Da Democrito a Collingwood. Studi di storia della filosofia 8822238842


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Da Democrito a Collingwood. Studi di storia della filosofia
 8822238842

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PUBBLICAZIONI DEL DIPARTIMENTO DI FILOSOFIA E SCIENZE SOCIALI DELL'UNIVERSITA' DI SIENA

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DA DEMOCRITO A COLLINGWOOD Studi di storia della filosofia

A cura di Alfonso Ingegno

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WALTER LESZL

NECESSITÀ CASO E FINE DA DEMOCRITO AD ARISTOTELE

Mi propongo di discutere della posizione di Democrito su alcune questioni relative alla causalità, mettendola a confronto con quella di Aristotele. È un confronto n può essere istruttivo, perché le loro posizioni al proposito sono per certi versi antitetiche, e Aristotele offre una serie di ragioni degne di attenzione per rifiutare la posizione dell'altro pensatore. S’intende che Democrito non poteva più rispondere a tali critiche e non si può dire con sicurezza se egli conosceva almeno una prospettiva finalistica che fosse in qualche modo un’anticipazione di quella aristotelica e la rigettava espressamente nel richiamarsi alla necessità. Rimane comunque vero che il confronto non avrebbe potuto essere del tutto sullo stesso piano perché, come si vedrà, la trattazione che Aristotele offre delle questioni relative alla causalità rispecchia una teorizzazione più complessa ed articolata di quella che si può attribuire a Democrito. Nonostante ciò essa viene rigettata dagli epicurei, e alla loro posizione farò qualche riferimento, perché potrebbe costituire uno sviluppo di quella democritea anche su questo punto. Ad Aristotele bisogna rifarsi in tutti i casi, nel discutere della posizione di Democrito, perché egli è la nostra fonte principale di informazioni su di essa: non ci è rimasto infatti quasi nulla dei testi originali di Democrito stesso e del suo predecessore immediato, Leucippo. Nel complesso lo Stagirita è fortemente critico della posizione democritea (quella di Leucippo non è da lui tenuta distinta da questa, e noi non abbiamo ragioni sufficienti per dissentire), ma non in maniera piuttosto ostile, come avviene con altri pensatori da lui criticati. il Democrito, di confronti nei nto apprezzame certo un Mostra anzi naturaaltri degli quello di rigoroso più giudicato lui da è cui metodo Pe, pr

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to es Qu ! e. on at Pl da to ta ot ad lo el qu listi e più prossimo alla natura di o st to ut pi ti en am is av tr i de e, nt me il ab suo atteggiamento esclude, sper ni og e ud cl es n no o rt ce se e ch an , ea estremi della posizione democrit i nt pu su mi ar ng lu di o ss po n no io gg sa un di travisamento. Nei limiti re da ò vr do ma , ne io az nt me cu do a ll de a at li di interpretazione dettag im ù i pi on ti es qu e ll su ne io nz te at l’ do an tr en nc co , to ta molto per scon portanti.?

1.

Com'è noto, i primi atomisti, Leucippo e Democrito, sono

sostenitori della tesi che tutto avviene per necessità. Questa è attriun c'è e e? ich ant i font e ers div da ito ocr Dem a buita espressamente frammento, di solito fatto risalire a Leucippo (ma che potrebbe essere piuttosto di Democrito), che contiene la seguente affermazione: «nessuna cosa avviene in modo insensato, ma tutto con (una) ragione e per necessità». Circa tale affermazione c'è da domandarsi che significato abbia la contrapposizione che introduce fra il verificarsi per necessità e il verificarsi «in modo insensato» — che è l’espressione con cui ho reso il greco u&mnv, anziché rendere l’avverbio, come si fa solitamente, con «invano», perché quest’ultimo termine suggerisce facilmente il senso di «senza un fine o un’utilità». Il senso dell’avverbio è piuttosto quello di «senza una giustificazione» ed esso può applicarsi a comportamenti umani del tutto immotivati, come possono essere quelli dei folli. Aristotele, nel corso della sua discussione del caso nel II libro della Fisica (al cap. 6, 197b29-30), associa strettamente quell’avverbio (in una pseudoetimologia dell’espressione) a tò adtéuditov, che è uno dei due principali termini usati in greco per rendere l’idea del caso. E possibile che quest’associazione, se non già la pseudoetimologia, fosse già presente a Democrito. Una conferma può stare nel fatto che l’autore del trattatello ippocratico Sull’arte ricorre appunto a tale termine (e non alla parola téyn), quando usa un argomento di tenore (come vedremo) democriteo per escludere l’esistenza del caso.

C'è insomma una certa probabilità che il verificarsi per necessità sia 1 Cfr. De generatione et corruptione I 2, 315a34-35; I 8, 325al, e (per il confronto con Platone) I 2, 316a10-14. ? Riservo i necessari approfondimenti ad un libro su Democrito che ho in preparazione. wp: Cfr. Diogene Laerzio IX 45 (mévta... xat” avéeyxnv yiveodar...) e le altre testimonianze riportate da S. Luria, Derzocritea, Leningrado, Nauka, 1970, ai nn. 23 e 24. A SI GN O ; ; Se r ST . 4 Oddèv xpiua pdtnv, yiverar "AMA révta èx Abyov te xal dr’ avarane.

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contrapposto nel frammento citato al verificarsi «in modo insensato» nel senso del verificarsi casualmente. Che Democrito intendesse escludere il caso come causa è attestato dallo stesso Aristotele, sempre nel corso di quella sua discussione del caso. Nel cap. 4 egli prende in esame le posizioni altrui circa l’esistenza del caso, compresa quindi quella dei negatori di essa. Sebbene Democrito non sia espressamente menzionato, abbiamo la testimonianza dei commentatori antichi (a cominciare da Simplicio) che l’allusione è primariamente a lui. Secondo questa presentazione la ragione per cui egli, insieme ad altri, aveva negato l’esistenza del caso è che, per ogni evento che solitamente viene fatto risalire al caso come sua causa, si può in effetti indicare una causa ben definita, diversa appunto dal caso (cfr. 196a1-3). Ad illustrazione di questo Democrito, secondo Simplicio, avrebbe usato un esempio un po’ curioso: quello dell’aquila che, impadronitasi di una testuggine, per romperne la corazza e così cibarsi della parte molle dell’animale, la lascia cadere dall’alto sulla testa calva di un poeta, che aveva preso erroneamente per un sasso (il poeta deceduto in questo modo secondo una tradizione antica sarebbe stato Eschilo). Sembrerebbe legittimo parlare al proposito di un caso disgraziato, di una Svotuyia, ma Democrito, a quanto pare, avrebbe negato che qui è in gioco il caso (téyn), dal momento che la morte del poeta è causata da quell’azione ben precisa dell’aquila. La sua tesi è ripresa appunto dall’autore ippocratico, ma senza usare questo o altri esempi: egli suggerisce che il caso non ha realtà ma è un mero «nome», in quanto per ogni evento che si verifica si può addurre un «perché» (dà t1).$ Aristotele stesso discute della questione dell’esistenza del caso usando un altro esempio, che potrebbe però essere stato usato già da altri, compreso forse Democrito. E l’esempio dell’uomo che un giordi lo quel e esser può che o, scop che qual un per ato merc al reca si no quecui in nto mome nel tore debi suo un ntra inco che e , spesa la fare o prim Il ona. pers terza una da ro dena di a somm una o vend rice sta sti to debi il tuire resti farsi per nza osta circ della te amen ovvi ta ofit appr unafort caso un di a allor be ereb parl si o osit prop to ques A dall’altro. non tore, credi del vista di o punt dal nde, inte si — to (tiymn, edtuyia) che vero è se che, are rilev nel o gioc buon ha le tote Aris . tore debi del 5 Nel suo commento al passo, cfr. Phys. 330. 14 sgg. 6 Cfr. De arte, fine del cap. 6.

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pe ta at tr si n no , re ca di in ò pu si per questo evento c’è una causa che be to tu po e bb re av e or it ed cr il hé rc pe rò di una causa determinata, i cu r pe la el qu da a rs ve di e on gi ra a un nissimo andare al mercato per an po em at ss pa r pe mo ia tt me i rc da an c’è andato effettivamente, cioè so ca Il . so es st lo o at st e bb re sa o at lt su ri il e a, es sp la ziché per fare nu og da ta in st di a us ca a un e nd te in si so es r pe dunque non esiste, se to en ev un r pe re ca di o in on ss po si e i ch ar ol ic rt pa e na di queste caus o; ma at zz ti ta os ip to no e ig or tt fa un me co ue nq du e, al su ca to nu te ri ci in to or pp ra un oè a, ci nz de ci in co a ci un er ss ’e ll de o ns se l esiste ne o) tt fe o ef at (o lt su ri o. Il tt fe ef a ed us ) ca a 6s fr nx eB uf à cv at e (x al nt de non è infatti mai la ragione per cui il creditore è andato al mercato, anche se è la ragione per cui sarebbe sicuramente andato se si fosse aspettato di incontrare il suo debitore in quelle circostanze. In questo modo, insomma, Aristotele legittima il parlare corrente del caso, ma offrendo un’analisi che esclude un ruolo del caso come

causa a sé degli eventi detti casuali, e si può presumere ragionevolemente che Democrito aveva potuto negare l’esistenza del caso a proposito del lasciare cadere una testuggine sulla testa di un poeta perché usava appunto tale descrizione soltanto e non la descrizione aristotelica: «lasciare cadere una testuggine con lo scopo di infrangerne la corazza e nutrirsene» (come avrebbe usato semplicemente la de-

scrizione: «andare al mercato», a proposito dell’esempio discusso da Aristotele). Ma l’analisi di Aristotele si lascia estendere, ed è effettivamente estesa da lui, a situazioni in cui l’incidentalità concerne

eventi non finalizzati. Per esempio (è un esempio tratto da Fisiea II 8, in un contesto un po’ differente) la caduta della pioggia in certe circostanze favorisce la crescita del grano, senza avere un tale scopo (tanto è vero che in altre circostanze può invece distruggerlo). Casuale per lui è anche, nei processi riproduttivi degli animali, la formazione di un individuo mostruoso anziché di uno che somigli ai suoi genitori. Democrito, per escludere la casualità in queste situazioni, avrebbe dovuto o rinunciare al principio che «le stesse cause hanno gli stessi effetti», o addurre delle cause non evidenti per effetti non previsti. C'è da presumere che non avesse abbracciato il primo corno dell’alternativa per non introdurre una notevole irrazionalità nel suo sistema. Ma non risulta proprio, almeno se ci possiamo basare sulla testimonianza di Aristotele e dei suoi commentatori, che Democrito

avesse addotto cause non evidenti (nell'esempio della morte del poeta la causa è del tutto evidente). C'è da supporre, insomma, che DemoLEA Ae

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crito, nel negare senza riserve l’esistenza del caso, non avesse presenti le distinzioni concettuali di cui fa uso Aristotele, dunque non disponesse di una concezione sufficientemente sofisticata del caso.

Nel seguito del suo esame delle posizioni altrui in quello stesso cap. 4 Aristotele considera altre due posizioni, oltre a quella dei negatori dell’esistenza del caso: quella opposta di coloro che ammettono

il caso senza restrizioni, e quella, intermedia, di coloro che ammettono il caso per certi eventi e non per altri. La sorpresa che ci attende è che ci sono delle buone ragioni per ritenere che Democrito è il principale rappresentante anche della posizione intermedia (si allude a dei naturalisti che ammettono l’esistenza di una pluralità di mondi, ed egli è il principale - se non l’unico — sostenitore di questa tesi; e c’è la conferma dei commentatori antichi, a cominciare dal solito Simplicio). Secondo Aristotele quelli che adottano tale posizione intermedia fanno risalire al caso una serie di eventi di livello cosmico, come la stessa formazione del mondo nel suo complesso e del sistema celeste (e lo stesso vale per altri mondi), contrapponendo ad essa un’altra serie di eventi, di carattere più circoscritto, come la generazione (o, più precisamente, la riproduzione) degli animali e delle piante, che escluderebbe appunto tale casualità. L’obiezione di Aristotele che segue la sua rapida esposizione è che, al contrario, gli eventi che coinvolgono il sistema celeste presentano più regolarità, quindi meno casualità, di quelli che concernono gli animali e le piante. (Cfr. 196a24-35). La testimonianza di Aristotele in questo testo è probabilmente quella che ha dato origine, di già nell’antichità, alla tradizione che si riflette nel noto verso di Dante: «Democrito, che il mondo a caso pone». Il problema è, ovviamente, quello di mettere d’accordo questa testimonianza, con l’altra testimonianza dello stesso Aristotele, per di sarito Democ quale la per za, distan di righe poche a testo un in più è ma proble Il caso. del za sisten dell’e re negato reciso un stato rebbe e Diogen di a onianz testim la o second almeno che, fatto dal aggravato econsid rita l’Abde 3), n. in mento riferi fatto è si cui (quella Laerzio

ione formaz alla luogo dà che so proces il cioè , vortice il o propri rava tà. necessi della o gmatic paradi pio l’esem come del mondo, gesug il n co à olt fic dif la re ra pe su di o an rc ce si dio Di solito gli stu di o it os op pr a ità ual cas di a av rl pa o rimento che, quando Democrit dese cau di vi pri no so i ess e ch e ar rm fe certi eventi, non intendeva af do an qu o cas del à iet sor llu l’i re ea in ol tt terminate ma, al contrario, so mco o lor la r pe se, cau cui le ti en ev sia addotto a loro causa. Ci sono se

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rce ac o e er sc no co di o ad gr in o am si n no i plessità o inaccessibilità, no lo me co so ca il e rr du ad ad i tt tare, per cui al loro proposito si è indo di ta es Qu a. nz ra no ig ra st no la al sì co e ro causa effettiva, per sopperir la al ne io es ad di e on zi si po a un o tt fa af e Democrito quindi non sarebb in l’ e rn ra st mo di o iv at nt te un o, ri ra nt co al , credenza nel caso, ma

e ch e, in ig or a su a ll e de on zi ga ie sp a un do en fr of a fondatezza oggettiv ra st no re la ra he sc ma r le vo o di ic og ol ic ps o tt fa l o ne nt pu ap be stareb ignoranza proponendo il caso come causa di certi eventi. ere val far di ca cer si che oni azi est att le del ito mer nel Non entro nell’attribuire questa posizione a Democrito, se non per rilevare l’infondatezza di quella che si cerca spesso di ricavare dallo stesso cap. 4 di Fisica II. Qui, nella parte finale, Aristotele menziona coloro «che

sostengono che il caso [o fortuna: tiyn] è una causa, ma occulta all’intelligenza umana, in quanto è qualcosa di divino e di soprannaturale» (196b5-7). Mi pare chiaro che, anche tenuto conto dell’andamento complessivo della discussione nel cap., la posizione alla quale Aristotele fa riferimento in questi termini è quella di coloro che il caso lo ammettono positivamente, non di coloro che lo negano come illusorio. L’obiezione principale alla proposta è che essa semplicemente non è una soluzione del problema, in quanto la posizione che Aristotele attribuisce a Democrito è quella di chi distingue gli eventi in due classi: quelli che effettivamente sono dovuti al caso e quelli che invece si spiegano in altro modo. Per salvare in qualche modo la proposta si dovrebbe poter trarre dal testo aristotelico un ragionamento+-piuttosto complesso, per cui Democrito avrebbe mostrato l’illusorietà del caso a proposito soprattutto (se non esclusivamente) degli eventi cosmici. Ma, intanto, non si vede bene perché questi avrebbe dovuto ritenere che la questione si poneva particolarmente a questo proposito e non anche a proposito di altri eventi, compresa la generazione degli animali e delle piante. E, comunque sia, è chiaro anche dal modo in cui Aristotele critica la posizione democritea che egli la intende come un’accettazione positiva del caso come causa per gli eventi cosmici. Non si potrebbe allora fare altro che attribuirgli un fraintendimento molto grossolano della posizione democritea, e questo mi pare un estremo che, se è possibile, è meglio evitare. La situazione è resa ulteriormente complessa dal fatto che Aristotele, sempre nel libro II della Fisica, al cap. 8, polemizza contro quelli che considera espressamente come i sostenitori della necessità in IO

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natura, ma attribuendo ad essi una posizione che mette insieme necessità e caso. Egli li critica appunto perché, nel ritenere che il caso gioca un ruolo importante per esempio nella formazione degli esseri viventi, introducono un elemento di indeterminazione che non può giustificare l’organizzazione che è presentata da quegli esseri (essa si giustifica solo ammettendo che il processo di formazione è finalistico). Per quanto solo Empedocle sia da lui menzionato espressamente, è assai plausibile ritenere che anche Democrito è un bersaglio della sua polemica, perché questi è, agli occhi dello stesso Aristotele, il teorizzatore più esplicito della necessità in natura,” e perché il tipo di spiegazione della formazione degli esseri viventi che viene illustrato è poi stato ripreso dagli epicurei.8 Non è improbabile che essi l'abbiano ripresa da Democrito, e che Democrito a sua volta l’abbia ripresa, con qualche modifica, da Empedocle, come aveva ripreso da lui altre teorie (in particolare quella sul meccanismo della percezione e quella dei quattro elementi fisici). Si può presumere che Aristotele se la prenda particolarmente con Empedocle sia perché è lui l’iniziatore della teoria contestata sia perché ne offre una versione piuttosto fantasiosa, che più facilmente si presta ad essere ridicolizzata (menziona espressamente, in 198b32, i «buoi dalla faccia d'uomo» che Empedocle aveva postulato come tipici di una certa fase della formazione dei viventi). Se è così, abbiamo un testo che conferma che, secondo Aristotele, Democrito faceva un ricorso positivo al caso. Ma è un testo che

complica le cose perché in esso il ricorso al caso è visto come pienamente compatibile col ricorso alla necessità ed è esteso ad una serie assai più ampia di eventi che non soltanto quelli cosmici. Si può, certo, rendere compatibile la posizione che Aristotele attribuisce a Democrito nel cap. 8 con la negazione del caso che gli attribuisce nel cap. 4, ammettendo che ciò di cui sta parlando nel cap. 8 è del caso concepito sulla base dell’analisi che di esso offre nei capp. 5 e 6 (cioè quella che ho in parte riassunto con riferimento all'esempio dell’uoriun’esplicito di non tratta si parole altre In mo che va al mercato). avrebbe egli che ricorso del ma Democrito, di parte da caso corso al quella come caso del adeguata nozione una di dovuto fare disponendo , nti que fre e ent vam ati rel o son e luc sta que in ito ocr Dem a 7 I riferimenti di Aristotele cfr. p. es. De generatione animalium V 8 e II 6. 8 Cfr. Lucrezio, De rerum natura V, vv. 837-924.

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iat mp co in è n no to es qu e , le te to is Ar risultante dall’analisi fornita da me co so ca l de za en st si ’e ll de e on zi ga ne sa bile con una sua espres a rl pa si 8 p. ca l ne e, tr ol ù pi io gl me o causa. In effetti, come vedrem equ a e, er um es pr ò pu Si a. nz de ci in co di co li di caso nel senso aristote De a e sc ui ib tr at le te to is Ar e ch so ca al sto punto, che anche il ricorso un o at st a si n no i ic sm co ti en ev i gl de o it os op pr mocrito nel cap. 4 a

o it cr mo De so es le st te to is o Ar nd co se e ch lo el qu o, ma ricorso esplicit a da rs ve di n e be on zi si po a un di ta at tr si rò Pe . re fa to vu e do avrebb ti us gi sa co e ch to ri ia ch n no ne ma ri i cu r pe 8, p. ca l ne sa us sc quella di fichi la sua attribuzione a Democrito. 2. Un primo passo da fare sta nel considerare un po’ più da vicino qual è la posizione di Aristotele stesso su tutta questa problematica. Nella sua discussione della posizione dei presocratici naturalisti in Fisica II 8 e in altri testi egli non rigetta questa come totalmente erronea, ma contesta la adeguatezza di una spiegazione fondata unicamente sul ricorso alla necessità e al caso, prescindendo dunque dal ricorso al fine e (almeno implicitamente) alla forma. Egli presenta la posizione che si trova a criticare sostanzialmente come quella di coloro che ritengono di poter spiegare tutto mediante le operazioni e interazioni in qualche modo meccaniche dei quattro elementi. Spiegazioni del genere sono da lui menzionate, con riferimento polemico ai naturalisti, nel passo seguente concernente la formazione degli animali e delle piante: «Dicono ad esempio che a causa del fluire dell’acqua nel corpo si formano lo stomaco e ogni ricettacolo del cibo e det residuo, oppure che a causa del passaggio dell’aria respirata si pratica l’apertura delle narici. L’aria e l’acqua sono la materia degli (altri) corpi, e a partire da tali corpi (semplici) tutti costoro spiegano la composizione della natura».? Si tratta di spiegazioni che possono pervenire ad un certo grado di complessità e che comportano spesso un aspetto di accidentalità, perché si va oltre quelle che sono le operazioni che vengono direttamente dalla natura di ciascuno dei quattro elementi (p. es. lo scaldare o il bruciare nel caso del fuoco). È a questo modo che Empedocle avrebbe spiegato la formazione della colonna vertebrale in certi animali: la sua «fratturazione», che è utile perché permette a questi animali (compresi gli uomini) di piegarsi, dipendereb? De Partibus animalium I 1, 640b12-17. Trad. Vegetti con modifiche.

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be dalla torsione alla quale il feto è sottoposto nell’utero materno (cfr. ivi, 640a20 sgg.).

Più in generale, Empedocle aveva spiegato a questo modo la formazione dei viventi nel loro complesso, anche se in termini piuttosto fantasiosi. La sua zoogonia comporta una prima fase di generazione spontanea di singole membra o parti (braccia, gambe, teste, ecc.) dalla terra, in modo indiscriminato; una seconda fase di combinazioni casuali di queste stesse parti, così da costituire degli esseri viventi, che includono esseri strani come i citati buoi dalla faccia d’uomo; di queste combinazioni solo alcune risultano essere costituite in modo

conveniente, dunque sono vitali, e danno luogo ad una nuova fase nella formazione degli esseri viventi, quella della riproduzione sessuale, mentre le altre periscono. Aristotele stesso, nell’alludere a questa concezione in Fisica II 8, ritiene che essa venga a suggerire che si possono trovare in natura degli esseri che sono costituiti come se fos-

sero il risultato di un processo orientato al fine, appunto perché la combinazione delle loro parti è avvenuta in modo conveniente, tale cioè da garantire la sopravvivenza dell’animale (o della pianta); ma tali esseri sono in effetti il risultato di un processo che presenta ad un tempo un aspetto di necessità e uno di casualità. Spiegazioni dello stesso genere, riguardanti singole parti o caratteristiche dei viventi (per esempio la formazione dei denti), sono attribuite espressamente

da Aristotele anche a Democrito (cfr. i passi di n. 7), e si può ipotizzare (per le ragioni già dette) che questi avesse proposto una versione

razionalizzata della spiegazione empedoclea della formazione dei viventi nella loro attuale organizzazione. Lucrezio comunque, nel riprenderla, tace della formazione di singole parti dei viventi dalla terra, ma ammette l'emergere da essa di combinazioni strane come gli co n po le in mi ca (fo rse in ve ce es cl ud per e a ire ; de st in at e androgini, Empedocle) il formarsi di esseri fantastici come i Centauri. Aristotele, nel criticare questa posizione, in sostanza distingue al e sola da ità ess nec alla lire risa o fatt re esse può nto qua o suo intern one azi oci ass in ità ess nec alla lire risa o fatt re esse e dev ece inv nto qua a cert una di ti dota ri esse di e ion maz for la col caso. Per giustificare izza real di tà aci cap loro la con nti, vive dei complessità, e soprattutto à, ssit nece a dell are ent ont acc o son pos si non sti rali natu i , fini dei re che caso del are per l’o o pri pro è Ed . caso col ma debbono integrarla Per ri. esse gli que da o tat sen pre co ogi eol giustifica il carattere tel te par una da a tat sen pre ità nal zio fun la esempio, già per giustificare

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a, st ba n no à it ss ce ne la le ra eb rt ve a dei viventi com'è la loro colonn

aqu la al ne io rs to a ll ne a st e ch à it al su ca di to ma ci vuole quell’elemen to es qu e ch è le te to is Ar di e on zi ie ob L’ . ne le è sottoposto l'embrio i rs ca fi ri ve ò pu n no e, ma nt me al on si ca i oc può forse anche verificars si e ch ò ci e ch an e è nt me al su ca ca fi ri ve si e ch ò in modo regolare: ci , so ca o ic un un n te no en am vi ov be eb rr vo ci e. E nt me ra ra verifica li vo re vo fa si ca di e ri se a un a tt tu a, ma at un a rt fo nz de ci in co ca un’uni

si n No e. nt ve vi re se es un è al o qu ss le mp co to ot od pr un re ne per otte può pertanto prescindere dal ricorso al fine come causa. E abbastanza chiaro che la discussione che Aristotele conduce su questo punto si fonda su di un presupposto tacito, che è quello dell’esistenza di una pluralità di catene causali ciascuna delle quali ha un inizio e una fine. Che egli, oltre ad attribuire un tale presupposto ai suoi avversari, lo adotti per proprio conto, potrebbe essere mostrato solo da una rassegna piuttosto ampia dei passi nei quali ricorre alle spiegazioni causali. Qui posso solo toccare, brevemente, alcuni punti. Il primo è che egli tende a concepire i processi in natura sull’analogia delle azioni e produzioni umane, in particolare richiamandosi alla tesi che l’arte imita la natura - per cui sono giustificate inferenze dal modo di operare dell’arte al modo di operare della natura. Questa sua tesi, trattata come del tutto ovvia, diventa anzi un altro motivo di

critica della posizione dei naturalisti, perché, dal momento che le operazioni dell’arte sono volte a dei fini (la medicina è volta a ristabilire la salute, ecc.), anche quelle naturali debbono esserlo. Nel caso comunque delle azioni e produzioni umane egli è piuttosto esplicito nel suggerire che c’è un’origine (&pyî) in qualche modo ultima, che è la decisione (rpoatpeorg) nel caso delle azioni.!° Un esempio di catena causale da lui manifestamente ritenuta limitata, nel caso delle azioni umane, è offerto in Metafisica VI (E) 3. E l’esempio di un uomo che,

avendo mangiato dei cibi prendere acqua al pozzo, ucciso da dei masnadieri. fatto, che è espressamente

piccanti, prova sete ed esce di casa per dove muore perché (a quanto pare) viene La sequenza che conduce a quest’ultimo ritenuto casuale, è essa stessa trattata co-

me strettamente causale, anzi come necessaria. Ma è una sequenza detta essere limitata: «si risale fino ad un certo principio (&pyf), ma non oltre ad esso» (1027b11-12). Presumibilmente il suo principio è

la decisione di mangiare cibi piccanti. Parlando direttamente dei pro10 Cfr. Eth. Eud. II 6 e Metaph. V 1, 1013a21, 11, 1018b25, VI, 1025b22-24, ecc.

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cessi naturali egli è meno esplicito sulla questione, ma si può almeno citare l’analogia che egli propone fra il processo di concepimento di un essere vivente e il movimento di certe marionette,!! cioè di ogget-

ti che si muovono per trasmissione di un moto meccanico dagli uni agli altri. L’analogia gli serve per mostrare che basta un piccolo impulso iniziale per dare origine ad una serie di movimenti che va avanti in modo automatico, cioè senza l’intervento continuo di una causa, per una specie di reazione a catena. Ma l’implicazione è precisamente

che c’è un impulso iniziale che è l’origine del processo, e che il processo stesso ad un certo punto finisce, coll’esaurimento di quell’impulso. Quanto a quello che per Aristotele è l'esempio primo della necessità, l’operare degli elementi fisici, si può dire che ai suoi occhi cia-

scuno dei quattro elementi è dotato di caratteristiche che producono di necessità certi effetti, per esempio il calore dovuto al fuoco fa sciogliere quello che è duro (come nella fusione dei metalli) o fa rarefare i liquidi (così da convertire l’acqua in vapore), mentre la freddezza (che viene fatta risalire alla terra) ha l’effetto contrario. Ciascuno degli elementi è pertanto all’origine di una catena causale, dunque di una sequenza dotata di necessità. Ma già perché si ottenga qualcosa dalla complessità relativa (maggiore di quella degli elementi stessi, ma minore di quella di altre sostanze come gli organismi di cui fanno parte) della carne e dell’osso ci vuole qualcosa di più, perché è necessario che queste differenti catene causali convergano, dando luogo a quel risultato. Senza infatti una combinazione appropriata delle operazioni o azioni causali dovute ai quattro elementi non si otterrebbero sostanze che presentino dei rapporti che le distinguono l’una daldelle acco nten può tare si ci non allor a, ragi one, magg A ior l’altra.!? azioni distinte dei quattro elementi nei casi in cui i prodotti sono qualcosa di più complesso. sem l’e ra st mo me co i, cas ti es qu di no me al Naturalmente in certi ù pi di sa co al qu à sar za en rt pa di o nt pu il e ch an , te pio delle marionet ia mb ca n no le te to is Ar per to es qu ma complesso dei quattro elementi, te vu do ni io az er op di te ita lim ne te ca di re mp le cose. Si tratta pur se un con (ma he anc e ., sgg 9 1b 74 5, ., sgg 10 4b 73 1, Il m iu al im 1 Cfr. De generatione an . sgg 2 1b 70 7, m iu al im an u mot De a) ogi nal l’a del e impiego different .to lar par ., sgg 30 4b 73 1, Il m iu al im an e on ti ra 12 A questi rapporti egli allude in De gene ze. tan sos te es qu di na cu as ci za iz er tt ra ca e ch os del log

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ad e ar rt po ò pu n no , la so da i, al qu e ll de na alla causa efficiente, ciascu di ne io az rm fo la al no me o nt ta e à it un esito di una qualche compless arm fo a ll ne i, tt fe ef In i. sm ni ga or i gl entità così complesse come sono zione

di un essere

vivente

sono

in gioco tutta una

serie di catene

mo ta ai na go ra pa to (e en im ep nc co l ne te en es pr la el qu i cu causali, di li ta si di ar in mb co l da e : ch to an lt so ) a un te è et on ri vimenti delle ma

a un de ie ch ri e ch sa co al qu è co ni ga or o tt tu i un lt su catene causali ri a nz ge er nv co re la ca fi ti us , gi le ro pa e tr al , in io ar ss ce spiegazione. È ne i or tt fa i ne de io az er op co la ro ve ov i, al us ca ne te ti ca en fra queste differ lo so re fa ò pu le si te lo to is Ar io di iz ud gi to a es qu o, e oc i gi al in ri te ma to ca an ne lt io so az in mb co a . Un ne fi al a e rm o fo la nt al me ri fe ri n co suale di operazioni dei fattori materiali può dare luogo ad un prodotto dotato di un’organizzazione un po’ complessa soltanto in circostanze particolarmente favorevoli e quindi rare; e prodotti della complessità degli organismi viventi non possono mai spiegarsi in questo modo. È assai più facile che una combinazione casuale di tali operazioni dia luogo ad una condizione di disordine, qual è quella che Aristotele ritiene sia la conseguenza normale dell’operare della materia lasciata a se stessa.! Ai suoi occhi l'errore dei presocratici naturalisti è di non avere riconosciuto che la convergenza di più catene causali che è indispensabile alla formazione di realtà complesse come gli organismi non può essere qualcosa di automatico, non può consistere in una semplice coincidenza. Occasionalmente invero una coincidenza del genere può verificarsi dando luogo ad un esito che è dello stesso tipo di duello dovuto ad un processo orientato al fine, ma appunto ciò può verificarsi solo occasionalmente, e solo nel caso di prodotti relativamente semplici, per cui non è legittimo generalizzare da questi casi. L’alternativa, nel giustificare il verificarsi di convergenze fra catene causali, è fra il ricorso alla coincidenza, dunque al caso, e il ricorso al fine: il primo corno è quello che viene abbracciato dai naturalisti, ma solo il secondo, quello proposto dallo stesso Aristotele, è adeguato. 3. La presentazione che Aristotele offre del pensiero dei presocratici naturalisti, e di Democrito in particolare, è abbastanza fedele almeno nei suoi punti essenziali? Non si può dare una risposta sicura a questa domanda, ma tutto sommato credo che la risposta da dare 13 Cfr. p. es. De caelo III 2, 300b8 sgg.

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sia positiva. Se ci fosse stata una dichiarazione esplicita da parte di Democrito che le catene causali in natura sono infinite o addirittura che gli eventi si inseriscono in un’unica catena causale infinita, così da arrivare ad una forma di determinismo, Aristotele non avrebbe potuto trascurarla senza peccare seriamente di disonestà intellettuale. L’idea che ci sia un unico intreccio causale che connette da sempre tutti gli eventi trova la sua prima formulazione esplicita, per quel che ne sappiamo, solo presso gli Stoici. Ed è sempre nel periodo ellenistico che si comincia a discutere di una conseguenza dell’adozione di questa prospettiva, che è la negazione della libertà di scelta per l’uomo: Aristotele mostra di ignorare ancora il problema.!4 Per quel che riguarda la posizione di Democrito, il rifiuto del caso da parte sua implica solo che si può indicare una causa definita per gli eventi che di solito si attribuiscono al caso, non che non si possa ammettere una causa iniziale per una qualsiasi successione di eventi. Per di più, la possibilità di indicare una causa per certi eventi ad un dato livello, per esempio a quello macroscopico, non esclude un aspetto di indeterminazione ad un livello differente, per esempio a quello microscopico. Democrito potrebbe avere indicato il vortice come causa della formazione del mondo ed anche avere indicato qualche causa del vortice stesso (per esempio uno squilibrio fra un vuoto che si forma per la distruzione improvvisa di un mondo o per qualche altra ragione e la materia circostante), ma in questo modo non avrebbe escluso che gli incontri degli atomi nel vortice stesso siano casuali. Certo, Aristotele può essere stato più consapevole di queste distinzio-

ni di quanto non fosse lo stesso Democrito. Ma la tesi democritea che tutto avviene per necessità non esclude, essa, ogni forma di indeterminismo? Nonostante le apparenze non è così, perché la necessità non si esaurisce nel rapporto di causalità. Certamente questo rapporto implica necessità, tanto è vero che, il ude escl o crit Demo che esso ad do rren rico è , visto amo come abbi

a e ment essa espr e buisc attri le tote Aris che à ssit nece di a l’ide caso. Ma diffe ioni icaz appl ad ta pres si ro ovve lato più o sens un ha o crit Demo di la quel con nza cide coin sua una orta comp renti da questa, perché . modo o stess allo re semp ene avvi che ciò tutto io eternità: è necessar oni gazi spie e buon ono offr «Non : ente segu Il passo aristotelico è il

di è 9 one ati ret erp int De in e tar evi le vuo i egl che smo ari 14 Almeno in tale forma: il necess altra origine.

WALTER

LESZL

re mp se de ca ac e ch no co di ti an qu hé rc pe neppure della necessità del ci in pr un a si to es qu e ch , ra de così e credono, come Democrito di Ab è hé rc pe il e o, pi ci in pr un è vi n no o at it pio, col pretesto che dell’illim di li eg to an rt pe ; ta ta mi li il sa co a un è un principio, mentre il sempre e ar rc ce è se co te es qu di a un di o it os op pr a ce che chiedersi il perché er av r pe o it cr mo De ta ci i qu le te to 5 is .! Ar o» at it im ll ’i ll un principio de e en vi av e ch ò ci di hé rc pe un re da di o gn sostenuto che non c’è biso lde tà li da mo a un è no er et re se es l' e ch to da , do mo so sempre allo stes o pi ci in pr un è c’ o n it no in nf ’i ll de ), e to ta mi li il (o to lo essere infini

li e un bb re sa ci , ma to ni fi in ù e pi bb re sa n ti no en im (un’arché) — altr ). Il g. 3 sg 3b 20 4, I . II ys to Ph ea in in ol tt e so en e vi om (c so es ad te mi sa av co al e qu e ar ch rm fe ta af ri de Ab l’ r pe e ch ce re is pu er gg o su ss pa viene sempre allo stesso modo è anche affermare che è un caso di necessità. (Invero, la formulazione all’inizio del passo non è del tutto chiara, ma il contesto conferma che è di questo che si tratta: sta infatti parlando di quei fattori o costituenti che sono necessari perché si abbia la formazione di un animale completo — di ciò che è necessario che sia presente (èràpyew dvayxatov) parla appunto in 742a14-15). Aristotele stesso presenta questa tesi di Democrito come se implicasse una rinuncia al ricorso alle spiegazioni causali. Obbietta infatti che c’è una dimostrazione, e dunque un perché (e un perché è una causa!), anche di certe cose eterne, come del fatto che il triangolo ha gli angoli uguali a due retti. (In realtà però anche lui non sostiene che di tutte le cose eterne c’è un perché: il dissenso è su quali cose costituiscono dei principi non ulteriormente giustificabili). Ma Democvrito avrebbe potuto applicare la tesi anche ai rapporti di causalità, appunto per la costanza che essi presentano: le stesse cause hanno sempre gli stessi effetti. Certo è che la nozione di necessità così intesa si lascia facilmente applicare ad eventi che non hanno propriamente un perché. Si può presumere che sia stata applicata al movimento originario degli atomi, che è dato da sempre e può avvenire in una qualsiasi direzione (data l'omogeneità dello spazio infinito che, a parte gli atomi, è vuoto). Ora una conseguenza dell’attribuzione di questo movimento agli atomi è che i loro incontri, nella condizione precosmica, sono del tutto fortuiti, per cui la formazione di un dato mondo me5 Il passo è De generatione animalium Il 6, 742b17-23; trad. Vegetti, ma omettendo il «del sempre e» in b20, con Platt, perché solo così il ragionamento fila. 16 Cfr. Metaph. V 2, 1013b20 e anche 1, 1013a15-16.

TORE

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diante un vortice non può che comportare un forte grado di indeterminazione. Democrito potrebbe essere stato indotto a pensare che la necessità presentata dal movimento originario degli atomi si estenda anche a questa, che è una conseguenza immediata di quel processo (oltre che aver potuto parlare di causalità in proposito ad un livello macroscopico).! In questo modo si spiegherebbe come mai Aristotele attribuisca a Democrito un ricorso al caso a proposito di eventi come la formazione di un mondo che l’Abderita stesso riteneva caratterizzati da necessità. Abbiamo visto tuttavia che Aristotele, in Fisica II 4, contrappone questi eventi ad altri, sul tipo della generazione degli animali, in quanto escludenti un’analoga casualità. Questo può sembrare in contraddizione con la posizione che viene attribuita ai naturalisti, compreso Democrito, nel cap. 8, dove la necessità che gli eventi del secondo tipo presentano non solo non esclude ma anzi implica una certa dose di casualità. A ben vedere però gli eventi o processi di cui si parla nel cap. 4 non sono gli stessi di cui si parla nel cap. 8, perché nel primo testo si tratta della riproduzione degli animali (o delle piante) che esistono di già,!8 mentre nel secondo si tratta della formazione di specie animali (o di specie vegetali) da una condizione in cui gli animali (o le piante) non ci sono affatto. E il fatto che il secondo processo comporti un grado più o meno alto di casualità non implica che anche il primo processo comporti lo stesso grado di casualità. Il secondo processo può infatti essere visto facilmente come una continuazione del processo di formazione del mondo nel suo complesso e comportare così anch’esso un grado abbastanza elevato di indeterminazione ovvero di casualità. E si può ugualmente ritenere che questo indeterminismo venga meno, o del tutto o in larga misura, una volta

che questo processo di formazione è stato completato, cioè una volta e def ini tiv for a ma loro nell a esi sto no veg e eta li ani mal i spe le cie che pre sentano qua i li rip rod utt ivi , pro ces si nor mal nei i sono coinvolte ovviamente una notevole regolarità.

non so, ces pro di i tip due sti que di ere cut dis nel , sso ste Aristotele re usa ad o ott ind è ché per te par in o, tan sen pre che a enz fer dif rileva la 17 Manifestamente pre qualche mondo che 18 Si allude infatti un dato tipo di animale

non è un processo che avvenga sempre, se non nel senso che c’è semsi forma. per o tip to cer un di ere ess o on bb de che i sem da ne zio alla loro genera o pianta, cfr. 196a31-33.

RLIOTI | IRpat

WALTER

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sa fe di la i tt fe ef In . bi am tr en r pe , aw lo stesso termine greco, cioè yéve so es st o ll su e ov mu si n no 8 p. ca l ne del finalismo che egli conduce la o ri op pr e nt me in ha hé rc pe a, at tt ge piano della posizione da lui ri e te da à gi li ta ge ve e i al im an ie ec sp da ar gu ri e riproduzione normale ch l ne i, tt fa in de lu Al i. nt te is es ra co an n no ie ec non la formazione di sp mi se i da e ir rt pa a i nt ve vi i de e on zi ra ne corso della discussione, alla ge mo ni io az rm fo le ta at tr e ) g. sg b5 99 e (1 ch ti ma er sp ze o altre sostan li . Eg 4) 3(b ra tu na a ll e de al rm no o rs co l ni da io az vi struose come de ie ec sp e le al qu a, la r iv pe tt pe os a pr ri op pr a a to su ll na da io iz nd co è i qu o. ss le mp co o su l o ne nd mo no il er et è me , co ne er et no i so nt ve vi i de Per lui il problema di giustificare il formarsi ex novo delle specie dei viventi neanche si pone, e non si rende conto che esso si poneva per i pensatori che sta criticando. Nel polemizzare, d’altra parte, con i naturalisti è indotto a soffermarsi su quel tipo di processi che anche per essi comportano un certo livello di indeterminazione perché egli presenta il ricorso al caso come l’alternativa al suo ricorso al fine. Gli sarebbe stato difficile procedere a questo modo a proposito di quei processi dei quali i naturalisti, e in tutti i casi Democrito,!? sottolineavano la regolarità. La sua

incomprensione per la posizione altrui si manifesta anche nella critica che rivolge a Democrito nel cap. 4. Come si ricorderà, egli contrappone (apparentemente rovesciando la posizione democritea in proposito) alla regolarità dei processi celesti la irregolarità che è presentata dai processi concernenti gli esseri viventi. Ma nel caso di quest’ultimi non si sofferma su quell’aspetto di regolarità che viene sottolineato dagli atomisti (e che è accettato anche da lui), e cioè sul fatto che nel

processo riproduttivo la specie rimane identica; e nel caso dei processi celesti egli fa riferimento al sistema celeste già formato e non al processo della sua formazione, che è quello cui Democrito si riferiva nel parlare di vortice.?0 C’è da concluderne che l’evoluzionismo, in ogni sua forma, è così

alieno dal pensiero di Aristotele, che egli non riesce neppure a cogliere l’intento che sta dietro l’adozione di una prospettiva del genere, e 1° Come risulta, oltre che dall’allusione di Aristotele stesso nel cap. 4, dall’atteggiamento degli epicurei al proposito: questi escludono che da individui di una specie di viventi possano derivare individui di una qualsiasi altra specie, cfr. Epicuro in Diog. Laerz. X 38, e Lucrezio I, vv. 159-207. (È in gioco anche il principio nihil ex nihilo, ma qui prescindo da questa complicazione). 20 E al vortice appunto si allude nell’esposizione aristotelica in 196a26.

dii

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cioè quello di mostrare che la successione cumulativa di processi (con i loro risultati) di per se stessi caratterizzati da un livello relativamen-

te alto di casualità o di indeterminazione si traduce alla fine in una condizione di ordine o di regolarità assai maggiore di quella che esisteva all’inizio di tutta questa trasformazione. La crescita dei condizionamenti, ad ogni stadio del processo complessivo, comporta una riduzione dell’indeterminazione, dunque una restrizione nel ruolo del caso, che invece è indispensabile al processo stesso. Questo intento è presente precisamente nella teoria darwiniana dell’evoluzione, che giustifica l'ordine attuale delle specie viventi mediante un processo caratterizzato, per usare termini monodiani, da necessità e da caso messi insieme. Ovviamente tale teoria presenta ben altra sofisticazione delle proposte dei naturalisti presocratici: con un’applicazione limitata ai viventi, ammette come punto di partenza per il processo evolutivo nel suo complesso una condizione che comporta già parecchia complessità e regolarità, individua per esso certi meccanismi ben precisi di selezione, e estende il processo stesso ad una serie molto lunga e articolata di momenti. Ma che quei pensatori antichi fossero in qualche modo orientati in questo senso è stato riconosciuto proprio dallo stesso Darwin, che nella premessa storica alla sua Origin of species, parlando degli anticipatori dell’evoluzionismo, dedica una nota (la prima) proprio all’esposizione che Aristotele offre della posizione dei naturalisti in Fisica II 8 (ma la sua conoscenza dell’autore antico è così scarsa che non si rende conto che si tratta di una posizione di questi rifiutata!). Aristotele, con un po’ più di comprensione per la logica della posizione da lui criticata, avrebbe potuto facilmente rilevarne i punti deboli. Avrebbe potuto dichiarare che è già un miracolo che si formi un mondo organizzato come il nostro sulla base di un incontro casuale di atomi muoventesi in qualsiasi direzione e dalle forme e dimensioni più svariate, e che è un miracolo anche maggiore che in esso, dalla nuda terra, si formino gli esseri viventi quali noi li conosciamo, dando ursi riprod a ino cominc isi, format volta una più, di e che, per ttiva prospe la to somma Tutto specie. stessa della dui indivi luogo ad e rerebb dimost che fiducia dalla a lontan molto è non di Democrito idemocr zione ispira ile probab di logia un’ana chi ritenesse (ad usare

ripuò si fici tipogra ri caratte di e casual tea) che da una combinazione cavare un libro perfettamente leggibile. e bb re av a at rs ve av i lu da e on zi si po la do Ma criticare in questo mo —

21

WALTER

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o ne be sa es e ch , le te to is Ar di e rt pa richiesto il riconoscimento, da da o sm li na fi l de ca gi lo la n co a nz re male ha una sua logica, in concor so ca al e er rr co ri r ve do di o tt fa il i lui adottato. Invece ai suoi occh ra ir ce li mp se e ra pu di o pi em es un è si es oc per caratterizzare certi pr an o an er n no i st li ra tu na i e ch o tt fa l zionalità, spiegabile proprio co o er ss fo ci se e, ch re di me co : le na fi a us cora pervenuti a cogliere la ca o er bb re sa si tà e li bi sa en sp di in l’ to iu sc no arrivati, ne avrebbero rico a e rn fa ro di se as rc ce si es e e ch il ab ob pr ù pi o. È sm li convertiti al fina o it cr mo De o in it ic pl es à gi a er n no o, se sm li na fi l o de meno. E il rifiut na pe la le . Va ei ur ic ep i gl so es a pr nt ve , di e) lo il ab rt (cosa non più acce iat e ic nt if gn me si ar ol ic rt za en pa er ff di o di nt pu re un i na qu io nz me di a su la e al nt ve o vi an un di rg ne ’o io ll az de in rd bo o su an la ut fi ri si es : vo funzione, che è tipica della posizione aristotelica. Un organo come la mano preesiste alle sue funzioni, non le ha fin dall’inizio, ma queste si rivelano un po’ alla volta con l’uso, spesso in modo piuttosto casuale.?! Per Aristotele invece un tale organo esiste proprio per via della funzione o delle funzioni che esercita. E indotto così a polemizzare con Anassagora, per il quale è il possesso delle mani che rende l’uomo l’animale più intelligente; secondo Aristotele è vero l’inverso, che è perché è l’animale più intelligente che l’uomo possiede le mani.? Con l’adozione di questa sua prospettiva Aristotele si nega la possibilità di riconoscere tracce dell’evoluzione dei viventi nel passato, perché esse sono date dalle imperfezioni che essi presentano. Se davvero i loro organi fossero fatti appositamente per realizzare al rfieglio le loro funzioni, animali differenti non presenterebbero quelle coincidenze di struttura (quelle «omologie», come sono chiamate in biologia) che mostrano un non completo adattamento di un organo (preesistente) alla funzione che deve esercitare. Per esempio, la struttura ossea delle ali di un uccello (o anche di quelle di un pipistrello) non è molto dissimile da quella presentata dagli arti di un mammifero, il che non ci si potrebbe aspettare se si fossero formati in modo del tutto indipendente in vista delle loro funzioni, data la grande differenza che c’è fra queste. Aristotele riconosce le analogie (le pinne servono 21 Cfr. per questa posizione Lucrezio IV, vv. 823-857.

22 Cfr. De partibus animalim IV 10, 687a7 sgg. 23 Su questa questione cfr. certe raccolte di saggi di S. J. GouLp come Hen's Teeth and

DIpor. a

eltrinelli).

New York, Norton, 1983 (in trad. it.: Quando i cavalli avevano le dita, Milano,

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DA

DEMOCRITO

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ai pesci per nuotare come gli arti servono ai mammiferi per cammina-

re) ma non le omologie. Del resto egli non riconosce neppure quelle imperfezioni (quel mancato completo adattamento all'ambiente, quella inadeguata realizzazione di certe funzioni organiche, ecc.) che possono servire da causa di trasformazioni di carattere evolutivo. Questo

perché egli è convinto che ogni specie di vivente realizza, a modo suo, il massimo di perfezione: in questo modo non si riconoscono ragioni per cui essa debba cambiare, abbandonare l’attuale del tutto soddisfacente situazione. Insomma, la sua prospettiva è antievoluzionistica perché è troppo convinto che il nostro mondo, nel suo complesso e nelle sue parti, è

dotato del massimo di perfezione possibile. E una convinzione, questa sua, che si riflette nelle affermazioni che egli fa circa l’operare della natura (talvolta personificata): la natura dispone tutto verso il

meglio, realizza la possibilità migliore, non fa nulla di vano o di superfluo.?4 Essa si riflette pure in certi principi che ne sono l’applicazione. Uno di questi è quello già citato che l’organo è adatto alla funzione che esercita, è fatto apposta per essa (e non viceversa). Un altro è che è preferibile che ciascun organo abbia una sola funzione e che ciascun vivente abbia, per una certa funzione (per esempio la sua difesa), un unico tipo di organo appropriato ad essa (per esempio solo corna e solo zanne). E abbastanza chiaro poi che, in connessione a questi principi, egli ammette che fra gli organi di cui un organismo è composto c'è una forma di collaborazione o di divisione del lavoro, per realizzare il bene complessivo dell’organismo. E accanto all’ordine che vale per ogni tipo di essere viene ammesso un ordine che è realizzato dalla scala complessiva degli esseri. Non ogni evoluzionismo esclude il finalismo: Aristotele avrebbe potuto adottare una prospettiva prossima a quella di certi filosofi moderni, che ammettono un processo di trasformazione delle specie dei infeie spec le cui per io, megl al o volt o less comp suo nel è viventi che per one ragi Una te. uppa svil più mano man ie spec a o luog riori danno in sta one ragi ltra Un'a ta. iona menz ora la quel è cui non fa questo tte amme non Egli a. istic final iva pett pros sua della certe peculiarità ; 616 744 6, II m. ani . Gen ; -17 a16 687 10, IV ; -24 a23 658 14, 24 Cfr. p. es. Part. anim. II II 4, 739b19; II 5, 741b4 (i passi sono numerosi).

25 Cfr. p. es. Part. anim. I 5, 645b13 sgg. e IV 12, 694b13-14. . sgg 23 1b 66 1, III 6; -2 20 3a 68 6, IV . im an t. Par es. p. 26 Cfr.

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WALTER

LESZL

co a ss po e ie ec sp e ol ng si le a nd un bene o fine complessivo che trasce irt pa i nt me mo o i rt pa me co a lg vo in co sì orientare un processo che le ne be un è e ch ne fi un za iz al re re se es colari di esso. Ciascun tipo di av pr so la i, nt ve vi di ie ec sp na cu as ci r pe , le ra ne per esso stesso: in ge ); di mo i tr al in o ne io uz od pr ri la e nt ia ed (m sa vivenza della specie stes o zi ci er es , l’ ni mi uo i a gl nz r ge pe li el nt ’i ll o de zi ci er es e, l' in particolar e ch , to no è m' co a, rm fe Af a. vi sì co e i, al im an i gl r ne pe io ez rc della pe

a ri op pr ra tu na la è a rl pa i cu di ra tu na la ma : ne fi al e nd te la natura . ni mi uo i gl r pe a an um ra tu na o la pi em es r , pe re se di ogni tipo di es Egli prospetta insomma l’esistenza di una irriducibile varietà di fini, ” .? no za iz al re li e ri ch se i es gl à de et ri e va la on al zi la re in è e ch

27 Cfr. p. es. Eth. Eud. I 8, 1218a30-32, dove rileva che non è vero che tutti gli esseri tendono ad un unico bene: l'occhio tende alla vista, il corpo alla salute, e così via; e Eth. Nic.

VI 7, 1141a22 sgg., dove sottolinea che la salute e il bene sono differenti per gli uomini e per i pesci e che pertanto (nel caso degli esseri ai quali si può attribuire questa facoltà) ci debbono essere differenti forme di saggezza. — Nel rivedere questo articolo dopo la sua presentazione a Siena il 28 febbraio 1989 ho beneficiato delle osservazioni fattemi da Walter Cavini e dagli altri intervenuti, ma per ragioni di tempo ho dovuto limitare i miei interventi al minimo.

+2 Dali

CHRISTOPHER RowE

«ARISTOTELE SULLA ‘FELICITÀ’: LO SVILUPPO DI UN RAGIONAMENTO)!

In questa relazione prenderò in considerazione un ragionamento che - come molte altre parti della filosofia etica aristotelica - compare in due versioni, una nell’Ethica Nicomachea, e una nell’Eudemia.?

Questo è il ragionamento principale che troviamo in EN I.7} ed EE II.14 sulla natura della «felicità» o eudaizzonia.? Si potrebbe discutere se questi due passi trattano esattamente lo stesso ragionamento, dal momento

che ci sono notevoli differenze tra loro. Vorrei asserire,

! Vorrei esprimere qui la mia gratitudine a Tiziana Menegus Buxton, che si è assunta il difficile compito di tradurre in italiano la versione inglese di questa relazione; al Publications Fund dell’Università di Bristol per il contributo datomi per il costo della traduzione; agli ascoltatori delle Università di Siena, Pisa e Roma per i loro utili commenti; e al Direttore del Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Siena, ai suoi colleghi, e al Prof. Walter Leszl per la calda ospitalità offertami durante la mia breve visita. 2 Per il momento verrà ignorata la versione contenuta nel Magna Moralia (1184b1 sgg.), soprattutto considerando che mi interessano in particolare i ragionamenti di Aristotele sull’eudaimonia, e che Magna Moralia è di un altro autore. Ma in ogni caso questa terza versione sembra essere essenzialmente una specie di riassunto commentato delle altre due (soprattutto l’Eudemiana), quindi non ha molto da offrire alla presente discussione, qualsiasi sia la prove-

nienza. 3 1097b22-1098a20. 4 1218b31-1219a39. 5 Penso che ‘felicità’, come l’inglese ‘happiness’, sia inadeguato a rendere eddarpovia, in quanto si riferisce principalmente - cosa che il termine greco non fa - ad un sentimento interno di contentezza (‘godimento interno’, come dice un dizionario: N. Spinelli, Torino, 1955). Ma per il momento non è stata ancora trovata una soddisfacente traduzione alternativa; ‘flourishing’ (fioritura), che è forse il migliore candidato inglese, andrebbe bene in molti contesti aristotelici e platonici, ma ha la grave mancanza di essere un termine inventato, mentre il termine greco eddarovia è di uso comune. Quando un filosofo greco chiede «che cos'è l’eddarpovia?», la sua domanda riguarda questa cosa che tutti cercano e desiderano; ‘flourishing’ è qualsé per che o piuttost giardino suo il per volere forse e potrebb inglese parlante un che cosa che attrine egli se anche Cooper, M. J. è ne traduzio questa di ore sostenit le stesso. (Il principa Human and Reason suo il cfr. e; Anscomb M. E. G. a iamente originar uzione l’introd buisce 1). n. 89 p. 1975, London, and Mass., ge, Cambrid , Aristotle in Good

DIRE; pd

CHRISTOPHER

ROWE

nia gl mi so e ll de se ro me nu no me tuttavia, che queste differenze sono

re se es ve de — a si sa es e qu un al qu ni io rs ve e du e ll de a un e ch e , ze o nt me go ar L' .* sa es di ” po up il sv basata sull’altra, e rappresentare uno l de le ta en am nd fo ra tu na la r pe a riveste già un’importanza speciale si r pe a si ,° e) ar in im el pr do mo in to an qu concetto che va a definire (per ogu se e ch i br li i e ne on si us sc di a ll de o il modo in cui determina il cors so es to an qu in e, ss re te e in or ri te ul un ge un gi ag si to es no.!° Ma a qu

e ar on gi ra di do mo o un nt di me ta at ad l’ stesso può essere visto come oat Pl te in an rt po te im en lm ua to ug es nt co un no me che si trova in al vo — ti ut tr is a si o ns ! .! Pe ca li bb pu Re a ll de o br li o im pr l ne, alla fine de 6 Rimango agnostico per quanto riguarda la relazione cronologica tra i due trattati etici; la discussione rimane aperta (così per es. M. Woops, Aristotle’s ‘Eudemian Ethics’ Libri I, II, e VII, Oxford, 1982, p. x11, sostiene la precedenza dell’EE, nonostante gli argomenti a sostegno dell’opinione contraria presentati da Kenny in The Aristotelian Ethics, Oxford, 1978), e non verrà fatta molta luce sull’argomento in questa relazione. ? Si potrebbe dire che anche questo presupposto non è necessario; perché mai si dovrebbero spiegare le differenze in termini di differenze di scopo piuttosto che in termini di sviluppo? Questo sarebbe stato il punto di vista di D. J. ALLAN - v. per es. il suo libro La filosofia di Aristotele, edizione italiana, Milano, Lampugnani e Nigri, 1973, p. 151, n. l: «occorre... decidere perché esistono due versioni e in che ordine cronologico o în che rapporto stanno tra di loro» (mia sottolineatura) - ed è sostenuto, tra le altre cose, dall’esistenza di notevoli diffe-

renze di stile e di metodo tra l’EE e la NE, che verranno ben illustrate nei passi che mi propongo di discutere (v. soprattutto le mie conclusioni qui, a pagg. 38 sgg.). D'altra parte, come hanno messo in evidenza Kenny e altri, ci sono anche differenze di contenuto nel trattamento di argomenti particolari nelle due opere, e queste differenze filosofiche sembrano richiedere un tipo diverso di spiegazione, in cui il passare del tempo sembra essere un elemento possibile. Per il momento, comunque, la mia posizione può essere considerata coerente perfino con la possibilità suggerita da Allan: presuppongo solamente che le due versioni del ragionamento non furono scritte letteralmente allo stesso momento - che una fu scritta prima, e Aristotele

deve averla avuta in mente in qualche misura quando scrisse la seconda. 8 Esse rappresentano quindi ‘lo stesso’ argomento nello stesso modo in cui un edificio ricostruito e ristrutturato può rimanere lo stesso edificio, ed essere chiamato con lo stesso no-

me; oppure si veda quello che Aristotele dice sull'identità di una città nel Libro III della Politica (Pol. 1276434 sgg.). ? Cfr. NE 1098a20-22 repryeyohpdew pèv oùv tayabòv tastni del yàp Tows srotumtcat rp

tov, cita dvayphdar. Aristotele potrebbe avere aggiunto la stessa precisazione alla definizione nell’EE, dal momento che deve essere - ed è — elaborata (àvayp&par) tanto quanto la sua controparte nella NE. 10 Cfr. NE 1102a5-6, EE 1219b26-27, 1220a5, a 13. 11 352d-354a. Aristotele conosceva la Repubblica abbastanza bene per poterla sottoporre ad una critica dettagliata nella sua Politica - anche se parte di quella critica può sembrare stranamente perversa; se è così, e vista la vicinanza dei suoi stessi ragionamenti in NE I.7 e EE II.1 a quello in Repubblica I (v. sotto), sarebbe come minimo antieconomico supporre che non fosse a conoscenza

della versione platonica. Ma se ne era a conoscenza,

allora non è proprio

eccessivo suggerire che le sue nuove versioni fossero in effetti degli adattamenti consapevoli

di questa. (Cfr. H. H. JoAcHIm, Aristotle, The Nicomachean Ethics, Oxford, 1951, p. 48). OI-

tre a condividere lo stesso tipo di strategia del ragionamento platonico, esse condividono anche uno scopo simile: proprio come Aristotele le usa come un modo per introdurre un pro-

DE

«ARISTOTELE

SULLA

‘FELICITÀ’:

LO

SVILUPPO

DI

UN

RAGIONAMENTO»

ma valgono più i fatti che le parole - paragonare le versioni aristoteliche con quella platonica, e vedere come Aristotele ha modificato e perfezionato quello che ha ereditato. Questo è il compito che mi prefiggo in questa conferenza. Lo scopo ultimo sarà di capire meglio Aristotele, dal momento che parto dal presupposto che se si può ricostruire la storia di certe idee, è utile per la loro comprensione esplorare questa storia. Comincerò con la versione Nicomachea - di nuovo senza occuparmi del suo rapporto cronologico con l’Eudemia. Che cosa è l’eudaimonia? chiede Aristotele.!? Cerchiamo di rispondere a questa domanda considerando l’ergor (‘lavoro’, ‘funzione’ !) di un essere umano,

poiché ‘sembrerebbe’ (per analogia soprattutto con i mestieri) che il bene!4 per questi esseri sta nella loro funzione, se ne hanno una. Ma come potrebbero non averla, quando esiste certamente una funzione inerente ai membri delle classi tra gli esseri umani (falegnami, calzolai), e anche una inerente alle varie parti di essi (occhi, mani, piedi)? Questa funzione non può essere semplicemente la vita, perché anche le piante ce l'hanno; quello che cerchiamo è qualche cosa propria degli esseri umani. Questo vuol dire escludere una vita che consiste semplicemente nell’assunzione di cibo e nella crescita; e anche una

gramma principale delle sue due opere (cfr. sopra, con n. 10), così Platone usa la sua versione per esporre in modo preliminare il tema centrale della Repubblica che solo l’uomo giusto e virtuoso è felice. Per un altro ragionamento platonico che potrebbe essere un lontano progenitore di quello in Repubblica, cfr. Gorgia 506c-507c: se non c'è lì un riferimento specifico all’idea dell’èpyov di una cosa, tale riferimento può essere fornito facilmente. 12 O più precisamente: abbiamo detto che l’eudaimonia è migliore. Ma su questo tutti sarebbero d’accordo; è ancora necessario dire più chiaramente che cos’è (1097b22-24). 13 Cioè ‘funzione’ nel senso di «il tipo speciale di attività proprio di [una] cosa» (traduzione della terza definizione di «function» data dall’Oxford English Dictionary, edizione 1971), se si accetta che questo voglia dire quello che la cosa fa in virtù dell’essere quello che è, specificando (come mostra il seguito) che quella attività non è condivisa da nient'altro. Alle righe 1097b26 e 29, épyov è accoppiato a rpdtis, presumibilmente per indicare che la sua sfera è più ampia di quanto possa apparire dall’esempio dell’artigiano: ‘funzione’ qui deve includere non solo il prodotto delle attività, ma - dove non c’è un prodotto separato - le attività stesse. Cfr. il (ma loc. ad 1892, Oxford, , Aristotle of Ethics hean Nicomac the on Notes , StewART A. J. attidi e caso, primo nel attività, e prodotto di relativi valori i riguardo Stewart di o comment e solament osserva le Aristote : contesto questo in te irrilevan è secondo, nel vità e disposizione che il bene per ogni cosa sta nel suo &pyov”, di qualsiasi tipo possa essere). 14 t&yafòv xaì cò eù (1087b27): ambedue i termini devono riferirsi al bene nel senso di acerc di o fatt il per y&p) (b25 sa mes pro one cazi tifi gius la ire forn e dev e fras la se scopo finale geo cipi prin e com o end ger sug sta le tote Aris . omo l’u del ne zio fun re la felicità esaminando la di io rciz ’ese nell ere ess ben rio prop il erà trov ne zio fun una a abbi nerale che qualsiasi cosa che : bene arla rcit ’ese nell , -11 8a8 109 o pass al ro chia in te met e com o, tost piut quella funzione (0, cfr. JoacHim, The Nicomachean Ethics, p. 49).

A" -(,presa

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i. al im an i tr al n co ne mu co in è ta es qu hé vita a livello dei sensi, perc spo e ch i no in to en em el l’ el qu di ta vi Quello che rimane è un tipo di no il Ma * .! va ti at po ti el qu di ta vi a un re se es siede la ragione; e deve l ne ) ri ie st me i n co ia og al an r pe o ov nu i stro bene consisterà quindi (d al’ rà de ie ch ri a lt vo a su a to es qu e ; po ti el qu di vivere una buona vita o, an um ne be Il . ne io nz fu la al te en nd po is rr 6 co rete (‘eccellenza’?)! n co tà mi or nf co in ma ni 'a ll de tà vi ti at l’ rà , sa a) ni quindi (cioè eudaimzo

re e io gl mi la n tà co mi or nf co , in te re ’a un di ù pi no so l’arete — «e se ci la più completa». («E ancora in una vita completa...»). I due aspetti più sorprendenti di questa argomentazione, se paragonata alla sua equivalente nella Repubblica, sono, innanzitutto, che

Aristotele parla della ‘funzione’ dell’essere umano, non - come fa Platone - di quella dell'anima; e, secondariamente, egli abbandona subito l’idea che questa funzione potrebbe essere semplicemente vita,

mentre Platone considera questa - la vita senza qualificazioni — per lo meno come una delle funzioni dell'anima. Ogni cosa, sostiene qui Socrate, che ha una funzione ha una corrispondente arete!” che permette di realizzare bene questa funzione.!8 La funzione dell’anima è «curare,! comandare, deliberare, eccetera», e anche la vita (e la corri-

spondente virtù è la ‘giustizia’, un punto su cui Socrate sostiene — e il suo avversario è d’accordo — si era acconsentito prima; perciò è l’anima giusta che governa bene; quindi è l’anima giusta, cioè?° l’uomo giusto, che vive bene, e vivere bene è essere ‘felici’).2! Tuttavia, se consideriamo l’argomento più da vicino, almeno la 15 Su 1098a4-5 toùtov... SLavoospevov, v. n. 47 sotto. 16 È nota la difficoltà di tradurre il termine greco dpett; delle due ovvie alternative in inglese, ‘virtue’ e ‘excellence’, la seconda mi sembra chiaramente preferibile, ma dal momento che l’italiano ‘eccellenza’ non ha il plurale richiesto (cfr. per es. 1098a17), mi rifugerò nella traslitterazione. 17 «Allora a voi sembra anche che ci sia un’arete che appartiene a ciascuna cosa a cui è stato assegnato (rpootétaxta:) un épyov?» (353b). La restrizione implicita riguardo al numero di cose che possiedono un èpyov è forse una conseguenza della tendenza di Platone di interpretare &pyov nel senso strumentale (v. n. 21 sotto). 18 353c-d. 19 Cioè trpereiodar: ‘curare’ nel senso di «avere a proprio carico». 20 V. n. 22 sotto. 2! Un'ulteriore differenza tra questa versione platonica del ragionamento e quella di Aristotele nella NE riguarda la definizione di &pyov. Per Platone, l’èpyov di una cosa è o a) quello che uno fa con quella cosa o i) solamente, oppure ii) meglio (352e, 353d), oppure b) o i) quello che solo quella cosa fa, oppure ii) quello che essa fa meglio di come qualsiasi altra cosa lo fa (353a, b, c, e) - anche se a) e b) sono chiaramente intercambiabili. Aristotele, da parte sua, mantiene sostanzialmente solo b) i).

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seconda differenza si rivela relativamente poco importante. Platone sarebbe giunto alla conclusione voluta senza riferirsi affatto alla vita (o piuttosto, presumibilmente, la produzione della vita):22 se avesse identificato la funzione dell’anima semplicemente nel deliberare, sarebbe per lo meno plausibile dire che non si può avere una buona vita senza un efficiente deliberare. Infatti, l’introduzione dell’anima

come vivificatrice è, in senso stretto, una pista falsa: non si potrà certo dire che un uomo ingiusto è mero vivo di uno giusto. Lo scopo reale che Platone ha nell’includere questa particolare ‘funzione’ dell’anima è forse retorico, in quanto permette di passare in modo veramente facile alla conclusione che l’uomo giusto ‘vive bene” .?? Per quanto riguarda l’altra differenza, cioè che Aristotele si interessa alla funzione dell’essere umano piuttosto che a quella dell’anima - anche questo sembrerebbe perdere ogni vera importanza se si considera che in ogni caso egli finisce con l’identificare la funzione dell’essere umano proprio con un'attività dell’anizza. Ma non è tutto qui. Sembra ragionevole chiedersi - come ha fatto Irwin recentemente — esattamente come Aristotele possa giustificare questo salto, e dalla funzione di tutto l’essere umano passare a parlare di quella dell’anima.?4 Se proprio dobbiamo parlare dell’essere umano in quanto tale come avente una funzione, non dovrebbe essere una funzione attribuibile a tutto l’insieme, piuttosto che solamente ad una parte di esso? La risposta di Irwin a questa obiezione è, in effetti, che essa non esiste più appena noi consideriamo il contesto dal punto di vista di una concezione propriamente aristotelica del rapporto tra anima e corpo, o anima ed essere umano. Per l’Aristotele del De Anima,

l’anima semplicemente è l’attività della creatura vivente: 22 Se l’anima, per Platone, sopravvive dopo la morte, non significa che egli sia disposto a la cui ndo seco ne, comu l’uso e segu o solit di vivo; di cosa che qual descriverla di per sé come

o stess ento onam ragi il caso ogni in Ma e. muov si e ra respi che ciò è , {Stov nte, creatura vive 353e . 3530) , otar ydte arep r, leoba (tpra zza reali essa che ciò come cosa una di ov descrive l’épy

ioobiez seria una o, cred e, tuisc costi non etar Pubo ed avip ‘H pèv dipa duxata dux) xaì è dixarog nel a sfum dux e &vhp, os dixar ò forse è o verb del etto sogg vero Il ne a questa interpretazione. (LSJ e» nent defi o e tant limi ione ress «esp di ione funz una in xa con significato di ‘persona’, . sopra testo nel ’ ‘cioè reso ho to ques per A.2): s.v. o ett asp un era che llo que to rma sfo tra ha e tel sto Ari do 23 Se è così, allora in qualche mo poi e; ial enz ess uno in o ell mod suo del e, ial enz ess non no me puramente accidentale, o per lo . ere viv di do mo un me co o pri pro a vi ro da ed a ché egli identific in », ics Eth ’s tle sto Ari of is Bas l ica log cho Psy and al ic ys ph ta Me 24 T. H. Irwin, «The ss, Pre y sit ver Uni a rni ifo Cal ey, kel Ber ty, Ror O. Essays on Aristotle’s Ethics, a cura di A.

1980, p. 36.

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o ’ one nzi ‘fu a all o nt me ri fe ri il ne sio cus dis in e Non si dovrebbe metter sua la o ri op pr è e ent viv o sm ni ga or un di ne io nz fu la ; ca’ sti ‘attività caratteri

scla e tel sto Ari a. im an sua la me co za iz Ar De nel forma o essenza, descritta

la a fic ssi cla cui in do mo sso ste lo nel i sm ni ga or di i tip i ers sifica la vita di div

rga l’o del a rm fo la me co a nim l'a del na tri dot La . a.. izz Arn De nel a loro anim è tà ici fel la e ch e tel sto Ari ge un gi cui a e on si lu nc co la nismo vivente spiega e nt sot me ce li mp se ma po cor il ora ign n no i a; egl nim l’a e del ion zaz liz rea una tolinea che la felicità interessa l’essere vivente nei suoi aspetti funzionali piuttosto che in quelli semplicemente strutturali e materiali.?

Allora, se Irwin ha ragione, stiamo parlando, tutto considerato, di

una modifica abbastanza radicale del ragionamento platonico: nonostante l'apparenza, Aristotele si interessa sempre alla funzione dell'essere umano, che in conclusione potrebbe essere descritta come un’attività dell'anima, ma che in effetti — a causa dell’identificazione dell'anima come la forma o (prima) ertelecheia di tutta la creatura vi-

vente - sarà anche un’attività di tutto l’essere ‘composito’. L’obiezione che c’è un divario tra il parlare di un essere umano e il parlare della sua anima può riguardare l'argomento in Platone,?6 ma in Aristotele viene evitata; poiché ora l’essere umano è - in un certo senso — la sua anima. Platone potrebbe anche dire la stessa cosa, ma il significato sarebbe completamente diverso: cioè che la vera persona è quella parte di essa che sopravvive dopo la morte. Il problema è semplicemente perché dovremmo pensare alla felicità di un essere umano in relazione a quella parte di lui, e non in relazione a quella entità più familiare cheè l’involucro vivente di carne e sangue? ù Non c’è dubbio che questa interpretazione di Irwin (di cui ho dato solo le linee essenziali) è molto attraente; non da ultimo perché rende il ragionamento di Aristotele più interessante di quanto possa sembrare a prima vista. Ma ci sono alcune difficoltà. Per esempio, alcune pagine più avanti Aristotele si accontenta di basarsi su quello che viene detto sull’anima nei /ogoi ‘essoterici’, che, a giudicare dall'esempio dato, sono /ogoî di tipo essenzialmente non scientifico, e presentano idee che in un contesto diverso richiederebbero un’analisi più attenta.

Quindi, anche l'esperto di scienza politica deve teorizzare sull’anima, 2 IRWIN, pp. 48-49. 208 VITI ,9361

Lena,

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ma lo deve fare per queste cose [cioè per qualche cosa come la definizione della felicità, di cui si è appena parlato di nuovo, e che contiene un riferimento all'anima], e solo in misura sufficiente alle cose esaminate; in quanto

l'essere più precisi è più di quanto venga richiesto ora. Alcune cose vengono espresse in modo adeguato nei /ogoî essoterici, e noi ne dovremmo far uso; per esempio, che in parte è irrazionale, e in parte è dotata di ragione...??

Irwin nota questo passo, ma non pensa possa indebolire la sua posizione. «La sua riluttanza in generale a discutere argomenti non etici... non dovrebbe farci sviare. La sua teoria etica è basata sulla sua psicologia [elaborata nel De ani724]...».28 All’inizio questa difesa sembra abbastanza credibile. Dopo tutto, rifiutarsi di rendere conto di un argomento (qualsiasi argomento: cfr. 1098 a 20 sgg.) in modo più dettagliato di quanto richiesto dal soggetto trattato è, all’apparenza, perfettamente coerente col fare tacito uso di idee che sarebbero parte di quel resoconto più dettagliato. Tuttavia, se consideriamo il passo citato insieme con quello che lo precede, l’interpretazione di Irwin incorre in ulteriori, e forse più gravi, difficoltà. Quello che Aristotele ha appena detto è questo:?? Dal momento che la felicità è l’attività dell’anima in conformità con la perfetta arete, dobbiamo indagare sul concetto di arete... Chiaramente, la ricerca riguarderà l’arete uzzaza; poiché era appunto il bene umano, cioè la felicità umana, l’oggetto della nostra indagine. Ora noi chiamiamo arete umana non quella del corpo ma quella dell'anima; e diciamo anche che la felicità è l’attività dell'anima. (E se le cose stanno così, è chiaro che l'esperto di scienza politica in un certo senso deve sapere dell’anima...).

In senso stretto, se Aristotele sta operando con l’analisi dell’‘anitra ne zio osi opp a sun nes re esse be reb dov ci non ma, Ari De ma’ del del za for la è a nim l’a che o ent mom dal a; nim l’a del e po cor l’arete del può non e par nto qua a tto, elle ’int dell caso nel e fors nne tra po, cor e ma Ani o. corp del lla que da inta dist e aret avere la propria separata nte lme ura Nat e. iem ins ? ere ell ecc ono dev , dire be reb pot si corpo, tstre o sens in do lan par stia e tel sto Ari che non è necessario supporre e bil nsi pre com pre sem e ebb sar ma, Ani De del i to; nonostante l’analis 7 1102a23-28.

USI

28 Irwin, p. 50. US]9 1102a5 sgg.

30 V. n. 16 sopra.

tenia

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il — e al nt me e ca si fi a) nz le el cc (e e et ar parlare in termini tradizionali di ca di a rz fo e ca si fi a rz fo a tr mo ia ic (d e on ti tipo di distinzione in ques al e bb re av o un ss ne e e, al re te en em nt ie ic ff su rattere) sarebbe ancora

tle sa es st la , te en am it ic pl im , re pu Ep o. cun dubbio sul vero significat

te ri en am at di me im e en vi ’ ma ni ‘a ) di a’ ic if nt ie tura informale (‘non sc

e o et am ar mi ia ch (« tà ci li fe e di on zi ni e fi al de in ig or l’ ferita di nuovo al e ch o an am ci ; di e ma ni ’a ll de la el qu ma o rp co l de la umana non quel ra mb a se lt vo a su ! to a ;? es ») qu e ma ni ’a ll tà de vi ti at l’ tà è ci li fe la e ch za en sc no co o di o ad ic gr il if nt ie sc n o e no ll nt ve li me a ce li mp re se ta mi li se co le » se ca (« ti li a po nz ie to sc er di sp «e l’ ia al ar ss ce ma ne ni 'a ll de stanno così, è chiaro che il politikos deve in un certo senso sapere dell’anima...», «anche il politikos deve quindi teorizzare sull’anima, ma lo deve fare per [?poter giungere alle conclusioni già ricorda-

te]?2...»). Ma se è così, e se un ragionamento come quello in I.7, in

quanto parte dell'argomento di etica, appartiene alla sfera della politike (come suggerisce I.1), allora siamo invitati a concludere che non dipende da niente di più che nozioni non scientifiche sull’anima. C’è una risposta anche a questo. I.1 suggerisce solamente che il methodos dell’Etica è un tipo di scienza politica (politike tis);?} e forse questa espressione rispecchia - per lo meno in parte - un’impressione di Aristotele che certi aspetti di esso non sono strettamente necessari

alla scienza politica. Questo è un impegno essenzialmente pratico che ha come scopo «che i cittadini diventino buoni»; qualunque cosa che non miri direttamente a quello scopo (per esempio, qualunque cosa essenzialmente teoretica, proprio come le riflessioni sulla matura

della politica stessa) potrebbe essere considerata come al di fuori della sua sfera. Sembra che la discussione sulla felicità possa essere fa31 1102a16-18. 32 tata (tostwv xp, a24) può riferirsi semplicemente a tà rod rad, che può essere preso da teét torre in a23 (come per es. nella traduzione della Penguin); ma dal momento che Aristotele sta chiaramente riassumendo in questa frase quello che aveva cominciato a dire nella precedente, sembra più naturale considerarlo riferito alle stesse cose come tata in al8 —

cioè alle affermazioni contenute in a16-18.

33 1094b11.

3 Ci sono naturalmente altre interpretazioni di questa espressione (cfr. per es. STEWART, Notes, ad loc.); ma queste possono facilmente essere messe insieme a quella data. 3H1102a7-12.

36 Quando nel corso della sua discussione sull’arete nel Libro II (1103b26-29) Aristotele

dice che lo scopo «non è di sapere che cos'è l’arete, ma che diventiamo buoni - perché altrimenti non avrebbe alcuna utilità» (e presumibilmente questo punto vale anche per altre parti dell’Etica), si deve presupporre che egli voglia dire che questo è lo scopo ultinz0; la maggior

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cilmente assegnata a questa categoria; poiché Aristotele è chiaramente disposto a dichiarare qual è lo scopo della politike indipendentemente da quella discussione.?” D'altra parte, anche su questa opinione dovremo ammettere che ad un certo momento Aristotele è disposto a fondare il proprio ragionamento su presupposti ‘non scientifici’ (cioè nel passo 1102 a 5 sgg. dove si passa alla discussione della virtù ‘etica’); ma perché a questo punto e non prima? In altre parole, perché non dovremmo considerare la discussione originale (1.7) basata su

questi presupposti, invece di supporne degli altri che in ogni caso verranno poi abbandonati? Sono giunto alla conclusione che il ragionamento di I.7 dovrebbe essere interpretato in base ad una concezione ‘non scientifica’ dell’anima e non, come sostiene Irwin, in base alla psicologia sviluppata nel De Arima. In quel caso, ci manca ancora una soluzione al problema in questione — come Aristotele possa giustificare l’identificazione della funzione dell’essere umano con un’attività dell'anima, piuttosto che con una qualche attività che appartiene al tutto. Secondo me, tuttavia, si può trovare questa soluzione in un altro passo del discorso di Irwin. Egli dice — e sicuramente a ragione — che Aristotele intende l’ergon (che Irwin rende con ‘attività peculiare’) di qualsiasi cosa in un senso ‘inclusivo’; inoltre lo vede identificare l’ergon dell’uomo con l’attività della ragione pratica: Quando Aristotele dice che un cavallo o un bue hanno una vita percettiva (1098 a 1-3), sicuramente

non intende dire che passano o dovrebbero

passare tutta la vita a percepire; intende dire che una vita guidata dalla percezione è una loro caratteristica. Allo stesso modo non intende dire che un essere umano dovrebbero dedicarsi a pensare razionalmente piuttosto che le guidare umano essere un di ristico caratte è che dire e intend egli agire; ad proprie azioni con la ragione pratica.?? che o sens nel eno alm ) b26 a, évex plag (dew o etic teor te men bil uti isc ind è dice che parte di ciò non ha effetto immediato sulle azioni. esse ’ ano mbr ‘se e cos le che nte ame sol o end dic sta lf se che 37 Cioè al punto 1102a7-9 (an re così), ci sono tutte le indicazioni che egli è d’accordo. B, e A e far o son pos e cos e altr ma C, e far può ro alt nt' nie e C, e B, 38 «Se x può fare A,

è Ora C°. e ‘far di ure opp C* e B, A, e ‘far di o x di are uli pec possiamo descrivere la funzione to, ica nif sig mo pri nel omo l’u del are uli pec tà tivi l’at abbastanza chiaro che Aristotele intende quello inclusivo» (Irwin, p. 49). rie far di ità ess nec la do ve n no e, dic sso ste n 39 IRWIN, ibid.. Nonostante quello che Irwi for le e ch e dic ci a im Ar De il Se . to es qu di ferimento al De Anima per capire qualsiasi parte

(STE

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di ta vi a un rà sa a, ur tt le ta es qu a se ba La vita della ragione, in att Tu *° e. im an e ll da n no , ni mi uo i gl da azione; e le azioni sono svolte

e rt pa a ll de ta vi di po ti un me co a tt ri sc de ra via potrebbe essere anco a ll de vo ti in st di to at tr il e on gi ra a ll de za en es pr la ragionante, perché è re se es ve , de le te to is Ar ea in ol tt so me co , rò pe o vita umana. Di nuov di ta vi la è io [c ta es qu e ch an hé ic po «e : po ti to es qu di va ti at una vita e rr po up es mo pr ia bb do , di mo e du in sa es pr es è s] go ciò che possiede /o eav lo so re di ol vu n no i an um re se ! Es .4 )» po ti to es la vita attiva (di qu lde re fa r tà pe ci pa ca ta es qu e ar us , ma tà ci pa ca e rt ce n co ma ni re un’a o re am fa si os o. (P it os mp re co se es à o l’ tt er tu lg vo in co e ch il se co le vo nco si es cc lo su to pi a ca l it ne e ic on pl zi im si po op l’ n ne co go ra pa un tro coloro - presumibilmente compreso Platone - che identificano l’eudaimonia con la virtù, senza specificare che è il praticare la virtù, non la predisposizione).

Il parere dei più sostiene l’opinione che NE I.7 definisce l’eudaimonia come attività contemplativa; la «migliore e più completa are-

te» menzionata nel primo corollario‘ della definizione è quella della più alta parte razionale. È questa opinione che più chiaramente dà origine alla domanda iniziale di Irwin: perché, dopo tutto, l’umanità dovrebbe essere identificata con un’attività che è completamente rimossa e isolata da tutti gli altri aspetti degli esseri umani? Ci sono inoltre due ulteriori difficoltà. Primo, come può aver senso dire che la funzione o ‘attività peculiare’ dell’uomo è qualche cosa di cui - in base all’analisi di Aristotele stesso - solo la più piccola minoranza di

me superiori di vita presuppongono quelle inferiori, ciò è sicuramente abbastanza ovvio, e non è certo una questione di un’astrusa dottrina; e l'affermazione che il ragionamento finisce identificando l’épyov dell’uomo con l’attività della ragione pratica è basata sull’analisi del testo della NE stessa (v. n. 47 sotto). 40 Cioè nel senso ordinario di mpét, e non nel senso più ampio accettato in Politica 1325b16-21, che permetterebbe di considerare anche la contemplazione come un tipo di ‘azione’. Platone avrebbe sicuramente detto che la contemplazione (filosofeggiare) era qualche x

cosa che l’anima faceva da sola, mentre Aristotele dà almeno segno di volere attribuirla a vote,

come un'entità semindipendente.

La mia affermazione è quella innocua che in un qualsiasi

contesto ordinario, se A compie un’azione (nel senso ordinario), sarebbe decisamente strano,

per non dire sbagliato, sostenere che è stata l’anima di A, e non A, che l’ha compiuta.

41 1098256.

42 4 44 propria

1098b31 sgg. Cfr. A. KENNY, The Aristotelian Ethics, Oxford, 1978, pp. 203-204. 1098a17-18. Oppure, possiamo considerare questa riga parte della definizione vera e - ma solo se si può dimostrare come ciò viene giustificato nel ragionamento (v. sotto)



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uomini reali è possibilmente capace?4 Secondo, come ha messo in evidenza Ackrill,46 tale conclusione non solo non è giustificata da quanto precede («non è stato addotto nessun argomento per suggerire che un tipo di pensiero è più caratteristico dell’uomo di un altro»), ma dovrebbe in effetti esserne esclusa, se quello che si cerca è qualche cosa peculiare all'uomo; perché anche Dio contempla. Il fatto che eviti tutte queste difficoltà dà un forte sostegno all’opinione di Irwin che «l’argomento funzione vuole giustificare non la vita contemplativa in particolare ma la vita della ragione pratica»? - abbastanza forte, penso, per permettermi di adottarlo per gli scopi di questa relazione. Propongo quindi che almeno la parte principale della definizione di eudaimonia in 1.74 si riferisca all’attività della ragione pratica, cioè di una parte dell’anima, ma quella attività implicherà necessariamente l’attività cooperativa di altri aspetti dell’essere umano (la vin

sione ‘inclusiva’ di Irwin), con il risultato che Aristotele in questo

contesto riesce in effetti ad individuare come «l’attività peculiare» dell’uomo qualche cosa che è umano in modo distinto e riconoscibile. (D’altra parte non vedo nessun motivo per accettare la proposta di 4 Che questa è l'opinione di Aristotele è dimostrato per es. dalla sua trattazione generalmente sprezzante della maggioranza nella Politica (soprattutto nel Libro III). 4 J. L. ACKRILL, «Aristotle on Eudaimonia», ristampato in RorTY, Essays on Aristotle’s Ethics, p. 27. (L’interpretazione di Ackrill stesso di 1098a17-18 è confutata da Kenny, op.

cit., pp. 204-205).

4 Irwin, p. 53, n. 21. Egli stesso basa questa conclusione su due considerazioni: a) l’uso che Aristotele fa del termine rpaxtixi) al passo 109843, che secondo lui ‘probabilmente’ si riferisce all’azione nel senso ordinario, visto che viene usato «senza ulteriore preavviso o spiegazione» (l’uso di rpétis nella Politica — v. n. 40 sopra — è un uso particolare); e b) la presenza della parentesi tostov ... dravoospevov in a4-5, ‘se autentico’ («e di questo [sc. tò A6yov Èxov], c'è prima quello che ‘possiede A6yog” nel senso di obbedire alla ragione, e secondariamente quello che ce l’ha nel senso di possederla (effettivamente), cioè nell'eseguire il processo stesso del ragionare»). I commentatori hanno ripetutamente messo in discussione l'autenticità di queste parole sia sulla base del fatto che in un certo senso interrompono il senso del passo, sia perché esse rappresentano un’anticipazione non necessaria di materiale che verrà introdotto più avanti (1025b13 sgg.). Ma nessuno di questi due punti sembra decisivo contro queste pa-

role, e se si può dimostrare che la conclusione di Irwin sul ragionamento (cioè che giustifica la vita della ragione pratica) è corretta in base ad altre ragioni, come penso si possa fare, allora esse sembrano essere abbastanza al punto giusto: cfr. a7-8 eì d'Eotiv Epyov avbpwrov puxis évepyera xatà A6yov 17) dvev Àgyov... Un punto debole della posizione di Irwin è che non dice come Ariin Man for Good «The saggio mio l’altro v. questo Su 1098a17-18. intende interpretare BiblioRoma, Alberti, A. di cara a Aristotele, di sull’Etica Studi in Politics», and stotle’s Ethics polis, 1990, pp. 193-225.

4 Cioè 1098a16-17.

di tà tivi l’at sce uni che è cio to, tut un e com a tic pra vità atti all’ , nte 4 O, più precisame si che -18 a17 he rig le o son me, o ond sec 5; a4so pas al ambedue le parti dell'anima menzionate . ra) sop 46 n. la nel ato cit gio sag il (v. a tic pra e ion rag alla e ent tam riferiscono specifica

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è c' se a: im An De l de ce lu la al Irwin di leggere questo ragionamento da o e, on at Pl da o tt de o at st r se es qualche cosa qui che non possa ). to ra st mo di ha lo n no ’ i, rs ve di i in rm qualcun altro, forse in te ttra mo ia st e ch le pa ci in pr o nt me go ar l' al Possiamo ritornare ora e I NE in e el to is Ar di to en am on gi ra il tra o nt tando, che era il confro è ti en ed ec pr ne gi pa le del o op sc Lo . ca li bb pu Re in e quello di Platon la del to en am on gi ra il e nz re pa ap le te an st no no e ch re stato di dimostra ne io nz fu la del to et nc co o nic l’u n co e isc fin e ia nc mi co ea Nicomach al to et sp ri le vo te o no nt me ia mb ca a un nt se re pp ra to es qu o; e om ’u ll de modo di procedere di Platone. Una ragione per questo cambiamento e er tt me ra de si le de te to is Ar e ch o ns se nel a, sol i da rs ta en es pr ra mb se ribe eb tr po 5! Si e. nt me sa uo rt e vi gir l’a nel sta e fin il e ch za en id ev in battere, per conto di Platone, che in realtà il suo ragionamento in Repubblica I non è molto diverso: se l’anima esercita le sue vere funzioni di «governare, comandare, deliberare, eccetera», non si avranno di

conseguenza anche delle azioni? Ma in quel caso, potrebbe dire Aristotele, perché non parlare fin dall’inizio dell’agente vero e proprio, cioè la persona? Inoltre, più avanti nella Repubblica viene detto chiaramente che è una prova sufficiente che l’anima sta eseguendo bene queste sue attività se i suoi propri elementi sono nel giusto rapporto tra di loro — cioè se l’anima stessa è nel suo giusto stato.??

Però, questa spiegazione del modo di procedere nell’Etbica Nicomachea non regge non appena prendiamo in considerazione la versione Eudemiana; perché qui troviamo che Aristotele sia mette in evidenza il legame tra felicità e attività, sia segue Platone e applica il concetto di funzione all'anima. E giunto il momento, quindi, di esaminare questa versione. Essa è molto più complessa di ciascuna delle altre due, e io mi limiterò a parlarne solo a grandi linee (il che è già

50 Chiaramente non si può negare che per certi aspetti I.7 richiami il De Anima, sia nella lingua sia nel contenuto (cfr. per es. n. 39 sopra); ma non è la stessa cosa dire che l’analisi completa fatta lì da Aristotele sia veramente necessaria per il ragionamento. (Anche Cooper in Reason and Human Good in Aristotle può avere ragione a sostenere che il ragionamento di X. 7 «fa riferimento implicitamente» al De Anizza; chiaramente, però, il caso deve essere discusso separatamente per il Libro I.). 51 V. qui, pp. 33-34. 3? Cfr. (I) 351c-352a. È evidentemente parte dell’affermazione di Platone che l’uomo giusto sarà eòdaluwy anche se sottoposto alle peggiori torture (Repubblica 361c sgg., 612a sgg.) - che, da come sono descritte, gli impedirebbero per sempre di fare attivamente (rp&ttew) di nuovo qualsiasi cosa.

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abbastanza complicato). Prima farò un confronto tra questa e il ra-

gionamento della versione Nicomachea, e poi, più brevemente, met-

terò in relazione ambedue le versioni di Aristotele con il loro modello platonico. La versione Eudemiana?4 si sviluppa così. (i) I beni supremi sono nell'anima. (ii) L’arete è lo stato migliore di ogni cosa che ha una funzione ed un uso; quindi, visto che l’anima ha una funzione, il suo stato migliore sarà la (sua) arete.5 (iii) Quanto migliore lo stato, tanto

migliore la funzione corrispondente (quindi la funzione dello stato migliore sarà la funzione migliore).?? (iv) La funzione di ogni cosa è il suo scopo; quindi, poiché il suo scopo è ciò che è migliore per ciascuna cosa, la funzione è migliore dello stato corrispondente; e questo sarà vero quando la funzione di una cosa è il suo uso, come pure quando è un prodotto separato. (v) La funzione dell’arete di una cosa è la stessa di quella della cosa, eccetto per il fatto che sarà un buon esempio del suo tipo.5° (vi) La funzione dell’anima è di produrre la vita, e di questo (la sua funzione è) uso e vegliare.9 (vii) Quindi la

funzione dell’arete dell'anima (l’anima nel suo stato migliore) sarà una buona vita.9! (viii) La felicità (eudaizzonia) è il bene completo, o (il) migliore.62 (ix) Di conseguenza la felicità è una buona vita, cioè (1°)at-

tività di una buona anima (un’anima nel suo stato migliore). Oppure, più semplicemente: quello che una cosa fa (la sua funzione) nel suo stato migliore è la cosa migliore per essa; ciò che un’anima fa è di 5 Per una diversa analisi del ragionamento, v. M. Woops, Aristotle’s Eudemian Ethics,

Books I, II, e VIII, Oxford, 1982, pp. 93 sgg. Differisco da Woods in quanto considero 1219a18-28 parte del ragionamento principale: a27 {wi orovdata è la prima affermazione della poi viene che ovia), eddari ii fiv Srep , dyabév tédeov tò tori pa tost’à 8 a27-2 (cfr. definizione che , a28-34 da ficata giusti è ne versio nuova questa e ; a34-35 in i divers i termin in rmata riaffe origiquelle spiega e ripete sto piutto ma , Woods ne suppo come sse, preme nuove ce fornis non

nali (cfr. a28-29 dmAov èx toy Broxeuevwv). V. sotto. 54 1218b31-1219a39. 55 1218b32-35. 56 1218b37-1219a5. 37 1219a6-8. 58 1219a8-18. 59 1219a18-23. 60 1219a23-25. 61 1219a25-27. 62 1219a27-28, 29 (v. n. 53 sopra). tò tédeov dyabév

= tò @g tédog &yabév, che è stata

. sgg b9 18 12 o ss pa al a) ovi aru edd (= v uguagliata a tò &protov toy mpaxto 63 1219a27-28, 34-35.

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CHRISTOPHER

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hé ic po , di in Qu ). so ‘u o su il è o st ue (q produrre la vita, cioè vita attiva

ni be i ne a ov tr si io gl me il e ), mo uo l’ la felicità è ciò che è meglio (per . re io gl mi o at st o su l ne ma ni ’a ll de tà vi ti at rà dell'anima, la felicità sa co e ch al qu è tà ci li fe la hé ic po «E : ge (Poi, alla fine, Aristotele aggiun al e , ta le mp co in e ch ta le mp co a si re se es ò pu sa di completo, e la vita o tr al un in o, tt tu il è o ns se un in é ch er (p e lo stesso modo con l’aret , la ta le mp co in e ch an è to le mp co in è e ch ò ci di tà una parte), e l’attivi mco la n tà co mi or nf co ta in le mp co ta vi a un tà di vi ti at l’ rà felicità sa pleta arete»).9 A parte il modo in cui viene usato il concetto di funzione (cioè me esa mo pri un , no) uma re esse all' che sto tto piu ima ’an all applicato può rivelare tre differenze principali tra questo ragionamento e il suo equivalente nella versione Nicomachea: primo, è molto più sistematico (di qui la maggiore complessità); secondo, introduce il concetto principale di erergeia (‘attività’) in modo diverso; terzo, non viene detto esplicitamente quale #po di vita sia la funzione dell'anima. Comincerò dal terzo punto. ‘Vivere’, dice Aristotele nella versione Nicomachea, «sembra essere in comune con le piante; quello che cerchiamo è ciò che è tipico (dell’essere umano). Quindi dobbiamo escludere la vita del nutrimento e della crescita. Dopo ci sarebbe un tipo di vita a livello dei sensi; ma anche quella sembra comune a ... tutti gli animali». La versione Eudemiana dice semplicemente «Supponiamo che (la) funzione dell’anima sia la produzione della vita»; e

poi continua «e di questa l’uso e la veglia, poiché il sonno è una specie di inattività e immobilità». Precisando che la vita che è funzione 64 Metto queste righe tra parentesi non perché non siano essenziali alla definizione, ma perché sono al di fuori del raggio di questa relazione. Quello che mi interessa qui non è tanto il modo in cui Aristotele definisce l’eudaimzonia nell'EE e NE quanto il percorso per cui arriva a quelle definizioni. Per una discussione delle definizioni stesse, e delle differenze che si suppone esistano tra esse (per es. KENNY, The Aristotelian Ethics, p. 203), v. il saggio citato nella n. 47 sopra. (Il punto di vista adottato in quel saggio è, in breve, che non è necessario intendere nessuno dei due contesti come riferito a qualche cosa al di là dell’attività pratica nel senso ordinario).

65 1097b33-1098a3. 66 1219a24. 6? KENNy (op. cit., p. 199, n. 1) sostiene che tradurre 1219a24 èotw puxng Epyov tò Cv toreiv in questo modo rende assurdo il ragionamento, presumibilmente perché sembra classificare l’anima tra le cose la cui funzione è separata dalla loro attività. Ma anche se Aristotele avesse detto - come Platone - che la funzione dell'anima è la vita, o vivere, il significato sarebbe pur sempre, almeno principalmente, quello che il testo esprime così come è. Allo stesso

tempo, però, è ovvio che la vita non è il prodotto dell’anima nello stesso modo in cui la scarpa è il prodotto del calzolaio; l’anima è essa stessa una parte di ciò che essa ‘rende vivo”.

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dell’anima è una vita da svegli, si esclude, a dire il vero, quella che nella versione Nicomachea viene detta «la vita del nutrimento e della crescita». Ma questa è solo una conseguenza casuale; il vero scopo di questo cambiamento nel ragionamento è di precisare come intendere esattamente fl concetto di ‘uso’ (chresis) applicato all'anima. Da qui, Aristotele passa direttamente a concludere che «(poiché la funzione dell’anima e della sua arete sono una e la stessa cosa, la) funzione della sua arete è una buona vita», dove si intende una vita conforme alla

virtù, sia ‘etica’ sia intellettuale. Egli sembra presupporre che già sappiamo, senza alcun ragionamento, qual è il giusto tipo di vita (attiva); probabilmente il motivo è che egli parte da un’idea particolare di qual è la giusta arete, o le aretai, dell'anima. Ma questa non è una differenza sostanziale rispetto alla versione Nicomachea; perché anche lì c'è un'insolita mancanza di specificazione riguardo al #po di arete richiesto per una buona vita (pratica). Passo ora al secondo punto, riguardo al modo in cui nella versione Eudemiana viene introdotto il concetto di erergeia o attività: cioè facendo una distinzione tra le cose la cui funzione (lavoro, ergon) è un prodotto separato, e le cose la cui funzione consiste nel loro uso o impiego (chresis), come, per esempio, il vedere è la funzione della vista.98 Come viene precisato dall’esempio, ‘l’uso’ stesso implica l’attività (tranne il fatto che, nel caso dell’anima, è necessario aggiungere il corollario che ‘impiego’ significa vita da svegli - anche nel sonno l’anima è, in un certo senso, ‘in uso’, ma il sonno è (visto più propriamente come) un tipo di inattività). Apparentemente, c’è una no-

tevole differenza rispetto al modo di procedere della versione Nicomachea. Ma, ancora una volta, l'apparenza inganna. Anche nella versione Nicomachea Aristotele comincia con una serie di esempi che ilpifferaio, parte, una da funzione: di tipi due i esattamente lustrano piede?0 e mano occhio, dall'altra, calzolaio;*? e scultore, falegname (nell’Eudemiana gli esempi sono: edilizia e medicina;”! vista e conola sviluppare di invece che è differenza scenza matematica).7 L’unica

(A

8 1219a13-16.

b26 in g mp@ti e v épyo di to amen oppi ’acc sull , sopra 13 69 1097b25, 28-29. (Ma v. anche n. (25) 70 1097a30-31. 1 1219a14-16. 2 1219a16-17.

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CHRISTOPHER

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ti en id le te to is Ar a, mi de Eu a ic th ’E ll ne distinzione teoretica, come fa oè ci , ta vi di po ti un in ) mo uo l’ el (d e nt va le ri ne fica subito la funzio me e co on zi un a (f ri go te ca a nd co se a all ne ie rt pa ap e ch sa co qualche ta vi a un e nd te in e e ch ar is ec pr ve de , ti an av ù pi ’ po chresis). Poi, un a. an mi de Eu ne io rs ve a ll to de en am on gi ra l ne me co attiva - di nuovo, Secondo me; le differenze vere e sostanziali tra le due versioni l’i sul ata bas è una che : due o sol o son to en am on gi ra e del ich tel sto ari sl’e del ne zio fun la del lla que su a ltr l’a a, nim l’a del ne zio fun la del dea sere umano; e che una è molto più dettagliata e precisa dell’altra. C’è un certo legame tra questi due punti, in quanto mentre il ragionamento nell’Eudemia cerca in realtà di giustificare la ricerca della felicità in un aspetto dell’anima, il punto di partenza della Nicomachea sulla funzione dell’essere umano sembra quasi essere preso a caso, ed è sorretto solo da un paio di domande retoriche. («Se ci sono le funzioni di falegname e calzolaio, l’uomo ne è privo? Oppure proprio come ci sono chiaramente delle funzioni corrispondenti a ciascuna delle parti del corpo, non si potrebbe ipotizzare una funzione dell’uomo al di sopra e più alta di queste?»). Kenny trova anche l’idea della funzione dell’uomo «filosoficamente più sospetta»;”? e questo va d’accordo con la sua tesi generale che è sbagliato considerare l’Ethica Eudemia come il primo e meno maturo dei due trattati. In quel caso, si potrebbe considerare la versione del ragionamento nella Nicomachea come un tentativo anteriore di migliorare quanto detto da Platone, e la Eudemia come un tentativo più tardo, che riconosce che, dopo tutto, è meglio e più sicuro fondare il ragionamento su quello che le arzizze fanno in modo peculiare e adeguato. Non è ovvio, però, che Aristotele avrebbe necessariamente condiviso i moti-

vi dati da Kenny nel preferire questo modo di procedere. Kenny non dice quali siano questi motivi. Ma potrebbero avere a che fare con l’idea che in teoria è più facile vedere quello che si vuol dire quando ci si chiede quale sia ‘l’attività’ caratteristica di un aspetto o di una parte di un essere umano, piuttosto che cercare di rispondere ad una simile domanda riguardo all’essere umano nell’insieme. Nel primo caso, si potrebbe cominciare cercando di capire il ruolo di una parte o un aspetto particolare all’interno del sistema rappresentato dall’intero organismo; nel secondo, l’unica risposta possibile potrebbe essere quella di dire che c’è un'infinita varietà di cose che gli esseri umani 7 Op. cit., p. 203.

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possono fare în quanto esseri umani. Ma il vero motivo per cui Ari-

stotele comincia con l’anima nell’Ethica Eudemia non ha niente a che fare con questo; piuttosto è perché «è chiaro a tutti» che il definiendum, la felicità, sta nei beni dell'anima.” Inoltre, parlare della fun-

zione dell’anima potrebbe essere di per sé in contraddizione con la psicologia elaborata nel De Anima. Aristotele dice lì esplicitamente che non sarebbe corretto parlare dell’arizza che fa qualche cosa;” invece egli consiglia di parlare di un 4orzo che fa qualche cosa «con la sua anima», cioè grazie al fatto di avere un’anima e di essere vivo.76 Da questo punto di vista egli sembrerebbe preferire il modo di procedere della Nicomachea, non dell’Eudemia. Non sarebbe possibile dunque che la differenza tra le due versioni è che una precede il resoconto ‘scientifico’ del De Arîzza ed una lo segue? Anche se, come ho detto, la versione Nicomachea non presuppone di per sé quel resoconto, la sua esistenza potrebbe forse essere stata sufficiente a rendere Aristotele più riluttante a parlare delle anime come agenti autonomi. Questo sarebbe un presupposto troppo semplice. Abbiamo visto che nel ragionamento dell’Euderzia egli è disposto a fare affidamento, almeno per una delle premesse principali, sull’opinione generale; e non sarebbe da escludere che, allo stesso modo,

avesse deciso di basare il ragionamento su una concezione ‘non scientifica’ dell'anima. In quel caso, quel che rimane sono due varianti di un ragionamento, una delle quali (per un qualsiasi motivo) è più vicina all’originale platonico e strutturata con più precisione, mentre l’altra riflette più da vicino un’altra parte della dottrina aristotelica. (Ma a questo punto nello sviluppo degli studi aristotelici non è più necessario discutere se la vicinanza o la distanza delle idee di Aristotele da Platone non ci dice niente in sé sulla relazione che queste idee hanno tra di loro). Allo stesso tempo, ambedue le varianti aristoteliche sono 74 Soxel rdow, 1218b35. 7 De Anima 408b11 sgg. a nim l’a del ov épy un c’è («e d 353 . Rep so pas al sta hie ric 7 Platone usa la formulazione sba ivi mot i per nte lme ibi sum pre ma ), a?» dvt tà di ro alt nte nie con e zar liz rea ti che tu potres è o ess i fatt in e — so l’u e arn fic sti giu per e tel sto Ari di lla que e com gliati: egli non ha una teoria era int a nim l’a (Se a. lic ubb Rep la nel co gio in è che ca ogi col psi ria in realtà incoerente con la teo am— a son per a ver la he anc ta sen pre rap e te mor la o dop è qualche cosa che può sopravvivere che ‘tu’ il è chi ora all X ro Lib del ico log ato esc o mit bedue queste cose sono presupposte nel di o mod un di le nta ide acc e ion ens est una di più nte nie è non ‘userà’ l’anima?). Probabilmente so21 n. . Cfr ). are pot per elli colt hi, occ , alli (cav ti parlare che è più adatto agli altri casi cita

pra.

MESR (PES

CHRISTOPHER

ROWE

più rigorose di quella platonica; ambedue differiscono da questa nell’insistere ad identificare la felicità con l’attività. Se questa è una conclusione deludente, spero, che strada facendo, si sia fatta più luce sui

ragionamenti, perché questo, e non un contributo alla discussione sulla cronologia dei trattati aristotelici, è stato l’obiettivo principale di questa relazione.

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GIOVANNA CIFOLETTI

QUAESTIO SIVE AEQUATIO: LA NOZIONE DI PROBLEMA PROPOSTA NELLE REGULAE DI CARTESIO

Il secondo libro delle Regulae ad directionem ingenii si svolge come istituzione di un’algebra della quantità generale, dove quest’ultima è identificata, mediante astrazione, con la nozione di lunghezza. Molto è stato pensato e scritto, anche recentemente, sul rapporto tra il progetto dell’algebra generale e «il metodo» o tra quella e la «mathesis universalis» cui Descartes fa riferimento nella quarta Regyla. Aperta, benché ampiamente discussa, è pure la questione delle fonti matematiche, e in particolare della formazione scientifica di Descartes prima della stesura delle Regulze. Voglio qui esaminare un altro aspetto dell’argomentazione di Descartes che riguarda anch'esso la storia del pensiero matematico, cioè la trasformazione dell’idea di problema per cui il problema scientifico nella sua forma generale viene visto come un'equazione e ne acquisisce la struttura.!

Di questa trasformazione indagheremo qui in particolare tre momenti: l’uso che Descartes fece, nelle Regulae, dei tre sinonimi di

«problema»: problema, quaestio e difficultas, alcuni aspetti salienti della tradizione cinquecentesca di filosofia della matematica, e infine un primo repertorio di riferimenti alla manualistica algebrica del Cinquecento. È pertinente chiedersi se sia lecito ricondurre ad un’unica discus1 Mi risulta che, nell’ambito degli studi contemporanei, soltanto H. W. ARNDT, nel suo Methodo scientifica pertractatum. Mos geometricus und Kalkiilbegriff in der philosophischen Theorienbildung des 17.und 18. Jabrbunderts, Berlin, W. de Gruyter, 1971, pp. 38-49 abbia esplicidelne azio form tras la e e zion equa di tura strut la tra o ness il ne azio tamente preso in consider mati mate a oper sua la tutta arda rigu s arte Desc su t Arnd di one tazi trat La . lema l’idea di prob eva rifac si cui ca mati mate ne izio trad la are rmin dete di a ccup preo si non nza egue cons di e ca, Descartes all’epoca della formulazione delle Regulae.

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GIOVANNA

CIFOLETTI

an qu in ti el sc i in rm te e tr a ve ti la re e ch ti ma sione lo sviluppo delle te . ma le ob pr e in rm te al o am ui ib tr at i no e ch o to unificati dal significat o nt pu ap oè ci s, te ar sc De da i at us ma le ob pr di In realtà, i tre sinomini lo il e o, st te l ne i ss ne on rc te in à gi no so s ta ul ic ff problema, quaestio e di a to et sp ri e ch ca fi so lo fi ne io iz ad tr a all to et sp ri a ro nesso è fondato si o, ci oc pr ap te l’ en rm io gg ma ca fi ti us gi ò ci e e, tr ol In a. ic br ge quella al osc si ni io iz ad tr le el qu n co no ia es rt ca o st te do il an nt ro nf proprio co pre che l’autore stesso compie delle traslazioni di senso e di uso dei tre sinonimi. D'altra parte, un’indagine sulla nozione di problema che fosse in grado di chiarirne la portata nel testo di Descartes aprino asia es rt ro ca ie ns pe l i de tt pe as re su te et fl à ri it di il ib ss po e la bb re sai diversi tra loro, quali il dubbio e la teoria delle equazioni. Ambedue infatti venivano concepiti in termini di quaestio.? Dopo aver richiamato i principali contesti in cui i sinonimi di problema usati da Descartes possedevano un significato, esemplificandoli con degli autori cinquecenteschi, analizzeremo le occorrenze dei termini nelle Regu/ze. Attingeremo quindi ad alcune fonti cinquecentesche della tradizione algebrica, e concluderemo con una ripresa,

benché breve e assai mirata, del dibattito sull’interpretazione delle Regulae.

1. I sinonimi di problema e la loro tradizione

Aristotele aveva fatto oggetto di studio specifico la nozione di problema, articolandola nei sinonimi problema ed eròtèma (o eròtesis), cui affiancava il termine zétoimenon (0 zetema): problema, questione, la cosa da cercare. In primo luogo, egli metteva in evidenza che ciò che distingue un discorso qualunque da un ragionamento scientifico è la (buona) formulazione di ciò che si cerca (zétozizzenon). Quattro so-

no i tipi di cose cercate, che corrispondono ai quattro tipi di conoscenze: si tratta di determinare «tò oti, tò dioti, ei esti, ti esti» (Secondi Analitici, 89 b 24). Questo è quanto si può chiedere e cui si può rispondere, vale a dire che in ogni indagine si ricerca se sussista un me-

dio, oppure che cosa è il medio. Allo scopo di porre un problema cor-

2 L’eròtesis, infatti, è la forma logica dell’interrogazione dubitativa, come nel caso «l’universo è eterno oppure no?». In questo senso, il dubbio e il problema scientifico sono della stessa specie, e di conseguenza, ad esempio, il porre correttamente un dubbio è altrettanto importante che porre correttamente un problema.

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CARTESIO

rettamente? si deve scegliere il genere e la specie comune alle cose cercate (Secondi Analitici 98 a‘), e la forma del problema è «Questo attributo appartiene al genere dato?» (Topici 101 b 30), suscettibile

di risposta apofantica. Aristotele aveva cioè adottato il termine prébléma, proprio della matematica pitagorica, a caratterizzare i problemi scientifici in senso lato, e pròbléma divenne quindi ciò di cui trattano i sillogismi (Topici 100 b 17), e che può essere universale o particolare (Secondi Analitici 108 b). Inoltre, nei Topici egli distingueva tra problemi e problemi dialettici, questi ultimi tali che non è possibile dimostrare nessuna delle alternative, o che comportano un dubbio perché ci sono forti ragioni per entrambe le possibilità, come nel caso «L’universo è eterno oppure no?» (Topici 104 b). Parallelamente Aristotele usava il termine eròtérza, e il libro VIII dei Topici è dedicato all'arte di formulare questioni: pur essendo questa, infatti, un’arte tipica del dialettico, anche il filosofo (cioè colui che si dedica a una scienza) doveva farne uso per quella sorta di dialogo svolto individualmente che è l’argomentazione scientifica, o comunque nell'insegnamento. Anche riguardo alle questioni si pone dunque la distinzione tra quelle relative alla dimostrazione e quelle relative alla probabilità, e parallelamente tra la questione «sillogistica» quale è ogni questione, che per definizione assume come premessa uno dei due termini di una contraddizione, e quella «scientifica», che assume

una premessa specifica a una scienza particolare (Secondi Analitici 77 a 36) Questi passi aristotelici venivano, nel Cinquecento, correlati 3 Questo è ciò che Giorgio Colli ha voluto sottolineare nella sua versione italiana, traducendo sistematicamente problema con «formulazione di una ricerca». Questa sottolineatura ben si accorda con quanto vogliamo mostrare in Descartes, ma impedisce di vedere il nesso con la tradizione matematica. Più difficile è comprendere perché egli traduca tanto probléma che dialektikòn pròbléma con la stessa espressione «formulazione di una ricerca» (cfr. Topici 104 b, in ARISTOTELE, Opere, vol. II, Bari, Laterza, 1985, p. 15; Colli introduce questa resa

Opee, Aristotel in 10, b 47 , Analitici Primzi di o proposit a I, vol. del 2) nota nella termine del re, vol. I, Bari, Laterza, 1984. 4 «Per riuscire poi a formulare una ricerca, bisogna scegliere le dicotomie e le divisioni, voglio si se io, esemp Ad one. questi in i oggett gli tutti a e comun genere ponendo come base il aniogni ad no tenga appar ioni minaz deter quali nare esami na bisog i, animal gli no considerare fra à, totalit prima la sia quale are osserv deve si ioni, minaz deter tali e assunt volta male, e una o oggett ogni da guono conse che ioni minaz deter le siano quali e , genere al e quelle subordinat contenuto in questa totalità». (Secondi Analitici, trad. it. cit.). 5 «Se una questione (eròtéma) deduttiva è lo stesso che una proposizione che afferma la conle gono trag si quali dalle esse prem sue le ha nza scie ogni e ne, metà di una contraddizio nde ispo corr che a tific scien e tion ques una ci esser deve a allor za, scien clusioni proprie di quella za». scien alla rie prop oni lusi conc le gono trag si quali alle premesse dalle

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GIOVANNA

CIFOLETTI

a un ad e ch an ie az gr e, ch io st ae qu e per dare un significato al termin ui eq l’ me co so te in ù pi re mp se a er articolata tradizione medioevale, iit al An i nd co Se i de o ss pa il e, ar ol ic rt pa In . valente latino di pròblema i ss pa ai o at st co ac te en rm la go re va ni ve a en ci che parla degli zèto4m nme or ri te ul re la co ti ar Ad . ta ma lé ob pr dei Topici che si riferiscono ai ti ga ro er nt «i o at ic if gn si il re ea in ol tt so te l’uso di questi sinonimi, e a i de ni io uz ad tr e ni io iz ed e ov nu o er rv pa ap , ma lé éb pr e vo» del termin i al nu ma si ro me nu ne di io us ff di e la tr ol , in e le te to is Ar ta di ma Proble

oep sc di o e tr es ma a o tr og al di di a rm fo in oè a, ci at ém òt er re del gene , le de ve si me , co no , so e ci li du te to is i ar ss pa ai rò e pe ar rn to r Pe . lo i ic it al i An nd co : Se i mi e ti te nt es me qu di ar ol ic rt no pa ta at opere che tr e i Topici, e proprio queste opere furono, nel Cinquecento, poste al centro della riflessione sull’insegnamento e sul metodo della scienza. In particolare, chi volle sottolineare l'ideale dimostrativo aristotelico diede importanza ai Secondi Analitici, mentre chi, come Ramo, era

favorevole ad un’interpretazione retorica della logica e alla specificità della matematica rispetto alla logica, privilegiava i Topici nella definizione della logica e del metodo. Ciò si riflette sulla nozione di problema, in quanto solo nei Topici si tratta del problema dialettico come affrontabile in termini di mera probabilità. Di conseguenza, all’ampia rielaborazione di queste nozioni dovuta alla tradizione medioevale$ si aggiunsero i contributi dei dibattiti cinquecenteschi e l’introduzione della prospettiva di Proclo, appena riscoperto.” Si devono quindi considerare due principali tradizioni di riferimento, in questo come negli altri dibattiti cinquecenteschi sulla filosofia della matematica: Aristotele e gli aristotelismi da un lato, e Proclo dall’altro. Beninteso, ciò

non significa che le due tradizioni procedessero separatamente, anzi, 6 Esiste ovviamente una vasta tradizione medioevale di traduzioni di questi passi aristotelici, e ci limitiamo qui a ricordare due esempi che indicano una oscillazione nella traduzione: per quanto riguarda i passi dei Topici citati, mentre Boezio traduce préblémza con problema, la Translatio anonyma del XII secolo riportata in Aristoteles latinus traduce probléma con quaestio. Analogamente, per un altro passo rilevante, quello di Secondi Analitici 98 a, si trova quaestio in Gerardo da Cremona e problema in Guglielmo di Moerbecke. Su queste basi, Duns Scoto definisce problema e quaestio allo stesso modo: ciascuno di essi suppone qualcosa di certo e richiede qualcosa di dubbio. Inoltre, almeno da Abelardo in poi la trattazione logica e filosofica in generale aveva assunto la forma della guaestio, che includeva l’enunciato, gli argomenti pro, gli argomenti contra, la conclusione dell'autore e la confutazione per punti (le difficultates). ? Per la storia delle edizioni cinquecentesche del Commento al I libro degli Elementi di Euclide (tr. it. M. Timpanaro Cardini, Giardini Editore, Pisa, 1978), si consideri ad esempio G. CRAPULLI, Mathesis universalis, Roma, Edizioni dell’ Ateneo, 1969.

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esse tendono a presentarsi nello stesso autore, tanto più che la prima tradizione rappresentava più specificamente la logica, e la seconda la matematica. Riprenderemo alcuni punti seguendo i testi di autori cinquecenteschi che si occuparono della nozione di problema: nei «thesauri» di Budé e di Etienne, nelle Scholae mathematicae di Ramo, e infine nei Conimbricenses e Clavio in quanto parte dell’insegnamento ricevuto da Descartes.8 Budé scrive: «Préblema est quaestio, id est z8téma».? Egli identifica cioè esplicitamente il significato dei tre termini usati da Aristotele. Budé riprende poi un’affermazione di Aristotele relativa ai problemi: Préblema kaì prétasin idem esse Aristoteles docet in I Topicòn, differentiamque esse tantum in modo enunciandi.

In Topici 101 b 11 Aristotele precisa appunto che i fondamenti dei discorsi (/6goi) e gli argomenti dei ragionamenti (sy//ogismz0î) coincidono: infatti, i fondamenti dei discorsi sono proposizioni (protdseis), mentre gli argomenti dei ragionamenti sono problemi. Budé tuttavia non distingue ciò che era distinto in Aristotele, cioè la nozione di problema in generale, e di problema dialettico. Budé riprende invece la distinzione, tratta da Proclo, e propria in primo luogo della matematica, tra problemi e teoremi. Proclo teorizzò che mentre i teoremi sono proposizioni (distinte quindi in enunciato, dati, definizione o condizione

di possibilità,

costruzione,

dimostrazione,

conclusione)

8 Il riferimento esplicito di Descartes ai Conimbricenses si trova in AT III 185, 11-12, insieme a quello a Rubio. Che invece a La Flèche si usasse Clavio si sa in particolare dagli studi di Frangois de Dainville, tra cui: L’enseignement des mathématiques dans les Collèges Jésuites de France du XVI? au XVIII siècle, «Revue d’histoire des sciences», 7 (1954), 6-21, 109-23. Si è riscontrato che utile sarebbe anche il riferimento a Suarez, Fonseca e Toleto, ma non se ne tratterà qui. Basti comunque ricordare che Fonseca (Institutionum dialecticarum libri octo, Copropria, fa s Descarte che one distinzi la l’altro tra o suggerit aveva 1605) , Cholinus G. loniae, intelliperfecte quae o (quaesti te imperfet e perfette i question tra to, significa altro con benché , Descartes de issage d’apprent années Les SIRvEN, J. di sono nti riferime i e azione L'osserv gitur). Paris, 1928, p. 405, n. 5; p. 406, n. 1, ma la tesi è stata ripresa da L. J. Beck, The method of arisugli studi agli Quanto 1952. Press, on Clarend Oxford, Regulae, the of study Descartes: a

classiopere alle e accennar basti s, Descarte con rapporto loro il e nteschi cinquece i stotelism nce, Renaissa the in Aristotle esempio (ad Schmitt Charles Risse, Wilhelm Randall, H. J. di che Cambridge, Cambridge U. P., 1983). ola tic par in 3, 2-7 157 , nus pha Ste H. e, eva Gen e, gua lin e eca ? Cfr. Budaeus, Thesaurus gra

a , clo Pro su ne sio cus dis la ta sen pre che ni, pha Ste R. , siis Pari 8, 154 del na re l'edizione parigi

o cat bli pub ne ven clo Pro di to tes il che o dat , nde pre sor non differenza di quella del 1529. Ciò . 462 p. a 460 p. da tta tra si ma b/é prò Di a. ile Bas a da Grynaeus soltanto nel 1530,

BERE. DS

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ni io iz os op pr no so mi le ob pr i , re gu fi e ll de che concernono la natura ozi di ad l’ e, on zi ru st co la i al qu , re gu fi e ll su riguardanti le operazioni ios pp ra nt co ta es qu de en pr ri dé Bu e. on si vi ne, la sottrazione o la di il , e sa co al qu e ar ov tr di ta os op pr la me co ma le ob pr o zione spiegand il g’o ll de ra tu na la al va ti la re sa co al qu to di en am gn se in l’ me co teorema di ro Af di ro nd sa es Al i ad nt me ri fe ri e ud cl in o ss pa l de o st re getto. Il e on zi no la i tt tu no da ar gu ri e , ch ne ro ce Ci e o ni mo , Am io st sia, Temi

0 e! nn ie i Et nr . He pi em si es ro me do nu en rn , co fo ti et al ma di di proble oPr le a e te to is o Ar nt ad me ri fe ri a il rt po ri , e dé te Bu en am pi am ta ci clo. Un aspetto della trattazione di Proclo ripreso da altri autori cinquecenteschi è poi la «storia» del ruolo di questa nozione tra i matematici greci. Egli riferiva infatti che la nozione di problema era stata fatta oggetto di dispute all’interno della scuola platonica: mentre tra i platonici seguaci di Speusippo le deduzioni matematiche erano viste esclusivamente come teoremi, non come problemi, per la scuola di Menecmo le deduzioni matematiche erano da considerarsi sempre problemi, in quanto esse fanno riferimento a una costruzione. Proclo osservava poi che altre due tesi, quella di Carpus per la priorità dei problemi rispetto all'ordine, e quella di Geminus per la priorità dei teoremi rispetto alla dignità, erano compatibili e complementari. Questi punti furono ripresi da Ramo, che nelle Scholae mathematicae trattò delle questioni di filosofia della matematica suscitare dalla riscoperta di Proclo e dei classici: lo scopo di Ramo era di mostrare l’oscurità espositiva della tradizione matematica, e la sua proposta quella di riorganizzare tutta la matematica tenendo presente l’articolazione reciproca del metodo dell’insegnamento e del metodo della scoperta. In questo quadro, egli trattà della classificazione dei problemi di Proclo che, basata sul numero delle soluzioni, resterà come al-

ternativa a quella poi divenuta più celebre della Collezione matematica di Pappo, secondo cui i problemi geometrici sono piani, solidi e lineari.!! Ramo riprendeva così la valorizzazione dell’analisi geometrica greca tipica del Cinquecento, analisi intesa nella duplice accezione di procedimento dimostrativo «inverso» alla sintesi e di «tesoro dell’ana10 STEPHANI H. Thesaurus graecae linguae, Parisiis, 1572. 1! Cfr. Pappus, Mathematicae Collectiones a Federico Commandino, Pisauri, H. Concordia, 1588, liber III 20-22; liber IV 57-59.

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e

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lisi», cioè corpus di trattati geometrici orientati alla soluzione di problemi e particolarmente alla trasformazione di problemi per renderli risolubili;! l’analisi fece emergere l’aspetto euristico della matematica, e contribuì a definire l’attività del matematico come risoluzione

sistematica di problemi, o ricerca del metodo di soluzione. Se questo non incontrava il favore di Ramo, preoccupato di mantenere in primo piano l’esigenza di dare una presentazione rigorosa e pedagogicamente efficace, egli tendeva però ad assumere la concezione della matematica diffusasi con la ripresa dell’analisi, secondo cui la matematica è, nel suo complesso, più un insieme di problemi che un insieme di teoremi, e la tradizione matematica un insieme di teoremi utile a ri-

solvere problemi. Questa impostazione, che sarà poi ripresa ampiamente nel Seicento,! rendeva opportuno il richiamarsi ad autori antichi in quanto fautori della tesi che tutte le proposizioni matematiche sono da considerarsi problemi. Ramo evitava quindi la conclusione conciliatoria di Proclo, ma anzi polemizzava con lui, mettendo in evi-

denza come la distinzione tra problemi e teoremi non fosse che una forzatura scolastica. Si tratta qui infatti proprio della questione di stile che più preoccupava i filosofi della matematica: la compatibilità del modello di rigore presente in Euclide con quello proposto da Aristotele. Come Ramo chiarisce precedentemente nel testo, Proclo aveva infatti sostenuto che Euclide faceva uso di tutti i generi di quaestio: «Quaerit enim an est, quid est, quale quid est, propter quid est». E Ramo a questo risponde: At, Procle diligentissime, Euclides nusquam quaerit an sit, aut quid sit linea, superficies et corpus, sed sine quaestione docet et definit: problemata quidem quaestiones quaedam videntur esse, quomodo fabrica constituenda sit, sed vanitas ista mox apparebit: et tamen problemata ista affirmant non dubitant.!4

Proclo inoltre aveva sottolineato un aspetto dei problemi (euclia! ric met geo ek gre at k loo r the Ano v, one MaH S. M. di olo tic ’ar all 12 Mi riferisco qui analysis, «Archive for history of exact sciences», 5 (1968/69). «La ca: logi sive o ati put Com la del te uen seg so pas il , bes Hob di o, mpi 13 Si ricordi ad ese ) età pri pro la del a erc ric la è ri met geo i per e (ch a rem scienza è in funzione della potenza; il teo ita itu ist fu , ine inf , one azi cul spe i ogn ; ire tru cos del in funzione del problema, cioè dell’arte

di a cur a , ità ess nec rtà, libe , ica Log , bes Hob mas Tho da per qualche azione o lavoro». (Trad. it.

Arrigo Pacchi, Milano, Principato, 1969, p. 31. 83. p. , 69 15 , us pi co is Ep E. ae, ile Bas ri, lib um ar ic at em th 14 Perri RAMI Scholarum ma

ici

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ti is br ge al i gl a tr a nz na so ri de an gr rà dei) ripreso da Ramo e che av co me co ma le ob pr di a de ’i ll de cinquecenteschi e Descartes. Si tratta

zè ò (t a at rc ce sa co a un e n) no me dé de ò (t stituito da una cosa data

toiumenon).

oi su i ne , ma le ob pr e a em or te a tr e on zi in st di a Clavio trattava dell ma di o rs co al ne io uz od tr in a, en om eg ol pr In disciplinas mathematicas me lu vo o im pr l ne a ov tr si e ch e, id cl Eu a di er op l’ al to ca di de tematica as e cl on zi in st di a ll e de sc ri fe ri o, og lu o im pr in , io av Cl a. er degli Op iru st co di de ie ch si i cu , in i» em bl ro «p i ca ti ma te sica: esistono in ma re, e inoltre i «teoremi», in cui si indaga la qualità di qualcosa. Tuttavia, a differenza di quanto avviene nel testo di Proclo, ambedue sono opr di pi ti me é co ch e zi on an zi ra st mo di di pi ti me co si te ma in ri pp da to in an lt so n no ca gi a lo at rt po a un o ha ss pa i, il tt fe ef e. In on zi si po senso aristotelico lato, ma anche in senso più ristretto, poiché rimanda alla discussione ‘de certitudine mathematicarum’ propria di quel periodo.!6 Due di problema: e quello dei ambedue le

infatti sono, secondo Clavio, i contesti entro cui si parla quello dei Matematici, che seguono la definizione data, Dialettici, che chiamano problema quella quaestio di cui parti sono probabili. Ma, afferma Clavio, va notata la

grande differenza tra il problema dialettico e il problema matematico: l’uno infatti conduce alla probabilità, l’altro alla certezza. A conclusione dell’argomento, Clavio formula di nuovo la distinzione: Itaque ut uno verbo dicam, quaesitum illud Mathematicum construere » 15 CRISTOPHORI CLAVII BAMBERGENSIS

Operum mathematicorum tomus primus, Mogun-

tiae, H. Hierat, 1611, p. 8.

16 E possiamo riprendere qui solo per cenni, nonostante il fatto che si trattasse di un riferimento importante per i tre autori presi in considerazione. Piccolomini sosteneva, contro Proclo, che le dimostrazioni matematiche non spiegano le cause, e in questo senso non seguono l’ideale aristotelico. Si noti che ciò è in stretto rapporto con la nozione di quaestio, perché appunto Piccolomini sostiene che la matematica non è in grado di rispondere alla questione del «propter quid», tra i quattro tipi di questione. La certezza delle dimostrazioni matematiche, tuttavia, sostenuta non da Aristotele ma da Averroè, è riaffermata da Piccolomini in

quanto garantita dal fatto che gli oggetti della matematica sono ottenuti per astrazione. Oltre allo stesso Alessandro Piccolomini, Commentarium de certitudine matbematicarum disciplinarum, Romae, B. Asulamus, 1547, intervenne FRANcESco BAROZZI con Opusculumz, in quo una

Oratio et duae Quaestiones: altera de certitudine, et altera de medietate Mathematicarum continentur, Patavi, E.G.P., 1560; inoltre è Commentarii Collegi Coniîmbricensis e l’allievo di Clavio GiusepPE BIANCANI, con De natura scientiarum mathematicarum tractatio, Bologna, B. Cochius 1615. Della questione hanno trattato tra l’altro GIovANNI CRAPULLI, op. cit., 1969, cap. Il e PETER DEAR in Mersenne and the learning of the schools, Cornell U. P., Ithaca, 1988, cap.

IV. Si vedano inoltre i vari saggi in Aristotelismo veneto e scienza moderna (Atti del Centro per

la tradizione aristotelica nel Veneto, a cura di L. Oliveri), Padova, Antenore, 1983.

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aliquid docens, cuius etiam oppositum potest effici, Problema; illud vero, quod nihil docet construere, et cuius pars opposita perpetuo falsa existit, Theorema appellatur. (op. cit., p. 8). Pi

I due termini indicano dunque, a questo punto, non tanto due proposizioni, come per Proclo, o due dimostrazioni, come suggeriva l’inizio del passo, ma proprio due quaesita, ciò che appare come concessione alla tesi che la matematica sia costituita da problemi, sia pur da distinguere tra tendenti a una costruzione o a una dimostrazione. Interessante è inoltre notare che, facendo riferimento soltanto al problema dialettico, Clavio non si richiami all’accezione di problema scientifico aristotelico, ma vi sostituisca semplicemente il problema dei matematici, la cui contraria è sempre falsa. Si tratta di un’assimilazione legittima se interpretata alla luce della già citata tesi aristotelica sulle questioni scientifiche (Secondi Analitici 77 a 36). I commenti aristotelici cinquecenteschi avevano anche un’altra ragione per dare rilievo alla nozione di problema: non si trattava, infatti, soltanto di trovare un modello di rigore, o di distinguere tra teoremi e problemi, ma soprattutto occorreva conferire di nuovo alla ricerca dei medii dei sillogismi, cioè all’inventio, l’importanza che essa ha nell’opera aristotelica: precisamente nel secondo libro dei Secondi Analitici, che tratta della ricerca dei «medii», e nei Topici. Si tratta beninteso di temi connessi, poiché il movimento ascendente dell’inventio non può di per sé portare al rigore del sillogismo della prima figura, ma soltanto alla probabilità, al plausibile.!? In questo senso Rubio!5 scrive: Propria inveniendi via est quaestio, vel interrogatio: merito ergo interrogationum, vel quaestionum numerus primo loco ponitur, ut viam teneamus,

per quam medium invenire possumus.

17 Su questi aspetti si veda, oltre ai classici studi sull’umanesimo, anche il più recente in ctic, diale nist huma new the and icism scept emic acad : Valla nzo Lore saggio di Lisa JARDINE, The skeptical tradition, ed. M. Burnyeat, Berkeley, California U. P., 1983. Si noti che lo stes, 1548 del nes rsio adve Anim cae oteli Arist delle tolo capi un stio quae alla so Ramo aveva dedicato quan in ata tratt va veni tio quaes la nque comu 1543 del e zion 'edi nell Già ny. Roig Lutetiae, J. to formulazione corretta del dubbio che dà origine alla inventio. ciLa he. Flèc La a iato stud re auto e com tes car Des da to cita sso h'e anc io, Rub 18 Antonio

Cocam, logi lis tote Aris sam ver uni in ii tar men com sive na ica mex ca Logi di tazione è dalla p. 695 loniae Agrippinae, A. Mylii, 1605.

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ol cc ra , ci pi To ai to en mm co l ne e ar ol ic I Conimbricenses,!? in part ad , ti en ed ec pr ri to ta en mm co da se es pr gono alcune delle posizioni es i cu in ci pi To i de o ss pa l de ne io az et pr er esempio a proposito dell’int ro me nu al le ua ug è mi le ob pr i de ro me nu il Aristotele afferma che ozi in st di la no do en pr ri si es e tr ol s. In ne io it os op pr e ll de delle protdseis, e ch no an ca fi si as cl e , ch mi le ob pr i, o on ti es qu di e rm ne in quattro fo per disciplina: tres partes consequentes problema enim problemata dicuntur moralia, quaedam pertinent ad Theoreticas, ticas; alia denique sunt logica, quae

dividunt in tres quasi species; quaedam quia ad scientias practicas conducunt; Physicam, Metaphysicam, et Mathemapropterea adminiculantia, id est, opitu-

lantia vocantur (p. 749).

I Conimbricenses intervennero anche nella disputa De certitudine mathematicarum, prendendo una posizione simile a quella di Piccolomini. Se dunque i Conimbricenses non attribuivano alle dimostrazioni matematiche le spiegazioni causali, essi continuavano tuttavia a considerare le matematiche tra le scienze proprio in quanto i loro problemi sono problemi teoretici. 2. Le accezioni cartesiane: uno studio lessicale

Si tratta ora di osservare da vicino l’uso che di questi termini fece Descartes, ricorrendo all’Index des Regulae.?° * 2.a PROBLEMA

Il testo delle Regulze contiene quattro occorrenze della voce problema, e riporteremo quindi per esteso i passi relativi. Il primo di essi indica il fine delle Regulae: preparare l’ingenium a risolvere tutti i problemi. Nel riferimento alle demzonstrationes da imparare si può riconoscere inoltre l'attribuzione di un valore superiore ai problemi 1° Commentarii Collegii Conimbricensis e Societate Iesu: In universam dialecticam Aristotelis Stagiritae, Coloniae Agrippinae, B. Gualterius, 1611, 160.

20 J. R. ARMOGATHE, J. L. MArION, Index des Regulae ad directionem ingenii de René Descartes avec des listes de lecons et conjectures établies par G. Crapulli, Roma, Edizioni Dell'Ateneo, 1976.

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rispetto ai teoremi che, come sopra si accennava, era tipico della ri-

presa dell'analisi greca, ma anche della tradizione algebrica:

neque enim unquam, verbi gratia, Mathematici evaderemus, licet omnes aliorum demonstrationes memoria teneamus, nisi simus etiam ingenio apti ad quaecumque problemata resolvenda (Regula VII, Crapulli2! 7,20; AT

367,16).

Che d’altra parte Descartes abbia presente precisamente questa accezione di problema propria dell’analisi greca è dimostrato dal passo che include l’occorrenza seguente: satis enim advertimus veteres Geometras analysi quadam usos fuisse, quam ad omnium problematum resolutionem extendebant, licet eamdem posteris inviderint. (Regu/a IV, Crapulli 12,2; AT 373,12).

Tuttavia, Descartes era ben risoluto a non limitarsi ai problemi astrattamente matematici, che considerava soltanto esempi semplici di problemi scientifici: Neque enim magni facerem has regulas, si non sufficerent nisi ad inania problemata resolvenda, quibus Logistae vel Geometrae otiosi ludere consueverunt; sic enim me nihil aliud praestitisse crederem, quam quod fortasse subtilius nugarer quam caeteri. (ibidem).

L’altra occorrenza è nella Regula XIV: in essa si chiarisce il rapporto con i problemi aritmetici e geometrici, che cioè le regole sono orientate ad una conoscenza più importante, e che quindi i problemi matematici debbano essere studiati come propedeutici a questa conoscenza. Nel passo si fa uso anche del termine quaestio, ma come diretto sinonimo di problema: Optaremus hoc in loco lectorem nancisci Arithmeticae et Geometriae studiis propensum, etiamsi in iisdem nondum versatum esse malim, quam vulgari more eruditum: usus enim regularum, quasi hic tradam, in illis addiscendis, ad quod omnino sufficit, longe facilior est, quam in ullo alio genere Regu , TES CAR DES É REN in ina pag a dell e zion dica l’in e, zion cita ogni per qui, 21 Daremo ianda holl ion vers la avec ulli Crap ni van Gio par li étab ique crit e text lae ad directionem ingenii, et M ApA di sica clas e zion ’edi nell he anc ed , 1966 off, Nijh se du XVII* siècle, La Haye, M. , tion enta prés le vel Nou y, ner Tan P. et m Ada Ch. par iées publ TANNERY, Oeuvres de Descartes,

t. , 974 4-1 196 Vrin s, Pari , ique ntif Scie che her Rec la de al ion Nat en co-édition avec le Centre

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nue eq ns co am ti en pi sa em or ti al ad a nt ta t es quaestionum; huiusque utilitas ma r te op pr n no i od th me e ra st no em rt dam, ut non verear dicere, hanc pa s iu hu um nt ta re fe ec ha us ti po d se , am nt ve in se thematica problemata fuis . 5) 2, 44 AT ; ,5 63 li ul ap Cr V, XI a ul eg (R . da en sc excolendae gratia esse addi

arel in re mp se s te ar sc De da o at us è a» em bl ro «p In conclusione, la o tt tu zi an i no r pe ma ia ch ri e in rm te to es qu Se zione alla Logistica. Isa en ic yt al An m te Ar In suo l ne se us od tr in e èt logistica speciosa che Vi s te ar sc De sce eri rif si cui na li ip sc di la ), 91 15 er ay tt goge (Tours, J. Me n co e on si es nn co in ta rui ost ric ere ess ò pu e ch , ria sto a ng lu ù ha una pi si er iv un di e rt pa a da br ge al di ti tes ne di io uz od pr la si del er nd pa es l’ tari francesi nella seconda metà del Cinquecento. Benché poco si sappia della diffusione dell’opera di Viète prima delle pubblicazioni di versioni e riduzioni di Viète degli anni ’30, sembra che l’eco dell’opera del matematico non fosse ancora tale da trasformare l’«agenda» della disciplina, e parallelamente, non ci sono documenti che dimostrino la conoscenza di Viète da parte di Descartes prima di tali anni. Una supposizione ragionevolmente positiva sembra essere quella che, già formatosi sulla tradizione algebrica parigina e su Clavio, dopo aver sentito parlare dell’opera di Viète,2 Descartes abbia tentato di ricostruirne l’essenziale,?? e solo successivamente abbia veramente studiato tale opera.24 Che d’altra parte Descartes non potesse conta22 Oltre all’Isagoge, erano state pubblicate altre opere di Viète che comportavano non solo l’applicazione dell’algebra a problemi geometrici, ma anche un uso molto sviluppato della teoria delle equazioni; nel 1624 era apparso a Parigi anche il De aequationum recogriitione et emendatione tractatus duo, Parisiis, J. Laquehay, 1615. La trasmissione di Viète è, comunque, ancora un problema aperto, e non si sa quindi quanto gli stessi matematici parigini che Descartes frequentò immediatamente prima di scrivere le Regulze (tra il 1625 e il 1628) conoscessero queste opere. Si sa invece che un esponente di questo gruppo, Pierre Hérigone, pub-

blicò un testo che incorporava l’algebra di Viète soltanto nel 1642, cioè dopo le pubblicazioni principali su Viète (traduzioni e semplificazioni) dei primi anni Trenta. 23 Seguendo così il proprio suggerimento per acquisire sagacia, indicato nella Regula X.

24 Nel primo volume di AT, Correspondance, p. 477, si trova una lettera di Descartes a Mersenne della «fin décembre» 1637 nella quale Descartes difende l’originalità della sua Géométrie rispetto all'opera di Viète: qui Descartes si riferisce esplicitamente al De emendatione aequationum. Questa lettera di Descartes si colloca cioè all’inizio della polemica con Beaugrand (1638) per l’accusa di plagio rispetto a Viète: Descartes qui afferma di aver cominciato dove Viète aveva terminato, specificando però anche di non aver mai tanto letto Viète che in quei giorni, per verificare la portata delle accuse: «Et ainsi i'ay commencé où il avait acheué; ce que jay fait toutesfois sans y penser, car i’ay plus feililleté Viete depuis que i’ay receu vostre derniere, que ie n’auois iamais fait auparavant, l’ayant trouué icy par hazard entre les

mains d’vn de mes amis; & entre nous ie ne trouve pas qu'il en ait tant sceu que ie pensois, nonobstant qu’il fust fort habile». (AT, Correspondance, vol. I, pp. 279-280. Si veda anche la lettera di Descartes a Mersenne del 20 febbraio 1639, in AT, Correspondance, vol. II, p. 526)

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re, riguardo all’«algebra simbolica», su un autore precedente, è chiaro dalla sua insistenza sulla sostituzione delle lettere ai numeri come aspetto in cui prende le distanze dalla tradizione logistica (Regu/a IV, Crapulli 14,27; AT 377,3). Questo appare non solo nella «arcaica» Regula IV,? ma ancora più chiaramente nella Regula XVI, dove si ha un'indicazione precisa su che cosa Descartes intendesse per Logistica. Egli scrive infatti: primo advertendum est, Logistas consuevisse singulas magnitudines per plures unitates, sive per aliquem numerum designare, nos autem hoc in loco non minus abstrahere ab ipsis numeris, quam paulo ante a figuris Geometricis, vel quavis alia re. Quod agimus, tum ut longae et superfluae supputationis taedium vitemus, tum praecipue, ut partes subiecti, quae ad difficultatis naturam pertinent, maneant semper distinctae, neque numeris inutilibus involvantur: ut si quaeratur basis trianguli rectanguli, cuius latera data sint 9 & 12, dicet Logista illam esse V225 vel 15; nos vero pro 9 & 12 ponemus a & b, inveniemusque basim esse Va? + b2, manebuntque distinctae illae duae partes a? & b?, quae in numero sunt confusae. (Crapulli 73,11-23; AT 455456).

Non entreremo qui nella discussione dettagliata di quale notazione Descartes abbia adottato,?9 salvo rilevare almeno che essa riprende elementi tratti dalla tradizione francese da Scheubel a Viète, e osser-

vare che si tratta di una critica e di modifiche all’interno di una tradizione. Il termine, presente già in Platone?” fu applicato nel Cinquecento all’algebra, come denominazione che sottolineava l’appartenenza di quest'arte alla tradizione classica: così nell’opera omonima di Jean Borrel, e anche nel Lexicon di Dasypodius: 25 Schuster ha dimostrato infatti che la Regu/a IV appartiene alla prima stesura delle Regulae (1619), cui seguì immediatamente la composizione della prima parte del trattato, fino alla Regula 11. Le altre sarebbero stato composte tra il 1626 e il 1628, e riflettono un’esperienza già matura nei problemi scientifici affrontati dal circolo di Mersenne, e condividono con questo un intento apologetico. Cfr. JoHN SCHUSTER, «Descartes” mathesis universalis: 161928», in S. GauKROGER, Descartes. Philosophy, Mathematics and Physics, Brighton, Harvester, 1980. 26 Per questo si veda la nota 6, di Pierre Costabel, alla Regula XVI, in: RENÉ DESCAR-

tes, Regles utiles et claires pour la direction de l’esprit en la recherche de la vérité, par Jean-Luc Marion, La Haye, M. Nijhoff, 1977. en ell «Qu a, ebr Alg der g hun ste Ent die und ik ist Log he isc ech 2? Cfr. Jacos KLEN, Die gri vol. n, die Stu B: . Abt », sik Phy und e omi ron Ast k, ati hem Mat und Studien zur Geschichte der

orithe and t ugh tho cal ati hem mat ek Gre e, les ing d. tra , 36) (19 3, fasc. 1 (Berlin, 1934), fasc. 2

gin of algebra, Cambridge MA, M.I.T. Press, 1966.

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3 ( m. ru to na mi no de m ru ro me nu io Logistica est scientia, aut contemplat

te al et ne io it os mp co t fi ae qu m ne Logistica quoque dividitur in supputatio ram quae fit resolutione.?8

an fr a br ge al l’ e er nd te in ve de si i In conclusione, per Logistica qu ma te en lm ia ec sp ta pa up il sv o, nt ce ue nq cese della seconda metà del Ci le ce la n a co mm ra og pr il zò iz et nt si ne e ch e, èt non unicamente da Vi o ic if ec sp to es qu a to an . Qu e» er lv so ma le ob pr n m no bre frase «Nullu e ll ne e lt vo ù o pi es pr ri e en vi e a, ch ic st gi lo a ll ne de io iz ad tr a topos dell a un dà ? ne o? an rd Ca o, pi em es ad à, gi e ch to an lt ò so er rd co ri e, Regula n Va e in ar ol ic rt pa co ’e un a ov tr e èt Vi di le ro pa le n co , e ne versio Schooten.3° Descartes stesso parla con ironia dell’uso vietiano di questo fopos in una lettera a Mersenne del 1632.?! 2.b QUuAESTIO

La struttura delle Regulae ad directionem ingenii prevede che le prime dodici riguardino le proposizioni semplici, e le altre (che avreb28 Conrapus DasyPopius, Lexicon mathematicum, Argentorati, N. Wyriot, 1579, p. 1.

29 GrroLaMo CARDANO, Ars magna, cap. 1. Cfr. ad esempio Hieronymi Cardani Mediolanensis philosophi ac medici celeberrimi operum tomus quartus, quo continentur arithmetica, geometrica, musica, Lugduni, J. A. Huguetan & M. A. Ravaud, 1663, p. 222: «Cum omnem humanam subtilitatem, omnis ingenii mortalis ars haec superet, donum profecto coeleste, experimentum autem virtutis animorum, atque adeo illistre (sic), ut qui hanc attigerit, nihil non intelligere posse se credat». 30 Si veda in particolare la postfazione all'edizione delle opere di Viète, (Francisci*Vietae. Opera mathematica. In unum volumen congesta, atque recognita. Opera atque studio Francisci è Schooten Leidensis, Matheseos Professoris, Lugduni Batavorum, Ex Officina Bonaventurae et

Abrahami Elzeviriorum, 1646) pp. 545-546 In Isagogen. In essa Schooten precisa che il motto «Nullum non problema solvere» si debba intendere come «Omne in quo de quantitatum aequalitate vel proportione inquiritur, problema utcunque solvere». La teoria delle equazioni della Géométrie di Descartes ha dato un nuovo senso al motto che Viète aveva formulato in relazione alla sua teoria delle equazioni. 31 Si tratta della lettera del 3 maggio 1632: «Je vous remercie du livre d’Analyse que vous m’avez envoyé; mais entre nous, je ne vois pas qu'il soit de grande utilité, ny que personne puisse apprendre en le lisant la fagon, ie ne dis pas de nullum non problema solvere, mais de soudre aucun probleme, tant puisse -t- il estre facile. (...) le problème de Pappus, car il faut bien aller au delà des sections coniques et des lieux solides, pour le resoudre en tout nombre de lignes données, aussi que le doit resoudre un homme qui se vante de nullum non problema solvere, & que ie pense l’avoir resolu». (AT I,244). Secondo gli editori, l'ironia è rivolta a Beaugrand, e il libro di analisi è la sua versione e commento dell’Isagoge di Viète (Patis, 1631). Un accostamento tra alcuni aspetti dell’opera di Viète e alcuni passi delle Regulae è stato recentemente compiuto in: M. Tamborini, «Tematiche algebriche vietiane nelle ‘Regulae’ e nel primo libro della ‘Géométrie’ di Descartes, in Miscellanea secentesca. Saggi su Descartes, Fabri, White, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1987.

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bero dovuto essere ventiquattro) trattino delle quaestio. In prima istanza, si deve quindi intendere per quaestio una proposizione che è la composizione di proposizioni semplici e esprime la composizione di idee semplici. La prima parte deve essere dunque considerata propedeutica alle due relative alle questioni, anche se di queste la seconda, che avrebbe dovuto prendere in considerazione le questioni non immediatamente riconducibili a quelle algebriche o geometriche, non fu mai scritta. Anche nelle due parti esistenti, comunque, la nozione di questione ha grande rilevanza: poiché qui cerchiamo di argomentare la tesi secondo cui la nozione di quaestio viene rifondata e posta al centro della riflessione delle Regu/ze, non è forse inutile riferire che secondo l’Index des Regulae il testo contiene ben 90 occorrenze del verbo quaero, e 58 occorrenze di quaestio: si tratta cioè di un verbo e di un sostantivo tra i più frequenti in assoluto. Se ciò non può essere all’origine di eccessive deduzioni, questo fatto sembra comunque confermare che si tratti di un tema non minore, anche se meno studiato. Prima di procedere al raggruppamento delle accezioni del termine quaestio, esamineremo il passo in cui Descartes dà un esempio concreto di «quaestio intesa perfettamente», cioè di quel tipo di questioni che possono più facilmente ricondursi alle quaestiones perfectae dell’aritmetica e della geometria.5? Descartes afferma che in ogni questione, intesa perfettamente o no,?3 si ha 1) qualcosa di ignoto; 2) quel qualcosa di ignoto deve essere designato in qualche modo; 3) esso deve inoltre essere designato mediante qualcosa di noto. Una questione perfettamente intesa è inoltre più determinata:?* si sa infatti distintamente da che cosa riconoscere la cosa ignota, che cosa sia sufficiente a trovarla, e in che modo si può dimostrare l’interdipendenza tra le due cose. Le prime Denota imperfette, questioni alle anche comuni caratteristiche sono scartes, come quando si chiede, diremmo noi in astratto, quale sia la natura del magnete. Perché la questione sia perfettamente compresa 32 Beck diede un’analisi di questo passo, e l’arricchì di un ulteriore esempio tratto dalla a. citat già , tale amen fond a oper sua nella » lems prob of tion solu «The Dioptrigue nel capitolo sto. conte te eren diff to ques in alisi un'an re opor ripr o rtun oppo via Appare tutta 33 Cfr. Regula XIII, Crapulli p. 54, AT 430,17. , ere pon tum tan s illa nos r, ntu igu ell int te fec per e qua es ion est qua er int 34 «Notandum est, i, osc agn sit pos tur eri qua d quo id nis sig bus qui pe, nem s: imu in quibus tria distincte percip sit, dum ban pro o mod quo et us; eam deb re uce ded d illu cum accurret; quid sit praecise, ex quo , XII a gul (Re . to» uta imm o ali , ari mut sit pos e ion rat la illa ab invicem ita pendere, ut unum nul Crapulli, p. 73, AT p. 429,13).

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in a si o tt tu e ch do mo in a, at in rm te de bisognerà dunque che essa sia af ò pu si sa co he «c ra lo al rà sa a st po cluso nei dati. La questione ben lGi di i nt me ri pe es i gl da e ir rt pa a e et gn ma fermare della natura del so es st s te ar sc De e ch te an ss re te in è Ed ». o? an si e ch si bert, veri o fal o st to ut pi ma , le ta en im er sp è n no e on ti es qu la al precisi che il vincolo sste e on zi lu so a ll de à it il ib ss po di ni io iz nd co le e consista nello stabilir a un e di on zi du ri La 35 e. id cl Eu di i em or te i r s pe mò is or di il sa, come a tr to or pp o ra un rt po op un a ed it gn co in l’ a e tr on zi ua questione all’eq te ma oic cn e te on ti es qu a o un nt ta n no di in qu re pa ap e te no grandezz matica, ma piuttosto una presa di posizione rispetto alla dialettica sillogistica e in favore di una generalizzazione della teorizzazione già presente in algebra. In altri termini, e anche in relazione a quanto visto nei passi relativi a «problema», voglio sostenere che quelli che vengono considerati i contributi più rilevanti di Descartes all’algebra,56 che possono riassumersi nella fondazione di un’algebra della geometria, non sarebbero sufficienti a caratterizzare il punto di vista di Descartes, cioè il ruolo assunto dall’algebra nel suo pensiero. Sostituitasi alla logica aristotelica, l’algebra potrà poi permettere di formulare problemi in ogni scienza: Descartes infatti, già nelle prime Regulae, precisa che i problemi dell’aritmetica e della geometria non sono che esempi semplici di applicazione del suo metodo. Infatti, malgrado tutta l’importanza attribuita da Descartes al semplice, essi non devono essere studiati che come primi esercizi del metodo.?” La quaestio viene definita nel modo seguente, dopo più di quaranta occorrenze del termine: e DI

Intelligimus autem per quaestiones, illa omnia in quibus reperitur verum vel falsum: quarum diversa genera enumerandi sunt ad determinandum, ® L’analogia è mia: si veda ad esempio il già citato articolo di Mahoney sull’analisi greca. 36 Cioè il miglioramento della notazione, il superamento del principio di omogeneità mediante la definizione dell’unità, la stessa riduzione dei problemi geometrici a problemi algebrici mediante la riduzione di ogni quantità alla lunghezza. 37 Oltre alla citazione precedente e alle osservazioni a proposito di «problema», si può ricordare la conclusione della Regula XII, dopo la definizione di quaestio perfettamente intesa: «Cujusmodi quaestiones, quia abstractae sunt ut plurimum, et fere tantum in Arithmeticis vel Geometricis occurrunt, parum utiles videbuntur imperitis; moneo tamen in hac arte addiscenda diutius versari debere et exercere illos, qui posteriorum hujus methodi partem, in qua de alijs omnibus tractamus, perfecte cupiant possidere.», ciò che sottolinea come il trattato completo sia orientato alle ultime dodici regulae, dedicate alle questioni imperfettamente comprese, che appartengono in primo luogo alla matematica ma non all’aritmetica o alla geometria, bensì alle «scientiae mediae», o addirittura alla filosofia naturale.

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quid circa unamquamque praestare valeamus. (Rega XIII, Crapulli 56,3;

AT 432,13)

Questo sembra sottolineare il ruolo della quaestio in una nuova logica, ciò che viene confermato dal seguito del passo: Iamiam diximus, in solo intuitu rerum, sive simplicium, sive copulatarum, falsitatem esse non posse; neque etiam hoc sensu quaestiones appellantur, sed nomen istud acquirunt, statim atque de iisdem iudicium aliquod determinatum ferre deliberamus.

In effetti, proprio di logica si tratta, poiché quaestio trae origine dalla distinzione rispetto alle proposizioni semplici: Caeterum, ne quem forte lateat praeceptorum nostrorum catenatio, dividimus quidquid cognosci potest in propositiones simplices et quaestiones. Ad propositiones simplices non alia praecepta tradimus, quam quae vim cognoscendi praeparant ad obiecta quaevis distinctius intuenda et sagacius perscrutanda, quoniam hae sponte occurrere debent, nec quaeri possunt; quod in duodecim prioribus praeceptis complexi sumus, ac in quibus nos ea omnia exhibuisse existimamus, quae rationis usum aliquomodo faciliorem reddere posse arbitramur. (Regula XII, Crapulli 53,9; AT 428,21).

La questione perfettamente intesa è cioè quella in cui il rapporto o meglio la composizione tra proposizioni semplici è distinta e determinata. Il caso della natura del magnete torna quindi a proposito, e la teoria di Descartes in materia ci è rivelata da un passo precedente della Regula XII, che è fondamentale per il nostro argomento, e dove tra l’altro «difficultas» viene usato in alternativa a «quaestio»: Colligitur tertio, omnem humanam scientiam in hoc uno consistere, ut distincte videamus, quomodo naturae istae simplices ad compositionem aliarum rerum simul concurrant.

Quod perutile est annotare; nam quoties ali-

ti incer e, limin in nt haere s omne fere , nitur propo da inan exam s culta diffi qua esse um rend quae rati et ere, praeb ant debe em ment ibus ation cogit us quib novum aliquod genus entis sibi prius ignotum. (Regu/la XII, Crapulli 52,3; AT 427,3). rem a qui us, tin pro illi , ura nat is net mag sit d qui r atu pet si «Ut : con 38 Il testo prosegue s, nte ove rem mum ani t sun tia den evi e qua s ibu omn iis ab r, ntu ura arduam et difficilem esse aug sacau ne ina per te for um utr ant ect exp i vag et t, eumdem ad difficillima quaeque convertun nemag in l nihi t, ita cog qui Sed s. uru ert rep sit i nov rum multarum spatium oberrando aliquid

innon is, not se per et s uri nat dam bus qui us cib pli sim te posse cognosci, quod non constet ex

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, le te to is Ar ad to et sp ri a pr so to Qui si chiarisce quanto anticipa e io st ae qu a ll de tà li ra nt ce la fo cioè che Descartes riprende dal Filoso ca si as cl a er ni ma la al a iv at rn te al ta la co ti ar a la rafforza elaborando un e ch ue nq du ve ri sc s te ar sc De . ma le ob di porre scientificamente un pr ti en di re ne ge un e ar ov tr r ve do di e ed cr e on chi si propone una questi ra tu na la a si e al qu de ie ch si co ti et al Di un do an finora ignoto. Così qu e lg vo ), si e e» ic pl em i «s nd ui (q o vi ov è e ch ò a ci ic nt me di e, et del magn le a tr lo ar ov tr si di do an tt , pe mo as si is il ic ff di è e ch ò alla ricerca di ci o e st ch po up es pr l e da ir rt pa di ce ve e in on op s pr te ar molte cause. Desc del magnete non si possa conoscere nulla se non una ignota combinaze en ri pe es di le e in er qu li og cc ra di , e te no à ci gi li mp re se tu na e di on zi i l at da oc ov i pr tt fe ef i za gl en id no ev in an er tt me se e. Es et gn ma l su magnete, e poiché questi effetti saranno riconducibili a un certo numero di cause semplici, si potrà dire di conoscere la natura del magnete in quanto composizione di quelle nature semplici. Si è visto come Descartes abbia sottolineato l’importanza dei temi trattati all’interno dell'impresa scientifica, anzitutto definendo le quaestiones come «illa omnia in quibus reperitur verum vel falsum», e così pure nelle citazioni seguenti, facendo uso di espressioni (di chiaro riferimento aristotelico) quali «quidquid cognosci potest» e «omnem humanam scientiam». In questo modo Descartes indica la consapevolezza che il rivolgimento provocato dall’algebra nell’ambito delle procedure scientifiche non riguardi soltanto la possibilità di risolvere tutti i problemi, ma anche di porli in modo da poterli risolvere.?? Sullo stesso piano di riflessione è il riferimento alla comparatio: è» Et quidem omnia haec entia iam nota, qualia sunt extensio, figura, motus, et similia, (...) per eandem ideam in diversis subiectis cognoscuntur (...); haec idea communis non aliter transfertur ex uno subiecto ad aliud,

quam per simplicem comparationem, per quam affirmamus quaesitum esse secundum hoc aut illud simile, vel idem, vel aequale cuidam dato: adeo ut certus quid agendum sit, primo diligenter colligit illa omnia quae de hoc lapide habere potest experimenta, ex quibus deinde deducere conatur qualis necessaria sit naturarum simplicium mixtura ad omnes illos, quos in magnete expertus est, effectus producendos; qua semel inventa, audacter potest asserere, se veram percepisse magnetis naturam, quantum ab homine et ex datis experimentis potuit inveniri. Denique colligitur quarto, ex dictis, nullas rerum cognitiones unas aliis obscuriores esse putandas, cum omnes eiusdem sint naturae, et in sola rerum per se notarum compositione consistant.», che preferisco sottolineare con una mia parafrasi. 3 Il già citato passo di Van Schooten va visto proprio in questa luce, poiché all’eredità matematica vietiana Van Schooten aggiungeva la fiducia nell’estensione dell'ambito delle scienze matematiche caratteristiche del programma cartesiano.

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in omni ratiocinatione per comparationem tantum veritatem praecise agnoscamus. (Regyu/a XIV, Crapulli 61, AT p. 439,11).

Infatti, la conclusione cui giunge Descartes con l’analisi della quaestio sulla natura del magnete è che tutta e sola la conoscenza umana della natura, ad esempio, del magnete è nella comparatio. Questa è infatti il risultato della formulazione della quaestio, dappri-

ma mediante decomposizione e ricomposizione in termini di una equazione indicata sopra, e poi nella sostituibilità che la teoria delle equazioni induce: se l'equazione iniziale è tra l’incognita (la natura del magnete) e una composizione di nature semplici o note, tale equazione autorizza a sua volta una quantità illimitata di sostituzioni. Perciò ogni conoscenza non è determinata se non all’interno di que: sta rete di confronti o sostituzioni. Descartes mette quindi ulteriormente in evidenza il contrasto tra questo approccio e quello dei Dialettici: Sed quia, ut iam saepe monuimus, syllogismorum formae nihil iuvant ad rerum veritatem percipiendam, proderit lectori si, illis plane reiectis, concipiat omnem omnino cognitionem, quae non habetur per simplicem et purum unius rei solitariae intuitum, haberi per comparationem duorum aut plurium inter se. Et quidem tota fere rationis humanae industria in hac operatione praeparanda consistit; quando enim aperta est et simplex, nullo artis adiumento, sed solius naturae lumine est opus ad veritatem, quae per illam habetur, intuendam. (Ibidem).

Dalla definizione e determinazione della quaestio l’attenzione si sposta dunque alla preparazione della corzparatio: si comprende cioè che lo scopo della perfetta determinazione della quaestio consiste nello stabilire la comparatio. La preparazione della comparatio assume poi, nel nuovo procedimento scientifico, un'importanza fondamentale, tanto da motivare la stessa stesura di «regulae».4° La regulae più significative in questo senso, però, non esistono: come si è già detto il terquestioni le riguardanti Regulae dodici contenere dovrebbe zo libro

nel come precedenti alle ridurre da quindi intese, imperfettamente per luogo il questo comunque è Non magnete. del caso della natura poessa che ricordare basti comparatio, una riflessione sul termine

to con o dat è si cui di e, enz orr occ 7 o sol to: ita lim ò per è o ati par 40 L’uso del termine com e o ati par com la a fic nti ide che so pas il to, era sid con qui llo que se si tiene presente che, oltre a l’aequatio è l’enunciato della Regula XIX.

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o oc pr ci re mo ia ch ri un te an di me ta ta re rp te in trebbe a sua volta essere anz ia gl ua ug e, on zi or op pr a a nd ma ri he (c ca ti ma te ma tra la nozione . ca gi lo e on zi no la e e) èt Vi di s si ri nc sy e o sm li bo ra pa , disuguaglianza sol ne io az er id ns co in i es pr no so si e ch do an rd co ri Concludiamo soCi io. est qua di e on zi no la no ga ie sp te en am tt re di tanto i passi che no ia es rt ca te en am ic if ec sp o ’us all o an nd ma ri e ch ze en rr co oc no poi 29 nisig ze di en rr co o oc tr at qu ine inf e e, im pr e ll da to ga ie e sp in rm te del le del ne cu al e e ch ar is ec o pr un rt po e op ltr ino . È co ri ne ge ino lat ato fic occorrenze considerate si riferiscono alla distinzione tra questioni dirette e indirette: si tratta evidentemente di un riferimento esplicito alla teoria delle equazioni, in quanto le questioni dirette prendono la forma di semplici proporzioni o equazioni di primo grado, mentre le indirette comportano la determinazione di medi proporzionali, e quindi si traducono in equazioni di secondo grado almeno. 2.c DIFFICULTAS

È chiaro a Beck! che ciò che Descarters chiama «difficulté» nel Discours de la méthode (si pensi ad esempio al secondo precetto) corrisponde a ciò che egli chiama quaestio nelle Regulae. Rimane da definire il rapporto tra difficultas e quaestio nelle Regulae stesse. La prima occorrenza evidenzia il rapporto con la tradizione scolastica, invitando a perfezionare il lume naturale della ragione «non ut hanc aut illam scholae difficultatem resolvat» (Regu/a I, Crapulli 3,6;

AT 361,19).4 Il passo che chiarisce maggiormente il rapporto tra l'approccio cartesiano alla nozione di problema (cui qui Descartes si riferisce mediante il termine difficultas), riassumendo quanto si è visto, è però il seguente, tratto dalla Regu/a VI: monet enim res per quasdam series posse disponi, non quidem in quantum ad aliquod genus entis referuntur, sicut illas Philosophi in categorias suas diviserunt, sed in quantum unae ex aliis cognosci possunt, ita ut, quoties aliqua ditficala occurrat, statim advertere possimus, utrum Srofatunza sit aliquas alias prius, et quasnam, et quo ordine perlustrare. (Crapulli 17-18; AT381,8)

41 Cfr. L. J. BECK, op. cit., p. 207, nota 2. 4° Interpreto in questo senso anche l’occorrenza nella Regu/a IV, Crapulli 13,23; AT

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Tra le occorrenze che mostrano come Descartes usasse in modo relativamente indifferente «quaestio» o «difficultas» ricorderò soltanto la Regula XIII, Crapulli 55,17, AT 431,19, in cui si parla di «difficultatem bene intellectam», espressione usata prima, ad esempio nell’enunciato della Regula stessa, solo per «quaestio». Si veda anche, in

questo senso, Crapulli 21,8 e 25; Regula VI AT 386,1 e 21, che ri-

guarda l’applicazione della nozione di quaestio directa o indirecta alla analoga difficultas. Confermano questa interpretazione i passi seguenti: Regula VIII, Crapulli 27,3,6 e 30; AT 393,14 e 17, 394,21; Regula XIII, Crapulli 55,25, AT 432,1; inoltre Crapulli 57,17; AT

434,13; particolarmente esplicito è l’uso di difficultas come sinonimo

di quaestio nei passi della Regula XIV, Crapulli 62,10; AT 440,24 e della Regula XVII Crapulli 76,2 e 7; AT 459,11 e 17.4 Propriamente parlando, però, la difficultas è contenuta nella quaestio ed è, si potrebbe dire, il suo nocciolo problematico,* come Descartes afferma nella Regula XIII: Quaestione sufficienter intellecta, videndum est praecise, in quo difficultas eius consistat, ut haec ab aliis omnibus abstracta facilius solvatur.

Non semper sufficit quaestionem intelligere, ad cognoscendum in quo sita sit eius difficultas; sed insuper reflectendum est ad singula quae in illa requiruntur, ut si quae occurrant nobis inventu facilia, illa omittamus, et il-

lis ex propositione sublatis, illud tantum remaneat quod ignoramus. (Cra-

pulli 59,25; AT 437,12).

Il chiarimento di questa particolare accezione di difficultas viene dato nella Regula XIV: Maneat ergo ratum et fixum, quaestiones perfecte determinatas vix ul43 Si vedano anche i passi Crapulli 21,25-31; AT 386,22-25; Crapulli 27,2 e 6; AT 393,14 e 17; Crapulli 27,28; AT 394,21; Crapulli 55,25; AT 432,1; Crapulli 57,17; AT 434,13; Crapulli 72,25; AT 455,8; Crapulli 76,25 e 77,2; AT 460,12 e 23; Crapulli 81,6 e

28: AT 467,21; 468,23.

Segnalo a proposito di Crapulli 27,28, AT 394,21 che G. Galli nella sua versione italiana eincid m tate icul diff em eand in (...) is aliqu «Si uce trad ) 1943 via, Para ino, (Tor delle Regulae del » nica «tec ne azio pret nter Un’i ». coltà diffi sima mede nella sse cade (...) cuno qual rit» con «se ina tratt si non ore: migli ne uzio trad una forse re ette perm iò perc termine difficultas potrebbe ridella a quell e, tion ques certa una re ntra inco di o tost piut ma , coltà fatti di cadere in una diffi frazione. e qua d «A XI: ula Reg la del e min ter al so pas il to, ica nif sig sso ste 44 Si veda anche, con lo

et similia qui reflectere consuevit,

quoties novam

quaestionem

examinat,

statim agnoscit,

lli apu (Cr s» du mo ) ndi lve (so us sim cis pli sim um ni om sit s qui et quid in illa pariat difficultatem

39,27: AT 410,11).

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us ib on ti or op pr in tit sis con ae qu am, ill r ete pra ere tin con m lam difficultate as ult fic dif is tal se eci pra o qu in , ne om ud ill ue atq s; ndi lve in aequalitates evo

de in de ac ri, ara sep to iec sub o ali ni om ab re be de et se pos ile fac , invenitur e qu us ps ce in de o irc idc is sol us ib qu de s, ura fig et m ne io transferri ad extens s. mu bi ta ac tr ne, tio ita cog a ali ni om sa is om m, ta in qu m ma ad regulam vigesi

(Crapulli 62,31; AT 441,21)

In questo senso vanno interpretati alcuni altri passi: Crapulli 20,25 e 32; AT 385,10 e 17; Crapulli 21, 8 e 18; AT 386,1 e 14. Un

esempio importante di riduzione di una difficoltà è la riduzione della misura all’ordine: Sciendum etiam, magnitudines continuas beneficio ‘unitatis assumptitiae posse totam interdum ad multitudinem reduci, et semper saltem ex parte; atque multitudinem unitatum posse postea tali ordine disponi, ut difficultas, quae ad mensurae cognitionem pertinebat, tandem a solius ordinis inspectione dependeat, maximumque in hoc progressu esse artis adiumentum. (Regula XIV, Crapulli 70,16; AT 451-452).

A questo punto la parte trattata dal metodo è il nucleo della qguaestio identificabile con la difficultas, così che l’enunciato della Regula XVII parla direttamente della «proposita difficultas», e la spiegazione si riferisce alle «determinatae difficultates et perfecte intellectae».? In quanto nucleo totalmente matematizzabile della quaestio, la difficultas sarebbe completamente identificabile con l’aeguatio, come

appare nello stesso enunciato della Regu/a XVII. ra 4

3. L’uso algebrico dei sinonimi di problema. Quaestio e aequatio a) QUAESTIO

Una questione viene quindi definita nelle sue parti, la nota e l’ignota, e nei loro rapporti, e tale definizione è esplicitata attraverso una notazione comune. Due osservazioni sono rilevanti al nostro argomento: che in tal modo Descartes delimiti ogni questione, cioè la

ricostruisca soltanto in riferimento a se stessa, ai termini presenti in

4 Si hanno infine solo nove occorrenze con significato comune di «ostacolo» teorico o operativo.

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essa e ai loro rapporti; che inoltre il linguaggio usato rimandi direttamente alle teorizzazioni dei manuali algebrici del Cinquecento, dove la questione veniva con questo procedimento ridotta ad una equazione. Che Descartes si prefigga una riduzione della quaestio alla aequatio appare chiaro dalla lettura del testo delle Regulae, ed è stato preso come dato di fatto da molti studi autorevoli del testo cartesiano. Rimane invece da indagare la fonte e la portata dell’identificazione tra il problema algebrico, articolato in quaestio e problema e quindi aequatio nella manualistica cinquecentesca. I primi manuali algebrici erano, si sa, di carattere pratico, e questo comportava una grande rilevanza dei problemi e delle loro soluzioni. Essi erano perciò costituiti di «regole» di soluzione e di esempi. Così per la Sumzza Aritbmeticae (Luca Pacioli, Venezia, P. de Paganinis, 1494), L’Arithmétique (Etienne de la Roche, Lyon, 1520, e anche l’Ars Magna (Cardano, C. Fradin Niirnberg 1545). Va notato

che mentre i primi trattano prevalentemente di problemi commerciali, il testo di Cardano trattava ormai di problemi numerici astratti, cioè di problemi teorici. Stifel, nel suo Aritbmetica integra (Niirnberg, J. Petreius, 1543) parla di exerzpla, specialmente di carattere commerciale ma anche teorico. Su questa strada è seguito da Scheubel (Algebrae compendiosa facilisque descriptio, Paris, G. Cavellat, 1551), che però a pag. 24 scrive: Sequuntur nunc quaedam aenigmata, seu quaestiones, quorum solutiones tandem hanc aequationem requirunt.

Si tratta di problemi numerici astratti simili a quelli di Diofanto, ed è quindi interessante che Scheubel, autore del primo libro di algebra non presentata come complemento dell’aritmetica (quale era il testo di Etienne de la Roche) pubblicato in Francia, faccia uso di «quaestio» in questo senso. Nel 1554 a Poitiers appare il testo di Peplauè s arte Desc di e font una stato sia ier Pelet Che èbre. letier, L’a/g figusua della anza port l’im data o, tutt Anzi ni. ragio ne alcu sibile per rda rico lo e ntra inco lo che e, aign Mont e anch nto rime rife ra, cui fa coparti in e e, oper sue delle ne usio diff la data re, Inolt negli Essais.46 par ux dea Bor de ire pla xem l’e s prè d’a s lié Pub , ais Ess Les 4 Cfr. MicrteL DE MONTAIGNE, eri rif o ond sec il to tan Sol . 324 II, 26; 1,1 1: Fortunat Strowski (1906), Hildesheim, Olms, 198 a ti men eri rif i sim his poc dei uno di tta tra si che e mento è di tenore matematico. Si noti inoltr

re to ta en mm co e e tor dut tra o im ss ma le, dal Can de matematici contemporanei: l’altro è a Foix di Euclide.

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60 15 ), is ar (P 54 15 l ne ta pa am st ri i tt fa in rà sa lare di questa: l’A/gèbre e rt pa a lt cu oc De , na ti la ne io rs ve la e ch an gi ri Pa a ce (anno in cui es In . e) èv en (G 20 16 e n) yo (L 09 16 ), nt numerorum quam algebram voca

psa e a, br ge Al ’ ll ne io av Cl da e es pr ri ù pi a to ta fine, perché viene ci tei r pe o nt ta el if St e gu se er ti le Pe e. or tt le fu s ne te ar sc De e piamo ch oop pr a , ma s» le mp xe «e di a rl pa di in , qu e ia og ol in rm te la r mi che pe sito dell’equazione egli scrive: L’equacion et l’Extraccion des Racines, sont deux parties de l’Algebre, equelles consiste toute la consommacion de l'Art. Pource, nous le tratterons toutes deus clerement, et au long. (...)

Equacion dong, est une equalite de valeur, entre nombres diversement enommez. Comme quand nous disons, 1 Ecu valoer 46 Souz (...) E pour ample declaracion nous ferons une Question familiere, qui sera tele. Il y a un Nombre duquel la tierce e la quarte partie otees, laissent 10: Qui est ce Nombre la?

Premieremant, Il s’entand assez, que les nombres exprimez es Questions sont ceus qui nous guident: e par l’aide desquez nous decouvrons les Nombres inconnuz. Il faut donc en cette Question proposee, que par le moyen de 10, Nombre exprimé, se trouve celui que je demande (p. 22).

Come si vede, il legame con la tradizione dei manuali mercantili è forte, eppure si notano alcune novità, che saranno proprie dei manuali del resto del secolo, più segnati dalla cultura universitaria umanistica, cioè, anzitutto, il trattare l'equazione come tema a sé stante, darne una definizione esplicita e sottolinearne il ruolo. Parallelamente, si tratta dei «numeri espressi in questioni»: guaestio fu usato dunque da Peletier per stabilire un termine comune per i «casi» di aritmetica mercantile e per i problemi numerici astratti o anche geometrici. Inoltre, l’uso del termine in corrispondenza dell’introduzione della (elementare) teoria delle equazioni indica lo stretto rapporto tra le due nozioni. Il termine quaestio era usato al posto di problema in Tartaglia. Infatti, nel suo Genera! trattato di numeri e misure (Venezia, C. Troiano dei Navò 1556-1560) che raccolse in un solo testo le regole per le applicazioni pratiche e una formulazione dell’algebra degna dei conoscitori di Euclide, egli usò raramente il termine «questione», ma sempre come sinonimo di «problema». Jean Borrel pubblicò di lì a poco un testo fondamentale per l’algebra del Cinquecento, la Logistica (Lyon G. Rouillé, 1559). I problemi di cui tratta sono numerici ma rappresentano classi di problemi, e vengono chiamati clas-

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sicamente problemata.!? Tuttavia, gli ultimi capitoli sono dedicati alle

quaestiones, che sono espressamente intese a trattare ogni sorta di

problema. E opportuno ricordare il passo che introduce il capitolo quarto, dedicato a questioni, in quanto prossimo alla terminologia cartesiana:

Libris superioribus iactis veluti fundamentis, pars operis nunc superest sane pulcherrima, ipsaque subtilitatis exercitatione fructuosa. Ubi logisticae quaestiones, non solis numeris proponuntur, Arithmeticorum instar problematum, sed rebus variis applicantur, quae vel ad usum vitae, vel ad meditationem ingenii, aut ad utraque simul pertineant. Nam et regularum usus, cum earum sedes, vel rei natura, vel arte propositi sunt in occulto, non ali-

ter melius, aut utilius doceri potest, quam ipsa vestigationis varietate multiplici. Magna etiam traditionum particularium copia, una cum ipsis sese quaesiti aperit. Ad haec autem non via Logisticorum trita communiter incedam, qui multitudine quaestionum libros exagerant, eandem saepius speciem, aliis, atque aliis, mercaturis tanquam diversum applicantes.*8

Si riscontra dunque in Borrel la critica che i logistici della seconda metà del Cinquecento sollevavano nei confronti dei loro predecessori, e particolarmente della tradizione dei libri d’abaco: la molteplicità degli esempi, la mancanza di metodo o di uniformità di procedura. E l’elevarsi alla generalità permette anche di estendere il campo di applicazione, a cose utili per la vita o ad meditationem ingenii. Quaestio si ritrova, usata in questo senso, anche nella traduzione dell’opera di Tartaglia in francese, pubblicata da Guillaume Gosselin con ampio commento, L’Aritbmétique de Nicolas Tartaglia Brescian, Paris, G. Beys, 1578. Gosselin, va ricordato, apparteneva all’ambien-

te matematico parigino tra il 1570 e il 1585, in cui l’influsso di Ramo era forte e che fu frequentato da Viète. Anche qui problema corriall’acriporta quaestio mentre equazione, di tipi o carzones ai sponde precedenti, due i con continuità In problema. di generale cezione più Arisua della libro secondo nel che Stevin, è esplicito, più ma ancora

stanno (che problemi i indicare per problema termine il thmétique, usa

a ers Anv ad o cat bli pub , iez Nuf ro Ped di to tes il ale ent dam fon e enn 47 In quegli anni div ida rap tro l’al tra fu che ), ria met geo y ica met thb ari in da A. Birkman, nel 1564 (Libro de algebra

Ari de sos «ca 110 di te men pal nci pri ta trat si ia tav mente conosciuto in Francia: in esso tut . iani ital a ebr alg di i ual man mi pri dai to usa e min ter thmetica», su numeri. «Casi» era anche il , 59 15 é, ill Rou G. i, un gd Lu r, itu dic o lg vu a ic et 48 Ioannes Buteonis Logistica quae et Aritbm PERLOTE

pet. pps

GIOVANNA

CIFOLETTI

di o ad gr di i, in rm te e tr i at «d è: a rm per classi di equazioni) la cui fo . e» al on zi or op pr to ar qu ro lo il e ar ov tr o, rs ve e ch i, on ti es qu di ta at tr o, ls fa l de Poi, avendo definito la regola

e ll de i ss le mp co ù pi pi em es ed ni io az ic devono considerarsi come appl di ù pi ta at tr si n no se es In . mi le ob pr i regole di soluzione indicate ne ge al la el qu di ma er nf co a ca ri et om ge e on zi lu so dimostrazione, né di brica: si tratta di risolvere «par l’algèbre».* b) AEQUATIO

Nelle Regulae il termine aeguatio compare solo due volte, e ambe6; e 2 82, lli apu (Cr e tat men com non e ul4 Reg e dell to cia nun l’e nel due AT 469,2 e 6). Ci sono però tre occorrenze di aegualitas, il termine

per esempio usato da Viète, e soprattutto c’è il ripetuto uso di «comparatio» in senso algebrico, che rinvia allo stabilirsi di un’equazione. Ciò non è in sé sorprendente, poiché comparatio era un termine ma-

tematico che indicava la disuguaglianza numerica, o il rapporto, ad esempio in Ramo,?0 e veniva usata in alternativa a proportio nel contesto geometrico. Va inoltre ricordato che il termine 4equatio, pur attraverso variazioni, conservava il significato di azione, non indicava

uno stato, come si è visto nella citazione di Scheubel. Ci si può però chiedere perché Descartes eviti l’uso dei due termini algebrici: una congettura è che egli percorra a ritroso il cammino che lo aveva condotto all'adozione del punto di vista della Logistica, e costituisca al tempo stesso un significato filosofico più generale all'idea di equazione. Quello che qui conta, è che questa idea non solo viene identificata con la quaestio (e con la difficultas), come si può vedere da alcune citazioni e dallo stesso enunciato della Regula XVII, ma costituisce il presupposto dell’idea di problema. Questa centralità dell'equazione è il motivo principale dei manuali di algebra che ne hanno accompagnato la costituzione in disciplina universitaria e accademica, e corrisponde alla riscoperta dell’ Aritrzetica di Diofanto. Si tratta in particolare dei manuali pubblicati in

49° Cfr. The principal works of Simon Stevin, vol. II B, Mathematics, edited by D. ji Struik, Amsterdam, Swets & Zeitlinger, 1958, p. 681. 50 Cfr. Petri Rami Arithmeticae libri duo, Frankfurt, A. Wechel, 1555, p. 52: «Compara-

tio quantitatis in numeris est differentia vel ratio».

sie ES 0

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Francia, cioè quelli di Scheubel, Peletier, Borrel, e i tre lavori di Gosselin.

La definizione e la classificazione delle equazioni stabilita da Scheubel non ebbe seguito come tale, ma ebbe seguito l’idea di imperniare i manuali di algebra intorno alla nozione, esplicitamente definita, di equazione, e alla classificazione delle equazioni. E dunque in questa stessa direzione che Peletier intitola la sezione da cui abbiamo tratto le citazioni precedenti «De l’Equacion, partie essancielle de l’Algebre».5! Si è del resto vista sopra qualche indicazione sul ruolo attribuito da Peletier all’equazione come nozione chiave dell’algebra. Più avanti nel testo, al capitolo sulla messa in equazione, «La grande Regle generale de l’Algebre», Peletier scrive che quanto scritto sopra, con le varie operazioni algebriche, è tutto in funzione di questa parte, ed enuncia infine la regola: Au lieu du Nombre inconnu que vous cherchez, metèz 1R: avec laquele faites votre discours selon la formalité de la Question proposée: tant qu’eyez trouuè vne Equacion convenable, e icelle reduite si besoin est. Puis, par le Nombre su sine maieur Cossique, diuiseèz la partie a lui egalee: ou en tireèz la Racine tele que montre le Sine. Et le Quociant qui prouiendra (si la division suffit) ou la Racine (si l’extraccion est necessere) sera le Nombre que vous cherchèz.

Effettivamente, prima di Stifel il fatto di mettere una «Question» in equazione non era stato specificato come operazione in sé. Stifel lo introdusse nel contesto di una ricerca diretta ad una classificazione delle equazioni, e questo processo è connesso con la riscoperta di Diofanto. Gosselin, con il suo De arte magna (Paris 1577), scrisse il primo manuale algebrico che tenne conto dell’ Aritrzetica di Diofanto, sia perché Xylander l’aveva tradotta e pubblicata da due anni, sia perché Gosselin aveva in visione un manoscritto del testo greco. Gosselin inoltre integrò alla teoria, che includeva una nuova e perfezionata classificazione delle equazioni (la prima secondo il grado dell’incognita), anche la sua visione filosofica del ruolo dell’algebra e sulla sua struttura. Egli scrive: tele a e uir red t doe se on aci Equ e «Un e: ion sez ssa ste la nel , nti ava più 51 Leggiamo inoltre de e rest au l ega t, par ne d’u l seu e eur dem un, qu’ à an n'y s’il ue, siq Cos forme, que le nombre s bre nom ers div t nan pre com on aci Equ une ra uve tro se il nd Qua si, aus nd l’Equacion: E s’enta dee, sin nd gra s plu le a aur qui e, dir a c’ét , ion nac Cossiques: que celui de plus grand denomi . te» sor e cet en n, cio osi nsp tra par a fer se qui Ce n: cio qua l’E vra demeurer seul, egal au rest de e. ula Reg ime ult le del oni izi scr pre une alc ad ato ost acc ere ess be reb pot che so (p. 25), pas

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s, mu ia ic el ut am qu e, ta no ig s ti ta ti an qu io Finis huius scientiae est cognit

utimus aequatione tamquam medio.

in el ss Go i. on zi ua eq e all to ca di de e nt me ra te in è Il terzo libro aein a im ss ti an st ae pr ars ec ha um «C n co esordisce, come Peletier, eos pr i egl Ma ». tat sis con e fer a tot ne io ct du de m ru te quatione et la gue: ad m qua tan em ion uat aeq ad tis edi exp s ibu omn his est opportunum visum il nih qua e sin est m eni c hae re: eni dev iae ent sci us hui ium tig fas apicem et e. ter sis con s illi e sin e ion rat qua ali em aut sit , pos tia den ece pra ant duc con x

Segue la definizione, particolarmente esplicita: aequatio autem est duarum quantitatum diversi nominis et valoris ad unam aestimationem reductio, ut cum dicimus unum Quadratum aequari quatuor lateribus...

Si potrebbero moltiplicare le citazioni che sviluppano la riflessione cominciata da Peletier. Ci limiteremo invece a ricordare la terza opera di Gosselin, il De ratione discendae docendaeque matbhematices, una «praelectio», o presentazione di corso universitario, che ha lo stile di indice ragionato di temi matematici. Di essa una sezione è dedicata all’algebra, detta «subtilior arithmetica». Egli riprende qui le sue »

TESI

Finis scientiae, quantitatis ignotae cognitio, media ad illum finem, ae-

quatio vel aequalitas. (...) aequatio dicitur, cum aliquae quantitates diversi generis inter se aequale proferuntur.

A ciò segue una classificazione delle equazioni, per forma e per grado. Ramo aveva pubblicato anonimamente

un’ A/gebra (Paris, 1560),

che probabilmente si diffuse soprattutto attraverso l’edizione complessiva di Lazar Schooner,

(Frankfurt,

A. Wechel

1592).

Si può

pensare che, data l’influenza di tutte le opere di Ramo, soprattutto per diffondere ciò che veniva studiato a Parigi, questo testo abbia avuto grande importanza: sappiamo inoltre che la lista consigliata da Snell padre a Beeckman probabilmente lo includeva, poiché per l’arita

a

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metica pratica vengono citati Ramo e Clavio.?? L’operetta è divisa in numeratio (aritmetica dei numeri relativi) ed 4equatio.

Il secondo libro esordisce con la definizione: «aeguatio est qua figurati inter se secundum hypothesis aequantur». Quanto alla classificazione, Ramo segue quella di Scheubel. In conclusione si può osservare che già prima dello sviluppo dell’algebra introdotto da Viète, e quindi della diffusione (peraltro relativa al 1630 e seguenti) delle sue opere, o addirittura prima della pubblicazione dell’algebra di Clavio (più estesa e avanzata rispetto alle contemporanee,

ma pur sempre

concepita con un certo ritardo sugli sviluppi in Francia e nei Paesi Bassi) la tradizione algebrica conteneva una teorizzazione del problema trattabile algebricamente e dell'equazione come forma astratta di problema, e anzi faceva di quaestio ed aequatio il principale strumento di trasformazione dall’algebra della tradizione abachista alla logistica che integrava la riscoperta dei classici e particolarmente di Diofanto. Quanto a Clavio, si possono trovare, sia pur nella più reperibile edizione del 1612, molti passi che illustrano come una discussione sul ruolo delle equazioni nell’ambito delle scienze matematiche fosse presente anche nell’insegnamento. Nel proemio all’A/gebra (op. cit. vol. II) si trova infatti: Propositum sive scopus eius est, ut certam aliquam a sensuum cognitio-

ne, ac sensu secretam quantitatem exploraret, et tandem inter duos aliquos numeros aequalitate, sive aequatione comperta, deprehendat, atque demonstret (p:03):

La sua formulazione della regula algebrae è la seguente: Pro numero

incognito in quaestione ponatur radix una hoc modo, lx.

dam qui s aliu vel etc. 3x vel 2x o mod hoc i pon ces radi es plur m etia (Possunt nis stio quae e iuxt e Qua ae). osit prop nis stio quae te ita mod com pro s, eru num

si r, catu redu c Hae ur: niat inve ua aliq io uat Aeq ec don r, etu min exa tenotem diris maio ici Coss ris acte char m eru num per nde Dei reductione opus fuerit: s, eru num erit ipse ns tie Quo vel Nam s. eru num nis atio aequ vidatur reliquus x radi e cert vel tae, posi o cipi prin in cis radi icet scil qui quaerebatur, pretium 20). (p. et redd um not ur, bat ere qua qui m, eru num eri aliqua Quotientis num

52 Si veda AT, vol. X, p. 29.

TRE; RES

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e ch a er ni ma in la go re a ll da ti ca di in gi Clavio riassume poi i passag e: èt Vi di a ic yt al an s ar a ll de i rt pa e ll de ne io is richiama la suddiv io at qu Ae io nt ve in est a im Pr . es rt pa r uo at qu Habet autem regula haec ri me nu us ri te al o si vi Di , ia rt Te : ae nt ve in s nis: Secunda Reductio Aequationi Ex , ma ti ul et ta ar Qu i: ic ss Co s ri te ac ar ch s ri io ma m ru me nu Aequationis per mi su c hi ut , io at qu Ae m te au t Es .) (.. e. nt ie ot Qu tractio radicis alicuius ex res ve si s, te ta ti an qu as du r te is in at it al qu o ae ti or op pr am tur, nihil aliud, qu varie denominatas (ibidem).

Si può comunque affermare che Clavio è rilevante (in questo contesto) sia per la sistemazione teorica della distinzione tra teoremi e problemi che per la nozione di equazione. Quanto invece all’uso dei termini problema, quaestio, aenigma, non si riscontrano delle regolarità: da un lato egli non fa uso in geometria del termine quaestio, ma in algebra egli si riferisce indifferentemente a quaestiones, problemata ed aenigmata. Va d’altra parte osservato che egli trattò specificamente della possibilità di applicare metodi algebrici alla geometria, anzi a tutte le scienze matematiche, anche se non realizzò questo progetto. E, rispetto alla tradizione algebrica, mentre l’applicazione alla geometria non era una novità, lo era quella alle varie scienze matematiche.

4. Cenni sulla letteratura critica

Questa dimensione del testo del secondo libro delle Regu/ae rimanda a due aspetti della cultura contemporanea a Descartes: la crescente importanza della teoria delle equazioni, o meglio la trasformazione dell'algebra da «ars rei et census» in teoria delle equazioni,’ e d’altro lato l’elaborazione dell’idea di problema scientifico in rapporto alle nuove idee e pratiche nelle scienze. Dal punto di vista della storia della scienza, la certezza che questi processi siano avvenuti non può sostituire l'indagine su come essi abbiano effettivamente avuto luogo, in particolare in relazione alle due tradizioni implicate: l’aristotelismo e l’algebra. Per quanto riguarda la prima, le ricerche svolte e promosse da Charles Schmitt hanno ormai % Che questa trasformazione abbia avuto luogo è generalmente accettato, e riprendo questa formulazione dall’articolo di M. S. MAHonEv, The beginnings of algebraic thought, in GAUKROGER, ed. op. cit. Tuttavia, molto resta ancora da fare per dare contenuto a questa descrizione complessiva.

REN 1.Ee

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chiarito e approfondito come, nella sua forma tardo cinquecentesca, l’aristotelismo universitario fosse condizione e luogo di formulazione delle nuove scienze. Per ciò che concerne l’algebra, gli studi, che peraltro non hanno finora preso in grande considerazione la tradizione pre-vietiana, possono contribuire a una maggiore consapevolezza lessicale. Anche recentemente Gaukroger, illustrando la portata delle Regulae rispetto alla costruzione di una fisica matematica, sottolineava come anzitutto Descartes problem is to specify and realise the conditions under which physical problems can be posed mathematically.

Nel saggio di Gaukroger si assume cioè come data la nozione di problema e, come nella frase citata, si ignora la distinzione tra l’attuale significato del termine problema e quello attribuibile con consapevolezza storica a Descartes. A prima vista infatti, e cioè partendo da presupposti tipici del nostro tempo, il passaggio è banale: se è vero che Descartes fondò una fisica matematica sostenendo un programma di riconduzione di tutte le discipline matematiche e della filosofia naturale alla semplicità e alla certezza di risultati proprie dell’aritmetica e della geometria, ci si può aspettare che egli applicasse un termine tipicamente matematico come «problema» a tutti i problemi o quesiti delle scienze. Come si è visto, la realtà è un po’ più complessa, e tre termini, quaestio, difficultas, problema, vengono usati come sinonimi. D'altra parte, l’interpretazione delle Regulae ha una vasta tradizione nell’ambito storico-filosofico: anzitutto si deve ricordare che gran parte della critica ha considerato il rapporto tra le Regulae e il metodo (e il Discours de la méthode), in particolare l’identificazione o la distinzione tra mathesis universalis e metodo: così ad esempio recentemente J. L. Marion (cfr. Sur l’ontologie grise de Descartes, Paris, Vrin, 1975) ha ripreso la tesi di G. Milhaud (Descartes savant, Paris, il con coin cide rebb e unive rsali s matb esis la cui seco ndo Alcan, 1921)

mate mati co prog il ramm a con rapp il orto Anch e cart esia no. metodo sulle rifle ssion e della nodo un costi tuisc e Géom zétr ie nella realizzato è Géom étri la e e Beck ), di stud io citat o già del caso nel Regulae (come

R, GE RO UK GA S. in s, sic phy cal ati hem mat a for t jec pro ’ tes car Des 54 Cfr. S. GAUKROGER, uno ca uis tit cos r ge ro uk Ga di io occ ppr l'a che to fat il a acc int op. cit., p. 98. Il mio rilievo non dei punti di riferimento di questa ricerca.

SL

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o st te il o nt ta In 5 i. ud st si ro me stata oggetto, negli ultimi anni, di nu ma ri pp da , sa ro go ri ù pi si li na 'a un ad to os delle Regulae è stato sottop on ti tu ti ns co La r, be We P. J. di ro vo la in chiave interpretativa con il pé su nt me ne ig se en d’ n io it éd d’ é ét ci So s, ri du texte des ‘Regulae’, Pa

a to os mp co o at st a si o st te il e ch si te la n co rieur, 1964, che conclude

aCr di ne io iz ed l’ al ie az , gr ca gi lo lo fi ve ia ch in i Po . vi strati successi ne io uz ad tr a ov nu a un ad r, ye me ng ri Sp di ne io iz e ed or ri pulli, all’ulte vi re e nt ce re a Un ?? e. gu xi Le to ta ci à gi al ne fi in in lingua moderna, e . er st hu Sc di to ta ci à gi io ud st o ll a ne st po es è r be We sione della tesi di Di particolare interesse nella nostra prospettiva sono i numerosi lavori sulla matematica di Descartes di P. Costabel, e l’opera di Gabe sulra st no a la r ic pe if za ec an sp rt po 58 im s. Di te ar sc e De il di an ov gi se fa la discussione sono stati infine i lavori di J. L. Marion e N. Bruyère. Bruyère, nella sua opera recente’? ha ripreso i punti fondamentali

55 Si veda in particolare.H. J. M. Bos, «On the representation of curves in Descartes? Géométrie», «Archive for history of exact sciences», 24, 1981, e lo studio più complessivo, ma che chiarisce ampiamente un importante aspetto della Géomzétrie e anche un senso specifico della nozione di «problema» in Descartes, Arguments on motivation in the rise and decline of a mathematical theory: the ‘construction of equations’, 1637-ca. 1750, «Archive for history of exact sciences», vol. 30, nn. 3/4, 1984. Tra i lavori più recenti, si considerino alcuni degli studi dei due convegni sul Discours: Le Discours et sa méthode, Actes du Colloque pour le 350° anniversaire du ‘Discours de la méthode’ (Paris, 28-30 gennaio 1987), publiés sous la direction de N. Grimaldi e J. L. Marion, Paris, P.U.F., 1987; e inoltre, «Descartes: il metodo e i

saggi», Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1988. Di grande importanza rispetto ai temi trattati in questo lavoro, ma anche un serio tentativo di connettere la comprensione scientifica dell’opera di Descartes e la sua metafisica è la già citata opera collettiva a cura di Gaukroger. La bibliografia più aggiornata è in GIovanNI CRAPULLI, Introduzione a Descartes, Bari, Laterza, 1988.

Di

56 RENÉ DESCARTES, Régles utiles et claires pour la direction de l’esprit en la recherche de la vérité, traduction selon le lexique cartèsien, et annotations conceptuelles par J. L. Marion avec des notes mathématiques de P. Costabel, La Haye, M. Nijhoff, 1977; RENÉ DESCARTES, Regulae ad directionem ingenii, Kritisch revidiert und herausgegeben von H. Springmeyer und H. G. Zerkl, Hamburg, F. Meiner, 1972. 5? Oltre ad altri studi lessicali, per cui rinvio al già citato Crapulli 1988, pp. 254-255. Per questo lavoro ho tra l’altro consultato E. Girson, Index scolastico-cartésien, Paris, Vrin, 1913, 1979 r., che comunque non riporta nessuno dei sinonimi di problema, e inoltre G. CRAPULLI, Le note marginali latine nelle versioni olandesi di opere di Descartes di ]. H. Glazemaker, in G. CrApuLLI-E. GrancoTTI BoscHERINI, Ricerche lessicali su opere di Descartes e Spinoza, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1969. Devo notare invece che il Descartes Dictionary, tr. and ed. by J. M. Morris, New York, Philosophical Library, 1971 registra come occorrenza di problema quella che è un’occorrenza di quaestio (p. 173).

5_Mi riferisco qui a P. CostaBEL, Démarches originales du Descartes savant, Paris, Vrin, 1982; P. CosrABEL, L’initiation mathématique de Descartes, «Archives de philosophie, 4, 1983, e inoltre a L. GABE, Descartes Selbstkritik. Untersuchungen der Philosophie des jungen Descartes,

Hamburg, F. Meiner, 1972. 5? Mi riferisco a N. BRUYÈRE, Méthode et dialectique dans l’oeuvre de La Ramée, Paris,

Vrin, 1984, particolarmente alle pp. 385-396.

de DA

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REGULAE

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dell'eredità ramusiana in Descartes, e particolarmente nel testo delle Regulae. Quanto a Marion, è necessario considerare alcuni aspetti più da vicino. Le Regulae sarebbero state scritte con Aristotele come interlocutore: questa la tesi sapientemente argomentata da Marion. Come indicato da Marion, la nozione di epistéme sottesa alle Regu/ae sovverte la classificazione delle scienze secondo il geros e, aggiungo, l’impostazione dei problemi secondo il geros, la peculiarità, l’accidente. Descartes deve dunque trovare un modo uniforme di formulare i problemi che non faccia uso della classificazione aristotelica, e questo modo è suggerito dalla tradizione algebrica: ogni problema è, nella sua forma trattabile analiticamente (cioè algebricamente) un’equazione. Dalla quaestio si giunge poi alla comparatio, nel duplice senso di equazione e di «comparazione» delle nature tra di loro allo scopo di conoscere le une a partire dalle altre. Il segreto dell’arte, che permette di conoscere ciascuna cosa a partire da un’altra, è da contrapporsi al modo aristotelico di procedere, che fa riferimento al genere dell’ente. Marion interpreta questo riferimento in termini dell’idea di enumerazione, e quest’ultima in chiave ontologica più che metodica o epistemica. Se invece si legge l’enumerazione stessa in quanto preparazione alla corretta formulazione di un problema o piuttosto quaestio, e quindi allo stabilirsi di un’equazione, il testo è da accostarsi ad un altro passo di Aristotele, non citato da Marion (il già citato passo dei Secondi Analitici, 98 a cfr. nota 4). La risposta di Descartes a questa maniera di ricondurre i problemi a una forma standard è contenuta nella Regula XIII e più compiutamente XVII. Infatti, nella Regula XIII si ha il richiamo alla semplificazione della quaestio, e anche specificamente «in quam minimas partes cum enumeratione dividenda». La Regula XVII invece identifica la difficultas con la reciproca dipendenza dei termini noti e ignoti. Se quello tracciato è davvero il nesso voluto da Descartes, si può dire che da pr op os pr ta di ob le no ma la zi on e tr as fo rm at pr ha o of egli ondamente Aristotele: il problema viene definito non da una relazione soggettoil pr fa es en te Ma ri on op er tr az a io ni .$ ° un da ’e gu ma aglianza predicato ona izi pos pro o col cal un ì cos ce uis tit sos si ati dic pre dei ica log 60 Se si vuole, dunque, alla din buo a so sen sto que in e , ica log una e com ito cep con è non ta, vol sua a le; questo calcolo, . oni izi pos e pri pro le dal ze uen seg con le tto tra va ave non tes car Des ritto Leibniz sosteneva che testo ari né ze tan sos za sen o col cal un za, ian agl ugu di oni azi rel Il calcolo delle proprietà e delle abin i ion raz ope le del e za ian agl ugu di oni azi rel le del liche né leibniziane, ma semplicemente le del ria teo la del to mbi l’a nel to tan sol o res rip e e, rie resta racchiuso nel II libro delle Regula

ma. ble pro di dea l'i del ne zio zza bri lge l’a ece inv ane Rim . equazioni della Géométrie

0

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iun l’ sa, si me co , hé rc pe e ch an e, on zi ua eq e nesso tra enumerazione De da to da o at it ic pl es e nt me ta iu mp co esempio di enumerazione co i ll pu ra (C ta ni og nc ’i un di e nz te po di e scartes è quello della succession i il ib ss po e nz ue eg ns co le e tt tu ae tr e tr ol in li Eg 20,9; AT 384, 21). no co ri n no on ri , Ma ia av tt . Tu co li te to is ar s ro ge e l on de zi na mi dall’eli p. n, io ar (M za an rt po im a su la al do an nn ce ac r pu , io sce alla quaest di on ec (S va ui ib tr at le le te to is Ar e ch an e ch vo ti si 172), il ruolo po ni ha on ti es qu le e tt tu n No 5. ta no r. cf ), ta ta ci à gi , Analitici 77 a 37

o nt me ri fe ri fa tà i li cu bi si au ce pl li mp se a di nz le va la el qu ue nq du no Marion (p. 173). E per un’interpretazione «scientifica» non solo «plausibile» delle quaestiones basterebbe pensare ai dibattiti cinquecenteschi: la guaestio come punto di partenza dell’inventio, e l’inventio come parte fondamentale del discorso scientifico, cruciale non tanto nel dare un’impronta sistematica al sapere, quanto nel guidare l'intelligenza naturale dalle verità complesse alle semplici. Marion invece vede soltanto il contenuto interrogativo dell’erdtérza in Aristote-

le, sostiene che la quaestio non è una verità, o non è ancora una veri-

tà, fino ad interpretare il contenuto «ignoto» (l’incognita) della quaestio come versione cartesiana del contenuto «non certo» dell’erdtérza: L’inconnu résiduel, mais irrémédiable, de l’eròtesis, de la demande, devient une inconnue provisoire et réductible. (Marion, p. 173).

Senza negare questa accezione di eròtema, si sono viste diverse

ragioni che avrebbero portato Descartes ad attribuire un significato positivo al termine, e anche il testo, ovvero il nuovo significato tecnico, lo suggeriscono. Descartes, fondandosi sui commenti aristotelici e sulla tradizione algebrica, ha dato al termine quaestio il significato positivo che Aristotele attribuiva a probléma, ciò che è confermato indirettamente dal fatto che il significato di domanda è completamente abbandonato nel testo delle Regu/ze, mentre viene adottato il significato di problema, aristotelico e matematico. In conclusione, Marion ha ampiamente argomentato che il sistema dei generi riflesso nella classificazione delle scienze doveva necessariamente cadere in rapporto a un’ontologia ordinata dalla sola sostanza pensante. D'altra parte, forse nella necessità di portare alla luce la trasmutazione del sistema di Aristotele in quello di Descartes, Marion non si concede di evidenziare a sufficienza come questo passaggio sia stato mediato dalle interpretazioni cinquecentesche di Aristotele. Così la nozione di ta ig E vi

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REGULAE

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CARTESIO

problema-quaestio, come altri topoi degli aristotelici cinquecenteschi, non ha trovato una sua collocazione nell'argomento di Marion, che peraltro avrebbe contribuito a rafforzare. +

5. Conclusioni

La nozione di problema e la sua trasformazione è centrale nel testo delle Regulae. Per Descartes, che fondava la sua visione del ruolo dell’algebra sulla consolidata tradizione dei manuali francesi della Logistica, era chiaro che tutti i problemi sono in linea di principio risolubili, e che quindi il peso epistemologico si muove verso l’impostazione dei problemi. Descartes si è occupato, nelle Regu/4e, anzitutto di questo aspetto, quindi non è opportuno limitarsi a considerare il testo come esposizione di un programma di algebrizzazione volta alla soluzione dei problemi: il punto è che si risolvono tutti e soli i problemi che si sanno impostare. Dal punto di vista storico quindi ci interessa non tanto vedere come Descartes proponesse di trattare matematicamente i problemi, ma di come fosse disposto a concepire i problemi in termini algebrici, la riduzione in equazione essendo soltanto l’ultima fase di un processo di adattamento tra l’idea stessa di problema e la quaestio concreta. Si è quindi cercato di mostrare in quali sensi il modello cartesiano di problema fosse algebrico, e come questa concezione concordasse con una riforma della logica aristotelica. Per quanto riguarda il primo punto, si è partiti dalla tesi (già formulata da Marion) secondo cui Descartes, che intende costituire si-

stematicamente le scienze matematiche e partire dal /umzen naturae, e quindi dal calcolo (sui segni) delle idee semplici, si trova a dover sostituire la gerarchia classificatoria aristotelica e la sua logica. Descarntrodu dell’i giova si (che ca Logisti della ne versio sua sulla fonda tes zione dell’unità e della notazione per le potenze) una riduzione di o appunt fa misura La . ordine di e misura di i termin in ogni quantità riferimento all’unità, l’ordine alla successione delle potenze dell’incosu ioni operaz a ignota tà quanti la e ridurr allora ile possib gnita. È ra(compa zione L'equa gebra. dell’al i dettam i o second quantità note, la è zione l'equa itivo, conosc so proces del centro tio) diviene quindi il crea che ciò are elimin di isce garant essa che quaestio stessa, tanto più stesso tempo al ere manten di e , ibilità sostitu la ostacolo, mediante erazio l’enum induce ordine stesso lo quanto in ciò che è importante, sd

GIOVANNA

CIFOLETTI

i on zi ua eq e ll de i ad gr i e à it ss le mp co ne dei problemi secondo la loro to en im ed oc pr l de ia or te a un di i qu ta at tr Si ad essi corrispondenti. e er ed oc pr l su a at nd o fo ti en nv ’i ll de ia or te a un di scientifico, o meglio ia og ol nt ’o ll su ti ni fi de ù pi no so n no mi ti per problemi, dove questi ul e ch i ss ne a nz se , e vi ti te la en re am oc pr ci i re in rm te n aristotelica, ma co e in rd à ’o it (l ss le mp co di ne e di on or zi in ra me nu ’e ll de lo el qu o non sian he rc ce i ri or ri te ul e, tr ol In ). sa es di o ns se io pp do , l ne io della comparat in no ra mb s se te ar sc a De ne a ra po em nt ca co es e nt ce ue nq ra ci eb sull’alg grado di rendere conto della scelta iniziale di Descartes, quella cioè irm i te tr . al io In at gu ae me la ir co ep nc co io di e st ae re qu ni la fi de ri di ni, l’identificazione tra guaestio e aequatio, presentata da Descartes come un punto di arrivo, è invece il punto di partenza: la quaestio ha la struttura di un’equazione nei manuali algebrici, dove essa rispecchia spesso un allargamento di senso rispetto al problema matematico, perché può consistere sia di un problema che di un «caso» di aritmetica mercantile, o ancora viene concepita come un’applicazione specifica, in una qualsiasi scienza matematica, delle regole trovate

mediante problemi generali. Agli algebristi del Cinquecento, del resto, Descartes deve tutta la teoria salvo le due innovazioni dell’unità e della successione, almeno prima di avere, nella Géormzétrie, esteso

notevolmente la portata dalla teoria delle equazioni. La nostra congettura dell’interconnessione fra i tre sinonimi di problema nelle Regu/ae ci ha riportato da un lato all’interconnessione fra i tre sinonimi in Aristotele, e dall’altro allo studio dei significati algebrici dei termini cartesiani. Che il nesso tra i sinonimi aristotelici fosse di per sé oggetto di riflessione, è mostrato da Toleto, a proposito del celebre inizio del secondo libro dei Secondi Analitici: Adverte autem, quod graece non habetur vocabulum, quaestiones, sed zétoumena id est quaesita, (...) quaestiones vero dicuntur res eadem, secun-

dum formam dubitationis, et interrogationis, voce, aut conceptu significatae, et ordinatae.6!

Quanto all’uso matematico, si deve aggiungere che Descartes stesso fece uso del termine quaestio, o question, nel significato più diffuso all’epoca, cioè come problema proposto da un matematico ad un altro, nelle lettere precedenti e contemporanee alla stesura delle 61 Francisci Toleti Societatis Iesu Commentaria una cum quaestionibus in universam Aristo-

telis logicam, Venetiis, Juntas, 1603, p. 211.

a

LE

REGULAE

DI

CARTESIO

Regulae. In questo testo invece egli definisce un significato particolare, tecnico, di quaestio, che permane nel sinonimo difficultas e così passerà nel Discours de la méthode come difficulté. Questo uso distingue il suo approccio rispetto all’unico matematico contemporaneo che aveva raggiunto e forse superato la sua competenza specifica e anche le sue innovazioni, cioè Fermat, che già nel 1628 aveva redatto una versione della sua Isagoge e alcuni risultati della sua «méthode», ciò che implica un’estensione alla teoria delle equazioni paragonabile a quella della Géorzétrie. In questa prospettiva quindi ciò che lo distingueva da Fermat era il rapporto con la riforma della logica e delle scienze matematiche. Mentre infatti Fermat adottò il programma della Logistica di Viète, che prevedeva di risolvere tutti i problemi delle scienze matematiche in senso stretto, Descartes allargò il campo di applicazione della nuova algebra sia in direzione della logica, in-una teoria del metodo, che in direzione di un'estensione dei problemi concepibili e quindi trattabili matematicamente, cioè dell’intera filosofia naturale. Alla conclusione di Marion, che Descartes, con le Regulae, sia

passato dalla cosa all’oggetto vorrei aggiungere che egli passò anche dal probléma aristotelico alla quaestio algebrica, con le inevitabili conseguenze tanto in matematica che in filosofia naturale.

i

SERGIO LANDUCCI

LIBERO ARBITRIO ED AUTONOMIA DELLA VOLONTÀ IN KANT

1. Nella Critica della ragion pura, la questione della libertà del volere Kant l'aveva affrontata con la Terza Antinomia e la sua ‘Soluzione’, nella Dialettica. Attraverso la distinzione platonizzante fra i due ‘mondi’, sensibi-

le ed intelligibile, egli aveva proposto un salvataggio di quanto sostenuto dalla Tesi (la libertà intesa come causalità incondizionata); ed

aveva denominata «cosmologica», o «trascendentale», quest'idea d’una causalità per libertà, ossia d’una facoltà, in generale, di iniziare ad

agire senza esservi determinati da alcuna causa anteriore.! Originariamente, anzi, nella Tesi, la nozione era stata introdotta in riferimento

a Dio (a proposito dell’«origine del mondo», e cioè della creazione); ma, per analogia, era stata poi sùbito estesa a tutti quanti gli esseri razionali? (i quali venivano dunque assimilati a Dio stesso, si può dire, nell’ipotesi che siano dotati della medesima facoltà d’una causalità incondizionata).? Si trattava, comunque, d’una capacità positiva, tale 1 Cfr. Critica della ragion pura, A 533 sg., B 561 sg. Citerò le altre opere di Kant, ovviamente, secondo l’Akademieausgabe delle Gesamzzelte Schriften, Berlin, Reimer, 1900 sgg. (i numeri eventualmente apposti in esponente a quelli delle pagine, indicano le righe); e con la sigla SM rimanderò alla trad. ital. di P. Chiodi degli Scritti morali di Kant, Torino, UTET, 1970. Le traduzioni italiane a cui rimando, le ho talora modificate tacitamente.

2 Cfr. ivi, A 488 sgg., B 476 sgg. Il medesimo passaggio in S. CLARKE, A Demonstration of the Being and Attributes of God, London, Botham, 1705, fra la conclusione della Prop. IX, p. 148 sgg., e la seconda parte della X, pp. 171 sgg., 183 sgg., 206 sgg. Per una illustrazione storica della Tesi e dell’ Antitesi della Terza antinomia in rapporto alle posizioni rispettivamente di Clarke, per l’appunto, e di Leibniz, come s'erano fronteggiate nel famoso dibattito, cfr. S.J. AL-Azm, The Origins of Kant's Arguments in the Antinomies, Oxford, Clarendon Press, 1972, p. 86 sgg.

3 L’ha riconosciuto uno dei maggiori sostenitori contemporanei del libero arbitrio come incompatibile col determinismo, quale R. M. CHisHoLm, Freedom and Action, in AA.VV., «If... 23: p. , 1966 e, Hous om Rand , York New er, Lehr K. di cura a ism, rmin Dete Freedom and

PIRO 3),gen

SERGIO

LANDUCCI

(o le ra tu na à it ss ce ne a ll da za en cioè che presupponeva sì l’indipend co a o tt fa af va ce du ri si n no e nt me te causalità per natura), ma eviden

un ad te on fr di mo em er ov tr ci ti en im tr al é desto suo lato negativo, ch mero indeterminismo. tra la , tà al re in a, nt se re pp ra nt Ka di » La «libertà trascendentale à, rt be li a ll de ne io ez nc co la el qu di e il ib ig ll te sposizione del mondo in

lo co se l de io iz in l’ al e ch e, rt fo o ns se in , à’ it iv tt ‘a di quale sinonimo

a es pr ri à rr ve co po a lì di e ch (e * ke ar Cl el mu Sa a da at era stata elabor riAl . n) Ma of rs we Po ve ti Ac e th on ys sa Es i gl ne id anche da Th. Re nt Ka di a vat pri ne sio les rif una nte que elo nte rme guardo è particola dtth /bs [Se tà nei nta spo ta ple com una è à ert lib «La te: uen seg la e com x

sipas non e , iva àtt è à ont vol «la se o sol ha si e à», ont vol la tigkeit] del

e ì cos re agi ad so mos o nto spi o son e: dir rei dov ti men tri «al ché ; va» così; il che equivale a dire: non sono agente, bensì paziente. Se Dio

dirige le determinazioni dell’arbitrio umano..., se gli stimoli delle cose lo determinano con necessità..., l’azione non scaturisce da me,

bensì io sono solo il mezzo di un’altra causa...».? Nel pensiero occidentale si rintracciano, in realtà, due grandi modelli della causalità, reciprocamente alternativi: la concezione antica

what I have been trying to say is true, than we have a prerogative which some would attribute only to God: each of us, when we act, is a prime mover unmoved. In doing what we do, we cause certain events to happen, and nothing — or no one — causes us to cause those events to happen». Sul versante contrario, cfr. S. TImPANARO, Né giustificazionismo né volontarismo, in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Pisa, E.T.S., 1982, p. 318. Pertquanto riguarda specificamente Kant, cfr. nell’ambito dell’offensiva dei tardi wolffiani contro di lui, J. C. ScHwaAB, Uebder die zweyerley Ich, und den Begriff der Freybeit in der Kantischen Moral, nel «Philosophisches Archiv» hrsg. von J. A. Eberhard, 1° fasc. del vol. I, Berlin, 1792, pp. 73 sg. e 76: all’Io noumenico Kant attribuisce le caratteristiche della divinità, come la libertà assoluta, l'elevazione al di sopra delle leggi della natura, l’immutabilità. La stessa osservazione, del resto, già nelle recensioni alla Critica della ragion pratica, di H. A. PrstoRIUS e A. W. ReHBERG, ora in Materialien zu Kants «Kritk der praktichen Vernunft», hrsg. von R. Bittner und K. Cramer, Frankfurt a.M., Suhrkamp 1975, rispettivamente pp. 176 e 192. 4 Cfr. in specie Remarks upon a Book entituled «A Philosophical Inquiry concerning Human Liberty» [di A. Collins], London, Knapton, 1717, p. 15: «L’intera essenza della libertà consiste nel potere d’agire. Azione e libertà sono idee identiche...» (ma, nell’eventualità che Kant non conoscesse quest’opera, si vedano le altre due citt. sopra, nota 2, e più oltre, nota 12, che erano state entrambe precocemente tradotte in francese). Ai nostri giorni, G. H. von WriHT, Freedom and Determination, «Acta Philosophica Fennica», Amsterdam, North-Holland, XXXI, 1980, fasc. 1°, p. 78 sg. (trad. ital. di M. Sani, Parma, Pratiche Editrice, 1984, p. 109): «La ‘libertà’ o il ‘libero arbitrio’ d’un uomo consistono... nel fatto ch'egli agisce...

Negare che un agente sia libero è incorrere in una contraddizione in termini...». 3 Refl. 4225, in Ak., vol. XVII, p. 464!!, 15-22. E 4220, ivî, p. 46223: «La libertà è propriamente solo l’autoattività».

RSS ara

ARBITRIO

ED

AUTONOMIA

DELLA

VOLONTÀ

IN

KANT

(per esempio aristotelica, ma senz'altro anche prefilosofica),° e la concezione che s’afferma invece con la rivoluzione scientifica, nel XVII secolo, non senza connessione con l’avanzare del determinismo. Secondo la prima concezione, ‘causa’ è ciò a cui un evento va riportato (o ‘imputato’) come alla sua origine: un ente (persona o cosa), quindi, dotato del potere di ‘produrre’ l’effetto.” Secondo l’altra concezione, invece, la causa d’un evento è sempre e solo, a sua volta, un evento esso stesso, che di quello sia la condizione determinante.8 Ora, mentre un determinista non poteva non rifiutare il primo modello, invece il suo avversario poteva benissimo non rifiutare in toto il secondo; poteva cioè ben dire che quest’ultimo è adeguato per alcuni eventi che si verificano nel mondo, ma non per tutti, ché altri eventi presuppongono il primo modello, e solo questi altri sono da considerare ‘azioni’, in senso proprio. Un'azione sarebbe quindi un evento la cui causa non sia a sua volta un altro ‘evento’, bensì un

soggetto dotato d’un ‘potere’ corrispondente.!° Inoltre, allorché d’un evento sia causa un altro evento, anche quest'altro avrà come causa un evento ulteriore, e così via regredendo, potenzialmente all’infini6 Inevitabile rimandare, al riguardo, a H. KELSEN, Società e natura (1943), trad. ital. di L. Fuà, Torino, Einaudi, 1953 (di impostazione teorica, invece, Causality and Imputation, «Ethics», LXI, 1950, p. 1 sgg., trad. ital. in app. a In., Lineamenti di dottrina pura del diritto, a cura di R. Treves, Torino, Einaudi, 1967, p. 207 sgg.). Per le discussione degli antichisti, cfr. R. MonpoLro, Problema umano e problema cosmico nella formazione della filosofia greca (1934), in Problemi del pensiero antico, Bologna, Zanichelli, 1935, p. 21 sgg.; poi, pressoché immutato, come cap. I d’un volume uscito in Argentina nel 42, trad. ital. di L. Bassi, col titolo Alle origini della filosofia della cultura, Bologna, Il Mulino, 1956, p. 5 sgg. 7 AriIsTOTELE, Metaph., IV,2,1013 a 29-32, e Phys., II,3,194 b29-32: causa (efficiente) è «il principio primo del mutamento o della quiete; come è causa l’autore d’una decisione, il padre è causa del figlio, e, in generale, chi fa è causa di quel che vien fatto...». 8 GALILEI, Opere, ediz. nazionale, Firenze, Barbera, 1968, vol. VI, p. 26525-27 (Il saggiatore, $ 14): «quella... si debba propriamente stimar causa, la qual, posta, segue sempre l’effetto, e, rimossa, si rimuove [l’effetto]» (curiosamente, questa definizione, per cui la causa è presentata come condizione non soltanto sufficiente, ma anche necessaria, rispetto all'effetto, è A cfr. tanto: discusso s'è quale sulla Hume, di definizione doppia famosa quella a identica ClarenOxford, Nidditch, H. P. by rev. Selby-Bigge, A. L. by ed. Nature, Human of Treatise due i sopra (Dialogo... 471°!! p. VII, vol. e 170); p. 142, sez. II, don Press, 1978, 1I, parte alvegga si volta qualunque che, è cosa «necessaria IV?): Giornata mondo, del massimi sistemi terazione... nell’effetto, ... alterazione sia nella causa». ? Basti pensare alla critica delle nozioni di «facoltà», «potere», ecc. (certo facilitata alHuoza, Spin es, Hobb di parte da ), ardo rigu al , stici Scola i ultim degli quanto dal verbalismo ioni voliz delle anto solt bensì , ntà» volo «la come cosa qual pio, esem per dà, si non ecc.: me, concrete. del i ion lez di so cor nel t, Kan in he anc so, sen sto que in o, gic olo min 10 Uno spunto ter n d’u io act un’ e dov 5, 343 564 p. II, XXV vol. , Ak. in 1793-94 Metaphysik der Sitten Vigilantius, le. ura nat to men adi acc nto qua in s, ntu eve un ad a ost opp va tro si , era lib soggetto, in quanto

l'ala

SERGIO

LANDUCCI

ipr o nt me ia nc mi co un me co e to; mentre un’‘azione’ sarà da pensar

uCr o, sc de te o d n o m l ne , re pu op o, mo.!! Così Clarke,!2 per esempi de ra co an a er ti es qu hé rc lo al nt Ka da o at ic it cr iò rc pe io pr ro (p ! us si 4 .! 5) ’5 l o de ti da ci lu Di va No a ll ne oè ci terminista, e

la n co ma ; mo is ic it cr al o at od pr ap E, così, Kant stesso, una volta

di i ll de mo e du i ra lo al ce is bu ri st di i gl 'e ch a im differenza importantiss e à rt be li r pe à it al us ca e nt me va ti et causalità (denominandoli risp l Ne .! co ni me no fe e e il ib ig ll te in ’, di on causalità naturale) fra i due ‘m 11 L'ammissione di entrambi i modelli è presentata come la posizione dei sostenitori della Tesi della Terza antinomia, da Kant, nella formulazione stessa di essa (A 444, B 472): «La i tutt vare deri i fatt r sse ose san pos cui da ica l’un è non ra natu a dell i legg o ond causalità sec à alit caus una he anc ere ett amm da è essi di ne zio ega spi la Per do. mon del ni ome fen i nti qua per libertà». 12 Cfr. Correspondance Leibniz-Clarke..., par A. Robinet, Paris, P.U.F., 1957, p. 200 (Die philosophischen Schriften di Leibniz, hrsg. von C. I. Gerhardt, Berlin, Weidmann, 1875 sgg., vol. VII, p. 433): «ogni mera comunicazione meccanica di movimento non è propriamente un’azione, bensì pura passività, tanto nei corpi che imprimono l’impulso quanto in quelli che lo ricevono [da intendersi, naturalmente, nel senso che anche i primi sono determinati, ad

imprimere il movimento agli altri]. Azione è l’inizio d’un movimento là dove prima non ce n’era, da parte d’un principio di vita o d’attività...», ecc. 13 Cfr. Dissertatio philosophica de usu et limitibus principii rationis determinantis, vulgo sufficientis (1743), poi in Opuscula philosophico-theologica, Lipsiae, Langen, 1750, p. 152 sgg. È preferibile chiamarlo di ragion determinante, il principio formulato da Leibniz e sostenuto da Wolff e seguaci ($ 3); ma, appunto perciò, non può esser ammesso senza restrizione, ché altrimenti condurrebbe ad un universale necessitarismo, e sopprimerebbe quindi la moralità ($ 4 sgg.). Fra le «actiones primae», alcune sono «determinate» univocamente, ed altre libere ($ 24 sg.); pertanto, il principio di ragion determinante va formulato così: «quicquid non est actio prima libera, illud...», ecc. ($ 26), di contro alla formulazione leibniziano-wolffiana: «omnem causam agentem...», ecc. ($ 41). Ma anche le azioni libere hanno pur una ragion sufficiente,

ancorché non determinante ($ 45). L'errore degli avversari è derivato dal fatto che il principio di ragion determinante vale larghissimamente, cioè in tutti quanti i campi in cui non siano coinvolte azioni libere ($ 46). Le stesse tesi, nell’ Anweisung vernwnftig zu leben, Leipzig, Gleditsch, 1744, $$ 41 e 47; nell’Enswurf der nothwendigen Vernunft-Wahrbeiten, ivi, 1745, $$ 81-84; e nel Weg zur Gewissheit und Zuverlassigkeit der menschlichen Erkenntnis, ivi, 1747, SS

143 e 291. Oltre che riprendere la formulazione tradizionale della libertà cosiddetta d’indiffe-

renza (v. più avanti, nota 23), Crusius definisce la libertà anche come «facoltà di determinarsi da sé ad un’azione, senza esservi determinati da alcunché d’altro, sia in noi sia fuori di noi»

(Anweisung cit., $ 39; Entwurf, cit., $ 23). Si noti che egli menziona esplicitamente la disputa Leibniz-Clarke, sostenendo, naturalmente, il pieno accordo col secondo contro il primo (Dissertatio philosophica, cit., $$ 2 e 47). 14 Cfr., nel corso della Prop. VIII*, Ak., vol. I, p. 3975? (trad. ital. di A. Pupi, in KANT, Scritti precritici, Bari, Laterza, 1982, p. 22 sg.), e in tutt’intera la Prop. IX2. 15 Cfr. Critica della ragion pura, A 546 sg., B 574 sg.: «L'uomo è uno dei fenomeni del mondo sensibile..., la cui causalità non può non sottostare a leggi empiriche... Nella natura inanimata o semplicemente animale non troviamo alcun fondamento per pensare ad una qua-

lunque facoltà che non sia condizionata sensibilmente. Ma l’uomo..., per un altro verso, cioè in relazione a talune sue facoltà, è oggetto puramente intelligibile, in quanto il suo operare non può esser messo sul conto della ricettività sensibile» (la differenza, rispetto a Clarke, è che questi attribuiva il «potere attivo» anche agli animali); e Fondazione della metafisica dei co-

Sta

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VOLONTÀ

IN KANT

mondo fenomenico (ivi compresa anche la vita psichica d’una persona, in quanto svolgentesi sotto la forma del ‘senso interno’), il rapporto causale è sempre da evento a evento (conformemente alla Seconda analogia dell'esperienza), e va infatti almeno în indefinitum, regressivamente.!° Nel mondo intelligibile, invece, la causalità è incondizionata, cioè non effetto, a sua volta, d’un altro evento, bensì

«spontaneità assoluta».!” Nel mondo intelligibile, si può dire, non si danno ‘eventi’, essendo esso del tutto extratemporale, bensì soltanto ‘azioni’;!8 e queste sono tutte da imputare al soggetto (noumenico) che le compie. Infatti, non appena introdotta la nozione della libertà trascendentale come idea ‘cosmologica’, nella Dialettica della Critica della ragion pura, Kant avvertiva ch’essa costituisce il fondamento del concetto «pratico» della libertà, intendendo, con ciò, il libero arbitrio umano stumi, sez. 33, in Ak., vol. IV, p. 4527-19, 23-30 (SM, p. 113): «L'uomo trova effettivamente in

sé una facoltà per cui si distingue da tutte le altre cose, ed anzi anche da se stesso in quanto viene affetto da oggetti, ed è la ragione... Perciò un essere razionale, in quanto intelligenza, ... deve considerare se stesso come appartenente, non già al mondo sensibile, bensì a quello intelligibile; ed egli ha quindi due punti di vista da cui può considerare se stesso...: da un lato, in quanto appartiene al mondo sensibile...; dall’altro, in quanto appartiene al mondo intelligibile...». 16 Per l’elaborazione della nozione del regresso empirico indefinito, cfr. Critica della ragion pura, A 409 sgg., B 436 sgg.; A 414, B 441 sg.; A 416 sg., B 444 sg.; A 468 sgg., B 496 sgg.; A 497 sgg., B 526 sgg.; A 510 sgg., B 538 sgg. È già tutto implicito nella nozione della «necessità» (naturale) fissata nel terzo dei Postulati del pensiero empirico in generale (A_226 sgg., B 279 sg.): come necessità sempre «condizionata», o «ipotetica». Si noti che, lungo tutta la Dialettica trascendentale, come sinonimo del «condizionatamente necessario» si trova quasi sempre «contingente» (zuf@/lig) tout court; ma questa contingenza contraddistingue l’esistenza d’ogni ente finito, in opposizione all’unica esistenza che sia pensabile come incondizionatamente necessaria, quella di Dio (in A 419, B 447 [Ak., III, p. 289!!-12], è da correggere un errore ch’è presente in tutte le edizioni, almeno nel nostro secolo: anziché «Die unbedingte Notwendigkeit der Ercheinungen kann Naturnotwendigkeit heissen», si deve leggere, ovviamente, «Die bedingte Notwendigkeit...»). Ciò è del resto in accordo con la nozione di contingenza che (in polemica con la definizione razionalistica, come ciò di cui è concepibile la non esistenza), si trova in B 289 sgg., e in A 243 sg., B 301 sg. 17 Cfr. ivi, A 448, B 476; A 533, B 561; A 554 sg., B 582 sg.; Critica della ragion pratica, in Ak., vol. V, pp. 48,21, 9924 (SM pp. 187, 243); ecc. Naturalmente, questa spontaneità non ha nulla a che fare con la «spontaneità» nel senso tradizionale e prevalente, intesa come assenza di costrizione esterna; ché s’identifica invece con la libertà «trascendentale»; e, contro la lo«psico à libert ina denom li (ch’eg ionale tradiz senso nel à aneit spont a à libert della ione riduz 535, A e 476, B 448, A pura, ragion della a Critic nella già cenno un simo: nettis è gica»), Kant

B 563, prima dell’ampio sviluppo nella Critica della ragion pratica, per cui v. più avanti, nota Do

non che so sen nel », nte nie ade acc n «no e bil igi ell int to get sog 18 Cfr. ivi A 541, B 569: nel nqui può si e ; ali por tem ni zio ina erm det e ebb her lic imp ciò ché vi ha luogo alcun cangiamento, ne zio l’a che za sen , ile sib sen do mon nel tti effe i suo ai di dire che esso «dà inizio da se stesso inizi i lui stesso».

SIC: 1

SERGIO

LANDUCCI

, ro be li o en im nd no ma à, it il ib ns (‘sensitivo’, in quanto affetto dalla se irm te de n no i, al im an i gl de ’ to ru ‘b o perché, a differenza dall’arbitri o an um io tr bi ar ro be li e al qu Il . à) it il ib nato necessariamente, dalla sens

a ll a da nz de en ip nd (i vi ti ga ne o nt ta i in rm te in era definito, anch'esso, ). ne io az in rm te de to au di tà ol ac (f vi ti si necessità naturale) quanto po

be eb er gg ru st di le ta en nd ce as tr à rt be li a Comunque, «la negazione dell ma ti ul t’ es qu e ch o t n e m o m l da , a» ic at in pari tempo ogni libertà pr ) en /l So l o de ns se el re (n de ca ac to vu e do bb re sa sa co al qu e a implic ch anche se, per ipotesi, non sia accaduto.!? Invero, l’unico argomento che già nella Critica della ragion pura ci ol’u nel io itr arb ero lib il te men iva ett eff e er tt me am ad be reb autorizze mo (e, di conseguenza, tanto la libertà in senso trascendentale quanto a che re olt e, bil igi ell int o nd mo un ad he anc omo l’u del za nen rte ppa l'a

in ata ret erp int ,?° ale mor tà ili sab pon res la e ebb sar ) ile sib quello sen

termini retribuzionistici, cioè come ‘merito’ e ‘colpa’ (interpretazione pensata tacitamente, da Kant, come l’unica possibile).?! Ora, perché 19 Cfr. ivi, A 534, B 562.

20 Cfr. ivi, A 554 agg., B 582 sgg., e già A 448, B 476. Si può quindi dire che, nella Critica della ragion pura, così come in quella della ragion pratica, Kant poggia tutto su quella che per Crusius era solo una delle tre prove della realtà della libertà nella volontà umana, e precisamente la terza, secondo l’enumerazione che si trova nel $ 42 dell’ Anweisurg, cit. Ma anche per Crusius questa era la più importante (cfr. ivî, $$ 38 e 40, e già Dissertatio philosophica, cit., $ 8 e sg.). Invece, Kant rifiuterà sempre la prova che Crusius aveva enumerata come pri-

ma (quella fondata sull’introspezione), e, quella enumerata come seconda (il libero arbitrio delle creature quale scopo finale della creazione), la riprenderà solo nella Critica del Giudizio, $ 83 sg. (però, nelle lezioni accademiche, già nel corso del 1784 Naturrecht Feyerabend, in

Ak., vol. XXVII, pp. 1319-1322).

21 Come Kant intenda la responsabilità in senso retribuzionistico risulta bene, se ce ne fosse bisogno, dalla sua concezione della punizione, esposta, per es., nella Metafisica dei costumi (Ak., vol. VI, pp. 33129-332!0 e 36331-35; trad. ital. di G. Vidari, riv. da N. Merker, Bari, Laterza, 1970, pp. 164 sg. e 205). Per il sottofondo teologico di codesta concezione (la poena vindicativa, mere moralis, anziché medicinalis per il colpevole ed exemplaris per gli altri; non ne peccetur, bensì quia peccatum est), si veda la lettera di Kant a J. B. Erhard del 21 dicembre 1792, in Ak., vol. XI, p. 39825-3994, in risposta ad un quesito che il suo corrispondente gli aveva posto il 6 novembre 1791, ivî, p. 30639-3074. Per la stessa problematica nelle lezioni di morale, cfr. Ak., vol. XXVII, pp. 150!4-1513; 286!4-287! e 143540.1436?? (corrispondenti, grosso modo, alla trad. ital., a cura di A. Guerra, delle Lezioni di etica secondo la vecchia ediz. Menzer, Bari, Laterza, 1971, p. 62 sg.); vol. XIX, pp. 63735-639!, 64142; sempre sulla scorta di A. G. BAUMGARTEN, Initia philosophiae practicae primae, Halae Magd., Hemmerde, 1760, $ 116, ripr. in Ak., vol. XIX, p. 56, con le relative Refll. di Kant, 6524-6529, ibidem. Nelle lezioni di filosofia della religione, cfr. Ak., vol. XXVIII, p. 1086!3-10875 (trad. ital. di

C. Esposito, Napoli, Bibliopolis, 1988, p. 228 sg.); e, nelle lezioni di metafisica, vol. XXVIII, ‘pp. 70022-24, 807!3-25; sulla scorta di BAUMGARTEN, Metaphysica, Halae Magd., Hemmerde,

17575, $ 910, ripr. in Ak., vol. XVII, p. 184, con le relative Refll. di Kant, 3667-3671. (Par-

lando di «colpa» e «merito», poi, assumo quest’ultimo termine in senso generico, non nel sen-

so specifico in cui Kant lo usa nelle sue lezioni di morale, allorché lo riferisce solo al compi-

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ciò abbia senso, bisogna appunto presupporre che la volontà umana sia dotata d’una causalità libera, quale che sia l’oggetto per cui di fatto essa opti: «un oggetto della mera sensibilità, come il piacevole, oppure un oggetto della ragion pura, come il bene [morale]».?? Si tratta dunque di quella concezione della libertà del volere che da due secoli andava sotto il nome (per la verità infelicissimo) di ‘libertà d’indifferenza’, intendendosi con ciò una libertà esclusiva della necessità (e non soltanto della ‘costrizione’).2? Onde evitare equivoci, la si potrebbe chiamare, con un altro dei suoi nomi tradizionali, potestas ad opposita o ad utrumque. Del resto, se si controlla il luogo classico, perché originario, a proposito della cosiddetta libertà d’indifferenza, e cioè il De concordia del Molina, la si trova definita appunto in termini di ‘capacità’ o ‘potere’: «Illud agens /beruzz dicitur, quod, positis omnis requisitis ad agendum, potest non agere aut ita ‘agere unum ut contrarium etiam agere possit».?* Né necessità né Caso, mento dei doveri cosiddetti «imperfetti», sostenendo che, mentre c’è sempre colpa nella trasgressione dei doveri «perfetti», non c’è invece alcun «merito» nel fare il proprio dovere, qualora questo sia «perfetto»). 22 Cfr. Critica della ragion pura, A 548, B 576. 23 Allorché Hume distingueva fra la libertà come «spontaneità» e la libertà come «indifferenza», la prima opposta alla costrizione [violence] e la seconda alla necessità (A Treazise, cit., ..II, parte III, all’inizio della sez. 28), non faceva che riprendere la distinzione in uso

presso tutti i teologi da quasi due secoli. Sul versante contrario, rispetto a Hume, cfr., per es., Crusius, Anweisung cit., $$ 38 (definizione della libertà nei termini tradizionali della libertà d’indifferenza, che nel $ 50 è qualificata come la forma «perfetta» della libertà) e 40 (contro la riduzione leibniziana della libertà alla «spontaneità»); Entwurf, cit., $$ 132 e 307, contro la confusione della necessità con la costrizione, a proposito della libertà del volere (e

cioè il rovescio esatto della polemica di Hume, ma negli stessi termini). Occorre tuttavia qualche vigilanza, quanto ai diversi usi terminologici. Per quel che riguarda il Kant critico, già s'è detto (sopra, nota 17). Quanto a Leibniz, questi ha sempre asserito che il libero arbitrio, com’egli lo intendeva, implicava la contingenza ed escludeva la necessità; ma si trattava solo della necessità «assoluta», o «metafisica», cioè logica, per cui alcunché è necessario se la sua negazione sarebbe una contraddizione (e viceversa, per il contingente); ché il libero arbitrio di Leibniz è una forma, specifica finché si voglia, ma pur sempre di necessità, ancorché non logica, bensì (diremmo oggi) nomica, o naturale. Per il resto, il ritornello che i motivi «inclinano, volta una come, letterario; vezzo un solo è ripetuto, sempre volontà, la ma non necessitano» ridifferenza, la lettere: tutte a spiegato ha stesso Leibniz 43), $ almeno (Essais de théodicée,

spetto al tradizionale astra inclinant, non necessitant, è che in quest’ultimo caso (facendo finta vola cui verso partito il «mentre verifica, si l’evento sempre non di dar credito all’astrologia) essa. da preso» d’esser mai manca non inclinazione maggiore la ha lontà (Ad 8 p. 5, 159 es, gna Tro e, pia ver Ant , dia cor Con s... doni e tia Gra 24 Liberi arbitrii cum I 2°). p. Dis o], mas Tom San di ica log teo ra Su la del I° s Par lla art. 13% quaestionis XIX°© [de San . (cfr tù» rvi «se di o ost opp e com a) : così ti ica cif significati della parola «libertà» sono spe a«co di o ost opp e com b!) ; mo» ser o loc hoc is nob est non Paolo); ma «de libertate ita sumpta (a i» fier re libe r itu dic , non sive ti ita ess nec li ura nat fiat e siv zione», per cui «quod sponte fit, urid i, mal ani li neg he anc ma te, men di ati mal nei e ciò, che si trova non soltanto nei fanciulli

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i de ca mi na di a ll de o tt fe ef ce li dunque, l’azione libera: non un semp uca e tr al di i tt fe ef a lt vo ro lo (a to et gg so motivi operanti in un dato o. at in rm te de in e nt me ra me to en ev un e ch an ne se), ma

à rt be li la a av ut fi ri ce ve in i ch e a ev en st so i ch La differenza, fra la al e st po op e nt me va ti et sp ri te os sp ri in così intesa, consisteva infatti on sp ri i im pr I à. it al su ca e à it ss ce ne a fr rz iu questione se si dia un tert no so n no so Ca e à it ss ce ne o: iv at rm fe af o ns se in te en devano ovviam ì ns be , ’) co an bi on ‘n e o’ nc ia ‘b e om (c ri to it dd ra nt co te reciprocamen rivo ti ga ne o ns se In ). o’ er ‘n e o’ nc ia ‘b e om (c ri ra meramente cont

spondevano ovviamente i deterministi.? Per pensarlo, il libero arbitrio, come una ‘via di mezzo’ fra la nesia non che : ati tul pos due ari ess nec ue nq du o son 6 cessità e il Caso,2 deterministica la relazione intercorrente fra i ‘motivi’ e la scelta (o la decisione) da parte del soggetto; e che questa scelta o decisione sia per l'appunto un’‘azione’, nel senso forte che s’è detto, ossia un’inicono il libero arbitrio i luterani); b2) come opposto di «necessità»; e questo è il «libero arbitrio» in senso proprio, per cui «agens liberum in hac significatione distinguitur contra agens naturale, in cuius potestate non est agere et non agere, sed, positis omnis requisitis ad agendum, necessario agit et ita agit unum ut non possit contrarium efficere». 25 Quasi sempre, in età moderna, l'alternativa rappresentata dal Caso era considerata vuota: non soltanto da parte dei deterministi, com’è naturale, ma pur da parte di coloro che difendevano la potestas ad utrumque, come, per esempio, al solito, Clarke, Crusius e Kant stesso. Ciò non toglie, però, che la questione si ponesse nei termini del trilemma che s’è detto, proprio perché era convinzione dei deterministi che la libertà, come sostenuta dagli avversari, fosse per l'appunto da identificare col Caso, mentre ciò era rifiutato, ovviamente, dagli altri. Cfr., per es., LEIBNIZ, Essais de théodicée, $ 303: «... Una scelta siffatta sarebbe una sorta di mero Caso», ecc.;

o HUME, A Treatise, loc. cit., conclusione della sez. 18, e poi, continuamen-

te, nella 22; An Enquiry concerning Human Understanding, sez. VIII, conclusione delta parte 12: «La libertà, in quanto opposta alla necessità, e non meramente alla costrizione, è la stessa cosa del Caso; e tutti ammettono che questo non si dà». Quanto a repliche, cfr., per es., CLARKE, contro Leibniz (Correspondance, cit., p. 112; Philosophischen Schriften di Leibniz, cit., vol. VII, p. 385): «Il Caso... non è una scelta della volontà...»; CRUSIUS, Anweisung, cit., $ 48, e Entwurf, cit., $ 83: parlando di Caso [das Ungefibr, o Ohngefabr], si può intendere che alcunché avvenga senza una causa sufficiente ovvero che non provenga da una causa intelligente; ma ogni azione libera ha la sua causa sufficiente, come sappiamo, nel soggetto agente stesso (con le sue rappresentazioni intellettuali, i desideri fra cui avviene la scelta, e la forza attiva che ne costituisce la volontà), ed è sempre, per definizione, opera d’uno «spirito», cioè

d’un ente dotato di intelletto e ragione, che procede secondo idee (su queste «condizioni» della libertà, cfr. Anweisung, $ 45). Se poi si obietta che un’azione libera sarebbe «indeterminata», occorrerà distinguere: se indeterminata si prende come aggettivo, un’azione libera è determinatissima, al pari di qualunque altra cosa od evento; se come participio passato, allora che un'azione libera non sia determinata univocamente da cause precedenti, è la tesi stessa sostenuta positivamente. ., 26 Così, alla lettera (se si dia un «third way..., distinct from necessity and chance, namely freewill»), aveva impostato la questione Hobbes, fin dalla prima riga della sua discussio-

ne con il Bramhall (English Works, ed. by W. Molesworth, London, Bohn, 1839 sgg., vol. V,

p. 1). Naturalmente, egli stava per la negativa: cfr. ivî, pp. 221 sgg., 406 sgg.

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ziativa del soggetto, che trovi in questo la sua origine.” La prima condizione è necessaria, ovviamente, per opporsi al determinismo; ma non sufficiente, da sola, proprio perché, se ci si limitasse ad essa, non sarebbe ancora escluso il Caso.?8 I motivi fra i quali avverrebbe la scelta o decisione da parte del soggetto, sono invero limitati da Kant (per quel che gli interessa, in vista cioè della prospettiva morale) a quelli che ricadono sotto due classi sole: il bene come oggetto della ragion pura, secondo s’è letto (e cioè il rispetto della legge morale, nella terminologia della Critica della ragion pratica), da una parte, e, dall’altra, il meramente piacevole come oggetto della sensibilità (e cioè le inclinazioni empiriche della facoltà di desiderare, raccolte tutte insieme, queste, nel calderone del ‘patologico’). Ma la scelta tra siffatti motivi è intesa da Kant appunto come opera del soggetto (intelligibile), ché altrimenti questi non opererebbe per libero arbitrio. E ancora nei Prolegomeni, in occasione della riproposizione della soluzione della terza Antinomia (seppur in un contesto complessivamente assai poco perspicuo), Kant avrà cura di annotare esplicitamente: pur nel caso che una decisione da parte d’un essere razionale dipenda da inclinazioni sensibili, tuttavia non perciò la sua volontà è determinata dalla sensibilità, perché ciò è addirittura impossibile, e pertanto la volontà è libera anche in questo caso.?° x

27 Cfr. CLARKE, contro Leibniz: l’errore di costui è di supporre che i «motivi» abbiano, con la volontà d’un agente intelligente, la medesima relazione che i pesi con una bilancia. La differenza, invece, è questa: una bilancia non è un agente, bensì è meramente passiva, mentre gli esseri intelligenti hanno un potere attivo, e non sono mossi dai motivi come una bilancia dai pesi. Così, essi agiscono, talora, per i motivi più forti, ma talora anche per motivi più deboli, e talora anche quando due o più modi di agire siano indifferenti l’uno rispetto all’altro. Ritorsione di Leibniz: ma così lo spirito dell’essere dotato di intelligenza e volontà viene separato dai «motivi», come se questi fossero esterni a lui, proprio nel modo in cui un peso è distinto dalla bilancia. Controreplica di Clarke: nell’impressione che i motivi esercitano sulla mente, questa è passiva; ma essa ha anche un potere d’agire, nel quale consiste propriamente

la libertà, e che non deve quindi esser confuso con i motivi che lo sollecitano, con la loro varia forza. L’unica questione relativa alla libertà, in filosofia, è se in colui che chiamiamo l’a-

gente si trovi effettivamente un principio d'azione, o se invece la causa reale dell’azione sia sarebbe non caso, tal in però, quale, il sull’agente, operi che sufficiente» «ragion qualche una vol. cit., Leibniz, di Schriften Philos. sgg.; 188 sg., 127 108, pp. cit., più tale (Correspondance,

VII, pp. 381, 392, 421 sgg.).

osti que in e ion cez con la del o ari ers avv un da ato bor ela to sta 28 Questo modello teorico è o pat tam ris poi , 34) (19 sm ani ari ert Lib and m nis rmi ete Ind sm, ini erm Det an, Bro D. ne, come C. and k Yor New ky, ofs Ber B. by ed. sm, ini erm Det and l Wil e Fre più volte, per es. in AA.VV., London, Harper and Row, 1966, p. 135 sgg. 112 p. 9, 197 a, erz Lat i, Bar se, lle abe Car P. di . ital d. (tra ° 8-1 346 p. 29 $ 53; Ak., vol. IV, sg.).

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nme ta mu un ha si i um st co i de ca 2. Nella Fondazione della metafisi e on zi du ro nt ’i ll da o tt do in : ne io az st po im to radicale, rispetto a codesta in e en vi ta es Qu . à’ nt lo vo a ll de a mi no to della nozione nuova dell’‘au le vo l de à rt be li a ll de o» iv it os «p to et nc co di o ol fatti ad assumere il ru npe di in l’ re se es ad ua in nt co sa es di o» iv re, mentre il concetto «negat a er m' co a, or ù, pi iò rc pe ta at tr si n . No le ra tu à na it ss denza dalla nece e du di , ra pu on gi ra a ll a de ic it Cr a ll to de na io nz me o og lu l invece ne io tr bi ar ro be li l de e: on zi no ma si de me a i un ar d’ nt me aspetti comple ià in è rt be a li ll va de ti e ga on ne zi ni fi de , la nt Ka ce i, di tt fa In o. an um

na si pe ap n no ce ve in ta da è e ci al a; qu la nz se es e l’ en rc da a a ne do à li r it pe al us ca e la ch à, it an al i us as ca si al qu di ri pa a al e, nd ch re mp co bertà non è priva di ‘leggi’, ché altrimenti «una volontà libera sarebbe un puro nulla» (in quanto s’avrebbe un mero indeterminismo). Ora, «la necessità naturale era un’eteronomia delle cause efficienti...

Che cos’altro può dunque essere, la libertà della volontà, se non autonomia?».39 E, da questo momento in poi, tutto un séguito di riproposizioni

d’una siffatta duplice identificazione. La soluzione dell’antinomia fra libertà e determinismo è riformulata, per esempio, dicendo che un essere razionale ha due punti di vista da cui considerare le proprie azioni: da un lato (in quanto appartiene al mondo sensibile), «sotto leggi naturali (eteronomia)»; dall’altro (in quanto appartiene al mondo intelligibile) «sotto leggi che... hanno fondamento esclusivamente nella ragione».3! Dove è del tutto patente, l’identificazione dell’eteronomia della volontà con la necessità naturale tout court, oltre che della sua autonomia con la libertà tout court, e quindi con l'appartenenza stessa dell’uomo al mondo intelligibile. Proseguiva, comunque, Kant: il principio della moralità sta a fondamento di tutte le azioni degli esseri razionali, così come la legge di natura sta a fondamento di tutti i ‘fenomeni’; ma con ciò egli intendeva, di nuovo, che al mondo intel-

ligibile, e quindi alla volontà libera, pertengano solo le azioni positivamente morali, in quanto queste sole sarebbero qualificabili come «azioni di esseri razionali», mentre quelle contrarie al dovere sarebbero meri eventi naturali; secondo si trova asserito espressamente:

queste altre azioni, in quanto appartenenti al solo mondo sensibile, 30 Cfr. Fondazione della metafisica dei costumi, all’inizio della 3 sezione (Ak., vol. IV, p.

446 sg.; SM, p. 107).

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devono esser considerate come determinate da altri ‘fenomeni’, quali sono, nel caso specifico, i desideri e le inclinazioni naturali dei soggetti agenti.52 Del resto, dice ancora, Kant, che, allorché viola la legge morale, ma nel contempo ne ammette l’autorità, l’uomo viene a riconoscere come essa dovrebbe pur valere «per la sua volontà cattiva di membro del mondo sensibile».? Dove l'equazione fra necessità naturale ed eteronomia della volontà è prolungata nell’esplicita equazione di entrambe con l’immoralità. Ovviamente, una identificazione della natura, come tale, con l’immoralità, appare del tutto priva di senso (almeno, sicuramente, all’interno del pensiero di Kant); ma essa è anche del tutto obbligata, data la premessa che conosciamo. Un caso di rigore consapevole, se si vuole, che tuttavia non può non suonare come un avviso d'allarme; solo che Kant non lo recepisce affatto. Semmai,

come

suole avvenire, nelle medesime pagine affiorano

talune controtendenze. Per esempio, allorché Kant assevera che nessuno è responsabile delle proprie inclinazioni sensibili, bensì soltanto dell’eventuale indulgenza verso di esse da parte della volontà, se questa acconsente a che prendano il sopravvento sulla legge morale?‘ (in accordo con una dichiarazione che si trovava pressoché all’inizio, della Fondazione, là dove Kant diceva che, in presenza del principio morale, da una parte, e, dall’altra, dei princìpi d’azione materiali, la vo-

lontà si trova di fronte ad un bivio?5). Ma la tendenza principale ri-

32 Ivi, pp. 49237-453?, 45323-25; SM, p. 114.

33 Ivi, p. 45547; SM, p. 116. 34 Ivi; p. 45815; SM, p. 119. 35 Ivi, p. 40010-12; SM, p. 56. Nelle Reflexionen prevalgono nettamente definizioni della libertà del volere umano in termini di «facoltà», o «potere», «di subordinare tutte le azioni compiute per scelta ai motivi della ragione», «di agire indipendentemente da cause determinanti esterne», «di agire secondo leggi date da se stessi», e così via (3865, 3867, 3872, 5435,

5436, 5439, 6077, 6446; in Ak., vol. XVII, pp. 317, 3172-24, 3192627; XVIII, pp. 18120-21, la è à libert «La : genere del ue, ambig ni lazio formu parte a Ma, 4), 7201-1 21, 4432014, 18213p. , XVIII vol. Ak., in (5435, o» rbitri dell’a ione minaz deter nella pura ragion causalità della

liberdella zione tifica l’iden sarà che quella a lenti equiva zioni defini pure no trova si 18), 181!7Per e). termin mo ’ulti quest di a assenz in ancora se (anche » nomia «auto tà del volere con la sua ità causal La . libertà è e ragion della ità causal «La 23; 25822p. , XVIII vol. es., 5619, in Ak., di à volont della à libert «La 7: 443252 p. ivî, 6078, ità»; animal è ilità sensib della determinante medal o divers di ché alcun anche ere scegli o potut be avreb i ch’egl Dio non consiste nel fatto p. XVII, vol. Ak., in 4226, già (e ...» umana libertà la e neppur te consis glio, ché în ciò non o quant [di rio contra il ire prefer o potut mo avrem che fatto nel 4657-8: «La libertà non consiste si sia per ipotesi preferito]...»).

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o ol «s e ch ne io rz se as l’ al no si mane quella, contraria, che s’è detta,

». sa es di à rt be li la n co e il ib at mp co l’autonomia della volontà è ol ev ag i il ib ru st co ri no so e, on zi si Le motivazioni, d’una simile po

la n co te en am ri to ni fi de ta ca fi ti mente. Intanto, se la volontà è iden

o ns se l ne ra be li è sa es te en am rt stessa ragion pratica pura,?” allora ce at tr si n no ma e; on zi ni fi de r pe o nt pu ap , a’ specifico che è ‘autonom

le te an qu e tt tu me ni no si e nd re e al qu la ta, così, che d’una statuizione ne io ss re sp ’e un , zi an a, st vi di o nt pu to es nozioni qui in gioco. Da qu

a ri to it dd ra nt a co ur tt ri di e ad bb re sa à» nt lo vo a a ll de mi come «eterono La ). ?8 ne io az nd Fo a ll ne , nt Ka di e rt pa (nonostante l’uso di essa, da convenzione di identificare la ‘volontà’, in senso stretto, con la faculn no a; ma an fi lf wo là uo sc a ll da nt a Ka a iv en ov or pr ri tas appetitiva supe perciò, per esempio, l’autore di cui egli usava i manuali, Baumgarten, era caduto nell’equivoco in cui cadeva lui, Kant: definite come propriamente ‘volontarie’ solo le azioni determinate appunto dalla facoltà superiore del desiderare, Baumgarten aveva però subito precisato: «Hoc significatu, omnes actiones voluntariae sunt liberae, [sed] non omnes actiones liberae sunt voluntariae», perché sono altrettanto libere anche quelle determinate dalla sensibilità.5? Inoltre, la conclusione che conosciamo discende realmente dalle due premesse assunte da Kant: che non si dia causalità senza una

‘legge’ dell’operare di essa, e che, nel campo pratico, l’unica ‘legge’ (principio dotato di universalità e necessità) sia appunto quella morale, tutti gli altri princìpi d’azione possibili essendo solo massime soggettive, contingenti. Ergo, l’unica legge della causalità per libertà è la legge morale, la quale è però identica all’autonomia della volontà.*° Il ragionamento di Kant sarà dunque stato più o meno il seguente: data 36. Ivi, p. 45831:32: SM, p. 120. 3? Cfr. ivi, p. 453!7-19 (SM, p. 114): «L’essere razionale assegna se stesso, in quanto intelligenza, al mondo intelligibile, e chiama volontà la propria causalità solo in quanto è una causa efficiente appartenente a tale mondo»; p. 4591!-14 (SM, p. 120): «... la volontà, cioè una facoltà del tutto diversa dalla semplice facoltà di desiderare, ossia di determinarsi ad agire... secondo leggi della ragione, indipendentemente dagli istinti naturali». 38 Cfr., nella 2 sez., il paragrafo L’eteronomia della volontà [des Willens] come fonte di tutti i princìpi illegittimi della moralità; ivi, p. 441; SM, p. 100 sg. 39 Cfr. Metaphysica, cit., $ 721 (sulla facultas appetitiva superior, identificata appunto con la voluntas,$ 689 sgg.), ripr. in Ak., vol. XVII, p. 136 (e vol. XV, p. 51). Per la nozione di volontà qui avanzata dal Baumgarten, cfr. WoLFF, Psycologia empirica, $ 880: la volontà è «appetitus qui oritur ex distincta boni repraesentatione». 40 Per quest’ultimo punto, cfr., nella 2% sez. della Fondazione, il paragrafo L'autonomia della volontà come principio supremo della moralità; Ak., vol. IV, p. 440 (SM, p. 99 sg.)

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per inammissibile una causalità eslege, d’altra parte si hanno solo due generi di ‘leggi’: quelle naturali e quella morale; quindi, un’azione

contraria al dovere, essendo determinata non dalla legge morale, non potrà esser determinata se non da leggi di quell’altro genere, naturali. Così, tutto sembra tornare: le azioni determinate da inclinazioni soggettive sono sì contingenti, se confrontate alla legge morale, ma, in

realtà, necessarie, anch’esse, in rapporto a leggi empiriche (di carattere psicologico). E superfluo insistere su come tutto dipenda dall’assimilazione della ‘legge’ morale alle leggi naturali, quanto ai loro caratteri formali

(oggettività e necessità), a cui Kant teneva tanto non per meri pregiu-

dizi ‘architettonici’, bensì per tutta la sua concezione del principio della moralità. Comunque, dalle conseguenze a cui egli arriva, si constata come non sia solo un irritante vezzo terminologico, la sua ostinazione“! a connotare le modalità deontiche (‘lecito’, ‘vietato’ e ‘ob-

bligatorio’) con i nomi delle corrispondenti modalità aletiche («possibile», «impossibile», e «necessario»).

3. La conclusione che c’interessa si ritrova pressoché continuamente anche nella Critica della ragion pratica, perché vi si ritrovano i medesimi meccanismi mentali che, come s’è appena visto, l’avevano provocata (salvo che ora si trova corretta l’incongruenza di parlare di una ‘eteronomia della volontà’: ora, l'autonomia è della volontà, ma

l’eteronomia è dell’arbitrio, ossia della facoltà di scelta pura e semplice, Willkin).4?

Se guardiamo ai due Problemi relativi al rapporto fra ragion pratica pura e libertà della volontà (e cioè ai $$ 5 e 6 del cap. I dell’ Analitica), constatiamo che la soluzione del primo non riserva difficoltà:

perché la volontà possa esser determinata solo dalla legge morale, deintta siffa e , rale natu lità causa dalla ente pend indi tutto del sere v’es dipendenza ha il nome di libertà «nel senso il più rigoroso, cioè trascendentale», precisa Kant con allusione esplicita, dunque, alla Critica aMet N, RTE MGA BAU tti infa cfr. : ana ffi wol a tic las sco la dal 41 Peraltro derivata, al solito, physica, cit., $ 723, ripr. in Ak., vol. XIX, p. 136 sg.

der ie nom ero Het ’ all s len Wil des zie nom uto l’A tti, infa ne, ppo 42 Nel $ 8 del cap. I si contra può si i, min ter due sti que di so l’u nel t, Kan di oni azi ill osc Willkiir. A proposito delle continue , son Rea cal cti Pra of ue tiq Cri t's Kan to y tar men Com A k, Bec comunque concordare con L. W. ... mes eti som . h.. oug «Th : 180 p. 0, 196 ss, Pre o cag Chi of Chicago and London, University le Wil to er ref to r /kz Wi/ d use er nev he .. t,. rec cor be ld wou Kant writes Wille when Willkir

as pure practically legislative reason».

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to et sp ri r pe e ir ag d’ ta el sc la e ch re di è to della ragion pura. Dire ques ni io az in cl in le o rs ve za en nd ce is nd co della legge morale, anziché per ov ne ma Ri e. on zi na mi er et od ut ’a un n sensibili, non può essere se no E a. ri ra nt co ta el sc la e ch an le ta et tr al a si n no viamente la questione se e ch an , hé nc no se ; sì co a si e ch e ar ns pe n no ò pu n no nt certamente Ka se il r a pe at or ab e el on zi lu so la à . Gi lo ar ns pe a ù, pi ce qui, non ci ries icu ir oc rt co il e (o al nt me ro gi e il uc od pr ri i, tt , fa in a’ condo ‘problem sa a co ic un l’ «è le ra mo e gg : le la ne io az nd Fo a ll mo da ia to) che conosc , de lu nc , co à» nt lo vo te la an in rm te de a us ca a re un ui it st co a che poss ivi, Kant.

Non dice neppure: d’una volontà libera (come nel resto di questo ega spi può si che il t; cour tout à ont vol a dell e: ent cem pli sem ma 6); $ re solo pensando che tacitamente Kant continui ad identificare la ‘volontà’, in senso stretto, con la stessa ragion pratica pura. Comunque, decisivo è che Kant dica che la legge morale è l’unica cosa che possa determinare una volontà (libera); ché, se avesse detto: l’urica

legge, questa sarebbe stata una tautologia. Infatti, nella formulazione medesima di questo secondo ‘problema’ («Supposto che una volontà sia libera, trovare la legge che sola è idonea a determinarla necessariamente»), la soluzione era già implicita: poiché una volontà libera, quindi indipendente dalla necessità naturale, deve tuttavia essere anch’essa determinata, sulla base delle statuizioni terminologiche di Kant solo la legge morale può determinarla necessariamente (ossia obbligatoriamente), perché, per definizione, appunto, soltanto la legge morale ha la caratteristica di principio d’azione necessario (praticamente), ossia validità incondizionata. La soluzione è ineccepibile, in questi termini; ma, per l'appunto, anche del tutto tautologica; e non regge affatto, quindi, la conseguenza ulteriore che invece Kant ne trae, come sappiamo: che solo la legge morale possa determinare la volontà, in quanto libera. Una formulazione del ‘problema’ coerente con la concezione del libero arbitrio richiesta dalla effettiva teoria morale di Kant avrebbe dovuto essere piuttosto del seguente tenore: ‘Supposto che una vo4 Per la resa in italiano di Bestimmungsgrund des Willens (da ultimo posta in questione da V. Mathieu nella sua trad. ital. di KANT, Fondazione della metafisica dei costumi [e] Critica della ragion pratica, Milano, Rusconi, 19882, p. 67), è decisiva la Metapbysik der Sitten Vigilantius, in Ak., vol. XXVII, p. 493!9-17; «Der Bestimmungsgrund der Willkiir (causa determinans arbitrium) ist causa impulsiva zur Handlung, die Bewegungsursache». Segue un'ulteriore iden-

tificazione della causa impulsiva con la «Triebfeder des Gemiths zur Handlung».

I

Olio

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AUTONOMIA

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lontà sia libera, trovare le ragioni determinanti di essa’; e la soluzio-

ne: ‘Tali ragioni possono essere o la legge morale (oggettiva) o le massime (soggettive) motivate dalle inclinazioni sensibili; ma solo la prima ha il carattere della necessità (morale) e quindi garantisce l’auto-

nomia della volontà’.

Invece, dalla conclusione tratta da Kant deriva un’identificazione della libertà della volontà con la sua autonomia, al solito, la quale si

trova d’altronde tutta esplicita immediatamente di séguito al luogo su cui ci siamo appena soffermati (e cioè all’inizio dello Scolio del $ 6), seppure attraverso una litote: accertato che la legge morale e la libertà della volontà rimandano l’una all’altra, non sto ora a chiedermi,

dice Kant, se siano diverse anche di fatto, o se la ragion pratica pura non sia piuttosto identica al concetto «positivo» della libertà (ch’è la prima comparsa, per ora criptica, della nozione dell’autonomia della volontà, qui, nella Crifica, ancora non introdotta formalmente). Analogamente, allorché qualifica come ‘fatti della ragione’ tanto

la legge morale quanto la nostra coscienza di essa (conclusione dello Scolio del $ 7), Kant spiega che è così, e quindi la legge morale ci si impone come una proposizione sintetica a priori, perché non risulta deducibile da alcunché d’altro; mentre, precisa, essa sarebbe analitica se si presupponesse la libertà del volere (il che è peraltro impossibile, non essendo noi dotati di un’intuizione intellettuale che ci renda immediatamente consapevoli di quest’ultima). Sarebbe dunque analitica, la legge morale, in quest’ipotesi controfattuale: evidentemente, perché la libertà della volontà è qui intesa, seppur tacitamente, come la sua autonomia, e pertanto effettivamente identica alla (coscienza del-

la) legge morale. Se si fa ancora un passo innanzi, al luogo in cui viene introdotta tematicamente,

la nozione dell’autonomia della volontà ($ 8), quivi

Kant ripete che il principio della moralità è che la determinazione et(ogg a eri mat i sias qual da te men nte nde ipe ind a eng avv à ont vol a dell e e); ral (mo ge leg a dell ma for a pur a dell ù virt in ma to del desiderare), tre men , vo» ati neg o sens «nel rtà libe la è precisa: quell’indipendenza vo» iti pos o sens «nel rtà libe la è e ion rag a dell questa autolegislatività dele a’ pur a tic pra n gio ‘ra a dell a icit (e segue una identificazione espl à ont vol a dell ia nom uto l'a che va rica si de la ‘libertà’ tout court). Don a dell to cita go luo nel che lla que a a ha una struttura del tutto omolog coe, qual il ; trio arbi ro libe al ta Critica della ragion pura era attribui a enz end dip (in vo ati neg lato n d’u sso h’e anc me si ricorderà, constava

2), pe

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ain rm te de to au di à it ac ap (c vo ti si po dalla necessità naturale) e di uno

to en im rb so as ri il to ri vo fa ro lt 'a nz se rà av zione). E siffatta omologia à. nt lo vo a ll ia de om on ut ’a ll ne re le vo l de à rt be della li o, iv ut it st co to da un è le ra tu na à it ss ce ne la dal za en Ma l’indipend il e ch no me te en ni to un pp ta us gi è re nt me io; itr arb ero nel caso del lib in ), ni io az in cl in le n co o st ra nt co di o tt pe as suo l (ne ‘dovere’ stesso la del ne io az in rm te de to au l’ è a iv ut it st co o nt ta et tr al sede morale. E o nt pu dal hi ic pl es si ue nq mu co io, itr arb ero lib del o cas nel volontà, ce ve in e sc ui it st co à nt lo vo la del a mi no to au l' re nt me ; le ra mo di vista

za en er ef pr a all a iv at rn te al in , tà li ra mo la del o pi ci in pr il essa stessa per le inclinazioni sensibili. In base a quanto s’è appena detto, si può anche vedere quanto sia fuorviante il modo in cui Kant procede, nella Fondazione e nella Critica della ragion pratica, a distinguere appunto fra un senso ‘negativo’ ed uno ‘positivo’, della libertà del volere. Poiché questo secondo è allora sempre identificato con l'autonomia della volontà, il senso ‘negativo’ viene a presentarsi, volta a volta, 0 come il luogo vuoto (che, se rimanesse tale, ci lascerebbe al mero indeterminismo) che l’autono-

mia della volontà viene ad occupare, o come l’aspetto ‘negativo’, per l'appunto, di questa autonomia medesima, cioè come l’indipendenza dalla necessità naturale, ma intesa nel senso del rendersi indipendente, da parte della volontà, con tutto l’impegno che ciò richiede, dalle determinazioni sensibili, come sono le inclinazioni naturali.

La prima mossa si trova, per esempio, là dove Kant esprime così l'apporto della ragione morale rispetto alla ragione meramente teoretica, a proposito della libertà del volere: mentre, per la ragione teoretica, questa rimaneva ammissibile, sì, come non contraddittoria col

meccanismo naturale, ma anche niente di più, ed era quindi «una causalità pensata solo negativamente», invece la ragion pratica con-

sente di passare ad asserire la realtà della libertà del volere, perché aggiunge, a quanto si sapeva già in sede di ragione teoretica, «una determinazione positiva», com'è il concetto d’una ragione che determini incondizionatamente la volontà, sul fondamento della legge morale formale. L’altra mossa si trova, per esempio, là dove Kant contrappone in 44 Cfr. Critica della ragion pratica, in Ak., vol. V, p. 48611; SM, p. 186 sg. Oppure, p. 497° (SM, p. 188): il «posto libero» lasciato nella Critica della ragion pura, a proposito della causalità per libertà, viene occupato dalla ragion pratica pura «per mezzo d’una legge determinata dalla causalità in un mondo intelligibile..., e cioè per mezzo della legge morale».

Mi] e

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questi termini la natura duplice degli esseri razionali finiti: la loro na-

tura sensibile è l’esistenza di essi sotto leggi naturali, «il che, per la ragione, è eteronomia»; laddove la loro natura sovrasensibile è l’esi-

stenza di essi «secondo leggi che sono indipendenti da ogni condizione empirica e quindi pertengono all’autonomia della ragion pura». Dove Kant tornava a ripetere quanto aveva detto la primissima volta che s'era trovato a parlare insieme della libertà del volere e della sua autonomia, subito identificandole, e cioè (come si ricorderà) all’inizio

della 3? sezione della Fondazione. Così, laddove nella Critica della ragion pura la «libertà pratica» era intesa come il libero arbitrio umano, invece nella Critica della ragion pratica si trova la seguente definizione della medesima nozione: i concetti della legge morale e della causalità per libertà sono connessi tanto indissolubilmente che la «libertà pratica» potrebbe anche esser detta l'indipendenza della volontà da qualsiasi altra legge che non sia

la legge morale.# In tal modo, quella ch’era una disgiunzione a tre termini: fra il ‘patologico’, il ‘pratico’ ed il ‘morale’ (corrispondenti, rispettivamente, alla determinazione del volere da parte delle inclinazioni sensibili,

al libero arbitrio, ed al rispetto della legge morale),4” veniva a restringersi ad un’alternativa secca, fra il ‘patologico’, dato come attinente alla natura, ed il ‘morale’, identificato come il luogo unico della libertà. 4. Da tutto ciò deriverebbe, ovviamente,

il contrario esatto di

quel che Kant non può non pensare; e cioè che alcune azioni (quelle in contrasto col dovere) sono necessitate secondo la causalità naturale, e quindi non libere (in nessun altro senso che non sia, eventualmente, quello meramente «psicologico», ch'egli rifiuta come del tutto inadeguato in sede morale), mentre soltanto 4/cune altre (quelle com4 Cfr. ivi, p. 431412: SM, p. 181. one igi rel la del fia oso fil di i ion lez le nel Già . 327 p. SM, 4; 7-9 4 Cfr. ivi, p. 933 e , ili sib sen i uls imp li dag za den pen ndi l’i nel e ter sis con ta fat era a» tic pra dell’’83-’84, la «libertà pp. , III XXV vol. ., (Ak e» ion rag la del oni izi scr pre le o ond sec e ent ram «pu e gir quindi nell’a 0), 16-2 9, 08128 ], 199 p. , cit. ., ital ad. [tr 37 736 106 ati «pr à ert lib La 29, 2620, 19318 p. , II XV . vol , Ak. in 47 Così, per es., nella Refl. 3870,

A i». ral «mo lli que e ci» ogi tol «pa ivi mot i fra lta sce di à olt fac ca», 0 libero arbitrio, è allora la ., Ak in da, tar ai ass ai orm ca epo in , es. per o, uit seg questa posizione Kant tornerà ancora in , oli Nap a, sic afi met la del ssi gre pro I , NT KA in o, ar an ng vol. XX, p. 3461518 (trad. ital. di P. Ma Bibliopolis, 1977, p. 162).

PENTA

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o om ’u ll de za en en rt pa ap L' .* re be piute per rispetto del dovere) sono li tru st to da un ù pi e bb re sa n no , te en am ne ra ai due ‘mondi’ contempo za en en rt pa ap a su a ll de è t’ an qu r pe ì, ns turale della sua condizione; be mo o gn pe im o su al ta er à ap it il ib ss po a un lo so e, al mondo intelligibil ti ra pe im o l’ nt me ta or mp co o ri op pr l de vo ti mo rale: con l’assumere a ri o, nd mo o tr al un d’ ro mb me be eb er nd re si mo uo , l’ vo categorico a ri op pr la n mo co ti ul t’ es do qu en nd ce as e, tr il ib ns spetto a quello se iniziativa pratica. Ma come sarebbe possibile, ciò, senza presupporre che egli ne abbia la capacità, e quindi il libero arbitrio quale potestas ad utrumque? Quest’aporia appare irresolubile. Infatti, se invece si pone un rapporto biunivoco fra i due ‘mondi’, da una parte, e, dall’altra, i due generi di ‘leggi’ (rispettivamente, quelle naturali e quella morale), il volere eteronomo non risulta più libero dalla necessità naturale; ma in tal caso non si darebbe più tout court, il libero arbitrio, essendo tolta l’alternativa (di rispettare o violare l'imperativo categorico) che invece lo costituisce come tale, in contrasto appunto con la natura, la cui legalità è tale che, viceversa, non ammette alternative di sorta.‘ Invece, Kant non può non pensare (e naturalmente dice anche, in alcuni luoghi) che sono libere tutte quante le azioni umane (salvo casi particolari sui quali peraltro egli non si sofferma mai tematicamente), e solo per ciò qualificabili moralmente. Lo si evince dal fatto che per Kant l’uomo è responsabile (nel senso detto) di tutte le proprie azioni (salvo i casi di cui sopra): tanto di quelle morali quanto di quelle contrarie. Anzi, sia nella Critica della ragion pura sia nella Fondazioneè nella Critica della ragion pratica, gli esempi elaborati da Kant, d’azioni di cui si sia responsabili in quanto le si siano scelte liberamente, sono quasi sempre d’azioni da giudicare negativamente dal punto di vista morale. Il che non avrebbe alcun senso, se esse fossero invece necessitate naturalmente, cioè caratterizzate dal medesimo statuto ontolo48 Il primo a rilevarlo fu senzaltro B. STATTLER, Anbang zum Anti-Kant..., Minchen, J. Kentner, 1788, p. 269: «Qui [Ak., IV, p. 45225-453?; SM, p. 113 sg.] Kant definisce l’idea

della libertà... semplicemente come un'attività indipendente dalle determinazioni del mondo sensibile. Ne segue che sarebbe libera soltanto la volontà buona, in accordo con la legge morale, mentre non lo sarebbe affatto la volontà che si sottometta alle leggi pratiche della natura e della sensibilità. Ed allora non si darebbe alcuna libertà ogni volta che gli esseri razionali agiscono male, ossia non si darebbe affatto il male morale, dal momento che senza libertà questo non può esser pensato». 4 Cfr. Critica della ragion pura, A 547, B 575.

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gico di qualsiasi altro evento della natura; ché giudicare negativa, dal punto di vista morale, una certa azione, e ritenerne responsabile l’autore, equivarrebbe allora a giudicare moralmente (e ad attribuire re-

sponsabilità morale a) un qualsivoglia accadimento fisico. Per evitare un’assurdità come questa, non rimarrebbe se non di considerare come moralmente neutre (o ‘innocenti’, se si vuole), in quanto non suscet-

tibili di giudizio da un tal punto di vista, appunto le azioni contrarie al dovere (e così l’unica qualificazione morale ammissibile sarebbe quella in termini positivi, a proposito di azioni che in linea di principio si supponessero come compiute per rispetto del dovere); ma ciò sarebbe in contrasto con tutta la pratica teorica di Kant, allorché egli passa appunto alle sue esemplificazioni di valutazioni morali. La problematica della responsabilità morale è dunque quella che decide della effettiva pratica teorica di Kant, a proposito della libertà del volere, in contrasto con il più (quantitativamente) della sua teoria esplicita, al riguardo, che le è direttamente contraria. L’eteronomia del volere non è più, allora, identificata con la necessità naturale, bensì è individuata come una Zbera scelta a favore delle inclinazioni, quali motivazioni dell’agire, in contrasto con la legge morale. Se l’eteronomia della volontà è la sottomissione alle inclinazioni naturali, si tratta tuttavia d’una sottomissione non data univocamente in conseguenza di determinati precedenti causali, ma scelta appunto liberamente: l’opzione incondizionata per una ‘schiavitù’ (se si vuol usare un linguaggio carico di risonanze tradizionali).5° Nel luogo citato della Critica della ragion pura, tutto era chiaro (da questo punto di vista, s’intende!), appunto perché tutto ruotava attorno alla responsabilità morale, a proposito della libertà del volere, la quale veniva quindi identificata con il libero arbitrio, in quanto condizione di quella (la responsabilità morale). Nella Critica della ragion pratica, invece, ad una simile chiarezza si ritorna solo nel corso quivi perché o propri ca, Analiti all’ ta aggiun critica e della Delucidazion

si torna alla problematica della responsabilità; e allora il libero arbiin umane, scelte delle urale strutt ione condiz la trio torna ad essere

ne icazio qualif loro la sia che quale nte, all'age bili imputa tali quanto come intesa libertà la senza o: esempi Per . morale vista di dal punto » logico «psico ente meram senso nel hé (anzic libertà «trascendentale» ispir no d’u to sta o ell «Qu 54: $ , cit. , ... ung eis Anw s, sIu Cru 50 Cfr., per es., da ultimo, à». ont vol ra libe la del ità iav sch la ama chi si e, mal al a olt to... in cui c'è solo una libertà riv

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ra mo e gg le la né e il ib ss po è n no ) do che proprio qui Kant sta critican ve de e al on zi ra te en un »; sa es ad se le né «alcuna imputazione in ba e ch , le ra mo e gg le la n co o st pensare, d’ogni sua azione in contra di ze en nt se le o an nd fo si ò ci su e a, avrebbe potuto non compierl » za en ci os «c la re ma ia ch ol su si e ch i, no in , quella ‘mirabile facoltà’ si ar nt se re pp ra di e ar nt te l be ha mo uo (Gewissen, naturalmente): un

’e ch le ta me co le ra mo e gg le la al o ri ra nt o co nt me ta or mp un proprio co », le ra tu à na it ss ce ne a ll de te en rr co a ll o da lt vo ra «t o at gli vi sarebbe st ò pu n sa no fe di to au le mi si a un e; ma nt ce no in , sì i, co rs ta es per prot ), ma si de ’ me za en ci os ‘c a ll de e rt pa a sa (d cu ac l’ al te on fr di re non cede solo che riconosca che, al momento in cui commise l’azione, egli «era in sé, e cioè aveva l’uso della propria libertà»; ed è da ritenere che e» nt me ta ra be li ta de iu mp ne co io i az gn io «o tr bi ro ar be li l ga da proven (che sono anche, questi, i soli accenni di Kant alle condizioni fattuali

dell’ascrivibilità del libero arbitrio ad una persona, a proposito di determinate azioni).?!

Nell’opera su La religione nei limiti della semplice ragione, poi, nella quale la questione della responsabilità morale è ovviamente centrale, Kant si darà ad una vera e propria palinodia, rispetto alle precedenti indentificazioni dell’eteronomia dell’arbitrio con la necessità 51 Cfr. Critica della ragion pratica, in Ak., vol. V, pp. 9757, 985-3, 13-23, 10068; SM, pp. 240 agg. (Sulle condizioni fattuali dell’ascrizione della responsabilità, un cenno anche nella Metafisica dei costumi in Ak., vol. VI, p. 380!1-14; trad. ital., cit., p. 233; dove pure un cenno ai diversi «gradi» dell’imputabilità: p. 2881112; trad. ital., p. 31 sg.). Il contrasto, all’interno alla Critica della ragion pratica, fu notato dal PistoRIUs, nella recensione ora in Materzalien..., cit., dove cfr. p. 172 sg.: non è chiaro, se Kant sostenga la libertà d’indifferenza, «o comunque una libertà come la rivendicano gli indeterministi in opposizione al determinismo», oppure una libertà come la potrebbero ammettere anche i leibniziani. Infatti, finché la definisce

come un’indipendenza della determinazione della volontà dall’azione delle cose esterne, ed una facoltà della ragion pratica di determinare la volontà mediante la propria legge, non sembra affatto necessario pensare ad una libertà intesa in senso indeterministico, ed anzi sembrerebbe il contrario, ché, secondo la presente prospettiva, la volontà deve pur sempre venir determinata, ancorché non dalle cose esterne, tuttavia dalla ragione e dalla legge che questa prescrive alla volontà. D’altro canto, però, sembra che Kant la ritenga necessaria, una libertà in-

tesa in senso indeterministico, per la possibilità della responsabilità morale, allorché sostiene che quest’ultima verrebbe meno in presenza d’una qualsiasivoglia necessità (la quale, in una sua forma specifica, è compresa, invece, nella libertà come intesa dai deterministi). Il Pistorius prosegue poi negando che si possa attribuire all'uomo la qualità di membro d’un mondo «intelligibile», e quindi una libertà «trascendentale» che lo renderebbe responsabile delle proprie azioni; perché è impossibile che un medesimo soggetto abbia nello stesso tempo entrambe .le specie di libertà [quella «deterministica» e quella che col determinismo è incompatibile], dal momento che queste sono reciprocamente esclusive (comunque; la pretesa «Soluzione» kantiana dell’Antinomia fra necessità e libertà è la parte più incomprensibile di tutta quanta la filosofia di Kant).



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naturale, argomentandone l’assoluta impensabilità all’interno della propria teoria della responsabilità morale, per l'appunto; come in una sorta di inconsapevole polemica con il se stesso anteriore. Un'azione proveniente semplicemente da leggi fisiche (nel caso specifico, psicologiche), asserisce ora Kant, sarebbe moralmente del tutto indifferente, perché la ‘natura’ (in quanto opposta alla libertà) è in contraddizione formale con i predicati ‘moralmente buono’ e ‘moralmente cattivo’. Il principio soggettivo (la ‘massima’) d'una qualsiasi azione deve quindi essere un atto della libertà (e questa è un’implicazione puramente logica). Altrimenti, l’uso dell’arbitrio non sarebbe qualificabile moralmente, per l'appunto, e pertanto neppure imputabile al soggetto agente. Il principio del male morale non può quindi trovarsi in alcuna determinazione naturale dell’arbitrio, ossia in alcuna inclinazione come tale, bensì soltanto nella ‘massima’ relativa (nel

principio di preferire giustappunto un’inclinazione al rispetto della legge morale). Se così non fosse, infatti, l’uso della libertà sarebbe ri-

dotto all’operare di cause naturali; il che è contraddittorio (proprio la contraddizione,

allora, in cui Kant era caduto in tanti luoghi della

Fondazione e della Critica della ragion pratica). La libertà dell’arbitrio umano consiste dunque in ciò, ch’esso può esser determinato da un movente (Triebfeder) solo in quanto questo venga assunto quale ‘massima’, e cioè s’acconsenta liberamente ad esso. Solo in tal modo «un

movente è compatibile con la spontaneità assoluta dell’arbitrio (con la libertà)».??

5. Se ci s’interroga globalmente sulle motivazioni delle confusioni di Kant su cui ci siamo soffermati, si può ricorrere ad una circostanza ovvia: nesssun’altra idea è talmente polisensa, e perciò soggetta ai maggiori equivoci, quanto l’idea della libertà (come notò Hegel, una volta?). Tutta la tradizione del problema del libero arbitrio è at-

traversata costantemente dal ricorrere e dall’intrecciarsi di siffatte ambiguità (talora disperantemente). 52 Il tutto, all’inizio della 1? sez. della Religione (Ak., vol. VI, pp. 21 e 23 sg.; SM, pp. p. SM, 31; (p. sez. 1% della re semp II, cap. nel pio, esem per e, anch 339 e 343). Ma si veda to ques hé poic le, mora male al enza tend na alcu dà si non , ico’] [‘fis senso o prim 350 sg.): «Nel

ad bili) sensi lsi impu su a fond si (che a fisic enza tend una e tà; liber dalla non può provenire che Una ne. izio radd cont una è li], [mora male al sia bene al sia tà, liber della uso glia sivo qual un c’è non Ma rio. arbit dell’ le mora tà facol la che re arda rigu di quin può tendenza al male non ecc. ..», atto. rio prop ro nost un sia non che le) tabi impu (cioè le mora male g. un rk me An , 482 $ he, fic oso fil e enz sci le del dia ope icl 53 Cfr. Enc



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na gi pa a zz me a un in , me co o, pi em Basti rammentare, per un es

at a, zz le ra tu na e nt re pa ap n co i, delle Meditazioni di Descartes, si pass al te en am oc pr ci re re le vo l de à rt traverso ben tre concezioni della libe co la e al on zi si po op n (i tà ie ar nt lo vo o à, ternative: 1) quale spontaneit rte de e al qu 3) ; ue mq ru ut ad as st te po e al qu strizione dall'esterno); 2) zi an ò pu Si . e n e b l de e ro ve l de se ba a ll su minazione della volontà ci in ni pr io ez nc co e tr te le en am iv tt fe ef dire che proprio queste sono ne io iz ad tr a la tt o tu ng o lu an ov tr ri si re le vo l à de rt be pali che della li ). sa es ci di li mp se e i re on pu zi ga ne e le rt e pa al (a nt de ci oc Ora, Kant è del tutto netto nel rifiuto della prima concezione à ert lib la è ): ’55 del io dat uci dil va No la nel esa dif a vev l’a (dopo che meramente «psicologica», nel suo linguaggio, ch’egli marchia con parole roventi, nella Delucidazione critica, nella Critica della ragion pratica, come del tutto irrilevante in rapporto alla questione della responsabilità morale, in quanto nient'altro che una forma specifica della necessità naturale stessa; e le contrappone la concezione della libertà come causalità incondizionata (o autodeterminazione in sede noumenica). Ma, fra la seconda concezione e la terza, egli è incorso nelle confusioni che si sono viste. Nella terza concezione, infatti, la libertà

è intesa in un senso assiologico, come valore positivo: libertà dalle passioni, stoicamente (o dal peccato, cristianamente), coincidente con la sottomissione alla ragione (0, rispettivamente, alla Grazia).?9 Ed

54 Cfr. Oeuvres, a cura di A. Adam e P. Tannery, Paris, Vrin, 1974 sgg., vol. VE, p_dI sg.: «voluntas, sive arbitrii libertas, in eo consistit, quod...», ecc.

55 Cfr. Critica della ragion pratica, in Ak., vol. V, pp. 95-97 (SM, p. 239 sg.); e già p. 725-28 (SM, p. 140). Poi, nella Metaphysik der Sitten Vigilantius, in Ak., vol. XXVII, pp. 5032057

56 Cfr. Lersniz, Nouveaux Essais, 1. II, cap. XXI, $ 8 (éd. par A. Robinet e H. Schepers, Berlin, Akademie-Verlag, 1962, p. 175!!-24): il termine Zibertà è molto ambiguo; ed anche la «libertà di volere» è presa in due sensi differenti: a seconda che la si opponga all’imperfezione o alla schiavitù dello spirito, che è una sorta di costrizione interna, come quella che proviene dalle passioni, ovvero alla necessità. Era nel primo senso, che gli stoici dicevano che solo il saggio è libero. Ed effettivamente, quando lo spirito sia vittima d’una passione forte, non è

possibile volere come si deve, cioè a dire con la deliberazione che sarebbe necessaria. Così, gli

spiriti creati non sono liberi se non nella misura in cui dominano le passioni; e questa libertà riguarda propriamente il nostro intelletto. La libertà dello spirito, in quanto opposta alla necessità, riguarda invece la volontà in quanto tale, ossia in quanto distinta dall’intelletto; ed è ciò che vien chiamato il libero arbitrio. - A riconoscere nell’«autonomia della volontà» di Kant la libertà del volere secondo la concezione stoica, fu, sùbito, J. G. H. FEDER, nella recensione della Critica della ragion pratica nella «Philosophische Bibliothek», I (1788), p. 191; il quale metteva in questione, naturalmente, che, intesa così, la libertà del volere limitasse in alcun modo il determinismo.



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ecco, così, l’antenato tradizionale dell’«autonomia della volontà» di

Kant.5?

Se si vuole un esempio moderno di quest’ultima concezione nella sua purezza, in quanto del tutto indipendente da qualsivoglia nesso con la questione del libero arbitrio, basti pensare alla parte conclusiva dell’Etbica di Spinoza: De libertate hbumana, per l'appunto. Se invece si vuole un esempio di articolazione, ma senza confusioni, fra quelle due concezioni, ci si può rifare sino ad Agostino. Nel quale si trovava addirittura già la medesima identificazione, a cui anche Kant accede (come s’è visto, sulle orme della scuola wolffiana), della ‘volontà’, in senso stretto, con la volontà ‘libera’ (giustappunto nel senso assiologico), in contrasto con la cupiditas?8 (corrispondente, quest’ultima, a quelle che Kant chiama le ‘inclinazioni’ sensibili). Senonché, Agostino distingueva nettamente fra la libertas della volontà, così intesa, ed il liberum arbitrium, concependo quella come l’uso retto (o il risultato dell’uso retto) di quest’altro.??

Anche Kant, del resto, aveva elaborata proprio una siffatta distinzione, nelle sue lezioni accademiche, anteriormente alla Critica della ragion pura.® Cominciava, allora, riproducendo quanto trovava 57 Per quanto riguarda il pensiero patristico e scolastico, cfr. É. Gison, Lo spirito della filosofia medievale, trad. ital., Brescia, Morcelliana, 1947, p. 208 sgg. (Libero arbitrio e libertà

cristiana). Per quanto riguarda Kant, il precedente prossimo è, notoriamente, Rousseau, per la sua definizione del «senso filosofico della parola libertà»: «la liberté morale... seule rend l'homme vraiment maître de lui; car l’impulsion du seul appetit est esclavage, et l’obéissance à la loi qu’on s’est prescritte est liberté» (Oeuvres complètes, dirette da G. Gagnebin e M. Raymond, vol. III, Paris, Gallimard, 1964, p. 365). 58 Cfr. Retractationes, l. I, cap. XV, $ 4. 59 Per i testi, cfr. É. Gi.son, Introduction è l’étude de Saint Augustin, Paris, Vrin, 1969, p. 212.

60 Mi riferisco, nel séguito, alla cosiddetta Metaphysik Politz, ora nel vol. XXVIII/1 dellAk., Berlin, Walter de Gruyter, 1968, p. 253 sgg. (trad. ital. parziale di G. A. De Toni, col titolo Lezioni di psicologia, Bari, Laterza, 1986, p. 85 sgg.). La trattazione in questione era

compresa sotto il titolo della «psicologia empirica»; mentre, della libertà già allora denominata «trascendentale», Kant parlava sotto il titolo della «psicologia razionale» (e cioè metafisica nel senso di trascendente l’esperienza), ivî, p. 267 sgg. (trad. ital. cit., p. 104 sgg.). Già un’articolazione come questa mostra come Kant procedesse allora non ancora secondo il metodo «critico». Ciò è del tutto evidente nella derivazione della libertà «trascendentale» dall’Io in quanto appun intesa , umana nima» all’«a essa di zione ttribu nell’a e ta assolu à aneit spont o autoattività

che e, dunqu , azione l'oper io (propr o dall’I bili ricava sono uti attrib cui i anza» to come «sost il è, chiaro tanto altret Ma ). Critica prima nella pura, ragion della o ogism Paral il poi cadrà sotto due dei ione deraz consi nella anche Kant, di ne razio elabo te presen della tico carattere precri la e ca» «prati à libert (la ica» empir logia «psico della o quadr nel a parlav generi di libertà di cui azione attest ta Siffat na). (inter za perien all'es nto, l'appu per enti, pertin come le») «mora à libert ssa intere che ciò da riguar o quant per iente suffic tutto del ta ritenu anzi era del libero arbitrio



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fa i po e om (c o an um io tr bi ar ro be li nel Baumgarten,6! a proposito del ca si fi ta Me a ll ne , mo ti ul da e, ra rà anche nella Critica della ragion pu o an er op so es di su hé rc pe o, an dei costumi): ‘sensitivo’, l’arbitrio um n no hé rc pe ’, to ru ‘b n no ma i; il ib ns senz'altro anche gli «stimoli» se o , i» iv ot «m da ì es tr al o at in rm te de r se es o nd necessitato da essi, pote ro pe nt pu e; ap al e tu et ll te ì in ns e, be il ib ns se n ne no di «ragioni», d’or va ce di », ca ti ra «p à rt be li , ta es , qu re ma ia ch ò pu si ciò ‘libero’. La ne ie ov pr e ch ò ci to ut o, «t om ’u ll de so ca l ; ne e, ti en Kant ai suoi stud

a im pr a ll ne e ch vo al » (s ro be li io tr bi ar un dal suo arbitrio, proviene da

o nn da si n no o, st re il r pe é, i; ch al nt ie me tt la ma di si infanzia o nei ca iib st e si nt re ir me al er tt le a è ur rt a to un ss o: ne an lg to costrizioni che lo

4

le).62

Ma, proseguiva Kant per conto proprio, nella misura in cui è determinato da motivi intellettuali, «il libero arbitrio è la libertà».

Espressione particolarmente efficace, quest’ultima, perché le due nozioni in gioco vi si trovano insieme distinte e connesse senza confusioni. Infatti, sia che sia determinato da ‘stimoli’ sensibili sia che lo la morale. Fra parentesi, altrettanto si troverà in un luogo della stessa Critica della ragion pura (A 801 sgg., B 830 sgg.), che, in palese contrasto con la Dialettica trascendentale com'è, dev’essere quindi considerato un residuo precritico (nonostante le acrobazie di qualche interprete per sostenere il contrario).

61 Cfr. Metaphysica, cit., $$ 690 sgg. e 708 sgg. (Ak., XV/1, p. 51 sg; XVII, p. 132 sg.). Un raffinamento notevole, rispetto alle definizioni del Baumgarten, si trova nella Refl. 4222, in Ak., vol. XVII, p. 463: «Non il nostro arbitri4m è sensitivo, bensì sono sensitivi o intellettuali gli actus arbitrii. Ché l’arbitrium non è l’inclinazione, ma la scelta a favore dell’inclinazione oppure della ragione». Ma non ricomparirà più nelle opere a stampa. Una riformulazione di distinzioni già elaborate dal Baumgarten, invece, nelle Refll. 4546, ivî, p. 388: «LiBertas est vel facultatis vel status ([esempio:] cane in gabbia); itidem est vel interna vel externa; haec est independentia a cogentibus»; 4557 e sg., ivî, p. 58945» 14-15: «Libertas est vel arbitrii vel potestatis [der Gewalt]. Libertas arbitrii est interna... Libertas potestatis est externe talis...». 62 Quest'ultima affermazione (alla lettera, la coercizione è impossibile, secondo il vecchio adagio voluntas non potest cogi), anche nelle lezioni di morale (cfr. Ak., vol. XXVII, pp. 141631.14172 e 267°4 [nella trad. ital. cit. delle Lezioni di etica, p. 32 sg.], 5218-5222) e di metafisica (per es., Ak., vol. XXVIII, p. 74718). In tutti i corsi, sia di morale sia di metafisica, ritorna sempre, poi, l'opposizione fra gli «stimoli» e i «motivi». Ma, per il passaggio dalle posizioni del corso menzionato nel testo a quelle della Fondazione della metafisica dei costumi, è notevole particolarmente la Metaphysik Mrongovius, del 1782-83, dove si trovano asserzioni del seguente tenore (Ak., vol. XXIX, p. 896!7, 89825-26, 90334): «L’arbitrio libero è determinato da motiva» (ossia, l’arbitrio è libero solo se viene determinato da «motivi», anziché da

«stimoli»); «La libertà è la facoltà d’agire secondo l’arbitrio intellettuale» (in contrapposizione

all’arbitrio sensitivo, nel senso di determinato dalle inclinazioni sensibili); «La libertà non è

quindi una facoltà di scegliere il male, bensì [la facoltà di scegliere solo] il bene, dal momento ..che la nostra ragione ci comanda solo il bene». Del resto, già nella Pra&tische Philosophie Po-

walski, del 1778 circa, in Ak., vol. XXVII, pp. 499-502, l’identificazione dell’eteronomia del-

la volontà con la necessità naturale; e, p. 507*!!: «solo... a condizione d’ubbidire alla legge morale, siamo liberi».

2-Wpddi

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DELLA

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IN KANT

sia da ‘motivi’ intellettuali, l’arbitrio umano è tuttavia sempre libero (anzi proprio questa alternativa lo costituisce come tale), Kant ribadiva subito. Mentre la libertà derivante dalla determinazione dell’arbitrio da parte dell'intelletto (che può esser denominata libertà «morale») è da qualificare in termini esclusivamente assiologici: essa, infatti, «è buona sotto ogni riguardo». Inoltre, a differenza che nel libero arbitrio (che, come s’è visto, o si dà o non si dà, ma, se si dà, non ammette differenze quantitative), della libertà intesa in senso assiolo-

gico si danno senz’altro ‘gradi’ diversi. Così, uno stimolo sensibile è un semplice «affetto», allorché costituisca solo un impedimento, nei confronti della libertà ‘morale’, mentre è considerato come una «passione» allorché la sopraffaccia del tutto.63 Gli è che la libertà, intesa in questo senso, ha «una grandezza» sua propria, variabile, misurabile sul metro della signoria nei confronti della sensibilità: quanta più forza ha di far prevalere i ‘motivi’ sugli ‘stimoli’, tanto più un uomo è libero; e la repressione dei secondi a vantaggio delle regole morali costituisce la ‘virtù’ stessa. Invece, quando questa libertà ‘morale’ sarà diventata l’«autonomia della volontà», Kant toglierà via qualsiasi problematica dei gradi di essa. Nella Fondazione e nella Critica della ragion pratica, l’autonomia della volontà sarà una nozione assoluta: fra essa e il suo contrario (l’eteronomia dell’arbitrio) si darà un aut-aut radicale, senza alcuna

possibilità di differenze quantitative. E anche siffatta assolutezza, rendendo l’autonomia della volontà vieppiù omologa, strutturalmente, al libero arbitrio, favorirà la confusione fra queste due nozioni. Nella tradizione teologica cristiana, poi, era stata ricorrente, oltre

che la distinzione, anche una vera e propria contrapposizione polemi6 Reminiscenza, questa distinzione, di F. HuTcHESsON, An Essay on the Nature and Con-

duct of the Passions and Affections..., London, Darby and Smith, 1728, che sappiamo conosciuto, da Kant, ed anche posseduto personalmente nella trad. tedesca del 1760 (cfr. A. Warpa, I Kants Biicher, Berlin, Breslauer, 1922, p. 50). La medesima distinzione nella Praktische Philosophie Powalski, in Ak., vol. XXII, p. 203 sgg.; in vari corsi di metafisica (per es., Ak., vol. XXVIIII, p. 7461-12), e, poi, nella Metafisica dei costumi, in Ak., vol. VI, p. 407 (trad. sg. 252 p. VII, vol. Ak., in tico, pragma vista di punto dal logia ntropo ital., cit., p. 261), e nell’A (SM, p. 674). di gra ai i tiv pet ris cor e com , omo l'u nel à, ert lib la del » adi «gr dei ica mat 64 Altrettale proble ra/ (Mo sgg. 268 pp. II, XXV vol. , Ak. . Cfr . ale mor fia oso fil di i della sua moralità, nelle lezion alla nti nde spo rri [co 2) 178 del [1], s viu ngo Mro ral (Mo philosophie Collins, del 1785) e 1417 sgg. Poie oph los Phi he isc akt (Pr 1 -16 152 5, 202 132 ]; sgg. 34 p. trad. ital. cit. delle Lezioni di etica, IniN, RTE MGA BAU di a cci tra a sull pre Sem . us) nti ila Vig ten Sit walski), 567-570 (Metaphysik der sgg. 74 p. , XIX vol. , Ak. in . ripr , sgg. 159 $$ , cit. , mae pri cae cti tia philosophiae pra



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o ns se in sa te in à nt lo vo a ll de ’ tà er ib ‘l ca, in forma d’alternativa, fra la a te en al is (r a an ti is cr te en am ri op pr assiologico, come la concezione al to an (t ue mq ru ut ad as st te po e al qu io tr bi ar San Paolo), ed il libero ti is al on zi ra ne io ez nc co a un me co so te bene quanto al male morali), in , ta sa cu ac so es sp , ca ti is an um ed ) i’ of os il ‘f i de ca (propria, infatti, mo le ma il r pe re ta op à d’ it il ib ss po . mo La is an gi quindi, di criptopela , o) am Ad d’ o at cc pe il o op (d a an um ra tu na a ll rale è certo propria de tfa af ò pu n no , ma di gi ri ù i pi og ol te i de e rt pa o da tt de ri e o s'era dett la ce ve o in nd se , es vo ti si po e’ er ot ‘p o su un me a at co er to esser consid testimonianza della sua miseria. Ora, pur essendo Kant uno dei pensatori più schiettamente pelaalic app le vuo si gli (se le nta ide occ ro sie pen nel ino ntr nco s’i che i gian La da o, rest del ta, zza ori aut e ent tam fet per a, ogic teol tta che eti un’ re o dop pur , che caso un è non , one) ragi ce pli sem a dell ti limi nei e gion reli La religione, allorché è tornato per una volta ancora (e l’ultima) sulla problematica del libero arbitrio, egli abbia fatta sua, seppur in termini puramente filosofici, proprio la posizione tradizionalmente tipica dei teologi più rigidi, radicalmente antipelagiani. Egli procederà allora a rifiutare alcun valore non meramente empirico al libero arbitrio come potestas ad utrumque. E vero, ammetterà, che l’esperienza ci attesta una facoltà dell’uomo di scegliere tanto in accordo quanto in contrasto con la legge morale; ma questa non può esser considerata come una proprietà d’un essere intelligibile: mai e poi mai si potrà accettare che la libertà consista nel fatto che al soggetto razionale sia aperta anche l’alternativa di compiere una scelta in contrasto con la propria ragione morale; ché la libertà è propriamente una facoltà (nel senso d’un ‘potere’ positivo) solo in rapporto alla legislazione della ragion pura; ma, allora, la possibilità di andar contro di questa è il rovescio che un ‘potere’: è un’impotenza. Con6 Questo testo di Kant presenta il medesimo giro argomentativo che, due anni avanti, lo scritto sulla Pace perpetua, in Ak., VIII, p. 3509-12, 16-18 (trad. ital. di G. Solari, in I. KANT, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino, U.T.E.T., 19652, p. 292), a

proposito della libertà esterna: «La libertà giuridica... non può essere definita (secondo si usa

fare) come la facolà di fare tutto ciò che si voglia pur di non recar torto ad alcuno... Piutto-

sto, la mia libertà... giuridica è da definire come la facoltà di non obbedire ad altre leggi esterne che non siano quelle a cui io abbia potuto dare il mio assenso...». In effetti, c'è un vero e proprio parallelismo fra la problematica dei due sensi della «libertà del volere» che c’interessano qui (come libero arbitrio e, rispettivamente, come autonomia della volontà) e la problematica dei due sensi della nozione della «libertà» dal punto di vista giuridico-politico (cosiddette, attualmente, libertà «negativa» e, rispettivamente, libertà «positiva»; per cui cfr. N.

Bo8sio, Kant e le due libertà, in In., Da Hobbes a Marx, Napoli, Morano,



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1965, p. 147 sgg.).

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IN

KANT

clusione: «Come potrebbe dunque, la prima, venir spiegata sulla base della seconda?». Anzi, in quanto tale, la volontà non è «né libera né non libera». Col che era proprio toccato, nell'arco delle oscillazioni fra cui Kant s’era mosso nel suo periodo ‘critico’, l'estremo contrario rispetto al punto di partenza, e cioè la concezione della ‘libertà pratica’ nella Dialettica della Critica della ragion pura! 6. Quelle che si sono viste non si possono tuttavia considerare come mere oscillazioni (secondo si suol dire) all’interno d’una dottri-

na ricostruibile, con una qualche dose di benevolenza, in una sua coe-

renza di fondo; e neppure nella prospettiva d’un andamento sperimentale, per tentativi teorici disponibili però lungo un percorso fondamentalmente unitario (recuperando, in questo senso, almeno la coerenza d’uno sviluppo di pensiero). Si tratta piuttosto di un’alternanza radicale, fra termini dall’uno all’altro dei quali Kant è passato continuamente, nel suo periodo ‘critico’, senza dare a vedere di ren-

dersene conto. Le spiegazioni storico-culturali, pertanto, non sono sufficienti. Occorre guardare anche al pensiero di lui, Kant, sia nel suo svolgimento sia nella sua organizzazione all’altezza del ‘criticismo”. Avanti d’approdare al criticismo, intanto, Kant aveva affrontata tematicamente la questione del libero arbitrio nella Nova dilucidatio del ’55, Proposizione IX; e quivi aveva difeso ad oltranza un determinismo d’impronta leibniziana, respingendo nettamente l’accusa ch’esso rendesse impossibile la moralità. Ossia, aveva allora sostenuta 6 Il tutto, nel cap. IV dell’Introduzione alla Metafisica dei costumi; Ak., vol. VI, p. 226

sg.; trad. ital., cit., p. 29 sg. Cfr. anche già le Refll. 3856 (in Ak., vol. XVII, p. 31415-19), 3867 (ivi, p. 317): «Nessuno considera come libertà la facoltà di poter desiderare ciò ch’è detestabile ([com'è il] male [morale])...»; 3868 (ivî, p. 318): «La libertà è la facoltà di volere atti-

vamente il bene morale, riconosciuto [come tale], che è in nostro potere; ma non le appartiene

altrettanto necessariamente la facoltà di volere il male [morale], riconosciuto [come tale], di

à facolt una te iamen propr è non a] [ultim questa Anzi, nto. edime l’imp potere nostro in è cui di i lezion nelle te, gamen Analo i. passiv esser di o », subìre di ilità possib (Vermògen), bensì una 8. 128124 e 200) p. cit., ital., (trad. -!5 1068!2 pp. I, XXVII vol. Ak., in filosofia della religione, n tio cep Con n tia Kan The k, wic Sme H. fu ne tio qus la re por a 6 Modernamente, il primo ime ult alle ice end app in , nte lme zia par i, (po sgg. 405 p. , 88) (18 I XII , nd» «Mi in of Free Will, sso pre he anc e, ent val pre za den ten la , poi in ora all da Ma, ). ics edizz. dei suoi Methods of Eth nel già ne sio res esp va tro che lla que a stat pre sem è gli studiosi più rinomati dell’etica di Kant,

kan ne tri doc la de nce ére coh La S, NOI CAR B. e com titolo di un’opera relativamente recente, t Kan , uSs Pra G. , ece inv te, ren cor tro Con 3. 197 il, tienne de la liberté, Paris, Editions du Seu s (Da 115 62pp. cie spe in 3, 198 nn, rma ste Klo M., tiber Freibeit als Autonomie, Frankfurt a.

Autonomie-Problem).



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pu op ce ve in e ch , re le vo l de à rt proprio quella concezione, della libe a ll ne a, ic it al An l’ al ta un gi ag e on zi da ci gnerà sdegnosamente nella Delu ul t’ es qu di za en ol vi a ll Ne . mo ia pp sa me co a, Critica della ragion pratic . le ca di a ra di no li pa a un di in qu re de ve da è o cc ta at mo ti o iut rif il o: gi ag ss pa to fat sif di so cor l ne , pur à rr ma Ma qualcosa ri la del ne io az in rm te de in l’ te an ic pl im to an qu (in che il libero arbitrio io ez sp ro nt ’i ll da ato est att sia ) le ra tu na ità sal cau volontà rispetto alla

to tta tra ra s’e ’55 l Ne . na) ter (in za en ri pe es r pe to cer di in ne, e qu in nv co a all ni, zia bni lei i nt me go ar iti sol i n co , te en lm ta on fr i d’oppors ta da à sar a cos la ’, che iti ‘cr e er op e ll Ne $8 s. iu us Cr di a ri ra zione cont per scontata, attraverso tutta quanta la costruzione della nozione della «libertà trascendentale», motivata appunto dal presupposto che l’esperienza interna non attesti affatto alcuna libertà del volere, nel senso forte che ora sta a cuore anche a Kant.9? Siffatto permanere dell’eredità di Leibniz nelle opere ‘critiche’ (contestatualmente al rifiuto, ora, della di lui soluzione) costituisce uno dei lati della grandezza filosofica di Kant: per aver comunque evitato, così, la trappola cartesiana (e tradizionale, avanti e dopo Cartesio) del preteso ‘sentimento interiore’ della libertà del volere, ovve-

ro per aver riconosciuto come un punto di non ritorno l’alternativa spinoziana (l’ignoranza delle cause che ci determinano non autorizza affatto alla negazione di esse), dalla quale dipendeva, del resto, già Leibniz.?° Tuttavia, nel periodo ‘critico’ riemerge anche un’altra eredità i

6 Cfr. Ak., vol. I, pp. 401!3-15 («Accidere autem potest casus ubi, quae ad alterutram partem inclinent voluntatem rationes, conscientiam plane fugiant, nihilominus tamen alterutrum deligatur...»), 40378 (replica all’obiezione che, «si mihi ipsi attentus sum, liberum mihi

esse animadverto utroque inclinari...», e così via), e 406!2-25. Trad. ital., cit., pp. 29, 32 e 37. 6 Semmai, era stato in un momento intermedio, e cioè nelle lezioni accademiche che risalgono al periodo d’incubazione del «criticismo» (quindi nel corso della maturazione della palinodia), che Kant aveva ceduto alla tesi introspezionistica, col dichiarare il libero arbitrio at-

testato anche dall’esperienza interna. V. sopra, nota 60. 70 Cfr. Refl. 4724 (Ak., vol. XVII, p. 688): «Non possiamo dimostrare la libertà [del volere] a posteriori, perché la mancanza della percezione di cause determinanti non fornisce alcuna prova che non ce ne siano...». Assai energicamente, pur nella Metapbysik Mrongovius, in Ak., vol. XXIX, pp. 89634-897!3 (dove si trova anche una formulazione di sapore specifica mente leibniziano: «Siamo consci solo dei moventi o stimoli che siano rappresentazioni chiare. Ma possiamo ben avere pur rappresentazioni oscure e stimoli di cui non siamo consci...»), e nella Metaphysik Arnoldt (1794-95), ivi, p. 1022!7-29. Nella Fondazione della metafisica dei costumi, in Ak., vol. IV, p. 4193932 (SM, p. 77), il principio generale: «Chi può mai provare il non esserci d’una causa mediante l’esperienza, se questa non c’insegna niente di più se non che non la percepiamo?».

Ma

E

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IN

KANT

leibniziana (e, questa, specificamente leibniziana); e cioè la definizio-

ne stessa della /ibertà, che Kant aveva adottato nel ’55. Aveva dichiarato allora: «Spontaneitas est actio a principio interno profecta. Quan-

do haec rapraesentationi optimi conformiter determinatur, dicitur /jbertas»."! Ora, proprio questa ‘libertà’ (che si distingue dunque dalla mera ‘spontaneità’ solo in termini assiologici) ritroviamo nella Fondazione e nella Critica della ragion pratica, tutte le volte che, come s'è visto, troviamo la libertà della volontà identificata con l’‘autonomia’

di essa (salvo che, di nuovo, senza più alcuna possibilità di ‘gradi’, come invece era esplicito nel ’55: «Quo certius huic legi [di determinarsi spontaneamente in conformità alla rappresentazione dell’ottimo] obtemperare quisque dicitur, ...eo homo est liberior»?2). Nei luoghi in questione riemerge dunque, effettivamente, una concezione che Kant aveva fatta sua allorché difendeva il determinismo.??

Quanto poi al criticismo, una volta costituitosi, la motivazione della differenza, fra le due concezioni che c’interessano (libertà come potestas ad utrumque e libertà come autonomia della volontà), è corre-

lativa, si potrebbe dire, a quel che Kant trovava nel «mondo intelligibile». Vi trovava, infatti, la libertà trascendentale, come sappiamo da

sempre. Tuttavia, a sua volta, questa si configurava, già nello sviluppo della ‘Soluzione’ della Terza Antinomia, ora (all’inizio) quale pote-

stas ad utrumque, o ‘libertà pratica’ nel senso che quest’espressione ha appunto nella Critica della ragion pura, nel luogo menzionato più e più volte; ma poi anche come causalità della ragione (s'intende, pura). Ora, per pensare la libertà trascendentale nel primo senso, era senz'altro necessario (ma sarebbe stato anche sufficiente) riconoscere la ragion pura come legislatrice, o come organo della legge morale, in quanto quest’ultima rappresenta uno dei due termini di quell’alterna71 Cfr. Ak., vol. I, p. 4021213 (trad. ital. cit., p. 30). 72 Il dicitur potrebbe essere un lapsus o una corruttela, per dittografia, in dipendenza dal «dicitur libertas» immediatamente precedente. 73 Nel periodo critico, la riemergenza più impressionante di tutt’intera la concezione X, XXI vol. Ak., in us, govi Mron ik phys Meta cit. della o punt un in ha si tà liber precritica della anzi bbe sare e ; cause da ate] rmin dete ché [per o ngon avve i... azion e nostr le e «tutt p. 9031-25: bene Il ario. contr il bensì o, grad imo mass al e piac mi che quel si voles non contraddittorio che che tale modo in tuita costi fosse ra natu a nostr la se e, ...; vuole uomo è sempre ciò che ogni l’uo. Ma.. i. liber mai to quan mmo sare le], [mora bene del etto conc il ndo agissimo sempre seco ndo: dice , ione biez un’o via tutta fa Si quid. ndum secu solo mo è libero

un ente costituito in

si ciò A o... liber è non , bene il non se a, natur ria prop modo tale da non poter fare, secondo la ma a; ment egli pio] esem [per che bile, possi nte came fisi è od può replicare: è in suo potere, non vuole mentire».



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nse es ro lt ’a (l ue mq ru ut ad as st te po a tiva ch’è costitutiva appunto dell da an è nt Ka hé nc no Se . i) il ib ns do rappresentato dalle inclinazioni se o nt pu ap , ia om in nt ’A ll de ’ ne io uz ol ‘S a ll de o to ben oltre, pur nel cors

e ” a, ri op pr a su à it al us ca a un e ch an con l’attribuire alla ‘ragione’ . a’ ur ‘p à nt lo vo sa es st la n co a, or da à gi quindi identificandola, e ll ne rà er st so nt Ka e om (c oè ci e ; ue nq du , ra Causalità della ragion pu

no to au oè ci e ; ra pu on gi ra sa es di à it ic successive opere morali) prat e ch a, lt vo ta es qu o, ns se l , ne a’ ic at pr tà er ib ‘l oè ci e à; mia della volont l é ne ch zi an a, ic at pr on gi ra a ll a de ic it Cr a ll ne e rà av on si una tale espres

ti An a rz Te a ’ ll de ne io uz ol ‘S a ll de le ia iz in o og lu l ne a ev av e senso ch

nomia...

E, a seconda di quale, di queste due prospettive, prevalga, si hanno le due contrastanti concezioni che abbiamo trovate nelle opere morali di Kant. Nel corso stesso della ‘Soluzione’ della Terza antinomia, c’è alme-

no un momento in cui la questione sembra venire alla ribalta. Ed è proprio allorché, anticipando, Kant introduce il punto di vista «pratico». Il ‘dover essere’ (So/len), dunque, è del tutto incompatibile con la ‘natura’: non è possibile che nella natura alcunché mai debba essere (nel senso appunto d’una doverosità) in maniera diversa da come di fatto è o non è. Dal punto di vista pratico, al contrario, può ben darsi che non debba accadere (sempre nel senso detto) ciò che invece accade, eventualmente, secondo il corso della natura e, in base a questo, allora non può non accadere, inevitabilmente (ché questo è un

Miissen). «Ma», proseguiva Kant, talvolta «le idee della ragione» (e cioè, qui, i princìpi morali) mostrano effettivamente d’avere «una causalità rispetto alle azioni dell’uomo in quanto [queste azioni medesime] fenomeni», e allora queste avvengono perché «determinate, per niente affatto da cause empiriche, bensì da princìpi della ragione»? 74 Cfr. Critica della ragion pura, A 547, B 575; A 550, B 578; A 553 e sg.,

B581esg.; A

555, B 583. Quanto all’asserzione, nel penultimo dei luoghi appena citati, che «la ragione è la

condizione costante di tutte le azioni volontarie [wi//kzrlichen]», vi si soffermerà uno dei primi kantiani, come C. C. E. ScHMm, Versuch einer Moralphilosophie, a partire dalla 3* ediz.,

Jena, Cròker, 1795, pp. 451 e 503 sg. (=4* ediz., ivi, 1802 [riprod. anast., Bruxelles, Culture et Civilisation, 1981], vol. I, pp. 495 e 524), intendendo che la ragione può essere la causa determinante di tutte le azioni volontarie, in quanto abbiamo il potere di renderla tale, mercé la libertà. Se s’intendesse invece alla lettera, l’asserzione di Kant, allora la si dovrebbe limitare alle azioni moralmente buone; ché la ragione non potrebbe mai essere la causa determinante delle azioni immorali, per definizione. 5 Cfr. ivi, A 547, B 575; A 550, B 578. In se stessa, quest’argomentazione può apparire non rigorosissima, perché in contrasto con la tesi (già presente nella stessa Cr. d. rag. pura, A



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VOLONTÀ

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KANT

Un assunto come questo è in palese contraddizione con quanto sarebbe richiesto dalla ‘Soluzione’ dell’Antinomia; ché, secondo la teoria ‘ufficiale’ di Kant al riguardo, come sanno tutti, ogni azione (scelta) deliberata dovrebbe esser considerata conterzporaneamente come libera, dal punto di vista intelligibile, e come determinata sensibilmente dal punto di vista fenomenico. Ora, nel luogo appena menzionato si trova detto che alcune azioni (scelte) sono determinate, per

ipotesi, da «princìpi della ragione»; senonché, i due tipi di determina-

zione, empirica e, rispettivamente, razionale, sono presentati in alter-

nativa (per niente affatto... bensì...); ma da ciò consegue che allora le azioni determinate dalla ragione rom sarebbero nel contempo determinate anche empiricamente, e, per implicazione, che le azioni non determinate dalla ragione (e cioè quelle immorali e quelle non-morali) sarebbero determinate esclusivamente da «cause empiriche». Così, anziché alla distinzione fra due punti di vista da cui considerare nello stesso tempo ogni e medesima azione (scelta), ci troviamo inopinatamente di fronte alla distinzione fra due generi di azioni (scelte): pen-

sate come soltanto sottomesse alla necessità naturale, e quindi appartenenti esclusivamente al mondo sensibile, le une, e invece soltanto

libere, in quanto prodotte esclusivamente da una causalità intelligibile, le altre. La motivazione, per una simile metamorfosi della teoria,

è giustappunto l’individuazione d’una causalità delle ‘idee’ della ragione sulle azioni umane in quanto fenomeni (allorché, o comunque nell’eventualità che, essa si dia). E questo, nel linguaggio che verrà introdotto nelle successive opere morali, si ha nel caso dell’‘autonomia’ della volontà, o della purezza della ragion pratica. Una siffatta concezione l’abbiamo ritrovata, in effetti, ogni volta che Kant ha identificata la libertà della volontà con la sua ‘autono-

mia’ o con la razionalità pura dell’agire umano (se non fosse per questo, non metterebbe certo conto d’accanirsi sul luogo menzionato della Critica della ragion pura). Ma siamo ora in grado di vedere che la costosità di essa è dunque doppia: non soltanto rispetto alla pratica teorica di Kant in sede morale, come già s’era visto; ma anche rispetnecese libertà fra mia Antino dell’ ione’ ‘Soluz di ta propos to alla sua , lio meg (o one azi lia vog lsi qua di tà ali mor ca nti ute l’a del à lit ibi cid 551, B 579, in nota) dell’inde scri ciò, di o, mod e lch qua in to, con er ten di pur scelta); tant'è vero che Kant si premurava iorag la del e ide le che e, var tro di mo sia pen eno alm o vendo in realtà: «Ma talvolta troviamo, npri di ea lin in eno alm , ile sib pos e com ere ett amm ne...», ecc. Comunque, si può pur sempre e. ent iam ovv ta, bas sto que e t; Kan da ta pla tem con cipio, l'eventualità qui



ll —

SERGIO

LANDUCCI

di re ne te di to ra st mo re mp se ha li eg i sità, cioè ad una delle cose a cu più, in tutt’intera la sua filosofia. ot ad ad e, nt ta os on on ci o, tt do in a bbi l’a a cos Se allora ci si chiede ha ra pu on gi ra la Se a. at ig bl ob ra mb se ta os sp ri la , sso tarla tanto spe le dal ta ta ci er es la el qu n co a nz re or nc co (in ità sal cau a ri op pr una sua a un e er av r pu ve de a ss ’e ch an nt Ka o nd co se ), ili sib sen ni io inclinaz

3* la del io niz l'i dal mo ia pp sa Lo . ità sal cau ra alt ni og di ri pa legge, al sezione della Fondazione della metafisica dei costumi, ma già era stato rTe la ’ del ne io uz ol ‘S la del sso ste so cor , nel to es qu e ch o, an pat ici ant za antinomia.”6 Per Kant, se una causa efficiente non avesse una ‘legge’ della propria causalità, semplicemente non sarebbe una ‘causa’ (bensì Caso, si può esplicitare); e questo è dunquè un assunto a priori, in quanto fa parte della definizione stessa della nozione di causa, come Kant lo presenta.” Si comprende, quindi, ch’egli sia irresistibilmente indotto a pensare che, allorché un’azione sia determinata dalla ragion pura, anziché dalle inclinazioni, segua pure una ‘legge’, che, in questo caso, non può essere, naturalmente, se non la legge ‘morale’. Questa non è più, allora, uno dei termini dell’alternativa ch’è aperta alla potestas ad utrumque, bensì il modo d’operare d’una causalità (quella della ragion pura) ch’è essa in alternativa ad un’altra causalità (quella naturale). La legalità (non casualità) appare garantita in tutti i casi, così: quando non dalle leggi di natura (psicologiche), dalla conformità della causalità (razionale) appunto alla legge morale. Una siffatta distribuzione dei vari generi di azioni (quelle non-morali ed immorali, e, rispettivamente, quelle morali) fra i due generi di leggi (quelle naturali e, rispettivamente, quella morale) è motivata indubbiamente dall’intento d’evitare l’indeterminismo. Si può quindi supporre che le oscillazioni di Kant che conosciamo attengano, alla radice, alla sua considerazione dello statuto della potestas ad utrumque medesima. Talora, Kant l’ha teorizzata (ed ha proce76 Allorché introduce la nozione del «carattere» (poi subito distinto in «intelligibile» ed «empirico»), A 539, B 567: «Ogni causa efficiente deve avere un carattere, e cioè una legge della sua causalità, senza la quale non sarebbe affatto una causa». î Cfr. Ak., voll. XXVII, pp. 13223133, 133035-37; 48126-28; e XXIX, p. 6301921; «Sen-

za legge non è pensabile alcuna causa, e quindi neppure una volontà, poiché c’è una causa là

dove qualcosa segue [ad essa] secondo una regola costante»; «La volontà libera è una causa ef-

ficiente, e causa porta già con sé il concetto di legge»; «Le leggi costituiscono, nelle azioni, la causalità, cioè la proprietà per cui l’ente agente diventa causa dell’azione...»; «Senza legge, l’uomo non può agire, perché ogni forza, in quanto causa, è ciò da cui qualcosa segue secondo una regola costante».



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duto anche nella sua pratica teorica in base ad essa) come una nozio-

ne senz'altro ammissibile in sé, oltre che necessaria quale condizione

stessa della vita morale dell’uomo (secondo egli l’intendeva); talora, invece, se n’è ritratto esplicitamente, come di fronte ad una intollerabile concessione al Caso, secondo la critica che tante volte, del resto,

era stata rivolta alla famigerata ‘libertà d’indifferenza’. Sulla questione su cui si disputava da due secoli, se si desse o no un tertium fra Caso e necessità, si constata dunque che Kant ha proceduto, alternativamente, in due maniere rispettivamente contrarie, allorché s’è tro-

vato di fronte al problema del libero arbitrio. Il travaglio, ch’era stato di due secoli di pensiero europeo, si ritrova pertanto, come tale, anche all’interno del Kant della maturità. E, di certo, la legalità della causalità della ragione toglie via l’indifferenza della volontà intesa alla lettera. D’una legalità della causalità rappresentata dalla volontà umana si potrà quindi parlare, se si vuole, allorché la ragione riesca ad imporsi contro le inclinazioni sensibili; ma solo nel senso ovvio che un siffatto comportamento non è da riportare al Caso, bensì al rispetto della legge morale, per definizione. Tuttavia, un tertium fra necessità e Caso si ripropone comunque, anche in questa posizione. Anche la causalità della ragion pura (e cioè l'autonomia della volontà) è infatti, ovviamente, una forma

della causalità per libertà, ossia della libertà trascendentale, in quanto anch’essa «incondizionata». Per di più, all’interno di questa posizione, rimane del tutto inesplicabile perché talora operi, la causalità della ragion pura, e talora no; ché ricorrere ad una scelta libera da parte del soggetto sarebbe tornare alla prospettiva della potestas ad utrumque. Rimane poi sempre la questione di come intendere i casi in cui ad avere il sopravvento siano le inclinazioni sensibili. Se si pensa ch’essi la o nuov di ha si , altre le to quan e liber nto etta altr siano delle scelte al to quan à ssit nece alla tanto le ucibi irrid come , mque utru ad potestas enza pres in trovi si ci e ienz even tali in che ce inve a pens si Caso. Se dialla ti torna s’è esse di o osit prop a a allor , rale natu d’una necessità one opzi all’ , ente ralm natu (e, Caso e à ssit nece fra sgiunzione secca per la prima contro il secondo). di a ic et l’ e ch oè ci e , ra no fi o ut en st 7. Ovviamente, quanto so pe im n no , ue mq ru ut ad as st te po Kant è pensabile solo sulla base della AI e. on zi no ma ti ul t’ es qu a on bu r pe gna minimamente ad accettare —

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SERGIO

LANDUCCI

, no ia cc ra nt ri si e ch li bi ta on rm so in contrario, proprio dalle difficoltà o it os op pr a a, mi no ti an a rz Te a ll nella pretesa ‘Soluzione’ kantiana de en am tr es ma am un le bi va ca ri ai della libertà trascendentale,78 è semm n no ma , le na io nz te in er et pr e ch e tr ol to permanente, negativo, bensì,

perciò meno ha affrontato sante ipoteca

nt Ka i cu n co tà li ca di ra a ll da e nt va ri de hé rc prezioso, pe pe la al do en rr co ri e ur pp ne me co : to es Qu . ma il proble , lo ar lv sa o a er vv da ca es ri mo si is on at o pl at d’un rinnov

l ne , nt Ka i, lu lo ar lv a sa ev nd te in i cu i in in rm te i , ne io il libero arbitr

rte de re al ia nc nu i ri di tt ce ac s’ n po no em nt co l ne ’, se periodo ‘critico i uo gl de te el e sc nt le al me va ti o la iv re at ic o pl pi es ci in e pr al o qu minism mini.

Non ci sarebbe allora che da ritornare al Kant ancora determinista del 1755; salvo trarre esplicitamente la conseguenza che in tal modo non sarebbe però più possibile mantenere quella concezione della responsabilità morale, intesa come «merito» e «colpa», che invece starà tanto a cuore di salvare appunto al Kant ‘critico’, considerandola egli priva d’alternative che non fossero l'abbandono puro e semplice d’una nozione che riteneva indispensabile al nostro universo morale. Certo, duecento anni di concezioni utilitaristiche (come si suol di-

re gergalmente) della responsabilità morale, alternative rispetto a quelle retribuzionistiche, ci facilitano grandemente la cosa; ma va pur detto che siffatte concezioni hanno i loro antenati illustri ben prima di Kant: in Hobbes e Spinoza. Kant non se n’era accorto;”? e, ciò,

anche a cagione degli opportunismi concettuali di Leibniz, al riguardo, che aveva cercato, al solito, di salvare tanto una concezione della 78 Per le quali, non essendo qui possibile diffondercisi, si può rimandare almeno alla discussione più recente, fra A. W. WooDp e J. BENNETT [già autore, quest’ultimo, d’un noto commentario della Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura, oltre che d’uno dell Analitica), in AA.VV., Self and Nature in Kant's Philosophy, a cura di A. W. Wood, Ithaca

and London, Cornell Univeristy Press, 1984, p. 73 sgg. 7 Anche se vi si era pure imbattuto, almeno una volta, e precisamente allorché (1783) aveva recensito (e in qualche modo difeso, cercando attenuanti per l’autore) il Versuch einer Anleitung zur Sittenlehre fiir alle Menschen ohne Unterschied der Religion, nebst einem Anhange von den Todesstrafen (Berlin, Stahlbaum, 1783) di J. H. ScHutz, di netta ispirazione spinozistica: non si dà libertà del volere, il bene e il male morali non sono se non gradi diversi di perfezione, e così via. Conseguenza (sempre nell’esposizione da parte di Kant): «Saggezza e stoltezza, scienza e ignoranza non meritano né lode né biasimo...»; «quindi, tutte le pene vendicative sono ingiuste, soprattutto la pena di morte, e al loro posto null’altro che il risarcimento e il miglioramento... deve costituire lo scopo delle leggi penali... La lode ha solo lo scopo di incoraggiare l’autore [di un’azione] e gli altri a compiere azioni buone consimili...» (Ak., vol.

VIII, p. 11 sg.; trad. ital. di G. Solari, in KANT, Scritti politici, ecc., cit., p. 340 sg.).

Cui

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AUTONOMIA

DELLA

VOLONTÀ

IN

KANT

libertà del volere del tutto compatibile col determinismo naturale quanto una concezione tradizionale della responsabilità morale, appunto retribuzionistica.8° Da questo punto di vista, aveva perfettamente ragione, Kant, a rifiutare, nella Critica della ragion pratica, la

libertà che chiamava ‘psicologica’, quale fondazione adeguata d’una concezione retribuzionistica della responsabilità morale. Ma, quel che non gli può esser concesso, è che questa sia l’unica concezione possibile, della responsabilità, com’egli dava invece per scontato. Da codesto presupposto acritico dipendeva anzi tutto il suo lavorio, dalla Terza antinomia in poi, con le innegabili profondità abissali, ma anche le aporie irresolubili, che si sono viste.

a ; 17 $ ), ng Ki su es qu ar em (R I" II e ic nd pe Ap e 9, 36 , sg. 73 $$ e, cé di éo th de is sa Es 80 Cfr.

UCR e, nt me ta us gi , ro nt Co . e» al in ic éd «m to an lt so n no e , e» iv at ic nd vi ce ti us «j a ll de proposito

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LETIZIA GIANFORMAGGIO

HANS KELSEN SULLA DEDUZIONE DELLA VALIDITÀ

Premessa

«Hans Kelsen su diritto e logica» è, da più di un ventennio, una palestra per esercitazioni e incontri-scontri tra cultori di filosofia e teoria del diritto.! E, ancora, un tema caldo, che appassiona; né, an-

cora, la letteratura relativa ha prodotto interpretazioni, sia delle differenti tesi da Kelsen espresse in argomento, sia del succedersi di esse, che appaiono in qualche modo e in qualche misura consolidate.? Questo scritto trae spunto dall’impressione che alcuni dati rilevanti ai fini del conseguimento di interpretazioni idonee non siano stati ancora analizzati, ed intende offrire così alla discussione il con-

tributo di una prima analisi di questi. Si tratta dell’abbozzo di una ! Mi piace ricordare qui come tra i primi a sottolineare la grande rilevanza degli scritti kelseniani successivi alla seconda edizione della Dottrina pura del diritto, e la problematicità della collocazione di essi all’interno appunto della dottrina pura, siano stati degli italiani. Cfr. M. G. Losano, La dottrina pura del diritto e la logica, «Il Politico», 1966, pp. 812-821; ora, col titolo Diritto e logica in Hans Kelsen, in In., Forma e realtà in Kelsen, Milano, Comunità,

1981, pp. 125-137; A. G. Conte, In margine all'ultimo Kelsen, «Studia Ghisleriana», 1967, pp. 113-125, e, rivisto, in R. GuastINI (ed.), Problemi di teoria del diritto, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 197-208; In., Primi argomenti per una critica del normativismo, Pavia, Publ. dell’Università, 1968.

2 Ancora si contendono il campo, specialmente, la tesi della continuità e quella della rottura tra l’ultima fase della riflessione kelseniana e le sue precedenti teorizzazioni. La tesi della continuità è stata, per esempio, egregiamente sostenuta da Stanley L. PAuLSON, Ste/lt die «AlIgemeine Theorie der Normen» eine Bruch in Kelsens Lehre dar?, in AA.VV., Die reine Recht-

slebre in wissenschaftlicher Diskussion, Manzsche Verlag und Universitàtsbuchhandlung, Wien, 1982, pp. 122-141; la tesi della rottura, altrettanto egregiamente, da O. WEINBERGER, Normentheorie als Grundlage der Jurisprudenz und der Etbik. Eine Auseinandersetzung mit Hans Kelsens Theorie der Normen, Berlin, Duncker und Humblot, 1981. In Italia entrambe le tesi sono dottriLa continuità, della tesi la per (cfr., Losano G. M. da diversi, tempi in sostenute, state diritto del pura dottrina La rottura, della tesi la per e, 137, p. cit;. logica, la e diritto del pura na a H. KELSEN, Teoria generale delle norme, tr. it., To-

dal logicismo all’irrazionalismo, Introduz.

rino, Einaudi, 1985, pp. XVII-LXIV).



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è e gu se e ch la el Qu . ta di on of pr ap e a analisi che dovrà essere raffinat e. on si lu nc co la al ma si os pr n no e o, rs co una fase di una ricerca in 1. Sommaria presentazione dei dati del problema La teoria del diritto elaborata da Hans Kelsen nel corso di un cina pur ria teo re, leb hts Rec ne rei ta ama chi re uto l’a dal ta sta è o quantenni del diritto. «Pura» vuol dire metodologicamente pura, libera da sincretismi, non inficiata da considerazioni pertinenti più propriamente ad altri specifici disciplinari, che siano la psicologia, la sociologia, la teoria politica, la dottrina morale. Per conseguire la purezza, la teoria deve volgersi esclusivamente al suo oggetto, ovverosia al diritto. Il diritto che è specifico oggetto della teoria del diritto è il diritto positivo. Diritto positivo vuol dire diritto che c’è, e non che deve essere; diritto positivo vuol dire diritto valido, e non fatto. Il diritto oggetto della teoria pura del diritto è, tra la fattualità (oggettiva) e il valore (soggettivo), un tertium quid: è validità, o valore oggettivo. La validità, cioè il valore oggettivo del diritto, è la forza vincolante, è il Sol len. Che cosa è il Sollen? Ovverosia: perché si deve dare quello che

chiede all’esattore delle imposte, non al bandito? Non seguiamo, per ora almeno, Kelsen nella risposta articolata a questo interrogativo; evidenziamone soltanto il carattere rilevante per il discorso che qui si vuole fare, carattere che può essere espresso in negativo, in questo modo (ed è invero già implicito in quanto detto sopra): la differenza tra la richiesta del bandito e quella dell’esattore non andrà cercata né nell’oggetto né nel fatto della richiesta. Non ci si chiederà difatti se quel che viene chiesto sia giusto (o sia avvertito come tale), e neppure se sia di fatto chiesto. Il primo oggetto viene escluso come ron meritevole di indagine ai fini della determinazione del concetto di diritto; il secondo oggetto viene escluso come row bisognoso di indagine, perché, semplicemente, è il dato di partenza, è già acquisito all’indagine stessa. Ancora, importa sottolineare come la differenza stessa tra la richiesta dell’esattore e quella del bandito (differenza consistente in ciò, che la richiesta dell’esattore pone un

dovere, e non invece quella del bandito) sia un dato acquisito. Il problema non è se una differenza ci sia, e quale. Il problema è: che mai significa, cos'è, questa differenza che c’è? Ora, la via imboccata da Kelsen per rispondere, che è una terza —

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SULLA

DEDUZIONE

DELLA

VALIDITÀ

via tra quella che porta sui fatti (meri fatti, nudi fatti, bruti fatti) e

quella che porta sui valori (la giustizia, il bene, gli interessi, la pace

sociale), consiste in una analisi strutturale del fenomeno giuridico, ed è stata detta, dall’autore stesso, logica. «La teoria pura del diritto è

una logica del diritto» — frase che è stata tanto ripetuta da avere il sapore dell’ovvio - vuole dire esattamente lo stesso che: «la dottrina pura del diritto è un formalismo», e in essa «logica» è termine per lo meno altrettanto vago e generico del termine «formalismo».? Dire che la teoria pure del diritto è una logica del diritto comporta - solo - il porre, genericamente e congiuntamente, l’accento su due caratteri di essa: sull’essere, essa, una teoria scientifica cioè esprimentesi in un discorso rigoroso ed intersoggettivamente controllabile, e non invece

in discorsi evocativi ed ideologici (va qui ricordato come la tendenza allo smascheramento delle ideologie sia stata una costante della riflessione e della produzione kelseniana),' e sul non essere essa una teoria

empirica (va ancora ricordato qui quanto rilevante sia stata, nell’economia del discorso kelseniano sul diritto, l’actio finium regundorum tra scienza giuridica e sociologia del diritto).5 Ma niente più di questo. E non per poco: almeno fino ai suoi settanta anni nessun problema più specialistico, che avesse un senso più specifico e definito chiamare «problema logico», Kelsen si è mai po-

sto. L’interesse kelseniano per la logica data più o meno dai primi anni cinquanta. Non è, evidentemente, casuale. Molto opportunamente di recente Tecla Mazzarese ha ricordato, in apertura del suo bel saggio Deontica kelseniana, queste tre date in successione: 1951 Georg Henrik von Wright publica Deontic Logic, «l’articolo che, convenzionalmente, si considera il punto d’avvio della moderna logica Finlanin visita in Wright, von di detta a Kelsen, 1952 deontica»;7

dia «was very excited about the prospects which deontic logic see2. $ , cit. , ica log la e tto diri del a pur na tri dot La , ano Los G. 3 Cfr. M.

nde gra la del io figl sen Kel su ina pag la bel la o, ett asp sto que per , 4 Molto interessante

33, , ca» iti pol e a ori «St », one uzi tit cos la del de sto «cu il e sen Vienna di P. PertA, Schmitt, Kel 1987, pp. 505-551.

in , sen Kel s Han o ond sec o» rit spi lo del za ien «sc e com za den pru ris giu 5 Cfr. G. CALABRÒ, La 8. 7-2 pp. 4, 197 da, Gui , oli Nap it. tr. co, ogi iol soc e H. KeLsen, Tra metodo giuridico », ica rid giu a tur cul la del ria sto una per i ial ter «Ma a, ian 6 T. MAZZzAREsE, Deontica kelsen XVIII/1988, pp. 429-457. 7 Op. cit., p. 430.



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e» ur «p n ow s hi in ts ne te c si ba me med to open for vindicating so s hi r fo c gi lo in t or pp su r fo ed ok lo he theory of law. In particular, no e ar e er th at th . i.e , ed os cl y it ss ce ne of is r de or l ga idea that a le ee fr be st mu r de or l ga le a at th ea id e th r fo d an w, «gaps» in the la en ls Ke di o tt ri sc lo to ca li bb pu e en vi from «contradictions»;8 1953 ia or te a e ll de on zi ta en es pr to au di a rt , so e? hr le ts ch Re e Was ist die rein re i pp rs ra ta re rp te in re e di ar ol ng ne si io az er op l' ie mp in cui Kelsen co of e, rm no e ll de le ra ne ge ca gi lo a un re di to ri op sc lo sentandosi come Lo ie : «D re so ur ec pr ro lo un di i st ve e ll ne ci ti on de frendosi ai logici e/g 4/ ne ei t is t, kt ha ec n td ge en sa e zu hr so le ts ch e Re in re e di e di k, gi , ze at -S ll So er s od en ll So s k de gi Lo ne ei t: iB , he s ik da og -l rm e No in me die Logik einer auf Normen [...] gerichteten Erkerìntnis».? Da questo momento ha inizio da parte di Kelsen, e si compirà nel volger di un decennio, un lavoro interessantissimo la cui ricostruzione ancora affascina ed appassiona gli studiosi (ed è ben lungi dall’esser completata): lavoro di appropriazione e trasformazione delle analisi di logica degli imperativi e delle norme e di logica deontica, e quindi, in conseguenza, di trasformazione (almeno dichiarata ed apparente, se e quanto profonda e sostanziale è ancora oggetto di dibattito fecondo) della propria concezione. Si compirà nel volger di un decennio, ho detto. La virata infatta data nel 1962, col saggio Derogation ove in chiusura, come

è noto,

egli scrive: «In summary it should be pointed out that the importance in legal theory is: that principles of derogation are not logical principles, and that conflicts between norms remain unsolved unless derogating norms are expressly stipulated or silently presupposed, and that the science of law is just as incompetent to solve by interpretation existing conflicts between norms, or better, to repeal the validity of positive norms, as it is incompetent to issue legal norms».!° 8 G. H. von WRIGHT, Is and Ought, in E. BuLyenn, I. Niniruoto

(eds), Mar, Law and

Modern Forms of Life, Dordrecht, Reidel, 1985, pp. 263-281, alla p. 269. ? H. KeLSsEN, Was ist die reine Rechtslehre?, in Demokratie und Rechtsstaat. Festschrift fiir Zaccharia Giacometti, Ziùrich, 1953, ora in H. KLECATSKY, R. Marcic, H. SCHAMBECK, Die Wiener rechtstheoretische Schule, Schriften von Hans Kelsen, Adolf Merkl, Alfred Verdross,

Frankfurt-Zirich, Universitàtsverlag, Salzburg-Miinchen, Europa Verlag, 1968, vol. I, pp. 611-629, alla p. 617. 0 H. KELSEN, Derogation, in Essays în Jurisprudence in Honor of Roscoe Pound, Indianapolis-New York, 1962, ora in Die Wiener rechtstheoretische Schule, cit., vol. II, pp. 14291443, alla p. 1443 (tr. it. H. KeLSEN, Derogazione, in In., La teoria politica del bolscevismo e altri saggi, Milano, Il Saggiatore, 1981, pp. 189-204).



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La virata è compiuta, e dalla via così imboccata Kelsen non recederà più, anzi si ostinerà a percorrerla, insistendo sulla novità che comporta nei confronti della precedente sua speculazione. Come risulta chiaramente dai seguenti passi: «Aus dem bisher Dargestellten ergibt

sich, da die beiden wichtigsten logischen Prinzipien, der Satz vom ausgeschlossenen Widerspruch und die Regel der schluBfolgerung auf die Beziehungen zwischen Normen eines positiven Rechts, weder direkt noch - wie ich allerdings noch in meiner Schrift Reine Rechtslebre (2. Aufl., 1960) angenommen habe - indirekt anwendbar sind»;!! e

quindi: «Soweit konflikte zwischen generellen Normen in Betracht kommen, ist ein Normenkonflikt, der nicht - wie ich in meinem Werk «Reine Rechtslehre» behauptet habe - sinnlos und daher beide Normen ohne Geltung. Jede der beiden generellen Normen ist sinvoll und beide gelten».!2 Questo dunque lo sfondo della presente indagine. Essa, su questo sfondo, cerca di fare qualche luce su un momento finora piuttosto trascurato, su un passaggio cruciale invece a mio parere della ricerca

kelseniana in tema di logica e di norme nel decennio decisivo. Questo passaggio cruciale e trascurato, svoltosi allo scadere del decennio, mi pare in grado di spiegare, come ancora non è stato fatto, qualcosa almeno della genesi della virata kelseniana del ’62, con Derogation. Già una volta accennai, frettolosamente, a questo punto.! Ora vorrei ri-

prenderlo e trattarlo in modo meno inarticolato. 2. La deduzione della validità nella dottrina pura Kelsen dal logicismo all’irrazionalismo, è stato detto.!4 Questa è

la virata. Dalla tesi che il diritto positivo è ordinamento, cioè un sill H. KeLsEn, Recht und Logik, «Forum», XII, 1965, ora in Die Wiener rechtstheoretische TINI GUAS R. in a, logic e to Dirit EN, KeLS H. it. (tr. 1492 p. alla 7, -149 1469 pp. Schule, cit., tradi e error olo picc un con 191 p. alla 195, 173pp. cit., to, dirit del [ed.], Problemi di teoria

duzione). aus tuts nsti en-I Kels s Han des g tra Auf im , men Nor der rie Theo e ein gem All , 12 H. KeLsen und ag Verl he zsc Man n, Wie , ter Wal R. und fer gho Rin K. von n ebe geg dem NachlaB heraus Ket H. it. (tr. 169 p. ), ATN e com to cita ti avan in qui (di Universitàtsbuchhandlung, 1979 . 354) p. , 1985 i, aud Ein , ino Tor e, norm e dell rale gene sen, Teoria

sekel nti ome arg uni alc ero ovv o tic pra o ism log sil del esa dif In O, 13 Cfr. L. GranrorMaggI niani alla prova, Milano, Giuffrè, 1987, pp. 101-102. 14 Cfr. M. G. Losano, op. cit., supra alla nota 2.



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LETIZIA

GIANFORMAGGIO

ti or pp ra ai e ch si te la al , to le mp co e stema di norme chiuso coerente nco a ll de ci gi lo pi ci in pr i o an ic pl ap si tra le norme positive non . re pi ca di o am hi rc Ce a. iv tt du de za en traddizione e dell’infer po è e ch lì è hé rc pe o, tt ri di l de ra pu ia Si deve tornare alla teor o ri op pr E, ? re di ol vu e Ch o. nt me na di or è sta la tesi che il diritto a st ie ch ri la a tr za en er ff di a ll su a nd ma questa tesi, la risposta alla do og è za en er ff di La e. st po im e ll e de or tt sa ’e ll de la el qu e o it del band eff di , a re to at es l’ al e ch ò ci in o nt pu ap a st E . en ls gettiva, scrive Ke è i tt fa a in st ie ch ri a su la ; de ie ch to an qu ve de si o, it nd ba al e renza ch

n co a st po à, è nt lo vo di to at e un on di si es pr es l’ a tr al l’ me co questo atto, è positiva; ma, in più, è una rorma valida, e ciò vuol

dire che quell’atto ha quel serso (Sinn) oggettivo del dovere (Sollen) che gli viene dall’essere la sua validità dedotta da un’altra norma valida (nel caso, da una norma di legge). Quest’altra, anch’essa positiva, se, come detto, è valida, lo è pure per la stessa ragione, che la sua validità è dedotta da un’altra norma valida (nel caso, costitu-

zionale). Alla fine, per dar conto della validità di questa norma positiva che non può dedursi da alcuna altra norma positiva, la teoria pura, che è mera conoscenza e come tale non pore norme, ne presuppone una tuttavia (la norma fondamentale) valida, ma non poStan

Una norma valida non positiva è una norma solo pensata e non voluta; ma neanche prodotta dal pensiero, perché nessun pensiero, nessuna operazione di pensiero può produrre alcunché; può soltanto mostrare, evidenziare, tirar fuori ciò che esiste în quanto è riecessario: in quanto, se non esistesse, non potrebbe esistere qualcosa d’altro che di fatto esiste. Questo qualcosa d’altro è la norma positiva; la cui esistenza come norma appunto è la premessa dell’argomento trascendentale con cui la teoria pura, fondandone la validità e presup-

5 Cfr. H. KeLseN, Reine Rechtslebre. Mit einem Anbang, Das Problem der Gerechtigkeîit, Zweite Auflage, Wien, Deuticke, 1960 (di qui in avanti citata come RR2) p. 207, nota (tr. it. H. KeLsEn, La dottrina pura del diritto, Torino, Einaudi, 1967, p. 229): «Dieser Einwand [scil.: l’obiezione di I. Tammelo per cui non converrebbe considerare la norma

fondamentale solo dal punto di vista logico-giuridico o gnoseologico-giuridico, perché in questo caso essa non potrebbe dar conto della positività dell'ordinamento] triff darum nicht zu, weil die Positivitàt einer Rechtsordnung nicht auf der Grundnorm beruht, nicht aus ihr abgeleitet wird. Aus der Grundnorm wird nur die objective Geltung einer positiven, das ist tatsdchlich gesetzten und im groBen und ganzen wirksamen Zwangsordnung abgeleitet. Die positivitit besthet in der tatsichlichen Gesetztheit und Wirksamkeit der Normen«



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(corsivo mio)

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ponendone il fondamento, resta mera conoscenza e insieme costruisce il suo oggetto.!6 Lo costruisce come sistema chiuso, chiuso appunto dalla norma fondamentale; completo logicamente, cioè tale che una decisione sulla base di una norma sia sempre possibile, e coerente, cioè necessariamente esente da contraddizioni logiche. La coerenza dell'ordinamento qui particolarmente interessa. Essa pure è giustificata dalla teoria pura con un argomento tipicamente trascendentale. O meglio, con due argomenti trascendentali: uno per escludere che l'ordinamento contenga norme incompatibili a livelli diversi della sua struttura gerarchica, un altro per escludere che l’ordinamento contenga norme incompatibili allo stesso livello. La premessa del primo argomento è la validità di una norma che contraddice la prescrizione di una norma superiore positiva. In questo caso così si svolge l'argomento costruito dalla teoria pura —- se la norma inferiore è valida, non può essere valida la norma superiore positiva così com'è, ma deve necessariamente essere valida una norma diversa: quella, per l'esattezza, dalla cui prescrizione si possa dedurre la validità (che è stata —- ricordiamolo —- premessa) della norma inferiore. La teo-

ria non può porre né abrogare norme, e dunque presupporrà una norma superiore dalla prescrizione alternativa: il primo corno dell’alternativa essendo quello positivamente prescritto, il secondo quello necessario per dar conto della validità (che è stata — ricordiamolo - premessa) della norma inferiore, cioè quello da cui si possa dedurre tale validità. In questo modo la dottrina pura garantisce la coerenza dell’ordinamento dal punto di vista della nomodinamica.! Ma come, invece, la dottrina esclude che vi siano conflitti, in16 Molto importante, quale dimostrazione della consapevolezza, da parte della migliore filosofia analitica, di questo aspetto del kelsenismo, U. SCARPELLI, La critica analitica a Kelsen, in C. RoEHRSSEN (ed.), Hans Kelsen nella cultura filosofico-giuridica italiana del Novecento, RoI/ S, TREVE R. tante impor e Sempr 69-75. pp. 1983, na, Italia ia loped Encic della to Istitu ma, fondamento filosofico della dottrina pura del diritto di Hans Kelsen, Torino, R. Accademia delle Pure e Théori la dans ivité normat La ON, PAuLS L. S. : issimi recent e, 1-41; pp. Scienze, 1934, pp. , 7/1987 é» Sociét et «Droit aux?, endant transc s ument d’arg oir préval se lle du Droit peut-e ). stampa di corso (in lehre Rechts n Reine der sion Dimen n ische ntian neuka Zur In., 349-369;

17 Non tocco qui, ovviamente, il punto della rilevanza di questa tesi kelseniana in ordine per , iare rinv di to met per mi ; ione ituz cost a dell ali zion isdi giur alla problematica delle garanzie

tra co ami din to men ina ord e com o stat o dell no enia kels o ell mod I/ IO, AGG questo, a L. GrAanFoRM teoria e ideologia, in AA.VV.,

Modelli culturali e stato sociale negli anni trenta,

Firenze,

Le

«Ma le, iona ituz cost a tizi gius la e en Kels IS, BER BAR M. he anc a ved Si . 1-12 Monnier, 1988, pp. 2. -24 225 pp. 2, 198 XX/ a», idic giur ura cult a dell ia stor una per ali teri



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a rz te a un do an ul st po ra co An o? ad gr compatibilità tra norme di pari gso l de e) er ol (v re fa al ed e er sc no co al funzione o attività - oltre di ne io az er op l' o nd ie mp co , ra co getto nei confronti delle norme; e, an un n co ra co an re di ol vu e ch : tà vi ti si po dissociare, scindere validità da ant te at e ir gu se ve de si i Qu . le ta en nd ce as tr argomento tipicamente ri , ra pu ia or te a ll de o tt ge og o tt ri di Il . no ia mente il discorso kelsen irn fo a ti at ti es qu ue nq du n so à; nt lo vo di ti cordiamo, è il senso di at sa es e ch ) vo ti si po to it ir (d e al ri te ma il o tt ri di l de za en re alla conosc ond ue ib tr at oè i, ci gl do en rn fo do li o va tt ri à di er in rm elaborerà, trasfo ol (S re ve do il è e , ch ra co lo an mo ia rd co ri o, rs se el gli, quel senso. Qu abi ab lo o, ns se ne di io uz ib tr at ta es o. Qu iv tt ge og re ve do il è len), che a e ll on de zi du ne de io di az er op te l' an di à me ir mp co si o, st vi re pu mo validità; ma prima (o insieme)

quel materiale deve (sia consentito

e; qu tà e di li ta va , es la qu ar rt po ce di pa ca so re re se ) es si sì er co im pr es e on zi ta re rp e te ar in in di im ne el io pr az er te a op an un e di en me vi o av st che non è funzione né di mera conoscenza né di volontà e di scelta. È operazione, potrebbe dirsi, selezionatrice; cioè operazione di esclu-

sione di quei possibili significati del materiale positivo che rendano impossibile interpretare questo come diritto valido.!8 18 Cfr. H. KeLsEN, Die philosophischen Grundlagen der Naturrechtslebre und des Rechtspositivismus, Philosophische Vortrige der Kant Gesellschaft, Charlottenburg, 1928, ora in Die Wiener rechtstheoretische Schule, cit., vol. I, pp. 281-350, alle pp. 295-296, e tutto il cap. II (nella tr. it. in Appendice a H. KeLsEN, Teoria generale del diritto e dello stato, Milano, ed. di Comunità, 1952, si veda in particolare alle pp. 408-409). Si deve essere molto precisi sul senso che ha, qui sopra nel testo, il termine ‘interpretazione’. Qui non si tratta, in effetti, di interpretazione delle norme, se non in un senso particolarissimo. Si tratta piuttosto di una (pre-)interpretazione del significato (sprachliche Bedeutung) di atti di volontà necessaria perché essi possano poi essere interpretati come norme valide, cioè come aventi il senso (Sinn) di diritto valido. Cfr., molto bene, J. W. HaRrIs, Kelsen and Normative Consistency, in R. TUR-W. Twninc (eds.), Essays on Kelsen, Oxford, Clarendon, 1986, pp. 201-228, alla p. 222: «The elimination of contradiction takes place at what might be called a ‘precognition stage’. We do not search out separate norms and then ask whether they conflict. Before we arrive at the point where we know what the law is, we have already reworked legislative materials into a unified field of meaning». Uno degli equivoci più persistenti nella interpretazione di Kelsen è originato, secondo me, dalla mancata attenzione alla distinzione, importantissima in Kelsen tra Sinn di norma e sprachliche Bedeutung della norma, equivoco reso più facile dal fatto che Kelsen parla anche, talora, di sprachlicher Sinn (cfr. ad es. H. KeLSEN, Zur Theorie der Interpretation, «Internat. Zeitschrift fir Theorie des Rechts», 1934, ora in Die Wiener rechistheoreti-

sche Schule, cit., vol. I, pp. 1363-1373, alla p. 1365). Di tale mancata attenzione è anche segno (e, forse, concausa) la traduzione inglese di ‘Sinz’ con ‘meaning’. Cfr., da ultimo, nel saggio peraltro molto accurato di I. WeyvLAND, Idealism and Realism in Kelsen's Treatment of ., Norm Conflicts, in R. Tur-W. Twin (eds.), Essays on Kelsen, cit., pp. 249-269, alla p. 260: «Finally, Kelsen’s ideas on interpretation have implications for his definition of the legal norm as the objective meaning of one act of will, for the latter must be understood to cover not just one but a range of meanings» (ove evidentemente il primo ‘meaming’ è il Sinn di Kel-

tie

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DELLA

VALIDITÀ

Ancora, dunque, la validità è una premessa. Ma stavolta non la

validità della singola norma: dell’insieme, invece. L'ordinamento è valido e siccome, se non fosse coerente, non potrebbe essere valido esso è coerente.

3. L’interpretazione kelseniana della dottrina pura come una logica generale delle norme

Quella che ho presentato è la concezione che, grosso modo, Kelsen elabora e presenta nel corso di un trentennio, dalla fine degli anni 20 alla fine degli anni 50; sono gli anni centrali della sua vita, gli anni della maturità, gli anni appunto della teoria pura. Son, questi, gli anni del neokantismo di Kelsen più compiutamente elaborato ma che ad un certo punto, già all’inizio di quello che ho chiamato il decennio decisivo (decisivo solo — sia chiaro - dal punto di vista particolare dell’oggetto del presente scritto), egli stesso presenta come una — la prima, ed è importante! - logica generale delle norme. Tenendo a mente la testimonianza sopra riportata di von Wright (l’autore di Deontic Logic del 1951) relativa all’atteggiamento da Kelsen espresso nel 1952 nei confronti appunto della logica deontica, possiamo infatti ragionevolmente - io credo - interpretare le pagine del saggio del 1953 in cui Kelsen per la prima volta dice che la teoria pura è una logica delle norme come il suo primo tentativo di coniugare il suo normativismo con la logica deontica. In meno di dieci anni si accorgerà che questa è, viceversa, una ben ardua conciliazione, che è un incontro impossibile. E allora il suo finale Norzenirrationalilo checché tanto, inteso va non Weinberger, !? con dirla per smus, stesso Kelsen (a tacere di altri) ne abbia scritto, come un ripudio di tesi essenziali alla dottrina pura (la dottrina pura, in effetti, Kelsen veniva già minandola dall’interno dai primi anni 50). Il cosiddetto coaltro che più invece, inteso, va kelseniano Normenirrationalismus lui da pura dottrina della reinterpret azione quella di me un ripudio con accordarla di tentativo nel decisivo decennio nel stesso operata ave à ont vol di o att un ò pu non che aro chi è ché poi , ung eut sen, il secondo è la sprachliche Bed re più di un senso di norma). ImAn ms. Nor of n tio cep Con e siv res Exp The , In. ; 157 p. 19 Cfr. O. WEINBERGER, 0p. cit., . 195 p. a all 8, -19 165 pp. , 985 4/1 y», oph los Phi passe for the Logic of Norms, «Law and



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lde e vi ti ra pe im i gl de a ic nt ma se e ca gi lo di approcci e tesi dei cultori . za en sc no co a o nd ne ve a av st i cu di e le norm re pa mi n no he (c no ia en ls ke al a rn te in a nd ce vi Questa particolare r e, pe nt me ta ua eg a ad it ru st co ri ra co an a at st è n e) no nt va le ri proprio ir go ar l’ sul o ov nu di o rn to i cu r pe e on gi ra la ta es qu quanto io veda. È è c’ e tt ri sc ne gi pa e lt mo le te an st no no o, ed cr , ra co mento, perché an cada »: ca gi lo e o tt ri di su n se el «K a to ri me in re pi qualche cosa da ca pire, dico, prima di approvare o di respingere. Scrive dunque Kelsen nel 1953 che la dottrina pura del diritto ha e, ich log he erc ric sue e dell to mbi l’a nel o, ilit stab ) erst ller (zua ma pri per che il principio che esclude la contraddizione si applica, così come agli enunciati in termini di essere della scienza della natura, agli enunciati in termini di dover essere della scienza del diritto. E aggiunge che tra i problemi logici della teoria pura c’è anche, specialmente, la questione di che cosa costituisca l’unità in una pluralità di norme giuridiche, cioè di che cosa costituisca quell’unità che si indica come sistema giuridico o ordinamento giuridico. Per rispondere a questa domanda, dice Kelsen, la teoria pura giunge all’idea della norma fondamentale come presupposto ipotetico di ogni conoscenza giuridica: da questa norma si può dedurre la validità, non il contenuto delle norme giuridiche.2° Va notato, aggiunge, che la logica che si applica nella conoscenza giuridica non è affatto una specifica logica giuridica. La logica che la teoria pura ha per prima, per dir così, scoperto è una logica generale delle norme (corsivo dell’autore), una logica del dovere o degli enunciati in termini di dovere, la logica di una conoscenza rivolta alle norme e non alla realtà mami = n Da segnalare in questo passo l’equazione tra gererelle Norm-logik e logica della conoscenza delle norme, e la presentazione della tesi dell’unità e della coerenza del sistema normativo quali risultati delle ricerche logiche della teoria pura del diritto. In questo passo inoltre, va notato, Kelsen scrive che il principio logico di non contraddizione si applica ai So//-sétze, ma non è affatto palese che ci sia qui una implicita consapevolezza della rilevanza della distinzione tra So/Z-satz e Soll-norm e, soprattutto in ordine alla questione della applicabilità dei principi logici.?? 20 H. KELSEN, Was ist die reine Rechtslehre?, cit., p. 616.

p.617 21 Op. cit. ,.

22 Va sottolineato qui che la distinzione kelseniana tra So//-satz e Soll-norm è connessa



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E appunto, come è noto, la consapevolezza della rilevanza di questa distinzione in ordine a problematiche logiche che costituisce la novità significativa per il nostro problema della seconda Reine Rechtslebre, edita nel 1960.?? Quest'opera segna un momento di passaggio estremamente significativo. Qui, di nuovo, ma in un discorso relativamente più complesso e articolato che non fosse quello di Was ist die reine Rechtslehre?, l’autore parla di «applicazione dei principi logici al rapporto tra le norme» a proposito della problematica dell’unità e della coerenza del sistema del diritto; e, insieme, per la prima volta mostra di considerare come un ostacolo da superare nella trattazione di questo problema il non poter essere, le norme, vere o false. Ora, di dove questa notazione nuova? Mi pare non ci possa essere che una risposta concepibile: da letture nuove.

4. La seconda dottrina pura del diritto e oltre

Letture senza traccia esplicita nella RR2. Ma che prima del 1960, anno della pubblicazione di quest'opera, Kelsen avesse già letto — e meditato criticamente —- almeno la maggior parte dei contributi al dibattito degli anni 30/40 sulla possibilità di elaborare una logica degli imperativi è ormai assolutamente certo. Non lo era, per noi, nel 60,

né nel 66 (anno della traduzione italiana della RR2?‘); lo è dal 1981,

grazie ad Ulrich Klug che nella ricorrenza del centenario della nascita

strettamente, nel suo contesto di origine, con una ulteriore distinzione: quella tra /a nora e il materiale prodotto dall'autorità giuridica. Si legga dal cap. Lega! Norm and Rule of Law in a Descriptive Sense di H. KeLSEN, General Theory of Law and State, Cambridge , Massachusetts, Harvard Univ. Press, 1946, p. 45 (tr. it. H. KELSEN, Teoria generale del diritto e dello stato, the give to have ily necessar organs ing law-mak the that mean not does «This 45): p. cit., norms the form of such hypothetical «ought» statements. The different elements of a norm may be contained in very different products of the law-making procedure, and they may be linguistically expressed in very different ways. [...] It is the task of the science of law to represent the law of a community, i.e. the material produced by the legal authority in the lawns conditio such and such «if that effect the to ts statemen of form the in e, making procedur of means by ts, statemen These follow». shall sanction a such and such then are fulfilled, the by created norms the with confused be not must law, ts represen law of which the science che ma norma, la sì descrive law) of (rule So//-satz il che consegue law-making authorities». Ne volontà. di atto ale individu preciso, singolo, un di senso il affatto è non la norma , ESE ZAR MAZ T. e ; cit. , sen Kel s Han in ica log e o itt Dir , ano 2 Cfr. M. G. Los kelseniana, cit. 6. 196 , ino Tor it., tr. tto, diri del a pur na tri dot La , sen 24 H. KeL



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Deontica

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o it ed in un , ti es qu n co o gi eg rt ca o di Kelsen ha pubblicato, nel su a im pr e, qu un (d 59 19 l ne li og at vi in , no ia en ls prezioso manoscritto ke out sc di e no ta ci si Vi .* en rm No r de k gi Lo r che apparisse la RR2): Zu , re Ha M. d ar ch Ri , av sl bi Du er lt Wa n, no Rose Rand, Jorgen Jorgense ma te in i tt tu n, se en ér -S ue Gr K. h, sc Kurt Baier, Alf Ross, Karl Engi

enc co a ss po me co e er ut sc di a i nt te in i tt , tu vi ti di logica degli impera n no e ) ch vi ti ra pe im i gl o nt pu ap li ua (q i at ci un en di ca pirsi una logi possono essere veri o falsi. Proprio come le norme per la dottrina pura del diritto. Kelsen non lo aveva scritto sempre, in verità. Una notazione di tal fatta - che le norme non sono, che non possono essere vere o false va ave lo Non i.?” iniz li deg e ion cez con sua alla ea ran est tti infa era scritto quando aveva trattato dei conflitti di norme e della fondazione di norme in un sistema, e non lo aveva scritto definendo la norma. Ora domanda: «Da Rechtsnormen als Vorschreibungen, das heiBt als Gebote, Erlaubnissen, Ermachtigungen weder wahr noch unwahr sein kénnen, ergibt sich die Frage, wie logische Prinzipien, insbesondere der Satz vom Widerspruch und die Regeln der SchlufBfolgerung auf das Verhaltnis zwischen Rechtsnormen angewendet werden kònnen (so wie dies die Reine Rechtlehre seit jeher getan hat), wenn, traditionneller Anschauung nach, diese Prinzipien nur auf Aussagen anwendbar sind, die wahr oder unwahr sein k6nnen».?8 La domanda non sgorga dall’interno, da una qualsiasi difficoltà evidenziatasi all’interno della dottrina pura. E una domanda che viene dal di fuori, dai diversi argomenti prodotti nel corso dei dibattiti in tema di imperativi e logica sui quali Kelsen cominciò presumibil2 H. KeLseN-U. KLuc, Rechtsnormen und Logische Analyse. Ein Briefwechsel 1959 bis 1965, Wien, Deuticke, 1981. 26 Op. cit., pp. 14-29. 2? Chiedersi sensatamente se le norme possano essere vere o false, si può solo all’interno di una concezione della norma come espressione linguistica o come significato di una espressione linguistica, il che per Kelsen non è mai stato prima dell'emigrazione, e non è mai stato in maniera articolata prima dell’ATN (qualche accenno solo, mi pare, nel $ 4 del cap. I della RR2, sul quale non a caso ha richiamato l’attenzione T. MAZzARESE: cfr. Deontica kelseniana, cit., p. 436; e si veda anche H. KELSEN, Genera! Theory..., cit., p. 110, tr. it. p. 111). La concezione kelseniana della norma è cambiata nel tempo, è cambiato soprattutto il rapporto tra il Sollen e il Wollen; ma sempre la norma è stata da Kelsen definita come Sinn e «dieser ‘Sinn ist kein Begriff der Semantik, nicht der Sinn eines sprachlichen Ausdrucks, sondern der Sinn der empirischen Tatsachen [...] Der Begriff ist evident neukantianischer Herkunft» (K. OpaLEK, Uberlegungen zu Hans Kelsens Allgemeine Theorie der Normen, Wien, Manzsche Verlagsund Universitàtsbuchhandlung, 1980, p. 22). 28 H. KELSEN, RR2, cit., pp. 76-77; tr. it., cit., p. 91.



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mente a meditare nei primissimi anni 50, dopo avere (incautamente, forse?) equiparato la sua logica della conoscenza delle norme ad una (ed alla prima!) logica generale delle norme. Non viene dall’interno perché, invero, la dottrina pura non aveva mai inteso far qualcosa che si possa chiamare «applicazione dei principi logici al rapporto tra norme giuridiche», come Kelsen scrive in questo passo. Essa, soltanto, aveva elaborato una teoria relativa al modo in cui la scienza giuridica costruisce/descrive il suo oggetto. Cosicché dire poi - come appunto si dice nel 60 rispondendo a quella peregrina domanda - che al diritto la logica si applica soltanto indirettamente, per il tramite della scienza del diritto, non è modificare la sostanza, ma solamente il mo-

do di espressione della concezione in precedenza espressa.??

Ma, come è noto, non finisce affatto la rielaborazione kelseniana

- sull'onda degli stimoli suscitati dalle nuove letture - con la seconda edizione della Dottrina pura. In essa dunque, abbiamo visto, in rela-

zione al nostro tema, a parte la precisazione appena ricordata sulla applicabilità solo indiretta alle norme dei principi della logica, si ripetono tesi già note. In essa, ancora, l’unità e la coerenza dell’ordina-

mento sono costruite con tipici argomenti trascendentali. In essa, ancora, la deduzione della validità di una norma non comporta la produzione e il venire in esistenza della stessa; comporta solo, eventualmente, da parte della scienza la costruzione come norma valida della norma che fonda la validità, ove non già positiva (è il caso, che sappiamo, e della norma fondamentale e della norma con prescrizione alternativa nella ipotesi di norma c.d. impropriamente «contraria al diritto»), mai invece della norma che è fondata. La positività di questa

è assunta come data, ed è appunto il dato che origina il problema. Ma la letteratura che Kelsen meditava nel frattempo lo portava altrove. Lo portava - provvisoriamente - ad un punto che noi oggi sappiamo, ma del quale non è traccia in nessuno scritto che egli abbia mai pubblicato. Punto dal quale tornò subito indietro, e di questo arretramento è segno il nuovo corso delle sue riflessioni su diritto e logica a partire dal 1962. abi lic app la del i tes la Era to. det sto pre è to pun sto que Quale era 29 Si legga ancora una volta dalle Grundlagen del 1928 der in sich widerspruchvolle subjective Sinn kann nicht zum g tun Deu der bei s tni enn Erk he isc ist jur die h auc t geh ich chl r che sol h sic da aus, g zun set aus vor en ich ndl sti ver bst sel 296; tr. it., cit., p. 409).



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già cit. sopra alla nota 18: «[...] objectiven Sinne werden. Tatsàihres Gegenstandes von der - ihr widerspruch auflòsen lasse» (p.

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za en er nf ’i ll de e ne io iz dd ra nt co n no di ci gi lità indiretta dei principi lo deduttiva alle norme;

a un di ne io az di me la ù pi a nz se , so es ma, ad

a ic if nt ie sc za en sc no co a ll de ne io nz fu a concezione del metodo e dell ar l’ al o rs co ri il ù pi a nz se e o, iv at rm no l de oè nel campo del sociale, ci : ue , nq mo du is nt ka one a nz mo se is en ls . ke le Un ta en nd gomento trasce nli l a de fi so lo fi la n co e ca gi lo la n e co ar tt ve ci l da to un simulacro; na ne se re to au l’ e ch ro ve è o nt . Ta to ci us ri n o no iv at nt te 3° Un o. guaggi a ll de ne gi ma im ta es e qu on si ci de a rm fe n ò co di pu . Ri to bi ritrasse su ca li bb i pu rs se es di ra co an a im a, pr it ru st co so es st i lu da ia sua teor mente identificato con essa. L'incertezza palesata nella lettera a Klug fu da lui stesso vinta (e non in seguito a critiche ricevute) nel senso del prevalere dell’insoddisfazione. E poi, da quel momento, egli si dette a elaborare argomenti con i quali confutare le tesi da lui una volta concepite, ma a nessuno note. E abbiamo Derogation, Recht und Logik e, ancora, tutte quelle parti della A//gerzeine Theorie der Normen che sono dedicate ai problemi logici delle norme. 5. Il manoscritto del 1959

Ma è giunto ora il momento di leggere dal manoscritto kelseniano del 59. La teoria pura del diritto sostenuta dall’autore di questo studio — si legge in apertura - ha da sempre applicato alle norme in generale ed in particolare alle norme giuridiche i principi logici come il principio di contraddizione e la regola dell’inferenza deduttiva.3! Segue la definizione di norma come senso di un atto e la definizione del dovere come senso del volere; e si cita in nota, ed è la prima nota, E.

Mally: «einer der ersten, die die Logik des Sollens behandelt haben,

30 Uso qui il termine ‘civettare’ di proposito, in polemica con un noto passo di N. Bobbiuo: «Per nessuna delle tesi di Kelsen c’è bisogno, allo scopo di spiegarne l’origine e capirne il significato, di scomodare Kant, anche se Kelsen abbia più volte civettato con la Critica della ragione pura» (N. BoBzIo, Struttura e funzione nella teoria del diritto di Kelsen, ora in In., Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Milano, ed. di Comunità, 1977, pp. 187-215, alla p. 191). Curiose, se paragonate a questo passo, le seguenti parole contenute in

una lettera che ho ricevuto da Stanley Paulson: «[...] then the 1959 ms. is perhaps of a piece with Kelsen’s other work during the 1953-1960 «flirtation with logic». 31 H. KeLsEn, Zur Logik der Normen, cit., p. 14: «Die von dem Autor dieser Studie ver-

tretene Reine Rechtslehre hat seit jeher logische Prinzipien, wie den Satz des Widerspruchs und die regeln des SchlieBens auf Normen im allgemeinen und Rechtsnormen im besonderen angewendet».



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und der fiir diese Logik den Namen “Deontik” vorgeschlagen hat»:?2 basterebbe questa nota, credo, a far capire quali sono gli stimoli cui Kelsen reagiva; più chiaramente di così, credo, l’accostamento tra la dottrina pura del diritto e la deontica non avrebbe potuto essere operato. Ma torniamo al testo. Alla definizione, dunque, della norma come senso di un atto, e

del dovere come senso del volere, Kelsen aggiunge che però una norma può pure essere pensata senza che con ciò stesso qualcosa sia vo-

luto, e senza che con ciò si pensi un atto il cui senso è la norma; e che si può pensare una norma senza che questa norma sia stata posta

da un atto di volontà.? Quindi pone la tesi della differenza della norma dall’atto (sia dall’atto di posizione, sia dall’atto di esecuzione della stessa), e la tesi del dovere come senso oggettivo.34 E poi, giunto alla questione che è specifico oggetto del saggio, sostiene che nell’applicare i principi logici alle norme di un ordinamento giuridico, la teoria pura del diritto afferma che due norme, di cui una prescrive che ci si deve comportare in un certo modo e l’altra che non ci si deve comportare in quel modo si contraddicono e pertanto non devono essere considerate entrambe valide, e che la validità di una norma può essere inferita [gefo/gert] da un’altra norma. Aggiunge che, poiché una norma —- come comando (imperativo), permesso, autorizzazione - non può essere vera né non vera, mentre i principi logici - secondo la concezione tradizionale - sono applicabili solo alle asserzioni [Aussagen] che possono essere vere o false, l'applicazione dei principi logici alle norme è possibile solo indirettamente o per analogia.” (E qui ci32 Op. cit., p. 15 nota 1. L’opera citata è E. MALLY, Grundgesetze des Sollens. Elemente der Logik des Willens, Graz, 1926. E interessante notare che nella RR2, laddove si fa riferimento a questa stessa opera, si trascura per l'appunto di menzionare il termine ‘deontica’ (cfr. RR2; cit.è, p..8, tr. it.; cit., p. 17 nota 1).

33 Op. cit., p. 14: «Aber die Norm kann gedacht werden, ohne da& man dabei selbst irgend etwas will und ohne da; man dabei an den Akt denkt, dessen Sinn die Norm ist; und man kann eine Norm denken, ohne daf diese Norm durch einen Willensakt gesetzt wurde». 34 Ibid. 35 Op. cit., p. 16: «Indem die Reine Rechtslehre auf die Normen einer Rechtsordnung logische Prinzipien anwendet, behauptet sie, da zwei Normen, von denen die eine vorschnicht sich man da& re, ande die und soll, n alte verh e Weis er immt best in sich reibt, daf man en werd n sehe ange g gilti als eich zugl nicht r dahe und n eche rspr wide sich soll, so verhalten einer aus nur aber Norm ren ande einer aus Norm einer ung Gelt die da kénnen; und (Imhl Befe als Norm eine Da . kann en werd t lger gefo e Norm, nicht aus einer Seinstatsach en zipi Prin sche logi , kann sein hr unwa noch wahr r wede gung chti Erma perativ) Erlaubnis, unoder wahr die sind, r ndba anwe agen Auss auf nur ng hauu Ansc aber - nach traditioneller auf en zipi Prin n sche logi von ung end Anw die da wahr sein k6nnen, muB zugegeben werden, Normen nur indirekt oder per aralogiam moglich ist».



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no so ua in nt co ci gi lo pi ci in pr I ta un passo di Rose Rand). in le ra mo o o ic id ur gi o nt me na di or un applicabili alle norme di a ic id ur gi a nz ie sc a ll ne e ca ti ’e ll ne e tt ri sc de o on ng ve te es qu to an qu oss po e rm no e du Se i. ls fa o ri ve in enunciati che possono essere nco si e ch i iv at rm no i at ci un en e du in to no essere descritte soltan te en am ne ra po em nt co e at er id ns co re se traddicono, non possono es i iv tt ri sc de , re se es r ve do di i in rm te in valide, perché due enunciati . ri ve bi am tr en re se es o on ss po o n no on ic dd ra nt di norme, che si co li va a ll t] da te ei el bg [a a tt do de re se es ò La validità di una norma pu re se es r ve do i di in rm o te at in ci un en l’ se a rm ra no dità di un’alt o tt do de re se es ò a pu rm no a un tà di di li va ta la ri se con cui viene as ri se e as en e vi al qu il n co re se r es ve do i di in rm to te in dall’enuncia ta la validità dell’altra norma. Dalla norma posta da Dio: «Uomici uc n , no no ai a: «C rm no e la gu » se li mi ri si st te vo i de ci uc n no , ni

dere Abele». Infatti dall’enunciato di un’etica della morale cristiana assertivo della validità della prima norma: «Gli uomini non devono uccidere i loro simili» segue, attraverso l’enunciato: «Caino e Abele sono uomini», l’enunciato: le».37

«Caino

non deve uccidere Abe-

Segue la discussione di alcune posizioni rilevanti sostenute in argomento: Sigwart sulla Doppeldeutigkeit del Sollen,;}8 J6rgensen,?®

36 R. RAND, Logik der Forderungssatze, «Rev. Int, de la Théorie du Droit», 1939, p. 317: «Der Satz vom Widerspruch gilt in der Forderungslogik nur per analogiam»» 37 H. KELSEN, op. ult. cit., p. 17: «Zwei Normen, die nur in zwei sich logisch widersprechenden Soll-Sitzen beschrieben werden kònnen, kònnen nich zugleich als giiltig angesehen werden, weil zwei einander widersprechenden, Norme beschreibende Soll-Satzen nicht zugleich wahr seien Kònnen. Die Geltung einer Norm Kann àus der Geltung einer anderen Norm abgeleitet werden, wenn der Soll-Satz, mit dem die Geltung der einen Norm ausgesagt wird, aus dem Soll-Satz gefolgert werden kann, mit dem die Geltung der anderen Norm ausgesagt wird. Aus der von Gott gesetzten Norm: Menschen, tòtet nicht euere Mitmenschen, folgt die Norm: Kain, téte nicht Abel. Denn aus dem die Geltung der ersten Norm aussagenden Satz einer Ethik der christlichen Moral: Menschen sollen Menschen nicht téten, folgt durch Vermittlung des Satzes: Kein und Abel sind Menschen, der Satz: Kain soll Abel nicht tòten». 38 CH. SiwART, Logik, 5 Aufl., Tibingen, 1924, alle cui pagine sulla ambiguità del termine ‘dovere’ (pp. 18 sgg.) è dedicato un intero paragrafo ($ 2, pp. 17-18), che corrisponde alla nota su Sigwart a p. 77 della RR2 (tr. it. nota 1 di p. 92) ove però si cita dalla 3 ed. della Logik, 1904. 39 J. JORGENSEN, Imperatives and. Logik, «Erkenntnis», 1938/39, pp. 288-296. Anche a questo saggio è dedicato un paragrafo, il terzo (pp. 18-21), e in esso Jorgensen viene criticato per la sua idea del ‘fattore indicativo’ contenuto nell’imperativo, idea giudicata da Kelsen autocontraddittoria.



132—

HANS

KELSEN

SULLA

DEDUZIONE

DELLA

VALIDITÀ

Hare, Baier,! Dubislav,42 Engisch,4 Ross, Grue-Sérensen®

sul-

la possibilità di fondare, giustificare, immettere in un’inferenza sillogistica, quali componenti della stessa, gli imperativi. Dalla discussione di tutta questa letteratura risulta confortata la tesi assunta della deducibilità di una norma da un’altra norma: ci sono infatti anche norme senza questi atti di volontà che pongono norme. Se una norma viene dedotta per via di un procedimento logico o logoidale da un’altra — una norma individuale da una norma generale valida - quella norma è una norma valida senza che ci sia un atto di volontà di cui sia il senso. Anche la c.d. norma fondamentale, che in ultima analisi

viene presupposta quando si intende il senso soggettivo di certi atti di volontà come il loro senso oggettivo è una norma senza un atto che ponga questa norma, cioè senza un atto di volontà di cui sia il senso. Perciò un «imperativo senza imperatore» non è affatto un Undegriff, come asserisce Dubislav, poiché egli stesso mostra che l’imperativo individuale: «Caino non deve uccidere Abele» può essere fondato con l'imperativo generale: «Gli uomini non devono uccidere i propri simi40 R. M. Hare, Imperative Sentences, «Mind», 1949, pp. 21 sgg. Il saggio viene discusso in una nota (nota 7, p. 20) e criticato mediante la stessa critica rivolta a Jorgensen. 41 K. BAIER, Decisions and Descriptions, «Mind», 1951, pp. 181 sgg. Questo scritto viene discusso nella stessa nota (nota 7, p. 20) dedicata a Hare, e si mostra di apprezzarne in particolare la tesi secondo la quale le stesse espressioni linguistiche (quelle in termini di ‘dovere’) possono essere usate in funzioni diverse (descrittiva e prescrittiva). 4 W. DuBisLav, Zur Unbegriindbarkeit der Forderungssatze, «Theoria», 1937, pp. 330342. Si tratta del saggio da cui aveva preso spunto Jorgensen, ed è forse quello a cui Kelsen dedica la più attenta considerazione, assumendone l’esemplificazione (Caino e Abele) ed, almeno in parte, la terminologia cui resterà fedele: Das Imperativ ohne Imperator. A Dubislav è dedicata buona parte del quarto paragrafo del saggio (pp. 20-22). 4. K. EngIscH, Logische Studien zur Gesetzesanwendung, Heidelberg, 1943, di cui Kelsen discute criticamente la tesi che gli imperativi contengono dei giudizi di dover essere in senso logico, tra i quali si compie l'operazione logica della deduzione sillogistica. Questo autore viene discusso, con Ross, in una nota (nota 9, p. 22).

44 Ad A. Ross, Imperatives and Logic, «Phil. of Science», II, 1944, pp. 30-46, Kelsen si riferisce nel seguito della nota 9 (p. 23). Ne riporta alcuni passi, senza alcun commento, ma corsivandone per intero l’ultimo: quello in cui le inferenze che possono avere, in certi casi, degli imperativi quali componenti vengono dette «pseudo-logiche». 45 La discussione della tesi di K. GruE-SORENSEN, Imperativsitze und Logik, «Theoria», che e risc asse ed av, isl Dub di one ussi disc la sen Kel di o test nel e segu V, 1939, pp. 195 sgg. a senz ivi erat «imp agli solo ma ati, rmin dete i vidu indi di ntà volo di non alle mere espressioni veri valo ai oghi anal ci logi ri valo o gon ven con to, dovu è che sa lco qua i imperatore» espriment izi giud i che tta obie sen Kel tesi ta ques A ci. logi cipi prin i si icar appl o son ro/falso, e quindi pos pe«im sono non ndi qui che e ntà, volo di atti di oni essi espr e dell pure essi di doverosità sono vodi atti ti ques a senz me nor he anc sono ci ge iun agg avia tutt rativi senza imperatore». «E

o). test nel ito segu di qui to cita o pass il . (cfr » à... lont



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LETIZIA

GIANFORMAGGIO

a nz ta is sa es st a ll da o st po a si e li» senza che l’imperativo individual . le ra ne ge vo ti ra pe im l' o st po ha e ch te en compet si te e ll de ne cu al e er ut sc di a a ss pa o tt Dopo questo brano, lo scri su o nt pu ap l’ r pe e ;* ug Kl ch ri Ul di a ic id ur di fondo della logica gi tri sc no Ma il o us cl ac a er i cu a ug Kl a a er tt le quest’ultima parte, nella li og nd de ie ch io ar at in st de o su l de ne io nz te to, Kelsen richiamava l’at ri in ug Kl da né i ma me co re ga ie sp ò pu , ra mb pareri.‘ Il che, mi se e ma l on de zi ca li bb pu la po do r , pu ia pp sa io e ch i tr al da é ‘ (n sposta nme da on of pr di to an qu to ta no o at st a ) si ?° ug Kl di e noscritto da part te significativo è contenuto invece nella prima parte.
che, coerentemente, si contrapponeva, riguardo alla relazione tra logica e psicologia, a quella presupposta dall’estensione alla storiografia dei modelli di Hempel (1942) e Gardiner (1952): come la distinzione delle relazioni logiche

dalle relazioni fra eventi mentali nostri e altrui portava gli empiristi logici (e porta in genere tutti i naturalisti) ad escludere che una conoscenza delle prime consenta di conoscere anche le seconde in assenza di leggi psicologico-empiriche, così viceversa l’identificazione della conoscenza dell’oggetto di un atto di pensiero con la conoscenza dell’atto stesso autorizzava Collingwood a credere che sia possibile sapere che cosa altri abbia di fatto pensato semplicemente ripensandolo introspettivamente a nostra volta. 3. L’‘immaginazione a priori’ dello storico

In Collingwood, dunque, la nozione di re-enactmzent presupponeva una philosophy of mind di tipo idealistico, secondo la quale il pensiero degli uomini del passato e quello rivissuto dagli storici del presente sono un unico e medesimo pensiero, sono un momento dello spirito che prende coscienza di sé nel suo storico realizzarsi ed autoconoscersi. y oph los phi una a lic imp y tor his of a ide The che uto ten sos ha 9) 5 Mink (1968 e 196 ad e com od, gwo lin Col di re ope e altr in a pat lup svi e ent tam piu che si trova più com . 42) (19 han iat Lev new The e 40) (19 cs ysi aph met on The principles of art (1938), Essay le tra za ren coe una e pon sup pre ché per , 70) (19 n tesi è stato però criticata da Donaga

of mind esempio Questa opere di

n aga Don 6; 194 ox (Kn te ten sis ine ere ess to tra mos ece inv Collingwood che altri studi hanno era int e bil rui ost ric lla que ue unq com è to men eri rif qui cio fac 1962). La philosophy of mind cui mente entro The idea of history.

nt 19

SANDRO

NANNINI

o ic or st lo e ch d, oo gw in ll Co r pe e ur pp Ciò non vuol dire certo, ne ol (C re sa Ce n co e nt me ta le mp co i ch fi ti en id delle gesta di Cesare s’ e o at ss pa ro ie ns pe o un nd za iz al tu at ri e, ch o 8) lingwood 1946, p. 19 o bi am sc to es qu o: ri op pr e te en es pr ro ie altrui, lo scambi per un pens na ia oc cr na ri tt do a ll ne to si in re ro er l’ d è oo gw in ll anzi - notava Co ia or te a ll ne o, en im nd No . 4) 30 . (p ia or st a ll à de it della contemporane se n o co it ir sp o ll ne de io az di me di so es oc pr el a, qu an in collingwoodi so n o no ic or st lo , 5) 31 . a (p ic or za st en sc no e co sc la ui it st co e stesso ch lo non è un passivo raccoglitore di testimonianze sul passato, ma anzi può vagliare l’attendibilità di queste ultime solo perché, facendo uso della propria «immaginazione 4 priori» (p. 260), le ricompone in un quadro storicamente significativo. Se scrutiamo il mare e vediamo una nave, e cinque minuti dopo guardiamo di nuovo e la vediamo in un posto diverso - scriveva Collingwood, scegliendo un esempio che evoca quello kantiano nella ‘seconda analogia’ della Critica della ragion pura (Kant 1781, p. 204) - ci troviamo obbligati ad immaginare che abbia occupato posizioni intermedie mentre non stavamo guardando. Questo è già un esempio di pensiero storico; e non è diversamente che ci troviamo obbligati ad immaginare che Cesare abbia viaggiato da Roma alla Galilea, quando ci viene detto che fu in questi luoghi differenti in questi tempi successivi (Collingwood 1946, p. 260).

In altre parole, secondo Kant il fatto che percepiamo una nave prima a monte e poi a valle (e non viceversa) è reso necessario dal fatto che un effetto è inevitabilmente successivo alla sua causa, cosicché se il nostro intelletto non possedesse sinteticamente 4 Driori il concetto di tale necessità causale, l'ordinamento temporale delle nostre percezioni non potrebbe essere univocamente determinato; allo stesso modo - pensava Collingwood - se lo storico non avesse «un’idea della storia (...), in linguaggio cartesiano, innata e, in linguaggio kantiano, 4 priori» (Collingwood 1946, p. 267), non potrebbe ricomporre i dati di cui dispone in una narrazione continua e coerente.$ Collingwood, pertanto, non solo rifiutava la «storia forbici e colla» (Collingwood 1946, p. 295) (ossia la storiografia positivistica intesa come semplice assemblaggio di testimonianze) in nome di un intervento attivo dello storico sulle proprie fonti, effettuato vagliandole e $ Sul concetto collingwoodiano d’‘immaginazione a priori” cfr. in particolare Mink (1968, pp. 28-37).

iii

COLLINGWOOD

E LA

FILOSOFIA

ANALITICA

DELLA

STORIA

interrogandole (come voleva Croce) sulla base di un problema, ma di-

fendeva anche la ben più impegnativa dottrina secondo la quale non già i dati di fatto sono criterio di validità delle ricostruzioni storiche, bensì all’inverso sono queste ultime che, in virtù della loro coerenza o meno con ciò che l'immaginazione 4 priori dello storico indica come verosimile, divengono criterio dell’attendibilità o no dei dati di fatto in esse incorporati:

la tela della costruzione immaginativa - notava Collingwood - è qualcosa di molto più solido e potente di quanto non si sia compreso finora. Lungi dal fare assegnamento per la sua validità sul sostegno di fatti dati, essa in realtà serve come pietra di paragone con cui decidere se i fatti asseriti siano genuini. Svetonio mi dice che Nerone ad un certo momento aveva intenzione di far sgombrare la Britannia. Io respingo questa asserzione, non perché qualche autorità migliore la contraddica recisamente, poiché naturalmente nessuno lo fa; ma perché la mia ricostruzione della politica di Nerone basata su Tacito non mi permetterà di pensare che Svetonio abbia ragione. E se mi si dice che questo vale quanto affermare che preferisco Tacito a Svetonio, confesso che è così: ma lo faccio proprio perché mi trovo capace d’incorporare quello che mi dice Tacito in un mio quadro coerente ed ininterrotto e non posso fare altrettanto con Svetonio. Così è proprio il quadro che del passato fa lo storico, è il prodotto della sua immaginazione 4 priori, quel che deve giustificare le fonti usate nella sua costruzione (Collingwood 1946, pp. 263-264).

Ora, ciò che è caratteristico di questa tesi di Collingwood non è ovviamente il diritto dello storico di respingere come spuria una qual‘quaun con ità ibil mpat inco sua della base sulla a ianz imon test siasi e grazi e truir ricos a ito riusc sia egli che ’ otto terr inin ed ente coer dro ad altre fonti più numerose e più sicure di quella contestata, bensì il anza sost in a enev sost — hé Poic i. prior 4 sia izio giud suo il che fatto posche ne Nero di ica polit della ro quad del base sulla Collingwood e) evol gion irra gico, (illo mile rosi inve è to, Taci endo segu siamo farci atgli che , onio Svet a, anni Brit la e brar sgom far che Nerone volesse . torto nte rame sicu ha ne, nzio inte ta ques tribuisce asin ti, cer ere ess me co d oo gw in ll Co a e Ma - si può obiettar iorag e le mi si ro ve è e ch ciò e ch , ca ri senza di una controprova empi lqua ere vol to tu po se for e bb re av n no nevole sia anche vero? Nerone inere ess to tu po e bb re av n No ca? iti pol cosa in contrasto con la sua se ma le ob pr n cu al be eb rr po n coerente? La tesi di Collingwood no —

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SANDRO

NANNINI

mo ia pp sa to an qu di se ba a ll su e, ch e egli si fosse limitato a sostener a bi ab io on et Sv e ch e il ab ob pr im è , to riguardo a Nerone grazie a Taci ù pi n be di e o rs ve di di sa co al qu a ev en st so d oo gw in ll ragione. Ma Co è io on et Sv e to ci Ta a tr mo ti ul e ic ud impegnativo: sosteneva che gi ie di ar nt me cu do i nt fo e e nz ia on im st te e tr al e ll e de em si in l’ non già atù pi è to ci Ta o. ic or st o ll de ri io e pr on a zi na gi ma im l’ ì ns be i, sponibil o su l de i nn pa i ne ci er tt me le ci fa ù pi è ci hé rc pe io on et Sv e di tendibil e fr of ci to ci Ta e ch ro ad qu ; il io on et Sv di lo el qu in n no e Nerone ch esi ra st te no en la rm io gg fa ma e is or dd at so er mp ’i ll ni de io nz te e in ll de ri ie ns pe i a tr co gi o lo ss ne o un am ; di tà ve ui in nt co za e en er co a di nz ge che egli attribuisce a Nerone, mentre ciò non accade nel caso di Svee e ll de nz e ia on im st tà te e li ll bi de di en tt ’a ll su la ro ma pa ti ul L’ o. ni to fonti spetta insomma non alle altre testimonianze e fonti disponibili, bensì allo storico stesso, alla sua immaginazione 4 priori.

È lecito chiedersi, quindi, che cosa giustificasse secondo Collingwood questa identità tra ciò che appare coerente (logico, verosimile, ragionevole) allo storico e ciò che è effettivamente vero. Ma la risposta implicitamente contenuta in The idea of history è molto semplice: l’attendibilità delle ricostruzioni guidate dall’immaginazione 4 priori dello storico è garantita da quella medesima identità tra pensiero passato e pensiero rivissuto che consente il re-enactzent. Se allo storico, al termine di una ricostruzione attenta del carattere e della politica di Nerone, appare illogico che quest’ultimo volesse far sgombrare la Britannia, allora Nerone non ebbe sicuramente questa intenzione, per-

ché essa, in virtù dell’identità tra il suo pensiero e quello dellb storico stesso, sarebbe apparsa illogica anche a lui. Immaginazione 4 priori e re-enactment trovavano perciò, in The

idea of history, il loro comune fondamento in una philosophy of mind di tipo idealistico, secondo la quale lo spirito, mediante la conoscenza storica, conosce se stesso. Identica giustificazione avevano dunque agli occhi di Collingwood anche tutte quelle tecniche d’indagine (tipiche della storiografia e indisponibili per le scienze naturali) che derivino dall'uso dell’immaginazione 4 priori. Lo storico ad esempio - notava Collingwood - assomiglia al romanziere, perché anch'egli, come quest’ultimo, cerca di (ri)costruire una vicenda dotata di senso (Col-

lingwood 1946, pp. 264-265); è interessato perciò non a classificare o comparare l'evento che intende spiegare confrontandolo con altri simili, bensì a collocarlo in un contesto o in una sequenza di avveni—

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COLLINGWOOD

E LA

FILOSOFIA

ANALITICA

DELLA

STORIA

menti completamente diversi, ma ad esso contigui nello spazio e nel tempo, che lo rendano storicamente significativo: nell’organizzazione riore di ciò che si dalla sua relazione zione con ciò che

della storia - esemplificava Collingwood - il valore ulteconosce della Guerra dei Cento anni è condizionato non con ciò che si conosce di altre guerre, ma dalla sua relasi conosce di altre cose che la gente fece nel Medioevo

(Collingwood 1946, p. 262).

4. L’eredità di Collingwood nella filosofia analitica della storia

Se al termine di questa sommaria ricostruzione delle tesi sulla natura della storiografia sostenute in The idea of history ci si chiede che cosa di esse sia stato accolto dai filosofi analitici della storia d’indirizzo antinaturalistico (ossia favorevoli a distinguere il Versteben tipico

dello storico dall’Erk/ren proprio delle scienze naturali), si nota con facilità che il debito di questi ultimi verso Collingwood è molto grande. Anzitutto la dottrina del re-enactrzent e la connessa diversità tra la spiegazione degli eventi naturali e la comprensione delle azioni umane e dei processi storici si trovano alla base, in forme più o meno modificate, sia della nozione di ‘spiegazione razionale’ avanzata da W. Dray (1957) sia dello schema di ‘spiegazione teleologica’ proposto da von Wright (1971).’ Inoltre nell’accostamento sopra riferito tra lo storico e il romanziere era già contenuta în nuce la tesi centrale di coloro che, oggi in gran numero, tornano a identificare storiografia e narrazione.8 La constatazione che gli storici non operano generalizzazioni, bensì ricercano le cause singolari degli eventi storici, in un «senso speciale» della parola causa (Collingwood 1946, p. 236), e riconducono questi eventi stessi al loro contesto anticipava le concezioni rispettivamente di-Dray (1957) e di Walsh (1951). La tesi dell’inevitabile presenza di elementi valutativi nella ricerca storiografica Dray in esem pio, ad rico mpar è sa, 158) p. 1946 , (Collingwood è che ciò tra disc rimi ne come uman a liber tà sulla (1957). L’insistenza

esser e può inve ce che ciò e re-e nact zent medi ante solo comprensibile

in a zat liz rea è si ht ig Wr von di lla que con d oo gw in ll 7 La fusione della lezione di Co Martin (1977). dei ti mol za, den ten sta que di e ent rec e ent vam ati rel ne 8 Cfr. ad es., quale manifestazio saggi contenuti in Pietro Rossi (1983).

12



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SANDRO

NANNINI

ri è si 0) 33 932 . pp , 46 19 od wo ng li spiegato nomologicamente (Col a 7) 95 (1 ay Dr da i, st li ra tu na ti an i ic it al an fi presentata in molti filoso ior st i gl de ni io az zz li ra ne ge le e ch ne io von Wright (1971). L'osservaz

to is ns co hé rc pe , li sa er iv un i gg le e ll de ci non giungono mai ad essere to da un o tr en e o og lu o rt ce un in lo so di li va no in semplici sommari ad a, es pr ri a at st è 4) 24 p. , 46 19 od periodo di tempo (Collingwo e on zi le la ne fi In . 6) 97 (1 ht ig Wr n vo da esempio, da Walsh (1951) e er pp Po di la el qu e n co nt ge er te nv co en em nt re pa d, ap di Collingwoo a ll o de ic if ec o sp tt ge og li l' na io nz te in e an um ni io az e e ll ar ne ic nell’ind i st li ra tu na ti i an ic it al an fi so lo fi i a tr to ri vo fa ha tà al storiografia, in re co gi o lo sm do li to ua me id iv nd ’i ll ne de io rs ve a un ne ta di io ci az ta tt l'acce aim o pr it mp e co al ea in qu ol tt e, so al in ig la or el za qu en di er ff di a e, ch e ze ch en ed e cr ll ni de io e nz te e e in on ll zi de ru st co o ri la ic or o st ll de o ri hanno guidato le azioni degli uomini del passato e non già — come sosteneva Popper - la ricerca delle conseguenze inintenzionali di tale loro agire intenzionale.? Molti aspetti della concezione della storiografia sostenuta da Collingwood sono ricomparsi quindi, in modo più o meno esplicito, nella filosofia analitica della storia d’orientamento antinaturalistico, accompagnati però — ecco il punto rilevante che occorre mettere in luce

- da un’interpretazione della philosophy of mind che ne è a fondamento tesa a depurarla dei suoi lati più scopertamente speculativi e a renderla perciò compatibile con la lezione antimetafisica di Ryle e di Wittgenstein. Questo atteggiamento è stato comune a filosofi come Walsh (1951), da un lato, e Nowell-Smith (1957), Dray (1957 e 1978), Donagan (1962), Goldstein (1970) o Martin (1977), dall’altro,

che tuttavia hanno dato del re-enactzent interpretazioni profondamente differenti.!9 ? Mink (1972) ha negato che in Collingwood le azioni individuali vengano privilegiate rispetto ai processi sociali quali oggetto di re-enactzent; cfr. però anche le convincenti critiche di Dray (1974, p. 299) a Mink su questo punto. !0 M. H. Nielsen (1981), in un saggio ricco di bibliografia e di preziosi riferimenti a scritti inediti di Collingwood, ha distinto tre tipi d’interpretazioni del re-enactmzent collingwoodiano: 4) esso è l'atto intuitivo mediante il quale lo storico rivive il pensiero degli uomini del passato; ossia è un metodo basato sull’intuizione (ad es. Walsh [1951], Gardiner [1952] e

Popper [1972, pp. 243-245]); 5) esso è il risultato di una ricostruzione del pensiero degli uomini del passato ottenuta per inferenza induttiva dalle tracce che di esso rimangono nel pre-

sente; non è pertanto un metodo né tanto meno un metodo basato sull’intuizione (ad es. Donagan [1956 e 1962], Dray [1958 e 1960], Mink [1968, 1969 e 1972], Shoemaker [1969] e Martin [1977]); c) esso è un metodo, ma non basato sull’intuizione (ad es. Goldstein [1970 e

1972], Cebik [1970-71], D. S. Taylor [1973] e Coady [1975]). Anche la Nielsen stessa appar-

tiene a questo terzo gruppo.

SaR Le

COLLINGWOOD

E LA

FILOSOFIA

ANALITICA

DELLA

STORIA

Già in Ar introduction to philosophy of history Walsh (1951) sosteneva che la notissima critica mossa da Ryle (1949, pp. 5-17) al

dualismo cartesiano fra mente e corpo non colpisce la distinzione collingwoodiana tra aspetti interni ed esterni di un’azione. Ritorcendo contro Ryle stesso il metodo da questi proposto di ricorrere al linguaggio comune per dissipare falsi problemi filosofici, Walsh notava infatti che, se intendiamo descrivere che cosa facciano «storici, avvo-

cati, politici e uomini comuni» (Walsh 1951, p. 55), quando tentino di capire quello che aveva in mente una data persona, dire che in queste circostanze essi cercano di risalire dall’aspetto ‘esterno’ di un’azione o di un insieme di azioni al suo aspetto ‘interno’ significa impiegare una metafora che può essere pericolosamente ingannevole per dei filosofi, ma che non inganna nessuno storico o uomo d’affari che abbia prontezza di spirito (Walsh 1951, p. 55).

In altre parole, l’idealismo collingwoodiano solo se preso troppo alla lettera può farci cadere in braccio al fantasma metafisico dello «Spettro nella Macchina» (Ryle 1949, p. 9), ossia può indurci a considerare la mente come una sorta di burattinaio che, dall’interno del

corpo umano, ne comanda i movimenti. In realtà - proseguiva Walsh - Collingwood, quando sosteneva che lo storico non guarda agli eventi descritti in termini di materia e movimento, ma alle intenzioni e credenze umane che si esprimono attraverso di essi, non presupponeva la validità di alcuna dottrina metafisica sul rapporto fra menti e corpi, bensì si limitava a sottolineare con ragione «la differenza fra l'atteggiamento tenuto da uno scienziato naturale verso i fatti che sta indagando e l’atteggiamento assunto dagli storici nei confronti dei loro dati» (Walsh 1951, p. 56). Quanto all’identità tra il pensiero dello storico e quello degli uomini del passato, Walsh non poteva negarne, nella versione datane in The idea of history, il carattere speculativo e preferiva pertanto distina iest rich tà enti l’id che o end ten sos od, gwo lin Col da sto que guersi su trore esse ve «de ui altr llo que e ro sie pen tro nos il fra ent dal re-enactm pen del o ’att nell che sto tto piu o sat pen è che ciò di vata nel contenuto . ore) ’aut dell o siv cor 91; p. 1, 195 lsh (Wa so» stes sare

im n no e nt me ca fi so lo fi e te an zz li il qu an tr Un’interpretazione così e er nd re r pe , ia av tt tu , va ni fi o an di oo gw pegnativa dell’idealismo collin iic pl im me co , nt me ct na -e re l de so es st privo di fondamento il metodo —

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SANDRO

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a va ta es nt co do an qu h, ls Wa e ch an tamente veniva ad ammettere un te an di me so re mp co re se es a ss po ui Collingwood che il pensiero altr me co o at ss pa l de ni mi uo n co i rs ca fi ti en id : ne semplice atto d’intuizio sfo e ch e ar id nf co mo ia ss po e ar on gi ra Nelson e Cesare, il cui modo di se abbastanza

a av tt ie ob ma ; le ci fa re se es ò pu , simile al nostro

o un di ro ie ns pe il re ve vi ri o di iv tt ie ob l’ o am ni Walsh- basta che ci po e ch o nt ci co er nd re r go pe in ch vi po ca un di o no ca ri af ne go re st

eti pat sim one nsi pre com ce pli sem la del più di sa lco qua di o ogn bis abbiamo dei o, man a ond sec di o ma pri di ca, iri emp a enz osc con ca; ci occorre una

ven li qua le nel i ion uaz sit alle o con gis rea e nt me ne mu co i ess li qua nei i mod gono a trovarsi. Ma per un idealista ammettere questo-significa tradire completamente la sua causa, poiché quella conoscenza empirica si riduce all’essere consapevoli, esplicitamente o implicitamente, di certe verità gererali (Walsh 1951, p. 57; corsivo dell’autore).

Poiché nel re-enactrzent l'identità fra il pensiero nostro e quello degli uomini del passato è una semplice identità dei contenuti del pensare e non degli atti mentali stessi, possiamo ricostruire il modo di pensare di uomini molto diversi da noi —- sosteneva dunque Walsh - solo conoscendo empiricamente le leggi psicologiche che governano il loro comportamento. Non è chiaro come Walsh, nonostante queste premesse, potesse concludere che i risultati delle nostre discussioni precedenti c’inducono ad avere maggiore simpatia per la concezione idealistica dello status della storia piuttosto che per quella positivista (Walsh 1951, p. 94).

Tuttavia egli coglieva con nettezza che il concetto collingwoodiano di re-enactment viene a mancare del proprio fondamento una volta che, come pur sembra inevitabile concedere, l’identità tra pensiero dello storico e pensiero rivissuto sia degradata a mera identità dei contenuti del pensare e non degli atti mentali stessi. Gli altri filosofi analitici antinaturalisti che hanno difeso Collingwood dalle critiche che gli erano state rivolte - come vedremo subito - da Gardiner sono invece caduti nell'errore di credere compatibile il concetto collingwoodiano di re-enactmzent con una riduzione dell’identità da esso presupposta fra pensiero dello storico e pensiero rivissuto —

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ad una semplice identità di contenuti perfettamente giustificabile sul piano del discorso comune e priva d’implicazioni speculative. Più precisamente Gardiner in The nature of historical explanation, sviluppando alcune osservazioni critiche rivolte da Ryle (1949, pp. 44-46) al rethinking, aveva riconosciuto a Collingwood il merito di aver distinto dalle spiegazioni causali (necessariamente nomologiche) le spiegazioni delle azioni umane, ottenute mediante la ricostruzione del ‘pensiero’ dell’agente (Gardiner 1952, p. 115), ma gli aveva rimproverato al contempo di aver considerato tale pensiero come una causa di tipo speciale, interna all’azione stessa. Se una causa fosse interna, ossia fosse parte del suo effetto, — aveva obiettato Gardiner sarebbe contraddittorio

conoscere

l’effetto, ma non conoscerne

le

cause; sarebbe impossibile dire, come invece comunemente diciamo, ‘Di fatto le cose sono andate così e così, ma non so perché’ (p. 72); sarebbe logicamente inconcepibile, ad esempio, sapere che Cesare passò il Rubicone, ma al tempo stesso ignorare perché lo fece. Collingwood - aveva notato ancora Gardiner - era caduto nell’assurdità di considerare le intenzioni come delle cause, perché, vittima anch’e-

gli del ‘dogma dello Spettro nella Macchina’, aveva scambiato gli atti mentali, nel senso comune del termine, per delle ‘cose’ di tipo speciale (p. 48). Se invece, seguendo Ryle, i termini psicologici di uso corrente venivano riferiti non a presunti ‘stati interni’, bensì ai modi del comportamento umano manifesto, così com'è comunemente descritto e compreso, allora - aveva concluso Gardiner (1952, pp. 115-139) diveniva possibile chiarire sulla base del semplice linguaggio ordinario, senza far ricorso all’assurda teoria della ‘causazione mentale’ (p. 114 sgg.), la differenza che intercorre fra lo spiegare un’azione ricostruendo il pensiero dell’agente e lo spiegare un evento sussumendolo sotto una legge universale. Ora sarebbe qui troppo lungo e fuori luogo esaminare più dettatavalu e o fic gra rio sto o ggi gua lin sul er din Gar di ie teor le gliatamente su Ciò o. men o i ibil ivis cond o sian od gwo lin Col a iche crit re se le sue i itic anal sofi filo i che o fatt il , sto tto piu è, si mar cui interessa soffer

glin Col di se dife le er, din Gar tro con o, pres no antinaturalisti che han ein dst Gol a fino 62) (19 n aga Don e 57) (19 wood - da Nowell-Smith

di pari al i, 'ess anch no han 78) (19 (1970), Martin (1977) e Dray

ucom o ggi gua lin il con nto fro con un solo che Gardiner, riconosciuto le abi ett acc sia t rzen nact re-e del ia teor la se ne può aiutarci a stabilire o ast rim re esse di od gwo lin Col a are ver o meno, ma, lungi dal rimpro —

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SANDRO

NANNINI

me co re ra st mo a so te o nn ha , co si fi ta me prigioniero di qualche dogma atse es ad e iv at ul ec sp ni io az ic pl im le o tt fa af le sue tesi non abbiano tribuite. 7) 95 (1 ? ue iq un nts eve l ica tor bis e Ar in o pi em es ad Nowell-Smith, aqu la o nd co se d, oo gw in ll Co di i tes la tra za en er ff di la e ch a sostenev o ns se un in o sol ma , oni azi di a us ca sì ere ess o on ss po ni io nz le le inte n no o at er id ns co a ev av e ch , er in rd Ga di i tes la e e, in rm te speciale del causali le spiegazioni mediante intenzioni, è puramente verbale (Nocau di i tip e du to tin dis a ev i av att inf o un l' ): 144 p. , 57 th 19 mi -S ll we se, l’altro due tipi di spiegazioni; ma entrambi concordavano sul punie ind on zi ’a mo un ia gh ie sp do an qu e, ch to fat sul è e, cio ial enz ess to cando con quale intenzione fu compiuta, non facciamo ricorso ad alcuna legge universale. Inoltre - aggiungeva Nowell-Smith - l'identità fra il comprendere che cosa fu fatto e lo spiegare perché fu fatto sarebbe in contrasto con il linguaggio comune, come aveva creduto Gardiner, solo se comprendere e spiegare avessero lo stesso significato in storia e nelle scienze naturali. Ma per Collingwood — precisava Nowell-Smith comprendere, ad esempio, il gesto di Bruto significava semplicemente ridescriverlo in modo tale da capire se si trattò di un assassinio commesso con l’intenzione di sbarazzarsi di un avversario politico o di un tirannicidio compiuto nell’intento di salvare la libertà repubblicana: in questo senso lo storico sa davvero che cosa fece Bruto solo quando abbia compreso con quale intenzione questi pugnalò Cesare e, quindi, quando sappia anche perché lo pugnalò (Nowell-Smith 1957, p. 145; cfr. anche Mink 1968, pp. 31-33). In modo analogo, dal punto di vista di Nowell-Smith, neppure sostenere l'identità tra pensiero passato e pensiero dello storico costituisce un’asserzione speculativa contraria al senso comune, purché la si giudichi alla luce di un’analisi del linguaggio ordinario; il mistero che è connesso all’idea di ripensare il pensiero di qualcuno sorge, credo, - affermava Nowell-Smith -solo se partiamo dal presupposto che io conosca i miei propri pensieri in modo quasi-percettivo (Nowell-Smith 1957, p. 146).

Le percezioni infatti sono tali che ciascuno può conoscere solo le

proprie. Ma, ‘sapere’ non è un verbo percettivo (come lo sono invece

‘vedere’, ‘udire’ ecc.) e quindi, quando so di aver compreso una certa —

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cosa, lo so direttamente in virtù del solo fatto di averla compresa,

senza bisogno di alcuna «relazione percettiva fra me (o la mia mente) e i miei pensieri» (Nowell-Smith 1957, p. 147). Allo stesso modo, quando so che cosa pensò Platone (e in questo senso rivivo il suo pensiero), lo so semplicemente perché ho a mia volta compreso ciò che egli comprese e non perché un misterioso potere mi consenta di ‘guardare’ dentro la mente di un altro uomo morto da millenni (ibid.). Del resto - proseguiva Nowell-Smith - l’identità fra pensieri appartenenti a menti differenti costituisce un problema solo se crediamo erroneamente che tale identità sia simile a quella che può intercorrere fra due cose: due oggetti distinti spazialmente e temporalmente non possono, ovviamente, costituire un’unica e medesima co-

sa. Ma un medesimo colore non può comparire, forse, in luoghi e tempi diversi? Perché mai, allora, due pensieri dovrebbero poter essere identici solo nel senso in cui sono identiche due cose e non nel senso, invece, in cui coincidono due colori? Quando ci chiediamo se il pensiero dello storico possa essere lo stesso di quello di un personaggio storico - concludeva Nowell-Smith facendo uso del linguaggio di Ryle - dobbiamo stare attenti a non presupporre criteri d’identità tratti da altre categorie (Nowell-Smith 1957, p. 148).

Poiché però un colore differisce da una cosa, in termini logicogrammaticali, come un universale da un individuo, risulta evidente

che Nowell-Smith, quando paragonava l’identità fra pensieri a quella fra colori, si stava implicitamente riferendo ai contenuti universalizzabili del pensiero razionale e non ai singoli atti mentali. E ovvio infatti che la proprietà della bianchezza può appartenere a cose differenti; ossia il predicato ‘essere bianco’ può inerire a individui diversi; il medesimo ‘bianco’ può ritrovarsi qui e là, prima e dopo, in un modo nel quale non può darsi invece che due individui distinti siano il medesimo individuo. Pertanto Nowell-Smith riusciva sì a dare un’inma iano, collingwood re-enactzent del speculativa non terpretazione pendel contenuti fra un’identità come solo a condizione d’intendere pendel atti fra un’identità era d Collingwoo siero quella che secondo di posizione nella trovarsi a sostanza in sare. Nowell-Smith veniva filola contempo al negare di ma accettare la teoria del re-enactzent, fondamento. il costituiva ne che spirito dello sofia —

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ozi ta re rp te in le el qu e ch an o nn va le mi si Incontro ad un’obiezione ozi ru st co ri la n co o rl ca fi ti en id ad so te ni del re-enactment che hanno è ta di on of pr ap e a pi am ù pi la se es di a ne di un’inferenza pratica.!! Fr un pp ta us gi to la to ti in 77 19 l de o br li un in e ch , stata quella di Martin po do e, nc re fe in l ca ti ac pr d an nt me ct na -e Re n. io at an pl to Historical ex po op tr o es pr er av di er in rd Ga a a lt vo a un ra co to an ra ve ro aver rimp di no er nt ’i ll de e no er st ’e ll de ra fo ta me d la oo gw in ll alla lettera in Co t sen fo rz ct na -e re il e to ch ta es nt co ha ), 50 , p. 77 n 19 ti ar (M to en ev un —tà al . re ne In io iz tu in d’ to at un me y co or st hi of ea id e Th in so te in se ha sostenuto Martin - Collingwood riteneva che lo storico, lungi dal poter riconoscere intuitivamente le ragioni che spinsero un certo personaggio ad agire in un dato modo, debba induttivamente ricostruirle a partire dai dati di fatto disponibili e che solo al termine di tale ricostruzione debba ricorrere all’intuizione per accertare se è plausibile (logico, ragionevole) che l’azione in questione sia stata una conseguenza delle ragioni ipotizzate (p. 51). In altre parole - secondo Martin - Collingwood, allorché sosteneva che lo storico conosce il pensiero altrui rivivendolo, intendeva dire semplicemente che lo storico comprende perché sia stata compiuta una certa azione solo quando sia in grado di ricostruire un’inferenza pratica (di cogliere un nesso logico) fra l’azione stessa e la situazione così come egli ipotizza, sulla base di dati empirici, che la vedesse l’agente. Accostando Collingwood a von Wright, Martin è giunto perciò alla conclusione che rivivere un pensiero non comporti alcuna-misteriosa identificazione con una mente altrui, bensì significhi semplicemente cogliere un nesso logico tra determinate ragioni (ipotizzate dopo una ricerca empirica) e una data azione. In questa prospettiva l’i-

dentità fra il pensiero dello storico e quello degli uomini del passato, lungi dall'essere una condizione del re-enactrzent, ne è invece una conseguenza (Martin 1977, p. 61). Ad esempio, non già una misteriosa identità fra il nostro pensiero e quello di Cesare ci garantisce che quest’ultimo passò il Rubicone con l’intenzione di liberarsi di Pompeo, bensì viceversa è la coerenza di quest’ipotesi con quanto sappiamo di Cesare a garantirci che essa è vera, ossia ad assicurarci che, in un senso metaforico, noi ripensiamo quello che pensò Cesare. !! Cfr. ad es. Atkinson (1970), p. 27; Martin (1977), in particolare pp. 48-65; Dray

(1978), p. 23.

Sa

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Di conseguenza l’identità messa in luce da Collingwood fra il pensiero dello storico e quello degli uomini del passato deve essere intesa - ha suggerito Martin - come semplice identità di contenuti e non di atti: nella misura in cui due pensieri sono identici nel loro contenuto, nella misura in cui due ‘argomentazioni’ sono identiche nella loro ‘struttura logica’, il senso cruciale nel quale devono essere identici è preservato (Martin 1977,

p. 60).

In tal modo Martin ha confuso, però, due problemi distinti; ossia ha trasferito sul fondamento e sulla natura del re-enactzzent considerazioni che sono giuste, invece, solo se riferite alla via mediante la

quale si giunge ad esso. È vero infatti che Collingwood pensava che lo storico possa rivivere un pensiero altrui solo al termine di una ricerca empirica condotta sulla documentazione disponibile; e quindi ammetteva che la realizzata identità fra pensiero passato e pensiero rivissuto costituisce la conclusione del lavoro storiografico e non la sua premessa;!2 ma non per questo rinunciava a credere che la possibilità di tale identità, a differenza della sua realizzazione, sia vicever-

sa una condizione necessaria della possibilità del re-enactment. Se il medesimo atto di pensiero non fosse capace, in virtù della storicità dello spirito, di ripresentarsi identico nella mente di qualcun altro dopo duemila anni, non potremmo comprendere perché Cesare passò il Rubicone. In secondo luogo, il fatto che la nostra intuizione (o meglio la nostra immaginazione 4 priori) intervenga non tanto per aiutarci a sco-

prire quali ragioni spinsero Cesare a compiere quell’atto quanto per controllarne la ‘logicità’, una volta scopertele per altra via, non impediva a Collingwood di pensare che essa svolga tale funzione di conragio un tere ripe di e ment lice semp ente cons ci hé perc già trollo non hé perc ì bens zza, ette corr la iò perc erne rend comp di e i altru namento com(del e onar ragi del o stess to l’at quel , tico iden noi, in ere riviv fa entò pres si te, amen icit impl meno o più che, piere inferenze pratiche) un tempo nella mente di Cesare. ct na -e re il re ra pu de di i iv at nt te i i tt tu in Da Nowell-Smith a Mart rao nn ha o nt pu to es qu su , 81) (19 n se el Ni la 12 Come ha mostrato in modo convincente e ch lle que di ri ito ten sos i ia oss , nt me ct na -e re gione coloro che negano il carattere intuitivo del . (c) e (5) i on zi si po le me co te ca di in te sta nella nota n. 10 sono



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nce in no so si e iv at ul ec sp ni io az ic pl im ment collingwoodiano dalle sue o at ss pa ro ie ns pe il a tr à it nt de ’i ll de ne io az et pr er nt trati, dunque, sull’i a Un i. ut en nt co di tà ti en id ce li mp se me co o ic or st o ll de ro ie e il pens a d tr oo gw in ll Co di ta os op pr la el qu di za en er ff di a , tale identità però co o ns se il n e co il ib at mp co te en am en pi sì è e, ar ns pe l de si es gli atti st h ls e Wa nt me ta et rr co o st vi a ev av me co e ch e an sc ui mune, ma costit

ct na -e re l tà de di li e va la ir nt ra e ga r nt pe ie ic ff su to in en am nd fo un ment in assenza d’ipotesi empiriche generali. La coerenza dell’idealismo collingwoodiano esce perciò vincente da un confronto con le teorie di quei filosofi analitici che, pur volendo restare nella sostanza fedeli alla distinzione storicistica tra sapere storico e scienze nomotetiche, ne hanno però indebolito il presupposto speculativo antinaturalistico, tendenzialmente sino a distruggerlo, allorché, negando nel re-enactmzent l'identità degli atti stessi di pensiero, hanno sfumato il ruolo svolto nella teoria di Collingwood dall’identità dello spirito con se stesso nel suo storico farsi ed autoconoscersi.

Non si fraintenda: non voglio qui confutare la piena legittimità della diffidenza che i filosofi analitici della storia hanno provato per i lati più scopertamente speculativi della filosofia di Collingwood: il mio intento è, anzi, esattamente opposto. Ma - ecco il punto che essi

hanno lasciato in ombra - se il suo idealismo è difficilmente difendibile, come può essere accettabile il suo storicismo, che lo presuppone e vi si fonda? RIFERIMENTI

BIBLIOGRAFICI

(Nei riferimenti dati direttamente tra parentesi nel testo o nelle note l’anno in-

dicato è sempre quello della prima edizione; il numero delle pagine invece, qualora in questi Riferimenti bibliografici venga citata una ristampa successiva o una traduzione italiana, s'intende riferito a quest’ultima). Aper K. O. 1979, Die Erkliren/Verstehen-Kontroverse in transzendental-pragmatischer Sicht, Frankfurt a.M., Suhrkamp. ATKINsON R. F. 1970, Knowledge and explanation in history, London, MacMillan. CeBik L. B. 1970-71, Collingwood: action, re-enactment, and evidence, «Philosophical forum», II, pp. 68-80. Coapy C. A. J. 1975, Collingwood and historical testimony, «Philosophy», L, pp.

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SANDRO

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THeo A. F. KuUIPERS

ON THE ADVANTAGES

OF THE POSSIBILITY-APPROACH

1. INTRODUCTION In Section 2 of his review article [1984] of Bas Van Fraassen’s The Scientific Image [1980] John Worrall explains why he remains unconvinced of the advantages of the semantic approach to scientific theories. Unfortunately, van Fraassen’s otherwise stimulating book is indeed not a very convincing plea for what I prefer to call the possibility-approach. In my opinion this is due to the fact that Van Fraassen advocates the empiricist position, albeit a constructive version, and that he, as most authors do, subscribes to the ‘actual-world-doctrine’,

which

states

that

theoretical

science

is

primarily directed to the actual world. However, the overall advantages of the possibility-approach become manifest only if one starts from realist intuitions, combined with the replacement of the actual-world-doctrine by the assumption that science is primarily about the empirical possibilities in a certain context. In this note I shall describe the main lines of such a revised plea for the possibility-approach. It is heavily based, though not exclusively, on my [1982] and [1984], which the reader is advised to consult for further argumentation. I start with formulating my basic claims more precisely. 1) Several raw, but leading, intuitions of philosophers of science, notably of Karl Popper,

scientists and e.g. intuitions

about counterexamples, are primarily alluding to possibilities and not to statements. Such intuitions should of course be explicated in terms of possibilities, at least in the first place. After such a direct possibility-explication it will in general be possible to give a g ndin espo corr the into it of on’ mati sfor tran ’ ‘model-theoretic statement version: the indirect statement-explication. —

189—

THEO

A.

F.

KUIPERS

e ar at th n, io at an pl ex t ou ab g. e. , ns 2) There are also intuitio ct re di ’ e os wh d an ’’ ts en em at st to alluding primarily ct re di in r ei th to in d me or sf an tr statement-explication can be possibility-explication. ly en ak st mi e ar ns io it tu in en 3) Serious problems arise wh as d ve ei nc co ly en ak st mi or , ts en em at st conceived as primarily about primarily about possibilities. to s ha e on g in on as re c ifi ent sci of t un co ac ry ta en 4) For an elem d me or -f ll we of set e th her eit e: rs ou sc di of se er iv un ic bas choose a s ha ce oi ch a en Wh s. tie ili sib pos al tu ep nc co of set statements or the er aft y ar ss ce ne if d, te en es pr be can ng hi yt er ev , de been ma transformation, in terms of elements, and sets, and sets of sets, etc., of the chosen universe of discourse. 5) Most, if not all, raw intuitions about theory-directed science

are laden with the assumption that scientific theorizing is not primarily directed to some actual possibility, let alone the actual world (in the sense of the whole universe), as most philosophers of science seem to think, but that it is directed to the set of all empirical (or physical) possibilities of some fragment or aspect of our universe. This underlying assumption will be called the ‘theoretical-science-assumption’. 6) If one adopts 5), if only for the sake of argument, the set of conceptual possibilities is, without doubt, the most convenient choice as the basic universe of discourse for elementary philosophy of science (see 4), that is, for ‘the propositional logic” of philosophy of science, so to speak. For direct support of the theoretical-science-assumption I refer to my [1982] (Sections 2 and 5). Here, this assumption will be made throughout. The eventual cogency of the present note provides of course indirect support for this crucial assumption. In Section 1 I shall illustrate the explicative fruitfulness of the possibility-approach for some crucial Popperian notions. Section 2 concentrates on Popper’s verisimilitude intuitions. After a brief characterization of their direct possibility-explication, I focus on the analysis of Popper’s bad luck with his direct statement-explication. Section 3, finally, gives the main lines of a detailed support of a point of Worrall in Section 3 of his review: Van Fraassen’s specification of empirical adequacy as ‘consistency with the phenomena’ is only half of the methodological story. —

190—

ON

THE

ADVANTAGES

OF

THE

POSSIBILITY-APPROACH

2. BASIC EXPLICATION

Let M indicate the relevant set of logical or conceptual possibilities in the context of interest and let X indicate the subset of empirica!

possibilities. Capital letters will generally be used for subsets of M. A specified possibility is of course a settheoretic structure. Hence, M is some natural class of structures of a certain type. M is assumed to be constant and known, whereas X is only assumed to be constant: it is tbe great unknown in actual science. The assumption that M is constant, apart from increasing specification, corresponds roughly to the restriction to what is called a research program or paradigm.! That M is assumed to be known should of course be interpreted in the weak sense that for each candidate structure it can be decided whether or not it belongs to M. The assumption that X is constant corresponds in the first place to the so-called uniformity of nature assumption. The question how the assumptions that both M and X are constant are interwoven I mention only as a problem. That X is assumed to be the great unknown leads to the current division of philosophy of science into theory of knowledge and methodology. In the first division the unknown is hypothetically assumed in order to elaborate ‘the idea of (perfect and imperfect) knowledge” in terms of this unknown. The second division deals with rules for searching the great unknown. In this sense the present section and the next one belong to the theory of knowledge, whereas the last section belongs to methodology. I would like to conclude these general remarks with an analogy of set a also s ume ass one re The . ory the ty ili bab pro ve) ecti (obj h wit possibilities (elementary outcomes), but in this case the great unknown is the distribution function over this set. n now l-k wel the for ve cti tru ins ce pla st fir the in is y log This ana of set the ate tul pos sts ori the ty ili bab pro ease with which er ord st fir a ne alo let n, tio ica cif spe tic tac syn t hou possibilities, wit led cal soin ic mat ble pro her rat s thi d fin to one. Logicians happen

ep nc co of s set ent fer dif for ce vi de on is ar mp co d an 1 See my [1989] for a combination tual possibilities.



91 —

THEO

A.

F. KUIPERS

e th in so al e nc he e, nc ie sc of hy op os il ph in structuralist approaches present possibility-approach. is e er th e, er th at th is y og al an e th of t in po e A second instructiv e th th g wi in at ul lc ca y, hl ug ro s: rt pa o tw to in on si vi di l ra tu also a na h tc du e th n of io at sl an tr he (t er op pr ry eo y th it il ab ob pr in n unknow , g or in ch ar se d an ’) us ul lc ca n or io at ul lc ca ty li bi ba ro ‘p is on expressi better, estimating the unknown in statistics. A third instructive point is the existence of the improper case that one elementary outcome is certain, has probability one, although this as a rule is not formally excluded. Similarly, in the present context, although some verbal formulations may suggest that X contains more than one possibility, this will formally not be assumed. However, it will be difficult to appreciate most of the exposition for the case of a single empirical possibility. Moreover, if there would not only be left room for one empirical possibility, but be assumed that there is just one, we would enter the domain of descriptive activities. There one is primarily interested in the true description of some particular possibility, viz. the actual possibility.? Now I pass to the order of the day. Conventions

A (general) hypothesis is a combination of a set A of possibilities and the claim that X is a subset of A. Such a combination will also be indicated more briefly by the expression ‘hypothesis A’, or even just by ‘A’ in clear cases. Hypothesis A is true (false) when its claim ‘XE A’ is true (false). A theory is a combination of a set A and the claim that X is equal to A, again briefly indicated by ‘theory A’, or even just ‘A’. Theory A is true (false) when its claim ‘X = A’ is true (false).

Notice that there are many true hypotheses, but that there is only one true theory, viz. theory X itself. It will turn out to be very convenient to transpose some standard model-theoretic terminology for statements and their models to the present context of sets of possibilities and claims about them. If A is a subset of B, hypothesis B will be called a consequence of hypothesis 2 See my [1982], in particular Sections 2 and 4.



192—

ON

THE

ADVANTAGES

OF

THE

POSSIBILITY-APPROACH

or theory A. If A is a proper subset of B, it will also be said that hypothesis or theory A (B) is stronger (weaker) than hypothesis or theory B (A). Notice that if BeP(A) (the powerset of A defined as {B/B

A})

then hypothesis A is a consequence of hypothesis or theory B. Conversely, if BEQ(A)=4 {B/ACBEM]}, then hypothesis B is a consequence of hypothesis or theory A. Finally, I shall sometimes use expressions like ‘st-larger/-smaller’ and ‘st-more/-fewer’, where ‘st’ means ‘settheoretic(ally)’. For example, ‘A has st-fewer elements than B’ is interpreted as ‘A is a proper subset of B’. With this device I can easily suggest colloquial terminology and its defensible interpretation. Empirical content

The following explications are presented for hypotheses, but are equally applicable to theories. The claim ‘XE A’ of an hypothesis A is equivalent to the claim that X-A is empty, and hence that there are no empirical possibilities outside A, i.e. in the complement A (= M-A) of A. In other words, A is the set of conceptual possibilities which are excluded by hypothesis A to be empirical possibilities and this is, from the present point of view, what Popper had in mind with his intuitive notion of ‘empirical content’. Hence I call A the empirica! content of

hypothesis A. Now it is plausible to add: hypothesis A is fa/sifiable (empirical) if its empirical content is non-empty and hypothesis A is better falsifiable than hypothesis B if the empirical content of A is st-larger than that of B. Popperian insights that follow immediately are for instance: es lud exc A iff B s esi oth hyp n tha ble ifia fals ter bet is A hypothesis er ong str is A iff ds hol this and B n tha s itie ibil poss cal iri emp e mor stB. n tha ces uen seq con e mor sthas A iff ds hol turn than B; this in Counterexamples

a y tl en in em epr s em se e’ pl am ex er nt ou ‘c Although the notion of y ll ca xi do ra pa , are es at gn co its d an Popperian notion, the term —

193—

THEO

A.

F. KUIPERS

s in ma re it e, se ll wi we As . er pp Po enough, hardly ever used by . r’ ie if ls fa al ti en ot ‘p of on ti no c ti ac nt sy e th in hidden A N X to g in ng lo be s ie it il ib ss po g in ll ca Here I shall proced by A Xto g in ng lo be e os th d an A is examples of hypothes , ng lo be s le mp xa re te un co d an es pl am ex th bo e, nc He s. counterexample in e, nc he d s an ie it il ib ss l po ca ri pi em e ar ey th X: by definition, to . ’) ed iz al re ng ei ‘b y pl im t no es do ch hi (w le ab iz al re e, pl ci in pr It is easy to see that a theory A has, due to its additional claim, not only realizable examples and counterexamples but also s le mp xa re te un co and ) MNA (XK es mpl exa l tua vir or le zab ali -re non

(A-X). The following scheme gives a survey counterexamples of theory A:

| of the examples

examples

counterexamples

realizable

XNA

X-A

virtual

XNA

A-X

total (union)

XAA

NA

Here, ‘A’ indicates (X-A)U(A-X). >

the

symmetric

difference,

and

total (union)

e.g.

XAA=x%

Verification-asymmetry

In the present set-up the verification-/falsification-asymmetry arises as follows. To verify an hypothesis it would be necessary to show that 4// empirical possibilities are (realizable) examples of the hypothesis. To falsify an hypothesis it is ‘only’ necessary to show that there is at least one empirical possibility which is a (realizable) counterexample of the hypothesis. Hence, if an hypothesis is true, verification will nevertheless not be attainable, under some plausible assumptions. On the other hand, when an hypothesis is false, falsification is attainable, viz. by realizing one counterexample. In this explication Popper’s distinction between universal and existential statements is thus interpreted as the distinction between

{9

ON

THE

ADVANTAGES

OF

THE

POSSIBILITY-APPROACH

the general claim ‘XA’ of hypothesis A and the negation of this claim, the existential claim that X-A is non-empty. 7

Basic statements

A basic statement becomes a claim to the effect that a certain empirical possibility meX belongs to a set F of possibilities (defined by a certain property), i.e. that meXNF. An accepted basic statement presupposes of course that the relevant empirical possibility has been realized. A basic statement is in conflict with hypothesis A if it can be demonstrated that AMF is empty. Such basic statements are what Popper calls the potenzia! falsifiers of hypothesis A. It is easy to see that a true potential falsifier, i.e. ‘meXNF' is true, implies that X-A is non-empty and hence that m is a realizable counterexample of hypothesis A. Conversely, the (formal) existence of realizable counterexamples of hypothesis A is easily checked to imply that there must be true potential falsifiers. By consequence, demonstrating the existence of a realizable counterexample of hypothesis A goes hand in hand with demonstrating that there is a true potential falsifier. Hence, we do not need the notion of potential falsifier to describe the core of falsification. All we need is the notion of potential counterexample, which is of course the appropriate name for the possibilities in the empirical content A of an hypothesis A. 3. VERISIMILITUDE

A ry eo of th les amp rex nte cou of set al tot the t tha y ead alr We saw XAA and the total set of examples its complement X AA. It is is the and A ory the of t ten con y sit fa/ the st fir the l cal to plausible de. itu mil isi ver its n eve or t, ten con th tru its ond sec

e th to ser clo is B ry eo th n: io at ic pl ex e th to Now it is a small step B's ie. A, XA BC XA iff ) ,B A< n: io at ot truth than theory A (n th tru s A’ , ly nt le va ui eq or, s A’ of et falsity content is a proper subs ion uat sit the ts en es pr re 1 m ra ag Di . content is a proper subset of B's h ic wh A, as th tru e th to se clo that B is at least as

B.