valse al nuovo secolo, armato contro il suo, quando accorse a cercare tutto quello che l’intellettualismo aveva condan521

nato. La polemica scoppiò infatti, come un’ammonizione disinvolta, perché la cultura italiana si affrettasse a riconoscere la giustezza delle osservazioni che le si andavan facendo, e smettesse il culto idolatrico di certe sue vecchie forme e di certi suoi vecchi poeti. È difficile coglier nella politica letteraria settecentesca quella unità e coerenza di moti che la politica letteraria dell’Ottocento e del Novecento perseguono, con la preoccupazione assurda di determinare all’esterno non solo la borsa, ma la creazione stessa dei valori letterari: vivevano di accoglienze blande, e non avevan ancora appreso, dalla Rivoluzione francese e dallo hegelismo, che ne rese categorico il costume, a schierar le idee al servizio degli iddii della terra, sitibondi di sangue. Le polemiche letterarie, perciò, non rivelano fin dalle prime, come accadde più tardi, il loro centro ideologico; e di Dante, come di Shakespeare, si può dir male per ragioni di buon gusto, fingendo che solo importi opporre un divieto a quelle loro abnormi pretese di parlare un linguaggio barbaro, a quelle loro smanie plebee e «medievali»: la loro forza autentica, sentita e non dichiarata, che invade il mondo e lo trasfigura, par che meno importi, a paragone del compito della critica e del senso comune, di respingere la pretesa indiscreta di evadere dalle norme meglio riconosciute e più contegnosamente accettate. Le smanie shakespeariane dilatate sulla faccia della terra, e la gigantomachia dantesca per dare la scalata al cielo, basta vietarle, alla porta della ragionevole convivenza del genere umano: nerboruti valletti, il buon gusto e la buona creanza. Ma così facendo i precetti dell’accademismo internazionale; urtavano contro le custodie dell’accademismo italiano: il quale, specialmente a Firenze, s’era sentito di potere con ogni ragionevolezza difendere la dignità dell’intelletto e la pietà delle tradizioni; e se un Galileo, uno dei santoni del nuovo intellettualismo, aveva potuto mettere il suo ingegno matematico a contributo della intelligenza di Dante, non c’era nessuna ragione di ritenere impossibile l’accordo fra Dante e l’intellettualismo moderno: dovendo decidere, l’Accademia Fiorentina avrebbe deciso per Dante. La difesa di Dante dei settecentisti italiani va osservata in questa prospettiva: difesa, nel contempo, di una tradizione che si era creduta fondamentalmente concorde con l’intellettualismo internazionale; se l’accordo era impossibile, bisognava riveder da capo tutto quanto. Per tutto il secolo si discusse fino a che punto si poteva andar d’accordo; e finché rimaneva in piedi l’organizzazione politica e sociale dei vecchi tempi, fondata sul ragionevole compromesso (anche Vico aveva esaltato i suoi tempi come tempi di soavissima civiltà e di dignitosissimi costumi, e aveva collocato l’accademismo al vertice di una storia che dai bestioni cavernicoli moveva verso i villaggi e le città, e dalle selve moveva verso la delicatezza della vita cittadina), tutto sembrava potersi accordare: anche i letterati della Compagnia di Gesù, che parevano da ogni parte intenti a salvare il salvabile, dimostravano di non irrigidirsi in nessuna posizione; e se padre Venturi, nel 1732, pubblica il commento della Commedia, padre Bettinelli, nel 1758, pubblica le Lettere Virgiliane e chiama l’Arcadia ad accettare di rivedere il suo catalogo dei valori letterari, e a non appoggiarlo, come sembrava fare, a un inerte tradizionalismo: sforzo, chi bene intenda, di un conciliatorismo destinato a miseramente fallire. Caduta quella organizzazione politica e rovinato il vecchio ordine sociale, la conciliazione non era più possibile, e nemmeno lasciar che le cose si aggiustassero per loro conto: 522

fra ragione e tradizione l’accademismo italiano optò per la tradizione; e optare per la tradizione, in Italia, (se ne accorgeranno alla “Biblioteca Italiana”) significava ritrovarsi, anche senza volerlo, Romantici.

Bettinelli Saverio Bettinelli si prese l’incarico di contrapporre al gusto italiano inveterato il suo buon gusto internazionale: il buon senso al senso comune; e chiese ed ottenne, per far questo, il patronato del dittatore della cultura europea, Voltaire.2 L’episodio delle Lettere merita solo per questo l’osservanza di cui fu fatto sempre segno: perché traduceva in termini di commedia accademica ed arcadica l’offensiva antidantesca scatenata da Voltaire e perché apriva un dissidio fra intelligenza e costume: con tutte le conseguenze che ciò portava in letteratura non solo, ma alla lunga anche in politica. Bettinelli cercò alleati per questo: Algarotti e Frugoni, convitati nolenti a dirigere, dall’alto di una tribuna di versi sciolti, la battaglia antitradizionalistica; ma state pur sicuri che quando Voltaire torniva per lui l’epigramma famoso: Compatriote de Virgile et son secrétaire aujourd’hui, c’est à vous d’écrire sous lui: vous avez son âme et son style

si divertiva a rammentare il verso dantesco «tu sei solo colui da cui io tolsi / lo bello stile che m’ha fatto onore». Queste cronache letterarie del Settecento sono assai movimentate e colorite, simili a quelle che in Francia si perpetuarono lungo l’Ottocento: dove persino il pettegolezzo giova alla storia della poesia; mentre l’Ottocento italiano, anche intorno a Dante, è così faticoso e pensoso, così aggravato dall’incontro con il costume inveterato. Bettinelli manda un orecchio in ascolto presso Voltaire, ancor prima di visitarlo, in viaggio per l’Europa, aio agevole e sciolto dei principini di Hohenlohe; ma nella sua «visione» immagina che il messaggio dantesco gli venga dalla vichiana Napoli, portato negli Elisi da quell’«uffiziale» Pascali che militava in Mantova nell’esercito austriaco: anima foscoliana ante litteram «superba d’avere animato un corpo napoletano e d’aver professato ad un tempo l’arte poetica e la militare»: l’invitammo a sedere sull’erba, e farci udire di que’ sì bei versi ch’ella cantava. Ma guardandoci bieco, rispose non esser noi degni di tal poesia che tutta era Dantesca, né degni di star con Dante, il sol Poeta veramente divino, anzi il Dio de’ Poeti. Così dicendo volse a tutti le spalle e andò chiamando per mezzo la selva Achille a duello ed Alessandro.3

La commedia è sapida, se pur non si mantenga sempre all’altezza di questo proemio: se cioè, anziché di figurare, come sarebbe del suo gusto più risentito, 523

si contenta di alludere (come quando trovano la Commedia presso un geometra accigliato e solitario «che la leggeva a vicenda con Pappo Alessandrino», autor parallelo della Raccolta Matematica e dell’Arte d’interpretare i sogni; ma dietro lo scherzo Bettinelli coglie giusto quello strano stupefacente incontro di matematica e di visione che è di Dante: incontro che puoi risolvere solo subordinando l’intelletto ad una più vasta presenza di persona; l’Ottocento, che provava lo stesso stupore dell’intellettualismo settecentesco, o si nascose dietro il tautologismo della giustificazione storica, o ne tacque, o separò i due momenti). Una lettura siffatta, così leggera e leggiadra, riassunse innumerevoli cose: certo Bettinelli non è fra i lettori di Dante il più sprovveduto; e il suo scherzo talvolta aggrava la mano: Che potea saper io di Can della Scala né del Vas d’elezione che egli t’accoppia con Enea, né di cento siffatte cose?

e nota, per la chiave della lettura, che «Can della Scala» era ed è imprecazione lombarda. Così l’apologia potrà parere sguaiata: ed è sincera, Pur de’ bellissimi versi, che a quando a quando incontravansi, mi facean tal piacere, che quasi gli perdonava. Ma giunto poi, saltando assai carte senza leggerle, a Francesca d’Arimino, al Conte Ugolino, a qualche altro passo siffatto: Oh peccato, gridai, che sì bei pezzi in mezzo a tanta oscurità e stravaganza sian condannati! Amico caro, diss’io rivolgendomi verso Omero, guai a noi se questo poema fosse più regolare e scritto tutto di questo stile! Si lesse più d’una volta Ugolino: chi piagnea, chi volea metterlo in elegia, chi tentò di tradurlo in greco od in latino; ma indarno. Ognun confessò che uno squarcio sì originale e sì poetico per colorito insieme e per passione, non cedeva ad alcuno d’alcuna lingua, e che l’italianità mostrava in esso una tal robustezza, e gemeva in un tuono così pietoso che potrebbe in un caso vincere ogni altra.

Dove, dopo tutto, dall’elogio della maniera grande si scorre ad un’idea primatistica: «regina torneria la terza volta». Una conciliazione, o una proposta conciliativa, finisce sempre, in letteratura, con un’antologia; e Bettinelli inserì nella proposta dell’antologia della letteratura italiana, della Lettera Nona, l’antologia di Dante: Dante sia posto tra’ libri d’erudizione, siccome un codice e monumento d’antichità lasciando alla poesia que’ cinque canti incirca di pezzi insieme raccolti, che gli antichi stimarono degni nella Lettera Terza,

che è conclusione fatale di ogni incontro di Dante con una mentalità intellettualistica: scindere la filosofia dalla poesia, e antologizzare. Ma quei cinque canti raccolti in frammenti rimanevano a determinare una corrente di animazione; e gli eruditi che, contemporaneamente, rituffavano il Dante nel mare magno della 524

sua storia e della sua dottrina, disponevano la condizione secondaria (dopo la salvezza assegnata alla poesia, sia pur ridotta di estensione statistica e aritmetica) per scoprire nuove realtà e disporre nuove illuminazioni poetiche in zone dimenticate.

Gozzi Vico aveva liturgizzato la gesta dei poeti eroi; e finché a una accezione comune della poesia come eroicità non si ritornasse, Dante rimaneva e rimane oscuro e frammentario: fu il compito della politica letteraria dei Romantici, e della fondazione di un nuovo umanesimo. Naturale che il buon Gasparo Gozzi accorresse ad una difesa tutta esterna di Dante: Bettinelli aveva fatto una scorreria nella cittadella dell’accademismo, e da ogni parte, come Carlo Magno coi suoi paladini incontro a Rodomonte che era entrato in Parigi, gli si fecero incontro i difensori: uomini qualificati al compito solo per essere letterati, e rispettati della tradizione accademica e poco propensi agli scopi palesi e a quelli reconditi del Bettinelli.4 Il nome che restò nella memoria, fra loro, è quello di Gasparo Gozzi; ma occorre la confusionaria violenza polemica del Gioberti per dire che il «temerario assalto» del Gesuita «svegliò l’ingegno elegante ed aculeato del Gozzi»:5 il Giudizio degli antichi poeti sopra la moderna censura di Dante non drammatizza nulla (e questo va con l’epiteto di elegante), ma non offende (e questo contraddice all’«aculeato»): resta sul terreno della commedia accademica, e su quella ammirazione della toscanità, richiamando il Doni, cosa tanto frequente a Venezia, dal Bembo al fratello di Gaspare, e dall’università padovana all’accademia granellesca, con incontri ora seri ora grotteschi. Quel che più giova non dico ad una lettura nuova, che è impossibile, ma a disporla e a darle argomento e sostegno, è proprio la nobile piacevolezza del discorso, che non manca di indirizzare un profondo inchino all’avversario, sebbene, con mondana arguzia, accomunandolo nella reverenza agli improvvisati compagni: in verità quel signor abate Frugoni e quel signor conte Algarotti e quel padre Saverio Bettinelli, sono tre intelletti mossi alle Muse, e questo secolo risplenderà felicemente fra gli altri per tre così egregi e solenni poeti. Sono ripieni di entusiasmo poetico, di vivaci, leggiadri e naturali pensieri, vestiti con entusiasmo, vivacità, leggiadria, naturalmente, tanto che ha fatto benissimo chi que’ cinque componimenti insieme congiunse: ché sono veramente in vigore poetico quegli autori tre fratelli carnali. Rallegratevi per parte mia col signor Pietro Bassaglia, che gli ha pubblicati, più che per qualunque altro libro, ch’egli abbia fin qui dato alla luce, non lasciandovi fuori la traduzione dell’Accademia delle Scienze…6

e in quelle disponibilità e larghezza di accoglienze il distinguo bettinelliano non ha più nessuna ragione di esistere. Per un verso il Gozzi, che ha chiarissimo il senso del natural decoro e ragionevolezza del costume italiano, e che del costumismo veneto del Settecento si vale per una stupenda difesa a favore della 525

dignità della nazione italiana, si rifà alla popolarità di Dante: un canone critico che piaceva ai Fiorentini. Quel cuore del popolo, nudo di ogni cognizione, è in mano di natura; quando ti assaggia, ti vuole, ti corre dietro da sé, e ti ama spontaneamente, ciò è segno principale dell’immortalità dei tuoi scritti…

e subito aggiunge quel riconoscimento della attività erudita che piaceva a tutti: I glosatori poi e i dizionari vengono di necessità quando il tempo ricopre molte cose di tenebre; ma la gloria degli scrittori fu già da quella prima universale accoglienza annunziata…

e poiché il suo compito è di letteratura, bada a questo aver disposto le letture, e sgombrato l’inciampo del gusto corrente, più che alla parte positiva, di avere richiamato e quasi imposto l’intelligenza attraverso la critica e l’apologia. Tuttavia è positivo, è un dato utilissimo alla storia di poi, l’avere intonato il discorso della critica dantesca in una chiave tanto alta: Io vi ridico che cosa non fu, nella quale non vedesse sempre il mirabile ed il sublime; e ciò con tanta veemenza e rapimento di animo, ch’egli si vede chiaro essere in lui stato natura quello che in molti sarebbe stato vaneggiamento.

E questa è una delle sue frasi potenti, e rivelatrice che la critica del Settecento conosce più di quanto noi non siamo soliti ricordare. Difetti, di gusto, o per meglio dire un troppo rigoroso concedere al gusto prevalente, possono farlo cadere in errore: grottesche figure gli appaiono quelle dei violenti contro natura sotto la pioggia di fuoco; e trascorre senza distinguere. Ma apre anche così, fra le sue riserve, la possibilità di intendere più a fondo il poeta: Io non vi posso ogni altra cosa ridire se non leggete e rileggete l’opera stessa.

Dante a Verona A Dante ci si rivolge dunque da più parti, nel Settecento; ma non si sarebbe giunti a un’intesa, dunque a una lettura sistematica e unitaria, senza una singolarissima esperienza locale, senza un acquisto di concretezza storica fatto in un ambiente ristretto, con il gusto del precisare, la circospezione e l’abito della ricerca documentaria, la familiarità dei pensieri assuefatti ai ricordi. Né l’offesa di Dante aveva tolto la Commedia dallo scaffale dei classici e dal canone delle glorie, né la difesa ve l’aveva ricollocato: per il merito degli uni non meno che per la colpa degli altri, Dante rientra nel circolo delle letture, nella pratica quasi ascetica che la consuetudine letteraria esigeva dai letterati: un esercizio di stile come preludio ginnastico ad ogni prova di virtù; e se Della Casa aveva racco526

mandato ai giovani di lasciar Dante e le sue bruttezze per seguire Petrarca in tutto e per tutto, ora si pensa come riconquistare il bello anche attraverso il brutto: la poetica romantica dell’orrido non è poi tanto lontana, né verso il tempo di prima (il Barocco) né verso il tempo di poi (il Romanticismo). Di fronte a quel nome del catalogo dei grandi (e il Rolli aveva or ora accostato Dante a Shakespeare: con Omero, la triade sarà presto composta) la proposta vichiana era rimasta in sospeso; ma lavorava, prima di lei, e accanto, e assai più ascoltata per molto tempo, anche attraverso la lettura di Calepio e di Bodmer, l’idea del Gravina. Nella dantologia italiana, tuttavia, non è il caso di prendere il punto da così lontano: la nostra letteratura ama di precisarsi in regioni molto concrete del discorso e del costume; e se l’episodio della difesa di Dante era stata una vivace scaramuccia, seguìta molto curiosamente, se l’ideale storia vichiana prosegue nell’alto dei cieli storici la sua fantastica officiatura di una rivelazione poetica che è attuale soprattutto per essere provvidenziale ed eterna, un discorso circostanziato e concretamente osservato intorno a Dante riprende solo fra gente che si conosce, che molto o tutto conosce l’uno dell’altro, che si mantiene nei termini di un discorso rigorosamente accademico, anche quando l’impulso è della baruffa e della polemica, anzitutto per buona creanza. Il centro di lettura dantesca resta naturalmente Firenze, fra il Magalotti e il Salvini; sorvegliano via via le edizioni che si moltiplicano, lungo il Settecento, e qua e là per la penisola sono sparsi gli eruditi che seguono la questione: esemplare fra tutti il Muratori, che anche per il discorso sul testo di Dante è il complemento necessario e insufficiente di Vico; ma un nuovo centro, destinato a dare un indirizzo nuovo agli studi, o a rifletterli con una nuova attenzione, è Verona.7 Il culto genealogico v’ebbe gran parte, fra la discendenza degli Alighieri Serego, una tradizione patrizia ghibellina e una polarità culturale dualistica con Padova; ma non si sarebbe giunti a risultati concreti senza concrete presenze d’uomini volonterosi, che traggano profitto dalle occasioni dell’ambiente. Fondatore di questa nuova intelligenza cittadina fu, come è noto, Scipione Maffei: né Dante sfuggiva ai suoi interessi storici e letterari; ma qui non vorremmo invitare a cercare, che sarebbe fatica vana, la sua reazione personale a Dante e al mondo della Commedia: piuttosto, sottolineare quale dei suoi modi di letterato o di erudito giovarono agli studi danteschi. Letterato ed erudito insieme; ché sarà lecito, sia pure generalizzando alquanto, annotare che toccò ai letterati, più che agli eruditi, portare nella lettura di Dante nuovo risentimento e vita: da Foscolo, sul principio del Romanticismo, a Pascoli, alla sua fine. E una vivacità di sentire e di risentire, un gusto del particolare concreto, l’attitudine (catulliana; o, come vi garba, betteloniana) a veder le parole nel loro concretarsi in cose. Egli porta nella ricerca la sua sapienza mondana e politica; porta nella letteratura, benché non vi faccia peso, la serietà del suo guardare profondo e lontano, senza ciurmerie di letterato mago, ma con una salda consapevolezza delle proprie forze; e finché sorveglia la cultura e ordina le ricerche, l’impegno più grande è di adunare con ordine il più gran numero di certezze, senza mai vietare la strada all’acquisto di cose grandi e di sentimenti remoti. Accanto a lui tocca a Giulio Cesare Becelli pubblicare nel 1732, a Verona, uno dei trattati di poetica più arditamente antiintellettualisti e 527

storicisti, fra i molti che, nel Settecento, intendono di definire il senso autonomo della cultura italiana e di procedere a una storiografia letteraria consapevole dell’apporto e dell’occasione dei tempi e del Paese. Scipione Maffei gli fa la proposta più estensiva del suo storicismo, cioè la relazione fra la novità dei tempi e la novità della poesia (non sarà senza significato che, attraverso un’attenzione e una polemica veronese, Ugo Foscolo mediti anche attraverso lo studio sul testo della Commedia l’idea poetica e sepolcrale della poesia vittoriosa sul tempo); ma egli inizia la ricerca dei rapporti fra quel tempo e quella poesia: dietro gli accenni illustrativi e le postille marginali della tradizione trecentesca prolungata dall’Accademia Fiorentina, riascolta la presenza mitografica del tempo, di cui partecipano gli eroi e il poeta. Sostituisce, com’è noto, al culto dei classici greci e latini il culto della classicità italiana; ma anche la polemica per una letteratura cristiana e per la decadenza della mitologia sgombrano la strada alla nuova lettura: ogni rivoluzione letteraria sostituisce una nuova antologia ad una vecchia.

L’ambiente veronese Con altro ingegno, e con quella propensione a prender le posizioni estreme, il Becelli avrebbe potuto far di Verona uno di quei centri romantici che poi sorsero nella Germania dell’ultimo Settecento: era del resto sulla strada d’Allemagna, e la geografia spirituale d’Italia vi conosce più di un incontro significativo. Ma la presenza del Maffei, ch’era di altra tempra e altra volontà e altra capacità di realizzare, lasciò che quella del Becelli, con il suo stile faticoso, valesse come apologetica della poesia moderna; e subito impose all’ambiente una stretta osservanza storicistica. Era un ambiente stupendamente osservato, pronto e nello stesso tempo cauto, si lasciava andare ad amplificazioni vagabonde, e subito ritornava nei limiti circospetti delle cose frequentate da vicino, cercava inquietamente le lontananze dei viaggi e dei vagabondaggi sentimentali (l’esempio di Ippolito Pindemonte non è certo il solo, è soltanto il più spiccato e il più famoso). Studiosi patrizi e studiosi ecclesiastici: bene questa storia degli studi danteschi a Verona si riassume nella figura del Dionisi, che fu marchese e canonico; ma la tradizione ecclesiastica, che si apriva sempre più consapevolmente al valore di Dante nella storia della tradizione religiosa d’Italia (e i due commenti fondamentali del Settecento sono di Pompeo Venturi, gesuita, e di Francesco Baldassare Lombardi, francescano) vi era, prevalentemente, orientata a quel concetto di classicità del volgare che era stato elaborato nel Veneto nel Cinquecento; mentre la cultura patrizia, accettato il classicismo con un cenno di ossequio, badava a realtà più immediate e a rispondenze più pronte. Qui potrebbe anche meritare un cenno la civiltà salottiera: ché a Verona la vita letteraria amava l’officiatura di una diva presente. Scipione Maffei, con il “Giornale” e con gli opuscoli eruditi, aveva mandato intorno per l’Italia i risultati delle sue ricerche archeologiche e storiche, ma prima di far loro fare un gran viaggio, le ricerche degli eruditi veronesi erano discusse e osservate in ambienti che non avevano né la solennità astratta dell’accademia, né l’avventurosità un po’ vaga della pubblicistica. 528

Venturi Si comprende come il commento di padre Venturi, diventando veronese nella terza edizione, 1749, lasciasse da parte più d’una preoccupazione apologetica, che aveva attenuato l’edizione lucchese del 1732 e la veneziana del 1739.8 Qui non possiamo fermarci a questo paragrafo della storia della fortuna di Dante nel Settecento, che fu l’avventurosa edizione del commento del Venturi, avanzato dapprima con l’idea di un’opera scolastica, dignitosamente condotta, ma con una certa disinvoltura nel fare il paragone fra il testo e il buon gusto, fra i polemismi di Dante e l’ossequio alle gerarchie religiose, dignitosamente dedicata al pontefice Clemente XII, ma troppo facile nell’oltrepassare il problema storico della politica dantesca. Il successo che ottenne, dopo che per tanto tempo non s’erano avuti commenti, era segno che la fortuna di Dante risorgeva; ed è spiegabile la preoccupazione, anch’essa politica, di valersi della attualità dell’opera immensa, lasciando in disparte o nascondendo le inopportunità polemiche. Comunque il padre Venturi fosse soccorso nell’edizione veronese, la prima dove si facesse il suo nome (vi ebbero parte Marcantonio Rosa Morando, padre Baggi, padre Zaccaria), l’intenzione originaria di un commento letterale e poco preoccupato della polemica venne meglio in chiaro, e il consenso a far che il libro continuasse per la sua strada. Naturalmente, così facendo, ci si rimetteva a Dante più di quanto avrebbero creduto opportuno gli editori dell’edizione lucchese; e si preparava il cammino agli innumerevoli emendamenti che si dovevano pur fare a un’esegesi che non si curava troppo di tener conto di ogni possibilità dell’interpretazione passata e futura. Nuovi studi storici, nuovi studi filologici potevano e dovevano alterare il valore della glossa venturiana (l’edizione quarta del Vocabolario della Crusca, 1729-38): Filippo Rosa Morando, il recensore acutissimo del Venturi, è il responsabile e il benemerito di questo nuovo metodo delle attinenze filologiche e storiche; e che arrivi a questo risultato a diciott’anni, destinato a morire prima dei venticinque, dette alle ricerche stesse un impegno e una freschezza di cui dovette ricordarsi anche Foscolo. Le Osservazioni sopra il commento della Divina Commedia di Dante Alighieri stampato in Verona l’anno 1749 (1751) e la Lettera al padre Giuseppe Bianchini intorno a quanto fu scritto nella Storia letteraria d’Italia del Padre Zaccaria contro le osservazioni sopra il commento del Padre Venturi (1754) erano direttamente o indirettamente nel discorso di tutti gli eruditi settecenteschi, nell’edizione dedicata a Elisabetta Petrovna come nelle postille del Dionisi; esigono dal lettore di Dante quello che non s’era mai ottenuto (né voluto) sin qui: di prenderlo totalmente sul serio, di far del poeta il centro di una attenzione infinitamente più grande e più agguerrita. L’erudizione fiorentina era degnissima; ma non vorrei giudicare il significato dell’erudito diciottenne dalle singole correzioni che egli propone o dimostra: si tratta di fatto molto più singolare, di un dedicarsi perdutamente ad un’opera che, considerata prima riflessiva, diventa procedendo un itinerario di conoscenza. La lettura del Venturi era attenta, non certo eroica: faceva di quando in quando errori; ma questi dipendevano dal grado scarso del suo impegno, dal fatto che poteva parer poco persuaso che si dovesse impiegare nel leggere 529

Dante l’impegno che avrebbe posto nel commentare un testo sacro. Filippo Rosa Morando è invece convinto del contrario; e quando, commentando l’episodio di Traiano imperatore, rovescia quella sua cateratta di erudizione storica e archeologica per dichiarare la leggenda e risolvere il problema della attribuzione a Traiano di un fatto di Adriano, non vedi solo la consuetudine del Maffei, ma quel desiderio di far centro in Dante di una esplorazione dell’universo leggendario e storico.

Ricerca erudita e lettura estetica Per questa via non si arriva al commento, né all’unità esegetica; ma si prepara la strada ad una reazione di politica letteraria che fa convergere tutta la vita della cultura intorno a un testo. Tale la sorte delle ricerche intorno alla Divina Commedia, prima che Foscolo ritentasse di chiarire le idee e di ordinarle nel discorso appunto sul testo della Commedia. E il passo che l’erudizione veronese doveva poi compiere era il metodo delle postille erudite perseguito dal Perazzini e dal Dionisi: raccogliere e circostanziare quanto fosse possibile le notizie storiche e filologiche, definire intorno ad ogni passo la responsabilità documentaria, ripercorrere da capo il sistema degli accertamenti, per decidere dell’attendibilità di ogni affermazione. Ma nel Dionisi il fervore inventivo del giovinetto erudito manca affatto: si contenta che la sua prodigiosa memoria sia posta al soccorso di un sistema; la conclusione delle sue ricerche, o per meglio dire del suo metodo, è la nozione astratta di vita documentaria o quella altrettanto astratta di testo critico: le postille disperse si raccolgono nell’ordine esterno della Vita apprestata dal Tiraboschi, che può esser a sua volta soccorsa da altre postille, come quelle di Giuseppe Pelli Bencivenni, pubblicate a Venezia nel 1759, Memorie per servire alla vita di Dante; il termine ideale resta quello della Vita. Separatamente e parallelamente alla ricerca erudita la cultura veronese promoveva la lettura estetica: anch’essa frammentaria, destinata a concludersi nell’antologismo del padre Cesari, sulle Bellezze della Divina Commedia. Il Settecento fa le sue fiduciose proposte: lascia che altri le compia, nella prospettiva di una cultura nuova.

1 W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, Roma 1950; A. COUNSON, D. en France, ErlangenParigi 1906; A. FARINELLI, D. in Spagna, Francia, Inghilterra, Germania, Torino 1922; D. e la Francia, Milano 1908; E. BOUVY, La critique dantesque au XVIIIe siècle; Voltaire et les polemiques sur D., in “Rev. d. Univ.”, Bordeaux, 1895; Voltaire et l’Italie, Parigi 1898. 2 Le Lettere virgiliane con introd. a cura di P. Tommasini Mattiucci, Città di Castello 1913; F. RAVELLO, Denigratori di D., in “Giornale dantesco”, XXV; A. TORRE, Le Lettere Virgiliane e la Difesa di D., in “Giornale dantesco”, IV (1896); A. ZARDO, La censura e la difesa di D., nel secolo XVIII, in “Giornale dantesco”, XIV (1906). 3 Citando il saggio del Tommasini Mattiucci, il NATALI (Il Settecento, Milano 1929, vol. II, p. 1158) riassume così il problema (e valga la nota per il passo qui riportato): «Non fece altro che dare una forma vivace e scherzosa (rannodandosi del resto alla lunga serie dei Ragguagli

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del Parnaso e alla critica del Tassoni) a idee antidantesche ripetute sino alla sazietà da scrittori precedenti, contro i quali, anticipando il Gozzi, il Bianchini aveva scritto la Difesa di Dante (1718). 4 Le Lettere furono attribuite, come è noto, a una macchinazione tenebrosa ed apocrifa dei Gesuiti; e Gioberti e Settembrini, nell’Ottocento, fecero mitologia di un pretesto tanto destituito di buon senso da dimenticare il fondamentale e conciliativo omaggio del Bettinelli al «buongusto» del secolo. 5 Prolegomeni del Primato, in G. NATALI, Il Settecento, cit., p. 1159. 6 Zatta 1759. 7 M. ZAMBONI, Lo critica dantesca a Verona nella seconda metà del sec. XVIII, Città di Castello 1901; G. GASPERONI, Gli studi danteschi a Verona nella seconda metà del Settecento, in D. e Verona, Verona 1921. 8 A. TORRE, Su le tre prime edizioni del commento alla DC del p. Pompeo Venturi, in “Giornale dantesco”, IX (1901). La polemica intorno al commento del Venturi s’accese fra i contemporanei (FILIPPO ROSA MORANDO, Lettera al P. Giuseppe Bianchini intorno a quanto fu scritto nella storia letteraria d’Italia contro le «Osservazioni sopra il commento del p. Venturi», Verona 1751) e fu sussunta dal Foscolo: «Indi l’Italia, per tutti quei cento e trent’anni fra le eruzioni della Crusca e del Volpi, a pena udiva di Dante più in là del nome. Né la sua fama cominciò a rinnovarsi nel principiare del secolo XVIII, se non per le controversie clamorose incontrate spesso qui addietro. Come che le si affaccendassero presso che tutte intorno a puntigli di dialetti, anticaglie, e piuttosto per le pellegrinazioni dell’Autore che per la illustrazione dell’Opera, parve a’ Gesuiti di non temporeggiare a occuparsela, e farsene critici ed espositori alla gioventù. La dedicarono a Clemente XII; la censurarono e la palliarono come se l’Autore per ostentazione di sapere peccasse balordamente di irreligione. Il padre Venturi gli fa da maestro di teologia e di poesia» (Discorso sul testo del poema di D., cit., III, p. 468).

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Dante nelle letterature d’Occidente

«Discoverta» di Dante nell’Europa romantica Dante si diffonde come nozione unitaria, cioè nella sostanza della sua natura di poeta, quando si fonda una coscienza unitaria della civiltà letteraria d’Occidente, non più solo nei suoi riferimenti canonici e classici, cioè come tutta e solo intesa alla ricerca di una bellezza accademica esistente ab aeterno o anche alla celebrazione dei moduli e degli esempi offerti dalle letterature classiche, ma nella sua originalità e nella sua creatività: dunque, con l’età romantica. Quel che or ora diremo discorrendo varrà a stabilire un contrasto fra il poco di prima e il molto (ambiziosamente, il tutto) di poi: ché per mezzo millennio Dante restò operoso e nascosto, attivo in tutte le forme dell’allegorismo e dell’emblematismo, che pur lo riconducevano al limite di un diffuso linguaggio medievale, attivo nella fondazione della nuova civiltà del visibile, in Italia, e, nella pronta rispondenza delle arti figurative, anche prima che si accettasse la convenzione dell’egemonia italiana nell’arti, attivo anche fuori d’Italia; ma quando il Romanticismo ebbe proposto le nuove forme di convivenza intorno alla parola, e indicato i nuovi testi, allora francamente, per lui come per Shakespeare, la nuova cultura dichiarò di non poter escludere da sé nulla di quanto si scoprisse in lui di vivo. Se giova produrre il parallelo, la fortuna del trageda inglese operò lentamente nella drammaturgia tedesca, e più superficialmente accettata negli altri Paesi, finché il rinnovamento dell’intelligenza letteraria si dichiarò risoluto a infeudarlo tutto quanto; ed è vero che Shakespeare si acquista indirettamente attraverso l’onnipresente esemplarità della lingua inglese, e che qualche effetto della sua forza poteva venire agli Europei anche attraverso quelle forme che più sembravano dimenticarlo: il poema moralistico alla Pope e il romanzo di costume alla Fielding; ma è esperienza scarsa in confronto dell’efficacia di Dante sulle arti figurative, che parlano e sono intese in tutta l’Europa: del resto, l’oblio del nome dei due poeti non ne risultava che più fitto, se la loro sopravvivenza era nascosta per così spessi schermi e lunghi diverticoli. Più significativo resta il fatto che l’accettazione totale è proposta quando si promuove il senso di una vita unitaria della cultura europea (anche questo senso si dà alla riscoperta romantica del Medioevo; e Dante, che si intende anche, vichianamente, come poeta del Medioevo, resta il vate del principio unitario). Dietro la discoverta di Dante, come dietro la discoverta di Shakespeare, si accetta l’altro assioma romantico: l’accordo fra intelligenza unitaria e intelligenza pluralistica, che si rivelano complementari. Dante entra nel ristrettissimo catalogo dei geni: Omero, Dante e Shakespeare, come ripete il giovinetto Ortis; ma la romanticissima pa533

rola «genio» ha altro effetto che di scusare dietro l’enfasi dell’entusiasmo reverente lo scarso approfondimento critico: ben presto l’indagine intorno al genio si risolve in indagine intorno all’uomo, di ogni poeta si può ripetere lo stesso, che è un genio in quanto è se stesso: l’apologia umanistica del Romanticismo già si intravvede come frutto indiretto dello studio intorno all’umanista Dante; ed ogni organizzazione concettuale e storica intorno al poeta si rivela caduca, movendo i critici alla ricerca di un irrepetibile esemplare umano. E il concetto di civiltà d’Occidente si modifica, intanto: diventa il metodo di un’intelligenza che tanto più vale quanto più d’uomini accoglie e comprende. Ecco il giudizio esistenzialistico riallacciarsi a Dante: non solo per i tanti inferni di cui si fa mito, ma proprio perché d’ogni nuovo poeta si cerca in lui il paragone; or ora Berdjaev proponeva altra triade, Dante, Shakespeare e Dostoevskij: quasi una trilogia che passi dall’uno all’altro al terzo intorno a temi proposti dal primo: l’inferno e il mondo e l’uomo. Di fronte a questo programma massimo che qui del Romanticismo anticipiamo, quel che di Dante aveva accolto il patrimonio linguistico italiano sembrava obbediente al comune principio della classicizzazione e in un certo senso trascurabile: era naturale che come esemplare del letterato, per una società letteraria che ambisse, secondo il canone dell’umanesimo filologico, ad essere società chiusa, Petrarca avesse ben altra efficacia.1

Gl’incontri d’Europa e la dantologia italiana Le glosse che or ora annotiamo intorno alla fortuna di Dante nelle nuove letterature risulteranno disperse fra quel punto di partenza, Dante stesso, e quel punto d’arrivo, la conoscenza integrale di Dante proposta all’Europa romantica. Eppure, a confronto di quanto abbiamo rilevato, perseguendo la storia di Dante lungo il Rinascimento e l’età barocca in Italia, sarà facile concludere che l’Europa, nelle stesse epoche, lo accoglie sempre un po’ casualmente e frammentariamente, raccatta alcuni frutti della lettura che se ne faceva in Italia, e nemmeno i più succosi; per contro, paragonando questo stesso excursus, che vien disteso fino ai moderni, con i capitoli che seguiranno sulla conoscenza di Dante in Italia lungo l’Ottocento, risulterà altrettanto facile concludere ch’essa si avvantaggia via via delle proposte e delle prospettive così della letteratura poetica come della letteratura critica di tutta Europa, ivi compresa l’Italia. Diremo che nell’ideal progresso del tempo i dantologi italiani si trovano all’avanguardia sino al declinar del Settecento, e che più tardi ricevono almeno quanto ridanno? Il vero si trova cercando più in là, verso l’idea pur ora toccata, di una cultura romantica unitaria, dove le suggestioni della poesia, raccolte, non si disperdono in un catalogo intellettuale, fatto di poche formule, né si cristallizzano in forme pertinenti ad un popolo, rivolte a lui, custodite da lui; dove la mediocrità dell’intelligenza riflessiva contrasta, in letteratura, con la genialità dell’ispirazione creativa, e non s’è ancora appreso a riconoscere la vita unitaria del molteplice; ma il dono della poesia, questa natural grazia dell’arte, in qualunque individuazione espressa di persona o di lingua, di spirito e di storia, riecheggia in un più vasto cerchio di 534

attenzioni concordi. E ci serviremo, trascorrendo di nome in nome, proprio della nozione storica della cultura europea, per illuminare poi le vicende più circoscritte di quella cultura italiana che ormai appartiene più a lei che all’idea di una classicità celebrata al di là della storia, nella pura forma. Ancora è da osservare che fin dai primi incontri fra il Nostro e gente d’oltralpe e d’oltremare si ripetono modi osservabili fra noi: una lettura poetica, più intesa alla concretezza dell’immaginare che all’astrazione della dottrina, una lettura gnomica che pur rimanendo nel cerchio della letteratura allegorica opta piuttosto per il moralismo dantesco che per il concettismo galante e mondano, una lettura umanistica attenta a ripercorrere la strada continua dalla letteratura medievale latina alle nuove letterature volgari. E tali modi di lettura distribuiremo intorno ai nomi di Goffredo Chaucer, di Cristina de Pizan e del marchese di Santillana.

Chaucer La lettura poetica di Chaucer2 è naturalmente la più attiva; ma, come tutto ciò che s’affida alla pura invenzione, facile ad essere interrotta e dimenticata, se l’organizzazione culturale non la soccorre, salvo poi ritrovarla, quando la politica letteraria ridà la dovuta importanza ai valori autenticamente poetici e li dispone in grado preminente a paragone dei valori gnomici e storici. A suo confronto e in attesa che rinasca, è più fortunata l’attenzione dei commentatori e dei lettori addottrinati; ma non si saprebbe dimenticare che cotal modo di lettura inglese è fondamentalmente quello stesso che sollecitava l’attenzione documentata dalle prime citazioni della Commedia, la memoria vulgata dei notai e dei calzolai: con la differenza che il nuovo poeta vi si accosta adagio, tentando, prima di cogliere il modello nella sua immediata ricchezza di seduzione esercitata sulla fantasia, le regioni periferiche dell’allegoria e della riflessione morale. Il Parlement of Foules si attiene ancora a un certo parallelismo: può ricorrere, pur pensando a Dante, alle fonti comuni, così antiche (Cicerone e il Somnium Scipionis) come medievali (Alano di Lilla e il De planctu Naturae); ma la libertà dell’invenzione e quel gioco della fantasia che accorre dove più ama, e istituisce la commedia degli uccelli il dì della festa di San Valentino, si rifanno pure al canone fondamentale di Dante, che delle circostanze strutturali si vale per un acquisto di forza individuante, per un più baldanzoso esercizio della poesia sopra la materia preziosa: aggiuntivi, ben inteso, i passi dove l’imitazione è diretta, come il parallelismo fra Virgilio e Scipione eletti a guida del viaggio, o l’iscrizione sulla porta del giardino, parallela a quella sulla porta d’Inferno. Ma già il House of Fame, col viaggio del Poeta rapito dall’Aquila alla Casa sita fra la terra ed il mare ed il cielo, rivela quanto curiosamente Chaucer si metta in cammino, attraverso Petrarca e Dante, a ritrovare se stesso. E si comprende, al di là del sospetto di una parodia che sorprende chi non sa vedere il poeta nuovo attento a ritrovare la norma di una distanza, che il punto d’arrivo per questo viaggio d’incontro siano proprio quei Canterbury Tales dove la nuova poesia è così lietamente inventiva, così libera e allegra, di una gioia che comprende gl’innumerevoli aspetti dell’umana com535

media, affrettandosi a guadagnare il senso senza ormai troppo indugiare nelle antitesi, come pur faceva il Boccaccio; ma è vero che Chaucer è terzo, dopo il Petrarca e dopo il Boccaccio, nel riacquisto dantesco; e giunge dove i primi non eran giunti, forse più trattenuti che stimolati dall’eredità dell’allegorismo stilnovista, dall’Amorosa Visione ai Trionfi, alla libertà, appunto, della Commedia. Né è da lettor sprovveduto fare che le reminiscenze più vive oscillino fra la «Nachdichtung» del Conte Ugolino, che esplicitamente si richiama al primo autore, nel Monk’s Tale, rhedeth the grete poete of Ytaille, that highte Dant, for he kan all devyse fro point to point, nat o word wol he faille,

e la parafrasi della preghiera alla Vergine, nel Second Nun’s Prologue, Thow Mayde and Mooder, doghter of thy Sone…

In tale amplissimo cerchio la reminiscenza può ad ogni occasione rampollare, e dall’incontro, in quella libertà della fantasia palesarsi la novità della nuova poesia. E che raccolga dalla Commedia quel che davvero consuona in lui, è altro segno che la sua lettura è stata occasione di libertà; solo i mediocri si chiudono nel giro dell’imitazione. Egli non è mai imitator frettoloso e sprovvisto; e mentre tenta ad una a una le novelle, individuandone isolatamente la ragion poetica, quando è giunto a riosservarle in un ordine unitario obbedisce a Dante più che a Boccaccio: accetta l’idea di un giudizio, infatti, e di un pellegrinaggio; e riporta al primo anche quanto ha direttamente ricevuto dal secondo.

Cristina de Pizan Chaucer, che legge Dante negli anni settanta del suo Trecento, è contemporaneo alla «fortuna» che va da Giovanni Boccaccio a Benvenuto da Imola; e ne rivela la prosecuzione novellistica e internazionale, forse contraddetta più che non sembri dalla interpretazione dottrinale e culturalistica che va dal Buti al Landino; il qual secondo, fra le altre sue intenzioni annoverate, accettava probabilmente di riporre sul piano di un eclettismo fiorentino e umanistico la divulgazione proposta dagli stampatori tedeschi del poema:3 Neumeister a Foligno, nel 1472, «Georgius et Paulus teutonici» a Mantova nello stesso anno, Vendelin de Spira a Venezia nel 1477; e l’accordo par segnato quando tocca a Niccolò da Breslavia la stampa della famosa edizione del codice presentato alla signoria con il commento appunto del Landino e le illustrazioni del Botticelli (1481). Ma la cultura “internazionale”, così fervida ancora nei suoi anni e così frequentemente riecheggiata in Italia dai pittori senesi e dagli architetti veneziani e lombardi, presto declina, o per le condizioni politiche del Quattrocento europeo, fra tante guerre e scismi, o perché la decisione della cultura d’Occidente non toccava più 536

alle invenzioni avventurose della fantasia, ma ad una speculazione umanistica. Dante risponde all’una e all’altra; e Cristina de Pizan,4 anche quando imitava Dante nello Chemin de long estude (1402), si ritraeva indietro ad una giustificazione dottrinale che nel «livre que on appelle le Dant» era piuttosto una premessa che una conseguenza. Contrapponeva la vittima della lotta fra i Guelfi e Ghibellini, le vaillant pouete qui tout son vaillant perdy pour cel estrif gravable (Livre de Mutacion de Fortune)

all’allegorista Jean de Meun, e raccomandava la Commedia, a chi volesse meglio udir descrivere Paradiso ed Inferno, e più altamente parlare di teologia, più profittevolmente, più poeticamente, e con più grande efficacia, a paragone di «ton romant de la rose». Il buon gusto certo è presente in questo giudizio; ma che Cristina, letterata mediocre, ma pronta, fors’anche per la sua origine bolognese e per il padre professore, a raccogliere suggestioni culturali, e a chiarire situazioni letterarie, sappia far proprie, dalla Commedia, altro che indicazioni esterne, non diremmo: nasce in Italia, s’adatta alla letteratura per guadagnare il pane dei suoi tre orfanelli, evita quanto meglio può la pedanteria; ma la sua raccomandazione non ha rilievo, benché tanto opportuna e fortunata.

Il marchese di Santillana Ben altro è l’acquisto del Marchese di Santillana,5 che introduce fra i suoi la nuova cultura che dal Trecento italiano promana (la cultura attiva, già s’è detto, non solo la formula deduttiva dell’umanesimo filologico, che gl’italiani del Quattrocento imponevano con la superiore erudizione). L’allegorismo dantesco, astrattamente inteso, non gli riuscirebbe troppo diverso da quello tradizionale; ma la suggestione della poesia, dico l’immagine e il suo riassunto sentimentale, quasi il tono e la musica di un linguaggio, gli rivelano quello che nessuna ambizione culturale soddisfatta poteva fargli conoscere; e le sue opere di evidente reminiscenza dantesca, intorno alla Comedieta de Ponza (1435), mantengono di fronte al testo una singolarissima apertura: accorre al moralismo, che è la giustificazione generica del suo accostarsi alle opere letterarie; ma la curiosità dell’artista è troppo più grande di quanto l’uomo di dottrina non indichi, e la parola s’incanta all’incanto della parola: La mayor cuyta que aver puede ningun amador es membrarse del placer en el tiempo del dolor… (El Infierno de los Enamorados)

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e l’artista cede a un magistero d’arte che il mecenate di buon gusto raccomandava a sé e agli altri. Non occorre spuntare, nel catalogo della libreria del marchese, i volumi danteschi: c’è tutta l’opera, eccetto il trattato retorico e il trattato politico: in latino, appunto; ma che afferri anche in questo minor capitolo il significato del volgare, lo dimostra il far tradurre i commenti di Pietro Alighieri e di Benvenuto da Imola dal latino in castigliano. Sinora, la Commedia si prolungava nelle traduzioni latine; e Giovanni da Serravalle, vescovo di Fermo, l’aveva confermata fra le dignità dell’alta cultura, al concilio di Costanza: la traduzione castigliana d’uno della cerchia del marchese, lo sventurato cavaliere di stirpe regale, Enrico di Villena, letterato e mago, la riproponeva con una concretezza nuova6 (e l’anno dopo, in un ambiente parallelo, ma anche più attento al processo della individuazione formale, Andreu Febrer la traduceva in catalano: la più bella delle antiche traduzioni della Commedia). La cultura iberica, che con la cultura italiana, anzi ignorando la codificazione italiana della filologia umanistica e il culto della forma astratta, si sviluppò in linea continua dalla cultura medievale latina,7 faceva proprio il poema, evitando la lunga incomprensione appostagli dal sospetto classicistico. In ogni momento di fervido acquisto d’arte e di linguaggio proposte e risposte s’avvicendano fitte: così, se allarghi la visuale intorno al Santillana, anche il suo lungo studio, che lo conduce a postillare la traduzione del Villena, sembra più suggerito da un ambiente che proposto; ma se appena ridiscendi ai testi, t’avvedi della parte singolarissima che ha in quell’orientamento generale, e quanto saggiamente accolga i fiori nuovi che sbocciano sul vecchio tronco. Il compianto rivolto alle regine nella Comedieta de Ponza obbedisce a schemi ben noti di composizioni consolatorie; e la parola stessa, “comedia”, ha il senso che le attribuisce l’Epistola, «inchoat asperitatem alicuius rei, sed eius materia prospere terminatur».8 Ma Boccaccio, introdotto a parlare in italiano, è il Boccaccio storico e moralista delle opere latine: tanto acutamente coglie il Santillana il convergere di volgare e di latino nella nuova cultura italiana, e, implicitamente, come l’artefice della convergenza e della novità sia Dante, avvertito e inteso nel profondo, così come riecheggiato nell’animazione della poesia: che degli altri dantisti del Quattrocento d’Europa non accade. Così si smarrisce in una selva del Sueño e vede, nella Visión, il pianto delle tre Donne alla chiara fontana. Dirai, ripensandolo, che fu raro l’acquisto di Dante fatto obbedendo alla sua virtù d’arte, e che nessun popolo d’Europa accettò prontamente il messaggio dantesco come il popolo di Spagna, che lo antepose al messaggio petrarchesco sino a Garcilaso de la Vega.

Il disporsi della prima fortuna intorno ai tre modi La fortuna europea di Dante si dispone in fretta intorno a questi modi di intelligenza e d’imitazione, trascurando tuttavia il modo più vivo, quello di Chaucer (il più attivo resta quello del Santillana). Margherita di Navarra9 si ricollega ancora, dopo un secolo e mezzo, alla lettura di Cristina de Pizan: tanto è vero che, cominciando, prende Dante e il suo Inferno come antonomasia d’ogni melanconica penitenza; ed 538

ancora attraverso un processo culturale, sia pure sostituendo il moralismo allegorico dei vecchi tempi con il neoplatonismo della cultura fiorentina, si riaccosta a Dante: finché s’apre ad una intelligenza mistica della vita, e nelle Prisons, capovolgendo i Trionfi, riecheggia e respinge un vecchio pessimismo manicheo. Ogni incontro, in ognuna delle nazioni che hanno una parte più attenta nella comune cultura, andrebbe osservato: perché non c’è esito che sia in tutto identico ad un altro; così ha un senso suo proprio la traduzione francese dell’Inferno, anonima, del manoscritto torinese, né si esaurisce certo in un appello eloquente a un’intesa politica la Concorde des deux Langages di Jean Lemaire; ma noi dobbiamo offrire prospettive storiche, non precisazioni cronistiche, e neppure, purtroppo, puntualizzazioni testuali. Più circostanziato e maturo il ripensamento spagnuolo, dal Santillana procedendo a Juan de Mena,10 che nel Labyrintho sembra circoscrivere l’eredità dantesca e che l’accompagna con soverchia freddezza nella Coronación: e che tuttavia resta testimonianza di quell’agevole e libero ripensamento che si prolunga anche nella tradizione della poesia lirica iberica, dove molto si orienta nella direzione della Comedia de Gloria de Amor del catalano Fra Rocaberti.11 Ma il quadro non sarebbe completo senza osservare come ai suoi margini si mantenga la cultura settentrionale, che da Chaucer arretra sul didascalismo del Piers the Plowman e dell’Ackermann aus Böhmen, in una zona facilmente ricollegabile alla Commedia, e facilissimamente ai luoghi comuni del Medioevo latino, benché trasfigurata, nei confronti dell’antica poetica dell’allegorismo, dalla nuova poetica dell’emblematismo, e dimentica dell’autore, ma pronta ad assimilare direttamente, nella sua trasformazione complessa di costume e di linguaggio, la civiltà che da lui ha preso inizio.12 Anche nel poema del contadino di Boemia la cultura è chiamata al soccorso di un moralismo che mira alla concretezza della vita; e le citazioni filosofiche, a chiunque siano messe in bocca, e i detti di Aristotile e di Platone, istituiscono un grande e prezioso dibattito teologico, dove la sapienza scende al soccorso degli uomini: come se ciascun uomo, a qualunque condizione appartenga, abbia il diritto di essere assistito, nel suo cammino di vita, dalle più solenni costruzioni della dottrina, dalle più accorte compensazioni della politica; e il canto che il contadino innalza, la preghiera di ringraziamento e di fede, è anche l’inno dell’anima liberata. Nel poema inglese, più attento a definire i personaggi che alla loro collocazione astratta, ancora una volta una speculazione amplissima è condotta a giustificare l’umile vita d’uno che vive all’infuori delle gerarchie solenni della società organizzata, dove l’aratore Pietro diventa Amore, e figura di Cristo. La cultura celebrata e osservata si trattiene in temi assai meno attivi: insiste, per esempio, nell’aneddotica, dove Dante è semplice nome di un «hoch Poet Laureatus», come dice Hans Sachs,13 e il dantismo di Niccolò da Cusa pare piuttosto riferibile a una generale situazione filosofica che ad una familiarità qualsiasi con la forma poetica.

La lettura politica L’imitazione di Margherita di Navarra resta un’eccezione splendida, e il gesto di una cultura elegante che si compiace di un incontro insieme raro e prezioso: solo il Rinascimento francese poteva esserne capace, che s’avventura per 539

un gran tratto verso la fiorentinità, poi sosta se non arretra, e attende la sintesi superba del gran secolo: il quale ignora Dante. Un periodizzamento più felice di questo termine, “Rinascimento”, potrebbe meglio aiutare ad intendere quel che accadde anche intorno alla Commedia in Europa, e come fossero evitate le difficoltà che presto frappose la cultura organizzata alla cultura creativa; è facile che gli uomini del tardo Cinquecento e poi di tutto il Seicento vivano di una eredità dantesca indirettamente trasmessa, difficile che ricordino quel nome. Troppo frequente, ad esempio, che rammentino il trattatista politico e il polemista. Aveva incominciato Enea Silvio Piccolomini a bandire in questo senso un aspetto del suo pensiero, con quel suo tentare anche così di gettare un ponte fra il germanesimo e la rinnovellata romanità italiana, nel De ortu et auctoritate imperii Romani. Il nome o non ritorna, o serve per sottolineare una menzione politica: la stessa menzione che di lui fa Hartmann Schedel nella sua Weltchronik rincalza la menzione di Firenze o indugia nella leggenda polemica di Ugo Capeto figliuolo di un beccaio di Parigi. Quando un italianizzante più provveduto, come Jakob Locher, ha letto Dante, lo accoglie in una amplificazione di latino umanistico non troppo disforme dall’esultanza, mostrata a suo tempo, da Giovanni del Virgilio: Cum fingit manes Tartareosque deos, cum causas rerum coeli scrutatur et arces…14

Siamo ancora intorno alla svolta del secolo, fra quel Quattrocento che seguita a illudersi di poter mantenere l’unità della politica culturale d’Europa e quel Cinquecento che provvede allo scisma. E si prepara la citazione polemica, si accoglie Dante fra gli scrittori antipapali, ci si affretta, dietro l’Indice tridentino, a leggere la Monarchia: così da Pier Paolo Vergerio a Giovanni Herold; e presto l’interpretazione del trattato politico oltrepassa il parallelismo dantesco e muove verso l’apologia del nazionalismo.15 Sono tutti indici di una lettura parziale, questi: solo dall’esterno, ed in una valutazione politica, non poetica, diversi da quella curiosa preoccupazione che prese gli italianizzanti francesi quando dovevano difendere il buon nome della dinastia nazionale dall’accusa infamante delle origini plebee, che già indignava Francesco I; Pasquier poteva sostenere di buon grado che si trattava «d’un façon de parler commune et poétique, pour dir que le père de Capet étoit cruel et felon et qu’il se bandoit contre son Roy naturel pour en happer la couronne»:16 si poteva tollerare, insomma, piuttosto la fellonia che una discendenza plebea. La Francia, come culturalmente più attiva, si dimostra più attenta; e Montaigne non rinuncia a un paio di citazioni significative, «che non men che saper dubbiar m’aggrada», per esempio, e l’idillio delle formiche «forse a spiar lor via e lor fortuna»: prodigio d’ingegno e d’acume nel cercare quanto gli s’attaglia in una ispirazione così disforme dalla sua; ma pur sempre frammentismo. Mentre prosegue l’atteggiamento costante della cultura barocca, di accettare la Divina Commedia come un testo venerando da tener lontano, certo non da accogliere come una presenza essenziale del canone delle letture, si ripete continuamente l’incontro politico e polemico; e il Bellarmino, nel De controversiis 540

christianae fidei, entra francamente nella polemica che tentava di avvantaggiarsi dell’atteggiamento dantesco, ristabilendo la verità esegetica di più d’un punto controverso (il «la vendetta di Dio non teme suppe» era da taluni inteso come un’allusione alla santa messa) e limitando molto accuratamente l’estensione della satira ai sei papi fatti segno delle sue collere. Non è a dir dunque che la cultura cattolica dell’età barocca sia disposta ad accettare la Commedia come uno dei suoi testi fondamentali. Dante, cattolicissimo, è al di qua e al di là dei suoi termini; e se la cultura, senz’altro attributo, era indifferente di fronte al testo di Dante, la cultura dei cattolici non provvede almeno fino a Vico a promuovere un ripensamento. Le Controversie del Bellarmino, pubblicate nel 1623, accettano solo quel tanto di storicismo che il classicismo comporta, e la soluzione vichiana è ancor remota. Dante è letto frammentariamente e frammentariamente discusso, ed è tutto: con notizia più nutrita in Italia, come s’è visto, e meno altrove.

Milton Ma proprio il carattere frammentario di tale lettura contravviene all’intenzione profonda della sua poetica, che aveva inteso contrassegnare l’universo del sigillo della sua persona. Quando il Romanticismo, che né di Dante né di Shakespeare può fare a meno, allo stesso titolo che la cultura classicistica dell’età barocca non può fare a meno del latino e del greco, tenta ansiosamente un parallelo fra i due, vorrebbe risolverlo storicamente e comprovare che Shakespeare aveva letto Dante: non ci riesce, ben inteso, a meno di accomunarli nel possesso trascendentale della perenne poesia o di forzare immaginosamente le analogie. E soltanto le analogie permettono di stabilire un più ricco parallelismo fra Milton e Dante: attentissimo alla cultura italiana, ed in Italia accolto, a Firenze e a Roma, con ogni onore, quasi a testimoniare che si poteva sperare in una riconciliazione più attraverso un integrale umanesimo protestante che nei margini agnostici della cultura europea, dal Comus al Samson Agonistes e dal Lycidas al Paradise Lost, gl’incontri sono bene evidenti, consapevoli o no che fossero; la sua fisionomia di poeta resta lontana da Dante, se pur lo accomuna al poeta della Commedia la profonda serietà morale con cui entrambi riecheggiano le occasioni offerte dalla storia del loro tempo: diversissime occasioni per altro; né l’esperienza della storia attraverso la letteratura si è già di tanto distesa da consentire gl’incontri fuori del tempo, come ancora insegneranno i Romantici.17 Si può prolungare il parallelo solo a patto di disconoscerne le diversità: in tal caso si relegano entrambi nella indifferenza di una lettura catalogica e contenutistica, abbassandoli a uno stesso infimo livello. Non poteva esser diverso: la storia letteraria dell’età barocca conosce numerosi incontri fra uomini di diversa origine e culture di diversa storia; ma non si confessa né forse si accetta il loro valore intrinseco: Corneille, altra anima naturaliter dantesca, certo non gli muove incontro; e del resto, anche quando s’imbatte nell’arcaismo iberico, a cui tanto deve, si giustifica con gli esemplari della grandezza, della nobiltà, della magnanimità dei classici. 541

Voltaire Ancora con un episodio politico si chiude la parentesi dantesca dell’età barocca fuor d’Italia; e diciamo pure di politica letteraria: tanto bene il signor di Voltaire18 conosce l’arte d’introdurre i suoi campioni nel campo chiuso della letteratura, anche quando si propongono altro che di sudare dietro il piccioletto verso. Legislatore e dittatore della cultura settecentesca (se c’è uno che non ama distinguere fra i poteri costituzionali è lui: fa le leggi, le esegue ed esercita anche il potere giudiziario), intuisce troppo bene quanta vita di parola, di scienza, di costume ci sia dietro l’irrazionalismo di Shakespeare e il trascendentalismo di Dante: le sue bestie nere, e gl’idoli delle nuove età romantiche. Pensa che sia venuto il tempo di raccogliere i frutti di una organizzazione che riducendo l’umanesimo al razionalismo e al classicismo, convogliando l’illuminismo verso l’enciclopedismo, e chiamando il laicismo monarchico ad avallare politicamente il tutto, toglie forse il meglio della vita dell’età barocca, l’espansione europea nel mondo come i prodigi della fantasia creatrice, ma consente a lui la dittatura intellettuale. Autentico autor comico, difende il buono stato dell’intellettualismo europeo, quello che accetta la sua immagine e somiglianza, con una vena inesausta di invenzioni comiche e satiriche; ed eccolo il più distante possibile dalla Commedia di quel fiorentino esule terribilmente serio. Quando incomincia la sua prodigiosa carriera sulle orme di Bayle, può pensare che di certi argomenti basta tacere, e si sbriga di Dante come di un autore che parla di un cumulo di fatti e di persone che non interessano nessuno. Non può far torto al suo buon gusto fino al punto di non accorgersi che ci sono in Dante dei versi degni del Petrarca e dell’Ariosto: ebbene, perché non si contentano i lettori di questa ammissione? Poco s’ingrandisce l’orizzonte del suo giudizio, passando dalle Lettres philosophiques all’Essai sur les moeurs: non gli si può chiedere di fare più ampia concessione al buon gusto letterario che di riconoscere che qualche passo dantesco s’innalza «au-dessus du mauvais goùt de son sujet»; ma eccolo proprio a questo punto inciampare in un giudizio contenutistico: menar per buona simile scelta, avrebbe significato ammettere una qualsiasi serietà in una meditazione trascendentale cui poteva toccare, da parte d’un critico che si piccasse di moderazione, almeno l’accusa d’essere «bizzarra». Quello strano poema che non era né epico né drammatico, che non obbediva a nessuna regola né di retorica né di buon gusto, e che tuttavia trovava sempre lettori… Se la discussione non può concludersi ragionevolmente discorrendo (e per conto suo ha dimostrato di potergli anche fare onore, parafrasando il passo del Purgatorio sui Due Soli), non si rifiuta certo di correre alle armi della parodia e della satira. Qui ha buon gioco: Virgilio ha detto che i suoi parenti furon lombardi? Ma sarebbe come se Omero dicesse d’esser nato turco! E Guido da Montefeltro, «je fus sur terre soldat et poltron», s’arruola sotto san Francesco d’Assisi! Prima e dopo il Bettinelli, il suo giudizio non muta; tanto è radicato in lui, fondato, diciamo pur ragionevole, nei suoi limiti; e non ha torto d’inalberarsi se per comprenderlo gli tocca d’uscire da quei limiti. Eppure anche avverte che la sua è una battaglia perduta: più procede, più la gente si dichiara per Dante e per l’età «oscure». 542

La nuova cultura: Bodmer Il preromanticismo gli si agita intorno; e, benché a stento, dalle letture isolate ci si rivolge ad una intelligenza organizzata, si colloca la Commedia sullo sfondo di una nozione storica, se ne accetta confusamente il messaggio poetico. Tutto è deciso quando, al di qua e al di là della cultura intellettualistica fatta propria dalla Francia nel corpo dell’eredità rinascimentale, si accetta di cercare, attraverso un incontro della cultura italiana con la cultura tedesca, quanto viveva prima di quell’intellettualismo, quanto è destinato a vivere poi. Il protagonista di questo episodio è Bodmer, l’italianizzante e anglicizzante Bodmer;19 e il conte Calepio, che assiduamente corrisponde con lui, non solo l’informa di quanto accade in Italia, anche per gli studi danteschi, ma l’aiuta a muoversi dalla generica opposizione al Gottsched, verso una intelligenza graviniana della poesia e, proseguendo, vichiana. L’episodio è importantissimo, e Bodmer è una grande figura, seppure il suo ansioso amor di poesia, composto nel rigore della sua moralità di mente e di costume, era destinato a scomparire sotto la prodigiosa fioritura della nuova poesia tedesca: i giovani divorarono il gran vecchio e lo dimenticarono. Ma non si tratta soltanto, con lui, di introdurre nella cultura europea nuovi argomenti di lettura, nuovi nomi e nuovi modi di riflessione critica: egli si dimostra pronto ad allargare la cerchia delle sue riflessioni e a procedere a sistemazioni nuove, quando la poesia chiede d’essere compresa; e gl’importa meno di fondare un nuovo metodo critico, che di disporre un’adeguata accoglienza all’antico che si presentava novissimo: umanesimo patrizio, quello dello zurighese e del suo amico bergamasco. Ne è la riprova il fatto che egli arriva a Dante attraverso Milton, che si serve del parallelismo per individuare meglio i singoli, e che sino dal Character der Teutschen Gedichte (1734) accetta l’idea dei poeti protagonisti della civiltà: dopo la morte di Corradino, la Germania cade di nuovo nella notte della barbarie e nessun Dante vi appare, come nella terra d’Ausonia, a compiere il viaggio dal Caos alle stelle. Così nelle Critische Betrachtungen über die Poetischen Gemählde der Dichter (1741) ancora i miti di Francesca e di Ugolino gli occupano la mente, ed è per poterli accettare che sostituisce all’intelligenza formalistica delle poetiche correnti l’intelligenza storica; è per acquistare, come si disse, a Dante diritto di cittadinanza in Germania che dalle Neue critische Briefe (1749) ad un saggio anonimo delle Freymüthige Nachrichten di Zurigo (1763), riferibile a lui e al suo circolo, egli batte e ribatte sulla estensione del mondo poetico dantesco e sulla eroicità della sua persona morale: affascinato dalla sua poesia anche nel compor la tragedia del Conte Ugolino, quel tema che alla poesia del Settecento imponeva a contraggenio, incantandola, il tema dell’orrore e dell’angoscia e della vita distrutta.

Acquisizioni indirette attraverso le arti dell’età barocca Ancora attraverso Bodmer è dato osservare una suggestione indirettamente dantesca che la cultura europea raccoglieva più volentieri delle arti figurative che dal testo poetico: pittura, scultura e architettura parlavano un linguaggio ar543

dito, artigianamente sottratto alle circospezioni dell’intellettualismo, e la critica, quando sulle tracce del detto oraziano «ut pictura poesis» precorreva Lessing, volentieri era indotta ad aprirsi a una sensibilità più avventurosa; e allo svizzero Bodmer, in una cultura aperta al molteplice delle forme nonché delle nazioni, si presentava, non nuovo, il paragone con Michelangelo: un sentiero aperto verso il preromanticismo barocco. Storicamente, così doveva accadere; se la cultura europea non aveva ancora accolto Dante, aveva accolto la cultura italiana nel suo complesso: in quella si trattava di ritrovare Dante. L’eredità sua vive immersa nelle forme rinascimentali d’Italia: vive nelle sprezzature della prosa del Castiglione come in quelle rudezze che Galileo voleva correggere nella versificazione di Ludovico Ariosto; vive nel naturalismo del Cinquecento, plebeo e fecondo, nelle trasfigurazioni liturgiche del melodramma e della musica dell’oratorio, e persino nel sogno edenico dell’Arcadia; ma non c’è bisogno che a nessuno di questi luoghi, e di questi tipi di rappresentazione o di stile, sia affisso il cartellino con il nome di Dante; e quando gli stranieri imitano l’una e l’altra di tante esperienze italiane, ne ritrovano l’opera solo in quanto è calata e fusa nella espressione universale del linguaggio. Il linguaggio del resto conserva l’individuazione originale, se pur sommersa; e la cultura dell’età barocca ha anche questo valore, di aprire la strada alla conoscenza riflessiva del Romanticismo, conservando intanto, l’una accanto all’altra, in una sperimentazione molteplice che a nulla rinunzia, tutte le forme possibili della fantasia. Se vede bene il Wölfflin, quando tipicizza gli esiti stilistici nella storia delle forme espressive del Rinascimento e dell’età barocca, l’autore della Commedia pare nascosto sotto e dietro molte di quelle forme: ché, se il modulo della sua intelligenza è intellettualistico, il fermento della fantasia è barocco (ma dirai che il comune denominatore per ritrovarlo dietro l’età barocca è la conciliazione scolastica di aristotelismo e di platonismo). Dante può essere dietro Rembrandt; certo è dietro il Greco; la cultura fiorentina ama ritrovarlo dietro il segno allucinato dei grandi manieristi e nella raggelata violenza del Pontormo; ma quella cultura europea che poteva leggerli indirettamente nelle sopravvivenze gotiche del barocco, lo guardava nell’impeto del suo afflato, nel dinamismo della sua avventura, nella drammaticità della sua narrazione. Solo che il Barocco è pochissimo consapevole: schiude le porte della conoscenza al moto affettivo e irriflessivo che è la poesia; e solo il Romanticismo riuscirà a quel nuovo dualismo umanistico che accompagna fantasia e storiografia e che rende consapevoli alla riflessione i fantasmi dell’arte ed i moti liminari e segreti della coscienza incosciente, la subcoscienza, che si apre una via crepuscolare alla compiuta nozione di sé. Un Dante osservato al di qua, nella regola accademica, genialissima del resto, di Firenze, poteva riscoprirsi nel Bronzino; Dante osservato di là, nell’avventura al limite di una prodigiosa fantasia poetica, poteva scoprirsi nella forza luministica di un Rembrandt. Allusioni di un enciclopedismo estetizzante? Ma quando gli illustratori romantici della Divina Commedia si troveranno alle prese con una poetica tutta quanta o quasi ormai rivelata, lo tenteranno attraverso forme più spesso barocche che gotiche, o almeno cercheranno un punto di incontro in una stessa poetica flamboyante sia del gotico che del barocco: Flaxman, Blake, Doré sono le tappe di questa espe544

rienza. Il caposaldo esterno di questa storia di un poeta, e quale! che traversa una fiumana di secoli segretamente inondandola, è Klopstock: per lui il pietismo ci si rivela in un accento dantesco; per lui la poesia religiosa di Germania viene a ricollegarsi a quel messianismo gioachimita e apocalittico che era una delle condizioni della poesia dantesca; per lui, che aveva ritrovato l’eredità medievale attraverso il classicismo del Vida, il fermento religioso della poetica dell’età barocca, come si ricollega a Dante, così accompagna Dante al Romanticismo tedesco. Vico è l’introduttore di una coscienza storica e mitografica di Dante in Italia; ma Klopstock, nell’introdurlo in Germania, gli lascia il suo accento.20

La “discoverta” di Dante in Inghilterra Con la traduzione francese del Rivarol (1783), che quasi a contraddire le parodie rese l’Inferno in stilemi novellistici, per sé delusivi, ma importantissimi a introdurre Dante in una nozione vulgata, e con la traduzione inglese del Boyd dell’intera Commedia (dal 1785 in avanti: anch’essa volentieri parafrastica, e del resto, nell’autore irlandese, sostenuta da un gusto congeniale e da una sicura precisazione critica), Dante è riaperto a tutti in Europa. Ma prima di riprendere a svolgere intorno a Dante il tema dell’unitaria cultura d’Occidente, vediamo la “discoverta” inglese e tedesca separatamente: l’Italia riman la patria d’origine, e la Francia si assume un compito di divulgazione.

Coleridge Occorse, come per tutta Europa, anche per la cultura inglese, liberarsi dalla condanna di Voltaire; e fu impresa che si protrasse per alcuni decenni. Finché l’intellettualismo francese prevalse nella buona società inglese, che restituiva al continente, così, l’anglomania che nel Settecento invase Francia e Italia e Spagna, Dante continuò ad essere ignorato: anche se il Pecchio, nella sua Storia critica della poesia inglese, sostiene che Dante era costantemente ammirato in Inghilterra, da Chaucer in poi (dice di più: «Non è meraviglia se la poesia di Dante s’immedesimasse colla poesia inglese. L’animo serio di questo poeta, le sue immagini tetre, forti e sempre nuove ed anche strane, più consuonano colla natura inglese d’ogni altro scrittore […]. Ei solo tocca le fibre del loro cuore, ei solo colpisce la loro fantasia, gli scuote e gl’infiamma col suo pittoresco stile, e co’ suoi smisurati disegni»: qui «pittoresco» vale romantico), mentre era deriso in Francia con Voltaire ed ignorato nel resto d’Europa. Pecchio non riesce a gran cosa: in questa Storia critica, rivolta ad una ideale mediazione fra Italia ed Inghilterra, l’impegno apologetico lo impaccia, e visita generici mondi in generici modi. Si trattava di esaltare Dante e di esaltare nel contempo l’Inghilterra, soprattutto nella sua serietà morale: l’era vittoriana si annuncia. Ma chi s’attiene a documenti più concreti, cioè di poesia, trova ai primordi della letteratura romantica inglese il Coleridge.21 Si può discutere se il suo itinerario verso lo 545

spiritualismo trascendentale sia necessità della sua natura di poeta o programma dovuto all’influenza dell’idealismo germanico; e probabilmente la questione si può risolvere con una soluzione complementare: la sua fantasia poetica trova, nelle occasioni che la nuova cultura gli apprestava, un ausilio per determinarsi secondo una linea conseguente, per rendere esplicite le allusioni contenute nelle prime opere, anteriori ai vari manifesti del Romanticismo, di cui fu gran parte: senza il Romanticismo (se una ipotesi siffatta possa apparire altro che assurda) anche la Ballata del Vecchio Marinaro, nonché rivelare un’eco del folle volo di Ulisse, come pare al Farinelli, si schiererebbe con le altre fantasie “gotiche” dell’Inghilterra settecentesca, e rimarrebbe isolata in una cultura razionalistica: “capriccio” che non abbia efficacia a creare il nuovo tempo, e non fantasia, ma bizzarria. Ma nell’inno Before Sunrise, che è del 1796, anteriore dunque di due anni alla rivista “Athenaeum” degli Schlegel, e di due anni alle Lyrical Ballads (altri due anni, e della seconda edizione, 1800, Wordsworth riassume nella prefazione i principi della nuova poetica), non ci accontenteremo di leggere un ricordo di Dante nella esaltazione della natura intesa come riflesso o emanazione di Dio, ma propriamente il ripetersi di un’esperienza stilistica di Dante nell’accento di una poesia intesa alla rappresentazione sensibile del trascendente. Dice dell’impero della Ragione: Whene’r the mist that stands ’twin God and thee deferates to a pure transparency, that intercepts no light and adds no stain there Reason is, and then begins her reign!

Wordsworth Come è noto Wordsworth22 e Coleridge s’incontrano e si dividono il campo della nuova poetica: l’uno proponendo una levitazione sentimentale e fantastica delle cose quotidiane, una officiatura che tracci intorno alle certezze consuete un alone di luce trasfigurante; l’altro di discendere per il cammino contrario a dare realtà di cose alle presenze metafisiche; e l’uno diventa il capostipite di tutte le avventure della parola-eloquenza; l’altro di tutte le tragedie dell’immagine folgorata. Nell’applicare alla lettura di Dante questi canoni estremi e complementari, che la drammaturgia moderna ricompone nell’unità dell’atto corale (così l’alta ventura della critica romantica li aveva accostati nella collaborazione delle Lyrical Ballads), noi incontriamo, al termine della età romantica, due poeti che leggono Dante in due modi diversi e complementari: Pascoli è sulla linea di Wordsworth, T.S. Eliot è sulla linea di Coleridge. La lettura inglese di Dante si esercita su queste linee parallele: assai più frequentata la prima. Wordsworth poteva evocare il fantasma di Dante nel sonetto At Florence basandosi su due nozioni generiche, il ricordo storico (e in parte turistico) e l’eccellenza della poesia: Bold with the thought in reverence I sat down, and for a moment, filled the empty throne.

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Che è conclusione mediocre, se la confrontiamo con il sonetto di Foscolo A Firenze (si avverta la diversità del titolo, comunque); ma delle suggestioni storiche Foscolo si libera abbandonandosi ad un amoroso incanto, l’inglese fa la prova un po’ ingenua di chi cerca nei luoghi l’incanto di una vita diversa: evade da Dante, avvicinandolo; mentre gli altri, fuggendo, lo ritrovan lontano. Dietro Wordsworth si mettono innumerevoli, certo di diversissima misura: troppi novellieri in cerca di color locale, accanto al grandissimo Browning; troppi spiritualisti vaghi di una condiscendenza velleitaria, prima e dopo giunti a Longfellow, il traduttore americano; troppi desiderosi di un altissimo paragone dietro l’ambizioso confronto di Dante con Tennyson.23

Dante in Germania L’età romantica, è noto, si definì con rigore di riflessione filosofica e con ricca partecipazione di politica letteraria prima in Germania che altrove; e se ogni nazione d’Europa seppe mantenere nell’Ottocento la sua individualità culturale, anzi accrescerla, partecipando sempre nuovi popoli a quel processo di individuazione sempre più estesa e sempre più profonda che è il carattere della pluralistica civiltà d’Occidente, la cultura tedesca ne fu il centro più attivo e quello donde è più opportuno studiare i diversi orientamenti e il nascere delle forme individuate. Si aggiunga il criterio statistico ed estensivo della frequenza degli incontri con Dante e delle letture dantesche, ben presto organizzate in ricerche filologiche ed erudite assai impegnative e saldamente fondate sopra il sistema degli accertamenti rigorosi, che nella cultura germanica è il complemento costante delle larghissime e avventurose proposte intellettuali e filosofiche. Infine, la cultura tedesca lungo tutto il secolo, ma con una rapida sintesi fin dai primi decenni, che qui ci interessano più direttamente, percorse tre tappe che ci conviene osservare l’una dopo l’altra. L’incontro con Dante fu dapprima affidato a una riflessione letteraria, quasi traduzione discorsiva di interessi anche polemici che adunavano in gruppo letterati, filosofi, critici, quali erano qual più qual meno tutti i Romantici della prima generazione, prima che le attitudini e i metodi li distinguessero. Più avanti, sulla curiosità dei lettori prevalse l’attenzione dei filosofi. Più tardi ancora, la critica poté ritenere sgombro il campo per i suoi accertamenti metodici che appunto, è da notare, si eran resi possibili perché il critico è pur sempre lettore, che porta nel primo incontro con un testo qualcosa della libera disponibilità avventurosa dello scrittore che incontra un altro scrittore. Aggiungi che la cultura italiana fu spesso, lungo il secolo, complementare della cultura tedesca: col rischio, talvolta, di esaurirsi in antitesi (come quando, per l’argomento che ci riguarda, si contrappone Dante a Goethe; come quando, per cercare un altro territorio, si contrappone musica tedesca a musica italiana, Verdi a Wagner, secondo un’antitesi drammatizzata dal costume e risolta poeticamente da Werfel; e storicismo italiano e concettualismo tedesco, e così via): con l’effetto che non sempre si poté intendere la fecondità delle soluzioni complementari, integrative, e la ricchezza del definirsi individualmente, uomini e popoli, gli uni accanto agli altri, e di promuovere una più consapevole nozione di sé.24 547

Herder La cultura tedesca, è noto, si orienta su Herder, a un dipresso come la nostra su Vico: ma Herder è vivo e operoso in un risveglio immediato d’ingegno e in una fioritura stupenda di opere; Vico, dopo morto, è poco letto e meno inteso per più di mezzo secolo; Herder sollecita e in parte determina una letteratura romantica impegnata assiduamente nei fatti della politica letteraria di gruppo e di nazione, seppure ambiziosamente volta alla Weltliteratur; Vico opera per suggestioni remote e offrendo piuttosto dei termini di mediazione, mentre le fondazioni della nuova cultura italiana, da Alfieri a Leopardi, annoverano piuttosto i valori assoluti dell’uomo che i valori mediati della storia e della riflessione filosofica. Anche per questa via si spiega come la cultura italiana romantica, con la mediazione di Vico, considerasse la storia come accertamento umano di un’animazione provvidenziale del mondo e la poesia come scoperta di una integrità umana, come condizione verso la verità, mentre la cultura romantica tedesca, pur tanto più vasta ed elaborata, era pronta a sommergere i valori individuali in un panteismo ora esistenziale, al modo di Goethe, ora panlogistico, al modo di Hegel. Se Vico, il fondatore d’ogni moderna mitografia storicistica, non aveva potuto in Italia trascurare Dante, il poeta di tutta la tipologia eroica che assediava la fantasia sua e del popolo, abituatosi a concepire la vita riassunta nell’esempio degli eroi, poteva trascurarlo Herder, il fondatore del populismo naturalista, più o meno confusamente voglioso di un nuovo Medioevo che non sboccasse già, come avvenne ad opera di Dante, nell’empito rinascimentale di una vita riconciliata dall’umano della natura al divino dello spirito, anzi ritornasse sui suoi passi verso la selva primogenita, custode delle pure forze e della intatta natura.25 Herder rimane l’esempio di un entusiasmo che s’accende per impressioni generiche, più che per consapevole approfondimento di poesia: promosso più dalla grandezza e solennità dell’impegno assunto dal poeta che dalla concretezza della poesia realizzata; e quel gusto delle costruzioni metafisiche, così diffuso in quella cultura, che non voleva mai distinguere fra poesia e filosofia, fra teoria e tecnica dell’arte, sembrava trovare uno specchio nel modello dantesco: se in cinque secoli di letture dantesche la cultura italiana aveva separato poesia da dottrina, gli uni per esaltare la dottrina a scapito della poesia, a cominciar da Francesco da Buti, gli altri per esaltar la poesia a scapito della dottrina, per finir con Francesco De Sanctis, la cultura tedesca dell’età romantica pone l’accento sul pensiero generatore della vita dell’arte (una concezione antiumanistica, se pure alla lunga, e soprattutto attraverso la mediazione di Goethe, destinata ad un accrescimento delle partecipazioni e delle responsabilità umane): entusiasmo apologetico e dedotto, in un primo tempo, anziché esegetico e indotto, come accadrà col tempo. In sulle prime la stessa parziale traduzione di Augusto Guglielmo Schlegel non giunge alla classicità (dunque alla concretezza d’opera ricreata) che pur otteneva traducendo Shakespeare: Alle beten dich an, und keiner versteht dich…

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satireggiava Guglielmo Waiblinger, l’inquieto, che si beffava delle soluzioni concettuali di un problema di vita; ma la Commedia restava «das Centrum aller Romantik».26

Goethe La reazione contro tale entusiasmo, che nello Schlegel era manifestamente contenutistico (d’accordo del resto con l’itinerario percorso dalla sua ricerca), si manifestava per lo più contro il Paradiso (d’accordo del resto col gusto romantico); e la poesia dantesca si tacciava di noiosa, condanna capitale, a sentire Voltaire, che a tutti i generi letterari riconosceva diritto di cittadinanza nella repubblica delle lettere, «hors le genre ennuyeux», segno di una perdurante incomprensione; ma la cronaca delle incomprensioni, e più in quella straordinaria apertura e disponibilità della cultura romantica tedesca, è pur necessaria alla storia di una fortuna, cioè all’acquisto di una poesia. Anche per questo resta esemplare Goethe, che legge Dante assiduamente sì, ma parzialmente, quasi sempre restringendosi all’Inferno, e dalla poesia dantesca, rappresentazione di duri orrori, movendo verso la serenità olimpica del suo stile solare: così che gli stessi raffronti possibili nel Faust, che pure è una grande parafrasi romantica della Commedia, un itinerario esemplare dell’uomo, se colpiscono per la somiglianza del motivo, colpiscono anche per la diversità delle deduzioni e delle illazioni. Fin che si trattiene in inferno, poco vale confrontare la città di Dite e la Flammenstadt in ew’ger Bluth, i centauri del sabba classico, le invettive anticuriali di Dante e la scena fra l’arcivescovo e l’imperatore nel Faust: il realismo di Dante si concreta in una immagine plastica dell’oltretomba, e Goethe ha necessità di esperimentare direttamente nella società degli uomini la presenza delle suggestioni maligne; ma il punto di arrivo, la suggestione in una pace di gloria paradisiaca attinta dopo il cammino mortale, è lo stesso: il nuovo poeta può mutuar dall’antico le immagini delle gerarchie dei Santi e dei Padri; o forse, se badiamo anche alle didascalie delle ultime scene, chiedere come Dante alle suggestioni liturgiche la parola che suggelli tal termine beato: quel «gothischer Kirchenhimmel bei Goethe» che dispiaceva a Gottfried Keller. Resta il fatto che in Goethe questa assunzione dell’umano al divino, priva della mediazione del divino che s’è incarnato nell’umano, di Cristo, elude il tema centrale del cattolicesimo di Dante, con tutte le conseguenze che valsero nell’umanesimo italiano. Anche Goethe aveva meditato, nel 1799, una discesa di Cristo nell’Inferno, e la vittoria di Cristo che strappa Faust al demonio; ma né questo tema si concretò, né il preludio decadentistico delle Saisons en Enfer andò in Goethe più in là di una idea continuamente tentata e continuamente dimessa. Dante comincia l’Inferno col tema della discesa di Cristo al Limbo «con segno di vittoria incoronato» e prelude agli ultimi canti del Paradiso con la scena del trionfo di Cristo: Goethe rimane incerto di fronte al tema, che pur gli assedia la fantasia lungo tutta la vita. Né diremo con questo che rimanga, oltre che incerto, inerte; ma Dante aveva imparato la concretezza dell’umanesimo cristiano proprio dal 549

cristocentrismo medievale: Goethe attende, più che ad un uomo concreto, ad una figura genericizzante rappresentativa dell’umanità; di qui l’incertezza dei contorni nel suo modo di figurare, e d’altra parte la suggestiva risonanza delle sue allusioni.27

Schelling e Hegel D’allora in poi il parallelo Dante-Goethe assediò ogni lettura tedesca della Commedia; ma Dante, con la sua concretezza (che non è soltanto di stile, come pur notavano i lettori tedeschi e Goethe, ammirati dall’energia di quel “laconismo”, ma propriamente impegno delle decisioni estreme, realizzate all’ultimo limite, anziché trattenute nella zona evasiva del sentimento), fonda la cultura e la forma del nuovo dramma: dove Goethe, movendo dal dramma, fonda la concezione di una nuova teatralità allusiva. Nel Romanticismo tedesco una gran parte dello studio di Dante spetta ai filosofi; ma sarebbe ivi difficile separare la teoresi filosofica dalla politica letteraria, riassunte entrambe in una cultura straordinariamente varia ed estesa, sempre propensa agli approfondimenti, sempre restia di fronte alle definizioni troppo vigorose e alle separazioni. Schelling e Hegel, l’uno col suo idealismo panteistico, l’altro col suo idealismo panlogistico, sono i filosofi che più risentono dell’universalismo di Dante. Schelling ne è, oltre tutto, lettore acuto e sa valutare l’opera di Dante movendo almeno altrettanto dalle intenzioni realizzate che dalla realtà delle intenzioni: il che accade a pochi, prima della critica romantica nei suoi sviluppi più sistematici, e di De Sanctis; e Hegel dispone alla futura intelligenza critica alcuni motivi di inquadramento storico che si riveleranno preziosi: ivi compreso, benché utilizzato ad arbitrio, il tentativo di risolvere l’estremo particolarismo con l’estremo universalismo dell’immensa commedia; e i sistemi metafisici che la filosofia germanica va proponendo risultano schemi per la conquista della trascendenza, cosmografie eroiche, come cosmografia eroica e viaggio nell’eterno era stato l’itinerario di Dante.28

Volgarizzamento letterario delle immagini dantesche: da Chateaubriand a Hugo S’è accennato a un compito di volgarizzamento che la cultura francese si assunse nella politica letteraria del Romanticismo: è dunque naturale che qui ricorrano più frequentemente nomi francesi; e direi di francesi periferici, fattisi volentieri banditori eloquenti, e perciò generalizzanti, che lasciavano volentieri nella loro solitudine umbratile nomi e modi, ben altrimenti fecondi, della stessa Francia: appartengono infatti ad una letteratura pubblicistica d’Europa, ed hanno spesso in sé altra vita che quella che appare dal bando dantesco. Chateaubriand è tipico, a questo riguardo: non vorremmo certo restringere il giudizio su tal poeta a quel troppo poco che intese di Dante; ma propose un modo di allusione e d’apologia alquanto enfatica di cui nessuno si liberò dei culturalisti: né la Stäel, 550

né Hugo, e nemmeno Longfellow, retour d’Amérique. Curioso: lì accanto più d’uno, con Artaud de Montor, e lo stesso italianizzante Ginguené, che come storico doveva indirizzarsi ad una apologia estensiva, si sforzavano di ampliare il culto esclusivo dei lettori per l’Inferno; e a giudicar facendogli credito nell’eloquenza dei sentimenti, Chateaubriand sarebbe stato il meglio preparato a intendere, se non il Paradiso, il Purgatorio; vero che ai Mémoires d’outretombe, e a definire più personalmente il proprio messaggio, arriva tardi; ma nel Génie du Christianisme, il letterato ambiziosamente assiso, come Napoleone, fra i due secoli, non va davvero molto più in là che ammettere Dante nel canone della grande letteratura cristiana. Anche per lui, come per Voltaire, si tratta di un poema «bizarre»: Voltaire aveva sfidato Rivarol a tradurre Dante in stile sostenuto o a cambiare tre volte la pelle, prima di sgusciare dalle branche di quel diavolo; e Chateaubriand alla propria pelle tiene come uno che soffre di solletico, né gli possono andare a genio i prodigi danteschi, quell’accorrere dai vertici di Paradiso agli abissi d’Inferno, seppure a mezza strada possano incontrarsi, o nelle pallescenze lunari delle anime difettive. Dante è dunque un nome che si è riaffacciato alla memoria di tutti, ormai; e i registi del nuovo gusto letterario si trovano un po’ tutti nella situazione di Madama di Stäel travestita da Corinna sul Campidoglio: non si dimenticano, nel fare atto di omaggio a quel nume nascosto, che il paragone l’innalza: Pensez avec orgueil à ces siècles qui virent la renaissance des arts. Le Dante, l’Homère des temps modernes, poète sacré de nos mystères religieux, héros de la pensée, plongea son génie dans le Styx, pour aborder à l’enfer, et son âme fut profonde comme les abîmes qu’il a décrits.

Che se non è vita profonda quella che anima l’eulogio, ebbene, si può sempre fare ricorso alla storia, dove tutto rivive quello che tra i vivi non è più vivo: L’Italie au temps de sa puissance, revit tout entière dans le Dante. Animé par l’esprit des républiques, guerrier aussi bien que poète, il souffle la flamme des actions parmi les morts, et ses ombres ont une vie plus forte que les vivants d’aujourd’hui.

E bisognerà pur convenire che quando si tratta di offrire un bel riassunto del poema, l’eloquenza splendida pare chiarezza: Un enchaînement mystique de cercles et de sphères le conduit de l’enfer au purgatoire au paradis: historien fidèle de sa vision, il inonde de clarté les régions le plus obscures, et le monde qu’il crée dans son triple poème est complet, animé, brillant comme une planète nouvelle aperçue dans le firmament!

Tale il repertorio cui l’improvvisazione attinge: una condiscendenza, in fondo, a chi la ripagasse di tumultuosa gloria solare. E il Romanticismo francese, o la pubblicista in prosa e in versi, mentre l’esegesi dei traduttori e l’organizzazione erudita degli storici concorre validamente alla riscoperta europea del 551

vero Dante, ricalca quei tempi e adorna di festoni allegorici ed eloquenti questo ritratto: Dante, vieux gibelin! quand je vois en passant le plâtre blanc et mat de ce masque puissant que l’art nous a laissé de ta divine tête, je ne puis m’empêcher de frémir, o poète!

ch’erano modi tutt’altro che trascurati fra noi, dove solo quell’ammirazione un po’ enfatica ci aiutava ad uscire dai nodi dell’erudizione accademica o del servizio politico: Dante, ond’avvien che i voti e la favella levo adorando al tuo fier simulacro… Muor Giove, e l’inno del poeta resta.

Carducci non era molto distante dal motivo offertogli dal Barbier: un’ammirazione tautologica, diremmo. Che cosa è l’astratta “forma” della poesia, senza la concreta individualità dell’autore, calato in una definita esperienza storica, morale e religiosa? La lettura dell’Ottocento isola sempre meglio i due poli, finché la critica crociana teorizza l’antitesi, e impone di riproporre da capo un nuovo processo critico e esegetico. E fino a che punto si può partecipar della vita di un poeta senza entrar con lei in discorso, consentirle o dissentirne, ma pur sempre sentendola come cosa viva e attuale? Ma la citazione del Barbier ci rende avvertiti anche e soprattutto del fatto che Dante era ormai un punto di riferimento costante del discorso letterario o politico, un nome continuamente riproposto all’attenzione e alla riflessione, un segreto non mai esausto, e bisognava sempre tornar da capo a riscoprirlo. Che i Francesi paressero, o fossero, meno indicati a questo viaggio di riscoperta, prima almeno che il simbolismo conducesse alle estreme conseguenze la «discoverta» romantica, non importa: poteva avere ragione Amiel, quando annotava nel suo giornale, al 23 aprile 1862: Ce qui manque au Français c’est l’intuition de l’unité vivante, la perception du sacré, l’initiation aux mystères de l’être, ce qu’il faut leur demander c’est la construction des sciences spéciales, l’art d’écrire un livre, le style, la politesse, la grace, les modèles littéraires, l’urbanité exquise, l’esprit d’ordre, l’art didactique, la discipline, l’élegance, la vérité du détail, la mise en scène, le besoin et le talent du prosélytisme, la vigueur des conclusions pratiques. Mais pour voyager dans l’Inferno ou le Paradiso, il faut d’autres guides…

Restava il fatto che il richiamo a Dante era infinitamente più propalato quando se ne incaricavano i Francesi. E poi queste antinomie si risolvono troppo più agevolmente di quanto s’immagina chi trova comodo indugiare nelle troppo distinte caratterizzazioni della civiltà: Dante doveva moltissimo alla civiltà francese del Medioevo, sia per l’organizzazione scolastica predisposta alle sintesi 552

riassuntive delle summae, sia più direttamente per la fondazione dei nuovi volgari e delle nuove letterature, dai poeti provenzali alle bellissime favole d’Artù; e la cultura francese, dal Rinascimento in poi, si rinnova stupenda sulla guida di quella civiltà umanistica che in Dante riconosce uno dei suoi fondatori; per contro la polemica di cui si fa qui interprete Amiel dimentica che proprio in quegli anni il decadentismo romantico inizia l’ultimo assalto alla roccaforte dell’enciclopedismo e dell’intellettualismo, anche sotto le specie del positivismo; ma anche storicamente è vero che la Commedia non fu mai visitata in Francia tanto quanto nella stagione romantica, benché non senza incertezze e nostalgie e contrasti. Prima della traduzione di Lamennais e delle ricerche di Ozanam, Dante è una delle figure dell’Olimpo letterario che i Romantici francesi sostituirono all’Olimpo mitologico della letteratura classicheggiante. Quando la consonanza religiosa permette la riscoperta di Dante (ed è significativo che questa riscoperta sia prevalentemente politica in Italia, filosofica in Germania e religiosa in Francia), Dante diventa un oggetto di ricerche, che via via si fan più copiose lungo un secolo, sino a giungere al contributo dei moderni: Auvray, Batiffol, Counson, Dejob, Hauvette, Hazard, Nolhac, Picot, Vianey… Ma in attesa degli inferni di Baudelaire e di Rimbaud, che ne sono la più vera ipostasi moderna, in Francia, delle immagini dantesche, nulla sarebbe accaduto senza i tentativi romantici, pur nella loro infermità velleitaria: nulla senza la proposta grandiloquente che Vittore Hugo riassume in quella panteistica storia della natura che diventa uomo: Un soir dans le chemin, je vis passer un homme, vêtu d’un gran manteau comme un consul de Rome, et qui semblait noir sur la clarté des cieux. Ce passant s’arréta, fixant sur moi ses yeux brillants, et si profonds qu’ils en étaient sauvages, et me dit: – J’ai d’abord été, dans les vieux âges, une haute montagne emplissant l’horizon; puis, âme encore aveugle et brisant ma prison, je montai d’un degré dans l’échelle des êtres, je fus un chêne, et j’eus des autels et des prêtres, et je jetai des bruits étranges dans les airs; puis je fus un lion rêvant dans les déserts, parlant à la nuit sombre avec sa voix grondante; maintenant je suis homme, et je m’appelle Dante.

Écrit sur un exemplaire de la Divina Commedia, dice il titolo dell’epigramma, datato 1843, nel terzo libro delle Contemplazioni; e attribuiamo pure allo stile epigrafico quel troppo di generico che si nasconde nell’enfasi. L’epopea delle metamorfosi e un’emblematica storia delle religioni sostituiscono una nuova scala esistenziale all’itinerario dell’oltretomba dantesco; e il poeta di volta in volta è inteso come una forza selvaggia della natura. Una religione naturale; anzi, naturalistica: abbastanza lontana dalla religione di Dante, così saldamente costruita sulla ragione; ma per dir dell’eccellenza dantesca Vittore Hugo igno553

rava prospettiva più grande della natura che si celebra nella perennità delle sue metamorfosi. Da Dante poteva tuttavia aver preso anche questo: il gusto di presentire e di predisporre lo spazio dove l’immagine si proietta, che potrà esser ricolmo di allegorie; e a introdurre il terzo libro di questa sua autobiografia, Les luttes et les rêves, dispone un’immagine sacerdotale di creta, che riassume nell’immaginosa storia delle religioni l’orgoglio del celebratore del nuovo umanitarismo: la religione delle montagne, la religione degli alberi, la religione degli iddii-bestia cede al rito del poeta veggente.29

L’organizzazione scientifica degli studi danteschi Ma parlavamo di culturalismo, e non abbiamo tralasciato, anticipando la cronologia, un elenco di nomi eruditi. Occorre a questo punto fissare un rapporto abbastanza indicativo fra la lettura letteraria del poeta e l’organizzazione erudita delle conoscenze che lo riguardano. La prima fortuna preromantica galleggiava sulla tradizione stabilita dalla cultura italiana: la nuova dantologia deve riassumere anche i risultati dei nuovi incontri, che non si devono certo immaginare inefficaci (si pensi alla persona di Beatrice: per cinque secoli i dantologi l’avevano pressoché ignorata; ma nell’Ottocento, per evidente esigenza romantica, diventa la più frequente delle “voci” dantesche): e dispone quella nuova letteratura poetica che si celebrerà fra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento, dopo l’esperienza delle poetiche del simbolismo. Ed ecco che a paragone degli studi italiani (se se ne eccettua il Foscolo, che lavora a Londra e che ha per conto suo percorso tanta parte del ciclo della poesia romantica d’Europa), la nuova sistemazione può tener conto di dati di lettura infinitamente più sottili e più numerosi. Un Carlo Witte,30 che fu osservatissimo dalla nuova scuola dantesca, anche e soprattutto in Italia, propone bensì un rigore nuovo di ricerca, e s’illude o illude di possedere un metodo oggettivo che tenderebbe ad escludere dal processo della conoscenza l’intervento della concreta persona del critico (queste naturalmente furono conclusioni estreme), ma in realtà scende nel testo con una ricchezza di ripensamento cui nutre la molteplicità e la versatilità della sua problematica; e le Dante-Forschungen, a paragone di quell’altra enciclopedia (storico-politica, questa) del Discorso di Foscolo, indicano la ricchezza dei suoi motivi, dai nuovi metodi di ricostruzione del testo critico ai più circostanziati accertamenti biografici, dalle inquadrature di storia del pensiero a una indagine già tematica e tipologica: unitavi quella ricchissima attitudine di letteratura in atto che il nuovo umanesimo filologico e storico uscito dal Romanticismo germanico conosceva quasi altrettanto bene che l’Umanesimo del Quattrocento italiano, e che i prosecutori nostrani del “metodo”, nella seconda metà del secolo, pensarono di poter superbamente ignorare. L’indagine che si era allargata e talvolta dispersa avventurosamente, con Federico Cristoforo Schlosser, ritrova il suo equilibrio esplicito di poesia e di dottrina, di studio e di erudizione nell’opera del figlio di una principessa di Parma, poi re Giovanni di Sassonia, il Filalete, traduttore di Dante e forse uno dei capitoli più significativi di quella lunga “me554

ditazione” di Nachdichtung che va dal minor Schlegel al George, e fondatore della Deutsche Dante-Gesellschaft (1865); e nell’opera bibliografica che un altro patrizio, Colomb de Batines, stabilitosi a Firenze, dedicava a quel Villemain tanto ammirato in Italia: la Bibliografia dantesca (1845-46). Con questi, e con Ludwig Gottfried Blanc, l’erudizione dantesca è stabilmente sistemata: siamo alla metà del secolo, e nel 1852 il Blanc pubblica un’altra delle opere fondamentali, su cui si appoggia la filologia dantesca: il Vocabolario dantesco, o Dizionario critico e ragionato della Divina Commedia di Dante Alighieri. Tutti gli studiosi, d’ora in poi, si varranno dei mezzi così stabiliti di ricerca e delle istituzioni culturali, riviste e società, che a questi esempi fan capo: benché la distinzione sia ovviamente provvisoria, qui finisce il capitolo dove la fortuna è anche e primamente incontro di poesia, e incomincia il capitolo della bibliografia. Quegli anni dopo la svolta del secolo vedono, accanto all’opera del Wegele, Dantes Leben und Werke, kulturgeschichtlich dargestellt (1852), la History of Latin Christianity del Milman (1855), l’opera riassuntiva del Fauriel, Dante et les origines de la langue et de la littérature italienne (1854) e il libro del Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien (1860), che proponendo una nuova interpretazione del Rinascimento, in apparenza opposta allo spirito dell’universalismo dantesco, in realtà impone anche di Dante un ripensamento nuovo.

Longfellow Quegli anni vedono anche, poiché bisogna riprendere il discorso degli incontri, la conciliazione letteraria e mondana del libro della contessa d’Agoult, Dante et Goethe (1865), che con lo pseudonimo di Daniel Sterne posò a musa romantica (in quel giro di vite romanzate, fra la Dantesinfonie di Liszt (1855) e il Parsifal di Wagner (1857-1882), la franco-germanica dama di corte di Carlo X, madre di Cosima Wagner, introdotta nella vita spirituale italiana da Gioberti, da Mazzini, da Manin, è un indice non trascurabile; e quando legge, invece di accorrere alle amplificazioni delle apologie astrattizzanti, sa intendere l’immagine e la parola concreta), e vedono la traduzione del Longfellow (1865): del quale, come riassuntore di tutta questa vicenda, occorre più che un cenno.31 Longfellow è un punto di costante riferimento per comprendere il fissarsi della fama di Dante in termini stabilmente accettati; e poiché sa sempre quello che vuole, fin dal 1845 compone un sonetto programma che riassume benissimo, in immagini e in giustificazioni storiche, le ragioni perché Dante era ammesso, nella cultura d’Occidente, in sì alto posto, e in quale: Tuscan, that wanderest through the realms of gloom, with thoughtful pace, and sad majestic eyes, stern thoughts and awful from thy soul arise, like Farinata from his fiery tomb. Thy sacred song is like the trump of doom; yet in thy heart what human sympathies,

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what soft compassion glows, as in the skies the tender stars their clouded lamps relume! Methinks I see thee stand with pallid cheeks By Fra Hilario in his diocese as up the convent-walls, in golden streaks, the ascending sunbeams mark the day’s decrease; and, as he asks what there the stranger seeks, thy voice along the cloister whispers: «Peace!»

Anche i sei sonetti, ambiziosamente intitolati Divina Commedia, scritti nel 1866 e nel 1867, svolgono lo stesso programma celebrativo e illustrativo: con più impegno e più larghezza di cerchia intellettuale; ma non è da trascurare che al poeta il lungo cammino sulle orme di Dante (Bassermann riassumerà tutti questi vagabondi dell’Europa romantica; ma è singolare che, se a riassumerli venne un tedesco, a definirli nella loro consapevolezza più elementare fu un americano: sempre era necessario guardare da fuori e dall’alto, per scoprire l’intimo segreto di quella vita) è aperto da un segreto di lettura, da una scoperta di poesia: il canto del poeta è come la tromba del giudizio, ma quanti segreti si accendono nel suo cuore, come stelle in un cielo intenerito! Quei sei sonetti, svolti intorno al tema della Cattedrale, con una mentalità che accosta Longfellow a Liszt, restano bellissimi esempi d’arte composita: intonati alla poesia delle rievocazioni storiche, che in Francia ha Vittore Hugo e in Italia Giosue Carducci, vincono, per un più ampio giro d’orizzonte e per maggior concretezza d’informazioni storiche, di partecipazione spirituale, gli esemplari danteschi di entrambi, anche perché Longfellow può guardare alla cerchia storica e religiosa di Dante senza lasciarsi irretire dalla ideologia extrapoetica: cercando, se mai, in quella un maggiore arricchimento. Certo la fantasia poetica vi è sollecitata da una immaginazione che si vale della storia per entrare in una sfera di evidenza emotiva; e lo studioso di Dante, il traduttore, il professore di Harvard, l’uomo che di lì a un anno viaggerà per l’Europa accolto con tutti gli onori, da Oxford a Roma, a rappresentare la conciliazione e l’unità della cultura europea trasferita nel nuovo mondo, pochi temi tralascia, fra quanti la nuova lettura ha scoperto in Dante: dalla similitudine fra la Commedia e la Cattedrale gotica, appunto, all’esaltazione dell’Italia risorgimentale. Ma attraverso questi modi mediati, di una poesia che non rinunzia a nessuno dei vantaggi e delle introduzioni della cultura, la profonda serietà dell’incontro è palese: teatralissimo incontro, ma sincero e fecondo. Vedi l’umiltà del paragone del primo sonetto: Oft have I seen at some cathedral door a laborer, pausing in the dust and heat… kneel to repeat his paternoster o’er… so as I enter here…

e vedi anche come l’apologo sia oltrepassato in quel riaccostarsi, subito ad una cattolicità religiosa nell’atto della preghiera, «kneeling in prayer and not 556

ashamed to pray», cui non contraddice l’accenno finale «and many are amazed, and many doubt». Era appunto il tempo del cardinale Manning, quello: e nell’accogliente seconda Roma degli ultimi anni del pontificato di Pio IX e dello Stato pontificio, gli stranieri si rendevano conto, meglio talvolta degli Italiani, di quello che significasse nella storia della res publica christiana la continuità storica della sede pontificia. Tale “fantasia storica” giunge talvolta, come verità di poesia, a illuminazioni acutissime; quella del secondo sonetto, per esempio, dove la cattedrale gotica che figura la Commedia e il poema stesso sono intesi raccolti e oranti intorno all’immagine di Cristo morto: ricollegati dunque al gran tema delle confraternite religiose del Medioevo, la Passione. Un altro tema è la Confessione, del terzo sonetto e del quarto: osservi che, dopo le fratture dogmatiche e liturgiche che separavano il protestantesimo dal cattolicesimo, si cerca, attraverso la Commedia, un senso che riaccosti l’erede storico dell’Ottocento alla fede dei secoli dell’unità cristiana; il tutto culminando nel sonetto quinto, con la scena dell’Elevazione. L’itinerario spirituale del poeta nuovo, che si serve della mediazione dell’antico nel suo cammino, è esplicito e proclamato: O star of mornig and of liberty! O bringer of the light, whose splendor shines above the darkness of the Apennines, forerunner of the day that is to be.

E l’accento retorico aiuta l’evidenza del proclama; e quando anche questa poesia fosse soltanto un riassunto riccamente animato di tutto il pensiero della nuova cultura intorno alla Commedia, non sarebbe poco il suo valore. In quella cattedrale vegeta di fiori ed irta di draghi (la divina foresta…) si celebra il dramma dell’uomo: dell’uomo Dante, ma anche di ognuno che vi si accosta, e del poeta; per il quale l’umanesimo, compiuto il gran cerchio del suo cammino, ritorna al suo primo centro: la contemplazione dell’uomo, caduto e risorto, sotto un tempio liturgico di pietra e d’inni.

Blake e Shelley Toccando incidentalmente del Parsifal, il giuoco delle consonanze dilagava ben al di là dei termini della ricerca di filologia e storica osservanza sistemata intorno a Karl Witte; entriamo in una cerchia amplissima di letteratura romantica che attraverso la parola e l’immagine tende a ben altro dominio di vita spirituale che quello offerto dalla soluzione storicistica del Romanticismo: il Simbolismo, per dir la parola più comprensiva, e per non annegare nel termine di Decadentismo ogni possibilità di intellettuale ricognizione. Per questo fecondissimo modo dell’incontro dantesco dobbiamo rifarci indietro di qualche decennio, e all’Inghilterra di William Blake. Coleridge resta il comun denominatore di queste esperienze: tra Cary e Foscolo, dunque con una presa di possesso anche riflessiva e dottrinale della storia di Dante, oltre che della sua parola; ma di 557

dottrina e di storia non s’impaccia il fantasticante Blake: pure, il suo muoversi da Swedenborg a Dante,32 diremmo dal misticismo spiritistico al misticismo spiritualistico, ha un immenso significato per sé e per la cultura d’Europa: dopo di lui, e non importa se la sua efficacia fu sommessa e tarda, il misticismo si trovò sempre a dovere optare fra l’uno o l’altro dei suoi due poli; e accade, ripensando a lui e alla sua fortuna lungo tutta la vicenda del simbolismo, di dover riconoscere che uno dei compiti che il Romanticismo esercitò più efficacemente fu di catalizzare in senso realistico e alla lunga cattolico molti vagheggiamenti mistici e misteriosofici, come prima pietisti e riformisti, trovando sempre, a concludere questa responsabilità realistica, una volta che d’ognuna di tali correnti si decidesse di guardare a fondo, l’opera di Dante. Il segreto di entrambi, Dante e Blake, se indipendentemente dalla quantità tentiamo una ricognizione della qualità, è segreto dell’immaginare, forza rivelatrice dell’immagine: entrambi discorrono per immagini, entrambi capovolgono il mondo apparente, entrambi vivono nell’alone di una rivelazione visionaria, conoscono per visioni, qualunque sia la formula logica in cui calano o chiudono la rivelazione prima, entrambi accettano la missione di rivelare altrui il dono della propria veggenza. Anche una Vita Nuova (il testo fondamentale del dantismo spiritualista dell’Ottocento) sarebbe possibile, per trasparenza, indovinare nei Songs of Innocence; e le sette incisioni per l’Inferno (dei novantotto disegni per le tre cantiche) con la lettura di Dante nel testo originale, sul letto di morte, valgono a ricomporlo consapevolmente accanto al poeta. Anche il satanismo di Byron, prima che proclama rivoluzionario, vuol essere dramma spirituale: presto dedotto, appunto in un’apologetica ambiziosa; se da lui passi a Shelley,33 osservi ben altre conseguenze, ed un impegno filosofico sostener l’ammirazione, quello stesso che invogliava i contemporanei filosofi tedeschi: con la differenza che in quelli il senso panteistico della vita si risveglia, in vista di un ambizioso paragone, di fronte alla universale poesia dantesca, mentre egli muove in cerca di quella situazione fondamentale da cui tutto l’universo sarà abbracciato d’un solo moto dell’essere, e tale situazione interpreta liricamente. In nessuno dei grandi poeti che muovono all’incontro di Dante è vivo come in lui il senso della parola e dell’immagine, specie per la Vita Nuova e per il Paradiso: in nessuno Dante è così consapevolmente seguito per un tratto, quello che prosegue dalla natura a una sopra-natura ampliando al possibile i confini dell’universo divino, pur senza l’atto decisivo della metanoia cristiana e dantesca, l’imitazione di Cristo, Dio-uomo. Egli va in cerca del suo poeta ad occhi bene aperti, e sa quanto ha da chiedergli: fin dal primo sonetto tradotto, che è proprio quello dell’incantesimo, con la sua conclusione fluttuante e vaga, l’annegarsi nell’indistinto, mentre ci si chiude in un cerchio di persone note e nella letteralità dell’epigramma: Our time, and each were as content and free as I believe that thou and I should be.

La bellissima traduzione del Cary gli serve solo di ponte per una conoscenza diretta: legge in italiano nel suo viaggio in Italia, e traduce sempre testi indica558

tivi: la prima canzone conviviale e il canto di Matelda; e dalla interpretazione michelangiolesca, prediletta dai Romantici sino a Delacroix, che seppe scoprirvi alcune suggestive voci di decadenza e di morbido mistero, si ritrae con sdegno.34 Dantesco è il Prometheus Unbound: il «poeta del liberato mondo», che Carducci conosceva solo in prima lettura, e che non vorremmo davvero interpretare senza intendervi il ritorno a una situazione dualistica, trascorre per il poema dantesco con una agevolezza di riecheggiamenti. Epipsychidion, con l’esegesi di Dante stilnovista contenuta nel Defence of Poetry, risospinge nella direzione della Vita Nuova la tradizione poetica che da lui deriva. Con l’aggiunta della nota componente rossettiana, già qui si spiega l’opera di Carlo Lyell, la traduzione di Dante minore, The Canzoniere of Dante Alighieri, including the Poems of the Vita Nuova and Convito (1835).

Interpretazione cattolica ed interpretazione esoterica Gabriele Rossetti:35 nella storia dell’esegesi dantesca, la sua opera può sembrare una battuta d’arresto; e se un’opera di letteratura, anche di letteratura critica (se possiamo adoperare un simile termine per il Mistero dell’amor platonico, 1840), non avesse peso anche nelle intenzioni, quel «può sembrare» diventerebbe «è», senz’altro. Ma Gabriele Rossetti si ricollega pure al primo esule londinese, Foscolo, ed ha intorno a sé la scuola poetica di suo figlio, e la Beatrice Svelata di Francesco Perez (1865), «preparazione all’intelligenza di tutte le opere di Dante»: come potremmo negarlo? Se la sua dottrina s’incaglia nelle aporie del Pascoli e del Valli, i suoi fantasiosi accostamenti, più da poeta carbonaro che da lettor critico, d’accordo, prolungano l’eco di uno “stilnovismo” ottocentesco che ha lunga storia inglese e italiana, poi anche tedesca: dove la stessa acribia dell’esagerazione di una tesi che dovrebbe costantemente esser ricondotta ad accertamenti storici e lessicali, ha valore di amplificazione e di imitazione. Tutto quello che divaga e rimbalza da isola ad isola, dall’Inghilterra alla Sicilia, trova in Francia una prospettiva; ed Eugenio Aroux è ben la chiave di volta di tutto l’esoterismo degli studi danteschi. Altro arresto, a bene intendere: infatti Aroux è in sottintesa e perenne polemica con Federico Ozanam,36 probabilmente il più ricco e il più congeniale dei lettori francesi nell’Ottocento, colui che dalle curiosità spiritualistiche seppe passare ad una piena intelligenza culturale e storica, collocando finalmente Dante nel luogo che ovviamente gli tocca, nella spiritualità cattolica e francescana dell’Italia del Duecento di cui offre una sintesi così nell’intimo valida e così estesamente informata. Anche per la via del suo attivo e caritativo francescanesimo, Dante ritornò familiare alle correnti del populismo cristiano del secondo Ottocento; e dovette rammentarsene, nonché Giulio Salvatori, la pubblicistica cristiano-sociale, prima e dopo la Rerum Novarum, in Italia, in Francia, in Belgio, in Germania ed in Austria; così per la via convergente della sua informazione teologica e filosofica, si accrebbe, sempre nel secondo Ottocento, la lettura dottrinale di Dante. Dante et la philosophie catholique au treizième siècle (1839) accoglie alcune tendenze del dantismo italiano 559

settecentesco, ma organizza stabilmente il nuovo capitolo di studi; eppure qui lo vorremmo considerato in un quadro diverso: come risposta, anzi come conclusione, a quell’indirizzo di letture che siamo andati illustrando: perché egli porta alle deduzioni teoricamente e storicamente legittime la lettura di uno Shelley, e quanto fu più attivo nella cultura romantica. L’equilibrio della sua tesi, attenta alle circostanze storiche ed alle definizioni dottrinali come nessuno prima di lui, ma conclusa in un approfondimento ineguagliato della personalità creativa del poeta, poté essere operosa anche in chi lo disconosceva; certo occorreva del coraggio nel chiarire esplicitamente l’origine scolastica di quell’indagine dualistica che riconosce la materia della sintesi dantesca nell’esperienza storica che accomuna il poeta al suo tempo e riconosce la forma nella sua personalità potente: escludine la dichiarazione esplicita e la sfiducia che invade la pubblicistica italiana dopo la crisi del ’48 per il pensiero cattolico, ma le letture desanctisiane non sono davvero remote da questa problematica. Il linguaggio della poesia simbolistica potrà procedere oltre ad affinare i suoi mezzi espressivi, e questo provocherà un processo di revisione e un perpetuo affinamento della lettura anche di Dante, e per contro le preoccupazioni contenutistiche provocheranno squilibri accentuando ora l’interpretazione esoterica, ora l’interpretazione storica; ma il libro di Federico Ozanam resta in ogni modo il punto di convergenza di ogni ripensamento che riconosca la centralità dell’esperienza religiosa dantesca. E poiché Ozanam sa altrettanto bene che i poeti scegliersi di Dante quel che più gli conviene, eccolo traduttore del Purgatorio. Quando Aroux vuol dargli una lezione di cattolicesimo ortodosso, e dedica a papa Pio IX, nel 1854, il famoso Dante hérétique, révolutionnaire et socialiste. Révélations d’un catholique sur le Moyen Age, quasi esortandolo a far da arbitro, anzi accaparrandone preliminarmente il giudizio, l’indiscrezione rasenta il grottesco; e vi annega quando decifra il testo poetico con la chiave del presunto linguaggio segreto. Che si sappia, e non mancarono di dirglielo, il miglior modo di custodire un segreto non è di mettere sull’avviso che un segreto c’è; ora, tutta la differenza tra una lettura ragionevole e la lettura iniziatica è nata da una piccola dimenticanza: che Dante, proprio dicendo «O voi ch’avete gl’intelletti sani», respinge da cristiano ogni esoterismo.

Dai Prerafaeliti ai Simbolisti L’arresto imposto dalle dottrine rossettiane ad una interpretazione spiritualistica non si risentì tanto direttamente quanto indirettamente: se avviandosi per quella strada era tanto facile cadere nel grottesco, e se si poteva chiedere una condanna cattolica ad una interpretazione cattolica di Dante (non importa che ogni interpretazione autorevolmente raccomandata contraddicesse all’Aroux e al Perez: l’opinione pubblica guarda più volentieri agli estremi), meglio era ripiegare su uno storicismo eruditamente fondato. Ma i frutti degli incontri dei poeti continuano sempre più copiosi: i due Brownings, Roberto ed Elisabetta Barret, dimostrano di aver fatta propria una iconografia e una presenza dantesca 560

ben altrimenti sottile di quella che ricevevano dalle prime volgarizzazioni e dalle prime indicazioni entusiastiche i poeti del primo Romanticismo: fra Sordello dell’uno ed A Vision of Poets dell’altra. E il circolo dei Prerafaeliti, anche se propone una lettura parziale di Dante, trasognata e un po’ irrigidita da un ritualismo medianico, che doveva conciliarle tanto favore vulgato, si dimostra tuttavia capace di passare dall’esoterismo di Gabriele al misticismo di Dante Gabriele.37 Per due capitoli la storia della fortuna indugia in quest’ultimo, per le sue traduzioni e per le sue illustrazioni: The Early Italian Poets from Ciullo d’Alcamo to Dante Alighieri (1861) indulgono certo più agli stilemi di scuola che a quel libero traguardo verso la verità che Shelley aveva insegnato; e le illustrazioni, dopo un secolo, hanno una certa volonterosa invadenza artigiana che denuncia la superficialità della loro raffinatezza preziosa, più annunciata e propagandata che attuata nell’individuazione del segno stilistico. Quanto all’iconografia propriamente poetica, direttamente proposta, i suoi appigli con Dante sono frequenti, ma ancor essi superficiali: sboccano nella imitazione stilnovistica che è una stagione non molto fattiva, ma molto estesa, nella poesia di tutto l’Occidente; che converrà riosservar più da vicino in Italia. Più importanti gl’incontri che accrescono la corrente del Simbolismo; e per questi bisogna rifarsi all’America. La statistica del Mathews,38 cioè Irving, Bryant, Longfellow, Lowell, Thoreau, Emerson, Poe, Holmes, Hawthorne, Whittier, Melville, Whitman, contiene indicazioni veramente interessanti; ma conviene fermarci su tre nomi. Longfellow l’abbiamo già indicato a concludere il periodo delle celebrazioni, con una compiutezza e una libertà d’accoglienza ignota del resto all’Europa. Emerson acquista di sostanza dantesca, per il suo spiritualismo unitario, più che gli stessi filosofi tedeschi, da Schelling a Shopenhauer, per il loro idealismo. Più lungo dovrebbe essere il discorso su Poe, perché più incerto.39 È evidente che i paesaggi storici e fantastici di Poe, collocati in Italia, sono intrisi di presenze misteriose quanto di vitalismo audace e fantasticante e passionato gli stessi paesaggi di Stendhal; ma il possibile riferimento dantesco è ormai fatto per modi e temi di uso comune, anche se dantesca poteva essere stata la loro primitiva giustificazione, quella di “racconti gotici” del preromantiticismo inglese, e se sia difficile, volgarizzando, dimenticare l’orribile dantesco quando una specie qualsiasi di Decadentismo tocca l’orrido. Se in una formula teologica può trovar luogo un’esperienza artistica, la differenza fondamentale fra Dante e tutti i letterati che, soffrendo o no, spaventandosi davvero o fingendo, rimestavano l’inferno nel fondo del calamaio, come dice Bacchelli, e indulgevano, atterriti o vanesii, alle iconografie della Morte, della Carne e del Diavolo, come dice Praz, è questa: che il dualismo dantesco è cattolico, il dualismo decadentista è manicheo. Il che vale anche e soprattutto per Baudelaire: il più autentico romantico di Francia, d’accordo, il solo con cui essa dimostra di avere fatto proprio sino in fondo, ma in quella parte di sé che non sa dimenticarsi della tentazione albigese, il misticismo del secolo nuovo. L’Inferno di Baudelaire è spessissimo modellato su ricordi dell’Inferno dantesco: eppure la ricerca che si limitasse all’iconografia vi vieterebbe di intendere le più autentiche suggestioni dell’arte. Baudelaire cerca gli abissi, e i suoi prose561

cutori simbolisti cercano, più volentieri, le altezze; ma un processo di trasposizione, l’importanza ridata alla metafora, e la trasvalutazione che sta alla base di ogni giustificazione di tale poetica, è comune al Decadentismo in genere come al Simbolismo in ispecie.

Verso T.S. Eliot Non è necessario circostanziare più minutamente la menzione di questi poeti ormai moderni, anzi, contemporanei, se è vero che la letteratura critica solo in questo secolo ha cominciato ad avvertire manifestamente la loro presenza, accettando del resto gli “ismi” come provvisorie inquadrature di politica letteraria, per una storia del linguaggio che si perpetua in un continuo fluire e in un inintermesso riecheggiamento di vita e di suggestioni. E ancora si noti questo: il Simbolismo, in tutti i suoi nomi, portainsegne del movimento che siano, o accolti per cercare e trovare alleati, è l’ultimo dei movimenti che si impegni, nel suo complesso, in una direzione dantesca: Baudelaire, Rimbaud, Huysmans hanno una iconografia dantesca, ma non trascurano già di cercarne la nozione tecnica, e dallo Stilnovismo arrivano a un ermetismo di cui s’eran già accorti i guittoniani, a loro tempo. Ci sono due Danti, per loro: interpretano volentieri in senso manicheo il poeta dell’Inferno; ma quando, sulla traccia di Mallarmé, cercano le norme di una nuova poetica, allora si rifanno piuttosto al poeta delle Rime. Né saprebbero dare una soluzione se non esterna, ove non s’imbattessero, avventurandosi ad una più ampia esegesi, in poeti che per altra via hanno fatto cammino nella loro direzione: specialmente drammaturghi, che hanno ubbidito allo stesso impulso di cercare un luogo alto o profondo donde guardare al mondo, Paradiso od Inferno (per sé questi simbolisti preferirebbero il Limbo, o l’innocenza edenica che trascorre da Mallarmé a Debussy). Wagner ed Ibsen rispondono a questo compito: e non si può trascurare, per intendere quello che il Simbolismo ha letto in loro, la visuale dantesca in cui tanto volentieri considerano se stessi, dal Tannhäuser a Quando noi morti ci destiamo, lungo mezzo secolo di drammaturgia europea, e dove tanto frequentemente sono osservati. Ma col nuovo secolo, che altro è possibile, per un poeta ormai presente nel curriculum culturale di ognuno, se non incontri personali? L’ultimo dono che una corrente letteraria europea ha fatto a una lettura pseudocritica italiana è bene stato l’aiuto offerto a Giovanni Pascoli; e le grandi voci dantesche della letteratura d’Occidente, da George a Eliot, le grandi voci dantesche della letteratura d’Oriente, da Merezkovskij a Ivanov (e cerchiamo pure una mediazione in Rilke, fra i due gruppi), segnalano ormai incontri di persona. Ci insegnano attenzioni prodigiosamente feconde, è vero, e nessuno oggi può dire di averle esaurite; ed aprono alla lor volta nuove correnti della fortuna; ma la nuova storia dantesca parte dai poeti ad uno ad uno.40

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1 La spiegazione del capitolo così disposto che isola la storia della fortuna di Dante nelle letterature d’Occidente, inserendola nella storia e cronaca della sua fortuna in Italia, è più volte allusa o precisata nel testo: fino alla cultura romantica Dante vive in Europa per una diretta custodia e per un’indiretta reviviscenza italiana; ma dalla cultura romantica in poi la lettura italiana si accresce e si definisce di molti echi e di molte esigenze che appaiono altrove che in lei più maturi e reperibili in quel complesso di spiritualità molteplice ma unitaria, distesa dovunque, pur nelle determinazioni storiche che le appartengono: ritrovamento dell’unità culturale d’Europa perduta no, ma smarrita dopo la latinità medievale. In sede di postilla bibliografica occorre anche un’altra giustificazione: la pubblicazione di un’opera ottimamente riassuntiva di molti studi parziali, e comprensiva di una stessa problematica, W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, 1350-1850. The Influence of D. Alighieri on the Poets and Scholars of Spain, France, England, Germany, Switzerland and the United States. A Survey of the Present State of Scholarship, Chapel Hill e Roma 1950. Tale survey manca affatto per la storia della fortuna in Italia, pur fra notevole ricerche, limitate nel tempo o nei nomi; e siamo debitori a questa amplissima indagine e raccolta di disporre ormai di un adeguato strumento di collaudo, e di vedere l’ipotesi storiografica confermata in più d’un caso dalla documentazione catalogica. 2 P.J. TOYNBEE, D. in English Literature from Chaucer to Cary, Londra 1909; W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, pp. 182 ss., riassuntivo anche degli studi del Chiarini, del Koeppel, del Kuhns e del Robins. Ma non vorrei trascurata una postilla di M. PRAZ, Storia della Letteratura Inglese, 4ª ed., Firenze 1944, p. 27. 3 W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, cit., p. 345. 4 Christine de Pisan, scrivono i più; ma preferiamo, secondo l’uso italiano, rammentare anche nella grafia la bolognese terra d’origine di suo padre, Tommaso da Pizzano. Per una inquadratura monografica valga il saggio di M.-J. Pinet, Parigi 1927; per una informazione storica i riferimenti che ne danno le opere che trattano della fortuna di Dante in Francia, A. FARINELLI, D. e la Francia dall’età media al secolo di Voltaire, Milano 1908; COUNSON, D. en France, cit.; HAUVETTE, D. dans la poésie française de la Renaissance, in Études sur la Divine Comédie, Parigi 1922; W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, cit., pp. 58 ss. 5 Data la preminenza del fatto culturale, sarà necessario cominciare, citando, da M. SCHIFF, La bibliothèque du Marquis de Santillana, Parigi 1905 (in realtà, 1907: devo questa precisazione a L. SORRENTO, Il «Proemio» del marchese di Santillana, introduzione, testo, note critiche e indice storico-letterario, Como e Milano 1946, che alla memoria di Mario Schiff è dedicato); e dal MENENDEZ Y PELAYO, Historia de las ideas estéticas en España, Madrid 1910. Trascuro una più minuta indicazione delle opere generali sulla fortuna di Dante in Spagna, tutte impegnate, ovviamente, sulla figura del marchese: pur sottolineando il debito di riconoscenza ad uno dei più attivi iniziatori, il SANVISENTI, I primi influssi di D., del Petrarca e del Boccaccio sulla letteratura spagnuola, Milano 1902. 6 M. SCHIFF, La première traduction espagnole de la DC, in Homenaje a Menendez y Pelayo, Madrid 1899. 7 CURTIUS, Spaniens kulturelle «Verspätung», pp. 526 ss., XX Excursus della Europ. Lit. u. Lat. Mitt., cit. 8 Ep. XIII, 29. 9 R. CLEMENTS, Marguerite de Navarre and D., in “Italica”, XVIII (1941), W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, cit., pp. 67 ss. 10 C.R. POST, The Sources of Juan de Mena, in “Romanic Review”, 1912. 11 E, ad allargare la menzione ad un nome troppo significativo, e per completare la menzione qui marginale della cultura catalana, cfr. M. CASELLA, I Sommi di Bernart Metge e i primi influssi italiani sulla letteratura catalana, in “Archivum Romanicum”, 1919. 12 La prospettiva per questo incontro fu stabilita nel saggio di K. BURDACH sull’Ackermann aus Böhmen (1917), cfr. in Riforma Rinascimento, Umanesimo: due dissertazioni sui fondamenti della cultura e dell’arte della parola moderne, trad. di D. Cantimori, Firenze 1935. 13 La leggenda di D., a cura di G. Papini, cit., pp. 62 ss.

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W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, cit., p. 346. F. WAGNER, D. in Deutschland, Sein staatlick kirchliches Bild von 1417-1699, in “Deutsches Dante-Jahrbuch”, XVI, n.s., VII (1934). 16 W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, cit., p. 67. 17 L.O. KUHNS, Dante’s Influence on Milton, in “Modern Language Notes”, XII (1897); G. BYINGTON, Milton’s Debt to D., Harvard 1933. 18 E. BOUVY, Voltaire et les polemiques italiennes sur D., in “Revue des Universités du Midi”, 1895, cit., W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, cit., pp. 92 ss. 19 L. DONATI, J.J. Bodmer und die Italienische Literatur, in J.J. BODMER, Denkschrift zum CC. Geburtstag, Zurigo 1900; B. CROCE, Una difesa tedesca di D. nel 1763, in “Critica”, XVIII (1920). 20 Storia critica della poesia inglese, Lugano 1933-35, vol. III, pp. 66 ss.; A. FARINELLI, D. in Spagna, Francia, Inghilterra, Germania, cit., pp. 371 ss. 21 F. OLIVERO, D. e Coleridge, in “Giornale dantesco”, XVI (1908). 22 M. RENZULLI, D. nella letteratura inglese, Firenze 1925; L.O. KUHNS, D. and the English Poets from Chaucer to Tennyson, New York 1904; W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, cit., pp. 243 ss. 23 F.S.J. THACKERAY, D. and Tennyson, in “Temple Bar”, CII (1894); T.H. WARREN, Tennyson and D., in “Monthly Review”, 1904. W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, cit., pp. 303 ss. 24 Seguiamo l’eccellente paragrafo proemiale del Friederich alla trattazione di D. in Germany (cit., 341 ss.) isolando i contributi di G.A. SCARTAZZINI, D. in Germania, Milano 188183, e di E. SULGER-GEBING, Goethe und Dante, in “Studien zur vergleichende Literarurgeschichte”, 1907. 25 «Disappointing» definisce il Friederich l’atteggiamento similare di Herder e di Klopstock. 26 E così nel Prinz Zerbino, oder die Reise nach dem guten Geschmak, il servo Nestore replica a Dante in persona: «Nun, nun, die Zeiten haben sich seitdem gewaltig geändert; damals – ja damals – aber jetzt seid ihr zu schuer zu lesen und ausserdem noch ennüyant». 27 A. FARINELLI, D. e Goethe, Firenze 1900. 28 E. RAIMONDI, Del saggio di Schelling su D., in “Convivium”, 1947; P. PIZZO, La DC nei Giudizi dell’Hegel, di F.Th. Vischer e di Fr. De Sanctis, in Festschrift Louis Gauchot, Aarau 1926. 29 A. ORVIETO, Come V. Hugo parlava di D., in “Marzocco”, 26 febbraio 1902. 30 A. REUMONT, Carlo Witte, in “Archivio Storico Italiano”, 1885, pp. 47 ss. 31 T. KOCH, D. in America, A Historical and Bibliographical Study, in XV Annual Report of the Dante Society, Cambridge, Mass. 1896; E. GAGGIO, Longfellow and D., XXXIX-XCI Ann. Rep. ecc., Cambridge, Mass. 1924; G. BONI, Studi danteschi in America, in “Nuova Antologia”, CCXIII (1921); W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, cit., 542 ss. 32 Cfr. A.R. HALLEY, The Influence of D. on Nineteenth Century English Poets, Cambridge, Mass. 1922, non pubblicata, in W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, cit., p. 238. 33 J.A. SYMONDS, Shelley, Londra 1884; U. HAACKE, Byron und D., Münster 1917. Un singolarissimo capitolo della fortuna di Shelley in Italia si ricollega alla sua lettura di Dante, fra Carducci e De Bosis; ma vedine i riflessi negli studi di F. OLIVERO, in Saggi di lett. inglese, Bari 1913, di C. ZACCHETTI, Shelley e D., Palermo 1922 e di M.L. GIARTOSIO DE COURTEN, P.B. Shelley e l’Italia, Milano 1923. 34 W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, cit., p. 260. 35 M. STICCO, Gli studi danteschi di G. Rossetti, in Pubb. dell’Univ. Catt. del S. Cuore, Milano 1940. 36 A prescindere da una valutazione complessa dell’Ozanam (cfr. G. GOYAU, Parigi 1925 e 1931, e H. GIRARD, Un catholique romantique, F. Ozanam, Parigi 1930) un cenno del problema che qui ci concerne è fatto da H. COCHIN, D. Alighieri et les catholiques français, nel “Correspondant” del 10 settembre 1921; e dello stesso autore un articolo nel volume miscellaneo Le Centenaire de F. Ozanam (1813-1913), Parigi 1913. Per il Lamennais, che nonostante il breve cenno che ne abbiamo fatto non vorremmo considerare in una prospettiva marginale 14 15

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della spiritualità cattolica romantica, cfr. E. TERRADE, D. et Lamennais, in Études comparées sur D. et la DC, Parigi 1904; tutto riconducendo, s’intende, al saggio di Francesco De Sanctis. 37 W. BUTTERWORTH, D.G. Rossetti in Relation to D. Alighieri, in “Papers of the Manchester Literary Club”, XXXI (1912); B.J. MORSE, D.G. Rossetti and D. Alighieri, in “Englische Studien”, LXVIII (1933-34). Per il quadro più completo di quella cultura, e per introdurre una menzione del Ruskin che spiace di dover restringere a un cenno bibliografico, rammentiamo di C.E. NORTON, Ruskin’s Comments on D., with an Introduction, Londra 1903, in “Giornale dantesco”, 1925. 38 J.C. MATHEWS, D. and Major Americans Writers, 1800-1867, in Prize Essay of the Dante Society of America, Cambridge, Mass. 1938, inedito, in W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, cit. p. 535. 39 J.C. MATHEWS, Did Poe read D.?, in “University of Texas Studies in English”, 1938. 40 T.S. ELIOT, D., in The Sacred Wood, Londra 1920 (II ed. 1928). Trad. italiana di L. Anceschi, Milano 1946; ID., D., Londra 1929, trad. italiana di L. Berti, II ed., Modena 1942; M. PRAZ, T.S. Eliot e D., in Machiavelli in Inghilterra e altri saggi, Roma 1942; L. ANCESCHI, Primo tempo estetico di Eliot, pref. alla trad. di The Sacred Wood.

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Fra i poeti nuovi d’Italia

Mediazione della cultura romantica Dall’età romantica comincia altra storia per la lettura di Dante, un’epoca terza: ché la prima era stata della cronaca e delle postille, che documentavano pur tenendosi all’esterno il fatto che la cultura italiana andava assimilando Dante, non il quanto; e la seconda, quasi tutta segreta, era stato l’acquisto non del poeta, ma della civiltà italiana, dove Dante era sconosciuto o inavvertito, non perciò inoperoso, o noto nomine tantum; la terza proclama dai tetti il segreto dell’anime, e s’affretta a scavare sempre più profondamente, nell’illusione di toccare il fondo dell’essere, o nella superbia che non gli sarà mai dato fondo. Storia dunque apertissima: se non che ad ogni parola rivelata s’apre un angoscioso spazio di mistero inaccesso; e quest’episodio della fortuna, apertosi con la serietà, fosse pure ingenua, di un incontro da uomo ad uomo (Alfieri), si chiude in Italia con l’officiatura misteriosofica del simbolismo pascoliano: un’aporia dichiarata. L’esegesi di un poeta è perenne, e dove più l’intellettualismo critico ha creduto di limitare di staccionate e di divieti la zona degli scavi, là la lettura oltrepassa, e l’animo perturbato e commosso rivela più luce che la cronaca certa. Nel limitato cerchio delle sue prime venture, la cronaca poteva illudersi d’essere compiuta, e il catalogo dei lettori trecenteschi esatto. Via via procedendo, toccar di tutti è impossibile. Già stupiva intendere che quando il Settecento intelligente pare svegliarsi dal sonno del Seicento fantasticante i lettori di Dante fossero tanti e così provveduti; ma nell’Ottocento tutti leggono Dante, e ciascuno a suo modo; e poiché il mondo è d’ognuno, come mettere ordine in quella innumerevole pluralità di mondi? Ceti innumerevoli passano nella ricerca senza dare nozione di sé. Certo domani ad una nuova lettura corrisponderà diverso catalogo della fortuna. Ma nella facile condanna del mondo statistico, che poteva esercitarsi con qualche frutto, annoverando i codici trecenteschi e le edizioni cinquecentesche, e che per l’Ottocento più è vasto, più riduce a un enorme mucchio di polvere la schedatura più paziente dei lettori di Dante, unica sopravvive la proposta di coordinare il novero dei lettori secondo il metodo dell’intelligenza: rinfrangendo cioè la prova di ciascuno nella temperie spirituale che il loro coesistere determina. Nessuno di loro sta per sé solo, ma incontrandosi fondano una nozione comune, che degli apporti reciproci, delle risonanze, del processo insomma della celebrazione sociale, che non addiziona gli individui, ma miracolosamente li moltiplica, s’accresce. E il linguaggio che così si determina, a esprimere sia pur solo parzialmente le istanze dell’intelligenza, è pur tanto comprensivo che basti anche ai non noti, per ora: ogni formula è precaria, anche quella che sembrava più comprensiva, quando si tenti la sostanza. 567

Alfieri Anche per la necessità di tener presente la successione cronologica come l’indice dell’occasione più immediata offerta al pensiero, mentre se ne esclude ogni potere di determinazione, si incomincia da Alfieri. Cronologicamente, la prima riflessione e la più appariscente che il Settecento apprestò a Dante è quella della “visione”, è la maniera grande del Varano; ma l’impegno alfieriano, la ricerca della persona, valse a dare all’esercizio stilistico del Varano una nuova forza: lo seppe Monti, e se n’avvide lì per lì, senza riflettervi, ma solo ripetendo l’esercizio, il giovinetto Foscolo. Alfieri sembra inaugurare il rito di un’ammirazione enfatica: Primo è quei che scolpia la infernal chiostra

dice nel sonetto dei «Quattro gran vati» (1786): allusione troppo generica (ma il sonetto è vivo e andante dei ricordi di viaggio e dell’attesa della poesia: i nomi dei vati restano epigrafici), e riassunto troppo rigido di altre postille, fatte nei sonetti degli itinerari: come in quello a Firenze, che suggerirà il motivo di una cadenza dell’inno foscoliano: Qui Michelangiol nacque? e qui il sublime dolce testor degli amorosi detti? Qui il gran poeta che in sì forti rime scolpì d’infemo i pianti maledetti?

Ancora è rigido l’immaginario dialogo sul sepolcro di Dante: O gran padre Alighier, se dal ciel miri me tuo discepol non indegno starmi… – Se in me fidi, il tuo sguardo a che s’abbassa? Va’, tuona, vinci: e se fra’ piè ti vedi costor, senza mirar sovr’essi passa.

Ma già si sforza di ripetere motti danteschi, a dar parola alla teatrale situazione del dialogo; sin che giunge a compromettersi fra i modi petrarcheschi e i modi danteschi in un sonetto di lontananza: sonetto, ancora, di viaggio. Dante, signor d’ogni uom che carmi scriva, e più di me, quant’ho mestier più forza sopra gl’ital cori; la cui scorza, debil quantunque, or fiamma niuna avviva: Dante, non là di Flegetonte in riva, dove pioggia di fuoco in sangue ammorza, né dove altro martire a pianger sforza, null’alma al par di me di pace è priva.

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Strappato io son dal fianco di colei, ch’a ogni nobile impresa impulso e norma, mi aiutava a inalzare i pensieri miei: l’angiol del ciel che sotto umana forma meco venia m’è tolto: invan vorrei dietro a tue dotte piante or muover orma.

La ripetizione dei modi danteschi impaccia l’affettuoso ricordo; e il tema autentico delle Rime, di quel diario lirico che tante volte e con tanta forza di modulazione musicale in un’aura di attesa riesce ad aprire uno spazio di sogno sulla cronaca dei giorni, poesia della memoria e petrarchesco incanto, si rallenta nell’incertezza del raffronto. Dante serve a due scopi, a richiamare gl’Italiani a un più forte sentire e a prestar l’appiglio per una esagerazione metaforica: vuol dire che lontano dalla bella soffre pene d’inferno (una situazione vulgata, anzi popolana); e, per la vicinanza di Dante, Luisa di Stolberg si trasfigura in Beatrice.

Incontri disposti nella Vita Nel conformato e consapevole riassunto del pensiero di sé che Alfieri dispose nella Vita, gl’incontri con Dante sono confessati o collocati anche più superficialmente: serve all’esercizio dello scrivere in versi, offre troppa difficoltà di lettura, e gl’Italiani né lo leggono né lo intenderebbero. Più interessante il modo onde utilizza le rese liriche del diario in rima per contornare di un’effusione melodica la scena sul sepolcro di Ravenna: Di Bologna mi deviai per visitare in Ravenna il sepolcro del Poeta, e un giorno intero vi passai fantasticando, pregando e piangendo1

(che è per vero anche troppo simile all’orchestrazione della visita ad Arquà). Interessantissimo l’indizio che rivela quando racconta di avere trascurato di conoscere Rousseau e di essere ripiegato sui classici italiani: Ancorché io avessi infinita stima del Rousseau più assai per il suo carattere puro ed intero, e per la di lui sublime e indipendente condotta, che non pe’ suoi libri, di cui que’ pochi che avea potuti pur leggere mi avevano piuttosto tediato come figli di affettazione e di stento […] non mi volli piegar mai a quella dubbia presentazione ad un uomo superbo e bisbetico, da cui se mai avessi ricevuta una mezza scortesia glien’avrei restituite dieci […]. Ma invece del Rousseau, intavolai bensì allora una conoscenza per me assai più importante con sei o otto dei primi uomini dell’Italia e del mondo […]. E questi illustri maestri mi accompagnarono poi sempre da allora in poi dappertutto…2

Rinunzia dunque a conoscere Rousseau, uno dei fondatori della nuova sensibilità, il campione autentico e osservato del preromanticismo, per tornare indietro nel mondo della storia; e gli si rivela l’attualità di quel mondo, e la vita 569

immediata degli eroi, e la contiguità di fantasia e di storia, nella esaltazione sovrumana degli affetti. E se il confronto esplicito e consapevole e confessato fra i due parrà scarso, anche quando vuol portargli il tributo dell’ingenua ammirazione e scoprire nella solitudine di lui il senso della sua propria solitudine, più importa rilevare attinenze di stile, quando si sappia scendere nell’esame delle intenzioni e cogliere il ritmo onde si genera il fantasma della poesia alfieriana, qualunque sia la via onde abbia appreso, direttamente nel testo della Commedia, pure amorosamente e disciplinatamente frequentato, o in quell’esperienza del soggiorno toscano, dove i «luminari della lingua nostra», e specialmente Dante e Machiavelli, erano come cristallizzati in forme di costume e di linguaggio. Riflettendo, non sa rendersene conto; ma vi scopre il canone della concretezza; ma il forte immaginare di Dante diventa il suo forte immaginare: una specie di possesso energico della cosa figurata, l’evidenza del tratto, la dimensione della figura. E se la gamma di Dante è assai più ricca, se l’evidenza di Alfieri è piuttosto statuaria e scenica (e di una scena che sembra respingere la seduzione del vario, del pittoresco, del canoro; mentre Dante è sempre pronto ad accorrere ai richiami della fantasia; nota tuttavia quanto “sentimento” musicalmente sottinteso esali da quell’impavido fantasticare: le tragedie alfieriane vivono con ben altra intensità nella memoria della sua parola), i suoi personaggi sono gigantesche ed evidentissime marionette, ma risolute nel gesto, pronte a stamparsi in un’immaginazione robusta: possono dunque ricordare il canone fondamentale della poetica di Dante, la concretezza appunto. E quel che non sapeva leggervi, pur nell’atto di riconoscergli un magistero poetico universale, «signor d’ogni uom che carmi scriva», apprendeva dalla cultura popolare, dove la concretezza era un modo acquisito, connaturato da secoli e pronto a riprendere una parte notevole, quando modi e forme popolaresche fossero di nuovo osservati con simpatia e ripresi dai letterati. Alfieri, infine, non poteva certo rinunziare al magistero del suo Petrarca, e animava quelle gigantesche figure delle sue tragedie, come pur l’eroica prosopopea di sé, con i riecheggiamenti del patetismo petrarchesco, con quel delicato scender nel segreto dell’anime, con le trasfigurazioni e i trasalimenti del sentimento. Tuttavia la seduzione petrarchesca, di una poetica intesa come corpus separatum, è oltrepassata e vinta per la diretta efficacia di Dante. La letteratura come vita, che è programma romantico, non cerca più nemmeno la mediazione dell’eloquenza: o questa è il pretesto minore.

La maniera grande Il sopravvenire di Monti sopra l’Alfieri, anche nella storia della fortuna di Dante, significò aprir la crisi fra la tradizione formalistica, che presupponeva di poter celebrare la verità dall’esterno, e la poetica della persona, benché Alfieri fosse tutt’altro che consapevole delle conseguenze cui dovevano giungere, mettendosi sul suo cammino, Foscolo e Manzoni: anzi, propenso, nell’incertezza delle sue giustificazioni teoriche, ad accontentarsi di scegliere alle lettere altro scopo e di guidarle a un rinnovamento politico. Dante è accettato, ormai, come 570

antesignano e custode di ogni grandezza; e persino Saverio Bettinelli aveva fatto oratoria ed onorevole ammenda alle sue lettere virgiliane dedicando un sonetto Al cardinal Valenti Gonzaga pel restaurato sepolcro di Dante: tra ’l cener muto del toscano Omero, cerca quell’immortal sua cetra eburna. Dal barbarico stil, dal suon discorde di concetti stranier, con essa in mano vo’ il patrio revocar genio incostante o almen giurar su quelle sacre corde contro il gallo e german genio profano eterna fede al buon Petrarca e a Dante.

Correva l’anno 1780, le illusioni politiche di una pacificazione europea sul piano di una intellettualistica e illuministica concordia stavano per fragorosamente crollare, e quel che sembrava possibile nel 1757, l’anno delle Lettere Virgiliane, era assurdo sette anni dopo la soppressione dell’Ordine. Bettinelli è tutto nella pubblicistica letteraria, e comprenderlo in una prospettiva politica è doveroso; si ritrae su posizioni di tradizionalismo letterario, e il sonetto lo dice bene; ma si ritrae o avanza? Che Alfieri e il sopravveniente Romanticismo si trovassero d’accordo con lui, può farci inclinare alla seconda ipotesi: ma noi crediamo davvero alle magnifiche sorti e progressive della letteratura. Intanto, occorre osservare due cose: che attraverso la nuova investitura concessa a Dante dalla cultura ufficiale, e superato ormai il dissidio secolare fra Dante e Petrarca, mentre si giurava fede ad entrambi, Dante cessa di prestar la sua terzina quasi soltanto alle divagazioni bernesche o satiriche dell’accademismo comico, e diventa prototipo e segno d’ogni dignità e grandezza. Qui si rivela il senso della poetica del Varano, che del Monti era stato l’autentico maestro, e il valore della custodia parallela di tradizione classica e di tradizione dantesca fatta negli Stati delle legazioni. Quella del Varano è menzione che ritorna con una certa insistenza nella storia della letteratura settecentesca; e se egli non risolve la sua poetica con quel definitivo appello alla persona che è dei Romantici, sollecita l’attenzione da più parti. È uno spirito sinceramente religioso; ma quando chiedi alla parola la testimonianza di un fatto che si documenta in tanti atti, il suo segreto ti sfugge; e anche per questo l’accento della sua religiosità par divagare in ampie volute, e cercar distendendosi un vago accordo sentimentale che, al di fuori di quegli impegni positivi e dogmatici ch’egli accettava in ottima fede, poteva incontrarsi con il pietismo degli antiluterani o con le generiche religiose attese del Settecento: con l’animo con cui il protestantesimo ormai costumistico, dopo che politico, dei tedeschi e degli inglesi accolse Bach, togliendogli la tragedia, e ascoltò Händel, togliendogli la concretezza; con l’animo con cui in Europa si lesse Klopstock (e qui rammenta che a una nozione adeguata della fortuna di Dante arrivi solo tenendo conto di questo ambiente di risonanza europeo, dove il pietismo fu un fatto preminente, certo non senza infiltrazioni salesiane e alfonsine). A suo modo ha un’intenzione politica: tante grandezze ne celebra; ma giunte al loro declino, cantate nell’ombra della morte, osannate nel 571

fasto con l’aggiunta di un memento: quel modo della religiosità cappuccina, insomma, delle catacombe asburgiche; quello che noi ricordiamo, ma in un’aura anche più di commedia che di novella, quando padre Cristoforo, in visita a Don Rodrigo, «il predicatore in casa non l’hanno che i principi», gli alza in faccia il teschio che suggella la corona; quello della prima delle sue Visioni, a monsignor Bonaventura Barberini, prima generale dell’ordine cappuccino e poi arcivescovo di Ferrara (ma è vero che di queste intenzioni ascetico-politiche nelle storie letterarie restò solo la notizia della sua discendenza dai signori di Camerino). E infine, nella poetica, mentre Klopstock, che in qualche tratto gli somiglia (ma risolveva tutto in quel suo cristocentrismo insieme drammatico e apocalittico), si afferma nell’attualità della tragedia, egli divaga nel luminoso teatro, e alla lunga vuoto, delle apparizioni spettrali. La fortuna che gli sopravvenne, in quel preludio melodrammatico e uggioso che fu il gusto settecentesco dei notturni e dei cimiteri, restò a far prova del suo limite, ché si dissolse nel consenso, nulla restando se non quel che aveva offerto: con il suo segreto sofferto, fece un passo nell’ombra segreta, dove la storia non sa e non lo rincorre. Aggiungi la custodia parallela, come si diceva or ora, della tradizione classica e della tradizione dantesca negli Stati delle legazioni. Di una tradizione romagnola di studi danteschi, fra Ravenna e le letture dantesche, a Bologna, di Benvenuto da Imola, s’è toccato; ma ora, superato anche Iacopo Mazzoni da Cesena, si incomincia a introdurre quel vagheggiamento più appassionato, quel cercare l’orme e il fantasma di Dante nelle trasparenze dell’aria più che nell’ombre, che diventerà familiare intorno al Pascoli. E per la tradizione classica, di cui non occorre qui offrire la documentazione, valga l’evidenza a far comprendere il tributo che diede alla nuova serietà con cui Dante fu ricompreso: quella terra romagnola e padana che si proiettava in triangolo da Bologna verso il mare, tra il Po, il monte, la marina e il Reno, traduceva provincialmente le indicazioni romane, di cui serbava qualcosa più che il nome impicciolito, con caute ripetizioni provinciali ripetendo il gusto e le forme della capitale; il barocco, meno greve di marmi che caldo e familiare di mattoni, vi si richiamava più facilmente alla formula classica, con variazioni immaginose e paesane, tra delicatamente liriche e novellistiche; vi parlavano latino le epigrafi sopra gli archi di trionfo e le decorazioni litografiche dei sonetti per nozze e per monacazioni, i cardinali legati eran portati dal costume stesso provinciale a imitare i tratti del governo pontificio, e un fermento più ricco del sangue, una sensualità di pianura estuosa, rigata da lenti fiumi, ora accendeva ora velava gl’ingegni. Si sognava grande, e facilmente si sognava vuoto: Varano stette a fantasticare in disparte; Monti cominciò dove lui finiva; ma, tornando a Roma, trovò ch’era possibile dar ben altro significato estetico e storico al classicismo. Ne uscì, di Dante, una lettura enfatica e barocca.

Monti La parabola del Monti, uomo di cuore e di fortuna, si svolse ad abbracciare ben altro spazio che il Varano; e mutò via via col mutar di quei tempi grandi, dalle vicende dell’enciclopedismo arcadico passando al neoclassicismo dell’età napo572

leonica, per conchiudersi nel tradizionalismo della custodia accademica delle forme e della letteratura.3 Incominciò con una baldanza fantastica, con una bravura sanguigna e cordiale quanto era meditabonda ed estenuata la maniera del maestro: cominciò risorgendo; così che la Visione d’Ezechiello, illustrazione in verso delle prediche di Francesco Giannetti nella cattedrale di Ferrara, 1776, diventò la metafora della prima scoperta: Tacque, e tosto un bisbiglio, un brulichio ed un cozzar di cranii e di mascelle e di logore tibie allor s’udio. Già tu le vedi frettolose e snelle ricercarsi a vicenda, e insiem legarne le congiunture e vincolarsi in quelle. Vedi su l’ossa risalir la carne…

In tempi in cui l’Alfieri, di qualche anno più vecchio, lavorava con tanta fatica a cercar se stesso nell’occasione della poesia, dimostrava che frutto si poteva davvero trarre dal patrimonio della letteratura, posseduto in tutta la sua estensione e adoperato a dovere. Qui c’è di tutto, naturalmente: eloquenza descrittiva ed eloquenza drammatica; medievalismo e barocco; il fasto della cadenza eroica e quella irrisione minuta che è nelle pitture macabre di costume, la moda pompeiana e settecentesca della mascherata degli scheletri: l’unità è nella franca baldanza con cui l’autor giovane dimostra di saper rendere attuali persino quelle che Alfieri, nel trattato Del Principe e delle Lettere, chiamava bizzarrie e incoerenze. E i quattro sonetti Sulla Morte di Giuda, dodici anni dopo, a Roma, il Venerdì Santo in Arcadia (perché questi dati di cronaca hanno il loro peso, in questa cronaca dell’aprirsi del costume all’eredità dantesca), esempio di una descrittività che diventa narrazione, e di una tecnica per cui il sonetto si presta ad essere lassa di una canzone, indicano che l’abilità del poeta nuovo si esercita soprattutto nel far consuonare senza sforzo all’intonazione generale della poesia la reminiscenza: Uno strepito intanto si sentia, che Dite introna in suon profondo e rotto: era Gesù che in suo poter condotto d’Averno i regni a debellar venia. Il bieco peccator per quella via lo scontrò, lo guatò senza far motto…

Quello strepito è richiamato alla memoria dal «fracasso d’un suon, pien di spavento» per cui tremano ambedue le sponde della palude stigia, quando scende alla città di Dite il Messo da Cielo (ma «fracasso» è parola vulgata che, ripetuta integralmente, parrebbe troppo plebea; la nuova lezione abitua a ricuperarla nella sua evidenza originaria: «strepito» è, insomma, una glossa che aiuta a ritrovare la lezione esatta «fracasso» e a non scandalizzarsene più); ed altrettanto evidente è 573

che Giuda rammenta, così bieco, gli occhi torti di Conte Ugolino: il quale appunto guardava in viso i suoi figliuoli, nella tremenda vigilia, senza far motto. Tanto occorreva per rendere al nuovo gusto di nuovo familiare la maniera di Dante: e Monti giovò con le sue imitazioni (che è parola da prendere in senso assai lato), molto più che tante incerte letture stilistiche intorno alle Difese di Dante di Bianchini e di Gaspare Gozzi. Abbiamo già visto anche Bettinelli accoppiare Dante ad Omero; e in questa sua opera esegetica (ma non diremmo più, col Croce, poesia della letteratura: è proprio letteratura su poesia) si preoccupò appunto, dopo aver parafrasato Dante nelle due cantiche, di tradurre Omero, e di appaiare così la maniera grande barocca. Né occorreva meno di quella sua agilissima immaginazione, favorita persino dalla mancanza di una energica vita morale, per potersi adattare tanto pieghevolmente e con così vivace agevolezza a testi tanto diversi e remoti, ormai, dal gusto dei più, che per giungerci dovevano pure essere disposti e preparati dall’esterno. Nota, ancora, che, senza questa preparazione disposta dalle imitazioni montiane, le letture dei Romantici non sarebbero state possibili: occorreva, infatti, che prima se ne impadronisse il gusto, in un Paese come il nostro di letteratura calata ormai tutta quanta nel costume. Cantiche in morte sopravvengono, la Bassvilliana e la Mascheroniana, come tante del Varano, e predisposte a solennizzare qualche grande avvenimento, che tutti riconoscono debba essere ripensato da ciascuno con adeguata severità di tono ed eccellenza di forme. Quel suo lavorar dall’esterno, sempre cangiando stile, quel suo poetar franco e geniale e impaziente, e la facilità entusiasta del suo commuoversi e accendersi e fantasticare, tengono luogo di ogni più profonda e sofferta meditazione: per contro, nessuno obbedisce più fiduciosamente di lui ai richiami dell’immaginazione; e nessuno è più docile di lui, via via col tempo mutando, dall’enciclopedismo arcade all’Illuminismo, dai fremiti rivoluzionari al conformismo neoclassico della letteratura napoleonica: e la contiguità dell’occasione, il tono apocalittico delle stragi e delle guerre della Rivoluzione, favorivano l’incontro con Dante e la sincerità della commozione, non solo, ma della fiducia nei rimedi che a tanti mali poteva apprestare l’Europa cristiana, ripiegando sulle difese della sua religiosità tradizionale. Gli avvenimenti lo distrassero, come distrassero il costume politico italiano, osannante sull’orme del vittorioso Buonaparte, da quel ritorno alfieriano che riscopriva quel che aveva bene inteso nelle tragedie, che la libertà è moralità e quindi religiosità; e anche Dante fu alla fine messo in disparte, dopo il compromesso della Mascheroniana; ma se non intese dove portava la strada che aveva percorso un tratto (alla reviviscenza cattolica del Romanticismo!), non verrà in mente a nessuno di considerare che fosse cosa dappoco quel suo scendere a giudicare, facendosi forza con gli esempi di Dante e con la pubblicistica antirivoluzionaria, degli avvenimenti che, come estensione e numero, apparivano immensi.

Intenzioni dantesche delle cantiche Ogni lettura della Bassvilliana è necessario condurla con l’orecchio attento alle reminiscenze: deve immaginarla declamata davanti a un pubblico di intenditori, che gustano e afferrano le allusioni, e intendono l’abilissimo giuoco delle imi574

tazioni e delle variazioni: poesia parlata, anzi che poesia letta, e ancora lontana dalla solitudine fantasticante del Leopardi e della solitudine religiosa del Manzoni. Gli uditori della cantica del Monti, fin dai primi versi della declamazione, Già vinta dell’inferno era la pugna e lo spirito d’abisso si partia vota stringendo la terribil ugna

richiamavano alla memoria passi ben noti: la pugna d’Inferno che si combatte sul cadavere era quella stessa combattuta nella Commedia sui feltreschi morti, su Guido e su Buonconte. E lo spirito d’abisso (forse Milton e Klopstock, questa volta, nelle intenzioni solenni, memori di un certo qual titanismo) prima si ingigantisce (ma è vuota immagine) nella similitudine del leone, poi ritorna a Dante, «serpentelli e ceraste avean per crine», benché l’immaginazione del poeta sia svagata e si distragga ad ascoltare il suono dei serpenti sul demoniaco capo, quasi contrasto di suoni con il ruggito leonino: svago e musicale diletto, insomma. L’impegno della grandezza e della magniloquenza, il trionfo della maniera grande, che non poteva mai innalzarsi tanto alta come quando era preso Dante a modello, ottiene risultati di primo ordine, pur nei limiti del suo essere solo e sempre scenografia poetica, suggestione di immagini teatrali, megalografia la cui misura è offerta dall’importanza politica ed apologetica dell’argomento. Alla lettura, altre attinenze si discoprono; e solo introduzione alla lettura vorrebbe essere il richiamare la Bellezza dell’Universo a proposito della Mascheroniana: il tradizionalismo cattolico della Bassvilliana cede ad un deismo abbastanza conciliativo, così come, nel carme encomiastico della giovinezza, un vago panteismo estetico poteva bastare a quelle nozze del patriziato pontificio, Falconieri-Braschi; senonché altro era il clima della Babilonia eterna, altro quello della Babilonia minima; e a paragone di quell’apologia poetica della dittatura di Napoleone e dell’aristocrazia della cultura, saranno più dantesche e apocalittiche le vendette che si prenderà del «vulgo dotto» Ugo Foscolo, dai Sepolcri alla Hypercalypsis. In questa seconda cantica la maniera grande decade, o meglio lascia in disparte l’accensione e la coloritura barocca (e preromantica) per comporre le grandi figure in un decoro più oratorio di gesto e di allocuzione. L’eredità dantesca pareva più vivacemente rinascere all’incontro di cultura e di tradizione popolare; e se la concretezza dell’immagine non è mai pregio dell’arte montiana, le sostituiva l’arte della persuasione e la facondia; ma ormai gli è vietato (per un divieto esterno, ben inteso, politico) ogni popolarismo, sia esso pontificio, sia rivoluzionario: i tempi napoleonici, che dell’apporto della vita popolare si servono soprattutto per la guerra, lasciano che la propaganda sia affidata a una pubblicistica molto solenne, molto consapevole dei suoi meriti, molto decorosa. In tali casi, lo stile classico è di prammatica, come si vede ad ogni tempo e luogo, d’ogni dittatura. Gli incontri e i colloqui avvengono fra personaggi illustri, scienziati della natura, intorno al moralista Parini, che doveva introdurre la deprecazione degli eccessi rivoluzionari, in nome di quella decorosa moralità di cui la letteratura si faceva custode; e negli spazi interplanetari: con 575

il proposito di sostituire all’Inferno e al Purgatorio, già utili alla Bassvilliana, un Paradiso, dove un certo didascalismo e la poesia della scienza potevano officiare anche in cotale accademia urania delle scienze, lettere ed arti; con rievocazioni d’altri illustri trapassati: quasi ragguagli di Parnaso in tono eroico. Si trattava di fondar la nuova intelligenza italiana su valori letterari, intorno ad una intesa moralistica e largamente politica, dove tutti potessero convenire: questo il compito della nuova letteratura; dove una parte singolarissima era riserbata a Dante (non più un incontro, dunque: una parte), pur togliendone l’accento e l’urgenza della passione. Il Monti si trovava ancora una volta d’accordo con una tradizione: non sorprenda dunque la rimpannucciatura letteraria delle ire dantesche; ebbe del resto un compito che si estese ben al di là dei quindici anni del dominio di Bonaparte, dopo che la fatale vittoria di Marengo, per un colpo di fortuna cui s’inchinò primo il popolo che s’era sollevato alla seconda coalizione, gli ebbe consegnata l’Italia.

Foscolo L’esegesi foscoliana di Dante accompagna il trentennio della sua attività letteraria e non è storia che maturi da sé le sue vicende: ad ogni fase c’è il capitolo della lettura dantesca, colorito secondo le suggestioni del momento, arricchito di una dottrina sempre più comprensiva ed esperta, ed efficace in un ambiente culturale sempre più vasto. Ma tale è la storia del suo metodo critico: obbedisce alle scoperte della sua poetica; si organizza secondo un sempre più complesso metodo di osservazioni sistematiche; e si rende efficace in una sfera culturale sempre più consapevolmente organizzata.4 Il primo omaggio non poteva non essere in versi, secondo una poetica arcade che aveva tradotto in programma sociale l’energia stilistica del Parini: l’ultimo, in Inghilterra, non poteva ch’essere intriso di una polemica religiosa che volonterosamente fa sua, come ogni altra esperienza politica (sprovvisto com’è di critica di fronte al fatto politico, disarmato contro alla tirannia della malizia quotidiana), trattatisticamente impostato e pure svolto a frammenti. La poesia giovanile a Dante (1795) fa dunque prova di quella sua abilità d’arcade giovinetto prodigio, parafrastica: O mio Poeta, o altissimo signor del sommo canto, che con sublime cetera per la casa del pianto girasti e fra la gente che o gioisce o si pente, tu vivi eterno,

dove impiega le scoperte poetiche dell’ultima generazione, la maniera grande che Parini aveva chiamato ad un compito di rinnovamento morale, ad una esaltazione imaginifica ed oratoria del Poeta, eletto principe della poetica italiana. La poetica d’Arcadia vi fa la prova di dir tutto, come il melodramma, mantenen576

dosi nei confini di una tradizione, ma ne esce distrutta, e il linguaggio proprio di Dante si dichiara irrepetibile e originale (fu esperienza decisiva della formulazione dell’assioma estetico dell’identità di contenuto e di forma); ma è segnata la sentenza del formalismo accademico: Tuonò tua voce: un fulmine fu per chi ti dipinse testor stentato oscuro di carmi e stile impuro… Dicesti: ed ecco stridono in suon ringhiante e forte gli aspri tartarei cardini: della cappa di morte infino al piè vestute, ecco l’ombre perdute. Io già le ascolto: echeggiano per l’aer senza stelle batter di man, bestemmie, orribili favelle, voci alte e fioche, accenti d’ira in dolor furenti.

Da quella prima postilla, in cui «un giovane / cui l’estro al cielo innalza» consegna se stesso al Vate, e con se stesso l’umanità «muta di luce eterea, / alle peccata in grembo» e avvoltolata «fra cupo orror», gl’incontri con Dante mantengono spesso uno stesso modulo, benché condotti con sì diversa sapienza d’introspezione psicologica e d’individuazione critica. Naturalmente, se il primo momento della dantologia foscoliana obbedisce al primo paragrafo della sua critica, obbedienza alla sua propria scoperta poetica, il mondo dei sonetti rifletterà ben altra animazione sul ritratto di Dante. Ma sottrattosi alle acclamazioni ingenue della sua fede giovanile, e quel tono di predica deprecatrice degli eccessi rivoluzionari che ha l’ode a Dante, Foscolo non riesce a vedere dove si eserciti tuttora l’efficacia della ricuperata poetica dantesca. Il limite della sua esegesi è fissato in una postilla della Chioma di Berenice: Ché ove cotal religione fosse poetica, chi potea meglio maneggiarla di quell’ingegno sovrano, il quale, dopo aver dipinta tutta la commedia de’ mortali, dove la religione prende qualità dalle azioni ed opinioni volgari, non sì tosto arriva allo spirituale, ch’ei s’inviluppa in tenebre ed in sofismi? i quali, se mancassero del nerbo dello stile e della ricchezza della lingua, e se non fossero interrotti dalle storie dei tempi, sconforterebbero per se stessi gli uomini più studiosi.5

E a questo limite allude Mazzini, quando allegorizza: «Solcata l’anima dal materialismo e dallo scetticismo in ch’egli visse, ei non potea costituirsi sacerdote del Dio».6 Nel sonetto a Firenze il breve volo del verso che scende a toccare questa realtà storica, e nonché non darle senso perenne ed attualità, se ne ritrae 577

con un sorriso beato, dice come da quell’impegno storico cui si ridurrà via via, ripensandosi e riguadagnandosi alla storia dopo i Sepolcri e nelle lezioni pavesi, e da ogni impegno di una intelligenza trascendentale di Dante egli si scosti, con una felicità colma di movimento e di musica: Già del tuo ponte all’onda impaurita il papale furore e il ghibellino mescean gran sangue, ove oggi al pellegrino del fero vate la magion si addita. Per me cara felice inclita riva ove sovente i piè leggiadri mosse colei che, vera al portamento Diva, in me volgea sue luci beate…

Inquadratura cronistica di una “stampa dell’Ottocento” nella luce ondante di una passeggiata sul Lungarno; ma una lettura che sogguardi in trasparenza avverte il senso intimo e profondo, che il gioco della musica e del verso pare eludere, e non gli riesce, di quel doppiaggio di Alfieri sopra Dante, «ove oggi al pellegrino / del fero vate la magion si addita»: avverte che la letizia amorosa non è che un attimo sospeso, una felicità idillica presto perduta e disperatamente rimpianta: «Meritatamente, però ch’io potei / abbandonarti, or grido a le frementi / onde che batton l’Alpi […]». Presente che altra serietà di vita e di consapevolezza e di partecipazione al tempo e alla storia l’attende. Nell’inno a Firenze dei Sepolcri quegli stessi temi, intrecciati con tanta rapida grazia nel sonetto a Firenze, si distaccano: la lode di Firenze, il canto di quella luce e di quell’aria, s’innalza nel nitore allucinato della notte autunnale, «lieta de l’aer tuo veste la luna, di luce limpidissima i tuoi colli, per vendemmia festanti»; Alfieri era morto, il ricordo del cartello che ne vietava la soglia non era più pretesto di ciarle alle passeggiate, fantasma, irato ai patri numi errava muto ov’Arno è più deserto; e Dante diventa antesignano della schiera eroica, introdotta dopo che della storia si è offerta un’intelligenza tragica, ben diversa dalla condiscendenza del sonetto; «già» diceva il sonetto: ma il carme: poi che le mal vietate Alpi e l’alterna onnipotenza delle umane sorti armi e sostanze t’invadeano ed are e patria e, tranne la memoria, tutto.

Il protagonista Alfieri passa rapido e solo, poiché s’è allontanato il paesaggio nella notte lunare; ma fra l’idillio del paesaggio e la tragedia dell’uomo solo, la mediazione è ancora offerta da Dante, capostipite della schiera degli eroi. Un idillio, anche lunare, non può non essere affettuoso: e l’affetto attenua «ira» e «fuggiasco», le parole su cui cade l’accento nel ritratto dantesco, dove già si annunziano due temi su cui Foscolo avrà tanto da meditare per l’avvenire, la notizia boccaccesca, sui sette canti, con la conseguente cronaca della composizione del poema, e il ghibellinismo del poeta. 578

Documenti dell’incontro Una tessitura documentaria sui suoi studi danteschi osserverà un continuo alternarsi di immagini poetiche sospese in frammenti di versi e di formule storiche intessute in un sistema di notizie; e quel che non si legge, si sente:7 nella sua ricerca avverti che la presenza di Dante è continua, e che egli continuamente vi riflette, e che conduce sia la verità dell’immagine poetica, sia la verità della nozione storica a definir quella memoria. Infatti, se comincia, nell’Ortis, con un’officiatura enfatica, «Omero, Dante e Shakespeare…», finirà col Discorso, riorganizzando la nuova filologia dantesca. Il riecheggiamento poetico, anzi (dacché dietro il decorso del gesto, all’incontro, c’è un’ansia segreta, quel suo sentirsi vivo del mondo dei morti e quel chiedere ai morti il segreto di sé vivo, e insomma il gran tema foscoliano della morte immortale, e la fondazione di una nuova storiografia concepita in modo che, cristianamente e apocalitticamente, la morte sia resurrezione: questa nuova vicenda parallela a quella del Greco; questo viaggio dall’Oriente bizantino e veneziano all’Occidente, toccata la patria veneta…), in una parola l’incontro del poeta col Poeta, espresso nel verso, chiude e suggella quello che poi nella prosa del saggio ridistende. Prosa di romanzo, la sua saggistica, così ricca e varia di modulazioni: il Foscolo romanziere ha tentato gli estremi della commedia di costume e del dramma di spettri, non senza efficacia reciproca sulla e dalla grande narrativa generalmente europea e specificamente inglese del primo Ottocento; ma nella sua saggistica psicologica e storica trova un nuovo equilibrio alle diverse attenzioni. La riesposizione critica, mentre placa e sazia quel suo impulso all’epica, quel suo desiderio d’avventura illimite, si raccoglie in quei due termini opposti, di cui finalmente intravvede la correlazione, la reciproca efficacia: la storia come tragedia, anzi come rito, per i grandi incontri in un Limbo di immortali attese; e la storia come persuasione di sensi generosi ad una degna vita del costume. Così la sua opera di critico letterario conosce il polo della tragedia liturgica e conosce il polo della commedia di costume, la teoria dantesca degli spiriti magni e il moralismo pariniano, quasi isolando in una osservanza puntuale la sua grande disponibilità di narratore inespresso. In questa prospettiva è da osservare la deduzione frammentaria ch’egli trae dalle immagini dantesche scoperte nei versi: quasi che tali immagini fossero come quel materiale letterario che accumulava e poi vanamente disponeva in plichi suggellati ed aperti, e consegnava al Pellico, destinato ad essere altro che l’esecutore testamentario della sua fuga politica. «Tu non sei proscritto, né i tuoi beni sono confiscati come al tuo maestro Alighieri», gli scriveva la Donna Gentile,8 quando più era inteso a decorar dantescamente il suo esilio; ma questa, escludendo la discussione dei limiti foscoliani fra la persuasione e la retorica, se mai sia possibile ricavarne un nesso d’intelligenza, era ed è ancor prova della nuova attualità di Dante: che è chiamato a introdurre il grave tema dell’esilio risorgimentale con la lettera all’amico fiorentino «novellamente scoperta», come dirà nel Parallelo fra Dante e il Petrarca, e l’attesa della patria bella e perduta.9 Quegli esuli italiani nell’Europa del primo Ottocento sono essi ad introdurre il gran tema della religiosità attuale della letteratura, essi 579

che la dispongono, a ritroso di ogni raccomandazione goethiana, sulla strada del revival spiritualistico, e chiamano intorno alla parola, liturgizzata, il giudizio di Dio, essi che ritrovando in esilio il segreto di una vita religiosa spesso perduta in patria fra le insidie gaie e funeste del costume, vivono la vita esule come Scalvini e come Mazzini, e preparano la reviviscenza religiosa del romanzo e del dramma, da Dostoevskji a Ibsen. E il loro centro ideale (cronistico e tecnico, di costante riferimento storico e di costante apprendimento stilistico) è Pellico: il discepolo di Foscolo, appunto. A questo episodio della vita dell’Ottocento, che non si organizza in un genere letterario, e che pur rimane operoso nella letteratura, Dante è chiamato quasi santo patrono in una comunità artigiana di fedeli operosi. Naturalmente, le deduzioni potevano essere discorsi; e dopo aver tradotta la lettera, Foscolo riapriva il distacco fra il destino dei due poeti, Dante e Petrarca, in cui pur risentiva se stesso: I suoi concittadini ne perseguitarono fin la memoria: morto, fu scomunicato dal papa, e si minacciò di disseppellirne il cadavere, per abbruciarlo e disperderne le ceneri al vento. Il Petrarca chiuse i suoi dì in concetto di santo, pel quale il Cielo operava miracoli; e il Senato di Venezia fece una lettera contro chi ne trafugasse le ossa, vendendole come reliquie.11

Cose men vere, queste; ma dalla cronaca all’intima storia del saggista, che le risente in sé e le trasfigura, efficaci. Il quarto dei saggi sul Petrarca, che incomincia con l’epigrafe «l’un disposto a patire e l’altro a fare», e che in un’erma bifronte rispecchia quell’endiadi che Foscolo risentiva in sé, dolorosamente contraddittorio, è il riassunto consapevole di questo personalismo della nuova critica; ed apre la scoperta della persona a paragone della persona, rivelazione, anzi apocalissi del segreto di un poeta attraverso la confessione sua propria dell’esegeta: come conchiude l’ipotesi alfieristica, che a comprendere Dante occorresse uomo di eguale o simile tempra: lui stesso. Né per l’avvenire l’esegesi dantesca potrà dimenticarsene: Tommaseo, De Sanctis, Pascoli, sono sulla linea, nella direzione dell’itinerario foscoliano in Dantem: anche T.S. Eliot. Ma se ognuno di loro scoprirà Dante, riecheggiandolo attraverso i modi e gli stilemi della propria ars dictaminis dalla novellistica desanctisiana alla misteriosofia pascoliana, Foscolo decide di sé all’incontro, presenta a quella Persona tutta la sua vita d’uomo. Tre postille, a segnar la traccia del cammino percorso nel IV dei Saggi.

Postille al Parallelo Il potere delle immagini sopra la mente procede in poesia secondo la progressione stessa della natura; – guadagnano prima i sensi – poi il cuore – quindi colpiscono l’immaginazione – e all’ultimo stampansi nella memoria, evocando l’opera della ragione, che consiste, più ch’altro, nell’esame e nel confronto delle nostre sensazioni […]. Non è dato a’ poeti di aspirare al merito di originalità, se non col mezzo d’immagini. Le immagini del

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Petrarca paiono squisitamente finite da pennello delicatissimo: allettano l’occhio più col colorito che con le forme. Quelle di Dante sono ardite e prominenti figure di un alto rilievo, che ti sembra di poter quasi toccare, e cui l’immaginazione supplisce prontamente quelle parti che si nascondono alla vista.11

Qui è in giuoco l’emblematica vichiana, guidata da una critica che dell’immagine fa centro per una esplorazione del mondo morale individuale: «quelle di Dante, con tutta l’affliggente profondità loro, hanno il merito di guidarci a idee, cui non saremmo per noi stessi arrivati».12 Il Petrarca ne mostra ogni cosa pel mezzo di una predominante passione, ne abitua a cedere a quelle propensioni che, tenendo il cuore in perpetua inquietudine, fiaccano il vigore dell’intelletto, – ne seduce a morbida condiscendenza, alla sensibilità, e ne ritrae dalla vita attiva. Dante, come tutti i poeti primitivi, è lo storico de’ costumi del suo secolo, il profeta della sua patria e il pittore dell’uman genere; ed eccitando tutte le facoltà dell’anima, le chiama a riflettere sopra tutte le vicissitudini dell’universo […]. Trovai, dic’egli nella lettera a Can della Scala, l’esempio del mio Inferno nella terra che abitiamo…13

Ma qui è già l’approdo storicistico di quella emblematica vichiana; e quel compromesso, avviato da uno della cultura veronese, osservatissima da Foscolo nei suoi studi danteschi, Francesco Bianchini, l’Istoria universale provata con documenti e figurata con simboli dagli antichi. E l’ultima postilla è già di storia civile nella letteraria, come era per dire il dantologo prosecutor del Foscolo, maestro avverso, Tommaseo: Ma dacché a le ultime rivoluzioni, suscitatrici d’altre passioni, altro sistema di educazione rispondeva, la schiera de’ petrarchisti fu presto veduta assottigliarsi, mentre i seguaci di Dante pubblicavano poemi più atti a far sorgere lo spirito pubblico in Italia. Dante applicò la poesia alle vicende de’ tempi suoi, quando la libertà faceva l’estremo di sua possa contro la tirannide; e scesa nel sepolcro con gli ultimi eroi del medio evo. Il Petrarca visse fra coloro che prepararono la ingloriosa eredità del servaggio alle prossime quindici generazioni.14

Metodo esegetico Criticamente, questa illazione politica non è giustificata: come potrebbe esserlo storicamente? Ma la politica, e quindi la storia in atto, si serve anche delle bugie (nell’atto, tuttavia, condannandosi) o almeno dei compromessi (poi rimbalza al polo opposto, e si redime contraddicendosi). Qui s’avvalora quel generoso arbitrio che, dopo aver letto Petrarca attraverso gli Arcadi, ipostatizza il non-Petrarca e lo chiama Dante; ma Foscolo dall’arbitrio si salva in quanto verifica in sé quella coincidentia oppositorum: ha or ora ascoltate in sé, egualmente vivo, disposto a patire e disposto a fare, le due voci diverse; passata la fase polemica, il parallelo di Dante e di Petrarca tornerà ad essere quello che deve essere, una reciproca 581

esegesi, un chiamare il poeta nel poeta, se nella pratica, come diceva l’Antico del vasaio, il poeta è contro il poeta. Il saggio è, inoltre, la prima prova del lungo cammino di una cultura letteraria intesa alla scoperta dei valori individuali, e poi nella società dispersi, finché s’inverano in un uomo nuovo: Foscolo insegna per la prima volta che il critico può ripercorrere l’esperienza del poeta solo risoffrendola in sé. Ma l’equilibrio delicato e audace del saggio petrarchesco non regge all’urgenza politica del discorso sul testo del poema di Dante, che è inteso ad essere di giudice e di moralizzatore, mentre quello si rivolge ad una sfera di compassione gentile e spira un’aura di donnesca simpatia. Il mondo chiuso del sentimento petrarchesco s’apre e il poeta-uomo esce dall’involucro trasparentissimo della forma a compiere la sua missione nel mondo: un uomo nuovo, ma che ha troppo errato per approdare ad altro se stesso che l’io di Didimo, raccoglie il sunto della sua politica ed accorre a rinforzare gli argini e le difese di cui circonda la lettura di Dante; lo rinchiude, mentre crede d’aprirlo, e condanna alla non esistenza l’opera di commento cui pur doveva servire il discorso: un immenso proemio illustrativo della storia e della religione di Dante. La storia egli l’intende con l’animo di un lettore di Machiavelli e di Hobbes, con lo sdegno acerbo e audace di un profugo, di un perenne esule, di un vinto, e con la mentalità drammatica con cui quel mondo medievale si palesa, attraverso le cronache, a chi è vissuto quando era appena trascorso la voga dei racconti gotici e non ancor sopraggiunta la narrativa di Stendhal: storia come politica, come tecnica, come fantasia, come risentimento personale di un vinto e come illazione apocalittica di chi crede e non crede in una giustizia immanente; come violenza di un soldato di Napoleone, di un mediterraneo isolano che può pensare venuto il momento di dominar l’Occidente, ed è vinto dalle sue passioni prima che dai casi acerbi, dalle colpe prima che dalle sventure; come disegno impenetrabile e beato d’uno che ama l’allegoria della fortuna e la ricontempla beata, assorta nella sua perfezione casta e oltrapossente, «fra le tombe e le grazie». E la religione vorrebbe riascoltarla nella fervida suggestione della prima fanciullezza, benché non possa, e ripiega sopra un’immagine politica e polemica della religione stessa; e accorre alle polemiche dell’ambiente protestante, che fa di Dante un precursore della riforma nella lotta antipapale, e ordina ad arbitrio, talvolta sforza, le illazioni, circonda la storia della Commedia e la vita religiosa del Trecento di un assurdo armamentario poliziesco e inquisitoriale: dì che rovescia sull’intelligenza della Commedia i risentimenti della sua cronaca della caduta del dominio napoleonico in Italia, e che raddoppia il giudizio finale dantesco sulla tregenda dell’Ipercalisse. Eppure, nonostante tutto, dal risentito romanzo dei tempi di Dante esce un quadro storico di valore autentico, per comprendere il testo: Foscolo si trova sulle direttive di Vico, e fa storia d’ogni apporto di fantasia e di dottrina; e nonostante tutto, per la prima volta e per sempre si afferma che il centro del poema di Dante è un pensiero religioso, che la problematica di Dante è teologica, che l’attesa di Dante è apocalittica. Erano gli anni già ricordati quando, in quella stessa Londra, e in quella stessa miseria, William Blake imparava l’italiano per leggere Dante e incideva i disegni dell’Inferno sul letto di morte. Un simile abbandono non leggi in Foscolo, che non ha compiuto e chiuso il ciclo dei ritorni, che solo confusamente avverte 582

che l’atteggiamento polemico e apocalittico è in Dante il derivato di una fede religiosa, la sua applicazione ad un mondo storico e politico, non la premessa e il limite positivo della fede stessa; ma qui la storia lo soccorre; per tutto l’Ottocento la critica dantesca lavorò a irrigidire la lettura di Dante nel catalogo delle sue allotrie politiche; per tutto l’Ottocento la lettura di Dante dette suono diverso dal proposto, e sopra la «rovina mesta» della storia la poesia ridisvelava l’attualità eterna della sua istanza religiosa, non solo, ma l’attualità storica del suo credo. Qualunque passione predomini abitualmente nell’animo, si rinfiamma di tutte le altre e le infiamma. E in questo uomo fortissimo destinato dalla natura e dalla fortuna a reggere a molte e ardentissime e lunghe, l’ira, la vendetta, il timore d’infamia, il disprezzo per gli uomini, la pietà di sé e dell’Italia, e amore di donna e di gloria e di verità, e la filosofia con ogni sua speculazione, e il parteggiare in politica, tutte insomma le passioni – io le chiamo necessità – dell’umano cuore, che spesso dormono finché non sono irritate da’ tempi e da’ casi della vita, s’erano immedesimate a operare con questa unica della religione. Se altri la nomina o no, passione, o necessità, o altra cosa, poco rileva. Basti che non dissimile dalle necessità imposte per fatalità di natura, vedesi inevitabile al genere umano.15

Qui illuminismo e sensismo accorrono a limitare l’attualità e la totalità del motivo religioso; ma la direzione è aperta, comunque, e il cammino segnato. Le dimostrazioni ch’egli si propone (che Dante non volle e non poté pubblicare la Commedia; che la redazione del poema fu plurima, disposta in modo da consentire successive elaborazioni e l’introduzione di nuovi episodi; che il suo proposito era nettamente politico e di riforma religiosa, avversato perciò dalla curia con ogni forza ed ogni accorgimento; che intorno al poema si celebra una specie di Iliade di Guelfi contro Ghibellini) valgono assai meno della luce che la sua stessa passione di parte rovescia sul testo; e come parteggia da ghibellino, così da storico politico contro la pura erudizione settecentesca, che pretende l’accertamento del testo e della storia indipendentemente dalla passione. Il mondo della dottrina resta ancora separato dall’esegesi propriamente poetica: Era uno di quegli uomini che anche nel commercio di benefici e di gratitudine hanno dell’aquila e del leone; e s’adirano di tutti i nodi sociali da’ quali non potrebbero né vorrebbero svincolarsi; ma i tempi e la città dove nacque incatenavano Dante alla fortuna ed al mondo più forse d’ogni altro mortal creato alla libertà.16

L’organizzazione critica di questa sua proposta poetica, così aperta in ogni spazio dell’erudizione storica e filologica, e mai chiusa e mai capace di chiudere il discorso in trattato, restò come fermento per tutto l’Ottocento: e impose la legge, ineliminabile, pure attraverso tutti gli accorgimenti di una erudizione intesa all’accertamento positivo, della persona aggiunta alla persona. Vale per l’esegesi dantesca, perenne, dopo il Foscolo, quello che del poeta diceva il critico: Così ogni qual volta Dante fosse morto, avrebbe lasciato intera l’Opera: ma finché viveva non si sarebbe restato mai dal mutarne or una parte or l’altra.17

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Nuovi incontri Il riacquisto foscoliano di Dante è fatto nei limiti della storia: a servizio dunque di una intelligenza del tempo; e per quel che è della storia in atto (direbbero oggi, con don Ferrante, molti storicisti), cioè della politica, a servizio di un programma politico che variamente colora di risorgimentalismo, di neoguelfismo e di neoghibellismo l’esegesi ottocentesca. A torto? Non a torto: il cristallino della poesia rifrange un’iride di vari colori, quando l’attraversa il tempo. Ma questo ci aiuta a comprendere come diversamente Manzoni e Leopardi reagiscano a Dante, dopo l’affettuoso e appassionato incontro di Alfieri, di Monti e di Foscolo. Prosecuzione coerente, quella, e preparazione di un rito e di un culto, che invase l’Ottocento; ma questi esploravano l’universo del cosmo e l’infinito della vita morale: al di là, dunque, di quei limiti di storia, di apologia della storia, di religione della storia, dove, trattenuta indietro dal più lento processo di esplicazione che la cultura rielabora dopo le proposte dell’invenzione poetica, indugiava la letteratura ufficiale dell’Ottocento. Eppure anch’essi, che non alzarono già bandiera di rivolta, facendo ambiziosi programmi letterari, che anzi agli zelatori apparvero ritrosi, o dite reazionari, incominciarono con Dante.

Manzoni Manzoni riscopriva Dante nel Trionfo della Libertà, e sia pure attraverso Monti e il “patriottismo” giacobino; e confessava, anzi esibiva con puntuale orgoglio di discepolo devoto, i certificati degli imprestiti danteschi, in nota; e all’amico Francesco Lomonaco, moraleggiando: Come il divo Alighier l’ingrata Flora errar fea per civil rabbia sanguigna, pel suol cui liberal natura infiora, ove spesso il buon nasce, e rado alligna, Esule egregio, narri…

E altri accenti propri del moralismo dantesco, pur calati attraverso la tradizione del genere satirico, che di Dante s’era sempre ricordato in Italia, poetando o no in terzine, sarebbe possibile citare dai Sermoni. Ma la nuova spiritualità cattolica di cui Manzoni è tanta parte, non si oppone certo, ma si sente diversa da quella esperienza di cultura rinascimentale che deve tutto a Dante, benché Dante non le si consegni tutto; e l’esperienza religiosa manzoniana, non meno fondata di quella dantesca, non si compiace né di quel perentorio intellettualismo, né di quel polemismo. Assai più propenso a investire la realtà di una forza morale trasfigurandola lentamente, che a plasmarla nella sua felice evidenza d’immagine, nella sua attualità estetica, come esemplarmente Dante, che è il fondatore di una civiltà prevalentemente artistica e visiva, Manzoni è sempre in moto, non solo nell’atto, ma nell’intimo, per un universo che continuamente 584

muta sembianze: un cosmo storico, che la Provvidenza guida verso le spirituali presenze, sommerso in una atmosfera divina. Del resto rilutta all’ammirazione enfatica, a quel culto di Dante ch’era della nuova idolatria risorgimentale, uno dei tanti surrogati fideistici che il nuovo laicismo propose alle insufficienze del vecchio enciclopedismo e del nuovo positivismo: contesta l’attualità dell’ideologia politica dantesca di quell’imperialismo che piaceva molto agli interpreti neoghibellini di Dante e a Francesco Domenico Guerrazzi e a Luigi Settembrini; e istituisce una assidua polemica con Dante nei suoi studi linguistici, dove, contravvenendo alla teoria del volgare illustre, cioè di una astratta dignità linguistica perseguita attraverso un processo di scelta intellettuale, propone l’elezione di un dialetto, e propriamente del vernacolo fiorentino, a lingua nazionale (ritrovando così Dante sia nella concretezza di tale operazione, sia per quanto aveva Dante di responsabilità nella definizione di quella dialettica fiorentina, che era, dopotutto, se non scelta da lui come a lui preesistente, uscita direttamente dalla sua invenzione poetica).18

Leopardi E Leopardi incontra Dante, accettandolo come dato esterno, di limitata esperienza, benché imponente (dove Foscolo percorre un itinerario ininterrotto verso Dante, e da Dante e con Dante verso la storia e la coscienza della vita morale d’Italia): esperienza, dunque, non decisiva, sia che la si consideri nel quadro della vita storica d’Italia, sia nell’efficacia che esercita nel segreto della vita sentimentale e fantastica del poeta. Accetta l’idea dell’eccellenza dantesca e il valore della tradizione dantesca nel catalogo delle dignità d’Italia, senza impegnare se stesso nell’incontro, senza decidere l’orientamento del proprio itinerario spirituale. Di fatto, dopo le prove del Monti, dell’attualità di Dante non si discute più; e nell’idea di una ovvia reverenza al genio dantesco conveniva il genero di Monti, Perticari, che per indole era pochissimo disposto a impegnar nell’esercizio della letteratura altro che l’ingegno arguto, una patrizia sprezzatura di tratto, e l’umore collerico delle accademie letterarie, pronte alla rissa e alla commedia. Di Duecento, di Medioevo, di religiosità ascetica e teologica, di giustificazioni trascendentali della poesia, Giulio Perticari non voleva saper nulla. Un letterato, allevato in quella stessa cerchia di neoclassicismo ch’era tradizionale negli stati pontifici, dove era cresciuto il marchigiano Perticari, poteva senz’altro accettare l’idea ormai innocua del parallelismo di Dante e di Omero («al quale la natura per dare un compagno dovette aspettare che le lettere morissero e fossero sepolte per tutto il mondo poi rinascendo dessero fuori in Dante il secondo miracolo, come nascendo duemila anni prima avevano dato il primo»);19 ma nella corrispondenza letteraria col Giordani e nelle postille dello Zibaldone avverti che il suo esercizio di lettura dantesca procede: nelle note dell’Appressamento della Morte confessava che «quando scrissi non avea letto Dante che una sola volta, e mi fece gran meraviglia di trovar poi nel 19 Purg. data agli avari la stessa pena di giacer colla faccia volta in giù che loro avea dato nel principio del 3° 585

canto senza saper nulla di quel luogo»,20 ma in una postilla dello Zibaldone, del 1818, di due anni dunque posteriore all’Appressamento (forse gli si volse dopo averlo riscoperto in sé immediatamente), dimostra di avvertir criticamente la concretezza di Dante: Dante pare che voglia raccontare e far quello che colle parole è facile ed è l’uso ordinario delle parole, dipinge squisitamente, e tuttavia non pare che ci si metta, non indica questa circostanza e quell’altra, e alzava la mano e la stringeva e si voltava un tantino, e che so io, come fanno i romantici descrittori, e in genere questi poeti descrittivi francesi e inglesi tanto in voga ultimamente,21

dove la contrapposizione fra i modi distesi e minutamente realistici della narrativa romantica (non di tutta, evidentemente: Leopardi generalizza per opportunità di polemica) e il canone dello stile drammatico di Dante potrà giovare, lungo il secolo, a tutti i narratori che cercano al di là della parola prosastica, nella misura e nel ritmo della narrazione, e sovra tutto nell’evidenza poetica della realtà suggerita, il perfezionamento di un processo stilistico, anche senza conoscere la noterella dello Zibaldone, s’intende: le attitudini, come le immagini e le idee, fanno in silenzio cammino. E della presenza di Dante nella mitografia eroica di Leopardi tocchiamo sorvolando: D’aria e d’ingegno e di parlar diverso per lo toscano suol cercando gìa l’ospite desioso dove giaccia colui per lo cui verso il meonio cantor non è più solo…

L’elegia tocca i luoghi comuni; ma dal viaggio foscoliano sulla terra dei sepolcri intendi che il nuovo poeta muove a un esilio che è solitudine in terra, all’angoscia dell’uomo solo, ora ancor consolato dalla pietà concorde: Amor d’Italia, o cari, amor di questa misera vi sproni…

e ripetendo eguale climax (ma la solitudine è ora fra la terra deserta e cieli assorti): O dell’etrusco metro inclito padre, se di cosa terrena, se di costei che tanto alto locasti qualche novella ai vostri liti arriva, io so ben che per te gioia non senti, che saldi men che cera e men che arena, verso la fama che di te lasciasti, son bronzi e marmi…

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Beato te che il fato a viver non dannò fra tanto orrore che non vedesti in braccio l’itala moglie a barbaro soldato; non predar, non guastar cittadi e colti l’asta nemica e il peregrin furore; non degl’itali ingegni tratte l’opre divine a miseranda schiavitude oltre l’alpe, e non de’ folti carri impedita la dolente via; non gli aspri cenni ed i superbi regni; non udisti gli oltraggi, e la nefanda voce di libertà che ne schernìa tra il suon de le catene e de’ flagelli…

L’incontro con l’antico è tale che consente proprio il moto contrario a quello dell’alta oratoria dell’inizio: un abbassarsi, sia pure molto dignitoso e trattenuto, verso la realtà contemporanea, la polemica contro l’egemonia straniera, quel patriottismo dei tradizionalisti che detestavano gl’invasori, e specialmente gl’invasori giacobini «la nefanda voce di libertà che ne schernìa / tra il suon de le catene», e l’episodio dei morti di Russia: Morian per le rutene squallide piagge, ahi d’altra sorte degni, gl’itali prodi; e lor fea l’aere e il cielo e gli uomini e le belve immensa guerra.22

Attualità storica non solo, ma cronistica di Dante; e la rappresentazione poetica di quella luttuosa spedizione di Russia che costò la perdita dell’esercito del regno italico e l’impossibilità, per l’Italia, di difendere politicamente e diplomaticamente quel tanto d’indipendenza che le era assicurata dall’unione personale con l’impero. Ma non sono questi i temi che vengono in primo piano: restano sottintesi; mentre vi dominano le immagini dei lutti e delle stragi e delle morti, in un paesaggio apocalittico, pur nella nobile compostezza dello stile neoclassico. Di questo accrescersi degli interessi contemporanei per l’incontro con Dante è da tener conto: se ne erano accorti Alfieri e Foscolo; e la stessa tradizione della maniera grande aveva accettato di far di Dante il poeta del sentimento concreto, impegnato nella moralità e nella storia o addirittura nella cronaca, mentre Petrarca restava il poeta delle evasioni sentimentali, dei raccolti silenzi, degli idillici vagheggiamenti. Alla solitudine petrarchesca, idillica, più che alla solitudine dantesca, sdegnosa, rimarrà attento Leopardi, che li accosta: Eran calde le tue ceneri sante, non domito nemico della fortuna, al cui sdegno e dolore fu più l’averno che la terra amico.

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L’averno: e qual non è parte migliore di questa terra? E le tue dolci corde sussurravano ancora dal tocco di tua destra, o sfortunato amante. Ahi dal dolor comincia e nasce l’italo canto.23

Dunque né all’immagine dell’uno né dell’altro si sofferma, almeno nel programma; e il diretto contrasto del tedio e del nulla con la effusività melodiosa del dolore petrarchesco avvia ad altre situazioni, che con la magnanima oratoria delle canzoni non hanno un legame diretto: per quel che è di Dante, che non sia entrato stabilmente nella fantasia di Leopardi basterebbe, a dimostrarlo, la svolta improvvisa di quella letteratissima maledizione che dichiara: meglio l’Inferno che l’Italia.

Pellico Tra Foscolo e Manzoni, maestri e compagni, si può collocare, nella cronaca di questi incontri con Dante, Silvio Pellico; ed anche un itinerario dall’uno all’altro segna la sua storia: dalla Francesca alle Prigioni. Delle altre tragedie e delle cantiche, dove Dante è più o meno direttamente rammentato, ad offrire qualche figurino al gusto medievalizzante, possiamo anche trascurare la menzione, benché abbiano un peso nella storia della poetica del Pellico;24 ma la Francesca ebbe troppo peso nelle cronache letterarie e teatrali del primo Ottocento, ed è un indice del poeta e del tempo, nel loro esercizio di lettura di Dante. Nota che, se lo è l’argomento, non è dantesco il tema a cui fu dovuto il successo: il tema della gelosia, con minor franchezza che nel Galeotto Manfredi del Monti. Ma il Monti aveva del temperamento, e pur fra le attenuazioni di un decoro scenico di gusto diverso, riuscì a salvare il salvabile dell’esemplare shakespeariano, l’Otello; e invece il Pellico respinge del tutto quell’immagine di una natura corrotta che s’era presentata alla mente del grande trageda come un’ossessione diabolicamente maligna: fa della tragedia il canto elegiaco di una sventura. Nessuno è colpevole più che sventurato, nella Francesca, nemmeno Gianciotto, che Dante s’affretta a spedir difilato in Caina, e tanto meno Francesca o Paolo il Bello, che Dante danna, nonostante la pietà che lo fa tramortire. Francesca è incolpevole, nella nuova tragedia, sposa pur sempre degna: efficacia di Shakespeare? Anzi, della poetica della castità, che domina dalle Grazie del Foscolo al canto Alla sua Donna del Leopardi, qualunque misura di stilnovismo vi riecheggi. Curioso che il Pellico, non avendo potuto seguire Dante nel fatto di cronaca nera, si sia sentito pronto, per indiretta efficacia di Dante poeta nazionale, a intrudere nella tragedia quel tema patriottico cui l’episodio per sé non si prestava: «E non ho patria io forse / cui sacro sia dei cittadini il sangue?». Qui le platee tumultuavano nell’applauso; ma Dante, profeta di vita morale e civile, aveva offerto l’epigrafe anche a Iacopo Ortis, che prima di morire aveva aggiunto al verso «Libertà va cercando ch’è 588

sì cara» il verso «come sa chi per lei vita rifiuta». Ed era gente disposta a pagare sino all’ultimo di persona, come accadde al Pellico. Certo dal mondo della Commedia il mondo delle Prigioni è remotissimo: benché si tratti pur sempre di una stagione in Inferno. Ma la spirituale vittoria del nuovo poeta, umile e grande (quel suo libretto è immenso) non si celebra come la vittoria di Dante sullo spazio e sul tempo in un viaggio che misura il cosmo, per preparare migliori condizioni al mondo che mal vive (e su questo carattere cosmografico del poema convien ritornare spesso, parlando di un secolo inteso a scoprire un universo spirituale e religioso senza viaggi e senza visioni, anzi insistendo sulla realtà più trita, dando senso alle cose più terrene): lo spazio vi si annulla, nelle strettezze di una prigionia sempre più chiusa, da Milano (aperta su certe reminiscenze di teatro e sull’avventura politica) a Venezia (aperta sul vento e sul sole della Laguna), fino allo Spielberg, quel «monte dei giuochi» dove, a un momento dato, anche la vista del terrapieno si vieta; e il tempo vi si sospende, nella immobile sequenza degli ultimi anni, quando i sepolti paiono dimenticati da tutti, anche dalla vigile occhiuta potenza che da Vienna li cova.

Tommaseo Manzoni, Pellico, Leopardi, parranno segnare un arresto, in questa vicenda di un’esegesi perenne; ma chi la disviluppa dal nodo che trattenne Foscolo, recline a dar luce storica e politica ad una grande anima, che meglio intendeva da solo a sola, Tommaseo, fa della scoperta poetica sua propria l’aureo miliare dell’itinerario in Dante. Dante poeta cosmico: tale la nuova scoperta, a specchio della più dilatata ambizione romantica, e non d’Italia quanto d’Inghilterra e di Germania: ambiziosissimo lui del mondo, e il più congeniale a Dante di questi poeti, più dello stesso Foscolo, che a Dante si accostava con un’esperienza umanistica e storica osservata da una sfera sentimentale sì di attese religiose, ma riluttante a quell’affermazione positiva e dogmatica appoggiata ad un vittorioso sistema. Tommaseo viene anch’egli all’Italia da una regione contermine; e benché fosse assai rigoroso il suo noviziato di filologia classica, non ha come Foscolo una patria greca, non può cercar la luce dell’isola nativa nella bellezza ellenica, ovunque la contempli. Sotto qualunque cielo risplenda la bellezza, nel grande Ionio o in Inghilterra, Foscolo ivi riconosce l’antica madre; ma Tommaseo, non senza dispetto d’esser sincero, anche con il più colto dei suoi amici, colui che aveva connaturato il costume della civiltà letteraria, si proclama barbaro e schiavone: è attento così al mistero naturale della poesia popolare come alle quintessenze dello psicologismo francese, e cerca Dante nella sua intimità di poeta e di credente, dove gli altri dantisti, intorno a lui, lo trovavano attraverso una tradizione letteraria che non aveva mai fatto del tutto a meno di lui, indifferenti o almeno lontani dalle premesse filosofiche della sua cultura (non dico delle esigenze metafisiche della sua dogmatica). È insomma più libero e pronto, nel leggerlo, dei più; e aggiungi che la sua apertura sul mondo slavo e greco, per quel poco di cui c’informano gli studi tommaseiani, allo stadio attuale, poté portarlo ad 589

esperienze storiche e religiose assai vicine all’universalismo teologale del programma dantesco, e che poté forse studiar Platone non solo attraverso il suo Ficino, ma per qualche indiretta attinenza bizantina, oggi ancora oscura.25 Sian pur queste ipotesi di lavoro che alla prova risultino men fondate di quanto ora ci sembra: certo l’itinerario di Tommaseo è verso un cattolicesimo cosmografico; è la traduzione in parola e in musica, cioè in verso, di una esperienza sensibile, e se volete sensuale, protratta fino ai limiti del mondo. Quanti ripetono da Croce la notizia (o l’ipotesi) di un panteismo cristiano di Tommaseo dimenticano probabilmente le premesse platoniche e neoplatoniche di Tommaseo, e leggono frettolosamente in lui una rifrazione di Spinoza, dove potrebbero intendere una cosmografia agostiniana. Certo, dopo che questa esperienza di Tommaseo fosse debitamente accertata e documentata, occorrerebbe ancora studiare quante correnti dell’Oriente cristiano confluiscono nella Scolastica e in Dante. Anche tenendoci ai dati più facilmente accertabili della psicologia biografica e della lettura critica, è ben vicino a Dante questo poeta delle collere e del senso, l’uno e l’altro trasfigurati, anzi guidati verso una meta divina, o divinamente lontana, che li esalti: certo più aperto d’ogni altro lettor di Dante, nel suo secolo, a intendere quella poesia nelle sue condizioni elementari di concretezza umana, di esperienza vissuta. E la sua anima profondamente credente, pur fra le tentazioni maldestramente vigilate, pur nella miseria di una carnalità corrotta, e nell’arbitrio appassionato di una rapina perpetrata sul regno dei cieli, per un’interpretazione anch’essa barbara e primitiva del detto evangelico, è pur vicina alla religiosità di Dante: ché accetta lo stesso dogma cattolico, i peccati che Dante, nel Purgatorio, non solo confessa, ma espia, chinandosi coi superbi gravati dai macigni, brancolando nel fumo spesso degli iracondi, passando nella cortina di fiamme con i lussuriosi. Siamo ben lontano dalla lettura dilettantesca e schizzinosa dei settecentisti, e lontani dal limite storico delle giustificazioni foscoliane, parzialissime: quando Tommaseo accetta l’idea di un Dante riformatore religioso, fa questo in senso cattolico, come corresponsabile e partecipe della vita della Sposa di Cristo. E lavorando sulla traccia foscoliana, persino un De Sanctis (con quella sua prontezza memorabile nell’accorrere alla lettura dei poeti, arricchendosi di tutta la cultura diffusa e partecipata del suo tempo, divenuta voce sua, convinto, che l’ha raccolta nemmeno lui sa bene dove) spende tesori di finezza e nemmeno tocca il segno, per vastissime parti dell’opera dantesca che gli rimangono oscure: là dove Tommaseo vede chiaro, non trattenuto dalla cautela apologetica che trattiene gli altri, rispettosi di una astratta dignità umana da attribuire a Dante, indipendentemente dalla sua concreta esperienza religiosa (per un immanentista il divino non è mai, come per un credente, il vertice della concretezza: anzi, è il massimo dell’astrazione); e se De Sanctis legge e riespone Dante anche narrativamente, tentandolo nel vario paesaggio delle attinenze sue e dei suoi compagni di viaggio (gli scrittori del suo tempo, creatori di miti e di paesaggi), se specialmente i saggi famosi sono esempi di altissima novellistica, Tommaseo è un lirico della lettura di Dante, e sa sempre disporsi in un centro, il più possibile vicino al segreto d’anima del suo poeta, per potere di lì illuminare violentemente il luogo che gli tocca dichiarare. Anche il giuoco sottile e intermi590

nabile delle sue reminiscenze di letture poetiche, che accosta al testo di Dante, quasi che Dante fosse l’eco di un’immensa antologia poetica, se giova a definire il poeta attraverso i confronti con chi gli è simigliante e diverso, più giova all’esegeta, che trascorre sull’immensa tastiera delle sue reminiscenze di lettore.

Il poeta a confronto col testo Chi chiede al commentatore di Dante di annullare la sua persona nel servizio del testo, quasi di trasformarsi in macchina di ricerche e in catalogo, che è stato il programma di molta erudizione ottocentesca, illusa di raggiungere il limite dell’intelligenza astratta ragionando di poesia e di storia, sdegna, o poté sdegnare, il personalismo della lettura tommaseana, sempre pronto al confronto, e più ammirativo quanto più di sé medesimo risente. Ma il confronto dell’esegeta col poeta è il canone fondamentale della critica di Tommaseo; e che l’abbia più assiduamente applicato alla lettura di Dante è anche questo un segno di affinità e di elezione. Quel che accade nella storia della fortuna ottocentesca di Dante, che gl’incontri dei poeti precedono il catalogo dei critici, accade anche nella cerchia delle sue letture: nella stessa persona di scrittore, il poeta tenta e propone e dispone quel che poi il commentatore adopera nelle sue postille. Già nella sua opera narrativa è presente alla sua fantasia la Commedia, o piuttosto epopea di un’epoca audace e forte; e quel suo trattare il romanzo storico piuttosto come sintesi drammatica che nelle forme della narrazione distesa, care ai manzoniani, è ancor confortato dall’esempio di Dante. Il rigore stilistico e la concentrazione drammatica s’accrescono, quando dal raccontare in prosa passa al raccontare in verso: ne è esempio la novella della contessa Matilde, che è figura che ritorna nel Commento; ma occorrerà pure tener presente quel che sempre accade nella cultura del primo Ottocento: nel primo avviarsi di un sistema organico di ricerche storiche e filosofiche intorno al Medioevo, era più facile vedere il Medioevo attraverso Dante che studiare Dante con una provveduta conoscenza storica del Medioevo (è l’impaccio che intralcia la Vita di Dante di Cesare Balbo). Più importa annotare, nelle Poesie, momenti in cui il lirismo s’accende all’immediato incontro e confronto: come nel sonetto a Maria: Come in ruscello il sole, in te venia il Verbo; e al santo Spirto eri già sposa: ma quanto eccelsa, tanto umile cosa sempre più da quel giorno eri, Maria.

Anche nell’altra poesia alla Vergine, in sestine di endecasillabi sciolti, a distendere e raccogliere i quadri della vita della Vergine, la stessa immagine dantesca della luce e dell’acqua ritorna: O Maddalena, ella col puro suo pensier ne’ tuoi

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pensieri entrava, quasi raggio in onda, e rispondea col guardo al tuo rossore.

E ancora, ma dilungandosi, in una sequenza di quinari, un’orazione canora: Com’onda schietta di sasso in sasso scende sonando, vien la tua grazia.

Il commento Ricco di preparazione filosofica, assai più che gli altri commentatori di Dante e la maggior parte dei critici italiani dell’Ottocento, egli si accosta alla cosmografia dantesca con lo stesso animo che i pensatori e i poeti del Romanticismo germanico. Eppure è lontano dal sentire altra commozione che intellettuale di fronte all’ordinamento cosmografico della Commedia: quasi che la sensualità vogliosa che colora la sua avventura cosmica gli faccia apparire minore e fredda la speculazione dottrinale che Dante dispone, didascalia continua, naturalmente sorda ai nuovi lettori (anche a lui: con uno scatto d’insofferenza, come fosse stato frodato: Il concetto del Poema, ampio e non indegno dell’arte cristiana, restringesi con grettezza quasi incredibile laddove è detto che nel mille trecento poca gente mancava ormai a compiere il numero degli Eletti, e che quanti ne ebbe la Legge Antica deve tanti averne, e non più, la Novella).26

E l’avevano così attentamente osservata gli antichi, che avevano costruito le opere d’arte di mattone e di marmo, le cattedrali e le statue, che Dante edificava di parole; ma egli procede di tanto a conquistare alla sensibilità moderna lo spazio della non-poesia. Gli altri commentatori e lettori, a questo punto, contrappongono la concezione moderna dell’eticità dell’arte alla concezione medievale; e dicono di un Dante irretito nella non-poesia; e non comprendono, e non vogliono comprendere. A Tommaseo i moventi ideali della speculazione filosofica e metafisica della Scolastica son tutti palesi, li intende e li ama; di più, li sente attuali in quel mondo della cultura romantica, che accanto e dopo di lui la cultura italiana organizzata, rifluendo verso l’erudizione settecentesca e verso l’intellettualismo illuministico, storicisti, idealisti e positivisti, crede di aver superato e vinto: è dunque in disposizione assai più facile degli altri, finché almeno l’animazione di quella dottrina trova consenso in lui. Quando non lo trova, rifiuta l’appiglio, come nel passo citato: che pure viene in un luogo dove puntualmente ad ogni immagine (vedilo in figura di lui quel Croato che viene a veder la Veronica nostra, e del suo populismo quelle parole «che ritraggono la sua devota semplicità») fa del verso paragone di se medesimo: 592

Bernardo è l’ultima guida, siccome predicatore di quella Crociata in cui Cacciaguida morì, siccome tenero della Vergine, ma fermo e sdegnoso tra le sue tenerezze, severo non solo agli erranti, ma a se stesso e a’ ministri della Chiesa sedenti in altissima autorità. Ha del politico questa elezione, e religiosi insieme e politici sono i tre accenni, che paiono troppo tra sé somiglianti, del pellegrino che si ricrea nel tempio del suo voto; de’ barbari che venendo di settentrione rimangono stupefatti alle magnificenze di Roma, e lo spirito de’ vinti li vince, e del Croato che viene a veder la Veronica e dice parole che ritraggono la sua devota semplicità. Ma il verso che contrappone il divino all’umano, l’eternità al tempo e il popolo giusto e sano a Firenze, raccoglie in sé i biasimi e gli spregi e i dolori di tutto il Poema.

Ripercorrerai dunque la lettura tommaseiana, osservando che l’incontro di un poeta con l’altro appresta all’esegeta, raddoppiato sul poeta, ogni ricchezza d’intesa e d’intelligenza: donde la straordinaria ricchezza del suo Commento; quando poi dal Commento e dall’incontro si ritrae a ridir di sé, vedilo, quando raduna le Poesie nella raccolta definitiva, proporre un ordine che, contraddicendo alla cosmografia dantesca, pur le si sostituisce, in quei suoi cinque tempi che vanno dalle memorie storiche alla cerchia familiare, sempre più individuandosi nella personificazione delle memorie dell’uomo, che è della parte terza, centrale: quasi costruzione di una nuova moralità e dignità umana; e da questo centro salendo con la mediazione della religione (parte quarta) alla conquista sensibile dell’universo religiosamente e spiritualmente trasfigurato.

1 Epoca quarta. Capitolo Decimo. Ed è il tema che ritorna in una lettera di Shelley, da Ravenna: «I have seen Dante’s tomb, and worshipped the sacred spot» (1821), W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, cit., p. 266. Per fissare un’osservazione storicamente valida attraverso un modo di lettura, leggiamo nella stessa pagina una frase scritta da Shelley pochi giorni prima di morire, dell’Italia: «When she becomes of her own accord full of genuine admiration for the final scene in the Purgatorio or the opening of the Paradiso… we may hope great things». È un’allusione risorgimentale, ma raramente la lettura italiana dell’Ottocento pensa di appoggiarsi sulla vasta intenzione spirituale che anima questo o quel passo: preferisce far capo alle invettive o ad una politicità tutta aperta e acclamata. 2 Epoca Terza. Capitolo Duodecimo. A proposito di Rousseau e Dante un parallelo fu tentato vagamente dal Carducci, che parla per entrambi di altezza ombrosa e schiva, di sentimento profondo della natura, di idealismo un po’ mistico e di utopie feconde; ma non diremo che Alfieri, mediocre lettore dei contemporanei, abbia avvertito un possibile incontro: Rousseau lesse di Dante solo quanto del suo spirito era calato nella musica e nel costume d’Italia. 3 Anche per questo capitolo della poetica montiana valga la monografia di A. POMPEATI, Bologna 1928. 4 «Dire che cosa fu Dante per il Foscolo […] è per alcuni aspetti, e s’intende per sommi capi, un tracciare il profilo spirituale del Foscolo, tanto ogni sua pagina è passionata confessione di sé, è espressione di un suo alto ideale d’arte e di vita»: A. CHIARI, D. e il Foscolo, in Studi su D., vol. VI, Milano 1941. Altro raffronto conduce A. MARPICATI, D. e il Foscolo, Roma 1939. V. anche G. AGNOLI, Il Foscolo commentatore di D., in “Rivista d’Italia”, 1904. 5 La chioma di Berenice, poema di Callimaco tradotto da Valerio Catullo, volgarizzato e illustrato. Discorso IV, Della ragione poetica di Callimaco, V. Opere, I, p. 267.

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6 Nel saggio Opere minori di D. (1844). E, prima, nel saggio sul Moto letterario in Italia (1838): «Quel fervore dantesco, quella tendenza a far di Dante l’iniziatore del nuovo sviluppo dell’intelletto italiano, escì in gran parte dall’influenza oggi, tra per prudenza tra per ingratitudine poco avvertito dai letterati in Italia, esercitata da un uomo a cui la Critica va debitrice de’ suoi progressi negli ultimi quarant’anni. Io parlo di Foscolo. Infiniti volumi c’erano, prima di lui, scritti su Dante, di grammatici, filologi, antiquari o estetici: ma Foscolo primo studiò in lui il patriota e il riformatore. Non riuscì fin dove avrebbe potuto: gli furono ostacolo la vita povera, errante, travagliata in ogni guisa, le sciagure d’Italia, l’esilio, una filosofia inferiore all’intento e nudrita di sconforto e di scetticismo; pur nondimeno ei riconobbe in Dante più che il poeta o il creatore della Lingua, il grande cittadino, il pensatore profondo, il Vate religioso, il profeta delle nazionalità, dell’Italia […]. Guidò la Critica sulle vie della Storia». 7 «Secondo la maniera sua di procedere scrivendo, più per passione che per logica, più correndo che camminando», come dice, argutamente foscoleggiando, il DONADONI, Ugo pensatore, critico, poeta, 2 ª ed., Palermo 1927, p. 339: dove postilla con ammirevole acume le figure del vario incontro dei due poeti. 8 Opere, VII, p. 180. 9 MAZZONI, cit., in D. e l’Italia, pp. 357-60. 10 Saggi sopra il Petrarca, IV, cap. XVII, in Opere, X, p. 129. 11 Saggi sopra il Petrarca, IX, cap. V, in Opere, X, p. 110. 12 Ibi, cap. VI, p. 112. 13 Ibi, cap. X, p. 117. 14 Ibi, cap. X, p. 119. 15 Discorso sul testo del poema di D., cap. XLI, in Opere, III, p. 176. 16 Cap. XCVI, p. 274. 17 Cap. CLXIII, p. 588. Il documento più tipico di questa proiezione del critico nel poeta, e dell’abito, che nell’antiquaria è pessimo, di postulare nel poeta esigenze o costumi che appartengono all’organizzazione (o disorganizzazione) del lavoro che il critico si concede in quanto scrittore, è quando il Foscolo pensa alla Commedia come a un lavoro via via stratificato, con aggiunte diaristiche. Ma tale è l’abito e, dietro l’abito, la poetica del Foscolo. E dove il Foscolo scrive che Dante «non che non avere mai dato al mondo il poema per lavoro compiuto, intendeva di alterarlo e sottrarre ed aggiungere molti versi fino all’estremo di sua vita», osserva il Cattaneo che così soleva fare il Foscolo medesimo; che «per poco meno di venti anni venne rimutando i pochi versi di quel suo canto delle Grazie» (DONADONI, op. cit., pp. 340 ss.). Eppure il Foscolo, se non scrivendo, intravvede, e l’accento lo rivela, che altro è il tempo esterno della cronologia, altro è il tempo interno della poesia. Dante è sull’orlo del senza tempo, in quel suo giudizio finale, in ogni istante affacciato all’eterno «ogni qual volta fosse morto». 18 Non vorremmo, dopo avere istituito un parallelo quanto più possibile nutrito, trascurare due esempi di come l’incontro fra i due poeti potesse avvenire lasciando l’antico nella sua immobilità di testo poetico e di epigrammatico custode di una verità. Ne siamo debitori al Tommaseo (al quale dobbiamo pure, è probabile, un soverchio irrigidimento): Colloqui col Manzoni di Tommaseo, Bonghi, Borri, a cura di G. Titta Rosa, Milano 1944. Nel primo esempio assistiamo a un esercizio di traduzione fatto dal Tommaseo sulla Francesca di Dante, dove il Manzoni interviene correggendo postillando, ma sempre tenendo d’occhio non già il testo dantesco, dato come ovviamente inteso, ma il thesaurus della latinità, da possedere in esteso e da usare con perspicacia (pp. 85 ss.). Nel secondo «La spada nuoce al pastorale» è frase opposta dal Manzoni a un benedettino francese che, visitandolo, si doleva «di non aver trovato negli italiani quel sentimento di rispetto e di devozione al Santo Padre, che, a quanto lui diceva, sarebbero stati in dovere di ereditargli». E Manzoni se ne duole, «il fatto era pur troppo vero, e era cosa desolante, e doveva ferire ogni credente nel vivo del cuore, ma non tutti sanno distinguere nel Papa il sommo Pontefice dal Principe». 19 E per un accostamento più significativo ancora, quasi per dimostrare che per Dante non vuole rinunciare al pur suo Petrarca: «Lo stesso secolo che produsse in Dante il secondo Omero produsse nel Petrarca il maraviglioso, l’incomparabile, il sovrano poeta sentimentale,

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chiamato così non dico dai nostri ma dai romantici»: Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. Tutte le opere di Leopardi, a cura di F. Flora, vol. II, Milano 1940, p. 518. 20 Ed. cit., I, p. 366. 21 O ancora questa volta a paragone di Ovidio: «Con due pennellate vi fa una figura spiccatissima, così franco e bellamente trascurato che appena pare che si serva delle parole ad altro che a raccontare o a simili usi ordinari»: Discorso di un italiano, cit., vol. II, p. 521. 22 Sopra il monumento di D. che si preparava in Firenze. 23 Ad Angelo Mai quand’ebbe ritrovato i libri di Cicerone della Repubblica. 24 La Francesca da Rimini è forse l’esempio più scoperto di questa vita ideale del cuore, di questo perpetuo stato di eccitazione. Ancora «un grado più in su del reale» (p. 105). «L’orditura della tragedia e la fisionomia dei personaggi derivano direttamente dalla mediazione operata da Dante sugli avvenimenti storici: la Francesca del Pellico è sostanzialmente la Francesca di Dante, così Paolo e Gianciotto nei loro atti fondamentali» (p. 109, n. 1). A. ROMANÒ, Pellico, Brescia 1949. 25 A. BONFATTI, La dottrina dell’arte in N. Tommaseo, Arona 1950, p. 16. 26 La citazione è una delle innumerevoli possibili: se il commentatore avesse compreso, o voluto comprendere, l’intenzione geometrica di quella proporzione, avrebbe potuto intendere meglio se stesso, nel suo esser diverso dall’intellettualismo simmetrico di Dante; ma non vuole: ultima insofferenza d’un riformismo antistoricista? Citiamo, come nei capitoli della lettura, dall’ed. dei “Classici dell’Utet”, La Divina Commedia, con le note di N. Tommaseo ed introduzione di U. Cosmo, vol. III, p. 437. L’introduzione del Cosmo resta tuttora il miglior saggio sul Tommaseo commentatore di Dante. Per le notizie cronistiche degli incontri, v. R. CIAMPINI, Vita di N. Tommaseo, Firenze 1945.

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Letteratura del Risorgimento

Dante nel costume vulgato Il riacquisto romantico di Dante ha come premessa generalmente e continuamente valida l’incontro dei poeti italiani col Poeta; e da quell’episodio muove la successiva vicenda; che ha anch’essa due poli opposti: una immagine dantesca vulgata, calata nel costume italiano dell’Ottocento, e una immagine dantesca allegorizzata, simbolo ed esempio di ogni grandezza di poesia. Il costume italiano oscillerà a sua volta fra la ripetizione popolaresca del poema, quasi memoria e parafrasi, come nei primi tempi della fortuna sulla bocca del volgo, e il servizio politico della Commedia, la periegesi del risorgimentalismo che nel poema s’affisa e lo ripete ad ogni occasione. Dai maggiori ai minori e alla letteratura vulgata l’orizzonte non cambia; gli autori, mentre accettano il patrimonio o il fardello delle frasi, o fatte o che si fanno, scoprono la propria responsabilità morale e si rivelano nella loro individualità; i pubblicisti conoscono soltanto la tipologia vulgata e le citazioni ovvie, e stupirebbero davanti ad altro ritratto (il Dante ultraromantico della pittura francese di Delacroix, per esempio, o il Dante dei Prerafaeliti inglesi). Mentre la fortuna italiana oscilla fra il polo dell’acquisto e il polo della ripetizione codificata, la cultura europea, di cui gl’Italiani stessi partecipano, movendosi coi migliori fra loro e i più solerti, a quegli acquisti di dottrina e di esegesi dantesca che venivano promossi soprattutto in Germania e in Inghilterra, elabora e organizza un’osservazione e una lettura che sola legge e fa i poeti, come dicevano dell’antico Catone grammatico.

La parodia del Porta Certo il canone della concretezza, in Italia, è sempre rispettato in partenza; era infatti la più immediata e più efficace eredità dantesca; mentre in Europa il ricupero di Dante è ottenuto attraverso un processo svolto in direzione contraria: dall’astratto al concreto, appunto, dalle allusioni ammirative verso un titolo così impegnativo, la Commedia o l’Inferno, per poi discendere verso confronti più diretti, testuali. Non sorprenda se tentiamo un raffronto solo desueto nei cataloghi accademici, per significare la circolarità di questo viaggio dantesco, pellegrino fra la letteratura del mondo: il costume italiano del primo Ottocento scopre Dante e l’incontro, grottescamente fiducioso, si chiama Porta; il costume europeo del primo Novecento (quando Dante è ormai acquisito tutto quanto al gusto e alle riflessioni di un secolo che non si intende se non si tien conto del 597

soggiorno in Inferno e delle illazioni paradisiache, più o meno artificiali) si celebra, grottescamente disperato, in un altro incontro dantesco: si chiama Kafka; che racconta di demoni rovesciatisi a devastare una terra d’incubo, con parvenze tanto più efferate quanto più quotidiane (la quotidianità che nelle parafrasi portiane era allusa non dal linguaggio tipologico e scenografico delle situazioni teatrali e narrative, note a tutti, ma dal linguaggio parlato, da quell’altra mitografia ch’era il dialetto). Le traduzioni dialettali e le parodie della Commedia hanno una loro cronaca; ma fino al Porta non ci si era accorti altro che di uno scherzo accademico: la solita satira parodistica di quella cerchia; con il nuovo poeta si oltrepassano, anzitutto, i limiti dell’accademismo, perché la contrapposizione dialettale ha anche il significato di una amara diatriba contro la dignità della cultura: Quand’ecco me compar on figurott cont ona vos scarpada de bordoeu che per vess on gran pezz, ch’el dis nagott, gh’eva fors vegnuu rusgen al pezzoeu… S’eva anch’mi on omm gran gross e scopazzuu el respond – ma son mort che l’è lì ajbella […] Voeutt de pù? […] Te diroo ch’hoo faa el Bosin, e che hoo scritt on poemma, ma sul sciall, sôra Eneja e el foeugh d’Illi in vers lattin; e te diroo che vorreva anch brusall per ghignon de no avell faa in meneghin […];1

ma andando si ritrova quella concretezza dell’immagine dantesca intorno alla quale, irrigidita nella sua forma pura e radiante nella sostanza avvenire, si può sempre tentare l’avventura della parafrasi, e discoprire, dietro l’attualità poetica dell’immagine, l’attualità storica della cronaca: Vegneva inanz la nocc, de meneman che ’l dì el ghe renunziava el sò posses. Tucc dormiven: nè gh’eva in tutt Milan fors nanch cent lengu de donn che se movess; domà mì s’eva in pee, tra tanc sognan sù ona strada mal conscia […];2

oppure: In sul fà di franzes del temp present, che dopo avè struppiaa parecc Nazion […].3

Sono ancora parafrasi lente, questi riferimenti politici: ma, se la testimonianza linguistica denota il senso di un movimento, dacché il poeta parafrastico si muove verso una sempre maggiore libertà d’indagine, via via che abbandona il 598

compito di una traduzione predisposta di tutto l’Inferno, e si limita a frammenti, e ritenta con assidue elaborazioni un’esperienza che via via con gli anni trascura il contrapposto arcaicizzante, implicito nel vecchio dialettalismo, il punto di arrivo di questo episodio nella poetica portiana, e indirettamente di tanta letteratura narrativa e drammatica, è l’immagine liberamente aggiunta all’immagine, con una franca libertà di riferirsi all’attualità mitografica propria della cerchia del poeta nuovo: cioè, in altre parole, al nuovo realismo: Dessora a ona portascia, che someja a quella gran sgavascia de dragon che metten foeura al Convitaa de preja, gh’era scritt sti paroll cont el carbon: Porta che menna a l’eterna boreja…4

Il Porta non dubita un istante, nel dir della porta infernale, che la sua immagine vorace sia storicamente più illustre del disegno architettonico dantesco, compaginato secondo le norme di un intellettualismo rinascimentale, tanto di quanto era più antica della metafora dantesca la scenografia medievale della bocca d’inferno in figura di drago; ed anche più estesa, se la commedia del Convitato di Pietra era di tutta Europa: e lo stesso, con illusioni forse meno evidenti, ma non meno frequenti, della selva selvaggia: Domà a pensagh, me senti a vegnì scacc, né l’è on bosch inscì fazzel de retrà, negher, vecc, pien de spin, sass, ingarbij; pesg che nè quell del barilott di strij.5

Un concordato La cronaca delle letture e delle occasioni dantesche dell’Ottocento, in Italia, si trattiene ben al di qua del limite portiano, che par poco conciliabile con il rispetto. È, poco o molto, sorvegliata sempre da una reverenza un po’ accigliata: quella espressa nelle famose parole di Mazzini, parole foscoliane e leopardiane, a proposito di una lettera di Emanuele Repetti, in recensione del trattato del Perticari Dell’Amor Patrio di Dante, inserito nella Proposta: Un uomo di cui son calde ancor le ceneri, e di cui vivrà bella la memoria fra noi, finché alme gentili alligneranno in Italia, pareva aver rivendicato a Dante il vanto d’ottimo cittadino in tal guisa che più non dovesse sorgere alcun contrasto. Pure da qualche tempo diversi libri, che vennero a luce senza suscitare la disputa, mossero alcune querele contro l’amor patrio dell’Alighieri; e a queste parole fece eco un letterato italiano, il quale in una sua lettera, che inserì in uno degli ultimi numeri dell’Antologia, accusollo d’intollerante e ostinata fierezza, e d’ira eccessiva contro Fiorenza.6

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Il Repetti, e quelli che per una ragione o per l’altra, per stimolo polemico che li inducesse a contraddire un luogo comune o per desiderio di accertamenti positivi, si staccavano con tanta cautela dall’opinione corrente, introducevano, forse senza saperlo, l’abito di un’indagine concreta, al di qua e al di là delle allocuzioni oratorie; ma qui ci interessa soprattutto l’accordo provvisorio, intorno a Dante, di uomini così diversi: e naturalmente aggiungiamo al Perticari e al Mazzini il Gioberti; il quale, con tutto il suo intenzionale storicismo, non poteva fare a meno di tracciare di Dante un ritratto piuttosto apologetico che critico, prendendolo a pretesto della mitopoetica religiosa e nazionale: La storia attesta da ogni tratto come la nazionalità e la lingua nostra sieno così parallele, unite ed indissolubili e come abbiano comune l’origine, il progresso, la fine. Esse nacquero ad un parto per opera dell’uomo, che scrisse colla stessa penna la legislazione della monarchia italica e quella del volgare eloquio, e che col divino poema mise in cielo il suo vernacolo, traendolo dall’umile qualità di dialetto e sollevandolo al grado d’idioma nazionale […]. Egli si alzò all’idea pitagorica dell’aristocrazia naturale e della sovranità dell’ingegno, commettendogli la cura di custodire e coltivar l’eloquio volgare e di renderlo illustre.7

Uno spoglio antologico darebbe presto evidenza di come questa prosopopea dantesca, che appartiene al Rinnovamento, sia adattata alle circostanze politiche, e limitata, rispetto a quanto uno storicismo politicamente più indipendente avrebbe potuto dire; del resto, è ancora un’autobiografia dantesca, voglio dire una immagine d’autoritratto sotto le sembianze di Dante, una ipostasi storica di sé medesimo (ipostasi è parola che gli piace), quel trattato dello scrittore ideale come somma della società umana, che appartiene al Primato. Ma esiste un’opera, uscita da quella cerchia di cultura politico-letteraria, che dà una misura esatta, anche perché mediocre, dell’immagine di Dante vulgata fra i letterati del primo Ottocento, con prosecuzioni efficaci nella mitografia del secondo: la Vita di Dante di Cesare Balbo.8 Vita: o, meglio, storia intorno ad un ritratto, secondo un canone di narrativa romantica, che si bilanciava equamente fra l’approfondimento psicologico della persona, intesa come universo dell’anima, e il gusto dell’avventura nel tempo, e dell’abbandonarsi di qualcosa di sé alla rapina del tempo: come quei quadri di battaglia, Gros o anche solo Détaille, Carlo od Orazio Vernet, dove l’eroe campeggia contro un tumulto di guerra, e vi partecipa col moto e col panneggio, ma dentro si raccoglie, e risponde a sé, e il volto, nobilmente contratto, risponde alla nobiltà dell’anima, di quanto il gesto lo dissipa nella storia. Di quest’esperienza approfittarono altri narratori, più dotati di virtù poetiche che non fosse il conte Balbo: indimenticabilmente Balzac, nei suoi ritratti napoleonici; e, sempre più corrivi ad un costume vulgato, novellisti e drammaturghi: ultimi, gli storici. Di qui il successo e il limite dell’opera: che non drammatizzava Dante in una sola direzione, come il Discorso del Foscolo; anzi, raccoglieva dal Foscolo stesso le suggestioni più puramente poetiche degli altri ritratti danteschi, in verso, e disponeva sullo sfondo di un’epoca tumultuosa e avventurosa molti quadri riassunti in una cadenza unitaria, quasi di 600

dramma storico: il ritratto dell’eroe. Ma gli appunti mossi all’opera, d’essere parziale nelle giustificazioni storiche, o d’essere un «romanzo», non reggono: tanto meno se “romanzo” significa arbitrio d’invenzione o scarso rispetto degli accertamenti (l’autore non poteva e non doveva accondiscendere alla illusione erudita di una informazione biografica astratta e documentaria, come prima gli eruditi del Settecento e dopo gli storicisti dell’Ottocento); e se racconta quella vita per risolvere un problema di moralità letteraria, per indicare concretamente le responsabilità di Dante rispetto al suo tempo, e le responsabilità dell’attuale scrittore “ideale” in quella faticosa aurora della nuova storia, non può dimenticare se stesso: con le sue generose attese, con le speranze d’Italia, devoto; e non sulle idee di Dante egli ricalca il suo discorso: si guarda dal farlo portinsegna di una polemica politica; ma sull’esempio di Dante, uomo e cittadino, poeta di una vicenda umana, dell’uomo: tale egli, minimo, si sente a paragone di quel grande, uomo e cittadino, e scrittore che pone la penna al servizio di quell’endiadi. Le idee dantesche non sono isolate in una nozione oggettivamente (ma anche presuntuosamente) biografica e storica: sono cercate, come è di tutta la storiografia risorgimentale più desta, attraverso un processo di consonanze sempre più attive su quanto risponde alle preoccupazioni attuali, e meno su quanto se ne allontana, sia pure tale allontanarsi un conquistare in distanza più grande spazio. E senza ingenuità di una biografia che diventa autobiografia, anzi con scrupoloso rispetto della dignità dell’argomento, accetta di riverire in quella Vita alcuni temi che più l’accendevano, alcuni propositi suoi: non grandi e degni perché fossero propri (la moralità risorgimentale non è certo egocentrica); ma giovava riconoscerne nel Grande la grandezza.

Biografia e storia Vita di Dante nella storia dei tempi di Dante: benché più volte affermi che la storia è secondaria rispetto alla vita, il canone vichiano non manca di avvincerlo, quanto più fascinosi a un gusto romantico appaiono quei tempi barbari e corrotti. Un contrasto fra un Illuminismo riaffiorante da tanti sedimenti d’altre culture e il Romanticismo? Ma per questa strada, e approdando al decadentismo, si metteranno altri letterati Romantici: non il cattolico liberale che anche da Manzoni ha imparato a distinguere e a conciliare storia e provvidenza, intelligenza del tempo e apologetica religiosa; non il politico esperto anche se disavventurato, che si equilibra diplomaticamente fra gli interessi contrastanti e cerca una mediazione ragionevole, che accontenti e scontenti tutti. Una violenza maggiore di sentimenti, un più vivace ardore di partecipazione, avrebbe resa l’opera più vivace; ma toccava ai polemisti ghibellini e laicisti sottoporre Dante a una interpretazione ideologica che lo snaturasse; dalla sua Vita gli studi danteschi possono dipartirsi in tutte le direzioni: lui per se stesso non cede a quel «ghibellinismo incantatore» ch’era pure stata la regola della sua giovinezza, al servizio di Napoleone e dell’Impero, in missioni di fiducia; forse lo rimpiange, ma quando lo annota in Dante se ne rammarica. Ritraendosi al di qua della 601

discussione politica, e sostituendo al Dante foscoliano il Dante un po’ aulico e giubilare, cui tenderanno le letture che precorsero le celebrazioni del sesto centenario, egli lascia aperte tutte le strade e non ne chiude nessuna. Al suo Dante, per certo gusto un po’ novellistico delle rievocazioni di ambiente e di cronaca, possono accostarsi tutti quelli che non riusciranno mai a pensarlo fuor di un quadro scenografico: il Dante mitografato dal gusto ottocentesco delle rievocazioni storiche e delle suggestioni patriottiche. Dal suo Dante possono muovere i lettori politici, ma anche i lettori critici, che, come De Sanctis, distingueranno hegelianamente il vecchio e il nuovo, la novità della poesia ed i relitti della dottrina, gli apologeti e gli esteti. Dal suo Dante, infine, appoggiandosi a una Vita che offre un quadro sicuro per ogni riferimento biografico, muovono gli eruditi che potranno correggere gli errori di fatto e di interpretazione: che non sono poi troppi. Per sé, con una cautela di applicazione sentimentale che è del miglior costume della letteratura e della cultura piemontese del primo Ottocento (ma se ne ricorderà la narrativa sino al Calandra), si consente qualche accento a una lettura sentimentale, che si raddoppia sull’accertamento erudito: barbaro chi non sa vedere la verità e la passione di Beatrice; e Piccarda è per tenerezza e ricchezza di sentimento degna delle donne di Shakespeare. Anche Tommaseo giovava in questo senso; ma era pur sempre ricchezza di lettura. Gli errori (le quattordici ambascerie annoverate dal Filelfo o il verso «ciascun che Della Bella insegna porta» così letto nella prima edizione) possono essere cancellati con un tratto di penna.

Prosecuzione politica e popolare Resta che l’opera si raccomanda meglio per l’attesa che per la consegna: sia effetto della disposizione d’animo dell’autore, che tenta rifare in sé ed in quella la vicenda di chi sconfitto dalla vita schiava si affida alle libere carte, all’opera d’inchiostro; sia dei tempi, che titubano, all’orlo di un abisso, il futuro, sulla proda del riposato vivere tradizionale. Pure attenendosi con tanto ingenua fiducia all’esempio d’Alfieri, Balbo non ne ha il giovanile coraggio (il suo noviziato non è stato, in quel vento di tempesta primaverile, gonfio di sentori e di succhi, che fu degli anni settanta; ma per quelle stesse strade d’Europa, nel declino della fortuna di Napoleone, guardava dalla carrozza, mentre si stringeva al cuore il portafoglio con i documenti di Stato, torme d’eserciti sconfitti). La vita di Dante gli procura un passaggio per una zona che concilia estremità mal frequentate dai suoi pari e dal patriziato illuministico cui appartenevano i Balbo con i Bogino: il populismo della poesia e il cattolicesimo della dottrina. Con qualche stupore questi patrizi politici ragionevolmente novatori s’accorgono che le deduzioni laiciste del liberalismo lo distruggono, e che le giustificazioni storiche lo riconciliano al cattolicesimo; e con malcelato entusiasmo questi patrizi addottrinati sentono che esiste una aristocrazia popolare, di linguaggio se non di classe sociale, e che vivere è discendere dall’astrattezza dottrinaria degli enciclopedisti verso una individuazione popolare e poetica di linguaggio, come aveva fatto Dante. 602

Ma l’autore non ha abbastanza forza per animare individualmente o socialmente l’incontro: esce titubando dall’informazione erudita della scuola veronese, che non utilizza volentieri; e il paesaggio della vita, dei tempi e della poesia dantesca gli resta alluso, quasi in una carta geografica. Il programma implicito della Vita comportava, ambiziosamente, che il motivo personalissimo dello scrittore si equilibrasse con l’esperienza storica del politico; ma come tante altre volte avviene della letteratura risorgimentale, le premesse individualistiche s’arrestano e cedono di fronte alle preoccupazioni dell’astratta dottrina: gl’incontri dei poeti cessano, e cominciano le fatiche registiche degli apologeti, o la baldanza dei politici: l’opera del Balbo, preziosa come testimonianza, s’apre da ogni parte, in apparenza trascurata e sorpassata così dagli impronti allegoristi come dagli eruditi; passano per lei tutte le fila della fortuna e della critica dantesca. Né dirò nemmeno per cenni delle innumerevoli polemiche de’ giornali, o delle imitazioni buone o cattive di tanti; ché le nomenclature non istanno bene se non ne’ cataloghi. Ma sien nominate la Francesca di Silvio Pellico e la Pia di Sestini; due opere figlie di Dante, e delle più care della nostra lingua.

Così il Balbo, in un cenno sulla fortuna, anzi «vicende della gloria di Dante», che è l’ultimo capo del libro. Pellico e Sestini: un autore risorgimentale e un improvvisatore che si trovava, senza troppo pensarci, poetando alla maniera vernacola, d’accordo con le più vive correnti romantiche e con le attenzioni coltissime alla poesia popolare. La tradizione dantesca dell’Ottocento si può raccogliere intorno a questi due temi: nazionalismo di Dante e lettura vulgata di Dante: più decorosamente celebrato il primo, più intimamente appreso il secondo. Ma il primo può giungere al grottesco encomiastico di un sonetto di Francesco Silvio Orlandini, che citiamo dal Mazzoni, a segnare un limite estremo di una operazione pratica e arzigogolata, priva ormai di qualunque suggestione di poesia su poesia: per una gemma dove erano intagliati Carlo Alberto e Dante (1855): O due famose fronti incoronate qual del lauro plebeo, qual del diadema, sul mio cor, perché batta e perché frema per la gloria e la patria, ognor posate. Tu sull’alme in servil sonno prostrate levasti il sole del divin poema, e tu, quello onde l’Istro anch’oggi trema, segnacolo immortal di libertate. Vostra vita a spezzar nostre ritorte fu sacra tutta; in voi per la costanza, il cor, la fé, l’esilio, il duol, la morte. O Dante, o Carlo! in vostra alta sembianza, imperversin le Furie e l’empia sorte, splende l’astro d’Italia e la speranza.

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Il secondo si celebra in un fatto difficilmente documentabile, l’uso di imparare a memoria tutto Dante, quasi un salterio dei nuovi tempi; e si potrebbe riassumere nella fortuna di Dante al teatro: indice prezioso della risonanza di un mito. Delle moltissime opere drammatiche (una cinquantina) che rappresentarono Dante sul palcoscenico, sia a protagonista, sia a personaggio complementare e corale, si può dir che nessuna sopravviva nell’abitudine vulgata, toltine i drammi su Francesca da Rimini, ch’ebbe, forse per influenza della sua nascita illustre, esemplata sulla leggenda di Tristano, la sorte d’essere accolta in una tradizione letteraria altrettanto illustre: Boker, D’Annunzio e Phillips, per dir d’alcuni. È molto se si ricorda il Dante a Verona di Paolo Ferrari, per stabilire l’indice di un divario fra le altre rievocazioni storico-poetiche, fortunatissime, di Parini e di Goldoni, e lo stento della rievocazione dantesca, che voleva intonarsi tanto più su di quel che comportava il costume. I grandi attori dell’Ottocento, che furono anche eccellenti dicitori, e che sapevano colmare di voci e di fiato le solennità degli endecasillabi, amavano recitare Dante: segno indubbio che anche il pubblico amava ascoltarlo. Si recitavano, di preferenza, i canti più apertamente drammatici: Francesca, Farinata, Ugolino, quelli appunto su cui De Sanctis si esercitava con risultati così concreti (e l’acquisto della concretezza era sollecitato dalla popolarità dei temi e da una tradizione già fissata di risonanza: vedremo che elabora volentieri i suoi approfondimenti critici su un mito). E per cercare in qualche modo di contornare con una cornice di finzione scenica la recita dei versi, gli attori amavano travestirsi da Dante, con il lucco rosso e la corona d’alloro sulla faccia che il cerone e il nerofumo rendevano grifagna (vecchia sdegnosa laureata, diceva poi il Carducci del ritratto di Dante) e passeggiavano per il palco, declamavano i versi, fingevano di dettarli a uno scrivano, o di rimeditarli fra sé, o d’improvviso tonando. Il più famoso di questi attori dantofili, alfieriano e mazziniano, sceglieva volentieri i versi di colore polemico, le invettive che potevano essere interpretate al servizio dell’attualità politica: Gustavo Modena. Altri, dal Rossi al Salvini, preferivano altro; e spesso, nel fervore dell’interpretazione, scoprivano tesori di poesia che la critica s’assumeva poi il compito di meglio dichiarare e mostrare: capitoli di una sola fortuna.

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Le Poesie, ed. crit. a cura di D. Isella, vol. I, p. 158 ss. Ibi, vol. II, p. 467. 3 Ibi, vol. II, p. 470. 4 Vol. II, p. 481. 5 Vol. I, pp. 154-155. 6 In A. MANZONI, D. e l’Italia, cit. La citazione del Mazzini è riferibile, naturalmente, al Perticari. 7 Il rinnovamento civile d’Italia, l. III, cap. VIII. 8 La Vita di D. è del 1839: il giudizio dello Scartazzini, tante volte suggerito prima di lui e dopo di lui detto: «Tra i discepoli e i seguaci del Troya primeggia Cesare Balbo, la cui Vita di D. (2 voll., Torino 1839, e poi più volte ristampata, 8ª ed. Firenze 1853), uno splendido romanzo dantesco, fu per quattro decenni la fonte precipua alla quale si attingevano le cogni2

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zioni di biografia dantesca» (Enciclopedia dantesca, cit., vol. I, p. 233), può essere giustificato, anche nel divario fra l’ammirazione, ancora romantica, per l’artista e l’insoddisfazione che vorrebbe in altri quel rigore di metodo antiquario cui non sempre s’attiene lui stesso. Ed è, comunque, un episodio splendido davvero del dantismo risorgimentale, e la collocazione che qui si propone, fra Mazzini e Gioberti, nonché raccomandabile è ovvia appunto.

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De Sanctis

Di una postilla perpetua Dante è l’ottimo reagente per le operazioni di lettura dell’ottimo fra i letterati critici d’Italia: De Sanctis. Tre tempi ha il suo ripensamento dantesco, riassunto come in tre capitoli successivi dell’opera: le lezioni torinesi; le lezioni zurighesi; i capitoli danteschi della Storia della Letteratura Italiana.1 Ma al di là della cronologia e della testimonianza pubblicistica di quelle letture, culmine i Saggi, c’è una frequenza di ripensamento che va dal trepido e caro ricordo della Giovinezza, «Vidi e conobbi Beatrice attraverso Genoviefa»,2 alla frequentissima postilla: ché il nome di Dante e il ricordo dell’opera ritornano continuamente alla sua memoria, al di là di ogni occasione di teoria e di storia. Giova, per intenderlo, abbandonarglisi, come egli si abbandona a se stesso. Se il tessuto di un’esperienza valida lo sorregge, è quello acquistato nelle letture della scuola napoletana: vivendo, allontana i due termini che aveva là messo a fuoco, la lettura e la sistemazione storico-dottrinale, la poesia e la scienza scolastica; e l’uno prevarrà nei Saggi, l’altro, come di dovere, nella Storia; ma la confessione del suo segreto, e il concorso più attivo agli studi, l’ottieni leggendo i trasalimenti, gli abbandoni, le riprese del suo discorso, al di qua e al di là dell’ordito ch’egli dispone: puntualmente ripetute nelle innumerevoli reminiscenze che insinua a proposito di qualunque autore. Di quel fondo di studi danteschi egli stesso dà notizia, in una pagina che trascriviamo intiera, come modello ed esempio di una scuola dantesca dell’Ottocento: Feci l’architettura della Divina Commedia mostrando quanta serietà di disegno era in quel viaggio, base sulla quale si ergeva l’edificio della storia del mondo, e più particolarmente italiana e fiorentina. Notai nell’Inferno una legge di decadenza sino alla fine, e nel cammino del poema una legge di progresso sino alla dissoluzione delle forme e alla conoscenza della immaginazione, superstite il sentimento. Mi preparai la via, combattendo i metodi de’ più celebri commentatori, che andavano a caccia di frasi, di allegorie e di fini personali. Notai che la grandezza di quella poesia è in ciò che si vede, non in ciò che sta occulto. Lessi la Francesca, il Farinata, l’Ugolino, il Pier della Vigna, il Sordello, l’apostrofe di San Pietro e altri brani interessanti, facendovi sopra osservazioni che non dimenticai più, e furono la base sulla quale lavorai parecchi miei saggi critici. Posso dire che la mia Francesca da Rimini mi uscì tutta di getto in due giorni, e fu l’eco geniale di queste reminiscenze scolastiche.3

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I ritratti danteschi Sarebbe possibile, documentando, rintracciare il successivo polarizzarsi del suo pensiero nell’indagine dottrinale e nell’indagine personale della poesia di Dante; e studiar quando nacque quell’ipotesi cui qui allude, «nell’Inferno una legge di decadenza sino alla fine, e nel cammino del poema una legge di progresso sino alla dissoluzione delle forme», che è lo sforzo più ansioso per superare il dualismo attraverso una storia interna della poetica della Commedia. Già è chiaro che il meglio gli esce dal cuore, quando lascia da parte i suggerimenti del cervello e le preoccupazioni culturalistiche. E nelle postille dantesche che dissemina in tutti gli scritti, Dante ritorna ad ogni pretesto, sia che si tratti della lirica sociale, rivolta contro il passato per distruggerlo, ma con sentimento e con fede,4 sia che per il Cours de Littérature Dramatique di Saint-Marc Girardin, utilizzando a modo suo «l’usage des passions» che quello catalogava, scopra del tutto quel suo modo di leggere Dante attraverso alcuni tipi individuati, tipi scenici della commedia dantesca.5 Più raro che si riferisca a una notizia di accento, anzi di programma hegeliano: «La poesia italiana in Dante si alzò alla essenza stessa delle cose, non essendo il suo universo che la teologia e la scienza incorporate e visibili, il pensiero fatto arte. A poco a poco la poesia si andò sempre più scostando da questa altezza, e la unità dantesca si dissolveva in due estremi indirizzi […], perdendo sempre più di vista l’infinito centro del mondo dantesco, si discese fino alla poesia detta d’occasione».6 Ma da ogni parte risulta, e soprattutto, naturalmente, dal calore del suo discorso e dal ritorno continuo di quella sua parola colorita e volante che alcune non idee ma propriamente immagini centrali del suo dire (figure che stiano nella memoria visiva degli spettatori, come stanno le persone di un giuoco scenico davanti ai loro occhi) il critico, il professore, continuamente indica e rammenta. Il risultato più memorabile di questa attenzione, comunque la prolungasse, come si documenta, lungo tutta la vita, sono i «saggi» danteschi: ritratti, appunto: Francesca, Farinata, Pier della Vigna, Conte Ugolino. E vi concorrono in varia misura quel che il critico-poeta ha appreso studiando il suo tema (rimeditandolo lungo la storia che è così facile rintracciare dall’esterno, specialmente, attraverso le lezioni torinesi), quel che gl’insegna la varia letteratura che egli frequenta, con quella sua attenzione appassionata, più di lettore che di teoreta e di storico, alla pubblicistica letteraria specialmente francese, e infine, ma ultime, le esigenze intellettuali e didattiche, la necessità di organizzare stabilmente in sistema un metodo e alcune idee basilari, al servizio di una scuola, che egli riesce a fondare. Sono tre momenti, né si cura troppo di ordinarli: anche trascrivendo nella forma definitiva dei saggi quel che ricorda e quel che trae dai suoi appunti (De Sanctis è sempre un poco autobiografo, quando scrive, e ripercorre la strada delle ricordanze; è tra l’Alfieri e Leopardi, con in più quella esigenza del dato preciso, quello scrupolo della verità, che gli viene dalla mentalità del verismo ottocentesco: le esperienze della prosa italiana, dopo Manzoni, ma soprattutto dopo Nievo, gl’insegnano una nuova indipendenza fra la memoria-monumento e la memoria-idillio). La disponibilità dello scrittore è tanta che soprattutto si preoccupa di seguire il 608

tono e il ritmo della parola parlata, rincorre l’idea, non s’arresta a contornarla in una esatta misura stilistica, accoglie tutti gli ondeggiamenti del pensiero no, ma dell’affetto, vagheggia e si effonde: il tono e lo stile, appunto, della narrativa italiana dell’Ottocento, finché il nodo dell’esperienza verghiana non le ebbe per sempre vietato di camminar dietro la scia della narrativa in versi, o in quello spazio sentimentale dove i narratori postmanzoniani immergono le loro creature. Ma così discorrendo, se ad ogni tratto conduce la cerchia degli ascoltatori devoti e intenti ad abbassar lo sguardo sulla pagina (o innalza la voce sì che la melodia chiusa della citazione sospenda nell’aria il suo limpido giro), abitano di là, remote eppure presenti, le pagine della pubblicistica letteraria, ch’egli né può né vuole escludere dal vivo discorso della sua scuola, abitano i nomi dei grandi letterati di Germania e di Francia (l’Inghilterra vive quasi solo nelle rievocazioni di Shakespeare e di Milton, in quanto di lei apprende dalla cultura vulgata; ma anche molta della letteratura d’Italia, e specialmente Dante e Ariosto, ritorna alla sua memoria suggerita dapprima dalla conversazione letteraria d’Europa), si svolgono e si dipanano nel cielo della letteratura non le correnti ma le parole, i discorsi, le curiosità della pubblicistica. Quell’atmosfera un po’ nubilosa ed enfatica egli talvolta si preoccupa di dissiparla, e mostra ai discepoli come sia da intendere e da correggere il giudizio di questo o quel polemista o letterato, piccolo o grande, Janin o Lamennais, uno che avventa un giudizio frutto di pregiudizi, od uno che sperimenta nel profondo.7 E, infine, la parte più caduca, ma che per la sua invadenza osserveremo a parte, il sistema dottrinale a cui appoggiare le sue investigazioni autentiche. A dir dei Saggi fondamentali su quei quattro personaggi, basti rammentare che ogni loro lettura e rilettura passa per le pagine di De Sanctis; ma non si comprendono storicamente e criticamente le pagine del De Sanctis senza la proporzione narrativa in cui sono collocate, e l’influenza della novella e del romanzo e del teatro sulla poetica della rievocazione. E a definir l’accento e l’animazione e il moto della stesura, osserva come quelle pagine riecheggino dialogicamente la fortuna: quasi mimo di una lettura erudita che conviene toglier di mezzo e gettar nella spazzatura: Perché Dante ha raccontato con tanto affetto i casi di Francesca da Rimini? Perché, risponde il Foscolo, Dante ha abitato in casa di Guido da Polenta, padre della giovane… E perché Dante ha riuniti insieme nell’inferno i due amanti? Perché per sì lieve fallo non sono a dir propriamente dannati, risponde Ginguené… E perché quel paragone delle colombe? Perché sono animali lussuriosissimi, salta su un commentatore. E perché il poeta fa parlare Francesca e non Paolo? Perché le donne, risponde con poca galanteria il Magalotti, son di lor natura ciarliere; e perché, ripiglia il Foscolo che ha torto di prendere sul serio tali futilità, le donne quando sono appassionate sentono il bisogno di parlare e di sfogarsi. E perché Dante sente tanto dolore che la mente gli si chiude «dinanzi alla pietà de’ duo cognati?» Perché, risponde insolentemente un frate, dové egli ricordarsi di aver commesso un peccato simile.8

Sono appunto proposizioni indiscrete che attendono di essere o respinte affatto nel dimenticatoio, o animate dai risultati di una nuova lettura. Il suo piglio 609

è audace: certo nessuno fu più di lui dotato della facoltà nativa dell’evidenza nel rievocare i fantasmi della poesia; e ognuna delle proposte che respinge come inciampi, non sarà mai definitivamente allontanata. «Perché una rappresentazione ideale non deve essere sopraccaricata di accidenti reali che ne avrebbero alterata la purezza» risponde il Foscolo all’obbiezione dell’inganno di Gianciotto, scambiato con Paolo, lo sposo creduto, nell’appunto novellistico del Boccaccio; ma la “purezza” della poetica foscoliana è ancor presente nella caratterizzazione desanctisiana di Francesca, come è presente e operoso il “canone” del Pellico. Anzi è da notare quanto di forza e di impegno e di risultato positivo egli impiega ed ottiene nell’allontanare gl’idoli della critica e del commento: perché non lo fa con un piglio dogmatico e per una fredda esigenza metodologica, secondo la consuetudine teorizzata e applicata poi dalla scuola crociana, ma propriamente entrando in colloquio, sia pure aspro, e abbattendo ad uno ad uno quei burattini, a ognuno dedicando un suo gesto, reverente al Foscolo, infastidito al padre Lombardi. Così facendo, la polemica diventa un concreto atto drammaturgico, la forza operosa del dialogatore incomincia a palesarsi e a prender corpo attraverso la resistenza, ed ogni possibilità successiva, per riprendere con diversa attenzione quelle direzioni estetiche che il critico respinge da sé, è salva (è evidente, per esempio, che il settecentesco padre Lombardi meritava diversa accoglienza nel suo commento penitenziale al passo: «Tristo per proprio rimorso di simili colpe, e conseguentemente per meritato ugual castigo: poi per compassione a quelle anime». Ed altro aggiungeranno i moderni interpreti, esperti del significato simbolico del mistico tramortimento). E invece resta fatalmente inerte quando non già in polemica entra con questa o quella diversa attenzione o persona, ma accorre a cercare lo schema dottrinale dove raccogliere la sua indagine, la cornice in cui chiudere il suo ritratto storico e psicologico. Qui altro dissidio si palesa, ed è il dramma della cultura stessa di De Sanctis e dell’Italia: l’Illuminismo aveva insegnato a catalogare il tempo sotto il suggello di un’idea, e Hegel aveva nell’idea astratta, diventata vita e sostanza, rovesciato tutta la concretezza. Di questo metodo De Sanctis, che aveva letto Hegel senza potersi del tutto decidere per lui (accorreva De Meis a proclamarlo hegeliano di stretta osservanza, quando il maestro napoletano si contentava di scrollare il capo, insofferente del monismo), si rende partecipe come di un male minore: anzi, di natura entusiasta, si associa volentieri al coro; e di un metodo essenzialmente scolastico, come è il suo della sintesi di forma e di sostanza, fa un capitolo dell’hegelismo trionfante, la forma come bellezza dell’idea. Per Hegel l’idea è la realtà, tutta la realtà, e data questa proposizione metafisica tutto si può ricominciare a discutere; ma per De Sanctis, che non può dimenticare l’eredità illuministica, confermatagli dalla pubblicistica ottocentesca, soprattutto francese e democratica, non esiste tanto l’idea come le idee. Quindi una duplice soluzione: le idee attendono di essere concretate nell’arte del poeta, e questo è bene; oppure le idee fanno ostacolo alla libera spontaneità creatrice, o il poeta non sa concretamente riviverle, e questo è male. (Nella scuola, il processo è di una indicibile efficacia didattica, tanto appassiona i discenti; ma da un punto di vista di filosofia sistematica, manca una adeguata fondazione teoretica.) Nella lettura di Dante le due opposte prospettive ricorrono con una frequenza continua: 610

Gradazioni progressive generano da ultimo il gran poeta che dà a tutta la serie la forma definitiva.9 Se il concetto rimane nella sua purezza o astrazione, la forma in cui lo simboleggiate è una personificazione, non una persona: è l’idea, non l’ideale; è la teologia, non è Beatrice.10 Che cosa è dunque la Commedia? È il medio evo realizzato, come arte, malgrado l’autore e malgrado i contemporanei. E guardate che gran cosa è questa! Il medio evo non era un mondo artistico, anzi era il contrario dell’arte. La religione era misticismo, la filosofia scolasticismo. L’una scomunicava l’arte, abbruciava le immagini, avvezzava gli spiriti a staccarsi dal reale. L’altra viveva di astrazioni, di formole, di citazioni, drizzando l’intelletto a sottilizzare intorno a’ nomi e alle vacue generalità che si chiamavano «essenze»… Ma questo mondo artistico, uscito da una contraddizione tra l’intenzione del poeta e la sua opera, non è compiutamente armonico, non è schietta poesia […]. Le sue figure allegoriche ricordano talora più i mostri orientali che la schietta bellezza greca: personificazioni astratte, anziché persone conscie e libere…11

Più in là non si può andare, nel dissidio e nel dubbio di sé; e i capitoli della Storia della Letteratura Italiana rimarranno esempio di un dramma del critico che non riesce a foggiarsi uno strumento adeguato alla sua lettura; e perciò oscilla fra diversi riassunti, ora sembra gettare troppe cose nell’abisso dell’indistinto, ora salva quasi tutto. Con il suo intuito intende che si tratta di lavorare più oltre. Gli schemi storiografici di cui si serve sono di una spaventosa insufficienza; e solo l’inerzia con cui l’incultura italiana sosta nella scenografia proposta al Medioevo dall’enciclopedismo illuminista può indurci a considerare con altro che con dispetto e fastidio quelle approssimazioni che egli e tanti ripetono in buona fede. Per contro, quando ritorna sopra una lettura, quando ripensa a una situazione o a un personaggio fuori dalle preoccupazioni organizzative, riesce quasi sempre a cogliere una nota più profonda di poesia; così accade nelle postille, in quel suo richiamarsi a Dante per qualunque ragione. Insufficienza dello schema, dunque, e ricchezza dei risultati di lettura, a cui continuamente si richiama. Intorno a lui si poteva dissentire; ma i risultati sono anche indirettamente fecondi: infatti, quando l’Ottocento bada a leggere Dante, si accorge a poco a poco che può ricavarne i frutti di una sensibilità estetica che si è intanto esercitata con la lettura degli scrittori nostrani e dei forestieri; il culturalismo del secolo, sempre disposto ad accettare nel senso quel che era prima nella forma o nella storia, ha la sua parte; ma il patetico abbandonarsi desanctisiano alla poesia, quella sua raccomandazione inintermessa di lasciarsi andare a leggere, che metteva al principio del saggio su Francesca, acquista tutto il suo valore e la sua efficacia. Le letture di Dante, in qualunque sede perseguite, letture di poesia da un palco di teatro, o letture critiche dalla cattedra di un conferenziere, guadagnano a poco a poco tutto l’ideale spazio dantesco. Per contro l’insufficienza della sua informazione storica, la fretta delle sue inquadrature, o il fastidio, infine, degli schemi illuministici che ingombrano la Storia e la sovraccaricano di un peso che solo la sua genialità riesce a sopportare, senza che tuttavia possa aiutare a far che gl’Italiani li tolgano di mezzo dalla loro enciclopedia scolastica, inducono la cultura organizzata a ripercorrere tutto quanto il territorio del Medioevo e a considerarlo in una nuova intelligenza. De Sanctis è nella storia della fortuna di Dante al termine della schiera dei poeti; ma la fretta 611

con cui cede alle suggestioni anticritiche di una storiografìa ufficiale e polemica e politica, induce gli storici a un processo di revisione, e a avvalersi di quei risultati di cui, sprovvedutamente, non teneva conto. Witte, Ozanam e Moore lavorano prima di lui ed accanto a lui; e se la dantologia si organizza in sua assenza, il suo cordialissimo incontro resta ben vivo.

1 La postilla dantesca di Francesco De Sanctis corre tutta l’opera: ne vedremo alcuni esempi; ma una schedatura cronologica (se, ancora una volta, non volessimo disporre di sugli accertamenti passati il metodo verso gli accertamenti futuri), eseguita in sede di esercitazione sistematica, conferma la mobilità dell’impressionismo della lettura desanctisiana di Dante e il suo muoversi, nel tempo, verso una disponibilità consapevolmente libera. Tuttavia, per una prima indagine, anche le inquadrature polemiche sono utili, da L. FILOMUSI GUELFI, Il poema dantesco nella critica di Francesco De Sanctis, in “Nuovo Giorn. Dant.”, I (1917), ad A. GUZZO, Il «Paradiso» e le critiche del De Sanctis, in “Rivista d’Italia”, 1924, e ancora Il cristianesimo nel «Paradiso» di D.: l’interpretazione del De Sanctis, in Studi d’arte religiosa, Torino 1932. Quanto della sistemazione critica desanctisiana sia stata condizionata alla interpretazione tedesca si può osservare attraverso il saggio di P. PIZZO, La DC nei giudizi dell’Hegel, di T. Th. Vischer e di Francesco De Sanctis, in Festschrift Louis Gauchat, Aarau 1926. 2 La Giovinezza, frammento autobiografico, con introduzione e note di L. Russo, Firenze 1941, p. 23. Aveva detto subito prima (e ripetiamo il passo per annotare fin d’allora, in quelli che il Cian chiama «promettenti esordi» in “Gazzetta del Popolo”, 13 febbraio 1921, l’ingenuo mescolarsi di cara pedanteria e di affetti): «Quando narravo, tra molti vanti, le mie vittorie scolastiche, pensavo spesso: lo saprà Genoviefa, le farà piacere […]. Quando Young lamentava la morte della figlia che si chiamava Narcisa, io lagrimava con lui. Non so come, pensando a Narcisa, ne veniva innanzi Genoviefa: così bella me la dipingevo, e così cara cosa». E una terza personificazione aggiunge subito dopo a Genoviefa-Narcisa e a GenoviefaBeatrice: «e fino, più tardi, la Graziella di Lamartine». 3 La Giovinezza, p. 260. Il Russo annota: «Di questa osservazione sulla progressiva immobilità dell’Inferno e sul progressivo spiritualizzamento e dissoluzione della forma, che formeranno le più profonde, ma anche più discutibili pagine dei suoi Saggi e della Storia, non v’è traccia nei sunti delle lezioni». 4 Teoria e storia della letteratura, ed. Cortese, p. 158, in Opere di Francesco De Sanctis, Napoli 1930. 5 E ancora, per la stessa recensione, pubblicata dapprima nel 1856, per il Piemonte, e nella prima ed. dei Saggi Critici (1866), sempre ribattendo su Francesca e senza accorgersi d’invadere il testo poetico con la mitologia sua propria: «Vi sono le donne forti e le donne deboli; e queste ultime non sono le meno poetiche: vedete Francesca da Rimini»; e: «Francesca, Giulietta, Antigone amano tutte e tre; e la bellezza di queste creazioni è posta non nelle qualità generali dell’amore […], ma in quel che hanno di proprio, cioè nel loro carattere: a questo solo patto sono esse creature o persone poetiche». 6 Così nel saggio: Alla sua donna: poesia di G. Leopardi. 7 Sempre sottolinea ogni momento energico della poesia con un riferimento dantesco: anche solo alla fine, per una canzone oratoria di accento giobertiano «Schiettissimo e nobilissimo, l’energia del suo animo trasfuse ne’ suoi versi e rimise la poesia sulla via di Dante» dice di Alfieri nel saggio Janin e Alfieri; nel saggio lamennaisiano: «La Divina Commedia» versione di F. Lamennais con una introduzione sulla vita, le dottrine e le opere di D., la pietra di paragone diventa pietra tombale: e comincia così: «Ecco un nuovo lavoro intorno a Dante. È il testamento del Lamennais, interrotto dalla morte».

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8 Il dialogo che riecheggia l’altro famoso fra Janin e la Plebe, annota e colorisce l’andatura delle lezioni, già osservata: «Ecco un esempio dei “perché” e dei “forse” dietro i quali si stillano il cervello i commentatori di Dante». Non che fosse tenero con altra esegesi di quella che gli suggeriva l’animo perturbato e commosso. Dice continuando: «Mi si dice che nelle conferenze pedagogiche tenute a Firenze si sia molto discorso della Francesca da Rimini, e che il segreto della grande bellezza di quel canto sia stato da alcuni posto nel verso tanto commentato da’ comentatori. “Quel giorno più non vi leggemmo avanti” (Inferno V, 138)». E su questo: «Bisogna pur dir che la critica ha fatto così poco cammino in Italia da essere ancora possibili simili discussioni, proprie di cervelli oziosi e vaghi di sciarade, ottusi alle pure e immediate impressioni dell’arte». E ammettiamo pure che nelle conferenze pedagogiche a Firenze, nel 1868, la catarsi tragica del silenzio sia stata scambiata per reticenza. 9 La Giovinezza, p. 128. 10 Satana e le Grazie di Giovanni Prati, ed. Cortese, cit., p. 177. 11 Storia della Letteratura Italiana. La «Commedia», ed. Cortese, cit.

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Cronache letterarie della terza Italia

Carducci Tale il sacro poema di Dante. E come avanza di gran lunga le altre opere del poeta e del secolo, così ne tiene pur sempre certe proprietà che l’età nostra non intende.1

L’orazione inaugurale di Giosue Carducci per le letture dantesche di Roma altre aporie riconosce, e vi s’arresta; né la soluzione eloquente di un dissidio fra poesia e dottrina va troppo oltre la confessione quasi più patetica che orgogliosa: «Muor Giove e l’inno del poeta resta»; epigrafe sottintesa anche nell’operetta che conclude e seppellisce tutta una scuola di dantologi: La Poesia di Dante, di Benedetto Croce. Come sarebbe a dire: «non intende»? E il nihil humanum dello storicismo potrebbe esser vinto davvero dalla «cabala del nove»? Quell’ampia e ben orchestrata esposizione, quella prolusione pochissimo convinta, il discorso insomma sull’Opera di Dante, tanto voglioso d’accamparsi nella storia, e respinto da questa e dall’intelligenza organizzata della poesia proprio per un divieto allotrio, pel rifiutarsi a partecipare fino in fondo del mondo dantesco, che è il primo dovere di ogni lettore, traduceva ancor poco di quanto Carducci poeta andava scoprendo in Dante. La ricerca giovanile della fortuna, più che vent’anni prima, moveva fiduciosa da un Dante risorgimentale, esattamente biografato secondo i risultati dell’erudizione settecentesca del Dionisi e del Pelli: le pagine dantesche dell’uomo maturo sembrano risentirsi di un divario che il maestro-poeta avverte e soffre fra quanto la sua fantasia sa leggere in Dante, abbandonandoglisi, e quel poco che il rigore disciplinato della sua scuola gli consente: della sua scuola, e della polemica politica che vi s’innesta; e la confessione poetica ch’egli affida ai versi, anche quando sembra che l’enfasi oratoria soverchi l’attenzione autentica, dice assai più di quel che egli riesca a tradurre in termini di critica e di storia, nelle sue lezioni dalla cattedra e dal libro. L’antologia delle sue rievocazioni dantesche è assidua: incomincia con le commemorazioni giovanili, quando Firenze si decorava per diventar capitale del regno, monumenti in versi, cui appena la tradizionale sobrietà del gusto toscano impedisce di eccedere nel gesto, e ancora a un monumento s’arresta: a Trento.2

D’Annunzio Le Rime nuove son colme della Vita Nova: quasi per un processo connaturato al nuovo nazionalismo, che in più riposato tempo, dopo i fervori eroici del Risorgimento, dovendo cercarsi uno stile di vita elegante e amorosa, lo trovava 615

in una tradizione nobilissima e gentile. La letteratura femminile dovette avervi gran parte, e la presenza regale e operosa di Margherita; e forse altrettanto il prerafaellismo inglese, tradotto in termini di spiritualità mondana, fra Nencioni e D’Annunzio.3 Il quale, come suole, tutto apprende e tutto oltrepassa: le composite eleganze degli stilnovisti nostrani della scuola carducciana, che solo con Severino Ferrari attingono la grazia assoluta dei madrigali, un equilibrio stilisticamente perfetto fra la sensualità dell’ispirazione prima e la purificazione estatica del verso, ma sensibilizzate ed estenuate all’estremo; e, gonfiando la retorica risorgimentale, uno stile statuario, forzuto e gonfio, il barocco avvolto nelle bandiere e scagliato all’assalto dei monumenti commemorativi: nelle piazze d’Italia la sobrietà e la intrinsechezza del linguaggio paesano raggelavano i marmi; ma sulle colline romane squillavano e rombavano i bronzi. Lo stilnovismo dannunziano muove da un’antologia dei poeti toscani e dei versi danteschi: Or n’andava così per la novella erba, per l’ombre del beato lido, il damigello con la damigella, pensando Cino ed il Petrarca e Guido. Non così dolce il canto de ’l Casella sonò ne l’alma de ’l poeta fido, come in me quel leggero ondeggiamento de li alberi per l’aria senza vento;

e confessa alfine la sua meta, il decadentismo preziosamente mascherato di culturalismo: O Viviana May de Penuele gelida virgo prerafaelita…

Il titolo n’è, appunto, Due Beatrici. E a chi vuol la postilla di cronaca letteraria, ecco Quattro sonetti al poeta Giovanni Marradi in onore della Nona Rima: O poeta gentil, quanto mi piacque che ti vidi onorar la rima nona…

dove Dante, «Giudice Nino gentil […]», introduce la poesia dell’Intelligenza a chiudere l’Isotteo; e, a chiudere la Chimera, un sonetto a Giulio Salvadori, ma «rileggendo Omero»: quasi per opporre la soluzione vitalistica e pagana e carducciana al passaggio di quello, coerente, da uno stilnovismo di maniera a una cristiana «imitazione di Dante»: Troppo in un malsano artifizio di suoni io perseguii a lungo de l’amor le larve infide. Ora un lucido senso alto ed umano

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me invade, poi che novamente udii cozzar ne ’l verso l’armi de ’l Pelide.

Nel canone di «questi anacoreti della società moderna», attratti verso «la Vita multipla e multiforme, vibrante, sonante, trascinante, e verso la grande Arte rispecchiatrice dei fenomeni e delle passioni del mondo»4 c’è di dovere il nome di Dante; e per comporne il ritratto, D’Annunzio riaccorre al Maestro avverso: il tuo monte Gàbberi… certo nell’infanza selvaggia… t’apprese il crudo cipiglio onde tu guatasti i Bonturi e i Fucci e i ladruncoli immondi e l’altra genìa per le terre che il vicin tuo esulato stampò di suoi fiammei vestigi… Or se tu spiri il tuo vasto soffio nella bùccina forte che tra l’ignavia dei servi chiamò i guerrieri festanti alla suprema tua giostra, da tutti gli echi dei monti che il castigatore grifagno vide fiammeggiare nel cielo dell’ire sue conflagrato, vermigli come se di foco usciti fossero e fece d’essi le meschite infernali, da tutti gli echi dei monti sola ti sarà ripercossa voce di vittoria e di gloria,

subito da Carducci rimbalzando, per una associazione di idee anche troppo naturale nel circolo della letteratura italiana, all’ipostasi di Dante in montagna di Vittore Hugo, A Dante, che è il secondo degli inni pindarici dedicatori nel II delle «Laudi», Elettra: e tu come una rupe, come un’isola montuosa, come una solitudine di pensiero e di potenza, come una taciturna mole di dolore meditabondo che ode e vede, sorgevi uno dal gorgo: e nell’ululo delle prede, nel sibilo dei nembi, nel rombo delle correnti, il tuo orecchio udiva quel silenzio e la sola Parola che doveva esser detta… e ti diede i suoi tuoni e i suoi raggi il tuo Dio, cui tu innalzasti il canto che non ha fine.

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Né in quella immagine si ferma, anzi ne respinge la suggestione panteista: nasce «uno» dal gorgo; e ascolta «il suo Dio»: solo così: Per la quercia e per il lauro e per il ferro lampeggiante, per la vittoria e per la gloria e per la gioia e per le tue sante speranze, o tu che odi e vedi e sai, custode alto dei fati, o Dante, noi ti attendiamo.

Salvadori La breve avventura letteraria ritornava a una celebrazione oratoria così turgida e aspettante che il culto risorgimentale, colmo di pudica pietà, l’avrebbe proibita: misurala al confronto dell’elegia leopardiana: «Amor di patria, o cari, amor di questa misera […]», che è tanto diversa da questa ipotiposi dannunziana, quanto è diverso il monumento a Dante in Santa Croce dal monumento a Carducci in Bologna. Era una evasione oratoria, un modo di sottrarsi ai precisi impegni che accettar Dante comporta, una finta, nella nostra storia civile; ma tra i carducciani di meno stretta osservanza, uno v’era, Giulio Salvadori, che dalla fase stilnovistica apprende, come conseguenza necessaria di un ritorno dall’estasi, l’itinerario ascetico e morale della Commedia; e le letture moderne di Dante discendono tutte quante da lui: ché la lettura è divagazione erudita intorno all’astrazione della cronaca o giuoco d’imitazione intorno alla concretezza del testo, ed è vana, un allontanarsi anziché un partecipare; oppure è esegesi, e l’impegno della lettura seconda lega all’originario moto della conoscenza.5 Lo stilnovismo di Giulio Salvadori aveva, fin dai tempi della cronaca bizantina, un senso sottile di ricerca e d’impegno che direttamente denunziava la superficialità mondana degli altri poeti di quel circolo, l’eleganza dantesca di una imitazione difficile, ma non per questo conclusiva. Così riluce nella mente mia del bello il sole, e vi risveglia un canto che a più splendidi cieli or mi disvia; ma sul lago del core un’ombra intanto stendesi, e preme; ed ahi! non più, qual pria, pronto il sorriso ne rampolla o il pianto. (Contrasto)

Evidenti le metafore dantesche; e il primo moto è di baldanzoso acquisto (i poeti della scuola carducciana ripetono volentieri, anche Pascoli, il gesto del maestro, e qui tale è il giro strofico delle terzine); ma nella malinconica ombra dell’ascesi Carducci non avrebbe saputo indugiare: Salvadori vi scopre la condizione di un ripensamento più audace, quanto più raccolto e sommesso, dell’esser suo. Da allora ondeggia sempre fra il proclama aperto e sonoro, di quella sua eloquenza lucente e ardita che pare abbia sempre uno strano distacco dalla 618

sua attenzione segreta, e la via umbratile che s’è scelta per il perfezionamento interiore. Questa seconda traccia è della sua poesia; ma la macchina eloquente che innalza obbedisce a temi estrinsecamente danteschi più nella impostazione generale che nella animazione verace. Come uomo di cultura accetta il canone della presenza storica: solo la interpreta al di fuori dei divieti illuministici e nazionalistici dei carducciani di stretta osservanza: Oh ardente di balda giovinezza popolo austero e grato! te, in San Giorgio, Donato effigiò con tanta gentilezza.

Dallo stesso tema, il San Giorgio di Donatello, Carducci prendeva pretesto per respingere da sé sdegnoso gli accademici Lapi e i Bindi artieri, e per sognare un popolo d’eroi, in una adunata coreografica trionfalmente davanti la statua: Salvadori, con una luce di sorriso, postilla da Baldassar Castiglione: «per la forza del vocabulo si può dir che chi ha grazia, quello è grato». Analogismo dantesco, certo. Son versi Per il discoprimento della facciata di Santa Maria del Fiore: un brutto pastiche architettonico; ma non vuole né può dirlo: il segno architettonico, nel declino crepuscolare e apocalittico dell’ora, non è che un pretesto: adora, o età novella! del lume d’ogni stella al Tempio novo raggerà la fronte.

E postilla con le parole di Cristo alla Samaritana: «Viene già l’ora che adorerete il Padre, non in questo monte né in Gerusalemme. Sì, viene l’ora, e già è venuta quando i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità. Perché il Padre tali uomini cerca che lo adorino». Così il tempio di pietra si dissipa nella gran luce di quel paesaggio immenso, terra e storia, e il canto è una spirituale lauda. Oh, chi è questa che per via procede, e ogn’uom ne trema? Ell’è la donna umile. Dante udì primo il grido di mercede che l’Angelo facea per la gentile: e del soave stile con alta melodia lodò l’anima franca, cui, nuvoletta bianca, cantando il vol degli Angel salìa.

Sono avvertibilissimi gli elementi della composizione: se il canzoniere civile è un laudario che il poeta compone rintracciando la «natura in fondo religiosa» dei grandi fatti della storia civile, e il segreto «impulso che trascende di molto i 619

suoi effetti visibili nel mondo», se insomma, per cercare una formula frettolosa, da Carducci, nell’interpretazione della storia d’Italia, ci si ritrae indietro a Ozanam, se lo spiritualismo trionfa, non già come evasione dal mondo delle certezze, né come preziosa vittoria sul realismo della corrente letteraria più asserita, ma come approfondimento della realtà totale, ricerca della verità, atto di una interpretazione religiosa della vita, il linguaggio del poeta è ancora stilnovistico: Forse con gli occhi in alto, desioso, Lapo tuo, tra le mura inargentate tal ti sognò nell’aer luminoso emerger con le torri alte merlate…

e anche quando si accosta a ritrarre un paesaggio, lo ritrae a quella maniera, che, spiritualisticamente appunto, raggentilisce l’esatta resa stilistica di un’arte sempre scattante e vittoriosa sulla sua occasione. La via onde supera la maniera dello stilnovismo ottocentesco è ancora di direzione dantesca. Salvadori circonfonde di luci profonde i suoi paesaggi: ch’era esperienza cara al paesaggismo dei pittori suoi contemporanei dell’ultimo Ottocento, intenti a un’animazione primitiva e ingenuamente adorante delle scoperte luministiche e d’atmosfera dell’impressionismo; ma si lascia sempre sorreggere dalla illuminazione teologica, come Dante: dal sole del mistero chini lo sguardo al piè. (Preghiera per un poeta)

Fa parte della storia della sua poetica, che qui non possiamo ripercorrere, osservare il passaggio dalla maniera dello spiritualismo primitivo a quel largo meditato comporre per contrappunto, al liturgismo della proposta finale: e ancora Dante lo sorregge; ma Ozanam, che tante volte cita e postilla, gli è accanto. Il suo contributo agli studi danteschi si coordina nelle ordinate e nelle ascisse del suo gusto di poesia: fra gli studi sullo stilnovismo e quel saggio di interpretazione dantesca parenetica che è La mirabile visione nel paradiso terrestre di Dante. Certo le due correnti di ricerca concorrono: La novità che appare anche a chi legge la prima volta ma con intelletto d’arte è che la mente irrequieta del Guinizelli passa oltre il visibile, vede la vita di quaggiù in intima relazione con un’altra vita, la luce della bellezza esteriore con la luce nascosta dell’anima, e sente in sé la passione purificarsi gradatamente nell’amore della bellezza invisibile. È l’apparire dello spirito oltre la materia e del divino nelle cose, il principio della grande poesia;6

e da Guido Guinicelli passando a Dante, in realtà non si isola nell’esame di valori poetici, né dietro quelli intende o vuole l’assoluto di una figura umana, bensì tracciar l’itinerario della poesia dantesca verso la Commedia: sia pure arrestandosi, pascolianamente (dico di un Pascoli che fa poetica del suo sentimenta620

lismo liminare, non dico del Pascoli che qui andiamo rintracciando, combattuto fra la validità suggestiva della poesia nel regno dello spirito e la regola della mediazione intellettuale preordinata alle conquiste dell’arte, che egli raccoglie fra le aporie degli ideologi d’accatto) alla sfera delle rivelazioni sentimentali: La sorgente di quella poesia, non è nella fantasia, è nel cuore di Dante, nel cuore «trasmutabile per tutte guise», che ha sentito, prima che veduto, il purgatorio, il paradiso. La poesia Dante la porta con sé. La sua grandezza d’animo per la quale affrontò il gran compito che gli toccava, fece la grandezza della sua poesia.7

Ma gli studi dove approda sono assai più tardi, del 1912, e l’esperienza del fondarsi su dati di lettura è assai più attiva che nello studio Il problema storico dello «stil novo», pubblicato nella “Nuova Antologia” del 1° ottobre 1896. Anche le scoperte poetiche del Canzoniere Civile, titolo che dantescamente ridusse a Ricordi dell’umile Italia, esercitano un’efficacia sul poeta che si fa saggista: così dove, sulla traccia di uno studio di suo fratello Olinto, paragona la duplice basilica d’Assisi alla triplice della Commedia. Eppure l’accento più caro e purificato della lettura dei canti del Paradiso Terrestre cade sulle movenze stilnovistiche di quegli incontri e trasfigurazioni: Così torna la creatura umana nel velo lucente del pudore nato con essa, col senso naturale della misura che le dà la bellezza del decoro, con la mente splendida d’una chiarezza che illumina i sensi: che nelle creature tutte, e più nelle più nobili, le fa riconoscere Dio e sorridere.8

Ma si unisce al ritratto stilnovistico delle creature beate una ricchissima lettura, dei mistici e dei Padri, dei testi scritturali e gioachimiti. Il procedimento non è nuovo, dopo Tommaseo, uno degli autori di Giulio Salvadori; ma intendi che Tommaseo è ancora, a paragone, rigoroso, che i suoi riferimenti sono di una dottrina scolastica assai sobria e severa: il nuovo periegeta accosta i passi non solo per chiarire il testo, ma propriamente per ricondurre nella lettura una vibrazione sentimentale di poesia aggiunta a poesia.

Pascoli Negli studi danteschi del Pascoli9 la suggestione più profonda si esercita in questo stesso senso: accorrere alla lettura con le particolari attitudini che ha sviluppato il nuovo esercizio della poesia. È dunque sulla strada dell’esegetica dantesca risorgimentale: seppure, per quel che di decadente è in lui pure, e per la sua poetica del mistero, più propenso alle attenzioni spirituali del Tommaseo che alle deduzioni storiche del Foscolo. E se si fosse trattenuto in una lettura di Dante più attenta, se le sue ambizioni fossero rimaste appagate dal tornare al poeta dopo una esperienza di poeta, se la sua poetica delle cose umili e dei sentimenti umbratili e ingenui non gli fosse sembrata insufficiente, non si sareb621

be volto agli studi danteschi: dico a quello sforzo di ordinamento sistematico che per la sua stessa assolutezza gli vale lo sdegno e più spesso il silenzio degli specialisti; avrebbe proficuamente antologizzato, come nei suoi studi sull’epica e sulla lirica latine, e nelle sue traduzioni dai Greci e dai moderni. Invece, egli si trovava in disaccordo, o credeva d’esserlo, fra le sue ambizioni di umanista e i suoi risultati di poeta; e come dalla poesia di Myricae e dei Canti di Castelvecchio si volse alla poesia patriottica e a liturgizzare i misteri della nuova Italia, così chiese e non ottenne ascolto in nome della dottrina e dell’ingegno, quando volle dimostrare di esser pronto, lui poeta delle piccole cose e profeta del fanciullino, a ficcar lo viso a fondo nel mistero di Dante, dove tanti avevano guardato senza veder nulla. Vorremmo annotare per prima cosa questo risentimento, negli studi pascoliani su Dante, che l’insuccesso o addirittura la disistima rinfocolano, ma non fanno nascere: era un sentimento di sospetto e di umiliazione che lo accompagnava già da principio, un complesso di inferiorità che lo induceva a uscir dalla cerchia più sua per cimentarsi al paragone della scienza ermeneutica e della dottrina filosofica, di contro a quei solenni officianti della scuola storica che rispettavano moltissimo l’ingegno dei poeti, ma pensavano (e ne avevan persuaso lo stesso Carducci, fin quasi a pentirsi di fare il professore) che fosse bene riseparare critica e arte. Il sospetto era giustificato dal fatto che Pascoli pretendeva di dimostrar valide, alla luce di una dottrina astratta, di una giustificazione oggettiva e dottrinale, sottratta alle mediazioni psicologiche e poetiche che gli toccavano, i risultati di una lettura che sottoponeva Dante alla luce delle nuove poetiche. Noi siamo abbastanza convinti, ormai, che l’esegesi perenne della poesia-verità si celebra facendo che alla lettura concorra quel tesoro di esperienze psicologiche e linguistiche via via accumulato dai nuovi poeti che «inventando» crescono nell’unità riaccertabile della lingua e dell’esperienza tutta quanta degli uomini; ma Pascoli, poco esperto per suo conto di dottrine romantiche, benché apertissimo, come poeta, alle esperienze di un secolo di poesia, non aveva altro mezzo che la buona volontà e il processo delle evidenze per dimostrare che era legittimo disporre all’attenzione dei dotti i suoi risultati di lettura, e perciò, inquieto, si corrucciava; e insisteva su quella strada delle certezze, e delle dimostrazioni perentorie, da cui l’allontanava tutta la sua natura di interprete della vita segreta del sentimento e del senso, e dell’immensità degli atti minimi. Nessun acume e nessuna arguzia di ingegno potevano costringere i suoi contemporanei della scuola storico-positivista, cresciuti nella tradizione documentaria dell’erudizione settecentesca,10 a riconoscere Voltaire sconfitto e la ragione soccorsa dal mistero; né a lui toccava, se fosse stato fedele consapevolmente del suo procedere dalla verità alle certezze, dimostrare che Dante aveva fatto il cammino ritroso, dalle certezze alla verità, e che aveva organizzato altro che una scenografia allegorica come credevan quelli, di gusto e di sopravvivenza medievale; Pascoli, ingenuamente, vi si impegna, e lavora a dimostrare che Dante ha disposto razionalmente l’ordinamento del suo itinerario verso ciò che sovrasta alla ragione, verso il trascendente. Ma allo stesso modo il poeta Pascoli aveva creduto di potere, attraverso un processo di integrazione, passare dalle sue piccole scoperte quotidiane al possesso dell’essere e dell’immenso. 622

Il simbolismo decadentista al riacquisto dell’emblematismo dantesco La poetica degli stilnovizzanti aveva dato i suoi frutti; ma fra le giustificazioni stilistiche dei carducciani, di Severino Ferrari e dello stesso D’Annunzio, e le giustificazioni storico-dottrinali di Giulio Salvadori, restava da colmare un divario immenso: quel hiatus fra segno poetico e presenza umana per dove s’era messa l’indagine del simbolismo. La traduzione degli stilnovizzanti nostrani, se la paragoni ai prototipi d’Inghilterra, si era arrestata a una resa stilistica molto esatta e circoscritta: eleganze preziose in stile floreale, volentieri calligrafiche; ma rimaneva operosa, anche fra noi, la corrente spiritualistica; e si tentava, nel vario costume dell’ultimo Ottocento, di riflettere quella sfera di attenzioni misteriose che oltrepassavano il segno esatto, o proclamato tale, dello storicismo e del positivismo: come nella lotta politica, ch’era di corta vista e durata, storicismo e positivismo credevano d’essere i soli contendenti, ed entrambi spregiavano le istanze dello spiritualismo, l’enfasi delle attese solitarie e i crepuscoli estatici nella penombra. Pascoli si colloca fra i due, amato dagli uni finché si compiacciono che non è con gli altri, tollerato dai positivisti, finché si proclama compagno loro di viaggio, con il suo socialismo umanitario, tollerato dagli storicisti, finché acclama con loro alle glorie del passato; ma a tutti sospetto, quando vuole proporre una officiatura deliberata a tali attese fiduciose o ambiziose. Lo stile elegiaco dovrebbe bastare, secondo il gusto dei più, alle effusioni patetiche: il compianto del Giorno dei Morti; ma esplorare il mistero, armato solo di una sensibilità semplicetta e dolente, senza accettare le responsabilità di una metafisica e di un dogma, può alla fine riuscire, e riesce, molesto. In questo dispetto di cui si sente circondato Pascoli ha la sua parte: non si riflette abbastanza, non indaga accuratamente intorno allo stesso suo dono di poesia; non capisce che, come suggestione di sfera che trascende il reale, vale molto di più il suo discendere da una soglia trasognata verso il segno esatto di certi suoi apologhi misteriosi e magici, ma fermissimi di linea e di colore, la servetta di monte, per esempio, o i bimbi cugini, o la tessitrice del Ritorno a San Mauro, che non l’officiatura allusiva dei poemi; o almeno, il lettore italiano ritrovava in un linguaggio assuefatto, attraverso segni consueti, «ella, come una volta, s’è stretta sulla banchetta», quelle trasognate storie di fantasmi che nella letteratura inglese e americana erano la varia discendenza di Coleridge e di Poe: «muta la spola passa e ripassa»: terminando in quella lacrimata pace di canto popolaresco effuso, con la catarsi della melodia: «Mio dolce amore […] in quella tela sotto il cipresso / accanto alfine ti dormirò». In fretta egli costruiva sulle sue scoperte poetiche il castello mirabile delle sue velleità mitopoetiche; e adagio la cultura italiana acquisiva il gusto delle zone umbratili e misteriose. Ma l’uno era come sospinto dall’ansia della morte immatura, quando tanto, lamentava, gli rimaneva da fare; la seconda indugiava nei termini della tradizione accademica e della tradizione provinciale, e quando altri estremi si sceglieva per combattere, trovava i combattenti, uomini religiosi e uomini novatori, gli uni e gli altri guardinghi custodi dei loro dogmi positivi, di una religione positiva, di un positivismo dogmatico. 623

Negli ultimi anni della sua vita attendeva agli studi danteschi e ai grandi poemi: gettò poemi e studi nella voragine di una cultura distratta o faziosa, pensando di lavorare solo; e nella distribuzione regionale della cultura italiana, rivoluzionari fiorentini e accademici storicizzanti l’avversarono tutti, parlassero o cautamente tacessero; gli idealisti napoletani si sentirono offesi nella loro concretezza; e i lombardi si gettarono all’avventura del nazionalismo superoministico e dannunziano, al culto concordato o estatico del «più forte». E i lettori che avevano accettato volentieri l’incanto dell’idillio naturalistico, «nelle siepi s’ode / il suo sottil tintinno come d’oro», non amavano, nell’officiatura dei poemi italici, il canto degli astri, «ma il cielo pieno era di note d’oro», sopra Rossini ubbriaco. La sua poesia in quegli anni danteschi è piena di alte ambizioni; non incontri, o solo allotri: di Tolstoi e di Dante, per esempio, con una regìa memore di suoni danteschi, lungo la divina foresta, presso la città del silenzio presaga sulla quale D’Annunzio aveva fatto passare nel vento, come polline, il cenere di Dante: Pianger parea la squilla il dileguare ad occidente d’assai più che un giorno! E là tra il nero era un lucor d’altare.

Regìa certissimamente solerte; e la sforzatura, quel sottolineare scolastico e corrucciato, s’appoggia ad ottimi pretesti; ma che vale, se fra la gente non è udita?

Temi danteschi nella poesia Il motivo della pineta di Chiassi, chi lo percorra passando da Tolstoi agli studi danteschi, può anche lui aiutarci a capire la storia dell’animazione poetica e dell’aporia critica di quell’incontro di Pascoli e di Dante. Poetando, la selva è un pretesto più suggestivo che persuasivo (ma non accorrere a denunziare l’assenza della poesia, la prevalenza di una cultura: anche Boccaccio, che di talento scenico e narrativo non par privo, s’avvale della stessa scenografia: nella novella di Nastagio si appoggia a una contrapposizione meditata, ma ravviva il tema di intensissima vita): le immagini vivono di una suggestione enorme e voglion bastare alla verità e alla storia: Uno sfrascare, un galoppare a frotte, un grido acuto, e poi silenzio ancora, e l’ansimare solo della notte. E sorse il lume d’una strana aurora notturna, che le strigi vagabonde fece fuggir con muti voli anzi ora. Trascolorò sotto le pallide onde il tempio immenso con veloci fiumi ed alte guglie e cupole rotonde.11

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L’apparizione del poeta pellegrino nella prima parvenza della pineta di Chiassi, che è della selva selvaggia, prima che si trasformi nella divina foresta spessa e viva, è solennizzata secondo le più enfatiche indicazioni dello stil commemorativo, da Hugo a D’Annunzio. Non più Pascoli poeta e Dante; ma un poetante dantologo, un epitomatore ambizioso: DANTE, il mio nome. Ero nel nulla immerso, quando, guardato in viso la ventura, sorsi e descrissi tutto l’universo. Descrissi l’uomo e il sonno nell’oscura selva, e il risveglio; e l’apparir di fiere, l’una che attrae, la coppia che spaura… Ebro di lai, d’urli, di guai, di gridi, mi lasciai sotto capovolto il male, e giunsi a santi solitari lidi. A un santo monte su per aspre scale salii, dove la pace era gioconda. Gli angeli ventilavano con l’ale.

Ma il riassunto della «mirabile visione» accentua quell’intenzione di prodigio che nell’esegesi va perduta: quando la metamorfosi della selva è compiuta, Spirava un’aura placida e leggiera che scivolava sopra i larghi pini, recando odor di mare e primavera. E con sommessi sibili tra i crini irti soffiava, e già garrian gli uccelli, nell’ombra nera gl’inni mattutini. Già si vedean fioriti gli arboscelli appiè dei pini, e l’acqua bruna bruna moveva là, di limpidi ruscelli.

Allora le parole di Dante (l’epigramma, per metafora e antonomasia, non distrugge il loro senso) svelano il prodigio: E il vincitore della sua fortuna disse: «Non mossi il piè di qui. Del pianto o della gioia, questa selva è una».12

Gli studi danteschi Gli studi danteschi, se li ripercorri, non riescono a oltrepassare la proposta di questi versi mediocri. Fin dalle prime pagine del primo di quei volumi, Minerva Oscura, egli affronta Dante, per vincerlo, con quelli che crede siano i mez625

zi onde Dante si nasconde: «Dante eclissa nelle profondità del suo pensiero; volontariamente eclissa». Dunque, carpire, per astuzia d’ingegno, un segreto volontariamente nascosto. Ritorna la curiosa cronistoria del secondo, se non del primo Dante ravennate, quella di Foscolo se non di Boccaccio: di un Dante crittografo volontario, che si nasconde ora per occultismo politico e per cautela, ora per superbia d’ingegno. Eppure, nessuno più del Foscolo, nonostante la trappola della presunzione polemica, si fece più vicino a una intelligenza storica di Dante; nessuno più del Pascoli, nonostante il laccio di quella frigida superbia intellettuale che beffava, credendola velleitaria, negli intellettuali dantologi, si fece vicino a intendere il linguaggio emblematico di Dante. «Se vedo questa volta, dicevo, vedrò sempre: se lo comprendo in questa parte lo comprenderò nel resto… Ora bisogna pur credere che sì coll’allegorizzare, sì con la copia della dottrina e con la sottilità dei ragionamenti, egli si proponesse più di essere alto che chiaro…».13 L’errore comincia di qui, da queste prime righe: sottoporre Dante a un imperativo dell’intelletto, far della sua poesia un fatto dell’intelligenza, dichiarar deliberata in lui l’occasione, anziché connaturata o destinata. Eppure quella che gli sembra, ed è, una scoperta fondamentale, cioè la sostanziale unità della struttura dantesca nei tre regni, la sintesi trinitaria dell’Inferno, del Purgatorio, del Paradiso, egli la intravvede collocandosi nel centro infero della Commedia, accanto a quel Lucifero che della Trinità è la visibile deformazione, e dello spazio immobile la più rigida misura: Nel IX cerchio è l’imperator del doloroso regno. Non era dubbio per me che il peccato primo di Lucifero non fosse altro che la Superbia…

Lo vede, ma invece di accorrere ad animare lo spazio che il poeta ravviva fantasticamente, fra il punto dell’universo dove Dite siede e l’immenso cielo Empireo dove Dio infinito attraverso un luminosissimo punto attrae a sé l’orbe del Primo Mobile, elenca e discetta. Via via nell’indagare i peccati, specie d’invidia e di frode e di accidia, par di avvedersi che il Pascoli obbedisce a un primo impulso di lettura; ma che subito l’abbandona sospinto e quasi sviato dall’abbondanza delle conferme dottrinali che ritrova. A stento si ritrova, e indirettamente svela l’immagine che gli ha visitato la fantasia e che l’ha aiutato, attraverso il linguaggio dell’emblema, a intendere il poeta: Il Purgatorio riproduce, come monte può riprodurre baratro, l’Inferno, sette scaglioni per sette peccati nello stesso ordine dell’inferno, ma il IV dell’uno combacia con il V e il VI dell’altro.14

Nel secondo di quei volumi, Sotto il Velame, egli è tanto più vicino all’intelligenza degli emblemi, quanto più frequenta simboli e allegorie; e poiché lo sforzo di ricondurli a un’intelligenza dottrinalmente unitaria è più frammentario, è più facile intravvedere, dietro l’apparato delle sue giustificazioni, l’accento autentico con cui legge: la Selva, il Veglio, le Fiere, sono immagini che egli raccoglie nella sua memoria, benché le sopraffaccia talvolta con la dottrina: così 626

dove, per spiegare che la selva selvaggia sia morta, «tanto è amara che poco è più morte», cita la sentenza conviviale che «vivere nell’uomo è ragione usare», quindi senza ragione uno è morto, quindi è vita irrazionale quella della selva, dacché trascorrervi è quasi morire. Illazioni frettolose? Tutt’altro: dietro l’ansia dell’esegeta che accumula più di qualunque altro lettore della Commedia prove e testimonianze di lettura, c’è l’agilità instancabile di un discorso della fantasia. Come vedemmo nel riassunto poetico dell’immagine della selva, l’incontro di Dante e di Tolstoi nella Pineta di Chiassi, trasformarsi la selva selvaggia nella selva divina, così qui, faticosamente elaborando i motivi della sua persuasione, e riassumendo in una sola immagine il mondo dell’Inferno, quello del Purgatorio, e pur del Paradiso, almeno fino a quei primi tre cieli dove si stende l’ombra della Terra, assisti a una immobile trasformazione dell’immagine sola. Lo stesso, anche con più aperta consapevolezza nel discorrere del Veglio di Creta, e del trasformarsi di un solo fiume, l’Acheronte che goccia dalla ferita del Peccato Originale, nei fiumi infernali. Così delle tre fiere, l’una nascendo dall’altra: La lonza è senza dubbio meno terribile delle altre due, sia essa il leopardo o la lince o la pantera. Ella non ha un freno al suo corso, ossia è incontinenza. L’incontinenza è di due specie: di concupiscibile e d’irascibile. Il leone è la lonza più la mala volontà: la lupa è il leone più l’intelletto. Come la lonza è concupiscenza in atto e tristizia in potenza, così la lupa è avarizia in principio, e frode in effetto. Nel tempo stesso la lupa è la frode e per ciò comprende la violenza (il leone) e anche l’incontinenza. Resta questa conclusione: che la cupidità, la quale conduce a mal volere, cioè diventa malizia o ingiustizia, è quello stesso amor del male che conduce nel Purgatorio ai tre peccati d’ira invidia e superbia: che il leone e la lupa figurano questa cupidità divenuta malizia, il leone senz’intelletto, la lupa con intelletto.15

Come non intende che è un contemplare, il suo, un assistere al dramma misterioso delle apparizioni? E indugia a discendere verso la zona delle riflessioni accomodate; ma anche scendendo così verso il rigore predisposto di una ricerca dottrinale il suo prosecutore Pietrobono mostra di intendere la natura poetica delle suggestioni degli emblemi delle bestie: mentre tenendosi ad un’esegesi intrinseca alla poesia e alle leggi ch’ella stessa da sé si dona, T.S. Eliot riesce a leggere senza chiudere il poeta negli impacci di una operazione predisposta dall’intelletto. Pascoli è insomma vincolato dal compito che s’è proposto di costringere con l’evidenza di una trattazione sistematica, che faccia capo ad un sistema preordinato da Dante, l’evidenza della sua lettura. Ha scelto la strada più faticosa; e la percorre, del resto, con una pazienza eroica. Nel terzo dei suoi volumi danteschi, La Mirabile Visione,16 la ricerca sul simbolismo dantesco è coordinata a una biografia interna, alla storia di tre tempi di quella vita di Dante, e di una fase di vita attiva fra due di vita contemplativa, corrispondente la prima alla Vita Nova, la seconda alla Commedia: e i simboli, particolarmente Beatrice e Virgilio, sono studiati assai più intimamente con un’adesione che già avvicina il dotto aggiunto al poeta a quella intensità di ricezione che è del poeta sul poeta; e il «luogo» del poema, Ravenna, storicizzato senza rinunziare ad alcuna 627

delle sue misteriose suggestioni. Qui par di intravvedere la strada che il poeta avrebbe percorso, verso quella «poesia del mistero dantesco», che doveva essere l’ultimo, non mai scritto, volume: approdo, insomma, a una lettura, avviata dalla «Prolusione al Paradiso», che rimase sola.

Ultima fase Qui s’interruppe la vicenda dell’esegesi esplicita del Pascoli, consegnata alle tante pagine; il quarto volume, cui appartiene la Prolusione, è postumo e di frammenti: Conferenze e studi danteschi.17 Lo proseguirono i suoi seguaci; ma la presenza del Pascoli, pur tanto avversata ora col sorriso, ora col silenzio, sdegnata o compatita fino al punto dove era evidente che la polemica si ritorceva contro il polemista, se proprio voleva dimenticarsi due dati innegabili, la qualità di grande poeta, nel Pascoli, e la stupenda mobilità del suo ingegno ermeneutico, rimase operosa per tutto il nuovo secolo: responsabile indiretta della decadenza del metodo storico, se questo non riusciva ad assimilare quei rifornimenti dottrinali e scolastici che egli proponeva in copia, nonché della proposta di una lettura estetica, dacché i suoi risultati apparivano sviati appunto da una prevalenza della dottrina sulla fantasia ricreante, sulla partecipazione emotiva e immaginifica del lettore all’opera del poeta. La prova fu insomma estrema; e va giudicata più dalle intenzioni e dalle conseguenze che dai risultati. Ma nella poetica degli ultimi anni del Pascoli è dato indagare la parte che ebbero nella sua storia questi studi, e indirettamente intendere dove sarebbe giunto, se almeno si fosse svolto conseguentemente. Se nei Poemi Italici gl’incontri dei poeti e coi poeti, e vita intrisa di poetica, di sentimento, di allucinata attualità del tempo passato e presente, son disposti scenograficamente, anzi trasferiti, mediante un reticolato, dall’abbozzo al cartone, le Canzoni di Re Enzio, comunque appaiano, alla critica, scadenti, ci indicano proprio, per paragone, il sentimento con cui esce dalla frequentazione dantesca. Qui non più incontri, tra figure e figure, sopra uno scenario storico, al modo che aveva insegnato Carducci; e oltrepassato anche il gusto dei quadri che, documentati, chiamavano a convegno, a Verona o a Ravenna, i personaggi danteschi: il paesaggio non è geografico, né per schizzi panoramici, al modo di Bassermann; il dramma si svolge nell’assoluto senza tempo, con appena alcune giustificazioni, anzi spiegazioni concilianti: il cantore della gesta francigena che rievoca la strage di Roncisvalle accanto al declino di Re Enzio prigioniero del comune di Bologna e, terzo «luogo deputato» per il dramma spirituale, la sconfitta e la morte di Manfredi a Benevento. Naturalmente è da notare che non è dantesco il personaggio centrale, re Enzio appunto; ma il nuovo poeta se ne serve per creare modernamente intorno al personaggio quell’aura sentimentale che consente la reviviscenza degli altri: Manfredi e l’impero e Orlando e Carlomagno nella Canzone dell’Olifante. Al centro dell’attenzione, dove le fila della vicenda concorrono e s’annodano, re Enzio determina quasi un vuoto, vanisce per rivivere complementarmente, suggerito anziché descritto e impersonato: termini e metodi di una drammaturgia che Pascoli non ebbe modo di svolgere. 628

E se anche i personaggi più storicamente corposi si trasfigurano qui, levitando, se perdono peso tanto quanto donava loro la poetica di Dante e la concretezza della civiltà rinascimentale, è un modo del discorso pascoliano, che avvia alla presenza vanente di re Enzio. Carducci aveva riassunto in festa un morbido moto di nostalgia: «E co’ i re vinti i consoli tornavano». Pascoli dimentica via via anche la preziosità della sua rievocazione erudita, e lo scenario fisso diventa di prigione: prigione come quella di Conte Ugolino? Anzi (tanto vi si riassume di poetica romantica), se lo spazio è breve, se il carcere è fosco nell’aria ferma, le apparizioni trasfigurano l’incubo della prigionia in un giro memorando di avventura fantastica; e se il sogno dei lupi e delle cagne, in quello, introduceva la catastrofe, qui i fatti stessi e le persone sono introdotti come una cavalcata fantastica: non trattenuti, non sorretti, non ringagliarditi dalla passione politica, come i fantasmi carducciani della Sacra di Enrico Quinto, ma continuamente evanescenti e vanenti, vivi del loro esser distanti. Ed è questa la chiave o almeno l’ipotesi più plausibile per comprendere a quale ultimo termine si indirizza la lettura pascoliana di Dante, e qual calore hanno nella sua fantasia, in attesa di spostarsi a sussidio di intelligenza della poesia, i simboli della Commedia: onnipresenza, attualità, riecheggiamenti, un’orchestra che riconduce motivi su motivi, il cammino ritroso della poetica del concreto, un rituffare un mondo di parole e di precise immagini nel golfo mistico di una suggestione prenatale. Solo, una stanchezza lo tiene, quasi l’angoscia di non giungere in tempo, che la forza della natura e della vita non gli basti a dir di quelle misteriose soglie della poesia: la poetica del mistero, ora che non lo soccorre più né la storia né la dottrina, declina senza forze. Quando la campana del Comune suona l’ora di sera, in prigione re Enzio ode suonare il corno di Roncisvalle; ma è un esercito di fantasmi quello del Sacro Impero che accorre alla vendetta: Va, ma non giunge. È un brusio d’ombre vane ch’ode re Enzio, quale in foglie secche notturna fa la pioggia e il vento.

Aporie della lettura Meglio si comprende quello che la lettura dantesca del Pascoli sarebbe dovuta essere, e non fu, pur rimanendo attiva nel tempo e con noi, se si coglie il senso che egli aveva disposto e in parte promosso. La prima delle aporie in cui s’impiglia è d’aver indugiato in un metodo deduttivo e analogico, pretendendo che il poeta rimanesse fedele, di una fedeltà di loico e di sistematico, a una tesi dottrinale, e ricostruendo questa tesi attraverso il calcolo statistico delle concordanze. La seconda fu d’essere contraddetto o taciuto dalla critica ufficiale, e di mancare di forza per sostituire al dissenso o al mancato assenso dei critici, dei quali egli ingrandì, quasi a scusa della sua stessa inquietissima inerzia, l’opposizione, l’affermazione più concreta di una propria lettura.18 La terza, infine, di avere soltanto intravvisto, poetando, e in opere certo scarse di poesia, accanto alle ri629

velazioni autentiche della prima maniera, quelle definizioni del fatto estetico che contenevano la giustificazione ineccepibile del suo modo di lettura: la poetica, cioè, della visione e il dinamismo espressivo dell’immagine emblematica. Per la prima si disgregò in un frammentismo tanto più minuto e disperso quanto più ampio voleva essere il giro dominato: passò da una proposta di lettura poetica piena di capziose e iridescenti suggestioni a un ordinamento sistematico, che proprio pel suo frammentismo sostituiva l’una all’altra ipotesi, nella polivalenza di ogni interpretazione simbolistica (e della polivalenza si accorse troppo tardi o non si accorse). Per la seconda, valse a riproporre, anche attraverso l’attenzione dell’autore dell’Irrazionale nella letteratura,19 una nuova sensibilità a quegli elementi fantastici e simbolici che pretendeva di giustificare razionalmente; e cercando un più ampio giro, una costruzione concettuale in cui tutte le suggestioni strutturali dantesche si componessero, visitò e frequentò quella dottrina scolastica e patristica, i testi sacri e la metafisica, il mondo insomma della cultura dantesca, che la critica ufficiale guardava tuttora circospetta. La sua poesia attese rispondenze di una cultura più sottile, e che finalmente il confino arcadico, cui l’aveva condannata il mediocre gusto dei lettori, cedesse alla valutazione del suo partecipare alla storia del decadentismo romantico d’Europa e d’America; ma è bene che, leggendo Dante dopo George e dopo Rilke e dopo Eliot, si comprenda col Pascoli poeta il Pascoli esegeta: Pare, a mezzanotte, oppresso da un sogno sognato per tutto il durare d’un viaggio notturno,

diceva: E il viaggio pare uno di quegli che possiamo ricordare d’aver fatto da fanciulli…20

Fortuna di una disavventura La scuola pascoliana tentò di superare la prima e la seconda delle aporie: Luigi Valli,21 volonteroso di serrare in una disciplina più rigorosa le suggestioni del Pascoli, e tornando ad assegnare a Dante una preoccupazione politica dominante, parlò di un crittogramma esoterico e iniziatico; ma Luigi Pietrobono,22 assai più accortamente, ne vide più di un nodo, e avvalendosi di una dottrina teologica sempre provveduta e sottilmente solerte, ricondusse l’indagine ad alcuni elementi essenziali: l’organicità evidente della struttura e l’animazione morale della Commedia. Valli si lasciò chiudere nella magia del parallelismo, e istituì la spiegazione crittografica della Croce e dell’Aquila: altro simbolismo che può utilmente essere accompagnato ai simboli delle Belve, altra sottolineatura preziosa di una tematica che a una prima lettura non risulta. Pietrobono si trattiene dalle induzioni troppo fortunose: riesamina taluna delle più utili proposte pascoliane, ricostituisce l’ordinamento morale della Commedia, e soprattutto suggerisce la norma dello svolgimento infinito dei temi, che vanno osservati nel loro disporsi e ripresentarsi. Siamo alle soglie della necessità di utilizzare l’em630

blematica dantesca per una lettura, come linguaggio di cui si può fare astrattamente la storia, ma che solo nel poeta riceve il suggello della individuazione e della necessità. Indirettamente, dunque, Pascoli impose le soluzioni concretamente accertabili: quindi una fioritura di ricerche storiche meno astrattamente documentarie; quindi un accertamento filosofico e dottrinale con una rilettura di quei testi che gl’italiani trascuravano abitualmente, di filosofia, di metafisica, di teologia, mistici e ascetici; quindi una lettura di poesia fatta più concreta dalla stessa preoccupazione dottrinale, quasi rifugio per gli uni, quasi gara per gli altri ad acquistare più di quanto potevano i commentatori addottrinati. Ma se il discorso più recente si è puntualizzato troppo a lungo nell’endiadi «poesia e struttura», ancora a Pascoli tocca promuovere l’acquisto unitario superando il divario dualistico, verso la lettura degli emblemi; a Pascoli, che resta fra noi un rimprovero perenne come di un soccorso indiscretamente respinto: «Lasciate i poeti ai poeti e i santi ai santi».

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Il discorso è del 1850: pubblicato nel I volume della prima ed. delle opere. Qui non cercheremo dove abbia dato più esatta misura del suo sapere, leggendo Dante: certo le pagine Della varia fortuna di D. (1867) proseguono una meditazione più accurata e pensosa, all’incrocio, come sono, di erudizione e di scrittura, di critica e di narrativa, e alle soglie di un tempo nuovo: lasciava in disparte una tradizione anche familiare e paesana di culto eroico e patriottico, e le ricerche bibliotecarie lo aiutavano a indagar le penombre; ma nell’orazione sull’Opera di D. c’è tutto l’armamentario dell’alta eloquenza e tutti gli schemi della sua poesia della storia, dal panorama storicamente accennato (Canossa) alle constatazioni perentorie: «Dante anzi tutto è un grandissimo poeta; e grandissimo poeta è, perché grand’uomo, e grand’uomo, perché ebbe una grande coscienza»; s’impadronisce dell’umanesimo cristiano di Dante con quel piglio audace delle rivendicazioni risorgimentali e non s’accorge, in quella sede che doveva essere di ricerca scientifica, di considerar sufficiente quel che, se mai, è necessario. Ma superare i limiti oratori delle occasioni era difficile: resta il rifiuto della cattedra dantesca a Roma, a sottolineare biograficamente (e nel vivere Carducci è sempre sincerissimamente indifeso) le tante difficoltà della dottrina. Per una ripresa, cinquant’anni dopo, d’un dantismo risorgimentale, pur convalidato da ben altre cautele storicistiche, cfr. F. ERCOLE, D. e Carducci, in “Nuova Antologia”, 1° giugno 1934. 2 Una schedatura delle occasioni dantesche della poesia carducciana e delle indagini dantesche della critica si concluderebbe con una conferma di una notizia troppo nota: la frequenza di un riferirsi di Carducci a Dante, affisandoglisi per un atto di ossequio formale che si sforza di diventare «vera latria»: «onde avvien che i voti e la favella / levi adorando al tuo fier simulacro?». Il Dante della Commedia continuamente invocato o chiamato a confronto non è mai direttamente indagato, se Dante delle Rime sì, dal saggio giovanile Delle rime di D. (1864-65) alle lezioni senili La canzone di D. «Tre donne intorno al cor mi son venute» con cui terminò l’insegnamento bolognese (1904); ma delle quattro opere di argomento direttamente dantesco, l’altre due, citate, Della varia fortuna e L’opera di D. esulano verso la prosecuzione storica e la prosecuzione oratoria. Per il rimanente, o se ne occupa studiando La poesia di Firenze circa il 1280. Guido Cavalcanti ed altri rimatori (è il corso dell’anno accademico 186465: cui appartiene, con lo studio su Guido Cavalcanti, l’altro Ritorno alle opere di Brunetto Latini), o lo incornicia in quelli che il Russo chiama «quadri storico-naturali» dei cinque discorsi Dello svolgimento della letteratura nazionale (pubblicati nel 1874, dopo una lunga elaborazione).

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3 Lo studio potrebbe essere organizzato movendo da più parti; rimarrebbe tuttavia al centro una lettura di poeti: Luisa Grace Bartolini, Luigi Chiarini, Severino Ferrari, Guido Mazzoni, Giulio Salvadori; e farebbe loro da cornice la comparatistica, dai Saggi Critici di Letteratura inglese del Nencioni (Firenze 1897) e dallo studio giovanile di A. GALLETTI, Dante Gabriele Rossetti e la poesia prerafaellita, in Studi di letteratura straniera, Padova 1903, alla rapida ricerca di L. FERRETTI, Carducci e la letteratura inglese, Milano 1927 e al saggio di M. PRAZ, Il classicismo di G. Carducci, in Gusto neoclassico, Firenze 1940. 4 La Chimera, Note all’Epodo, Al poeta Andrea Sperelli, debitamente virgolettate, come omaggio a un’ideale scuola. E di maestro avverso in maestro avverso continuando, ecco G.A. BORGESE, D., Pascoli, D’Annunzio, nella Vita e il Libro, Bologna 1928. Per i raffronti sopra accennati e il clima della scuola: L. PESCETTI, D’Annunzio, Marradi, Chiarini (con lettere inedite), in “Italia Letteraria”, 12 (1934) e E.D. PETRELLA, Gabriele D’Annunzio prerafaellita, in “Rivista d’Italia”, XXXI (1928). 5 Anche per la lettura critica dell’opera poetica di Giulio Salvadori accade che il metodo dei raffronti indiretti sia più fecondo che il saggio sulla parola: così accostandolo a Carducci e a D’Annunzio, ma per trovar la ragione autentica dell’opera di critica, in uno studioso acutissimo nell’intuire il nucleo vitale di una verità e poi contento alla breve festa dei primi pretesti e, nonostante i severi dettami della scuola, quasi infastidito di attendere alla elaborazione dottrinale, è proprio necessario inquietamente accorrere qua e là; non una ma mille idee pullulano e si sperdono nei suoi studi duecenteschi, per esempio: fra il saggio L’iniziatore dello Stil nuovo, Guido Guinizelli (1893), dove non ti sorprende una resa novellistica d’accento fogazzariano («Ora egli amava quella donna da cui non era amato; e giustamente non era corrisposto poiché ella era donna d’altri») (vol. III, p. 345 dell’ed. di Milano 1933) e il saggio Futurismo e dinamismo nella poesia del secolo XIII (1913), dove l’attivismo e l’oggettivismo dei manifesti futuristi sono ricondotti all’attivismo e all’oggettivismo delle esperienze ascetiche e mistiche inquadrate nelle forme logiche della scolastica («Poiché, essere importa agire: ogni cosa agisce perché è, secondo che è: e però la forma che dà l’essere, e l’essere partecipano dell’attributo divino di Primo Agente e Causa suprema», p. 161) e introdotto a una ricognizione storica che ci riguarda da vicino («Che il concetto del Guinizelli fosse seme geniale lo dice il fatto che da esso nacque la Commedia: poiché il misterioso viaggio di Dante non è altro che questo moto al compimento del desiderio umano in Dio. Ed è notevole che un concetto metafisico sia stato capace di tanto; ma una verità, dalla regione del pensiero astratto tornata a quella dell’amore e illuminata dall’alto di luce divina, può riapparire come intuito all’immaginazione, sollevata dall’onda dell’amore a valore nuovo d’esempio: tale il concetto di passaggio dall’inizio dell’essere all’essere nella poesia del Guinizelli e di Dante», p. 160). Ma allo stato attuale degli studi è necessario prendere atto di ogni nuova prospettiva che s’apre, anche quando risponde a un intento apologetico e alla commossa memoria (P. BONDIOLI, Ritratto religioso di Giulio Salvadori, Milano 1929; G. COLOMBO, Giulio Salvadori nell’anima dei suoi scolari dell’Università Cattolica, in “Vita e Pensiero”, XIX, 1928) e fissare un punto di riferimento in quel primo tentativo di organizzazione storiografica che è il saggio di C. CALCATERRA preposto all’ed. di G. SALVADORI, Liriche e Saggi, Milano 1933, 3 voll. 6 Il problema storico dello «Stil Nuovo», ibi, vol. II, p. 157. 7 Ibi, p. 164. 8 G. SALVADORI, La mirabile visione nel Paradiso Terrestre di D., Torino 1915, p. 25. 9 Gli studi danteschi del Pascoli sono tuttora il capitolo più controverso della sua letteratura: e andiamo dall’esposizione apologetica di LUIGI VALLI, L’allegoria di D. secondo Giovanni Pascoli, Bologna 1932 (e cfr. D. nella poesia di Giovanni Pascoli, in “Studi pascoliani”, I, 3, 1929) alle riserve dell’ultima analisi, di GIOVANNI GETTO: Pascoli dantista, in “Lettere Italiane”, I, 1949 (e vedilo con l’altro saggio Pascoli critico in Carducci e Pascoli, Bologna 1957), che pur avvertendo le possibilità schiuse da quell’incontro (per esempio, il bizantinismo di Dante e la poesia del mistero) conclude assegnando a tali studi un valore per la conoscenza di Pascoli, non per la conoscenza di Dante. Inevitabilmente, il fascino delle teorie pascoliane, quando urta nelle aporie del sistema, induce a ripiegarci sul poeta lasciando andare il dantista: «Non divago, si badi, non divago. Io voglio dimostrare che perfino se non si fosse in nulla d’accordo

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per tutte le interpretazioni dantesche, perfino se, nello studio del Poema Sacro, si rifiutassero a priori tutte le conclusioni del Pascoli, bisognerebbe leggere quei volumi a meglio intendere il Pascoli stesso» (L. CARELLI, Giovanni Pascoli lettore di D. Introduzione allo studio del Poema Sacro con la guida del maggior figlio di Virgilio, Napoli 1939, p. 14). Alla cronaca di questo capitolo della fortuna di Dante (e della sfortuna di Pascoli?) riuscirà utile notare che proprio gli apologeti dell’esoterismo sono pronti a disconoscere la suggestione della parola pascoliana, e sia pure suggestione misteriosofica, o da gerofante del Fanciullino: «solo, balzante, nervoso, difficile, reso faticoso dagli avvolgimenti sottili con i quali il poeta seguiva i sottili avvolgimenti di Dante», definiva il Valli lo stile del volume pascoliano; né vorremmo seguirlo, attenti a un incontro di poeti che non possono davvero rinunziare a confessarsi sulla parola. Utile ancora notare che la cosiddetta «congiura del silenzio» fu rotta, se mai esisteva, all’apparir di quei volumi, da uomini come il Fraccaroli, il Pistelli, il Luiso; e che il Barbi, nel vol. X del “Bullettino”, aveva proposto, da sapiente ordinatore di studi, un’attesa e un’intesa: «Io intendo diversamente dal Pascoli la vita intima del poeta e l’allegoria della Commedia; ma nonostante questo fondamentale dissenso credo che i suoi libri abbiano un vero merito: di richiamarci in quell’ambiente scolastico e mistico fuor del quale la parola di Dante non rivela al lettore il suo significato». E valga anche la relazione del Carducci per il negato premio dei Lincei a Minerva Oscura: «La potenza innegabile della sua sintesi gli fa ravvisare nella molta lettura parallelismi finissimi, che colpiscono di nuova luce, ma l’acceso ingegno gli fa ignorare, o gli dissimula, molti scatti e salti del suo disegno»: M. BIAGINI, Il poeta solitario. Vita di Giovanni Pascoli, II ed., Milano 1963, p. 385. 10 E non solo quelli: «Di nessuno o di assai scarso significato non solo per l’intelligenza di Dante, ma anche per la conoscenza della vita medievale e delle intenzioni e dei sentimenti appartenenti alla biografia di Dante»: tale la recensione crociana degli studi danteschi di Pascoli. È nel vol. V della Critica. 11 Poemi Italici e Canzoni di Re Enzio, Tolstoi, V. 12 Tolstoi, VII. Un esame comparativo potrebbe circostanziare questa intenzione poeticoesegetica: la struttura del poema è quella dell’incontro fuori del tempo, nella trascendenza dell’oratoria commemorativa che anche Felice Cavallotti aveva imparato da Victor Hugo («Stanotte vuole coi morti di Mentana Leonida dormir»): a tale soluzione il poeta-guerrieroapostolo si rassegna nel terzo degli incontri, quello con Garibaldi: «Mugik eroe, disse, io vuo’ qui restare»; ma, nel primo, San Francesco, quando probabilmente si trattava di accettare una dogmatica, era scomparso, e il pellegrino russo aveva ripreso a ramingare per ignote strade. Il secondo, con Dante, fa assistere alla soluzione registica di quell’esistere fuor del tempo, e conclude con l’apparizione di Beatrice, dopo che la selva selvaggia si è metamorfosata nella divina foresta: «Ora la selva antica dell’errore / e dell’esilio e d’ogni trista cosa, / splendea di gioia e sorridea d’amore. / Dall’oriente acceso in color rosa, / cinta d’ulivo sopra il bianco velo, / perennemente a lui scendea la sposa, / per trarlo in alto, al Libano del cielo». Diremmo che il limite del Pascoli è quello della commemorazione vittorughiana, dopo che è fallita l’imitazione francescana e l’imitazione dantesca? In realtà, è il limite della cultura in cui il poeta si colloca: può accettare, in sede di nozione storica, tomismo e agostinismo, conciliativamente, non la rivelazione. 13 Minerva Oscura, Livorno 1898, pp. 1, 5. 14 Ibi, p. 147. 15 Sotto il Velame, Messina 1900, capp. VII-IX. 16 Messina 1902. 17 Bologna 1915. «Pronunziò dalla cattedra d’Or San Michele una Prolusione al Paradiso, ove ricapitolò, per guisa d’epilogo, ciò che aveva lungamente scritto […]; ma l’uditorio sfollò e applaudì solo uno: si dice un mattoide»: D. BULFERETTI, Giovanni Pascoli. L’uomo, il maestro, il poeta, Milano 1914, pp. 167 ss. 18 Nei nove anni dalla Prolusione (1903) alla morte (1912) meditò di comporre un commento alla Commedia, che abbozzò e frammentariamente alluse. E proprio in quei nove anni andava accorgendosi del suo umanesimo sapienziale, senza trovar aiuto nella cultura dei contemporanei, a comprendere sé e la sua opera di dantista in una prospettiva storica (attratto

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dal circolo dannunziano, del “Convivio”, il suo luogo sarebbe stato piuttosto tra i giovani di “Lacerba”, se dalla cattedra di Orsanmichele non si fosse rivolto ai dantologi di professione, certo senza avere le carte in regola; e se quei giovani non fossero stati viziati da una curiosità vagabonda e da un attivismo voglioso; ma le nuove ricerche sull’Umanesimo si avviavano altrove che da noi, in attesa che vi concorressero Zabughin e Toffanin, a ristabilire uno smarrito equilibrio di storiografia letteraria; e le nuove poetiche, intese a oltrepassare il decadentismo, dovevano attendere, fra noi, qualche anno. Sulla cattedra bolognese il poeta stanco si smarrì: le energie giovanili che gli si serravano intorno non resero che più pietosa la sua debolezza, lo dimostrarono incapace di portare a compimento quella definitiva fase di lettura che aveva sognato (D. BULFERETTI, Giovanni Pascoli. L’uomo, cit., p. 170); e fin dalla prima lezione, mentre tracciava il piano ambizioso del commento, ripiegava sui faticosi e ingenui paralleli: Dante e Omero, Dante e Virgilio (cfr. la prelezione riportata, sulle dispense compilate da G. Mammarella, da D. Bulferetti, ibi, pp. 166 ss.). Tentava vincere di forza, quasi favolando, gli ostacoli che l’avevano intralciato fin dal volume, Minerva Oscura: creare una regione favolosa, dove perdersi e ritrovarsi, in una iniziazione di veggente; e si smarriva in una velleità di poesia. (Nei volumi danteschi, le illazioni successive erano state appoggiate alla teologia mistica e alla biografia psicologica: con risultati non meno utili oggi; ma invece mancò del tutto la elaborazione della dottrina.) 19 G. FRACCAROLI, L’irrazionale nella letteratura, Torino 1900; e nel vol. XXVIII del “Giornale Storico della Letteratura Italiana” vedi la recensione agli studi danteschi del Pascoli; e, a documentar l’insistenza con cui ritornava sull’esegesi dantesca, via via mutando la prospettiva (cosicché l’esperienza degli studi danteschi appare decisiva anche per lui) cfr. Il veltro allegorico nella «DC», Firenze 1891; Ancora dell’ordinamento morale della «DC», in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, XXXVI. 20 Minerva Oscura, p. 2. 21 Il Canto IV dell’Inferno. Lectura Dantis, 1914; L’allegoria di D. secondo Giovanni Pascoli, Bologna 1922; Il segreto della Croce e dell’Aquila nella DC, Bologna 1922; La chiave della «DC», Bologna 1925; Il linguaggio segreto di D. e dei Fedeli d’Amore, Roma 1928; La struttura morale dell’universo dantesco, Roma 1935. Gli studi danteschi del Valli saranno meglio osservati nel complesso delle sue attenzioni poetiche, filosofiche, politiche: dalla dottrina del nazionalismo al rito della cremazione presso i popoli ariani, dalle «filosofie che non vissero» a Zarathustra. Gli studi del Valli, in tempi maturi, furono accolti con la curiosità fervida e avventurosa che era mancata al Pascoli: vero che lo batterono in breccia Barbi e Croce, dai propugnacoli degli “Studi danteschi” e della “Critica”; ma lo continuò il Ricolfi; e se ne valsero Ermini, Scarlata, Egidi. Non possiamo ripercorrere anche per questa occasione le cronache dantologiche dell’ultimo trentennio: ma, per una sommaria indicazione bibliografica, indichiamo gli studi di B. MIGLIORE, Luigi Valli filosofo e poeta, in “Rassegna Italiana”, 1932 e l’equilibrata recensione di P.G. RICCI, L’opera dantesca di Luigi Valli, in “Giornale dantesco”, n.s., XXXVII, 7. 22 A ripercorrere d’un solo tratto l’opera del Pietrobono, su cui più volte ci siamo fermati per una prima elaborazione bibliografica di questa o quella affermazione testuale, valga un elenco sommario: Il Poema Sacro, Bologna 1905, 2 voll.; Dal cerchio al centro. La struttura morale della DC, Torino 1923; Commento alla DC, Torino 1936, III ed. (e vedine la recensione del Barbi nel vol. XXI degli “Studi danteschi” e nel vol. Con D. e i suoi interpreti, Firenze 1941); e l’opera, assai vasta e continua, consegnata al “Giornale dantesco”: vedine una raccolta in Saggi danteschi, Roma 1936. Testimonianza d’un progresso degli studi dantologici nel loro far centro al problema dell’allegorismo sono gli studi: Per l’allegoria di D., in “Giornale dantesco”, XXI; Allegoria o arte?, in “Giornale dantesco”, XXXVII; L’allegorismo e D., in “Giornale dantesco”, XXXVIII.

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Tavola bibliografica

Giustificazione dell’apparato bibliografico L’opera, sia nella prima veste, sia in questa edizione aggiornata, rinunzierebbe a una parte almeno delle sue intenzioni se la bibliografia già indicata nelle note al testo, e quella qui raccolta, fosse soltanto una giustificazione delle tesi assunte, a loro convalida o paragone. Dalla collezione della Storia letteraria d’Italia, che da un secolo accompagna il vago e vario incremento degli studi di letteratura critica e di storiografia letteraria italiana, essa accetta le raccomandazioni storiche ed enciclopediche; e benché conformata in saggio, già il sottotitolo, Storia della «Commedia», indica che l’autore s’è proposto di uscire dal segreto della poesia verso l’esperienza storica, sia quella che accompagna l’intima vita del canto, anteriore al tempo nella sua immagine prima e poi adagio e cauta e sofferta nel tempo immersa, sia quella della parola che ardita esce fra la gente, e ne scambia col linguaggio anche le occasioni più esterne. L’istanza più profonda dello storicismo è di scendere nel tempo per risalirne e accompagnare ogni esperienza verso la sua responsabilità totale; e nulla può essere alieno dalla verità, tanto meno le certezze, anche se le opportunità catalogiche proprie di ogni ricerca, accettando dei limiti, impongono delle scelte e una scala dei valori: tentar le origini della poesia nella sfera della creatività della persona non significa certo sperdersi nell’arbitrio delle affermazioni irrilevanti, anzi impone di rispondere a ogni inchiesta: quelle, almeno, che dopo formulata una domanda non si sottraggono al criterio della verità, non arretrano di un passo, «quid est veritas?», abbandonando, o presumono, la verità al suo destino. Ecco che, accettato persin dal problematicismo quel che può dare, il metodo del vecchio storicismo, quello che nella selva dei miti d’Europa, fra Carducci e D’Ancona, non rifiutava a Pollicino il soccorso d’alcuna briciola per ritrovar la strada, si accorda col metodo del nuovo: non esiste un documento esterno che contraddica il documento interno; non esistono, propriamente, documenti esterni e documenti interni; ma un solo itinerario nel tempo si traccia, via via allontanandosi dal suo vivo centro di vita per frequentare le zone più distanti della natura e della storia. Parimenti non esiste il sistema delle constatazioni oggettive, ma l’ordine delle conferme e degli accertamenti. Si proporrebbe dunque, per evitare il metodo che accompagna l’esibizione tecnica di un sistema di prove, a convalida di ogni asserzione, l’illusione della schedatura bibliografica che copre, col soggetto, tutta la tematica storica che gli si riferisce? quella che non trascura nessun fatto, nessuno scritto, nessun contributo, o parola aggiunta a parola, e il perché dell’errore, se non il perché del vuoto? Esiste una follia bibliotecaria che presume di coprire coi libri tutta la realtà; ma la fulminea parola giunge da sola al nocciolo del reale, e quanto più profondo è il possesso della verità, tante più cose si squadernano nell’universo delle certezze. Filosofia dantesca, certo, dopo tanta allegria di naufragi, e torna reverente al suo fuoco d’amore.

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Bibliografia generale e bibliografia essenziale Veniamo al fatto: la bibliografia dantesca ha raggiunto ormai tale estensione da esigere una bibliografia delle bibliografie. Daremo sufficienti indicazioni per una bibliografia generale dantesca; ma respingiamo la tesi, tante volte sottintesa nelle bibliografie generali, che si possa giungere alla scienza, cioè alla sistemazione delle certezze in vista della verità, accostando l’una all’altra le notizie e le loro interpretazioni, con un lavoro di integrazione meccanica. La bibliografia generale è l’orizzonte di ogni ricerca valida, non il centro; e ogni indagine metodologicamente fondata stabilisce un rapporto intrinseco fra quel centro e quell’orizzonte. L’ostacolo più grave al sapere non è nella presunzione dell’informazione totale, da cui, attraverso un esame critico della validità dei reperti, giungere alla meta. È in un’altra presunzione, quella della bibliografia essenziale: e chi dello studio fa professione, dica se non gli avvien di scambiare, con rigido sussiego, quel che lui sa con quel che si deve sapere, e di comunicarne la catechesi, sotto forma di cumulo di schede, ai discepoli. Intendiamoci bene sul termine: se lo si adopera per indicare l’opportunità di una scelta e per raccomandare al lettore, ansioso di provvedersi, un corpus di letture importanti, ben venga; ma quando l’indicazione si consideri esclusiva e, per ragioni di sistema, o di metodo cristallizzato in formula, o di scuola, o di politica letteraria, la bibliografia sia il “ruolino” delle forze che accorrono a sostegno di una tesi, ammessi nell’elenco i nemici da battere, quello non è il territorio che ci compete. Certi silenzi hanno valore storico, densi come sono di parole represse, ora sdegnose, ora smarrite; e di silenzi è pieno il catalogo storico della dantologia: tacendo per gli storicisti le voci dei lettori teologi, e per i dottrinali le voci dei lettori esteti, e le allusioni degli esoterici per gli uni e gli altri e i terzi; ma per comprendere il tacere, e pur consapevoli della regola di non assolutizzare gli argomenti ex silentio, occorre collocarsi in luogo tanto aperto donde gli ostacoli si oltrepassino dall’alto. Libro essenziale alla nostra bibliografia è davvero solo il libro di Dante; ma nessun libro, nessuna parola detta o stampata intorno a Dante possiamo ritenerla davvero irrilevante. Il metodo che siamo venuti in tante pagine proponendo procura un sistema di accertamenti che scenda sopra il più vasto cumulo possibile di notizie e le illumini. Quanto al confronto statistico fra le schede della prima edizione dell’opera e di questa, la citazione e la chiamata in causa di più numerose opere risulterebbe certo più vasta se la Storia della «Commedia» non fosse tuttora, nell’ambito della dantologia contemporanea, più in fase di assimilazione che in fase di discussione: troppi commenti, troppi saggi, troppe inchieste parziali arrestandosi a fasi anteriori, e trascurando il rapporto assiduo fra la tesi e il mondo del sapere e di scienza cui appartiene il suo autore: che importa? È dunque un’opera nuova ancora. E la sorprendente lacuna di troppo storicismo erudito è di allestir bibliografie senza storicizzare i dati delle schede: errore dove di fatto cadiamo noi pure, in questa tavola.

Il metodo seguito nelle postille… Se il lettore, leggendo, ha fatto attenzione alle postille, che troppe volte interrompono la tessitura del discorso, adunate alla fine di ogni capitolo, forse per premiare solo gli uomini di buona volontà, o per risparmiare fatica a chi volontà abbia scarsa, o per lasciare supporre che di ogni affermazione si potrebbe dare la documentazione offerta per molte, avrà già trovato che il valore dei riferimenti bibliografici disposti in nota a

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ogni capitolo non è già nel costringerlo dentro un sistema chiuso d’informazioni e di dimostrazioni, ma nell’aggiungere nuovi spazi prospettici e nuove allusioni a quanto si dice nel testo, legato pur sempre a un’ordine concettuale ed espositivo predisposto: lo stile delle postille ripete dunque lo stile della esposizione e la tecnica di un discorso che con gli incisi scava più dentro nelle occasioni che via via si presentano. Ma la Commedia è la più chiusa delle opere di quell’umanesimo romanico che si fondò sopra una rigorosa consapevolezza intellettuale e la più aperta nel discorso secolare dell’esegesi, così che anche per questa via abbiamo contribuito alla lunga discussione sull’improvvisazione, sulla problematica, sulla drammaturgia, e occorre, per comprenderla, che sempre e in ogni caso dalla esteriorità della notizia si passi, sempre più profondamente, alla interiorità della persona: ché il rapporto fra l’individuo e l’universo affidato alla persona è stato pur lui a porlo poeticamente. Non è a dire che manchino i riferimenti precisi, quelli che è buona educazione, sia pur puntigliosa e pedante, offrire al lettore distratto, numeri per ritrovare agevolmente un passo, Inferno, canto tale, verso talaltro, e opere fondamentali di raccolta documentaria: Codice diplomatico dantesco. E tuttavia l’autore, avendo concepito la sua ricerca come una storia, dunque come sintesi della polistorica, si è ben guardato dall’entrare nella disanima di quei riferimenti bibliografici che tutte le bibliografie e tutte le enciclopedie offrono di ogni passo dantesco. Con i rimandi a opere che contengono informazioni accessorie si entra già in materia opinabile; e ogni incremento degli studi storici sul Medioevo, per esempio sulla vita comune del clero nei secoli XI e XII, arricchirà e approfondirà la prospettiva storiografica che il lettore di Dante porrà a riscontro con uno qualunque dei tanti suoi luoghi poetici: così chi scrive dalle relazioni di una settimana di studio, pur senza riferimenti e riscontri; ed è chiaro che quando, parlando di Bonifacio VIII si cita il libro del Tosti, senza di volta in volta esaminar da vicino l’atteggiamento assunto dallo storico per ogni atto del personaggio che ci riguarda, si tien conto implicito del neoguelfismo che lo precede e, come per la notizia della mascherata fiorentina del Giubileo, dell’attenzione alla proiezione mitografica dei fatti storici, che lo segue. Più spesso si lascia che il lettore faccia da solo l’opera necessaria di confronto; ma ogni opera aperta, come ogni pedagogia attiva, è solo il principio di un moto che si svolgerà in una quantità irrepetibile di onde concentriche. Non abbiamo dunque percorso per tutti i passi delle opere di Dante, considerati direttamente nel testo, lo status quaestionis, ma solo per alcuni: contando sul fatto che il lettore provveduto, come il discepolo attento, sappia per conto suo ripetere il raffronto, e con risultati nuovi e più propri, dopo che gli sono stati offerti i modi esemplari dell’intervento critico; ché se si pensa alla vita aggiunta a vita di ogni nuova lettura, anche di chi si è volonterosamente sobbarcato alla disciplina e alla responsabilità della sintesi, benediciamo che la lettura critica non sia un penitenziario dove costringere per sempre la vita del testo, che ricomincia a ogni incontro. Ebbene, non sapremmo nemmeno in questa parte settima di bibliografia schematizzata esimere il lettore dal suo obbligo primo, quello di accorrere al paragone con una intelligenza critica che si suppone arricchita dal commento, non isterilita: le sue doti native di sensibilità e di gusto, la sua conoscenza del linguaggio delle parole e del linguaggio delle immagini, l’estensione della sua virtù di partecipazione riflessiva, cioè la sua cultura, lo renderanno capace di una partecipazione attiva, di una reinvenzione, con la mediazione del saggiatore. Se il lettore crede che questo libro possa risparmiargli ogni fatica, e dargli, così scritto e stampato, catafratto dalla dottrina, scheletro periferico della poesia di Dante, quel che è necessario e sufficiente, si disilluda: senza lui lettore, questo libro rimarrà muto e sordo; e parimenti questa parte settima cadrà nel vuoto, se il lettore non si dispone a illuminare ognuna di queste notizie che qui

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gli vengono offerte della luce che può provenirgli dal testo e dal suo incontro col poeta e con noi. Essenziali sono soltanto i libri che il lettore leggerà davvero, quelli che, in una misura di cui lui solo è giudice, farà veramente propri, anche se meno ricchi d’altri, o meno rigorosi.

… e il metodo seguito in questa “tavola” Tutte no, ma le molte notizie bibliografiche venivano accostate, nel testo, al discorso critico, e giustificate dalla particolarissima opportunità del loro trovarsi in quel punto preciso, a suggerire ora una conferma del pensiero, ora una svolta. Nella tavola bibliografica la suggestione esegetica è al possibile ridotta, anche in obbedienza a uno stile bibliotecario appunto ed epigraficamente astratto: un titolo è sempre un’epigrafe. Eppure ogni scheda dovrebbe esser collocata e misurata nell’intero spazio dove si stende la cerchia discorsiva dell’opera critica, dove la sua presenza si rifrange, non già isolata per servir di sostegno a un fatto o a un aspetto oggettivabili, supposti per sé stanti. Si sa dove va a finire la presunzione del giudizio perentorio: quello stesso Scartazzini, per fare un esempio nemmeno preminente fra diecimila, che a un Barbi, e dopo innumerevoli rettifiche di addottrinati e contrasti di scuole, e in un saggio che va sistemando un rapporto dantesco fondamentale, Dante, in Un cinquantennio di studi sulla letteratura italiana (1886-1936), Saggi raccolti a cura della Società Filologica romana e dedicati a Vittorio Rossi (vol. I, Firenze 1937, pp. 111 ss.), pareva «mediocre e sconsiderato ingegno» (p. 113), pure scrisse quel Dante in Germania: storia letteraria e bibliografica dantesca alemanna, Milano 1881-83, che al Friederich, il volonteroso e provveduto riassuntore della fortuna di Dante fuor d’Italia, Dante’s Fame Abroad, Roma 1950, appare «still today the great standard work in this field» (p. 341). I giudizi mutano col mutar delle prospettive, e se l’intransigente asprezza del grigionese e delle sue solitudini alpestri sembrava indiscreta a chi si proponeva di ricollocare il poeta in un discorso storicamente ampio e umano, oggi sembra comunque importante quel culto aggressivo e ligio, e la custodia di un conservatorismo cantonale, di un medievalismo ombroso e baldanzoso, pur poco adatto a comprendere le fondazioni dantesche dell’umanesimo rinascimentale. Poiché la “tavola” viene al termine del lungo itinerario qui seguìto dalle cose all’anima lungo la vicenda delle parole, consiglieremmo di intenderne ogni nome nella risonanza di questo saggio, per non perdere ogni frutto di questa cernita, con una consultazione che troppo facilmente confinerebbe se stessa e il lettore nel limite inerte dell’anno di edizione. Né vorremmo dimenticato, nel fitto delle citazioni, il soccorso che a ogni lettura viene dalla memoria: Dante s’è prima ascoltato che letto, e Tommaso Campanella, quando preferisce l’Inferno alle altre cantiche, obbedisce a suggestioni della memoria e a mitografie popolari vive da secoli, senza indugiare a riflettere che sarebbe più avveduta proposta, sulla base del suo intellettualismo utopistico, considerar meglio il Paradiso. Infine vorremmo anche così, nel disporre sussidi bibliografici, riproporre per Dante una tradizione parlata, venuta meno nella storia letteraria italiana degli ultimi decenni, dopo che il dantismo risorgimentale aveva riconciliato ai dotti la memoria del poeta dei ciabattini e aveva proposto del più citabile fra i poeti un uso strabocchevole: cosa che non si verifica che ai margini della dantologia ufficiale, e non soppesando il contributo che questa o quella pubblicazione le arreca, ma partecipando della vita intrinseca di ogni lettura e procurando di riaffacciarvisi anche attraverso le intenzioni. Abbiamo visto che Dante immerge in un’aura lirica e trasfigurante ogni sostanza di struttura, la cosmografia stessa del cielo e della terra: perché non seguirlo cercando

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dietro e nell’occasione di una schematizzazione filologica o storica le persone intente, con la loro rispondenza sociale, storica e morale? Le consuetudini dei dantologi degli ultimi decenni appariranno più blande e corrive: dare a ciascuno il suo, ma lasciare che ognuno si riservi l’aurea quiete della mediocrità; e togliere a Dante poeta come a Dante uomo ogni asprezza di decisione per riosservarlo a confronto con avvenimenti che, per esser partecipati da molti, rischiano di risultar generici e di bloccare ogni processo d’individuazione, come dall’esterno vissuti. Dante di tutto fa dramma: non oseremo noi proporre al lettore di affrettarsi lontano dal suo insegnamento più ardito e fattivo, dalle stesse ultime pagine del saggio, se non si sapesse che ogni opera vale davvero solo in quanto vi esiste una presenza umana che dall’incontro con Dante si accresce.

Bibliografia generale Non sarà difficile: anche cominciando dai repertori bibliografici più diffusi, dobbiamo far capo a un uomo che a questi studi arriva non a caso: Paolo Colomb de Batines. La sua Bibliografia dantesca, ossia catalogo delle edizioni, traduzioni, codici, manoscritti e commenti della Divina Commedia e delle opere minori di Dante, seguìto dalla serie dei biografi, compilata in francese e tradotta dal Costantini, fu pubblicata a Prato, due volumi in tre tomi, 1845-46. Né vorremmo scompagnare il suo nome dal giudizio del Carducci, «opera insigne di amore paziente, di erudizione e di modestia». L’Indice generale della «Bibliografia dantesca» fu pubblicato da A. Bacchi Della Lega a Bologna nel 1883, e le Giunte e correzioni inedite alla «Bibliografia dantesca» da G. Biagi a Firenze, 1888: tutto e sempre in una cerchia carducciana. Altra bibliografia fondamentale, anch’essa affidata a un reperibile orientamento di studi, come catalogo di una raccolta dantesca, forse la più ricca del mondo, donata da Willard Fiske alla Cornell University Library: TH.W. KOCH, Catalogue 01 the Dante Collection, p. I Dante’s Works, p. II Works on Dante, Ithaca (N.Y.) 1898-1900: vedine le Additions 1898-1920 compilate da M. Fowler, Ithaca 1921. Per gli anni successivi, seguiti al VI centenario dalla morte (per il quale cfr. gli Studi su Dante e Rassegna bibliografica del Secentenario, a cura della Regia Deputazione di Storia Patria, Firenze 1922, redatti da A. Sapori): N.D. EVOLA, Bibliografia dantesca (1920-30), Firenze 1932, completata per il quadriennio successivo, 193134, in Bibliografia degli studi sulla letteratura italiana (1920-34), prima puntata, Milano 1938, e per gli anni 1935-39 in “Aevum” 15 (1941). J.G. FUCILLA, Forgotten Danteiana. A bibliographical Supplement, Evanston e Chicago 1939. H. WIERUSZOWSKI, Bibliografia dantesca, Firenze 1938-40, per gli anni dal 1931 al 1937 e dal 1938 al 1939. Sempre più avvicinandosi ai nostri, in anni sconvolti, S.A. CHIMENZ, Rassegna critica degli studi danteschi in Italia dal 1940 al 1945, in “Orientamenti culturali”, 2 (1946), 3 (1947): rassegna critica, appunto, più che catalogo; e a una intelligenza sistematica si orienta il saggio di V. LOCATELLI, Note intorno alla critica dantesca contemporanea, in “Aevum” 16 (1942). Anche gli studi di A. Vallone solo in parte perseguono una schedatura esclusivamente bibliografica: Studi danteschi dal 1940 al 1949, Firenze 1950; al polo della critica si colloca, con altri studi di storiografia della critica, La critica dantesca contemporanea, Pisa 1953. Accanto al catalogo della raccolta della Cornell University si può collocare, trascurando altri indici di pur pregevoli collezioni, A.M. MANNA, La raccolta dantesca della Biblioteca Universitaria di Napoli, 2 voll., Firenze 1959. Il compito delle puntuali rassegne tocca alle riviste specializzate; ed è fare la storia istituzionale e continua degli studi danteschi, accompagnarle nella loro vicenda di uomi-

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ni e di orientamenti e collegarle alle cronache delle società dantesche, benché il loro compito sia anche e soprattutto d’archivio, che qui ci interessa, e nonostante il rimprovero di Michele Barbi, nella citata rassegna in onore di Vittorio Rossi, a proposito del “Giornale dantesco”: «Accogliere tutte le idee, concedere piena libertà di discussione, è in astratto una bella cosa; ma nel campo dantesco s’ha presto la vigna di Renzo» (p. 114). L’appunto mira al di là del segno; anche a noi, se il metodo qui proposto non fosse di cercar tanto nel profondo la convergenza unitaria delle realtà dantesche da comprendere il più possibile lontano le direzioni diverse e ardite degli studi. Comunque, se già il visconte de Batines e Atto Vannucci avevano pensato a un “Archivio dantesco”, furono i tedeschi e gli americani che fondarono le prime riviste collegate alle società dantesche: dal 1867 al 1877 apparvero i 4 volumi del “Jahrbuch der deutschen Dante-Gesellschaft”, editi i primi tre dal Witte, il quarto dallo Scartazzini, e continuati come “Deutsches DanteJahrbuch” nelle serie dirette da H. Daffner, 1920 ss., e da F. Schneider, Weimar 1928 ss.; e dal 1883 a Cambridge, Massachusetts, l’“Annual Report of the Dante Society”. Erano iniziative maturate in circoli che facevano capo a personalità spiccate: a re Giovanni di Sassonia, “Philalethes”, il primo, e all’aristocrazia culturale della Nuova Inghilterra, il secondo, che ebbe presidenti Longfellow, Lowell e Norton. Ancor dal ricordo degli studi danteschi in Verona nel Settecento, anch’essi svolti in cerchie attive d’immediati incontri, e socialmente guardinghe, pare si avvivi l’intenzione del fondatore della prima «rivista di cose dantesche» italiana, “L’Alighieri”, diretta da Francesco Pasqualigo, Verona-Venezia 1889-1893, continuata a Firenze col titolo “Giornale dantesco”, diretto da G.L. Passerini, dal 1893 al 1915, e, con l’intermezzo del “Nuovo giornale dantesco. Rivista critica e bibliografica di letteratura dantesca” dal 1917 al 1921, da Luigi Pietrobono: dal vol. XXXI (1928) ha inizio la nuova serie e al titolo viene aggiunta la denominazione “Annuario dantesco”; e agli Indici ventiduennali delle riviste “L’Alighieri” e il “Giornale dantesco” (1889-1910), a cura di Giuseppe Boffito, Firenze 1916, e dei voll. XIX-XXX, 1911-27, a cura di L. Pietrobono, Firenze 1931, rimandiamo per ogni indagine di bibliografia particolare: certo la più conseguente e ardita delle riviste dantesche; ma «questo nuovo periodico, edito dall’Olschki, è assai migliore dell’altro di cui ha preso il posto, “L’Alighieri”, specialmente per la bibliografia», recensiva Michele Barbi: «La parte critica veramente è anche qui scarsa»; dove per critica s’intende la difesa, accorta ma umana, di una «medietas» intellettuale ufficiosamente riconosciuta. Le parole del Barbi apparvero nel I numero, p. 9, della nuova serie del “Bullettino della Società Dantesca Italiana” che nella prima serie dal n. 1 al 14, Firenze 1890-93, contiene la bibliografia ragionata, a cura del Barbi stesso (alcuni fascicoli contengono due numeri), prolungata dal 1893 al 1921, sotto la direzione del Barbi, e poi di E.G. Parodi (1906-21). È una «rassegna critica degli studi danteschi» con intenzione storicistica evidente; ma di uno storicismo pronto ad accogliere sempre nuovi problemi col Barbi, e ad approfondire l’indagine ormai verso l’intimità del processo creativo col Parodi. Gli “Studi danteschi” che hanno continuato il “Bulletino” assumono, al suo confronto, il carattere della raccolta di saggi; ed è significativo che l’astrattismo metodologico della prima ambiziosissima serie cedesse a una accoglienza via via più equilibrata e pensosa non solo delle tesi diverse, sempre recensite con un criterio di grande e rispettosa dignità, ma della diversa animazione delle nuove opere nel nuovo tempo. Ogni organizzazione di cultura muta nel tempo; né il Barbi avrebbe potuto compiere assiduamente un’opera tanto vasta e continua senza l’equanimità e l’apertura. Dal vol. XXXI la pubblicazione diventò semestrale, con la direzione di Mario Casella: i nomi son conseguenza di cose mutate, e a lor volta le mutano, come conferma, con la sua ansia di un esatto rendiconto filologico di una realtà sfuggente, il

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terzo di questi direttori, Gianfranco Contini. Ma torniamo un tratto indietro: per i contatti che la scuola storica manteneva con i dantologi, obbedendo a una tradizione che era appartenuta al Foscolo e al Carducci (e si prolunga tutt’oggi: cfr. dal 1949 la rivista “Lettere italiane, con una sezione di studi danteschi”), può essere annoverato fra queste riviste specializzate il “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, dal 1883. Per i primi 100 volumi e per i supplementi dal 1883 al 1932 il lettore potrà utilmente consultare la schedatura offerta dagli Indici pubblicati a cura di C. Dionisotti, Torino 1948.

Enciclopedie, indici e concordanze Dalle indicazioni più limitatamente bibliografiche passando alle enciclopedie dantesche, tocca la prima menzione, non in ordine di tempo, ma per il suo incerto collocarsi fra i due modi, a Giuseppe Jacopo Ferrazzi per il suo Manuale dantesco, 5 voll., Bassano 1865-77 (il II, IV e V vol. raccolgono la bibliografia). A uno stadio di più riflessiva organizzazione culturale corrisponde il repertorio di LUDWIG GOTTFRIED BLANC, Vocabolario dantesco o dizionario critico e ragionato della DC, ora per la prima volta recato in italiano da G. Carbone, Firenze 1859. Con più vasta attenzione alla dottrina teologica, ma riassumendo anche preoccupazioni storiche e filologiche, si distendono i sette voll. di G. Poletto, Dizionario dantesco di quanto si contiene nelle opere di Dante Alighieri con richiami alla «Somma Teologica» di San Tommaso, con l’illustrazione dei nomi propri e delle questioni più controverse, Siena 1885-92. Li utilizza l’Enciclopedia dantesca di Giovanni Andrea Scartazzini, un «dizionario critico e ragionato di quanto concerne la vita e le opere di Dante Alighieri» in 2 voll., Milano 1896-99: «Riconosco con una gratitudine che durerà quanto Iddio vorrà ancora prolungare la mia povera vita, il pregio e l’utilità di questi lavori, ché io non sono di quelli che si lusingano di esaltare le proprie cose con l’abbassare le altrui» (p. V). Un terzo volume aggiunse nel 1905 A. FIAMMAZZO, Vocabolario-concordanza delle opere latine e italiane di Dante Alighieri, preceduto dalla bibliografia di G.A. Scartazzini. L’opera veniva così a inserirsi in una metodologia che sostituiva all’enciclopedismo illustrativo la sistematicità dello studio dei ritorni delle immagini, degli emblemi, dei temi, delle concordanze, appunto, proiezione della più intima mnemonica delle parole: abbandonava, in parte almeno, la tradizione che era stata di Giovanni Antonio Volpi, Indici ricchissimi che spiegano tutte le cose più difficili e tutte le erudizioni della Divina Commedia, Padova 1727, e si accostava al metodo avviato da E.A. FAY, Concordance on the Divina Commedia, Cambridge, Mass. 1888, proseguito, sempre per iniziativa di quella Dante Society, da E.S. SHELDON, Concordanza delle opere italiane in prosa e del canzoniere di Dante Alighieri, Oxford 1905 e E.K. RAND, E. H. WILKINS, Dantis Alagherii operum latinorum concordantiae, Oxford 1912: tutti con la collaborazione di A.C. White. Distinguendo il repertorio dei nomi dall’indice delle concordanze, resta insostituito P.J. TOYNBEE, A Dictionary of proper Names and notable Matters in the Works of Dante, Oxford 1898, riferito alla IV ed. (a cura del Toynbee) di Tutte le opere di Dante a cura di E. Moore, Oxford 1924; ma tuttavia utilissimi dello stesso Toynbee il Concise Dictionary of proper Names ecc. Oxford 1914, E.G. PARODI, Concordanza dantesca. Indice generale dei nomi di persone luoghi e cose in tutte le opere di Dante Alighieri, Firenze 1919, e i due indici, Indice-sommario delle opere e Indice dei nomi e delle cose, che concludono Le opere di Dante, testo critico della Società Dantesca Italiana, Firenze 1921: «un indice analitico dei nomi e delle cose che rendesse agevole a ciascuno il ritrovare tutto ciò che Dante pensi e dica delle persone e delle materie che via

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via possono interessargli; che fosse come un prontuario per l’uomo di studio e tenesse quasi le veci di commento per il lettore comune. Occorreva per un tale indice uno studioso di sicura dottrina e di grande abnegazione; e l’amicizia e il desiderio di partecipare a una nobile impresa me l’ha fatto trovare in Mario Casella», come dice nella prefazione Michele Barbi; che restasse altro da fare alludeva lo stesso Barbi constatando il divario fra il volume centenario da una parte e le concordanze americane con il Dizionario del Toynbee dall’altra: una nuova concordanza appunto, e un vocabolario, pur movendo dal terzo dei propositi assegnati: «Collegare dialetticamente tra loro mediante rimandi i concetti fondamentali attorno ai quali gravita il pensiero dantesco, notando attraverso le varie opere le divergenze, le concordanze, i chiarimenti». Ma non potremmo dire che la critica abbia fin qui utilizzato a dovere il sistema stabilito dalle concordanze anche per un’indagine di lettura; e soprattutto se alla dialettica dei concetti, che son cosa della dottrina, dunque di un arresto inteso al sistema, sostituiamo, più profondamente, la dialettica delle immagini. Un proprio luogo in tale sistema delle concordanze terranno i rimari, che ne furono la prima forma, dal Rimario di tutte le cadentie di Dante e Petrarca, raccolte per Pellegrino Moretto, Venezia 1665, alla Concordanza speciale della Divina Commedia di Dante Alighieri, ossia repertorio di tutti i versi del poema ordinati alfabeticamente secondo le loro parole finali. Indice dei nomi propri e delle cose notabili che vi si contengono. Sommario delle tre cantiche, a cura di L. Polacco, Firenze 1898. Raccoglieremo in questo paragrafo alcune opere di informazione generale senza distinguere nettamente, che sarebbe impossibile, l’apporto biografico dalle preoccupazioni storiche ed esegetiche. E ricominciamo dallo Scartazzini, che di tutti i dantisti è stato l’enciclopedista più convinto, sempre entusiasticamente illuso di poter nel suo autore automaticamente disporre il nesso fra la parola e la storia. La sua prima opera è anch’essa una guida a Dante, Dante Alighieri, i suoi tempi, la sua vita, le sue opere, Vienna 1869; e al centro della sua bibliografia fanno bella mostra i due “Manuali Hoepli”, Dante, vol. I Vita di Dante, vol. II Opere di Dante, Milano 1883, variamente elaborati e tradotti (Dante-Handbuch. Einführung in das Studium des Lebens und der Schriften Dante Alighieri’s, Lipsia 1892) e riassunti in Dantologia. Vita ed opere di Dante Alighieri, III ed. con ritocchi e giunte di N. Scarano, Milano 1906. Significantissima, in un ambito che si stende ben al di là di una organizzazione di notizie, l’opera di FRANZ XAVER KRAUS, Dante, sein Leben und sein Werk, sein Verhältniss zur Kunst und zur Politik, Berlino 1897: archeologo e storico dell’arte, rappresentativo di un rinnovamento culturale cattolico in Germania, attentissimo anche alle attualità della storia italiana, il Kraus non trascura mai l’abito universitario dell’informazione sistematica, ma si arricchisce di interessi molteplici e di una rara esperienza. Dovremmo sempre tener d’occhio queste opere riassuntive di studiosi che si sono esercitati prima su un vasto tratto del territorio dantesco: il Flamini, per esempio, indagatore e commentatore instancabile, che per anni e anni ribatté sull’allegorismo e sulle strutture, da quell’Ateneo pisano per dove era passato anche Pascoli; e non disdegnò riassumersi in un libretto d’apparenza e d’utilità scolastica: F. FLAMINI, Avviamento allo studio della Divina Commedia, Livorno 1906; e ancora H. HAUVETTE, Dante, introduction à l’étude de la Divine Comédie, Parigi 1911, e G. BERTONI, Dante, II ed. Roma 1921, e P.J. Toynbee, indagatore provvedutissimo della cultura e della fortuna di Dante, Dante Alighieri. His Life and Works, Londra 1910; e il Barbi, che del suo articolo sull’Enciclopedia italiana, vol. XII, pp. 327-347, poi pubblicato in volume, Dante: vita, opere e fortuna, con due saggi su Francesca e Farinata, Firenze 1933, scriveva, nel citato articolo del Cinquantennio di studi sulla letteratura italiana: «Un semplice profilo è l’articolo di M. Barbi nella grande Enciclopedia italiana, riprodotto anche nel volume

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Dante, ecc. ma può essere utile a consultarsi per la visione complessiva, i punti disputati e la scelta bibliografica». Ecco: se l’abitudine saggistica non prevale anche in questa tavola bibliografica, diremo che a tale “profilo” non si giunge senza riflettervi, nonché il lungo studio e il grande amore, una vita intellettuale che impegna anni di ricerca, e senza definirsi in uno stile. Altri volumi del Barbi che riflettono più ampi tratti riassuntivi delle sue ricerche, Con Dante e i suoi interpreti. Saggi per un nuovo commento della Divina Commedia, Firenze 1941; le serie dei Problemi di critica dantesca: I s. Firenze 1934; II s. Firenze 1941; i Problemi fondamentali per un nuovo commento della Divina Commedia, Firenze 1955, con introduzione di Mario Casella. Anch’essi sottintendendo un ideale enciclopedismo dantesco si compongono: volumi del Toynbee, Dante Alighieri, Londra 1904; del D’Ovidio, Nuovi studi danteschi, Milano 1907 e Napoli 1932; del D’Ancona, Scritti danteschi, Firenze 1912, Nuovo volume di studi danteschi, Caserta 1926, L’ultimo volume dantesco, Roma 1926; del Torraca, Studi danteschi, Napoli 1912 e Nuovi studi danteschi, Napoli 1921; del Casini, Scritti danteschi, Città di Castello 1913; Pietrobono, Saggi danteschi, Torino 1954 e Nuovi saggi danteschi, Torino s.d. Anche per lo Zingarelli, che nominiamo ultimo, non certo minore, spiace di non poter fare, qui, una storia della critica dantesca per saggi, che prolunghi la storia della fortuna oltre i limiti disposti: l’astrazione scientifica è, nei nostri studi, solo un’ipotesi di lavoro, ma la concreta umanità si affaccia a ogni riga di chi con la vita delle parole persegue la verità della parola. N. ZINGARELLI, Dante, Milano 1899-1903, nella vallardiana “Storia letteraria d’Italia”. Poiché l’opera che qui giunge al termine ne accetta l’eredità e ardisce collocarsi nella sua stessa collezione, si rammenti la cautela con cui il problema critico e storico di Dante era stato affrontato dal Solerti, pubblicando nella stessa “Storia” Le Vite di Dante, Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo XVI: toccò allo Zingarelli, nella sua prima redazione, il riassunto di una secolare ricerca, continuamente rinnovata dalla sua stessa inquietudine di studioso geniale che poneva e riproponeva sempre nuovi problemi. «La presente opera non appartiene a nessuna scuola; non segue il metodo di nessun maestro; in pochissime cose si riscontra con la sorella anziana, e non è un’edizione nuova di essa, ma creatura nuova», scriveva nella prefazione (p. XII) della Vita, i tempi e le opere di Dante, Milano 1931; e riassumeva le questioni più attuali della critica dantesca fra quel suo primo Dante e questo secondo, con un diagramma non solo utile ancor oggi, ma necessario. Anche a una Vita di Dante non disdegnò di attendere, Milano 1914; e dell’opera del 1931 riconosceva che «l’orditura è biografica»; anzi, come proposito metodologico: «È doveroso, con una esposizione obbiettiva, e tenendo conto di tutto quel che si è venuto a sapere, lasciare che la persona di Dante si innalzi alla stessa altezza delle sue opere e rimanga luminosa e sovrana» (p. XI). Di fronte alla proposta crociana e alla crisi degli studi danteschi nell’anno centenario 1921, l’opera dello Zingarelli rappresenta un’istanza biografica che rimase operosa, anche se sottaciuta, in questi decenni, e cui pur qui si attende, stabilita una volta la convertibilità del vero e del certo, della persona e dell’opera, anzi che procedere in senso parallelo lungo l’opera e lungo la persona.

Guide Ci si consenta, al nome di un altro dei grandi dantisti, rompere l’ordine cronologico: UMBERTO COSMO, Guida a Dante, Torino 1947. L’anno direbbe troppo poco, per un’opera che ordina stupendamente il frutto di tante ricerche; e fra le “guide a Dante”, è certo che lo studioso si rivolge a questa con maggior gratitudine. Del Cosmo rammentiamo qui,

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trascurando gl’innumerevoli e preziosissimi contributi, la Vita di Dante, Bari 1930, che animava con un ripensamento sensibilissimo i dati offerti dalla biografia antica e nuova: vedine la seconda ed. riveduta e accresciuta, Bari 1949; e lo ritroviamo in un’opera fondata sulla lettura testuale, L’ultima ascesa. Carattere divulgativo, sia pure con serietà d’informazione, confessa l’Introduzione allo studio di Dante di F. MAGGINI, II ed., Bari 1942. E carattere spesso di guida e di introduzione hanno molte delle opere che qui elenchiamo, talvolta obbedienti a opportunità editoriali ma pur sempre capaci di testimoniare l’alto grado degli studi danteschi e la loro diffusione, a cominciar da quelle uscite nell’anno centenario o subito dopo: K. FEDERN, Dante und seine Zeit, Stoccarda 1921; E. FLORI, Della vita e dell’opera di Dante, Firenze 1921; C. FOLIGNO, Dante, Bergamo 1921; H. HEFELE, Dante, Stoccarda 1921; A. POMPEATI, Dante, Firenze 1921; M.B. WHITING, Dante: the Man and the Poet, Cambridge 1922. Si estendono a più vasto impegno G. VITALI, Dante Alighieri, Milano 1929, e l’opera di un dantista assiduo, G.L. PASSERINI, La vita di Dante (1265-1321), Firenze 1929. Noteremo che un divario sensibilissimo, e quasi un’antitesi non infeconda, si apre fra queste opere della letteratura critica e altre opere che sono senz’altro di letteratura, e non giustificano sistematicamente ogni asserzione con un riferimento erudito, pur mostrandosi a una valutazione obbiettiva più fondate di quel che sembra a chi schiva di proposito l’animazione della parola nell’opera scientifica: appartengono a tale gruppo il Dante vivo di G. Papini, Firenze 1933: «Vuol essere il libro vivo di un uomo vivo, sopra un uomo che dopo la morte non ha mai cessato di vivere» e, più cauto, la Vita di Dante di T. Gallarati Scotti, Milano 1929 e Dante nel VI centenario. Per la gioventù e per il popolo, Milano 1921. Equilibratissimo fra la narrazione, la rievocazione e lo studio, E. JANNI, In piccioletta barca. Libro della prima conoscenza di Dante, Torino-Milano 1921. Assai provveduto di ottima dottrina e arricchito da una eccellente Bibliografia generale e Bibliografia particolare la monografia Dante dovuta al compianto Siro A. Chimenz nel I volume dei Maggiori in Orientamenti culturali, Milano 1956. Ma francamente evocativo e lirico, e fra noi popolare, il Dante di D.S. Merežkowsky, trad. di R. Küfferle, Bologna 1938. Simili accentuazioni sorprendono meno fra i dantisti stranieri, specialmente in questi ultimi decenni di rinnovata fortuna letteraria: E. FEDERN-KOHLHAAS, Dante. Ein Erlebnis für werdende Menschen, Stoccarda 1933; L. GILLET, Dante, Parigi 1941; F. SCHNEIDER, Dante. Eine Eiführung in sein Leben und sein Werk, Weimar 1940. Un’enciclopedia della problematica dantesca, con particolarissimo riguardo alla genesi, alle fonti e alla struttura è in K. VOSSLER, Die Göttliche Komödie. Entwickelungsgeschichte und Erklärung, Heidelberg 1907-10 (trad. ital. La Divina Commedia studiata nella sua genesi e interpretata, a cura di S. Jacini, Bari 1909 e 1927). Ottima la Einführung in die Göttliche Kömodie di TH. SPOERRI, Zurigo 1946. Riuscirà più difficile al rigore astrattizzante di una schedatura bibliografica che alla distesa evocazione dei tempi distinguere quel che è storia e quel che è autopsia dei luoghi. L’entusiasmo, anche se indiscriminato, dei dantologi ottocenteschi, dovunque osservando l’ombra del poeta, riuniva in una sola nozione mitografica geografia e storia: quindi l’abbondanza delle celebrazioni locali nel VI centenario, di cui or ora daremo qualche riferimento; quindi la reazione crociana contro gli eccessi dell’autobiografismo (La poesia di Dante, Bari 1921, p. 56) e il sospetto invalso contro la danteide. Se il nostro saggio è giunto, percorrendo zone diverse, all’unità dell’intelligenza critica di Dante, non sarà impossibile tener provvisoriamente distinte in questa tavola le notizie dei luoghi dalle notizie dei tempi. Ci tocca tuttavia, per Firenze e per la Toscana tutta, dimenticare che il volto delle città e del paese è piuttosto documentabile in una continua tradizione d’arte e di poesia che nei reperti archeografici; o invitare a ripercorrere ogni notizia, sia che

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abbia valore prevalente di documento, sia che abbia valore prevalente d’arte, distinguendo, ancora una volta provvisoriamente, il certo dal vero. Di un Dante a Firenze è più difficile parlare (e v. L. DAMI, B. BARBADORO, Firenze di Dante: la città, la storia, la vita, Dante, Firenze 1921) che di un Dante nel Regno o di un Dante a Oxford: c’è sempre dentro, anche dall’esilio; anche, se ripensi al «tu proverai di qua da picciol tempo…», ne è fuori quando ci vive, ne è dentro quando già è esule. Comunque, non sfugga il valore di ricognizione che assume uno dei libri miscellanei in cui la dantologia italiana si è adunata con disinvoltura certo non sprovveduta, Dante: la vita, le opere, le grandi città dantesche. Dante e l’Europa, Milano 1921: Isidoro Del Lungo vi premette un Prospetto lineare di vita e di pensiero; Vittorio Rossi vi parla della Commedia, Michele Scherillo della Vita Nuova, Ernesto Giacomo Parodi delle Rime, Flaminio Pellegrini del Convivio, Pio Rajna del Trattato «De Vulgari Eloquentia», Giuseppe Albini delle Ecloghe latine, Guido Biagi della Quaestio de aqua et terra e Guido Mazzoni del «Fiore» di Durante. In fine al volume, per completare utilmente l’indice: G.L. PASSERINI, Le biografie di Dante; L. ROCCA, I primi interpreti della Divina Commedia; A. VENTURI, Dante e l’Arte; G. FOGOLARI, Gli illustratori della Commedia. Ed ecco, al centro, le menzioni che qui più premono: G. LIVI, Dante e Bologna; G. FATINI, Dante e Arezzo; I. SANESI, Dante e Siena; F.P. LUISO, Dante e Lucca; F. FLAMINI, Dante e Pisa; G. BIADEGO, Dante e Verona; M. PORENA, Dante e Roma; N. ZINGARELLI, Dante e il Regno; C. RICCI, Dante e Ravenna; S. MURATORI, Il sepolcro e le ossa di Dante; M. MIGNON, Dante e la Francia; P.J. TOYNBEE, Dante e l’Inghilterra; C. DE LOLLIS, Dante e la Spagna; G. GABETTI, Dante e la Germania; P. ERRERA, Dante e le Fiandre. Riassuntivamente, A. REUMONT, Dante’s Exil, Lipsia 1867; I. DEL LUNGO, Dell’esilio di Dante, Firenze 1881; P. SCHEFFER BOICHHORST, Aus Dante’s Verbannung, Strasburgo 1882; C. RICCI, I rifugi dell’esule, Firenze 1914. Ognuno di questi studiosi documenta altrove i contributi qui riassunti; ma contentiamoci di rilevare l’assenza dell’onnipresente Firenze. Anche per questo facciamo capo a una notizia bibliografica, R. UCCELLI, Contributo alla bibliografia della Toscana, Firenze 1922 e a una notizia archeologica: A. MORI, G. BOFFITO, Firenze nelle vedute e nelle piante. Studio storico, topografico cartografico, Firenze 1926. La ricognizione storico-poetica della geografia dantesca è un capitolo della fortuna romantica di Dante, che incomincia con il «qui» del sonetto alfieriano. Tentò un completo itinerario, che non rinunzieremo a chiamar sentimentale, J.-J. AMPÈRE, Voyage dantesque, nella “Revue des deux mondes”, XX (1839) e nel volume La Grèce, Rome et Dante, del 1848, spesso riedito, e tradotto fra noi a Firenze nel 1855; e fissò i modi, indimenticabilmente, di ogni interpretazione paesistica della poesia di Dante (cfr. A. COUNSON, Dante en France, Erlangen-Parigi 1906 e W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, Roma 1950): «vivre où il a vecu, poser le pied sur la trace que son pied a laissée»; quando pur non si capovolga questo affettuoso dantecentrismo nel servirsi di Dante per una variazione paesistica: «Dante est un admirable cicerone»; o per un pretesto storico: «ce poème n’est pas moins une confession qu’une vaste encyclopédie». Il fortunatissimo viaggio romantico dell’Ampère arricchiva di una concreta presenza di poesia il “genere” della letteratura periegetica; ma è naturale che gli eruditi si preoccupassero di fissare con più rigore i luoghi e le date: E. CROCE, Itinerario di Dante Alighieri, Livorno 1869-70; e continuarono per questa via anche dopo l’opera di A. BASSERMANN, Dantes Spuren in Italien, Heidelberg 1897, più circospetta e nutrita di quella dell’Ampère, ma più avversata: proprio perché il Bassermann non rinunziava ad avvalersi di quei sussidi di precise nozioni geografiche e storiche che via via si indagavano, e tendeva all’esegesi. Indicheremo alcuni soltanto di questi contributi regionali e locali; o tributi. A cominciar dalla Toscana: B. ACQUARONE, Dante in Siena, Siena 1865 (questo per il cente-

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nario della nascita; per il centenario della morte: Dante e Siena, Siena 1921); G. SFORZA, Dante e i Pisani, Pisa 1873; Dante e Arezzo, a cura di G. Fatini, in “Atti della Regia Accademia Petrarca”, n.s., II (1922); Dante e Prato, scritti di F. Flamini, C.A. Lumini, R. Caggese, V. Biagi, S. Nicastro, con dedica di I. Del Lungo, in appendice il catalogo della mostra dantesca Roncioniana, suppl. I dell’“Archivio Storico Pratese”, Prato 1922; C. BENI, Guida illustrata del Casentino, Firenze 1918; G. MCCROBEN, Dante in the Casentino, Firenze 1931. E verso i paesi contermini e lontani: M. APOLLONIO, Dante e l’Umbria, estratto dal vol. L’Umbria nella storia, nella letteratura, nell’arte, Assisi 1953; G. LIVI, Dante e Bologna, nuovi studi e documenti, Bologna 1921; Dante e Bologna, scritti di G. Albini, F. Flamini, A. Galletti, C. Ricci, Bologna 1922; G. ZACCAGNINI, Personaggi danteschi a Bologna e in Romagna, Bologna 1934, estratto da “Atti e Memorie della Regia Deputazione di Storia Patria per le provincie di Romagna”, s. IV, vol. XXIV (1933-34); Ricordi di Ravenna medioevale. Nel VI centenario della morte di Dante, a cura e spese della Cassa di Risparmio di Ravenna, Ravenna 1921; C. RICCI, L’ultimo rifugio di Dante Alighieri, con documenti e 51 illustrazioni, Milano 1891; ID., Il canto dantesco dei Romagnoli, in “Nuova Antologia”, CCCXLVII (1930); A. RANDI, Dante Alighieri in Ravenna: fatti, figure, monumenti, Ravenna 1931; E. GIOVAGNOLI, Dante e Gubbio, in Gubbio nella storia e nell’arte, Città di Castello 1932; F. GUARDABASSI, Dante e Perugia, s.l. 1934 (ma cfr. per una questione a lungo dibattuta G. ANTINORI, Dell’antico castello di Colmollare nel contado di Perugia, dove Dante Alighieri esule dalla patria trovò amichevole ospitalità presso Bosone Novello de’ Raffaelli da Gubbio, Pisa 1842); F. CRISTOFORI, Dante e Viterbo, Siena 1888 (sul conclave del 1270, su Guido di Monforte ed Enrico di Cornovaglia, sul Bullicame e sulla prigione della Malta); Dante e la Lunigiana. Nel VI centenario della venuta del Poeta in Valdimagra, 1306-1906, Milano 1909; Dante e la Liguria, studi e ricerche di E.G. Parodi, P. Revelli, A. Ferretto, F.L. Mannucci, O. Grosso, S. Caramella, A. Redaelli, C. Calcaterra, S. Bellotti, C. Guerrieri-Crocetti, A. Schiaffini, L. Valli, con 31 ill., Milano 1925; C. RICCI, Roma nel pensiero di Dante, Roma 1921; E. TRUCCHI, Dante, Milano e Genova, in Studi su Dante, conferenze e letture dantesche tenute e a cura del comitato milanese della Società Dantesca Italiana, vol. V, Milano 1940. E, sorvolando: Dante e Verona, studi pubblicati a cura di A. Avena e P.A. di Serego-Alighieri, Verona 1921; C. CAVATTONI, Dante e il Benaco, Verona 1866; Dante e il Piemonte, pubblicazione della Reale Accademia delle Scienze a commemorare il VI centenario della morte di Dante, Torino 1922; N. ZINGARELLI, Dante e la Puglia, in “Giornale dantesco”, VIII (1900); L. VIGO, Dante e la Sicilia, Palermo 1870; R. PICCOLI, La Sardegna di Dante, in Miscellanea di studi critici in onore di Vincenzo Crescini, Cividale 1927; A. ROSSI, I viaggi danteschi oltr’alpe, Torino 1893; W.E. Gladstone, Did Dante study in Oxford?, in “Nineteenth Century”, XXXI (1892); A. DE GUBERNATIS, Dante e l’India, in “Giornale della Società asiatica italiana”, III (1889). E vedi, sotto il titolo ormai mitografico di Orme di Dante, la schedatura adunata dai citati indici del “Giornale Storico”, p. 151. La ricognizione dei luoghi è quasi sempre fatta, dalla vecchia scuola, in vista di una inquadratura biografica, senza tener conto del motivo già palese nelle letture romantiche, di considerarli come oggetto di trasfigurazione mitografica; perciò una bibliografia dei tempi si riallaccia a una bibliografia dei luoghi. “Vite di Dante” con preoccupazioni nettamente cronologiche muovono tutte dalle biografie antiche che raccolse A. SOLERTI, Le vite di Dante Petrarca e Boccaccio scritte fino al secolo XVII, Milano 1904 e superata la tappa della cronografia tradizionale, dalle Memorie per servire alla vita di Dante Alighieri ed alla storia della sua famiglia di Giuseppe Pelli, nell’ed. veneziana della Divina Commedia, 1757-58, e in una seconda ed. aumentata a Firenze 1823, e dalla Vita di

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Dante tracciata sul suo modello da G. Tiraboschi nella Storia della Letteratura Italiana, t. V, Modena 1787-93. Per una discriminazione critica fra i dati degli antichi biografi e i riaccertamenti dei nuovi, E. MOORE, Dante and his early Biographers, Londra 1890. Per una fondamentale inquadratura storicistica, il VI tomo della Storia della Letteratura italiana di Adolfo Bartoli, Firenze 1887-89 (e uno Specchio cronologico dei fatti che avvennero tra il 1265 e il 1325 è in G. POLETTO, Alcuni studi su Dante Alighieri come appendice al Dizionario dantesco del medesimo autore, Siena 1892). Ma i due pilastri di ogni ricognizione cronologica restano il Codice diplomatico dantesco edito da R. Piattoli sotto gli auspici della Società Dantesca Italiana, Firenze 1940 (II ed. 1950) e i riferimenti autobiografici del poeta, schedati nel Dictionary del Toynbee, alla voce Dante. Una Cronologia di avvenimenti connessi alla vita e alla «Commedia» di Dante, avverata su gli annali d’Italia, e documentata con citazioni dalle opere del Poeta è in appendice alla ed. fiorentina del Discorso sul testo e su le opinioni diverse prevalenti intorno alla storia e alla emendazione critica della «Commedia» di Dante di Ugo Foscolo: ancor utile, nonché suggestiva, per il rapporto che raccomanda fra il tempo esterno e la storia della poetica. Ma il Foscolo introduce anche la storia della politica dantesca; ed è pure attraverso i foscoliani che matura una più rigorosa conoscenza storica della persona dantesca: attraverso il “romanzo” esoterico del Troya, Del veltro allegorico di Dante, Firenze 1826, Del veltro allegorico dei Ghibellini, Napoli 1856 (ma v. Del veltro allegorico di Dante e altri saggi storici, a cura di C. Panigada, Bari 1932) e il “romanzo” biografico del Balbo, Vita di Dante, Torino 1839: l’iniziatore del metodo storico, G. TODESCHINI, Scritti su Dante, raccolti da B. Bressan, Vicenza 1872, inizia anche il frammentismo delle notizie che si presume di potere accertare isolatamente. Per fortuna, lavorava intanto il più geniale e spericolato dei ricercatori danteschi, Vittorio Imbriani, le cui ricerche vedi raccolte nel vol. Studi danteschi, Firenze 1891: egli vedeva sempre troppo da vicino il documento, con più esattezza e penetrazione d’ogni storicista, e sempre troppo da lontano le prospettive storiche e biografiche dove collocarlo: tanto valeva a svegliare dal sonno tutta l’erudizione nostrana. Si tornava perciò a un metodo dualistico di indagine: la prospettiva in cui collocare l’accertamento documentario importa quanto il documento stesso: prospettiva storica, prospettiva dottrinale, prospettiva linguistica. Tra il primo fascicolo del “Bullettino” e il VI centenario della morte, la prospettiva debitamente approvata dal dantismo ufficiale è quella storica, ben inteso, nella sua accezione più vaga e astratta; ma anche in questa prospettiva gli altri interessi trovan luogo: la storia politica, la storia delle dottrine politiche, la storia della cultura vengono indicate singolarmente; finché, dal 1921, anche la storia della poetica si organizza come ricerca autonoma: rovesciando ben presto, dobbiamo pur dirlo, il rapporto tradizionalmente stabilito, e subordinando il tempo della storia all’invenzione della poesia.

Storia di Firenze La più immediata prospettiva storica (intendo di storia della politica) è ovviamente quella di Firenze, come bene intese Giovanni Villani, che nella sua “rubrica” volle accaparrare alla sua città il grande poeta; mentre evidentemente la biografia letteraria di Giovanni Boccaccio lascia la storia politica nello sfondo e fa storia di esperienze e di motivi poetici (G. BILLANOVICH, La leggenda dantesca del Boccaccio, in Prime ricerche dantesche, Roma 1947): sono le due tesi estreme e sempre si rinnovano. È naturale che alla fine dell’Ottocento, con il moltiplicarsi della documentazione, prevalesse il primo modo allontanando

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l’efficacia pressoché esclusiva del Compagni e del Villani: esigeva questo, lo imponeva con la mole stessa del suo lavoro, il classico della storiografia fiorentina, ROBERT DAVIDSOHN, Geschichte von Florenz, Berlino 1896-1927, 4 voll. (dei quali il primo tradotto in italiano, Firenze 1907; col titolo di Firenze ai tempi di Dante è stata tradotta da E. Dupré Theseider la terza parte del IV vol., Firenze 1929) e Forschungen zur Geschichte von Florenz, 4 voll., Berlino 1896-1908. Ma un peso notevole non può non esercitare (se l’antica storiografia fiorentina, pur quella che non parla dei tempi di Dante, e la stessa storiografia granducale vanno collocate nei paragrafi della storia della fortuna) l’inintermessa ricerca su Firenze: F.-T. PERRENS, Histoire de Florence, 6 voll., Parigi 1877-1884; P. VILLARI, I primi due secoli della storia di Firenze, Firenze 1905; R. CAGGESE, Firenze dalla decadenza di Roma al risorgimento d’Italia, Firenze 1912-21, 3 voll., il primo dei quali: Dalle origini all’età di Dante; il II: Dal priorato di Dante alla caduta della repubblica. I. DEL LUNGO, Da Bonifacio VIII ad Arrigo VII, Milano 1899, II ed. col titolo I Bianchi e i Neri. Pagine di storia fiorentina da Bonifazio VIII ad Arrigo VII per la vita di Dante, Milano 1921; P. SANTINI, Studi sull’antica costituzione del comune di Firenze, in “Archivio Storico Italiano”, s. V, XXV-XXVI (1900), 216 e 220. A. PANELLA, Firenze, nella collana “Storie municipali d’Italia”, Roma 1930. Una attivissima preoccupazione economica introdusse G. SALVEMINI, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Firenze 1898 (ed è evidente che senza questa prospettiva di economia politica anche lo spiritualismo e il moralismo di Dante non possono essere approfonditi, che assistono e si oppongono alle varie operazioni della Lupa e dei Ladri). Gli si oppose, per tornare a una interpretazione più larga, N. OTTOKAR, Il comune di Firenze alla fine del Dugento, Firenze 1927. Ma è un tema che non può esser davvero lasciato in disparte: A. DOREN, Studien aus Florentinische Wirtschaftsgeschichte, Stoccarda 1901-1908; R. CIASCA, L’arte dei medici e speziali nella storia del comune fiorentino dal sec. XII al sec. XV, Firenze 1927; G. MASI, I banchieri fiorentini sulla fine del Dugento, Modena 1931. Più ispirate a quel ritratto di Dante che campeggia in primo piano le opere di C. PASQUALIGO, Dante Alighieri uomo e cittadino, Spoleto 1865; P. PAPA, L’ambasceria di Dante a Bonifazio VIII, Firenze 1884; I. DEL LUNGO, Il priorato di Dante, Firenze 1900; E. BARSANTI, I processi di Dante, Firenze 1908; B. BARBADORO, Le condanne di Dante e la difesa di Firenze guelfa, in “Studi danteschi”, V (1924), 8; G. CUBONI, Le condanne di Dante, in “Convivium”, XI (1949). Dante esule si accosta alla vita di corte dell’Italia signoriale e, da spettatore, assiste alla vita politica dell’Europa monarchica; non vorremmo tuttavia raccomandare una minuta inquadratura di notizie per ogni persona e luogo di cui fa nome: altro è la connaturata esperienza di Dante fiorentino, altro è l’osservazione sia pure appassionata di Dante italico e di Dante europeo. Evitiamo, perciò, di dare indicazioni bibliografiche sulla storia medievale, in genere, che gli storici della letteratura troppo facilmente riassumono in questa o quella idea, e preferibilmente nelle idee invecchiate, collocando il poeta sullo sfondo di una scenografia pseudostorica che ha poco maggior serietà, ma certo minore efficacia, di quelle scenografie panoramiche dove gli attori dell’Ottocento recitavano il Dante. Alle idee che “fanno” la storia non crediamo e nemmeno diamo molto credito ai concetti informatori della storia: preferiamo che, per poter leggere Dante, si osservino, come lui, degli uomini all’opera, e veder come si servono di questa e di quella genericità pubblicistica, ai fini della propaganda. Ben altra cosa è l’elaborazione dottrinale delle idee, continuamente sottratta dalle contingenze alla integrità della ricerca scientifica, e l’occasione, in essa custodita, di un accrescimento personale di vita dello spirito, come diremo recensendo opere di pubblicistica. Non trascureremo perciò gli avvenimenti: primo di tutti, alla svolta del suo esilio, il Giubileo del 1300, che nelle sue attinenze

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politiche è stato studiato dal FEDELE, Il Giubileo del 1300, negli Anni Santi, conferenze tenute nell’Istituto di studi romani, 1933, Torino 1934 (ma vedi il I vol. degli Acta Aragonensia del Finke, Berlino-Lipsia 1908 e A. FRUGONI, Il Cardinale Stefaneschi e il Giubileo del 1300, Brescia 1950). Quindi il problema dei rapporti fra autorità politica e autorità sacrale nella cerchia dell’assolutismo monarchico, cfr. J. RIVIÈRE, Le problème de l’Eglise et de l’État au temps de Philippe le Bel, Lovanio-Parigi 1926; F. RUFFINI, Dante e il protervo decretalista innominato, in Scritti giuridici minori, Milano 1936; R. SCHOLTZ, Die Publizistik zur Zeit Philipps des Schönen und Bonifaz’ VIII, Stoccarda 1903 (raccolta degli scritti); F. ERCOLE, Impero e papato nel diritto pubblico italiano del Rinascimento, in Dal Comune al Principato, Firenze 1929. Infine la storia che s’accentra intorno ad Arrigo VII: FR. SCHNEIDER, Kaiser Heinrich VII, Greiz in V. 1924-28 (e vedine il regesto degli atti pubblicato dallo Schwalm in Monumenta Germaniae Historica. Constitutiones et acta publica, IV, p. II, 1909-11; K. GRÄFE, Die Personlichkeit Kaisers Heinrichs VII, Lipsia 1911; R. CAGGESE, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, Firenze 1922. Tra Verona e Ravenna il poeta diresti che per attendere alla poesia rientra nella cronaca della vita minore; e che valgono i luoghi più che la storia. La problematica politica è bene l’anello di congiunzione fra la sua vita d’uomo politico e la sua vita di poeta. Seguiremo volentieri gli autori che mirano a una valutazione complessa: che intendono nella sua vita il dramma della civiltà umana. Come per il problema della cultura medievale il frutto migliore è stato offerto dagli studiosi che hanno fatto capo a Dante per stabilire una prospettiva universale, così anche l’indagine della pubblicistica medievale è stata più fedele quando, smesso di farne un episodio interessante, ma marginale, di una elaborazione del pensiero politico che nello spirito ha una sua storia, indipendente dalla riflessione che egli ne fa, si è ristudiato tutto il pensiero politico (medievale, moderno, di sempre) nella sua prospettiva eroica: F. KERN, Humana civilitas. Staat, Kirche und Kultur. Eine Dante Untersuchung, Lipsia 1913; A. DEMPF, Sacrum Imperium. La filosofia della storia e dello stato nel Medio Evo e nella Rinascenza politica, traduzione di C. Antoni, Messina 1932. Una determinazione filologica del pensiero dantesco tocca alla bibliografia sul trattato politico: una valutazione teoretica alla bibliografia sul pensiero filosofico in genere; ma le due opere fondamentali stabiliscono fra la persona e l’astrazione dottrinale un rapporto più intrinseco di quello che sono soliti perseguire gli esegeti del pensiero dantesco, propensi a seguire il processo inverso, cioè a genericizzare quello che nel nostro autore è individuato; né si può dire che la scuola italiana anche recente sia aliena da questa tendenza. Comunque, fra le opere generali indichiamo ovviamente quella di R.W. e A.I. CARLYLE, A History of mediaeval political Theory in the West, Edimburgo 1927, vol. V; e discendendo a ricerche più puntuali, A. SOLMI, Il pensiero politico di Dante e Stato e Chiesa nel pensiero di Dante, in Studi su Dante, Firenze 1922; G. SOLARI, Il pensiero politico di Dante: rassegna critica delle pubblicazioni del secentenario, in “Rivista Storica Italiana”, XL (1923); F. ERCOLE, Il pensiero politico di Dante, Milano 1927-28. Converrà fare attenzione alla data e ricollegare questi studi a una situazione politica, acuta specialmente in Germania e in Italia: cfr. H.A. HATZFELD, Dante. Seine Weltanschauung, Monaco 1921; K. FEDERN, Das Zeitalter Dantes, Berlino 1925; H. WIERUSZOWSKI, Der Reichsgedanke bei Dante, in “Deutsches Dante Jahrbuch”, XIV (1932). Né vorremmo escludere da tutti gli studiosi della pubblicistica dantesca il desiderio ambizioso di accaparrarselo a una circostanza transeunte, che contraddice proprio i risultati di una lettura critica della Monarchia. Più equilibrati, forse per questo, risultano gli studi dei letterati, anche se non esenti da amplificazioni e da coloriture, come E.G. Parodi, nel saggio riassuntivo L’ideale politico di Dante, nel vol.

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miscellaneo della Fondazione Besso Dante e l’Italia, Roma 1921, e M. BARBI, Impero e Chiesa, in “Studi danteschi”, XXVI (1942). Un buon riassunto appoggiato a una movimentata narrazione storica è nel volume di A. MEOZZI, L’utopia politica di Dante, Milano 1929; ma la dimensione del tempo è tentata attraverso la sistematica progressione delle idee nel saggio del Nardi, Il concetto dell’Impero nello svolgimento del pensiero dantesco, in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, CXXVIII (1921), e in Saggi di filosofia dantesca, Milano-Genova-Roma 1930. Importanti le inquadrature nel ghibellinismo e nel gioachimismo offerte in E. JORDAN, Le gibelisme de Dante. La doctrine de Monarchie universelle, in «Dante». Mélanges de critique e d’érudition françaises, Parigi 1921; E. BUONAIUTI, Gioacchino da Fiore. Il tempo, la vita, il messaggio, Roma 1931; M. BARBI, L’ideale politico-religioso di Dante; L’Italia nell’ideale politico di Dante; Impero e Chiesa, in ID., Nuovi problemi di critica dantesca, Firenze 1938-39; F. BATTAGLIA, Impero, Chiesa e Stati particolari nel pensiero di Dante, Bologna 1944. Il problema della cultura può essere ordinato secondo una indicazione biografica, dottrinale e storica. La prospettiva biografica è stata la più indagata fra gli storicisti e quella che ha più deluso: per la difficoltà appunto, in quel gigantesco autodidatta, di distinguere il momento recettivo e il momento creativo della cultura, in una organizzazione scolastica così aperta e avventurosa come quella del suo tempo, e dato l’ardimento con cui Dante è solito intervenire nei testi, quanto più venerandi, in proporzione al suo stesso impegno spirituale. Opera fondamentale F. FILIPPINI, Dante scolaro e maestro (Bologna, Parigi, Ravenna), Ginevra 1929, vol. XII della “Biblioteca dell’Archivum Romanicum”. I problemi preminenti restano: discepolato di Brunetto Latini; soggiorno a Bologna, a Parigi, a Oxford; magistero di Ravenna. Per il primo è pur sempre necessario ricorrere al SUNDBY, Della vita e delle opere di Brunetto Latini, traduzione di R. Renier, Firenze 1884, e rifarsi, circoscrivendo la questione, alle prove malsicure che accompagnano la sentenza dell’Imbriani, Che Brunetto Latini non fu maestro di Dante, in Studi danteschi, Firenze 1891; W.W. GOETZ, Dante und Brunetto, in “Deutsches DanteJahrbuch”, XX (1938). Ma parallelo all’enciclopedismo di Brunetto è da osservare il noviziato fiorentino degli studi religiosi, che si prolunga poi per tutta la vita, al di là dello Studio di Santa Croce, dello Studio di Santa Maria Novella e dello Studio di Santo Spirito: U. COSMO, Le mistiche nozze di Frate Francesco con Madonna Povertà, in “Giornale dantesco”, VI (1899); U. MARIANI, Il «De regimine christiano» di Giacomo da Viterbo, in “Giornale dantesco”, XXVII (1924); U. COSMO, L’ultima ascesa. Introduzione alla lettura del «Paradiso», Firenze 1936, pp. 122 ss. Per lo studentato bolognese, oltre la bibliografia citata per i luoghi danteschi, C. RICCI, Dante scolaro a Bologna, in Cogliendo biada o loglio, Firenze 1924. Ancora alla bibliografia dei luoghi converrà ricorrere per Dante in Francia e in Inghilterra, aggiungendovi, poiché si tratta di un problema di attinenze culturalistiche, la bibliografia della fortuna: A. FARINELLI, Dante e la Francia dall’età media al secolo di Voltaire, Milano 1908; P. RAJNA, Per l’andata di Dante a Parigi, in “Studi danteschi”, II (1920). Al Farinelli, che nega il soggiorno francese, si accorda il Counson, Dante en France, Erlangen-Parigi 1906, e chiama piacevolezze di eruditi le affermazioni di Giovanni Villani, di Giovanni Boccaccio e di Giovanni da Serravalle (che aggiunge Padova ai luoghi dello studentato dantesco). La stessa questione si può riproporre negli stessi termini per il soggiorno inglese (cfr. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, cit., pp. 181-182). Vasta la bibliografia ravennate; ma pur sempre percorribile capovolgendo in Dante-maestro il rapporto Dante-scolaro che aveva sviato le ricerche brunettiane: difficoltà di determinare una condizione positiva che il poeta assiduamente trasvaluta. Intorno al citato libro del Ricci, L’ultimo rifugio di Dante, II ed., Milano 1921, la discus-

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sione fra il Biscaro, Dante a Ravenna, in “Bullettino dell’Istituto Storico Italiano”, XLI (1921) e G. GUERRIERI-CROCETTI, Negli ultimi anni di Dante, in “Giornale dantesco”, XXV (1923), e le notizie di P. AMADUCCI, Dante e lo studio di Ravenna, in «Bullettino della Società Dantesca Italiana”, XV (1908), e di S. BERNICOLI, Maestri e scuole letterarie in Ravenna nel secolo XIV, in “Felix Ravenna”, dicembre 1927.

La dottrina L’indicazione bibliografica sulla cultura dottrinale comporterebbe, se adeguata, un ripercorrere tutta l’organizzazione scientifica delle notizie intorno alla cultura medievale: non è esagerato affermare che nessuno studioso di medievalistica, dal Romanticismo in poi, ha esplorato quella cultura senza attendere, esplicitamente o implicitamente, a Dante. Due inquadrature necessarie devono sottintendersi anche in questa tavola: quella che si riferisce alla storia del pensiero in generale e della scolastica in particolare; e quella che può trovare alimento nelle enciclopedie dantesche, ai nomi e alle materie; e le tralasciamo entrambe. Fissando alcuni orientamenti preminenti, che potranno essere osservati più particolarmente anche nella fondamentale Rassegna dantesca del Cosmo in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, LXIII (1919), indicheremo come caposaldo per la dottrina mistica E.G. GARDNER, Dante and the Mystics, Londra 1931, e come essenziali per una interpretazione storico-idealista i due saggi di G. GENTILE, La profezia di Dante e La filosofia di Dante e Manzoni, con un saggio su «Arte e Religione», Firenze 1923. Sul fondamentale rapporto di rivelazioni e natura, di teologia e filosofia, L. PIETROBONO, Filosofia e teologia nel «Convivio» e nella «Commedia», Firenze 1940; L. OLSCHKI, «Sacra doctrina» e «theologia mystica», Firenze 1935; A. CAMILLI, La teologia del limbo dantesco, Firenze 1951. E una situazione complementare di pensiero e poesia guiderà il GILSON, La filosofia nel Medioevo, trad. D. Bucci, Firenze 1922, II ed. Parigi 1954, e Dante et la philosophie, Parigi 1939. In una cerchia più rigorosamente storiografica si raccolgono i due interpreti p. Busnelli e B. Nardi: l’uno attento a documentare l’enciclopedismo scolastico, di preferenza nella sua redazione tomistica, come si è anche osservato nelle bibliografie particolari, l’altro propenso alle zone periferiche e all’averroismo; né vorremmo che pure una semplice prospettiva bibliografica non tenesse conto della complementarità della seconda verso la prima corrente. G. BUSNELLI, L’Etica Nicomachea e l’ordinamento morale dell’Inferno, Bologna 1907; La concezione del Purgatorio dantesco, Roma 1906; L’ordinamento morale del Purgatorio dantesco, Città di Castello 1911-12; Cosmogonia e antropogenesi secondo Dante Alighieri e le sue fonti, Roma 1922; e soprattutto, riassuntivo di ogni precedente indagine, il Commento al Convivio, che ritroveremo a suo luogo. B. NARDI, Saggi di filosofia dantesca, Milano 1930; Dante e la cultura medievale: nuovi saggi di filosofia dantesca, Bari 1942; II ed. riveduta e accresciuta, Bari 1949; Nel mondo di Dante, Roma 1944; Sigieri di Brabante nel pensiero del Rinascimento italiano, Roma 1945. E sorvolando sulle pur necessarie indagini parallele dei vari movimenti dottrinali del Duecento, e particolarmente sugli spiritualisti, sul pauperismo, su Bonaventura e Tommaso d’Aquino, su francescani e domenicani, su Alberto Magno (per i quali cfr. oltre che i repertori bibliografici noti, la bibliografia allegata al cap. IX del cit. libro del COSMO, L’ultima ascesa), indichiamo alcuni riferimenti generali in PH.H. WICKSTEED, Dante and Aquinas, Londra 1913; K. WECZERZIK-PLANHEIM, Die Scholastik in Dante Weltsystem, Vienna 1923; U. MARIANI, La funzione storica del tomismo in Dante, in “Giornale dantesco”, XXXI (1930); W.H.V. READE, Intellectual

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Toleration in Dante, in “Journal of theological Studies”, XXVIII (1925), ottobre; A.H. GILBERT, Dante’s Conception of Justice, North Carolina 1925; M. GRABMANN, Das Aristotelesstudium in Italien zur Zeit Dantes, in “Deutsches Dante-Jahrbuch”, XXIII (1941); R. RESTA, Dante e la filosofia dell’amore, Bologna 1935; L. TONDELLI, Il libro delle figure dell’abate Gioacchino da Fiore. Introduzione e commento. Le sue rivelazioni dantesche, Torino 1940. Una posizione ambivalente fra la cosmografia dantesca e il tradizionale studio delle fonti presenta A. RÜEGG, Die Jenseitsvorstellungen von Dante und die übrigen literarischen Voraussetzungen der Divina Commedia, Einsieldeln-Colonia 1945, 2 voll. Più propriamente rivolti allo studio della cosmografia, dell’astronomia e della geografia dantesca, oltre ad alcuni fondamentali Studies del Moore (The Astronomy of Dante, III; The Geography of Dante, III); F. ANGELITTI, Dante e l’astronomia, nel citato vol. Dante e l’Italia, Roma, 1921; A. MORI, La geografia in Dante, in “Archivio di storia delle scienze”, III (1921-22); G. BOFFITO, Dante geodeta, in “Giornale dantesco”, XXIV (1921). Infine, per fissare alcuni punti del naturalismo dantesco, anche se metodologicamente meno sicuri, E. MESTICA, La psicologia nella Divina Commedia, Firenze 1893; L. LEYNARDI, La psicologia dell’arte nella Divina Commedia, Torino 1894; N. BUSETTO, Saggi di varia psicologia dantesca, in “Giornale dantesco”, XIII (1905); E.G. GARDNER, Imagination and Memory in the Psychology of Dante, in A Miscellany of Studies in Romances Languages and Literatures Presented to Leon E. Kastner, Cambridge 1932; H.D. AUSTIN, Heavenly Gold, a Study of the Use of Color in Dante, in “Philological Quarterly”, XII (1933); K.F. BARTSCH, Dante’s Poetik, in “Jahrbuch der deutschen Dante-Gesellschaft”, III (1871); F. OLIVERO, A Study on the Metaphor in Dante, in “Giornale dantesco”, XXVIII (1925); E. AUERBACH, Dante als Dichter der irdischen Welt, Berlino e Lipsia 1929. E solerte anche nei dati di lettura la conferenza di GIUSEPPE GIACOSA, La luce nella Divina Commedia, in Con Dante e per Dante, Milano 1898. Ma universale repertorio della scienza dantesca è il Commento citato all’ed. nazionale del Convivio, di p. Busnelli. L’esplorazione della cultura ha fatto capo dapprima, e ritorna insistentemente, al paragrafo della retorica (e al comma del “cursus”), dopo essere stata considerata per secoli pertinente alla sola questione della lingua: vedi gli studi del D’OVIDIO, Versificazione romanza. Poetica e poesia medievale, passati attraverso redazioni successive, che anche nel titolo attestano l’ampliarsi e il più chiaro definirsi della ricerca: Sul trattato «De Vulgari Eloquentia» (1873); Versificazione italiana e arte poetica medievale (1910), infine raccolto nel vol. IX delle Opere; quelli del RAJNA, editore del trattato della Retorica, riassunti nel vol. miscellaneo della “Lectura Dantis” sulle Opere Minori di Dante, Firenze 1906, l’articolo Per il «cursus» medievale e per Dante, in “Studi di filologia italiana”, III (1932); del MARIGO, Il «cursus» nella prosa latina dalle origini cristiane a Dante, in “Atti e memorie della Reale Accademia di scienze, letterature e arti in Padova”, 47 (1931), e Il «cursus» nel «De Vulgari Eloqentia» di Dante, ibi, 48 (1932), riassunti nell’ed. del trattato, Firenze 1938; A. SCHIAFFINI, Tradizione e poesia nella prosa d’arte italiana dalla latinità medievale a Giovanni Boccaccio, Genova 1934; II ed. Roma 1943. In mancanza di una sintesi, conviene seguirla nei capitoli più frequentati della cultura classica, della cultura medievale romanza, della cultura medievale latina. Fondamentali, anche se mirano piuttosto ad accertamenti parziali che a una sistemazione complessiva, gli studi di E. MOORE, Studies in Dante, Oxford 1896-1917, e quelli di P.J. TOYNBEE, Dante-Studies and Researches, Londra 1902. Ottimi risultati singoli annoterai nei repertori indicati; ma per non trascurare anche in una tavola bibliografica l’indicazione di una troppo importante impostazione metodologica, noterai come negli ultimi tempi, prevalendo il concetto di una cultura medievale unitaria, e superandosi quello dei «mondi separati», le ricerche

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hanno riosservato l’incontro di Dante con i poeti antichi attraverso la mediazione della cultura medievale: L. SORRENTO, Medievalia. Problemi e studi, Brescia 1943, e particolarmente le pagine dedicate a Dante in Orazio e il Medio Evo, in Tito Livio. Dal Medio Evo al Rinascimento: nonché, per il «processo di conciliazione fra cultura classica e sapienza cristiana», il saggio San Tommaso e i classici: un problema di cultura medievale-moderna. Per la cultura medievale romanza, le cui notizie sono cresciute a dismisura dalle prime esplorazioni del Raynouard e del Diez, ma costantemente traguardando Dante, occorrerà rifarsi a un’opera di sistemazione vasta, come quella di L. OLSCHKI, Die romanischen Literaturen des Mittelalters, Wildpark-Potsdam 1928, oppure a una puntualizzazione testuale come quella fatta con straordinario acume e vastissimo registro da G. Contini nell’ed. delle Rime, Torino 1946. Né saranno da trascurare, in una prospettiva comparatistica, a cominciar dalle documentazioni marginali, come V. DE BARTHOLOMAEIS, Primordi della lirica d’arte in Italia. Con illustrazioni e trascrizioni musicali, Torino 1943, come il vol. di G. BERTONI sui Trovatori d’Italia. Biografie, testi, traduzioni, note, Modena 1915, come quello di R. MENENDEZ PIDAL, Poesia juglaresca y juglares, Madrid 1926, le inquadrature culturalistiche: L. RUSSO, Studi sul Due e Trecento, Roma 1946, fra i quali il saggio Genesi ed Unità della Divina Commedia; per scendere alle indagini sullo stilnovismo, cui si riconnettono i molteplici problemi sui rapporti con i siciliani e con i provenzali: F.A. UGOLINI, La poesia provenzale e l’Italia, Modena 1939; S. SANTANGELO, Dante e i trovatori provenzali, Catania 1921; K. VOSSLER, Die philosophischen Grundlagen zum «süssen neuen Stil» des Guido Guinicelli, Guido Cavalcanti und Dante Alighieri, Heidelberg 1904; M. CASELLA, «Al cor gentil repara sempre amore», Roma 1943. Ma gli studi sulla cultura classica e sulla cultura medievale romanza in Dante vengono prospettati in una luce diversa se fra loro si colloca, come di dovere, lo studio della cultura latina medievale: che si può considerare come il terzo grande acquisto della organizzazione erudita della conoscenza di Dante, dopo l’inquadratura storica e la sistematica esplorazione dei nessi dottrinali. Opera fondamentale è quella di ERNST ROBERT CURTIUS, Europäische Literatur und Lateinisches Mittelalter, Berna 1948: infatti, le scarse indicazioni fin qui offerte dai repertori concernevano o una nozione generica del Medioevo latino, o una serie di notizie staccate; né l’enciclopedismo letterario di quei secoli si raccolse in un’opera paragonabile a quella dell’Aquinate nel territorio della dottrina (a meno che non si alluda appunto alla Commedia, come tante volte si è fatto, in vena di allegorizzazioni pseudostoriche: urtando, subito, nella difficoltà di scindere in Dante la notizia della poesia, il dato del repertorio dal suo assurgere a nuovo mito). Se talvolta, nell’indicazione di opere miscellanee e di raccolte, abbiamo precisato alcuni titoli, non sarà inutile al lettore sottoporgli un indice meno generico: a cominciar dal capitolo II, Lateinisches Mittelalter, che incomincia appunto con Dante und die antiken Dichter, e prosegue nei paragrafi successivi con Antike und moderne Welt, Mittelalter, Lateinisches Mittelalter, Romania, per giungere al penultimo capitolo, riassuntivo dell’indagine che si riappunta su Dante, principio e termine della ricerca, nei paragrafi Dante als Klassiker, Dante und die Latinität, Die «Commedia» und die literarischen Gattungen, Beispielfiguren in der «Commedia», Das Personal der «Commedia», Mythus und Prophetie, Dante und das Mittelalter. In una bibliografia non può aver luogo una recensione critica; ma alcuni argomenti, che toccano punti insistentemente osservati nel testo e in questa tavola, è bene elencarli: cap. IV, Rhetorik; cap. VIII, Poesie und Rhetorik; cap. XI, Poesie und Philosophie; cap. XII, Poesie und Theologie; cap. XV, Manierismus. E fra gli «Exkurse» il I, Missverstandene Antike im Mittelalter; il VI, Altchristliche und mittelalterlische Literaturwissenschaft; l’XI, Dichtung und Scholastik; il XXI, Gott als Bildner: dei quali sarà

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più facile, se la consultazione di questa tavola vien fatta dopo la lettura del libro che qui si prolunga, avvertire le feconde attinenze con la problematica dantesca che abbiamo toccato. E se negli anni intenti a quest’opera voluminosa ci è mai accaduto, leggendo, di pensare a una rielaborazione complessa del lavoro, accadde leggendo questa, della quale ci erano giunte solo anticipazioni sparse, titoli smarriti negli spogli delle riviste: danno dei tempi. Ma soprattutto ci rallegrava di constatare la convergenza degli interessi di una ansiosa lettura di poesia con quelli di una gigantesca opera di sistemazione culturale: un altro iato ricolmo fra mondi che la critica provvisoriamente separa e che la politica letteraria spesso si oppone a che sian ricongiunti. A questo punto toccherebbe alla tavola bibliografica, almeno in quanto segue alla larga il piano dell’opera, pur ritenendosi, come s’è detto, svincolata dal compito di postillare il testo, adunare le notizie di chi ha organizzato e organizza la lettura; e subito s’impone la constatazione dell’ambivalenza di ogni ricerca sul testo di Dante (potremmo dire: su ogni testo poetico; ma nella storia della letteratura critica proprio il testo di Dante ha imposto più risolutamente quello che è diventato il problema critico per antonomasia, la discriminazione provvisoria e la conclusiva convertibilità di poesia e di non-poesia). Quel che si aduna in cerca di notizie complementari, cioè l’indagine erudita intesa ad accertare con prove oggettivamente convalidate le circostanze della poesia, definisce e precisa la parola dell’autore in una accezione sempre più circoscritta; e quel che si tenta dall’interno, accostando il testo in una mimesi spirituale che lo colga, abbandonandoglisi, nel suo più intimo segreto, nelle intenzioni più libere e creative, si riflette in una rispondenza sempre più vasta, si propaga alle estremità della esperienza linguistica e storica. Il parallelismo del cosiddetto metodo filologico e del cosiddetto metodo estetico (i nomi sono ribattuti con fastidio; ne troverai l’eco in un libretto dove i due momenti sono ridistaccati e avversi: M. ROSSI, Gusto filologico e gusto poetico, Bari 1942) suggerisce conciliazioni, più frequenti quando si tratta di far dei bilanci consuntivi: nella citata voce dantesca dell’Enciclopedia italiana, Michele Barbi può benignamente accostare la scuola carducciana e la scuola desanctisiana (erano gli anni della dedica del volume La Poesia «Alla memoria di Francesco De Sanctis e di Giosuè Carducci» di Benedetto Croce, 1935: dove troverai frequentissime postille dirette a una definizione assai precisa di questi rapporti); e F. MAGGINI, La critica dantesca dal ’300 ai nostri giorni, in “Problemi ed orientamenti critici di lingua e di letteratura italiana”, collana diretta da A. Momigliano, vol. III, Questioni e correnti di storia letteraria, Milano 1949, traccia una rapida storia di tutta la letteratura critica che in sei secoli ha studiato Dante, e considera l’organizzazione della letteratura poetica come un capitolo fra i tanti, messo in primo piano dal saggio di B. CROCE, La poesia di Dante, Bari 1921. In realtà il saggio del Croce, letto adeguatamente, cioè senza ritornare in giro, tautologicamente, sul separatismo polemico da cui prende le mosse, lasciando a sé le troppe incrostazioni erudite sulla chiglia della navicella dell’ingegno di Dante, impone non solo una revisione della lettura, ma di far dipendere dai risultati della lettura la nozione della poesia, quindi della storia di Dante: la caratterizzazione di Dante è provvisoria, anche se desunta dalla sua stessa opera, e la sua “immagine” deve risolversi nell’amplitudine della poesia «dell’unica poesia che non si rinserra in cosa alcuna o gruppo di cose particolari, ma spazia sempre nel cosmo» (p. 69). Fra quella immagine, sia pur provvisoria, offerta di Dante (ed era tuttavia il meglio che sino allora avesse offerto la critica, il saggio che più si avvicinava all’essenza del poeta) e il mistico appello all’anima umana «nella perpetuamente ricorrente creazione del mondo» dove si spersonalizza e misticamente s’annega la «definita individualità di Dante», la critica di questi ultimi trent’anni ha saputo cogliere la «definitiva individualità

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di Dante» in zone sempre più profonde e concrete, posponendo sine die il rito che la riaffida all’anima del mondo; e si è accorta con assoluta certezza che lo studio di quella poesia, più procede, più si concreta nella nozione della persona di Dante e più si allontana dalla sua partecipazione generica alle zone dell’astrazione storica e dell’astrazione idealistica: dove la poesia di Dante non sarebbe che «quell’eterno e sublime ritornello, quella voce che ha il medesimo timbro fondamentale in tutti i poeti ed artisti, sempre nuova, sempre antica, accolta da noi con sempre rinnovata trepidazione e gioia». Dopo il saggio crociano, cui non tralasceremo di preporre, anche in preparazione ai riti del settimo centenario della nascita del poeta, Il sesto centenario dantesco e il carattere della poesia di Dante. Discorso del ministro della Pubblica istruzione Benedetto Croce, letto nella Sala Dante di Ravenna, Firenze, “Lectura Dantis” [1921], le ricerche si cristallizzarono volentieri nel problema della struttura, un paragrafo soltanto del più vasto problema dell’allegorica dantesca; ma questo è da notare: che le letture parziali acquistarono un vigor nuovo, perché trovavano un loro luogo dove integrarsi, l’ideal luogo della “poesia”, una categoria dello spirito volentieri eliminata dallo scientismo positivista. Accade sempre così alla lettura della poesia: il lettore crede di erborizzare, ascolta il canto e trasceglie fior da fiore; e intorno a lui, nel vario discorso della cultura, matura un’intelligenza organica che supera i suoi risultati parziali. I “dialoghi” del Cesari, con le Bellezze della Commedia, si collocano in quella tradizione di pubblicistica risorgimentale che ignorano (sono del 1824-26). Così gli studi sulla topica e sulla metaforica accrescono le letture storicistiche, che pur non sanno organizzarle in una stabile valutazione: L. VENTURI, Le similitudini dantesche ordinate e illustrate e confrontate, Firenze 1894: ultima di varie edizioni G. FRANCIOSI, Dell’evidenza dantesca studiata nelle metafore, nelle similitudini e nei simboli, Modena 1872, poi in Scritti danteschi, Firenze 1876. Era il rifugio, quello, di una lettura umbratile, vaga di poesia; e pagato il tributo alla statistica (è del Venturi il calcolo delle 597 similitudini, con la media di 6 per canto: la critica moderna potrebbe fare una schedatura assai più vasta, riconosciuto il carattere di similitudine, per analogia e per metafora, a ogni immagine di poesia) lo studio serviva alla lettura anche scolastica di Dante; e oltrepassati i divieti delle scienze storiche, per le quali la poesia era un fenomeno in sé irrilevante di una situazione storica o linguistica, la lettura si prolungava antologizzando: G. ACQUATICCI, Le gemme della Divina Commedia dichiarate e illustrate, Cingoli 1895. Con ben altra preoccupazione di conoscenza della poetica si pone oggi il problema dell’evidenza dantesca: F. OLIVERO, La rappresentazione dell’immagine in Dante, Torino 1936, con altri studi citati. Questo fatto, di una lettura frammentaria che poi sbocca in una sintesi la quale a sua volta ora propone, ora consente marginalmente nuove letture, è stato segnalato in una prefazione dettata nel 1945 a una raccolta di saggi pubblicata a Firenze nel 1947: G. GETTO, Aspetti della poesia dantesca: «In sostanza, un’applicazione alla lettura della Commedia delle più ricche esperienze critiche e culturali di questi ultimi decenni sembra che non ci sia stata, se si fa eccezione di qualche pagina del Momigliano e soprattutto del capitolo del Flora nella sua Storia della letteratura, dove si assiste ad un nuovo e più articolato gusto di esegesi. Forse per questo abbiamo raccolto con un interesse vivo e diretto, e non solo per una curiosità rivolta al suo autore, la traduzione (che ricordiamo come un’immissione più diretta dell’opera nella cultura del paese) degli scritti su Dante di T.S. Eliot» (p. 7). Ma premetteva di aver notizia solo allora (si rifletta all’anno) «di un altro commento che sta preparando un illustre critico, Attilio Momigliano»; e aggiungeva che tale prospettiva di giudizio della critica dantesca potesse anche essere illusoria. Provvisoria, diremmo; ma indice di una insoddisfazione non solo

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ricorrente, ma necessaria; e di quel frammentismo di lettura che stiamo osservando: ché la lettura procede da accertamenti parziali a una organizzazione sistematica; e questa a sua volta si rompe in una problematica particolare. Dopotutto, fra le occasioni più feconde offerte alla penetrazione estetica della poesia di Dante furono le letture dantesche promosse un po’ dappertutto in Italia (né diremmo che le meno fruttuose siano state le meno documentate: si può parlare ancora per Dante di una tradizione orale! Ma vedi la raccolta fiorentina della “Lectura Dantis”, pubblicata, in continuazione, dall’editore Sansoni, e la più moderna “Lectura Dantis Scaligera”, diretta da Mario Marcazzan, Firenze 1961 ss., dove le più varie tendenze non pur si raccolgono, ma diversamente esplodono); e dall’inevitabile frammentismo, sia quello glossatorio di Niccolò Tommaseo, sia quello saggistico di Francesco De Sanctis, derivò uno stupendo incremento. E ogni più rigorosa formulazione critica della problematica dantesca consente anche di guardare indietro con nuovo acume: come accade e accadde dell’opera di un erudito fra i più rigorosi, Ernesto Giacomo Parodi, direttore, fra il 1906 e il 1923, del “Bullettino della Società Dantesca Italiana”, che valutato nella sua personalità di critico, Poesia e storia della Divina Commedia, Napoli 1921, Poeti antichi e moderni, Napoli 1923, rivela la premessa di una lettura sistematica che manca affatto agli zelatori di una rivelazione emotiva. Ma qui rischiamo di oltrepassare i limiti di una informazione per l’opus additum della critica sulla critica. Poiché ogni lettura si basa evidentemente su una ricerca testuale, resta ovvia premessa di ogni ricerca sul testo l’esplorazione linguistica: nella quale non vorremmo certo dimenticata una tradizione orale del lessico e della morfologia; ma nemmeno vorremmo passare senza deplorazione l’assenza di preoccupazioni scientifiche, sino ad anni recenti. Ma vedi gli studi di A. SCHIAFFINI: Testi fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, Firenze 1926; e il vol. citato Tradizione e poesia nella prosa d’arte italiana dalla latinità medievale a Giovanni Boccaccio, Genova 1934; II ed. Roma 1943. Un’attenzione tradizionalistica, legata alla mentalità e ai metodi della vulgata cinquecentesca, ma in parte sommossa dalle esigenze della nuova filologia, e certo preziosa per l’abbondanza della raccolta lessicografia, era quella di Vincenzo Nannucci, il «filologo morto e galantuomo» del Carducci, a cominciar dalla ricerca Intorno alle voci usate da Dante secondo i commentatori in grazia della rima, Corfù 1840: una preoccupazione destinata a riecheggiare nel testo di quella che forse resterà come la nuova vulgata, l’ed. centenaria. La filologia romantica e manzoniana (il Manzoni ebbe adeguata intelligenza critica dell’operetta retorica) si riflette nello spoglio di R. CAVERNI, Voci e modi nella Divina Commedia dell’uso popolare toscano, Firenze 1877. Né mancarono gli studiosi, lessicografi più o meno, che tentarono d’investigare idiotismi o reminiscenze locali, dalla Sicilia, G. BOZZO, Voci e maniere del siciliano che si trovano nella Divina Commedia, nel “Propugnatore”, XII (1879), alla Lombardia, G. AGNELLI, La Lombardia e i suoi dialetti nella Divina Commedia, nell’“Alighieri”, III (1892): ma vedi N. ZINGARELLI, Parole e forme della Divina Commedia aliene dal dialetto fiorentino, in “Studi di filologia romanza”, I (1885), e la discussione che ne seguì, cui partecipò il DEL LUNGO, Il volgare fiorentino nel poema di Dante, in Dal secolo e dal poema di Dante, Bologna 1898; e A. SCHIAFFINI, Note sul colorito dialettale della Divina Commedia, in “Studi danteschi”, XII (1928); H. ZEHLE, Laut und Flexionslehre in Dante’s Divina Commedia, Marburgo 1886. E.G. PARODI, La rima e i vocaboli in rima nella Divina Commedia, in “Bullettino della Società Dantesca Italiana”, III (1896) e nei citati studi critici raccolti in Poesia e storia nella Divina Commedia. Gli studi proseguono; ci sia concesso, per una problematica così aperta, citar nomi soltanto: di Bruno Migliorini, di Giacomo Devoto; e la rivista “Lingua nostra”. Il testo delle Rime,

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esemplare per l’ampiezza robusta con cui si organizzano filologicamente i problemi, riflettendo tutti gl’interessi molteplici della lettura, è quello di G. Contini, Torino 1939, II ed. 1949, ma non si sarebbe giunti a quest’antonomasia senza gli studi del Barbi (cfr. Studi sul Canzoniere di Dante, Firenze 1915), che della lirica di Dante fece il suo territorio prediletto, consegnandosi nell’ed. critica della Vita Nuova, Firenze 1932. Il commento del Casini alla Vita Nuova, Firenze 1885, riflette una equilibrata nozione critica, nel bel mezzo della reviviscenza stilnovistica e delle discussioni sull’allegorismo di Beatrice; e utile, per queste riflessioni di storia della critica, con una scelta del Canzoniere, l’aggiornamento curatone dal Pietrobono, Firenze 1932. E vedi gli altri commenti del Guerri, Napoli 1922, e del Sapegno, Firenze 1931. Testo e commento del Convivio si affidano all’opera di G. Busnelli e di G. Vandelli, nei due volumi dell’ed. fiorentina, 1934-37; ma cfr. A. PÉZARD, Le Convivio de Dante: sa lettre, son esprit, in “Annales de l’Université de Lyon”, s. III (Lettres), IX (1940); M. CASELLA, Per il testo critico del Convivio e della Commedia, in “Studi di filologia italiana”, VII (1944); V. PERNICONE, Per il testo critico del Convivio, in “Studi danteschi”, XXVIII (1949); e M. SAMPOLI-SIMONELLI, Contributi al testo critico del Convivio, in “Studi danteschi”, XXX (1951), XXXI (1953) e XXXII (1954). Lo stesso sia detto, per il De vulgari eloquentia, di A. Marigo, Firenze 1938, con le note di U. SESINI, Sul De vulgari eloquentia edito da A. Marigo, in “Convivium”, XI (1938), riferendo a questo, come a loro conclusione, gli assidui studi di P. Rajna, che avevano portato alle edizioni fiorentine del 1896, del 1897 e all’ed. centenaria, alla quale di necessità rimandiamo per le altre opere minori: aggiungendo la menzione, per la Monarchia, dell’ed. di Firenze, 1950, testo, introduzione, traduzione e commento, a cura di G. Vinay, che in appendice porta tradotte le epistole politiche, e, dello stesso autore, Interpretazione della «Monarchia» di Dante, nella “Lectura Dantis Scaligera”. Commenti della Questio in V. BIAGI, La «Questio de aqua et terra» di Dante, bibliografia, dissertazione critica sull’autenticità, testo e commento, ecc., Modena 1907, e in F. ANGELITTI, La «Quaestio de aqua et terra» di Dante Alighieri ridotta alla più probabile lezione secondo il senso, nuovamente tradotta e commentata, Palermo 1915, e in vol., Palermo 1932. Per le Ecloghe, PH. WICKSTEED e E.G. GARDNER, Dante and Giovanni del Virgilio, including a critical Edition of the Text of Dante’s «Eclogae Latinae» and of the poetical Remains of Giovanni del Virgilio, Westminster 1902, e G. ALBINI, Dantis Eclogae, Joannis de Virgilio carmen et ecloga responsiva, Firenze 1903; A MARIGO, Il classicismo virgiliano nelle «Eclogae» di Dante, in “Atti e memorie della Reale Accademia di Padova”, XXV (1909). La storia del testo della Commedia esposta con ricca ed equilibrata informazione nel cap. XXVIII della Vita ecc. dello ZINGARELLI, La composizione e pubblicazione della Divina Commedia, pp. 769 ss. Ma cfr. il paragrafo che le dedica S.A. Chimenz nel saggio citato in “Orientamenti culturali”, pp. 100 ss. e la Nota al testo dell’ed. ricciardiana, La Divina Commedia, a cura di N. Sapegno, Milano-Napoli 1957. Per isolare alcune indicazioni che permettano di seguir lo sviluppo degli studi fra l’uno e l’altro dei due recensori e il mutare delle prospettive intellettuali a confronto coi problemi della critica testuale, sarà ancora una volta necessario rifarsi a MICHELE BARBI, La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori da Dante al Manzoni, Firenze 1938: un capitolo della grande revisione metodologica aperta dal volume di GIORGIO PASQUALI, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1934. La lettura moderna delle opere d’arte (e adoperiamo apposta questo termine estensivo, dove il “saper vedere” fa tutt’uno col “saper leggere”) è tutt’altro che incline ad affisarsi nella ricerca e nella contemplazione dell’immagine pura, muove anche per l’indagine filologica dalla storia alla fenomenologia e ha spostato verso il problema delle varianti d’autore l’attenzione che un tempo si concentrava su quell’idea di un testo

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critico che consacrasse il «ne varietur» piuttosto che le testimonianze, nel tempo, della vita come ricerca. La prefazione dell’ed. centenaria, che annunciava il «testo critico» delle Opere di Dante, poté aiutare questo processo di catalizzazione, e di rimando si cominciò ad avvertire quanto di valore e di verità e di poesia nel tempo si riflette sui testi della tradizione vulgata (se ne rese interprete Riccardo Bacchelli, in una nota raccolta nelle Confessioni letterarie: tanto è vero che i problemi filologici estrinsecano e organizzano preoccupazioni e sintomi vivi nel vivo corpo della letteratura): cosicché due risultano gli ordini dell’inchiesta storica, la storia di una poetica, testimoniata nelle varianti d’autore, e quella dell’esegesi perenne, che ricupera per altra via, a ritroso dal tempo all’anima, il segreto che il poeta propalava. Insomma, Giuseppe Vandelli, curando il testo dell’ed. del centenario 1921, proseguiva sulla via dei Contributions to the Textual Criticism of the Divina Commedia del Moore, Cambridge 1889, e dello stesso Barbi, Per il testo della Divina Commedia, Roma 1891, e risaliva a quel codice perduto che già nel 1330 avrebbe tentato un’edizione collazionando copie diverse: Il più antico testo critico della Divina Commedia, in “Studi danteschi”, V (1922). Costretti a far capo ai due più antichi codici datati, il codice Landiano del 1336 di Piacenza e il codice Trivulziano del 1337 di Milano, non resterà che trar frutto dall’incontro di varianti d’autore e di varianti di tradizione in nodo di tempo così stretto, certo cominciato vivo Dante: «questo non vi mis’io!», e far buon viso a cattiva sorte. Ecco Mario Casella, nell’ed. bolognese del 1923, accettare indicazioni assai più complesse giustificandole negli Studi sul testo della Divina Commedia, in “Studi danteschi”, VIII (1924). Altri interventi quelli di E.G. PARODI, Il testo critico delle Opere di Dante, in “Bullettino della Società Dantesca”, XXVIII (1921), e di S. DEBENEDETTI, Intorno ad alcuni versi di Dante, in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”, LXXXVII (1926). Come accade, nella sospensiva successa a quel fervore di discussioni, si insinua l’incertezza: di cui portan traccia i commenti recenti (e anche per evitare ondeggiamenti, nell’impossibilità di risolvere caso per caso il problema del testo, abbiamo qui preferito far capo all’ed. centenaria, pur riconoscendone la provvisorietà ammessa, anzi proclamata, dagli editori, e spesso servendocene come di occasione utile per avvertire le variazioni, se non le varianti, proposte dalla fortuna alla lettura). Anche il cenno sui commenti risulterà scarso a paragone dei tanti problemi che sorgono a ogni passo e dello stesso uso che ne abbiamo fatto noi leggendo, introducendoli ad ampliare la cerchia delle rispondenze, che era il nostro compito di storici, invece che a restringere la cerchia degli accertamenti, cui talvolta si riduce l’interprete. Moviamo dunque dal Commento lipsiense dello SCARTAZZINI, La Divina Commedia riveduta nel testo e commentata, 1874-90 (e per il I vol. l’Inferno, II ed. interamente rifatta e accresciuta di una Concordanza, Lipsia 1900): del qual commento si divulgò in Italia l’ed. minore, Milano 1893, soprattutto nella revisione del Vandelli, dalla IV ed. in poi, Milano 1903. Per i commentatori antichi e moderni, e per l’iconografia, La Divina Commedia nella figurazione artistica e nel secolare commento, a cura di Biagi, Cosmo, Passerini e Rostagno, Torino 1921-40. Ancora a un volume del BARBI, Con Dante e coi suoi interpreti. Saggi per un nuovo commento della Divina Commedia, Firenze 1941, converrà far capo per la triangolazione del territorio della scuola storica nel suo più comprensivo sviluppo: dove andran collocati i commenti del Camerini, Milano 1868-69, del Casini, Firenze 1889, del Campi, Torino 1888-93, del Poletto, Roma 1894, del Torraca, Milano 1915; di diverso valore, ma tutti ripubblicati in edizioni rivedute. Fra il vecchio e il nuovo, con accorto equilibrio di lettura e di storia, riassuntivo di una annosa e fertile tradizione di studi, il “Dante fiorentino” di Isidoro Del Lungo, Firenze 1924-26. Specchio di un orientamento dottrinale

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assiduamente asserito il Pietrobono, Torino 1931. Ricco di postille e di indagini complementari il Porena, Bologna 1946-7. Al commento del Tommaseo accostiamo, anche per l’uso parallelo che spesso se ne è fatto, quello del Momigliano, Firenze 1945-46. Ultimo e degno il citato commento del Sapegno per la “Ricciardiana”, Milano-Napoli 1957, che si vale di più d’una suggestione di varia provenienza, maturata nella critica più recente e debitamente, sensibilmente, raccolta. Gli studi sulla fortuna possono ricollegarsi, per quanto riguarda l’Italia, al volume miscellaneo Dante e l’Italia, edito dalla Fondazione Marco Besso a Roma, nel 1921: V. ROSSI, Dante nel Trecento e nel Quattrocento; F. FLAMINI, Dante nel Cinquecento e nell’età della decadenza; G. MAZZONI, Dante negli inizi e nel vigore del risorgimento: saggi che pur nel facile discorrere indicano i nodi di quella storia. Riassuntiva, ma fondata e ricca di riferimenti bibliografici è la Lectura Dantis di F. FLAMINI, La varia fortuna di Dante in Italia, e utile il Saggio bibliografico per la storia della fortuna di Dante in G. MAMBELLI, Gli annali delle edizioni dantesche, Bologna 1931. Manca un’opera complessiva condotta con i criteri di totale informazione e di equilibrato giudizio che dobbiamo, per la fortuna fuor d’Italia, al Friederich. Per le varie epoche della storia della fortuna, occorrerà sempre muovere dal saggio carducciano, Della varia fortuna di Dante, accolto nel vol. VIII delle Opere, forse il più ricco tributo della critica italiana per il VI centenario della nascita (e non è senza significato che solo col VI centenario della morte si può parlare di studi sistematici di dantologia comparativa). Altra indagine sullo stesso periodo E. CAVALLARI, La fortuna di Dante nel Trecento, Firenze 1921. Fondamentale per gli studi danteschi nel Rinascimento M. BARBI, La fortuna di Dante nel secolo XVI, Pisa 1890. Segue, nell’ordine di tempo, con un’attenzione meno circostanziata, ma assai complessa, U. COSMO, Con Dante attraverso il Seicento, Bari 1946. Col Settecento gli studi possono meglio esser seguiti osservando i singoli problemi che nei lavori d’insieme: tuttavia è utile G. ZACCHETTI, La fama di Dante in Italia nel secolo XVIII, Roma 1900, pur che sia completato dalla recensione del Barbi, in Problemi di critica dantesca, Firenze 1934. Assai ricca la fioritura di studi sul dantismo di Vico: punto di partenza per ogni indagine la Bibliografia vichiana di B. Croce, ora rielaborata da F. Nicolini, vol. I, Napoli 1947, e pur del Croce, La filosofia di Gian Battista Vico, Bari 1947; M. FUBINI, Stile e umanità di Gian Battista Vico, Bari 1946. Altro episodio preminente è quello della “difesa” di Dante: L’assalto a Dante, per cominciare, in C. CALCATERRA, Il Parnaso in rivolta, Milano 1940; e l’Introduzione alla lettura delle «Virgiliane», in M. FUBINI, Dal Muratori al Baretti. Studi sulla critica del Settecento, Bari e Città di Castello 1946; A. ZARDO, Gasparo Gozzi nella letteratura del suo tempo in Venezia, Bologna 1923. Anche per il Romanticismo lo studioso deve procedere attraverso studi parziali, spesso incerti nei fondamenti storiografici della trattazione, benché vivaci e provveduti nei singoli accertamenti. Divisa risulterà la bibliografia del Monti dantista fra le sue imitazioni giovanili e gli studi critici e filologici della vecchiaia; ma questo accade per tutta la letteratura dell’epoca, da Alfieri al Tommaseo. A prescindere dalle opere di informazione generale sui singoli autori, e da minuti, e pure utilissimi riscontri (dalle postille alfieriane alla Commedia, riportate nel commento del Biagioli, Parigi 1818-19, al passo dantesco dell’Urania del Manzoni, dal discorso del Monti a Ravenna alle “tirate” dantesche del buon Pietro Maroncelli nelle Addizioni alle Prigioni del Pellico: una cronaca minuta sarà possibile solo quando si sia chiarito il rapporto d’intelligenza che unisce i grandi poeti nella fondazione della nuova cultura), v. lo studio monografico di A. CHIARI, Dante e il Foscolo, nel vol. VI della miscellanea Studi su Dante, Milano 1941, e, per il Tommaseo, la prefazione di U. Cosmo all’ed. del Commento nei Classici UTET, Torino 1926. A una cronaca ricca di suggestioni per la storia

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del costume letterario appartengono le notizie raccolte da P. BELLEZZA, Dante nella storia del Risorgimento italiano, in Curiosità dantesche, Milano 1913. E ancora, per la fortuna risorgimentale, A. MONTI, Come gli uomini del Risorgimento celebrarono il centenario di Dante, nel vol. miscellaneo Studi su Dante, Milano 1941. Per la fortuna di Dante fuor d’Italia, l’opera più volte citata di W.P. FRIEDERICH, Dante’s Fame Abroad, 1350-1850. The Influence of Dante Alighieri on the Poets and Scholars of Spain, France, England, Germany, Switzerland and the United States. A Survey of the Present State of Scholarship, Roma 1950, costituisce la sintesi d’ogni ricerca parziale e il fondamento per ogni ulteriore valutazione critica. Come saggio di una esplorazione limitata, editoriale più che critica, valga M. BESSO, La fortuna di Dante fuori d’Italia, Firenze 1921. L’opera di A. FARINELLI, Dante in Spagna, Francia, Inghilterra, Germania, Torino 1922, raccoglie studi di diverso impegno e natura, e sovrappone inquadrature bibliografiche e illazioni critiche e storiche: se noi abbiamo evitato, rifacendo nella presente opera le pagine dedicate alla fortuna di Dante fuor d’Italia, la confusione sempre possibile, ce ne confessiamo debitori al Friederich, senza pur potere richiamarci al «present state of scholarship» per altre eventuali confusioni. Saggi sulla fortuna in Francia, Inghilterra, Spagna, Germania e Fiandre, nel volume Dante: la vita, le opere, le grandi città dantesche. Dante e l’Europa, Milano 1921. Notizie complementari che allargano l’informazione a territori e argomenti non studiati nell’opera presente sono in H. LIMA DE CAMPOS FERREIRA, Dante em Portugal e no Brasil. Essaio biblio-iconografico, in “Estudos Italianos em Portugal”, IV (1941); J.L. COHEN, Dante in de Nederlandsche Letterkunde, Haarlem 1929; J. KAPOSY, Bibliografia dantesca ungherese, in “Corvina”, I (1921), 2; S.P. KOCZOROWSKI, Dante w Polsce, Cracovia 1921; riguardano la storia della cultura e solo in parte toccano la storia della fortuna gli studi degli orientalisti, G. GALBIATI, Dante e gli Arabi, Milano 1938; G. GABRIELI, Intorno alle fonti orientali della Divina Commedia, Roma 1919; ID., Dante e l’Islam, Milano 1921; ID., La prima traduzione araba della Divina Commedia, in “Nuova Antologia”, CCCLXXII (1934), fasc. 143; L. OLSCHKI, Dante e l’Oriente, in “Giornale dantesco”, XXXIX (1938). Infine, J. OGA, Dante’s Bibliography in Japan, Osaka 1929, II ed.; Bibliografia dantesca giapponese, Firenze 1930. Attento a una situazione economica e storica dell’opera di Dante risulta l’articolo dantesco della Bol’šaja Sovetskaja enciklopedija, Mosca 1926 ss., non altrettanto a quell’incontro dantesco che ci risulta osservato, nei grandi poeti russi, dagli occidentalisti Berdjaev e Ivanov. Valga il cenno soltanto a indicare uno fra i tanti territori che questa opera trascura.

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Indice dei nomi* A cura di Corrado Viola

Abati Bocca degli 10, 109 Abati Buoso degli v. Buoso (degli Abati? Donati?) Abati Alighieri Bella XXX-XXXI Abele 29, 163 Abramo 329 Acciaiuoli Vincenzo 387 Accolti Bernardo 472 Accorso Francesco d’ v. Francesco d’Accursio Acheronte XXX, 27, 57, 108, 197, 336, 343, 627 Achille 31, 85, 107, 518, 523 Acquarone Bartolomeo 645 Acquaticci Giulio 655 Adalagia 439 Adamo XXXV-XXXVI, 195, 202, 218, 225, 253, 262, 276, 323, 327-330, 333, 335, 343, 350, 399, 498, 508 Ade XXX

Adimari 288, 407 Adriano I, papa XXIX Adriano V Fieschi 74, 117, 125, 178-180, 250 Adriano, imperatore 530 Agamben Giorgio LI Agapito I, papa, santo 250 Aglauro 162-163 Agli Lotto degli 55, 65 Agnelli Giovanni 656 Agnese 203 Agnoli Galileo 593 Agostinelli Lavinio 471 Agostino Aurelio, santo 58, 245, 269, 293, 349, 399, 466, 491 Agostino d’Assisi, frate minore 275 Agoult Marie-Catherine-Sophie de Flavigny, contessa d’ 555 Aitone Armeno 15

* Con rinvio al numero di pagina e ordinando per lettera, non per parola, l’Indice registra tutti i nomi (eccettuato quello di Dante) citati in ogni parte del volume, compresi il saggio introduttivo di Carlo Annoni e la Nota al testo di Corrado Viola. La forma a lemma è quella standard, fissata nelle opere biografiche ed enciclopediche dell’Istituto della Enciclopedia Italiana “G. Treccani” (Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli Italiani, Enciclopedia dantesca); nei casi non rarissimi di difformità interne a queste opere o rispetto all’uso di Apollonio, un rimando provvede a indirizzare dalle varianti onomastiche concorrenti alla forma assunta a lemma. Eventuali specificazioni (designanti il titolo o la professione) sono fatte seguire soltanto in caso di dati mancanti; sempre indicate invece qualifiche come “santo/-a”, “imperatore” e “papa” (quest’ultima, però, sostituita dal nome del casato, ove noto, come in genere per i pontefici dal basso medioevo in poi). Di regola, i lemmi costituiti da soli cognomi (“Braschi”, “Ordelaffi” ecc.) non designano individui determinati, ma il casato. In conformità alle caratteristiche dell’opera e alle finalità sussidiarie conseguentemente pensate per questo Indice (cfr. supra la Nota al testo, p. LVIII), sono stati registrati non solo i nomi di personaggi o studiosi della Commedia, ma anche i principali nomi di luogo (per lo più città: “Roma”, “Ravenna”, “Firenze” ecc.), anche della topografia oltremondana dantesca (“Malebolge”, “Limbo”, “Cocito”, “Antipurgatorio”, e ancora “Primo Mobile”, “Empireo”, “Luna”, “Saturno”, “Sole”, questi ultimi intesi naturalmente come cieli), e, per dir così, di alcuni “attanti”/”personaggi” teologici (“Grazia”, “Spirito Santo”, “Provvidenza” ecc.) e/o allegorici (la “Selva”, la “Lupa”, il “Leone”, la “Lonza”, il “Veltro”), nonché di personaggi letterari non danteschi (“Agnese”, “Chichibio”, “Gioanin Bongée”, “Graziella”, “Pollicino”, “Violetta”, ecc., per lo più raggiunti da Apollonio in quei suoi raffronti sempre illuminanti per acuzie e latitudine di cultura viva). Si è insomma ritenuto opportuno dilatare l’indicizzazione a una pur moderata soggettazione, a beneficio del lettore.

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Alagia v. Fieschi Alagia Alano di Lilla 535 Alberico da Rosciate 446 Alberigo Manfredi v. Manfredi Alberigo Albero da Siena XXIV, 101 Alberti Alessandro 109 Alberti Napoleone 109 Alberti Orso degli 135 Alberto da Casalodi 79 Alberto da Siena v. Albero da Siena Alberto della Scala 174 Alberto I d’Asburgo 91, 144, 298 Alberto Magno, santo 56, 269, 651 Albini Giuseppe 645-646, 657 Alboino della Scala 290 Alcide 260 Aldobrandeschi Omberto 153-154 Aldobrandi Tegghiaio 62 Alessandro Magno 56, 65 Alessandro Novello 261 Alessandro di Romena 103 Alessio Interminelli v. Interminelli Alessio Alfani Gianni 475 Alfieri Vittorio XXXIX, LV, 517, 548, 567-571, 573, 578, 584, 587, 593, 602, 608, 612, 659 Alfonso III d’Este, duca di Modena 137 Algarotti Francesco 374, 535, 525 Alighieri Iacopo 383-384, 435 Alighieri Geri (Geri del Bello) 99 Alighieri Pietro 538 Alighieri Serego v. Serego Alighieri Almeone 242 Amaducci Paolo 651 Aman 168 Amata 169, 171 Amelia XXV Amiclate 272 Amiel 552-553 Ammirato Scipione 387 Ampère Jean-Jacques 645 Anania 324 Anastasio II, papa 45, 50 Anceschi Luciano 565 Anchise 12 Andalò Loderingo 85 Andrea de’ Mozzi v. Mozzi Andrea de’ Andrea Lancia v. Lancia Andrea Anfuso 439 Angelitti Filippo 652, 657 Angelo Silesio v. Silesius Angelus Angiolieri Cecco 64, 404 Anguillaia Ciacco dell’ v. Ciacco dell’Anguillaia Anna, santa 350, 484 Annoni Carlo LVIII Anonimo Fiorentino 129 Anselmo d’Aosta, santo 275 Anteo 108

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Anticristo XI, 52, 489 Antigone 612 Antinferno XXXVIII Antipurgatorio XVII, XXX-XXXI, 119, 121, 125, 127-128, 134, 142, 144, 151-152, 160 Antinori Giuseppe 646 Antonelli Roberto LV Antoni Carlo 649 Antonio abate, santo 340 Apollo 231, 245, 277, 430, 496, 506 Apollonio Mario VII-LVIII, 646 Arbia Costantino 472 Aretino v. Bruni Leonardo Aretino l’Unico v. Accolti Bernardo Argenti Filippo 10, 36-39, 43, 95, 112, 361, 407, 423 Argo VII, 223, 336, 353 Argogliosi Marchese degli v. Orgogliosi Marchese degli Ariosto Ludovico XXXVIII, 52, 272, 476, 490493, 542, 544, 609 Aristotele LIII, 30, 45, 56, 399, 539 Arnaldo Daniello (Arnaut Daniel) XX, XXXII, 123, 125, 200-201, 328, 393, 404, 497 Arno 10, 55, 85, 102, 113, 161, 310, 402, 578 Aronta 78, 171, 252 Aroux Eugène 559-560 Arquà XXXIX Arrigo I di Navarra v. Enrico I di Navarra Arrigo III d’Inghilterra v. Enrico III d’Inghilterra Arrigo VII di Lussemburgo v. Enrico VII di Lussemburgo Arrigucci 288 Artaud, Jean-Alexis-François, detto Artaud de Montor 551 Artù 109, 553 Asdente 80 Assuero 169 Astarte 33 Astolfo VII, 492 Auerbach Erich LIII, 652 Augusto 12, 53, 215, 251 Austin Herbert Douglas 652 Auvray Lucien 553 Avena Antonio 646 Averroè 30, 380 Azzone II, abate della Badia di Firenze 274 Bacchelli Riccardo XL, 561, 658 Bacchi Della Lega Alberto 639 Bacco v. Dioniso Bach Johann Sebastian 571 Bachtin Michail Michajloviþ XXIII Baggi Valerio 529 Balbo Cesare 368, 412, 591, 600, 602-604, 647 Baldacci Luigi XLVI Baldini Antonio XXXI, 130

Baldisseri Luigi 446 Balzac Honoré de 202, 600 Barale di Marsiglia 439 Barbadoro Bernardino 645, 648 Barbariccia 81-83, 417 Barberini Bonaventura 572 Barbi Michele XLVIII-L, 374, 446, 463, 471-472, 633-634, 638, 640, 642-643, 650, 654, 657-659 Barbier Henri-Auguste 552 Bariè Giovanni Emanuele 519 Barret Browning Elizabeth 560 Barsanti Eugenio 648 Bartoli Adolfo 647 Bartolini Luisa Grace 632 Bartolo da Sassoferrato 377, 387 Bartsch Karl Friedrich 652 Bassermann Alfred 15, 556, 628, 645 Batiffol Pierre 553 Batines v. Colomb Battaglia Felice 650 Baudelaire Charles XL, 553, 561-562 Bayle Pierre 542 Beato Angelico 137, 213 Beatrice XIII, XVI, XX, XXVI, XXVIII-XXIX, XXXI, XXXIX, LII, 18, 20-23, 38, 45, 92, 129, 131, 135, 143, 167, 173, 175, 177, 184, 191, 201-202, 205, 209-210, 215, 217-227, 229-230, 232-235, 238-245, 247, 253-255, 259, 261, 268, 280-282, 284, 286, 296, 304-305, 307, 310, 312, 314-315, 317-318, 320-324, 330, 332, 335-337, 339-340, 342-344, 346-348, 350-352, 370, 374, 392, 397, 401, 430-431, 443, 475, 511, 554, 559, 569, 602, 607, 611-612, 627, 633, 657 Beatrice d’Este, regina d’Ungheria 141 Beccaria Augusto 387 Beccaria Cesare XLII Beccaria (Beccheria) Tesauro di XXIII, 110 Becelli Giulio Cesare 527-528 Beda il Venerabile, santo 269 Beethoven Ludwig van LIV Belacqua XVII, XXXI, LV, 121-122, 124, 126127, 129, 173 Belisario 249-250 Bella v. Abati Alighieri Bella Bellina di Pontevese 439 Bellarmino Roberto, santo 540-541 Bellezza Paolo 660 Bellincione Berti de’ Ravignani 266, 514-515 Bellini Giovanni 491 Belloni Antonio 503, 518 Bellotti Silvio 646 Beltrame del Bornio v. Bertram dal Bornio Bembo Pietro 466-467, 525 Benadduci Giovanni 471 Benedetto da Norcia, santo XXVI, XXIX, 307308, 349 Benedetto XIV Lambertini X, 521

Beni Carlo 646 Beni Paolo 505-506, 518 Benincasa da Laterina 135 Benvenuto da Imola 31, 163, 410, 413, 428, 440, 442-446, 471, 536, 538, 572 Berdjaev Nikolaj Aleksandroviþ 534, 660 Bernardino da Siena, santo LIV, 101 Bernardo da Chiaravalle, santo 135, 138, 218, 311, 327, 344, 346-350, 352, 397, 593 Bernardone Pietro v. Pietro Bernardone Berni Francesco 492, 494, 496 Bernicoli Silvio 651 Bertoldi Giovanni (Giovanni da Serravalle) 538, 650 Bertoni Giulio 642, 653 Bertram dal Bornio XI, XVII, XXIII, 97-98, 122 Besso Marco 650, 659-660 Bettinelli Saverio 522-525, 531, 542, 571, 574 Betto v. Brunelleschi Betto Betussi Giuseppe 467 Biadego Giuseppe 645 Biagi Guido 14, 639, 645, 658 Biagi Vincenzo 646, 657 Biagini Mario 633 Biagioli Niccolò Giosafatte 659 Bianchini Francesco 581 Bianchini Giuseppe 531, 574 Biancofiore 433 Bigongiari Piero IX, LI Billanovich Giuseppe IX, L, 404, 433, 647 Biscaro Gerolamo 651 Blake William 11, 544, 557-558, 582 Blanc Ludwig Gottfried 555, 641 Bocca degli Abati v. Abati Bocca degli Boccaccio Giovanni XVII, XXXV, LIII, 15, 31, 33, 47, 64, 82, 100, 177, 210, 361, 363, 367, 369, 382, 386, 395, 402-405, 410, 413, 415, 417-420, 422-433, 435, 439-444, 447, 450-451, 453, 455-456, 461, 465, 476, 502, 512, 515, 536, 538, 610, 624, 626, 647, 650 Boccalini Traiano 217, 506 Bodmer Johann Jakob 527, 543-544, 564 Boezio Severino 269-270, 277, 285, 293, 445 Boffito Giuseppe 640, 645, 652 Boiardo Matteo Maria XII, LII Boito Arrigo XXIV Boker George Henry 604 Bologna 70, 86, 325, 367, 438, 569, 572, 618, 628, 650 Bolsena XXXIII, 191, 261 Bonacolsi (Buonaccorsi) Pinamonte de’ 79 Bonagiunta v. Orbicciani Bonagiunta Bonaventura, santo XLIII, L, 272, 275, 651 Bonconte da Montefeltro v. Montefeltro Bonconte da Bondioli Pio 632 Bonfatti Alfredo 595

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Boni Giacomo 564 Bonifacio VIII Caetani 34, 95-97, 179-180, 331, 637 Bonifazio de’ Fieschi v. Fieschi Bonifazio Bonturo Dati v. Dati Bonturo Borgese Giuseppe Antonio 632 Borghini Vincenzo 391, 468 Borgia Lucrezia 466 Borgiani Giuseppe 472 Bosch Hieronymus XXV Bossuet Jacques-Bénigne 410 Botticelli Sandro XXXVII, 213, 456, 474, 487488, 495, 497, 536 Bovary Emma XVIII Bouvy Eugène 530 Boyd Henry 545 Bozzo Giuseppe 656 Bracci-Cambini Igina 446 Bracciolini Poggio 411-412, 449 Brambilla Ageno Franca LI Branca Doria v. Doria Branca Branca Vittore 434 Brant Sebastian 412 Braschi 575 Breglia Gianfranco Salvatore 13, 119 Brémond Henri 245 Bressan Bartolommeo 647 Bronzino Agnolo 544 Browning Robert 547, 560 Bruegel Pieter il Vecchio XXV Brunelleschi Agnolo 89 Brunelleschi Betto 47 Brunelleschi Filippo 449, 481-482 Brunetto Latini v. Latini Brunetto Bruni Leonardo 46, 448, 450-452, 455-456, 462, 465-466, 497, 502 Bruto Lucio Giunio (Primo) 451 Bruto Marco Giunio (Secondo) 10, 111, 251, 451 Bryant William Cullen 561 Bucci D. 651 Bulferetti Domenico 633-634 Bulicame 259 Buonaiuti Ernesto 650 Buonarroti Michelangelo 338, 430, 448, 474, 480, 482, 485, 493-499, 502, 510, 544 Buonconte da Montefeltro v. Montefeltro Bonconte da Buondelmonti Buondelmonte 288 Buonmattei Benedetto 518 Buoso (degli Abati? Donati?) 89 Buoso da Dovara v. Duera Buoso da Buoso Donati v. Donati Buoso Burdach Konrad 563 Burich Enrico 433 Buridano Giovanni 241, 276 Busetto Natale 652 Busnelli Giovanni 14, 65, 340, 651-652, 657 Buti Francesco da 440, 442, 444-445, 548

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Butterworth Walter 565 Byington Jeannette G. 564 Byron George Gordon 558 Cacciaguida X, XXVII-XXVIII, LIV, 73, 144, 157, 163, 281, 284-287, 289-291, 296, 307, 331, 370, 469, 593 Caccianemico Venedico 70, 72 Caco 88, 90 Caggese Romolo 646, 648-649 Cagnola Giovanni Pietro 409 Caina 34, 109, 588 Caino 42, 78, 162-163, 235 Calandra Edoardo 602 Calboli Rinieri de’ 158, 161 Calcabrina 83 Calcaterra Carlo 405, 498, 519, 632, 646, 659 Calepio Pietro 527, 543 Calfucci 288 Calliope 118 Camicion de’ Pazzi v. Pazzi Camicione de’ Camilli Amerindo 651 Caminesi v. Camino da Camino da 132 Campanella Tommaso 638 Campi Giuseppe 288, 658 Cangrande della Scala v. Della Scala Cangrande Canova Antonio LIII Cantimori Delio 563 Caorsa, papa di v. Giovanni XXII Capaneo 56, 88 Capocchio 100, 102 Cappellano Andrea XIX Caramella Santino 646 Carbone Giunio 641 Carducci Giosue XLIV, XLVI, 252, 368, 370, 387, 394, 403-405, 481, 552, 556, 559, 564, 593, 604, 615, 617-620, 622, 628-629, 631-633, 635, 639, 641, 654, 656 Carelli Libera 633 Carlo I d’Angiò 137 Carlo II d’Angiò re di Sicilia, detto lo Zoppo 299 Carlo IV di Lussemburgo impertaore, I re di Boemia 404 Carlo X, re di Francia 555 Carlo Alberto, re di Sardegna 603 Carlo Magno (Carlomagno) 251, 417, 525, 628 Carlo Martello 259-261 Carlo di Valois, detto Senzaterra 427 Carlyle Alexander James 649 Carlyle Robert Warrand 649 Carlyle Thomas 412 Caro Annibale 471 Caronte XVI, LIII, 24, 30, 343 Cartesio v. Descartes Casella XVII, XXI, XXXI-XXXII, LV, 94, 121124, 127, 129, 147, 178, 239, 476, 616

Casella Mario XLVIII, 563, 640, 642-643, 653, 657-658 Casini Tommaso 643, 657-658 Castelvetro Lodovico 471 Castiglione Baldassarre 467, 544, 619 Catone l’Uticense XXXIII, 21, 94, 117-118, 124, 127-128, 178, 184, 295, 371, 451, 453, 474, 597 Cattaneo Carlo 594 Catullo 404 Cavalcanti Cavalcante 44, 396 Cavalcanti Francesco 89, 91 Cavalcanti Guido LII, 44, 47, 154, 242, 381, 391, 393, 422, 459-460 Cavallari Elisabetta 445, 659 Cavallini Pietro 477 Cavallotti Felice 633 Cavattoni Cesare 646 Caverni Raffaello 656 Cecco d’Ascoli v. Stabili Francesco Centauri 49-50, 55, 193-194, 487 Cerbero 10, 35, 437 Cesare XVI, 255 Cesari Antonio 530, 655 Chateaubriand François-Auguste-René de 550551 Chaucer Geoffrey 535-536, 538-539, 545 Chiabrera Raffaello 519 Chiara, santa 240 Chiari Alberto 130, 519, 593, 659 Chiarini Luigi 563, 632 Chichibio 310 Chirone 50 Chirone Aschiro 433 Chimenz Siro Amedeo 639, 644, 657 Ciacco XVI-XVII, XXVIII, 117 Ciacco dell’Anguillaia 36-37, 43, 62, 68, 117, 122, 146, 423 Ciampini Raffaele 595 Ciampolo di Navarra 83-83 Cian Vittorio 472 Cianghella 285 Ciasca Raffaele 648 Cicerone 453 Cino da Pistoia 367, 372-373, 393, 416 Ciocchetti Emilio 519 Clemente XII Corsini 531 Clements Robert J. 563 Cleopatra 31, 251 Cochin Henry 564 Cocito 57-58, 98, 107, 117, 123, 146 Cohen Juliette-Louise 660 Cola di Rienzo 404, 515 Coleridge Samuel Taylor 545-546, 557, 623 Collier Jeremy 412 Colomb de Batines Paul 555, 639 Colombo Giovanni 632 Coluccio Salutati v. Salutati Coluccio

Compagni Dino 648 Compagnon André IX Comparetti Domenico 46 Condivi Ascanio 498 Contini Gianfranco VIII-IX, XVIII, L, LII, 14, 443, 641, 653, 657 Cornacchia Mauro 387 Corneille Pierre 541 Corradino di Svevia 180, 543 Corrado III, re dei Romani 285, 292 Corrado Malaspina v. Malaspina Corrado Corso Donati v. Donati Corso Cortese Nino 612 Cosimo de’ Medici v. Medici Cosimo de’, detto il Vecchio Cosmè Tura v. Tura Cosmè Cosmo Umberto 25, 244, 278, 300, 595, 643, 650-651, 658-659 Cossa Francesco del v. Del Cossa Francesco Costa Lorenzo 490 Costantini Rinaldo 639 Costantino I, imperatore, detto il Grande 74, 224, 249, 299, 483 Costanza d’Altavilla, imperatrice XXXIV, 54, 122, 126, 240 Costanza, regina d’Aragona XXXIV, 126 Counson Albert 530, 533, 553, 563, 645, 650 Cristina de Pizan v. Pisan Christine de Cristo XIII, XV, XLIII, XLVIII, 15, 21, 23, 29, 45, 49, 73, 83, 136, 144-145, 150, 167, 180, 182-184, 195, 214-215, 217, 223-224, 227, 237, 252-253, 260, 273-274, 276, 279-293, 295, 299, 311-315, 324-325, 339, 345-346, 349-351, 404, 426, 450, 476, 478, 480, 482, 488, 494, 501, 510-511, 539, 549, 557-558, 573, 590, 619 Cristofori Francesco 646 Croce Benedetto XXXVIII, XLIII, XLIX, LII, 10, 144, 519, 564, 574, 590, 615, 634, 654-655, 659 Croce Enrico 645 Crocioni Giovanni 387 Cuboni Guglielmo 648 Cunizza da Romano 258-262, 445 Cuoco Vincenzo 519 Curione 97 Currado v. Malaspina Corrado II Curtius Ernst Robert VIII, XXX, L, LV, 563, 653 Cusano (da Cusa) Niccolò 230, 539 Dafne 245, 487 D’Ancona Alessandro 472, 635, 643 Dandolo Francesco 404 Daniele 56, 241 D’Annunzio Gabriele XLV-XLVI, LVI, 19, 604, 615-617, 623-625, 632 Dati Bonturo 81 Davide 148-149, 298, 361, 485-486

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Davidsohn Robert 648 De Angelis Gherardo 516 De Bartholomaeis Vincenzo 326, 653 De Batines v. Colomb Debenedetti Santorre 70, 658 De Bosis Adolfo 564 Debussy Claude-Achille 562 Degli Angioli Gerardo 516 De Gubernatis Angelo 646 Deianira 498 Dejob Charles 553 Delacroix Eugène 559, 597 Del Balzo Carlo 375 Del Cossa Francesco 490-491 Del Dente Vitaliano v. Dente Vitaliano del Della Casa Giovanni 180, 224, 298, 467, 526 Della Gherardesca Ugolino XVI, XXII, XXXIX, XLIV, 10, 33-34, 107-108, 110-114, 151, 524, 536, 543, 574, 604, 607-608, 629 Della Giovanna Ildebrando 25 Della Pila v. Ubaldini Della Scala Cangrande 15, 290-291, 412 Della Terza Dante LIII Della Tosa v. Tosinghi Del Lungo Isidoro 13, 15, 193, 292, 645-646, 648, 656, 658 Dell’Uva Benedetto 387 De Lollis Cesare 645 Del Virgilio Giovanni 323, 369, 540 De Meis Camillo 610 Dempf Alois 65, 649 Dente Vitaliano del 64 Devoto Giacomo 656 De Sanctis Francesco VIII, XVI, XXII, XL, XLIII-XLIV, XLIX, 10, 33, 118-119, 514, 548, 550, 565, 580, 590, 602, 604, 607-613, 654, 656 Descartes René (Cartesio) 277 Détaille Édouard 600 Diana 198-199, 418 Didone 31, 257, 260, 440, 503 Diez Friedrich Christian 653 Diocleziano 188 Dione 309 Dionigi l’Areopagita 269-270, 337 Dionisi Gian Giacomo 14 Dioniso (Bacco) 277, 497 Dionisotti Carlo 641 Dolcino 97-98 Domenico di Guzman, santo L, 266-267, 272275, 308 Domenico di Michelino 481 Donatello XXXVII, LIII, 449, 485-486, 619 Donati Buoso 102 Donati Cianfa 89-90 Donati Corso 192, 438, 477 Donati Forese XXXII-XXXIII, LV, 190-192, 194, 373, 435-436, 438

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Donati Forese, priore di S. Stefano in Boteno 404 Donati Gemma 374 Donati Piccarda XX, LIV, 191, 237, 239-240, 243, 253, 259, 437-438, 602 Donati Simone 102, 438 Donati Ubertino 288 Doré Gustavo 497 Doren Alfred Jakob 648 Doria (D’Oria, d’Oria) Branca 113 D’Ovidio Francesco 14, 104, 114, 643, 652 Duera (Dovara) Buoso da XXIII, 110 Dukas Paul LIV Dupré Theseider Eugenio 648 Eco 273 Ecuba 102 Eden XV, XLVII, LV, 205 Edoardo I, re d’ Inghilterra 298 Egidi Francesco 634 Elena 31 Eliot Thomas Stearns XXV, 13-14, 66, 160, 184, 498, 546, 562, 565, 580, 627, 630, 655 Elisabetta, santa 504 Elisabetta Petrovna, imperatrice di Russia 529 Eliseo 92, 285 Emerson Ralph Waldo 561 Empireo XIII, XXX, 7, 21, 23, 25, 61, 145, 226, 229, 230, 237, 244, 251, 259, 269, 280, 304, 307-309, 311-313, 320, 328, 335-337, 339, 341355, 365, 378, 381, 420, 444, 458, 626 Enea 19, 25, 94, 102, 123, 214, 249, 458, 524 Enrico di Cornovaglia 646 Enrico I di Navarra 137 Enrico III d’Inghilterra 137 Enrico VII di Lussemburgo, imperatore 15, 135, 140, 143, 225-226, 245, 453, 648-649 Enrico di Villena v. Villena Enrique de Equicola Mario 466 Ercole I marchese d’Este, II duca di Ferrara 463 Ercole Francesco 631, 649 Erinni XXVIII Eritone 41 Ermete Trismegisto 469 Ermini Filippo 634 Errera Paul 645 Errico Scipione 217 Esaù 349 Esopo 486 Ester 169 Eudossia 275 Euneo 200 Eunoè 209, 224-226, 262 Euripilo 80 Eva XXX-XXXII, 148, 195, 202, 259, 265, 328, 349 Evola Nicolò Domenico 639 Ezzelino III da Romano 143, 261

Faggiuola Uguccione della 15 Faitinelli Pietro 375 Falco Giorgio LI Falconieri 575 Falstaff XXIV Farinata degli Uberti v. Uberti Farinata degli Farinelli Arturo 530, 546, 563-564, 650, 660 Fassò Luigi 194 Fatini Giuseppe 645-646 Fauriel Claude 555 Fay Edward Allen 641 Febrer Andreu 538 Fedele Pietro 649 Federico I imperatore, detto il Barbarossa 471, 483 Federigo II imperatore XI Federico d’Aragona 457, 459-460 Federico II, imperatore 43, 52-54, 64, 84, 260, 299, 483 Federn Karl 644, 649 Federn-Kohlhaas Etta 644 Fedra 290 Femmina Balba XVIII, XX, LIV, 31, 177-178, 183-4, 259, 445, 465 Fenaroli Giuliano 15 Ferdinando IV, re di Castiglia e di Léon 299 Ferrara 261, 361, 399, 457, 463, 489-491, 572573 Ferrari Paolo 604 Ferrari Severino 616, 623, 632 Ferrazzi Giuseppe Jacopo 641 Ferretti Giovanni 15, 46, 66 Ferretti Lando 632 Ferretto Arturo 646 Fetonte 64, 288 Fiammazzo Antonio 446, 641 Ficino Marsilio 457-458, 590 Fielding Henry 533 Fieschi Alagia XXIX, 179 Fieschi Bonifazio 191 Figaro XXIV Filelfo Francesco 451, 465 Filelfo Giovan Mario 413, 465, 471, 602 Filippini Enrico 387 Filippini Francesco 650 Filippo III l’Ardito, re di Francia 137 Filomusi Guelfi Lorenzo 612 Finke Heinrich 649 Fioretti Benedetto 506, 518 Firenze (Fiorenza) XVII, XXIII, XXVII-XXVIII, XXXII, XXXVI-XXXVII, XXXIX, XLII, 35, 37, 43, 46, 51, 55, 62, 64-65, 70, 75, 87-88, 90-91, 135, 144, 161, 171, 261-262, 284-288, 306, 361, 367-369, 372-373, 377, 404, 407-408, 413, 418-420, 422, 429, 432-433, 437-439, 451, 453-454, 456-457, 468, 476, 478, 480-481, 484, 487-488, 494, 497, 508, 517, 522, 527, 540-541,

544, 555, 568, 577-578, 593, 599, 613, 615, 640, 644-645, 647-651 Firenzuola Agnolo 492 Fiske Willard 639 Flamini Francesco XLVIII, 645-646, 659 Flaxman John 473, 497, 544 Flegias 36, 39-40, 42 Flora Francesco 595, 655 Flori Ezio 644 Florio 433 Fogolari Gino 645 Folchetto (Folco) di Marsiglia 260-263, 275, 431, 439, 443 Folengo Teofilo 456, 508 Folgore da San Gimignano LIV Folgore Luciano 475 Foligno Cesare LI, 644 Foratti Aldo 498 Forese v. Donati Forese Foscolo Ugo XXXIV, XXXIX, XLI-XLIII, LV, 3, 7, 14, 33. 363, 374, 387, 404, 412, 514, 519, 527-31, 547, 554, 557, 559, 568, 570, 575-585, 587-589, 593-694, 600, 609-601, 621, 626, 641, 647, 659, Fowler Mary 639 Fraccaroli Giuseppe 633-634 Francesca da Rimini v. Polenta Francesca da Francesca Romana, santa 501 Francesco d’Accursio (Accorso) 61 Francesco d’Assisi, santo L, 96, 133, 266-267, 271-272-275, 349, 454, 456, 479-480, 542, 633 Francesco da Barberino 286, 383, 390 Francesco del Cossa v. Del Cossa Francesco Francesco di Bartolo da Buti 129, 440, 442, 444445, 536, 548 Francesco di Sales, santo 245 Francesco I di Valois, re di Francia 540 Franciosi Giovanni 655 Franzesi Musciatto 427 Frati Lodovico 446 Fregoso Antoniotto 467, 472 Frezzi Federico 386 Friederich Werner Paul 530, 563-565, 593, 638, 645, 650, 659-660 Frittelli Ugo 163 Frugoni Arsenio 523, 525, 649 Fubini Mario 519, 659 Fucci Vanni v. Vanni Fucci Fucilla Joseph G. 639 Fulgenzio Fabio Planciade 437 Fusco Antonio 471 Gabetti Giuseppe 645 Gabriele, arcangelo 148 Gabrieli Giuseppe 660 Gaggio E. 564 Galbiati Giovanni 660

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Galilei Galileo 468, 507-508, 522, 544 Gallarati Scotti Tommaso 644 Galletti Alfredo 632, 646 Gambara Veronica LIII, 342 Gano di Maganza XXIII, 110 Gano degli Scornigiani v. Scornigiani Gano degli Garcilaso de la Vega v. Vega Garcilaso de la Gardner Edmund G. 651-652, 657 Garibaldi Giuseppe 613 Gasperoni Gaetano 531 Gedeone 193-194 Geibel Emanuel 413 Gelli Agenore 472 Gelli Giambattista 391, 465, 468-471, 492, 497 Gemelli 303, 309-310, 330 Gentile Giovanni 463, 519, 651 Gentucca XXXIII, 191 George Stefan 498, 555, 562, 630 Geremia 8, 14, 143 Geri del Bello v. Alighieri Geri Geri Spini v. Spini Geri Gerione 41, 49, 51, 55, 62-64, 67-68, 75, 80, 98, 427, 430 Gesù v. Cristo Getto Giovanni LI-LII, 245, 472, 632, 655 Gherardo II, abate di San Zeno 174 Ghiberti 480 Ghiberti Lorenzo XXXVII, 482, 485-486 Ghino di Tacco 423 Ghisolabella 71 Giacobbe 349 Giacomo, santo 321-322 Giacomo (Iacopo) da Lentini (il Notaro) 192, 391, 475 Giacosa Giuseppe 652 Gianciotto v. Malatesta Giovanni Gian Galeazzo Visconti, duca di Milano 409 Giangiacopo v. Rousseau Giannetti Francesco 573 Gianni del Soldaniere v. Soldanieri Gianni de’ Gianni Lapo 367, 390, 620 Gianni Schicchi v. Schicchi Gianni Giannini Crescentino 446 Giartosio de Courten Maria Luisa 564 Giasone 71-72, 235, 377 Giganti XXIII, 27, 67, 107-109, 116, 307, 488 Gilbert Allan H. 652 Giletta di Narbona 472 Gillet Louis 644 Gilson Étienne LI, 651 Ginguené Pierre-Louis 551, 609 Gioanin Bongée XLI Giobbe XXII, 112 Gioberti Vincenzo 519, 525, 531, 555, 600, 605 Giordani Pietro 585 Giorgione 491

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Giosuè 296 Giotto di Bondone 154, 273, 423, 430, 448, 476480, 484, 497 Giovagnoli Enrico 646 Giovanni Battista, santo 297, 325, 349 Giovanni Crisostomo, santo 275 Giovanni Evangelista, santo 144, 325-326 Giovanni Pisano v. Pisano Giovanni Giovanni da Serravalle v. Bertoldi Giovanni Giovanni del Virgilio v. Del Virgilio Giovanni Giovanni re di Sassonia 554, 640 Giovanni XXI (Pietro Ispano) 275 Giovanni XXII Duèse 297-298, 306, 409 Giove 56, 108, 131, 140, 215, 242, 251, 267, 281, 289, 295, 297, 303, 309, 331, 433, 552, 615 Giovenale 404 Girard Henri 564 Girardi Enzo Noè LI Girardo da Borneill (di Bornelh) 200 Giudecca 41, 113 Giudice Nin v. Visconti Nino Giulietta 612 Giusso Lorenzo 519 Giusti Giuseppe 47 Giustiniano I, imperatore d’Oriente XXVII, 102, 155, 244, 249-250, 253-254, 308, 512 Gladstone William Ewart 646 Goethe Johann Wolfgang XXXVI, 361, 424, 479, 547-550 Goetz Walter Wilhelm 650 Gomita 82 Gower John 412 Gozzano Guido XXXIX Gozzi Gasparo 14, 525-526, 531, 574 Grabmann Martin 652 Gräfe Kurt 649 Grazia XXXI, 18, 22-23, 29, 47, 54, 69, 118, 127, 137, 147, 150, 163, 167, 176, 182, 187-188, 218, 246, 257-259, 266, 268, 285, 291, 295, 297-300, 308, 317, 321, 328, 339, 349, 369, 370, 382, 398, 401, 455-456, 473, 534 Graziella 612 Greco (Domenico Theotokópoulos) 544 Griffolino d’Arezzo XXIV, 101 Grosso Orlando 646 Gualandi 111 Guardabassi Francesco 646 Guardini Romano LI Guerra Guido 62 Guerrazzi Francesco Domenico 585 Guerri Domenico 387, 433-434, 657 Guerrieri-Crocetti Camillo 646, 651 Guglielmo Borsiere 434 Guglielmo VII Spadalunga, marchese di Monferrato 137 Guidi Guido Novello 369-370

Guido da Montefeltro v. Montefeltro Guido da Guido di Montfort v. Montfort Guido di Guido Novello v. Guidi Guido Novello Guinicelli v. Guinizelli Guinizelli Guido XVIII, XXXII, 32, 117, 154, 186, 199-200, 237, 328, 367, 390, 436, 620, 632 Gundolf Friedrich 255 Guzzo Augusto 612 Haacke Ulrich 564 Halley A.R. 564 Hlndel George Friedrich 571 Hatzfeld Helmut A. 649 Hauvette Henri 553, 563, 642 Hawthorne Nathaniel 561 Hazard Paul 553 Hecker Oskar 405 Hefele Hermann 644 Hegel Georg Wilhelm Friedrich 548, 550, 610 Hegel Karl (von) 445 Heidegger Martin XIV Herder Johann Gottfried 548-549, 564 Herold Johannes 540 Hobbes Thomas 582 Holbrook Richard Thayer 14, 310 Holmes Oliver Wendell 561 Hugo Victor-Marie 550-551, 553, 556, 617, 625, 633 Huysmans Joris-Karl 562 Iacopo da Lentini v. Giacomo da Lentini Iacopo da Lentini, detto il Notaro 192 Iacopo da Sant’Andrea 55 Iacopo del Cassero XXI, 131-132, 134-135 Iacopo di Dante v. Alighieri Iacopo Iacopo di Pietro d’Agnolo della Quercia 89 Iacopo Rusticucci v. Rusticucci Iacopo Iacopone da Todi XXXIII, 245, 476 Ibsen Henrik 11, 159, 562, 580 Ifigenia 244 Ilion v. Troia Illuminato da Rieti, frate minore 275 Imbriani Vittorio 647, 650 Immanuel Romano (Immanuel Giudeo) 292 Interminelli Alessio 72 Iperione 309-310 Irving Washington 561 Isaia 322 Isella Dante 604 Isidoro di Siviglia 269 Isifile (Issifile) 71, 200 Israele 29, 450 Ivanov Viaþeslav Ivanoviþ 562, 660 Jacini Stefano 644 James Henri 239 Janin Jules 609

Janni Ettore 246, 644 Jefte 244 Jordan E. 650 Juan de Mena v. Mena Juan de Kafka Franz XL, 598 Kaposy József 660 Keller Gottfried 549 Kern Fritz 649 Kierkegaard S¡ren Aabye 11 Klopstock Friedrich Gottlieb 499, 545, 564, 571572, 575 Koch Theodore Wesley 564, 639 Koczorowski S.P. 660 Koeppel Emil 563 Koeppel Emil 563 K|hler Reinhold 413 Kraus Franz Xaver 14, 642 Küfferle Rinaldo 644 Kuhns L. Oskar 563-564 Lacaita Giacomo Filippo 446 Lamartine Alphonse-Marie-Louis de 612 Lambertazzi 15 Lamennais Félicité-Robert de 553, 564, 609, 612 Lana Iacopo della 435-439, 441, 444 Lancellotto (Lancillotto) 286, 441 Lancia Andrea 446 Landino Cristoforo XV, 310, 360, 413, 442, 456459, 461, 463, 465, 474, 487, 536 Lanfranchi 111 Lapo Gianni v. Gianni Lapo Lapo Salterello v. Salterello Lapo Lapo Sanese 55 Latini Brunetto XXXIII, XLVII, 55, 58-62, 68, 194, 199, 378, 383, 438-439, 449, 477, 650 Lattanzio 315 Laura di Santa Giulia 439 Lavinia 169, 171, 173 Lega Silvestro 370 Lemaire Jean 539 Lemmo da Pistoia 129 Lentini Giacomo da v. Giacomo da Lentini Leone 5, 7-8, 14-15, 45, 627 Leone Ebreo 467 Leonello d’Este 457 Leonida, re di Sparta 633 Leopardi Giacomo XXXIX, XLII-XLIII, LV, 401, 548, 575, 585-589, 608 Lessing Gotthold Ephraim 544 Letè XV, 123, 208-209, 216, 221-223, 225-226, 262, Leynardi Luigi 652 Lia XIV, LIII, 177, 201, 206, 210, 336 Licurgo di Nemea 200 Lidia 492

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Lima de Campos Ferreira Henrique 660 Limbo XIII, XXIII, XXX, XXXVII, XLVIII, LII, 20, 28-30, 35, 54, 96, 128, 137, 178, 186, 188-189, 215, 249, 267, 330, 336, 342, 482, 549, 562, 579 Lippmann Friedrich 497 Lisini Alessandro 163 Liszt Ferenc (Franz) 555-556 Livi Giovanni 446, 645-646 Locatelli Vico 639 Locella Guglielmo 33 Locher Jakob 540 Loderingo Andalò v. Andalò Loderingo Lombardi Francesco Baldassarre 528, 610 Lomonaco Francesco 584 Longfellow Henry Wadsworth 547, 551, 555557, 561, 640 Lonza 5, 7-8, 41, 45, 63, 627 Lorenzetti Ambrogio 476 Lorenzo, santo 241 Lorenzo de’ Medici, detto il 0DJQL¿FR 457-461, 463, 468, 485-486, 490 Lorenzo il Magnifico 457-461, 468 Lotto degli Agli v. Agli Lotto degli Lowell James Russell 561, 640 Luca, santo 182, 217 Lucano 70, 250, 486 Lucca XXXIII, 81, 191 Lucchesini Cesare 471 Lucia XX, XXVIII, 18, 22-23, 128, 135, 138, 140-141, 215, 336, 350, 373, 397 Lucifero XXII, XXIII, XLVI, 10, 58, 64, 107, 109, 113-114, 148, 335, 339, 437, 451, 482, 626 Lucrezia 250 Lucrezia Borgia v. Borgia Lucrezia Lucrezio 174, 237 Luiso Francesco Paolo 446, 633, 645 Lumini Carlo Alberto 646 Luna XX-XXI, XXXVIII, 41, 46-47, 54, 175177, 191, 229-247, 252, 265, 287, 309, 312, 339, 578 Lupa XLVII, LII, 5-12, 15, 45, 53, 107, 158, 179180, 182, 627, 648 Lutero Martino LII Luzio Alessandro 472 Lyell Charles 559 Macario 308 Maccagnino Angelo 490 Machiavelli Niccolò 43, 95, 180, 426, 570, 582 Macrì Oreste IX, LI Macrobio 445 Maestro (Mastro) Adamo 27, 101-104, 116, 122, 508 Maffei Scipione 527-528, 530 Magalotti Lorenzo 507, 518, 527, 609 Maggini Francesco 644, 654

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Magnifico Lorenzo il v. Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, Maia 309 Malacoda 81, 86 Malaspina Corrado II 128, 140-141 Malaspina Moroello 88 Malatesta da Rimini XVII Malatesta Giovanni, detto Gianciotto 32, 34, 98, 588, 595, 610 Malatesta Paolo (Paolo Bello) XVIII-XIX, XXIII, LIV, 31-32, 35, 37, 123, 214, 259, 381, 398, 441, 588, 595, 609-610 Malatestino dell’Occhio 98 Malebolge XXIV, 41, 45, 49, 68-70, 80, 99-100 Malebranche 40, 81 Mallarmé Stéphane XVI; 562 Mambelli Giuliano 659 Mammarella G. 634 Manacorda Guido 15, 245 Mandonnet Pierre 252 Manetti Antonio 507 Manetti Giannozzo 413 Manfredi, re di Sicilia XVII, XXI, XXXIV, LV, 54, 116, 121-122, 124-127, 133, 628 Manfredi Alberigo 113, 381, 437 Manna Anna M. 639 Manning Henry Edward 557 Mannucci Francesco Luigi 646 Mantegna Andrea 399 Manto 78-79 Mantova 79, 122, 523, 536 Manzoni Alessandro XXIV, XXXIX-XL, XLIIXLIII, XLIV, LIII-LV, 202, 570, 575, 584, 588589, 594, 601, 604, 608, 656, 659 Marchionn XLI Maometto XXIII, 97-98 Marcazzan Mario 656 Marcello 218 Marcello Palingenio Stellato v. Palingenio Stellato Marcello Marchese degli Argogliosi v. Orgogliosi Marchese degli Marchetti Giovanni 7, 14 Marco Lombardo 37, 166, 169, 173, 252, 260, 262 Marco Tullio v. Cicerone Mardocheo 169 Maremma 51, 111 Margherita di Navarra 538-539 Margherita di Savoia, regina d’Italia XLV, 616 Maria d’Aquino 418 Maria Vergine XX, XXVIII, XXX-XXXI, LIV, 18, 22-23, 41, 140, 162, 176, 184, 189, 198, 215, 217-218, 242, 273, 280, 285, 311, 313-315, 327, 344, 346-352, 397, 401-402, 484-485, 500501, 503-504, 536, 591-592 Mariani Ugo 650-651

Marigo Aristide 652, 657 Marino Giambattista 467 Maroncelli Pietro 659 Marpicati Arturo 593 Marte 55, 242, 267, 279, 281-282, 284, 287-288, 290, 295, 309, 331 Martello Carlo v. Carlo Martello Martino 266 Martino IV de Brion 191 Marzia XXXIII Marzucco degli Scornigiani v. Scornigiani Marzucco degli Masaccio XXXII, XXXVII, LV, 318, 360, 482484 Masi Gino 648 Massera Aldo Francesco 375 Massinissa 398 Mastro (Maestro) Adamo XXIV, 27, 101-104, 116, 122, 508 Matelda XIV-XV, LIII, 177, 184, 206-211, 213214, 222, 224, 226, 267, 442, 559 Mathews J. Chesley 561, 565 Matteo d’Acquasparta 275 Matteo d’Acquasparta 275 Matteo Palmieri v. Palmieri Matteo Mazzini Giuseppe 555, 577, 580, 599-600, 604605 Mazzoni Guido 394, 594, 603, 632, 645, 659 Mazzoni Jacopo 391, 506, 572 Mazzuchelli Giovanni Maria 446 McCroben G. 646 Medea 71 Medici 452 Medici Cosimo de’, detto il Vecchio 458, 468 Medusa 41-42, 46-47, 69, 92, 98, 140 Melafumo XXXI Melandri Enzo LI Meleagro 196, 202 Melibeo 139 Melville Herman 561 Mena Juan de 539 Menéndez Pidal Ramón 563, 653 Menéndez y Pelayo Marcelino 563 Menzini Benedetto 76 Meozzi Antero 650 Mercurio 242, 244, 252, 265, 309 Merežkowsky Dimitri Sergeeviþ 644 Mestica Enrico 652 Metastasio Pietro 213, 516 Michelaccio XXXI Michelangelo Buonarroti XXXVIII, LIII, 338, 430, 448, 474, 480, 482, 485, 493, 495-499, 502, 510, 544 Michelangelo v. Buonarroti Michelangelo Michele Scotto 80 Micol 485 Migliore Benedetto 634

Migliorini Bruno 656 Mignon Maurice 645 Milán Luís 409, 412 Milano 471, 589, 658 Milman Henry Hart 555 Milton John 541, 543, 575, 609 Minosse 30, 64, 276 Minotauro 40, 49, 51, 68 Modena Gustavo XLIV, 604 Momigliano Attilio VIII, XV, 13-14, 33, 46, 65, 68, 91, 105, 119, 130, 144, 156, 163, 194, 202, 211, 227, 278, 332, 654-655, 659 Monforte Guido di v. Montfort Guido di Monnier Philippe 462 Montaigne 540 Montano Rocco 462 Montefeltro Bonconte da XXIX, 131-132 Montefeltro Guido da XXIX, 34, 95, 133, 542 Montfort Guido di 50, 646 Monti Antonio 660 Monti Vincenzo XL, LV, 479, 519, 568, 570-572, 574-576, 584-585, 588, 659-990 Monzani Cirillo 462 Moore Edward 25, 612, 641, 647, 652, 658 Moretto Pellegrino 642 Mori Assunto 652 Mori Attilio 645 Moronto 285 Morse B.J. 565 Mosè 29, 350 Mozzi Andrea de’ 61 Mucchio da Siena 375 Mugello XXXIII Muratori Lodovico Antonio 446, 527 Muratori Santi 645 Musciatto Franzesi v. Franzesi Musciatto Muzio Scevola v. Scevola Muzio Nabucodonosor 56, 58 Nannucci Vincenzo 656 Napoleone I Bonaparte XXXIX Nardi Bruno LI, 171, 650-651 Nastagio degli Onesti v. Onesti Nastagio degli Natali Giulio 252, 255, 530-531 Natan 275 Negroni Carlo 472 Nembrotte 108, 328-329, 461 Nencioni Enrico 616, 632 Nesso 50, 487, 498 Nestore 564 Neumeister Johann 536 Nicastro Sebastiano 646 Niccoli Niccolò 450-452, 505 Niccolò da Breslavia 536 Niccolò da Cusa v. Cusano Niccolò Niccolò da Uzzano 486 Niccolò III Orsini XXIX, 117

671

Nicodemo 430 Nicolini Fausto 519, 659 Nievo Ippolito XLIV, 608 Ninetta XLI Nino Visconti v. Visconti Nino Nino re degli Assiri 33 Nolhac Pierre de 553 Norfolk, duca di XXIV Norton Charles Eliot 565, 640 Oderisi da Gubbio XXV, LIV, 147, 153-154, 161, 477, 497 Oga Jukichi 660 Olivero Federico 564, 652, 655 Olivi Pietro di Giovanni 278 Olivieri v. Ulivien Olschki Leo Samuel 640, 651, 653, 660 Omberto Aldobrandeschi v. Aldobrandeschi Omberto Omero XXV, XL, XLIII, 18, 93, 361, 364, 449450, 455, 468, 489, 513-515, 518-519, 524, 527, 533, 542, 571, 574, 579, 585, 594, 616, 634 Onesti Nastagio degli 210, 423, 624 Ongaro Michele 490 Onorio di Autun 273 Orazio 118 Orbicciani Bonagiunta XXXII-XXXIII, 136, 435-436 Orcagna 481 Ordelaffi 95 Orfeo 6, 454 Orgogliosi (Argogliosi) Marchese degli 191 Origene 293 Orlandini Francesco Silvio 603 Orlando XXVII, XXXVIII, 52, 272, 628 Orosio Paolo 31, 33, 58, 269, 328 Orso degli Alberti v. Alberti Orso degli Ortis Jacopo 533, 588 Ortiz Ramiro 114, 434 Orvieto Angiolo 564 Ostiense 274 Ottimo 363, 410, 413, 435, 437-441, 446, 461 Ottocaro v. PĜemysl Ottocaro II Ottokar Nicola 648 Ottone III imperatore 288 Ovidio 70, 250, 455, 595 Oxford 556, 645, 650 Ozanam Antoine-Frédéric XLV, 553, 559-560, 564, 612, 620 Padova 368, 399, 508, 527 Pagani Leoncello Azzurro dei 95 Palestrina Giovanni Pierluigi da 428, 448, 502503 Palingenio Stellato Marcello (Pier Angelo Manzoli) 467, 472 Pallante 250

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Palleschi 488 Palmieri Matteo 412, 487 Palmisano Luciano LII Pan 223, 488 Panella Antonio 648 Panigada Costantino 647 Paolazzi Carlo LIII Paoletti Vincenzo 387 Paolo, santo 19-20, 25, 31-32, 123, 196, 214, 217, 233, 282, 297, 317, 324, 337-338, 379 Paolo Malatesta v. Malatesta Paolo Paolo Orosio v. Orosio Paolo Papa Pasquale 648 Papanti Giovanni 413 Papini Giovanni 374, 391, 413, 498, 564, 644 Paride 31 Parigi 497, 525, 540, 650 Parini Giuseppe 575-576, 604 Paris v. Paride Parìs Gaston 413 Parodi Ernesto Giacomo XLIX, L, 13, 33, 156, 640-641, 645-646, 649, 656, 658 Parnaso 94, 187, 205-211, 222, 395, 436, 449, 465, 506, 510, 518, 576 Pascali 523 Pascoli Giovanni XLV-XLVII, LVI, 7, 15, 25, 66, 121, 210, 370, 374, 498, 527, 546, 559, 562, 572, 580, 618, 620-634, 642 Pasife 199-200 Pasquali Giorgio 657 Pasqualigo Cristoforo 648 Pasqualigo Francesco 640 Pasquier Étienne 540 Passerini Giuseppe Lando 14, 640, 644-645, 658 Paur Theodor 445 Pazzi Camicione de’ 109 Pecchio Giuseppe 545 Pellegrini Flaminio 387, 645 Pelli Bencivenni Giuseppe 530 Pellico Silvio LV, 474, 579-580, 588-589, 595, 603, 610, 659 Perazzini Bartolomeo 530 Perez Francesco 559-560 Pernicone Vincenzo 374, 657 Perrens Francois-Tommy 648 Perrotta Gennaro 519 Perticari Giulio 585, 599-600, 604 Perugia 387 Peruzzi 288 Pescetti Luigi 632 Petrarca Francesco XXXV-XXXVI, XLIII, 21, 28, 215, 221, 363, 369-370, 382, 384, 386, 389392, 394-395, 397-404, 411-412, 415, 417, 424, 427-429, 447, 450-452, 466, 470, 479, 489-490, 492, 497-499, 507, 516, 527, 534-536, 542, 570-571, 580-581, 587, 594, 616, 646 Petrella Enrico Donato 632

Pézard André 657 Phillips Stephen 604 Pia de’ Tolomei v. Tolomei Pia de’ Piagnoni 488 Piattoli Renato 647 Piccarda Donati v. Donati Piccarda Piccoli Raffaello 646 Piccolomini Enea Silvio v. Pio II Piccolomini Picot François-Eduard 553 Pier da Medicina 97-98 Pier Damiani (Damiano), santo 305-307 Pier Pettinaio 160 Pier (Pietro) della Vigna X-XI, XVI, XXXIX, XLIV, LII, 34, 51-54, 58-60, 64, 89, 200, 607608 Pier Giovanni Ulivi v. Olivi Pietro di Giovanni Pieraccio Tedaldi v. Tedaldi Pieraccio Piero della Francesca XXXVII, 360, 421, 480, 483-484, 488-490 Pietro, santo XI, XXIX, LV, 73-74, 142, 144, 150, 261, 293, 297, 307, 315, 317-322, 325, 330-331, 350, 483, 539, 607 Pietro III d’Aragona e di Sicilia 137 Pietro Bernardone 273 Pietro Comestore 275 Pietro Ispano v. Giovanni XXI Pietrobono Luigi XLVI-XLVII, LVI, 7, 14-15, 33, 47, 66-67, 104-105, 156, 245, 263, 265, 277, 293, 627, 630, 634, 640, 643, 651, 657-659 Pigli 288 Pila Ruggieri della v. Ubaldini Ruggieri della Pila Pila Ubaldino della v. Ubaldini Ubaldino della Pila Pilade 162 Pinamonte de’ Bonacolsi v. Bonacolsi (Buonaccorsi) Pinamonte de’ Pindemonte Ippolito 528 Pinet Marie-Josèphe 563 Pino della Tosa v. Tosinghi (della Tosa) Pino Pio II Piccolomini 540 Pio IX Mastai Ferretti 557, 560 Piramo 201, 244, 486-487 Pisa 110, 113, 161 Pisan Christine de 535-538, 563 Pisanello XXXIV, 490 Pisano Giovanni 477, 482 Pisistrato 167 Pistelli Ermenegildo 272, 633 Pistoia 87-88 Pizan Cristina de v. Pisan Christine de Pizzano Tommaso da v. Tommaso da Pizzano Pizzo Paolo 564, 612 Platone LIII, 242, 433, 466, 491, 496, 539, 590 Plauto 440 Po XVII-XVIII, 572 Poe Edgar Allan 561, 623 Poggio Bracciolini v. Bracciolini Poggio

Polacco Luigi 642 Polenta Francesca da XVI-XXIII, XLI, XLIV, LIII-LIV, 24, 30-35, 40, 57, 101, 111, 113, 122124, 132, 134, 146, 192, 221, 239-240, 259, 381, 398, 423, 441, 443, 489, 524, 543, 588, 595, 604, 607-613 Polentani 95 Poletto Giacomo 641, 658, 647 Polidoro 51 Polinnia 313 Poliziano Angelo XXXVIII, 6, 459, 463, 488 Pollaiolo (Pollaiuolo) XXXVII, 360, 487, 498 Pollicino 635 Pollione Asinio 187 Pompeati Arturo 593, 644 Pompeo 250 Pomponazzi Pietro 456, 508 Pope Alexander 533 Porena Manfredi LIII, 33, 47, 64-65, 91, 104105, 114, 129-130, 193, 202, 255, 263, 278, 292, 210, 315, 332, 645, 659 Porta Carlo XL-XLI, LV, 368, 497-498, 599 Portinari Folco 275 Post Chandler R. 563 Pound Ezra 13 Prato 91, 144, 427, 639 Praz Mario 561, 563, 565, 632 PĜemysl Ottocaro II, re di Boemia 137 Primo Mobile 314, 332, 335, 337, 339, 342, 344345, 420, 626 Prisciano di Cesarea 61 Progne 168 Prola Guido 310 Proserpina 210, 445 Proust Marcel 239, 365 Provenzano Salvani v. Salvani Provenzano Provvidenza XXVII, 21, 38, 43, 115, 118, 190, 251, 255, 258, 291, 359, 390, 404, 478, 493, 510, 516-517, 585, 601 Pucci Antonio 447 Puccinelli Placito 374 Puccio Sciancato 87, 89-90 Pulci Luigi 492 Putifarre 103 Quadrio Francesco Saverio 129 Quirini Giovanni 370-371 Raab 258, 260 Rabano Mauro 275 Rachele 22, 29, 226, 348 Raffaello Sanzio XXVIII, 465, 492, 495, 500 Raimondi Ezio 564 Raimondo IV, conte di Tolosa e marchese di Provenza 439 Rajna Pio 180, 184, 472, 645, 650, 652, 657 Ramondo v. Raimondo IV

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Rand Edward Kennard 641 Randi Aldo 646 Ravello Federico 530 Ravenna XXXIII, XXXIX, 95, 191, 210, 367, 369-374, 377, 408, 423, 441, 569, 572, 593, 627-628, 649-650, 659 Raynaldus v. Rinaldo di Tolosa Raynouard François-Just-Marie 653 Reade William Henry Vincent 651 Redaelli Angelo 646 Redi Francesco 507 Reginaldo degli Scrovegni v. Scrovegni Reginaldo degli Rembrandt 544 Renier Rodolfo 387, 472, 650 Renzi Lorenzo LIV Renzo v. Tramaglino Renzulli Michele 564 Resta Raffaele 652 Reumont Alfred (von) 564, 645 Revelli Paolo 646 Riccardo I, re d’Inghilterra 439 Riccardo di San Vittore 269 Ricci Corrado 645-646, 650 Ricci Pier Giorgio 634 Ricolfi Alfonso 634 Rifeo 29, 102, 295, 299-300 Rilke Rainer Maria 498, 562, 630 Rimbaud Arthur XL, 553, 562 Rinaldo di Tolosa 178 Rinieri da Calboli v. Calboli Rinieri de’ Rinieri da Corneto 51 Rinuccini Cino 451 Rivarol Antoine de 545, 551 Rivière Jean 649 Rizzardo da Camino 260 Roberti Ercole 490 Roberto I re di Scozia (Roberto Bruce VIII) 299 Roberto Bruce di Scozia v. Roberto I re di Scozia Robins William 563 Rocaberti Uc Bernat de 539 Rocca Luigi 445-446, 645 Rodolfo I d’Asburgo 144, 235 Rolli Paolo Antonio 527 Roma XXXVII, XLIII, 67, 70, 108, 143, 169170, 188, 215, 223-224, 251, 261, 286, 290, 346, 399, 449, 453, 457, 468, 488, 497, 541, 556-557, 572-573, 593, 615, 631 Romagna 95, 161-162, 369-370, 423, 444, 489490, 492-493 Romanò Angelo 595 Romano Cunizza da v. Cunizza da Romano Romena, conti di 103 Romeo di Villanova XXVII, 37, 155, 241, 249250, 252 Ronsard Pierre de 506, 518 Ronzardo v. Ronsard

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Rosa Morando Filippo 529-531 Rosa Morando Marcantonio 529 Rossetti Gabriele 559 Rossi Aldo 646 Rossi Ernesto XLIV, 604 Rossi Mario 13, 654 Rossi Pietro 163 Rossi Vittorio 445, 462-463, 640, 645-646??, 659 Rossini Gioacchino XXIV, 624 Rostagno Enrico 14, 658 Rousseau Jean-Jacques 76, 121, 569, 593 Ruegg August 652 Ruffini Francesco 649 Ruggeri, arcivescovo v. Ubaldini Ruggieri della Pila Ruggieri Apugliese (Apuliese) LIV Ruggieri della Pila Ubaldini v. Ubaldini Ruggieri della Pila Ruscelli Girolamo 472 Ruskin John 498, 565 Russo Luigi 13, 312, 631, 653 Rusticucci Iacopo 62 Ruzzante, Angelo Beolco detto il 508 Saba, regina di XXXVII Sacchetti Franco 403, 407-409, 433 Sachs Hans 412, 539 Sachs Hans 412 Saint-Marc Girardin 608 Saladino 30, 50 Salimbene da Parma (de Adam) 443 Salomone 227, 265, 267, 269, 276-277, 280-281 Salterello Lapo 285 Salutati Coluccio 449, 451 Salvadori Giulio XLV, LIII, LVI, 342, 563, 616, 618-621, 623, 632, 632 Salvani Provenzano 154-155, 159-160, 163 Salvemini Gaetano 648 Salvini Anton Maria 527 Salvini Tommaso XLIV, 604 Sampoli-Simonelli Maria 657 Sanesi Ireneo 645 Sannazaro Iacopo 213, 499-501, 503 Santangelo Salvatore 653 Santillana Ëxigo Lypez de Mendoza, marchese di 535, 537-539 Santini Emilio 462 Santini Pietro 648 Sanvisenti Bernardo 563 Sapegno Natalino VIII, 13, 25, 104, 277, 387, 434, 657, 659 Sapìa XXV, LIV, 157-162 Sapori Armando 639 Sardanapalo 285 Sassetta, Stefano di Giovanni, detto il LIV, 101 Saturno XX, XXVI, 177, 185, 303, 309 Savonarola Girolamo XXXII, 362 Scaligeri 290, 412

Scalvini Giovita 580 Scaramuzza Francesco 474, 497 Scarano Nicola 642 Scarlata Gaetano Pio 634 Scartazzini Giovanni Andrea XLVIII, 413, 445, 470, 497, 564, 604, 638, 640-642, 658 Scevola Muzio 241 Scheffer Boichhorst Paul 645 Schedel Hartmann 540 Schelling Friedrich Wilhelm Joseph 550, 561 Scherillo Michele 645 Schiaffini Alfredo LII, 646, 652, 656 Schicchi Gianni 102 Schiff Mario 563 Schlegel August Wilhelm 546, 548-549, 555 Schlosser Friedrich Christoph 554 Schneider Friedrich 640, 644, 649 Scholtz Richard 649 Schwalm Jakob 649 Scipione Africano 250, 261, 387, 535 Scornigiani Gano degli 135 Scornigiani Marzucco degli 114 Scrovegni Reginaldo degli 64, 75 Selva oscura XII-XIII, XLVII, 4-7, 9, 11-12, 14, 19-20, 117, 378, 420, 599, 625-627, 633 Semiramide 31, 33 Seneca 453 Senzaterra v. Carlo di Valois Serego Alighieri 527 Serego-Alighieri Pier Alvise 646 Sesini Ugo 657 Sestini Bartolomeo 603 Settembrini Luigi 531, 585 Sforza Giovanni 646 Shakespeare William XXII, 361, 522, 527, 533534, 541-542, 548, 579, 588, 602, 609 Sheldon Edward Stevens 641 Shelley Percy Bysshe 557-558, 560-561, 564, 593 Sibilla 353 Siccardo 142 Siena 131, 153-155, 159 Sigieri di Brabante 277 Signorelli Luca XXXVII, 473, 488-489, 495 Silesio Angelo v. Silesius Angelus Silesius Angelus (Johann Scheffler) 245 Sinone 103 Siringa 223, 337 Sismondi 111 Sofonisba 398-399 Solari Gioele 649 Soldaniere v. Soldanieri Soldanieri Gianni de’ XXIII, 110 Sole XXX, L, 5-7, 13, 47, 85, 129, 136, 154, 165, 171, 177-178, 199, 201, 223, 226, 232, 238, 245, 257-259, 265-267, 271-272, 274, 278-279, 282, 295, 309-310, 312, 314-315, 318, 345, 352-354, 371, 396, 470, 479, 482, 591, 618

Solerti Angelo 413, 462, 643, 646 Solmi Arrigo 649 Sordello da Goito XXXII, 117, 121-123, 128, 131, 135-136, 141, 143-144, 194, 258, 561, 607 Sorrento Luigi 563, 653 Spargo John Webster 46 Spini Geri 422, 427 Spinoza Baruch 426, 590 Spirito Santo XXI, XXVII, XXXI, 15, 42, 73, 127, 167, 182-183, 188, 224-225, 239, 246, 249, 254, 265-278, 281, 295, 298, 317, 324, 330, 362, 431, 433, 436, 503, 508, 512, 548, 621 Spitzer Leo VIII, LII Spoerri Theophil 644 Stabili Francesco (Cecco d’Ascoli) 379-382, 424 Staël-Holstein Anne-Louise-Germaine Necker, madame de 550-551 Stazio XXXII, 5, 110, 118, 123, 178, 180, 182189, 191, 193, 196-197, 199-200, 202, 209, 224, 267, 381, 455 Stefano, santo 167 Steiner George LIII Stendhal XVIII-XIX, LIV, 31, 561, 582 Sterne Daniel pseud. di Agoult Marie-CatherineSophie de Flavigny Sterne Laurence XLI Sticco Maria 564 Stige XXVIII, 36, 57, 66, 573 Stolberg d’Albany Luisa XXXIX Stradano Giovanni 474, 497 Strozzi Tito Vespasiano 457 Sulger-Gebing Emil 564 Sundby Thor 650 Swedenborg Emanuel 11, 558 Symonds John Addington 564 Taddeo 274 Taide 71-72, 259 Tasso Torquato XII, LII, 178, 506 Tassoni Alessandro 506, 518, 531 Tebaldello dei Zambrasi v. Zambrasi Tebaldello degli Tedaldi Pieraccio 371 Tegghiaio Aldobrandi v. Aldobrandi Tegghiaio Tennyson Alfred 547 Terenzio 76 Teresa di Gesù, santa di Èvila 245 Terrade Emile-Marien 565 Tesauro di Beccheria v. Beccaria Tesauro Teseo 42, 194 Thackeray Francis St. John 564 Thoreau Henry David 444, 561 Tideo 110 Tiresia 78 Tiraboschi Girolamo 530, 647 Tisbe 201, 244 Titiro 139

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Titta Rosa Giovanni 594 Tiziano Vecellio 491 Toante 200 Todeschini Giuseppe 647 Toesca Pietro 497 Toffanin Giuseppe 471, 624 Tolomea 108 Tolomei Pia de’ XXI, 121, 131, 133-134, 444, 603 Tolstoj Leo Nikolaeviþ 624, 627 Tommaseo Niccolò XXXIII-XXXIV, XLIII, LV, 14, 31, 33, 51, 62, 65, 76, 118, 130-131, 143, 163, 171, 176, 194, 211, 227, 245, 247, 278, 293, 315, 325, 332, 340, 442, 580-581, 589-592, 594-595, 602, 621, 656, 659 Tommasini Mattiucci Pietro 530 Tommaso d’Aquino, santo XXVII, XLIII, L, 180, 246, 266, 275, 349, 651 Tommaso da Pizzano 563 Tondelli Leone 652 Torraca Francesco 246, 310, 333, 343, 658, Torre Aronne 530-531 Torri Alessandro 446 Tosa Pino della v. Tosinghi (della Tosa) Pino Toscana 88, 161-162, 190, 288, 309, 370, 469, 644-645 Tosinghi 268 Tosinghi (della Tosa) Pino 261, 438 Tosti Luigi 637 Toynbee Paget Jackson 65, 374, 563, 641-643, 645, 647, 652 Trabalza Ciro 463 Traiano 25, 29, 140, 149, 295, 298-299, 485, 530 Tramaglino Renzo 203, 640 Treviso 260 Trissino Gian Giorgio 471 Tristano XVII, 28, 31, 417, 441, 604 Troia (Ilion) 17, 102, 148 Troilo Erminio 472 Troya Carlo 15, 604, 647 Trucchi Ernesto 646 Tura Cosmè 490 Ubaldini Ruggieri della Pila 34 Ubaldini Ubaldino della Pila 191 Ubaldino della Pila v. Ubaldini Ubaldino della Pila Uberti 288 Uberti Farinata degli XVI-XVII, XXI-XXIII, XXIX, XXXIX, XLIV, 34, 36-37, 42-45, 54, 57-59, 68, 83, 113, 122, 135, 151, 249, 318, 442, 555, 604, 607-608 Uberti Fazio degli 384-386 Ubertin Donato v. Donati Ubertino Ubertino da Casale 275, 278 Uccelli Raffaello 645 Ugo Capeto, re di Francia 179-180, 540

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Ugo di Brandeburgo, marchese di Toscana 288 Ugo da San Vittore 15, 275, 293 Ugo di San Caro (Hugues de Saint-Cher) 14 Ugolini Francesco Alessandro 653 Ugolino della Gherardesca v. Della Gherardesca Ugolino Ugoni Camillo, 404 Uguccione della Faggiola v. Faggiuola Uguccione della Ulisse XVI, XXXIX, 92-95, 117, 177, 202, 246, 310, 328, 332, 424, 546 Ulivi Pier Giovanni v. Olivi Pietro di Giovanni Ulivien (Olivieri) XXVII Ulivieri v. Ulivien Unico Aretino v. Accolti Bernardo Urbano VIII Barberini 331, 468 Valletta dei Prìncipi XXX, XLVIII, 30, 116, 128, 131, 135-136, 138, 140-142, 249, 295, 342 Valli Luigi 15, 66, 559, 630, 632-634, 646 Vallone Aldo 639 Vandelli Giuseppe 657-658 Vanni Fucci 87-88, 91, 144, 408, 470-471 Vannucci Atto 640 Varano Alfonso da XL, 568, 571-572, 574 Varchi Benedetto 498 Vasari Giorgio 476, 496-498 Vecchietti 286 Vega Garcilaso de la 538 Veglio di Creta 56-58, 65-66, 107, 118, 179, 626627 Vellutello Alessandro 404, 465, 471, 508 Veltro XIII, LII, 9, 11-13, 15, 461-462 Venanzio Fortunato LV Vendelin de Spira v. Vindelino da Spira Venedico Caccianemico v. Caccianemico Venedico Venere 5, 199, 201, 207, 252-253, 257-263, 265, 309, 416, 439, 503 Venezia 490-491, 525, 530, 536, 580, 589, 659 Venturi Adolfo 645 Venturi Luigi 655 Venturi Pompeo 522, 528-529, 531 Verdenal Jean 184 Verdi Giuseppe XXIV, 547 Verga Giovanni XXIV, 14 Vergerio Pier Paolo 540 Verne Jules 279 Vernet Antoine-Charles-Horace, detto Carle 600 Vernet Horace 600 Vernon William Warren 446 Verona 66, 79, 194, 368, 409, 526-529, 531, 604, 628, 640, 645-646, 649 Veronica 346, 592-593 Vespasiano da Bisticci 462 Vianey Joseph 553

Vico Giambattista XLIII-XLIV, XLVII, 43, 360, 368, 442, 446, 466-467, 496, 505-519, 521-522, 525, 527, 541, 545, 548, 582, 659 Vida Marco Girolamo 499, 501, 545 Vigo Lionardo 646 Villani Giovanni 15, 518, 647-648, 650 Villani Nicola 506 Villari Pasquale 648 Villena Enrique de 538 Vinay Gustavo 657 Vindelino da Spira 536 Viola Corrado LIV, LVIII Violetta XXV Virgilio XII-XIII, XV, XX, XXV, XXVIII, XXXII-XXXIII, LV, 4-9, 11-13, 17-23, 27-29, 3136, 38-41, 45-46, 49-52, 54, 56-58, 60-63, 66, 71, 73, 75, 77-82, 84, 86, 88, 93-94, 99-100, 104, 108, 110, 118, 124, 127-129, 131, 135136, 139, 142-143, 151-152, 157-159, 163, 165, 167, 173-174, 176, 178, 181-184, 186-189, 194, 196-197, 200-202, 209-210, 214, 217, 219, 227, 232, 250, 267, 275, 282, 289-300, 309, 323, 328, 346, 396, 401, 404, 419, 440, 449-450, 455, 462-463, 470, 473-474, 487, 499-500, 503, 535, 542, 627, 634 Virgilio Giovanni del v. Del Virgilio Giovanni Visconti Giovanna 141 Visconti Nino 141, 616 Visdomini 288 Vitali Giulio 644 Vitaliano del Dente v. Dente Vitaliano del Vittorio Emanuele II, re d’Italia LII Volpi Giovanni Antonio 531, 641 Voltaire X, 521, 523, 542, 545, 549, 551, 622 Vossler Karl 14, 644, 653 Wagner Cosima 555 Wagner Friedrich 564

Wagner Richard 547, 555, 562 Waiblinger Wilhelm 549 Warren Thomas Herbert 564 Weczerzik-Planheim Karl 651 Wegele Franz Xaver von 555 Werfel Franz 547 Weston Jessie L. 14 White Alain Campbell 651 Whiting Mary Bradford 644 Whitman Walt 561 Whittier John Greenleaf 561 Wicksteed Philip Henry 651, 657 Wieruszowski Helene 639, 649 Wilkins Ernest Hatch 641 Witte Karl 445, 554, 557, 612, 640 Wölfflin Heinrich 544 Wordsworth William 546-547 Wright Edward 410 Young Edward 612 Young Narcisa 612 Zabughin Vladimiro 46, 463, 500, 503-504, 634 Zaccagnini Guido 646 Zaccaria Francesco Antonio 529 Zacchetti Corrado 564 Zacchetti Guido 659 Zamboni Maria 531 Zambrasi Tebaldello degli XXIII, 110 Zappi Giovan Battista Felice 499 Zarathustra 634 Zardo Antonio 530, 659 Zehle Heinrich 656 Zingarelli Nicola XLVIII, 7, 14-15, 46-47, 75, 111, 156, 300, 374-375, 387, 405, 497, 643, 645-646, 656-657 Zonta Giuseppe 472

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