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Italian Pages 30 [31] Year 2014
Le lezioni Scuola di cultura politica Collana diretta da Graziella Aquino
Rocco Ronchi
Critica del pensiero unico
Tutti i diritti riservati © 2014 Edizioni Casa della Cultura, Milano ISBN 9788899004026 Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15%di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org Progettazione Grafica di Giovanna Baderna Realizzazione editoriale: Gottardo Marcoli e Roberto Barbieri, Genova www.casadellacultura.it
L’autore Rocco Ronchi, critico e saggista, insegna Filosofia teoretica presso l’Università degli Studi dell’Aquila.
Scuola di cultura politica Oggi politica e cultura sembrano occupare due dimensioni separate: la politica schiacciata sul contingente, assorbita dal sistema mediatico, spinta verso una banale spettacolarizzazione; la cultura concentrata in analisi e discussioni specialistiche. Crediamo che cultura e politica debbano tornare a interagire per riportare nella discussione pubblica analisi approfondite, riflessioni critiche e una progettualità di medio e lungo periodo necessarie per la società del XXI secolo. È per questo che la Casa della Cultura, con la Fondazione Feltrinelli, ha avviato una vera e propria “scuola di cultura politica”, un progetto di ricerca e di formazione che coinvolge studiosi, pensatori, politici e cittadini in un dialogo denso e appassionato. Le lezioni che hanno scandito il percorso nel 2013 sono ora disponibili per il grande pubblico in questa nuova collana in formato e-book. Per saperne di più www.scuoladiculturapolitica.it
Vorrei iniziare con una sorta di auto-critica, o di critica del titolo del mio contributo, una critica che costituirà, in qualche modo, il senso stesso del mio intervento. Il mio intento è, infatti, quello di dimostrare che il pensiero unico non è affatto un’assiomatica, sebbene la sua potenza si debba proprio al fatto che si presenta come tale. Il pensiero unico, non c’è bisogno che lo ricordi, è diventato una specie di sigla, molto precisa, per indicare un “clima” intellettuale. Un clima è qualcosa che non ci siamo scelti, ma che, in un certo senso, ci possiede. Alcune volte siamo noi che lo modifichiamo, ma sostanzialmente un clima non ce lo scegliamo. Ma, che cosa s’intende con “pensiero unico”? Detto in modo estremamente sbrigativo, per pensiero unico si intende il pensiero neo-liberale, quel pensiero che si è venuto a codificare verso la fine degli anni ’70 – l’epoca della Thatcher e di Reagan – e che ha trovato il suo primo luogo di elaborazione, il suo battesimo in senso critico, nell’opera del filosofo francese Michel Foucault. Nel 1984 Foucault, infatti, dedica gli ultimi suoi corsi al Collège de France ad una chiarificazione critica di questo nuovo pensiero e ci fornisce, al contempo, anche gli strumenti per poterlo demistificare. La sua analisi era, per così dire, “in diretta”. Sono infatti gli anni della svolta liberista e della fine della forza propulsiva della contestazione studentesca degli anni ’60/70. Sono anche gli anni della rivoluzione komeinista alla quale Foucault rivolgerà una particolare attenzione, scorgendone il carattere di novità radicale. Per pensiero unico s’intende, quindi, il pensiero neo-liberale. Ma qual è la caratteristica di questo pensiero, che è diventato il clima del nostro tempo? Si potrebbe partire dalla definizione che ne danno coloro che hanno codificato questo tipo di pensiero, sicuramente egemone. Mi riferisco a quegli economisti della Scuola Economica di Chicago che hanno dato il “là”, in qualche modo, alla grande trasformazione, in particolare, al Premio Nobel per l’Economia nel 1992 Gary Becker, uno dei rappresentanti più significativi della Scuola, che ne offre una definizione estremamente valida, la quale, però, va, a mio giudizio, ulteriormente radicalizzata. Per Becker la novità introdotta dal pensiero neo-liberale è sostanzialmente consistita nell’aver esteso ciò che chiama “razionalità del mercato” ad ogni condotta, e, cito proprio le sue parole, “ad ogni condotta
che accetti la realtà”. Quindi, la razionalità del mercato non è più privilegio degli attori economici del mercato, non è più una questione confinabile nella sfera economica ma, se vogliamo, la sfera economica si allarga alla totalità della vita, tant’è vero che ogni condotta che accetti la realtà, cioè ogni condotta normale (e per condotta che accetti la realtà intendiamo una condotta non folle), ogni condotta sensata – indipendentemente dall’ambito nel quale essa ha luogo – è soggetta alla razionalità del mercato ed è comprensibile solo a partire da essa. La sfera economica non è più una sfera autonoma – Benedetto Croce avrebbe detto un “distinto” – accanto alle altre dimensioni dell’esistenza, ma diventa l’unica sfera che spiega tutta la condotta umana. Già solo questa definizione appare impressionante per la sua capacità di estendere la razionalità del mercato alla totalità dell’esistenza umana; pensiamo, per esempio, a ciò che Becker ha scritto sulla questione della donazione degli organi. In alcuni celebri articoli egli ha mostrato come, applicando la razionalità del mercato, e, quindi, uscendo dalla logica del dono ed entrando in quella dello scambio, si sarebbe potuto risolvere l’annoso problema della scarsità degli organi a disposizione per le donazioni. C’è un’idea di un’universalità della sfera economica, nel senso capitalistico del termine, che si estende proprio alla totalità dell’esistenza. Penso tuttavia che la definizione di Becker, pur così impressionante, sia ancora in qualche modo riduttiva e ottimistica se la si mette a confronto con gli esiti attuali del pensiero cosiddetto neo-liberale. Perché se affermo che il neo-liberalismo, il pensiero unico, è l’estensione della razionalità del mercato a ogni condotta che accetti la realtà, ne sto dando ancora una definizione che lo rubrica all’interno della dimensione dell’attività umana. Affermo, cioè, che dove c’è uomo c’è razionalità di mercato; dove c’è societas, dove c’è communitas, c’è razionalità di mercato; che tutte le attività umane e tutte le relazioni umane, da quelle erotiche alla donazione degli organi post-mortem, sono sottoposte al calcolo del profitto e delle perdite. Il neo-liberalismo sembrerebbe riguardare esclusivamente la sfera dell’uomo, la sfera storica, la sfera culturale. Ma l’ambizione del neoliberalismo è ben più sfrenata. Il passo ulteriore compiuto negli anni successivi dal pensiero neoliberale, quanto ha fatto di esso un pensiero veramente “unico”, è consistito nell’estendere la razionalità del mercato non soltanto alla sfera umana ma alla natura stessa. Non è più qualcosa che riguarda soltanto la
sfera dell’attività umana, ma porta a manifestazione una razionalità che è la razionalità stessa dei processi naturali. Non solo la società, ma anche la vita diventa un’appendice del sistema economico, il quale diventando “tutto” cessa di essere “economico” per trasformarsi in una vera e propria ontologia. Per usare un’espressione estremamente sintetica e sbrigativa – e chiedo scusa, appunto, per questa semplificazione brutale – il pensiero neo-liberale afferma, di fatto, che il capitalismo, il sistema di illimitata autovalorizzazione del capitale, è una verità della natura, è qualcosa cioè che si produce in continuità con i fenomeni naturali. Il neo-liberalismo sposta, quindi, i propri confini ed estende il proprio dominio dall’ambito antropologico a quello biologico. Il pensiero unico, il pensiero neo-liberale, è – dobbiamo dirlo per aver ben chiaro chi è “il nemico” che dobbiamo combattere, perché tale lo considero – una vera e propria filosofia della natura che intende i processi che noi chiameremmo storici in continuità con i processi naturali e guidati dalla stessa logica, riprendendo un modo di pensare già presente in un certo positivismo di fine XIX secolo, quando l’evoluzionismo darwiniano era inteso non soltanto come un processo che doveva spiegare i fenomeni naturali, ma che spiegava anche i fenomeni sociali nella misura in cui questi erano fenomeni naturali sottoposti ai principi della selezione e della sopravvivenza del più adatto. L’idea portata avanti e brandita come un’arma, anche se non sempre espressa in modo manifesto – proprio perché è un’idea che agisce nel profondo e le idee, come sapete, che agiscono nel profondo, raramente vengono espresse in modo tematico –, l’idea, insomma, che viene coltivata nei recessi più oscuri della mente neo-liberale è proprio questa: ciò con cui si ha a che fare è sì il mercato, è la “razionalità del mercato”, ma la spietata razionalità del mercato è una legge di natura. Essa spiega come vanno le cose della natura fin dal suo livello “molecolare”. A questo proposito è ultile ricordare la definizione che Karl Marx ha dato dell’ideologia: essa è una verità storica che viene spacciata per verità naturale, per verità universale. Bene, il pensiero unico, il pensiero neoliberale, è esattamente una straordinaria ideologia che trasforma un fenomeno di ordine storico, contingente, in una legge immanente dei processi naturali. Chi, oggi, volesse studiare veramente a fondo il pensiero cosiddetto unico, neo-liberale, dovrebbe in qualche modo muoversi nel
campo delle neuroscienze, delle nuove frontiere della biologia molecolare, perché è lì che lo si vede all’opera in tutta la sua potenza. Ma torniamo al nostro titolo. Il termine “assioma” può indurci ad un equivoco. Se, infatti, dico “critica degli assiomi del pensiero unico” suppongo che il pensiero unico sia fondato su degli assiomi, che abbia cioè la natura di un’assiomatica – ed è proprio quello che il pensiero unico, il pensiero neo-liberale, vorrebbe farci credere di essere. Il pensiero unico, proprio in quanto ontologia, vorrebbe essere un pensiero fondato su assiomi. E vorrebbe essere condiviso ed essere partecipato dall’opinione pubblica, come se si trattasse di un’assiomatica. Il problema, secondo me, è invece quello di mostrare il carattere non assiomatico di questo pensiero e la natura “umana, troppo umana” dei suoi presupposti apparentemente biologici. Ma è proprio nell’ambizione del pensiero neo-liberale, nella sua pratica quotidiana, la pretesa di presentarsi come un’assiomatica. Ora, che cos’è un assioma? Qui, forse, sfonderò delle porte aperte ma, quando si parla di assiomi – per esempio, nell’ambito delle scienze matematiche o della logica – si parla di verità intuitive, cioè di verità che non hanno bisogno di una dimostrazione. Ma attenzione! Non hanno bisogno di una dimostrazione non tanto perché ne possono fare a meno, ma perché sono indimostrabili. Nel pensiero greco l’assioma è ciò che ha “più valore”, ciò che vale di più perché viene “prima”. L’assioma è il “principio” ed è il principio che, proprio perché principio di una dimostrazione, proprio perché è la fonte a partire dalla quale la dimostrazione ha luogo, non può, a sua volta, essere dimostrato. Se potesse esserlo, evidentemente non sarebbe un principio. Quando parliamo di assiomi, quindi, parliamo di verità che si presentano come evidenti, il che conferisce loro una potenza straordinaria. La nostra mente le accetta, in qualche modo, passivamente e le accetta incondizionatamente perché la loro potenza ha a che fare con la luce abbacinante dell’evidenza: sono evidenti alla ragione umana perché la ragione umana si riconosce in esse come se stesse guardandosi allo specchio. Faccio un esempio molto semplice. Quel principio “fermissimo”, che afferma che la stessa cosa non può avere una determinata caratteristica e non averla, nello stesso tempo e dallo stesso punto di vista (non posso essere giovane e non giovane: o sono giovane o non sono giovane; non posso avere un predicato e non averlo nello stesso tempo e dallo stesso
punto di vista), il principio di identità e di non contraddizione, è una verità intuitiva; ed è la verità che rende possibile ogni dimostrazione, perché ogni dimostrazione si fonda sul principio di identità e di non contraddizione. Non potremmo neppure ragionare se non lo presupponessimo. Ma il principio di identità e di non contraddizione non può essere dimostrato, perché ogni dimostrazione presuppone a sua volta il principio di identità e di non contraddizione. Aristotele l’aveva ben chiaro e affermava che questo è il principio più alto e più fermo della ragione umana. È un principio assoluto in quanto non possiamo risalire alle sue origini e fondarlo a sua volta in altro. È una verità intuitiva, una verità assolutamente evidente e indiscutibile, che dobbiamo accettare passivamente perché si impone con la sua forza alla nostra ragione (questa passività non è supina accettazione di un dato rivelato, anzi si confonde con la suprema attività della ragione, la quale, nel principio, riconosce se stessa, la propria “eternità”). E non abbiamo una via per rifiutarlo; tutt’al più, continua Aristotele, lo possiamo dimostrare – permettete questa piccola parentesi di taglio logico-filosofico – dialetticamente, cioè indirettamente, per via di confutazione. Aristotele intende a questo proposito qualcosa di simile a quanto viene chiamato, in geometria, dimostrazione per assurdo. Ponete in ipotesi che non valga, che cosa ne conseguirebbe? Che nulla si potrebbe dire. Nemmeno la sua falsità potrebbe essere enunciata. Dire è, infatti, dire qualcosa di determinato. Anche il dire che il principio non vale è allora ancora ribadirne la strapotenza. Quindi, che cos’è l’assioma? È un’evidenza, una luce alla quale il soggetto non può sottrarsi, pena la follia. Qualsiasi condotta “che accetti la realtà” lo implica. È un’evidenza per la ragione umana. È una verità intuitiva indiscutibile. È un assoluto. Di conseguenza, se parlo di assiomi del pensiero unico, dovrei presupporre che il pensiero unico riposi su verità evidenti indiscutibili, che hanno la stessa potenza del principio di identità e di non contraddizione. Ed è esattamente questo il modo con cui i propagandisti del pensiero neo-liberale presentano il loro modello. Per questo dicevamo che il pensiero unico si presenta oggi – e credo sia un aspetto della sua natura ideologica – proprio come una ontologia. Dal punto di vista logico, il pensiero unico, il pensiero neo-liberale che divora quotidianamente le nostre esistenze, si presenta sotto le vesti di un’assiomatica. Come dice Becker, esso definisce la “normalità” di una qualsiasi condotta. Ma che cos’è un’assiomatica? Nel discorso matematico
un’assiomatica è, in qualche modo, un sistema formale chiuso. Un sistema formale che funziona come una macchina (e che una macchina può replicare). Dati gli assiomi di partenza – pensiamo alla geometria euclidea – tutti i teoremi sono già contenuti, in un certo senso, in essi. Niente di nuovo può prodursi. Certo, i teoremi non li conosco tutti, ma il tempo che impiegherò per scoprirli non è un tempo creativo perché in linea di principio – potenzialmente – sono già tutti contenuti negli assiomi di partenza. Insomma, l’assiomatica è questa formalizzazione che trasforma un discorso in una combinatoria di elementi primi legati tra loro da leggi assolutamente rigorose (una sintassi). Il pensiero unico, il pensiero neoliberale, diventando filosofia della natura mira, oggi, a presentarsi proprio come un’assiomatica siffatta, e pretende di funzionare come la sintassi ideale di ogni possibile discorso sull’uomo, sul mondo e sulla natura. Questo è il punto. Prendiamo in considerazione, tra le teorie dominanti in ambito economico, la teoria neo-classica. La diciamo dominante perché sostanzialmente essa funziona per default. Quando, per esempio, noi accendiamo il nostro computer i programmi partono per default, non c’è una nostra operazione di programmazione. Non c’è una nostra opera creativa. I programmi partono automaticamente, dopodiché possiamo, su word o su excel, fare diverse operazioni, ma certamente la cornice logica, le “vie”, sono già state tracciate in maniera anticipata indipendentemente da ogni nostra scelta. Ora, la teoria economica dominante è quella in forza della quale, come ho avuto modo di ascoltare recentemente in un dibattito televisivo tra esponenti della sinistra, il più moderato poteva rivolgersi a quello apparentemente più radicale, dicendogli: se andate al potere, con le prossime elezioni, sarete anche voi costretti alla stessa politica economica di rigore, di lacrime e di sangue, per il popolo italiano che sta facendo oggi Monti e che stigmatizzate. “Ce lo chiede l’Europa, ce lo chiedono i mercati… ecc. ecc.”. In questo ammonimento rivolto dal realista all’idealista si percepiva come un senso tragico di ananke, termine che i greci usavano per indicare la “necessità”: come se ci fosse un destino, un fato. Chiunque andrà al governo, dovrà fare, che gli piacciano o meno, determinate scelte. Bisogna, insomma, ripetere sempre il medesimo, bisogna adattarsi per sopravvivere. Volentes fata ducunt, nolentes trahunt. Evidentemente, è qui all’opera una cornice logica che funziona in modo
automatico, qualunque siano gli attori del discorso. C’è una macchina che sta funzionando. Una assiomatica è all’opera. Chi sta infatti parlando quando ci viene detto, ad esempio, che il debito pubblico è il problema unificante della crisi e che la sua riduzione, per chiunque decida di agire come attore sulla scena politica, è il compito della buona politica? Nessuno parla, non c’è un soggetto responsabile: c’è un funzionamento per default, come nel caso di un programma, qualunque sia l’attore che concretamente accende il computer. Dove c’è una combinatoria di elementi all’interno di una sintassi data, secondo leggi che noi stessi non abbiamo deciso, ebbene là qualcosa di essenziale è andato perduto. Dove c’è un calcolo, dove c’è solo del calcolo, che cos’è questo essenziale che viene veramente meno? È forse l’“uomo”, la sua “umanità”, sono i “valori”, è lo “spirito”? Forte è la tentazione di rispondere in questo modo. Sicuramente si suscita l’applauso e si trova un generale consenso, sebbene estremamente vago sia il fondamento di questo consenso. A questo proposito lasciate invece che sia il filosofo bergsoniano che è in me a rispondere: dove c’è un’assiomatica, dove c’è una macchina che funziona anonimamente, e che ha già cominciato a funzionare prima di noi, quando noi dobbiamo semplicemente fungere da operatori di quella macchina e affrontare i problemi che lei pone (l’agenda è già stata scritta: debito pubblico come problema fondamentale per la risoluzione della crisi; quindi, lacrime e sangue), ciò che viene meno è il tempo. Dove c’è un’assiomatica che funziona, il tempo non fa più nulla. Cosa intendo con questa strana espressione? Dove c’è un’assiomatica che funziona, il tempo della conoscenza, il tempo della creazione, diventano semplicemente il tempo della scoperta di quello che, già prima, era dato negli assiomi che fondano il sistema stesso. Non ci può essere creatività dove c’è un’assiomatica; non c’è mutamento effettivo dove c’è una macchina che funziona. E quel tempo, che indubbiamente trascorre mentre la macchina opera, non è un tempo creativo capace di produrre qualcosa di nuovo. È il tempo del funzionamento, dell’usura del sistema, un tempo, dunque, votato al non senso dell’entropia. Se la cornice è già fissata, il tempo non crea nulla. Esso è solo l’ambito di un deterioramente incessante, al quale si può rispondere solo con l’altrettanto incessante sostituzione delle parti della macchina, le quali diventano vieppiù obsolescenti man mano che la macchina fa il suo lavoro. Si può solo
invecchiare, divenendo rifiuti che necessitano una complessa opera di smaltimento (il grande problema dello “smaltimento” soprattutto riferito alla forza-lavoro è la questione all’ordine del giorno del turbocapitalismo). Detto in un altro modo, un po’ enfatico, forse, ma corretto: nessun altro mondo è possibile se il tutto è già dato una volta per sempre. E non è un caso che lo slogan che ha unificato negli ultimi quindici-vent’anni la critica del modello neo-liberale sia stato proprio “un altro mondo è possibile”. “Un altro mondo è possibile” vuol dire: non siamo dentro un’assiomatica, in cui il tutto è già dato, non siamo gli operatori di una macchina che funziona per default. Il tempo può fare qualcosa. L’esistenza umana non è solo obsolescenza. Il lavoro non è solo produzione. Il tempo crea: questo voleva dire lo slogan “un altro mondo è possibile”. Il capitalismo presentandosi come una ontologia, cancella il vettore tempo. Cancella il vettore creazione. Cancella la possibilità di un altro mondo. È una macchina che funziona secondo leggi che sono già state scritte, secondo principi “veri”, perché indimostrabili. Si dice che il capitalismo globale sia il tempo dell’accelerazione illimitata, che esso sia l’epoca della velocità della trasformazione eletta a legge universale. Si rileggono le pagine di Marx sulla rivoluzione borghese, nelle quali il filosofo tedesco mostrava come essa avesse dissolto ad una velocità impressionante tutti gli assoluti su cui si fondava il mondo feudale, e si ritrova in esse una conferma a questa interpretazione “dinamica” del capitalismo. Si fa della finanziarizzazione dell’economia il punto culminante di questo processo: in realtà è proprio il cambiamento reale quanto deve essere incessantemente scongiurato dal funzionamento della macchina turbo-capitalista. Il movimento incessante della macchina capitalista (cioè il processo di illimitata autovalorizzazione del capitale) è un “falso” movimento. La cancellazione del fattore tempo è molto evidente, ad esempio, in uno degli aspetti emersi con più potenza nel discorso pubblico contemporaneo: la sparizione della nozione di storia. Un famoso teorico del pensiero neoliberale affermava che “la storia è finita”. Con la caduta del muro di Berlino finirebbe la storia; non saremmo più dentro una dinamica umana, dove delle possibilità sono in conflitto tra loro, ma ci troveremmo all’interno di una macchina che funziona, che non si potrebbe nemmeno definire “capitalistica” dal momento che coincide con la natura stessa nel
suo ordine eterno. Evidentemente, se entriamo dentro un’assiomatica, usciamo dalla storia. Se il pensiero neo-liberale diventa un’assiomatica, il pensiero neo-liberale diventa, appunto, natura. Diventa qualche cosa che non ha più storia. Non ha più senso parlare di storia. Non a caso, i più coerenti tra i teorici del pensiero liberale lo ripetono ad ogni occasione: destra e sinistra non hanno più senso, progresso e reazione sono categorie antiquate e inutilizzabili, dal momento che non c’è storia. La stessa parola “modernità” sempre in bocca agli apologeti del neo-liberalismo vuol dire soltanto che il presente è eterno. C’è solo del presente, perché abbiamo a che fare con la natura. Non abbiamo più a che fare con il divenire. E la natura è un sistema passibile di calcolo e previsione. È un sistema caratterizzato dalla necessità. E, a questo proposito, dobbiamo osservare come la concezione della natura promossa dal neoliberalismo sia coerente con le varie forme di riduzionismo che proliferano nella filosofia della scienza attuale (ad esempio, nelle neuroscienze), ma sia assai lontana, per non dire apertamente contraddittoria, con la visione della natura quale emerge dalla più avanzata scienza contemporanea della natura, la quale della natura ha invece messo in luce proprio la storicità essenziale, nella forma dell’irriducibilità del vettore tempo, dell’indeterminazione del processo evolutivo ecc. Il pensiero neo-liberale resta invece incrollabilmente determinista e riduzionista, niente sa della natura come creazione, come passaggio al caos… Questa ingenuità metafisica (e questa sostanziale indifferenza alla verità scientifica) spiega, secondo me, la somiglianza e, al tempo stesso, il profondo conflitto che esiste tra pensiero unico, pensiero neo-liberale e i sistemi religiosi. Soprattutto quelli monoteisti, ad esempio l’Islam che aveva attirato l’attenzione dell’ultimissimo Foucault. Guardiamo alla somiglianza. Il pensiero unico si presenta come un’assiomatica, che riposa su delle verità che vengono assunte come assolutamente indiscutibili, indimostrabili e intuitive. C’è, in un certo senso, un atto di fede, alla base del pensiero neo-liberale. La razionalità del mercato è la parola di Dio. Galileo diceva infatti: “La natura è stata scritta in caratteri matematici da Dio”. Secondo i pensatori neo-liberali la razionalità del mercato è la scrittura matematica con cui Dio ha prodotto la natura e, quindi, l’uomo diventa quasi un piccolo regno all’interno del grande regno della natura. Secondo me c’è un afflato profondamente
religioso nel pensiero neo-liberale, proprio per questa sua natura di pensiero assiomatico. Però, c’è una differenza di fondo, perché un sistema religioso non riposa su degli assiomi, ma, semmai, su dei dogmi. Dogma e assioma non sono la stessa cosa. L’assioma è una verità intuitiva, o pretesa tale. È qualcosa che si impone alla nostra ragione ed in cui la ragione crede di riconoscere se stessa. Un esempio di assioma: il tutto è maggiore della parte. Mi basta, infatti, sapere cosa significa tutto e cosa significa parte e la conclusione che ne devo trarre inevitabilmente è che il tutto è maggiore della parte. Questa è una verità intuitiva, indiscutibile, che si presenta come evidenza alla nostra ragione. Come tale si vorrebbe presentare il pensiero neoliberale. A fondamento di un sistema religioso non ci sono degli assiomi. Se si parla dell’incarnazione o di qualsiasi enunciato che sia fondamentale per un sistema religioso, abbiamo dei dogmi. I dogmi sono credenze. Sono credenze che non sono assolutamente intuitive, tant’è vero che devono essere credute “per fede”, devono essere credute con un atto non razionale, ma che, al contrario, faccia tacere la ragione. C’è quindi una somiglianza profonda tra il pensiero neo-liberale e un sistema religioso: in entrambi il tempo non fa nulla. Entrambi sono ostili alla natura, se della natura metto in rilievo l’aspetto naturante, attivo, “storico”, e non quello “naturato”, passivo, dato. Nel sistema neo-liberale, in quanto ontologia, il tempo non fa nulla. Il tempo è semplicemente ripetizione del medesimo; non c’è novità; non c’è creazione; nessun altro mondo è possibile. Allo stesso modo, in un sistema religioso, il tempo non fa nulla; tutto è già stato dato una volta per sempre. Quindi, c’è sicuramente una profonda somiglianza, ma c’è anche un conflitto di fondo per il fatto che l’uno – il sistema neo-liberale – pretende di basarsi su verità di carattere intuitivo, razionale, mentre il sistema religioso si basa su dogmi, su credenze. Questo spiega, in un certo senso, perché, nella contemporaneità, l’unica forza che sia stata in grado di contrapporsi e di entrare in conflitto con la diffusione, su scala planetaria, del pensiero neoliberale, sia stato il pensiero religioso, il quale condivide con quello liberale la stessa natura di pensiero dogmatico in senso lato e, non a caso, è l’unica forza, se guardiamo la storia recente, che è stata capace di confliggere con l’ordine capitalistico sulla base di questa stessa somiglianza di fondo. Dogma contro assioma. Assiomatica, presunta razionale, contro dogmatica religiosa.
E in questo grande conflitto, chi rimane escluso? Prima di rispondere vorrei ricordare un passaggio di un grande filosofo – Søren Kierkegaard – che, a metà del secolo XIX, in un tempo in cui sembrava che ormai tutto il futuro dell’umanità fosse segnato dal conflitto sociale, quindi dalla questione politica (sono gli stessi anni di Marx e del movimento socialista), scriveva: “per i prossimi due secoli tutti i conflitti saranno religiosi”. Una frase che letta sul momento poteva sembrare farneticante, perché la religione pareva essere diventata un problema marginale, un problema della coscienza, non più un fatto pubblico rilevante capace di cambiare la storia. Ma Kierkegaard, con quell’atto di veggenza che talvolta hanno i grandi filosofi e che consente loro di intuire quelli che saranno gli esiti futuri del processo in corso, affermava che “I prossimi due secoli saranno segnati dai grandi conflitti di religione. Tutti i conflitti diventeranno religiosi”. In un certo senso tale profezia ha una sua verificazione, oggi, nella misura in cui il conflitto tra capitalismo e sistema neo-liberale, da un lato, e fondamentalismo in tutte le sue espressioni, dall’altro, è un conflitto religioso. È un grande conflitto tra sistemi religiosi. È, in un certo senso, il conflitto tra due fedi. Tra la fede, appunto, nei presupposti del sistema neo-liberale (una fede “riduzionista”), e la fede dogmatica, propria dei grandi sistemi religiosi. Ma, ci chiedevamo, in questo conflitto tra dogmatica e assiomatica, chi è il soggetto che resta fuori dal gioco? Chi rimane strangolato, da un lato, dalla potenza egemonica del pensiero neo-liberale – che si presenta come una ontologia, fondata su assiomi – e, dall’altra parte, dalla ripresa di forme di dogmatica e di fondamentalismo? Direi, purtroppo, che rimaniamo strangolati noi, e qui intendo noi nel senso in cui Nietzsche diceva, non senza ironia, “noi, buoni europei”; rimane cioè strangolato il pensiero critico-razionale, lo stesso che anima una filosofia della natura naturante e non semplicemente naturata. Il pensiero critico rimane senz’aria, come soffocato. Da una parte, è schiacciato da questa macchina che funziona come un grande sistema di “riduzione” materialistico e, dall’altra, è minacciato da questa reazione di tipo fondamentalista, che, a maggior ragione, col pensiero critico e veramente scientifico non ha nulla a che fare. La possibilità di una “critica” degli assiomi come dei dogmi è, quindi, proprio ciò che viene completamente travolto nella congiuntura contemporanea.
E allora, credo che sia utile in questa sede – proprio per coerenza al tema che ci siamo dati – porre alcune domande. La prima è la seguente: perché la dogmatica, il fondamentalismo, è in grado di confliggere con l’assiomatica, con il pensiero unico, mentre il pensiero critico è impotente? Perché il pensiero critico è privo di potenza performativa e resta strangolato in questa opposizione tra fanatici della razionalità del mercato e fanatici del solo dio? Credo sia importantissimo porsi questa domanda e che sia importantissimo capire le ragioni di questa esautorazione del pensiero critico alla quale assistiamo, ancora una volta, impotenti. Penso però che sia indispensabile formularla in modo corretto, perché è evidente che ci troviamo in una congiuntura nella quale dobbiamo senz’altro auspicare la rinascita di un pensiero critico, razionale, efficace, capace di mettere in crisi questa macchina. Gli auspici, però, anche se buoni, da soli non bastano. Non basta invocare la necessità della critica, ma bisogna porsi il problema della sua condizione di possibilità, che è un problema tanto filosofico quanto politico. Su quali fondamenti è infatti possibile ricominciare a far funzionare il pensiero critico? Proprio per rispondere a questa domanda – intorno alla quale vorrei riflettere nell’ultima parte della mia relazione – dobbiamo chiederci che cosa faccia il pensiero critico, quale sia la sua specifica operazione. Dopodiché ci si dovrà chiedere come possa farla. Quello che la critica fa è ciò che ha sempre fatto fin dalla nascita della filosofia. Essa, ricordiamolo, è stata un’audace problematizzazione del sapere tradizionale. Cose che, secondo l’opinione comune, andavano da sé, in modo pressoché automatico, sono state “messe tra parentesi” e se ne è discussa la razionale legittimità. I filosofi hanno iniziato la loro gigantomachia con i “poeti maestri verità”, che altro non erano che gli ideologi del tempo. Hanno tolto la maschera all’autorità, hanno portato sulla piazza e sottoposto ad una confutazione pubblica quanto prima se ne stava separato, perché materia di sacerdoti o di cantori ispirati direttamente dal dio. La verità è diventata oggetto di un dibattito tra uomini liberi. Alla critica si chiede oggi di ripetere questa operazione con il pensiero unico e con i suoi “poeti maestri di verità”. Anch’esso si presenta ammantato da una veste sacra, anche se tale veste è stata tessuta da scienziati laici. Anch’esso si presenta come una scrittura divina, come se fosse la lunga mano di Dio nel mondo e anch’esso presenta i propri
presupposti come verità intuitive, indimostrabili, inaggirabili per la ragione umana perché coincidenti con essa. Ebbene, credo che il pensiero critico, come primo compito dovrebbe avere quello di mostrare che questi assiomi non sono assiomi ma, piuttosto, persuasioni, credenze infondate. I cosiddetti assiomi dell’assiomatica neo-liberale, non sono assiomi. Per questo, dicevo che il titolo che ho dato al mio intervento – Critica degli assiomi del pensiero unico – è sostanzialmente un titolo sbagliato. Il sistema neo-liberale non è affatto un’assiomatica come viene presentato dai suoi apologeti, ma è una retorica ed una pedagogia. La retorica è un tipo di discorso non-scientifico fondato su credenze e finalizzato a produrre delle credenze. Quelli che vengono presentati come assiomi sono in realtà persuasioni, credenze. Ora le credenze altro non sono che condotte determinate. Credere in qualcosa vuol dire agire in un determinato modo. Per questo ho detto che il pensiero unico è non solo una retorica, ma è anche una pedagogia. Ma siccome la buona pedagogia deve essere fondata razionalmente e il pensiero unico invece non lo è, si deve allora parlare di un insieme di procedure o di specifici addestramenti miranti alla produzione di un tipo umano (in questa vocazione alla fabbricazione di un tipo umano, c’è tutto l’aspetto totalitario del neoliberalismo) Che cos’è, infatti, una credenza? A tale proposito è utile ritornare ai filosofi pragmatisti americani. Influenzati profondamente dal darwinismo, che aveva ricollocato l’intelligenza umana dentro il processo naturale, i pragmatisti hanno lungamente riflettuto sulla natura del pensiero e si sono dovuti misurare con la questione della credenza. Faccio riferimento, in particolare, a un breve saggio degli anni ’70 di Charles Sanders Peirce (Il fissarsi della credenza). In quel saggio Peirce si chiedeva sostanzialmente che cosa significasse “pensare” per un essere vivente. Per Peirce, pensare è un’attività, un’azione, che deve produrre un risultato utile a superare uno stallo nella condotta. Il risultato del pensare è la generazione di una credenza e, quindi, di una condotta. Pensare è quell’attività che ci fa passare da una situazione di dubbio, dovuta al fatto che non sappiamo come fare, a una soluzione della situazione di dubbio, per cui sappiamo come fare. Questo è il pensiero: nulla di etereo, nulla di relegato nel mondo dell’iper-uranio. Pensare è passare dal dubbio alla credenza. Pensare è ricerca. Ma dubbio e credenza non sono proposizioni che
rimandano a qualcosa di esclusivamente speculativo. Dubbio vuol dire imbarazzo reale e necessità impellente di una decisione. Dunque, cosa faccio? Vado alla ricerca di una soluzione alla situazione di “irritazione” in cui mi trovo. Vado alla ricerca di un “come fare”. Questo è pensare; pensare è produrre credenze, pensare è agire in modo efficace. E la verità, allora? Se per verità si intende una verità assoluta o una verità fuori dal tempo, la credenza non è una verità; è la risoluzione a un problema di tipo pragmatico. Una credenza è un “come fare”: un abito di condotta. Abito di condotta vuol dire un modo del comportamento. Credere qualcosa è comportarsi in determinate situazioni ricorrenti in un modo determinato. Se, quindi, dico un sistema di credenze, di cosa sto parlando? Di un sistema di abiti di condotta, di un sistema di azioni determinate. Se credo che un oggetto sia duro, non lo userò per pulire la superficie della mia macchina. Ecco cosa vuol significa sapere che un oggetto è duro: io so che in determinate circostanze non risolve il problema che ho di fronte, in altre sì. Talvolta può soddisfarmi (allora lo dico “vero”), altre volte no (allora lo dico “falso”) Quella dei pragmatisti, quindi, è una lezione importante. Da essa possiamo trarre un utile insegnamento. La prima operazione che un pensiero critico, che si vuole misurare con la strapotenza del pensiero unico, deve attuare consiste nel mostrare che il cosiddetto pensiero neoliberale non è affatto una ontologia, non è affatto un’assiomatica, ma è, piuttosto, un sistema di credenze, è un sistema di abiti di condotta. È, cioè, una retorica, non una ontologia. E non è scienza ma pedagogia (nel senso della tecnica e dell’addestramento). È qualcosa di “umano, troppo umano” – se mi permettete di usare l’espressione di Nietzsche –, qualcosa che è totalmente umano nella sua origine: è un sistema di credenze, è un sistema di abiti di condotta connesso a determinati interessi materiali. Se è un sistema retorico, se è un sistema di abiti di condotta, la cellula germinale del discorso neo-liberale non sarà più allora l’enunciato scientifico. Il discorso neo-liberale non sarà più da pensarsi in analogia con il discorso scientifico. Non è vero che il discorso neo-liberale ci spiega come va il mondo e non è vero che i suoi enunciati descrivono lo stato di cose nella loro oggettività ineluttabile. La cellula che lo costituisce sarà piuttosto la cellula chiave di ogni discorso retorico (e pedagogico).
E qual è questa cellula? È ciò che Aristotele chiamava l’entimema, che è il particolare tipo di ragionamento che il grande filosofo greco vedeva all’opera in ambito retorico e pedagogico. Era un ragionamento che, a differenza di quello scientifico, non era costruito a partire da premesse universali, esplicitate e chiare, ma si articolava su una premessa taciuta. Taciuta perché data per scontata, perché si presupponeva che la maggioranza delle persone la condividesse senza bisogno di enunciarla. Anzi, tanto più taciuta quanto più condivisa. Un classico esempio di ragionamento scientifico è il sillogismo, quel ragionamento che parte da premesse universali e, attraverso un termine medio, arriva a una conclusione (tutti gli uomini sono mortali; Rocco Ronchi è un uomo; Rocco Ronchi è mortale). Come si vede, qui abbiamo una coerenza, assolutamente indiscutibile: una premessa universale vera, tutti gli uomini…; un termine medio che funziona come soggetto in una premessa minore, Rocco Ronchi…; e una conclusione per me assai amara che risulta assolutamente necessaria (Rocco Ronchi è mortale). Qui siamo, dice Aristotele, di fronte ad una vera incontrovertibile assiomatica. Ma il discorso retorico non è costruito allo stesso modo. Il discorso dei neo-liberali, il discorso del pensiero unico, il discorso che vorrebbe possedere le nostre anime, il discorso che si presenta come una macchina, che si vuole assolutamente indiscutibile, come una filosofia della natura... ebbene quel discorso è costruito con un altro tipo di ragionamento. Un ragionamento che non ha, dice Aristotele, una premessa maggiore universale ma solo probabile. Tale premessa logicamente non fondata non è poi enunciata, ma sottaciuta, data per ovvia. Ed è proprio quella premessa mancante ciò che questo ragionamento veramente comunica. Riporto un classico esempio di entimema che riprendo dai logici portorealisti che nel Seicento hanno studiato questo tipo di argomentazione. L’esempio da loro proposto era: È inglese, è coraggioso. È ovvio quale sia la premessa universale taciuta che rende possibile questa conclusione: Tutti gli inglesi sono coraggiosi. Ma nel discorso retorico noi taciamo la premessa maggiore, perché diamo per scontato che tutti la condividano. E facciamo mente locale soltanto alla conclusione: È inglese, è coraggioso. La potenza della premessa taciuta consiste proprio nel suo sparire sullo sfondo, nell’essere un semplice sfondo. La virtù degli sfondi è proprio quella di funzionare senza essere tematici, senza emergere alla luce del sapere. Tanto più potenti quanto meno percepibili: il criterio della potenza
non è forse l’invisibilità? Vediamo un altro esempio, più contemporaneo, di entimema: “è un extra-comunitario, bisogna stare attenti”. Qual è la premessa taciuta in questa forma di discorso? Ovviamente è la premessa del senso comune razzista: tutti gli extra-comunitari potenzialmente sono pericolosi. Questa premessa (solo probabile!) taciuta veicolata dall’entimema trasforma sensibilmente la mia condotta, mi addestra a rispondere in un certo modo all’apparizione del diverso: per esempio, non mi piacerà più la piazza del mio paese dove un tempo ero solito passeggiare tranquillamente. Troppe facce strane. Se li incontro passo dall’altra parte del marciapiede. E poi mi mobilito perché questi luoghi siano ripuliti da queste indiscrete presenze. Non c’è nulla di incoerente nella mia condotta: se mi sento a disagio è perché ci sono gli extracomunitari e gli extra-comunitari sono potenzialmente criminali anche se nessuno lo ha detto. La premessa non ha infatti neppure bisogno di essere enunciata, perché, come diceva Aristotele, è condivisa nel silenzio della ragione (critica). Nessuno la esplicita, ma proprio a causa di questa assenza, viene incessantemente veicolata, viralmente diffusa da bocca a orecchio. Il discorso sarebbe molto ampio, sarebbe di tipo logico-linguistico, e non possiamo affrontarlo in questa sede. Però, quanto abbiamo detto è già sufficiente a delineare i contorni di un possibile pensiero critico: bisogna sforzarsi di provare a comprendere il discorso neo-liberale come una struttura retorica basata su entimemi e non come un discorso scientifico basato su assiomi e su premesse intuitivamente date. E, allora, ci accorgeremmo che determinate esigenze, inderogabili necessità, che, nella nostra contingenza quotidiana, vengono presentate come strade che non si possono non seguire, sono in realtà conclusioni che noi traiamo a partire da presupposti che condividiamo nel silenzio della ragione. Tali impliciti non discorsivi, a metà tra la credenza mitica e l’evidenza intuitiva, sono veramente il fondamento della argomentazione pubblica. Il pensiero critico deve portarli alla luce, deve mostrare questi presupposti e rivelarne la vera natura. Il pensiero critico è una specie di torcia che getta luce su di essi e li rende tematici e problematici. Prima essi agivano sullo sfondo, inavvertiti, impercepibili, scontati, e, quindi, condivisi nel silenzio della ragione. Ora appaiono nella loro natura di credenze contingenti e storicamente determinate. Sono oggetti del sapere e, ricordiamolo sempre, qualcosa diventa oggetto del sapere se e solo se è sottoposto all’ipoteca
del dubbio. Che non sia, allora, la necessità per il capitale di procedere alla sua illimitata auto valorizzazione, la premessa taciuta nell’entimema neoliberale? Su questo punto concludo la mia relazione. La funzione del pensiero critico oggi è quella di svelare una retorica dietro un’assiomatica. Mostrare il carattere retorico di un’assiomatica significa svelare che quel discorso – che si presenta neutrale, oggettivo – è, in realtà, legato a interessi assolutamente determinati. Dove c’è una retorica c’è infatti sempre volontà di potenza. La retorica è quella costruzione del discorso che mira a produrre persuasione perché è al servizio di un interesse. Dove c’è retorica ci sono forze in conflitto. Dove c’è retorica c’è un contesto agonistico: c’è la necessità di conquistare egemonia, di produrre persuasione nelle anime per farle agire in un certo modo perché questo deve assicurare determinate posizioni di forza. Marx chiamava “critica dell’ideologia” il pensiero critico. La critica dell’ideologia deve mostrare come dietro alla taciuta premessa di un entimema, ad esempio l’economia politica (anch’essa si presentava come un’assiomatica astorica), vi sia una volontà di potenza al lavoro. Ma come può farlo? E qui veniamo alla seconda questione, quella che concerne le condizioni di possibilità della critica. Voglio dire: per prodursi la critica ha bisogno di energia e noi oggi ci misuriamo invece con il senso di una diffusa impotenza. Perché questa spossatezza? Questo senso di inutilità dello sforzo? Perché non riusciamo a fondare il pensiero critico? Ciò che ci manca è la forza. Un pensiero critico è come un organismo vivente: deve alimentarsi. Ha bisogno di una forza materiale. Se ne è privo è, semplicemente, un auspicio della ragione umana, ma non ha possibilità di incidere nella realtà. La ragione da sola non è capace di cominciare nulla. Se ne sta, come Amleto, a lambiccarsi sul da farsi, senza risolversi a niente. Marx spiegava le ragioni della rivoluzione borghese con lo sviluppo di nuove “forze produttive” che entrano in contraddizione con i rapporti di produzione dominanti. Ecco l’origine della critica illuministica dell’ordine feudale. Il pensiero critico si anima dove c’è una forza materiale, perché il pensiero critico non è una semplice disamina dei principi primi della realtà, né una illuminazione delle menti. Il pensiero critico è mutamento reale dei rapporti di produzione esistenti; non può
avere altro scopo, se non quello di incidere nella realtà e nel modificarla. Senza esercizio della forza, non ci può essere pensiero critico. Il pensiero critico però questa forza non ce l’ha perché una delle caratteristiche del pensiero neo-liberale, del pensiero unico, è stata, appunto, una sorta di demonizzazione di principio della forza stessa. Forza, infatti, significa principio di mutamento e, ormai lo sappiamo, l’ontologia neo-liberale vuole scongiurare la realtà del cambiamento (il neo-liberalismo è “falso movimento”). Per lei la natura è data una volta per tutte e non resta che prenderne atto. Laddove individua forze che lavorano in direzione del cambiamento reale, il pensiero neo-liberale le cataloga sotto la rubrica del male. Dove c’è forza c’è male in tutte le sue forme, dal male metafisico al male morale, fino alla malattia e alla perversione dell’ordine “paterno”. Enormi apparati di comunicazione sono preposti a sbrigare questo lavoro pedagogico. Il pensiero critico non può, però, fare a meno della forza, non può prescindere di alimentarsi con interessi materiali determinati che gli comunichino quella energia senza la quale non può essere vitale. La critica non è mai astratta, è sempre determinata. È vero che bisogna dubitare e che solo se si dubita si arriva alla verità, ma il dubbio non è mai un frivolo gioco della mente. Consentitemi di citare ancora i pragmatisti americani, questi grandi maestri della critica reale. A Cartesio Peirce obiettava che il dubbio astratto non esiste, che è una pura pretesa intellettualistica pensare di partire dal dubbio universale. Il dubbio è intenzionale e determinato. È in situazione: qualcuno dubita di qualcosa perche quel qualcosa ha smesso di funzionare. La critica, insomma, è qualcosa che ha luogo in un preciso momento e a partire da circostanze determinate. Cominciamo a dubitare quando ci troviamo di fronte a un’impasse reale e, allora, il dubbio si fa ricerca e proviamo a trovare un altro sistema di credenze. Non esiste il dubbio astratto e, ugualmente, non esiste una critica astratta. La critica ha necessità di un contesto e di una forza materiale. È l’espressione quasi biologica del disagio di un vivente determinato che si trova impedito nella via della propria affermazione. Per il pensiero critico è fondamentale ritrovare una base materiale, una forza che lo faccia agire. Questo è il problema che ci dobbiamo porre, perché soltanto in questo modo diamo un fondamento alla possibilità della critica che, altrimenti, resta un discorso puramente astratto o un atteggiamento di tipo moralistico. Confinare la critica nell’ambito dei principi o
nell’ambito della morale (la retorica dell’indignazione, i discorsi sull’umanità dell’uomo sfigurato dalla sua riduzione a merce ecc. ecc.) vuol dire spogliarla di qualsiasi forza e ciò, credo, sia complementare al discorso neo-liberale. Una caratteristica del pensiero unico neo-liberale è stata proprio quella di esautorare completamente la forza, trasformandola e confinandola nel problema della violenza. La forza è il male perché il solo bene è il processo di illimitata auto valorizzazione del capitale, il quale, nella pseudo-assiomatica neo-liberale, non è forza in atto, ma natura: è l’ordine eterno delle cose che nessun elemento estraneo deve perturbare.