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Italian Pages 201 [212] Year 2003
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Nell’epoca della globalizzazione le teorie di ispirazione liberaldemocratica e socialista sembrano incapaci di contrastare la crisi della democrazia, la contrazione dello spazio pubblico, la privatizzazione del diritto. La riscoperta del pensiero politico e giuridico repubblicano rende disponibile un prezioso repertorio di idee e di concetti e apre lo sguardo su modi alternativi di pensare la modernità. Mai tentativi di attualizzazione del repubblicanesimo per proporre teorie della virtù civica, del dovere patriottico e del bene comune finiscono per dissiparne la forza innovativa. Una critica di queste concezioni, che non ‘prendono sul serio’ la teoria. repubblicana del conflitto politico elaborata da Machiavelli, è il presupposto per l'elaborazione di una teoria attivistica della cittadinanza e dei diritti e di una teoria post-rappresentativa
della democrazia, nella prospettiva del ‘realismo repubblicano’.
Percorsi 58
© 2003, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2003
Quest'opera ha fruito per la pubblicazione di un contributo dei fondi di ricerca del Dipartimento di Diritto pubblico dell’Università degli Studi di Pisa nell’ambito del progetto interuniversitario MIUR, «Diritti dell’uomo, pluralismo giuridico e processi di integrazione».
Luca Baccelli
Critica del repubblicanesimo
(C]E)Editori Laterza
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Finito di stampare nell’ottobre 2003 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa CL 20-7003-0 ISBN 88-420-7003-3
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.
Introduzione
I sistemi politici e giuridici dei paesi occidentali ci appaiono oggi esposti a sollecitazioni molto forti, che ne mettono in discussione i presupposti, la struttura e le caratteristiche fondamentali. Negli ultimi decenni del secolo scorso una serie di processi economici, sociali e politici sembrano aver subito una repentina accelerazione e aver superato soglie evolutive tali da configurare cambiamenti di portata epocale. La ‘terza rivoluzione industriale’ o ‘rivoluzione informatica’ si incontra con i modelli ‘postfordisti’ di produzione e si profila la fine (della società) del lavoro. Il sistema delle telecomunicazioni si è evoluto in una rete multimediale che avvolge il pianeta con un continuo flusso di informazioni. E già da alcuni decenni si è consapevoli dell’esistenza di questioni ‘globali’ che riguardano l’intera umanità, dalla proliferazione degli armamenti nucleari ai rischi ecologici. Ma non c’è dubbio che sia stata l’escalation dei processi di globalizzazione economica a segnare una svolta: la rivoluzione informatica ha costituito il presupposto tecnologico per l’abbattimento delle barriere alla circolazione internazionale dei beni, dei servizi, dei capitali, delle conoscenze e — in misura molto minore e condizionata — della manodopera. Il dibattito sulla globalizzazione non ha ancora prodotto una definizione comunemente accettata del fenomeno. Alcuni tentativi in questo senso si riferiscono, in generale, ai processi di estensione a livello
mondiale delle relazioni fra gli esseri umani, con i connessi effetti di ‘contrazione’ dello spazio e del tempo e di cambiamento dell’orizzonte di riferimento cognitivo e simbolico. Altri insistono maggiormente sulla dimensione economica. Altri ancora enfatizzano i rapporti fra i diversi sottosistemi sociali, i prirzis quello fra sottosistema politicogiuridico e sottosistema economico. Non c’è accordo sul termine 4 quo, sulla portata, sull’intensità e sull’effettiva universalità della globalizzazione. E, con tutta evidenza, sono diverse le valutazioni dei pro-
cessi in corso e delle loro conseguenze per il benessere, la sicurezza e
le opportunità di esperienza delle popolazioni del mondo. Ma è generalmente condivisa l’idea che questi processi hanno influenzato profondamente il mondo delle istituzioni e del diritto, innestandosi sugli sviluppi endogeni e retroagendo su di essi. 1. Democrazia sotto stress
La fine della seconda guerra mondiale ha avviato un processo di generalizzazione della democrazia politica, cui corrisponde ormai da decenni una sua ‘solitudine normativa’: la democrazia è generalmente considerata come l’unica forma virtuosa di governo. Ciononostante, i regimi democratici ‘reali’ sembrano attraversare una crisi tale da mettere a repentaglio la loro stessa sopravvivenza.
È noto che fin dall’inizio del secolo scorso la teoria politica elitista ha messo in questione la classica concezione della democrazia come espressione della volontà e della sovranità popolare. Nel corso del Novecento a questa critica si è risposto con strategie differenti, comunque riconducibili da un lato alle elaborazioni dell’‘elitismo democratico’, da Schumpeter a Dahl e Sartori, o alle teorie radicalmente partecipazionistiche, dall’altro lato. Nelle contemporanee ‘società del rischio’!, complesse e globalizzate, la democrazia partecipativa è sempre più difficilmente riproponibile. Ma una serie di autori ha messo in luce come anche le differenti versioni delle teorie procedurali della democrazia non abbiano ‘mantenuto le promesse’, abbiano prodotto effetti inattesi e siano esposte a ‘rischi evolutivi’. Sembra che neppure la
progressiva riduzione delle pretese della teoria democratica, e il suo allontanamento dai valori etico-politici che sottendevano la nozione classica di ‘governo del popolo’, siano più sufficienti. Ciò è apparso sempre più evidente nell’ultimo ventennio, annunciato dalla vittoria dei regimi liberaldemocratici nella guerra fredda e dalla diffusione dei sistemi rappresentativi in molti paesi dell’Africa e dell’America Latina. Sembrano a rischio i due capisaldi in base ai quali le teorie elitiste-democratiche connotavano come democratici determinati regimi: l’esistenza, sul lato dell’offerta politica, di una pluralità di soggetti in competizione (tipicamente i partiti politici), e la possibilità, sul lato della domanda politica, di esercitare il consenso in elezioni libere e periodiche. Riguardo a quest’ultimo aspetto la letteratura ! Cfr. U. Beck, Was ist Globalisierung?, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997 (trad. it. Carocci, Roma 1999).
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politologica insiste sui processi di produzione del consenso, che a loro volta rimandano alla ‘legittimazione attraverso procedure’ e alla generalizzata disponibilità ad obbedire ‘senza particolari motivazioni”. Gli effetti di lungo periodo dell’esposizione ai zzedia aggravano questi problemi: sono i rzedia ad imporre i propri criteri di salienza, a condizionare la percezione della realtà, configurando la sindrome dell’agerda setting?. Si tratta di tendenze sistemiche generalizzate, che ovvia-
mente vengono esaltate dai processi di concentrazione nella proprietà delle reti televisive e/o dei providers telematici e delle catene editoriali, come pure dalle commistioni fra potere mediatico, potere economico e potere politico. Ed è legittima una certa dose di scetticismo di fronte all’idea che la stessa rivoluzione informatica offra strumenti per controbilanciare queste tendenze, favorendo la diretta partecipazione dei cittadini alla vita politica. I teorici della instant referendum democracy ipotizzano addirittura la sostituzione delle procedure elettorali con reti di consultazione popolare permanente, ma già oggi gli individui incontrano gravi difficoltà ad orientarsi consapevolmente nel flusso continuo di informazioni cui sono esposti. Il rumore di fondo è assordante e d’altra parte anche la comunicazione nelle reti rimane in massima parte asimmetrica. Questo sovraccarico cognitivo sarebbe aggravato dalla frequente sollecitazione a pronunciarsi su questioni disparate: è ipotizzabile una generalizzata ‘apatia’ anche nei confronti delle possibilità di intervento politico telematico. Sul lato dell’offerta politica è opinione diffusa che le forze politiche tendano a perdere un’identità definita e a smarrire un preciso radicamento sociale. I partiti divengono sempre più autoreferenziali, mentre i zedia esaltano la personalizzazione della competizione elettorale e favoriscono l'affermazione della politica di immagine. Si registrano fenomeni perturbanti, che portano alla luce cortocircuiti nei processi di selezione del personale politico e gravi disfunzioni nei rapporti fra il pubblico dei cittadini e le istituzioni, e fanno emergere un crescente malessere negli elettorati: dall’affermazione politica di leader espressione diretta del potere mediatico o del complesso militar-industriale al crollo della partecipazione alle elezioni, alla diffusione degli appelli populisti, ad autentici blocchi funzionali del processo elettorale, come quello avvenuto nelle elezioni presidenziali del 2000 negli Stati Uniti. Si manifestano i sintomi di una malattia della democrazia, che
contagia le aree più diverse del pianeta — comprese quelle di più re2 Cfr. D. Zolo, I/ principato democratico, Feltrinelli, Milano 1992.
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cente democratizzazione — e della quale è molto difficile ipotizzare gli sviluppi futuri. Mentre si consuma questa crisi dell’accountability dei regimi democratici, una serie di agenzie, pubbliche e private, che non rispondono direttamente all’elettorato — dalle banche centrali alle autborities, alle stesse corti giudiziarie — hanno acquisito un potere crescente.
E gran parte delle decisioni politiche più importanti vengono prese in sedi ‘globali’ o ‘transnazionali’, sulle quali la possibilità di controllo da parte dei cittadini è, nel migliore dei casi, indiretta e mediata — si pensi alla multilayered governance dell’Unione Europea — se non del tutto aleatoria, come mostrano le istituzioni economiche internazionali.
2. La crisi della politica e il diritto «à la carte»
La locuzione ‘crisi della democrazia’ rischia comunque di essere riduttiva. Si deve probabilmente parlare di una vera e propria ‘crisi della politica’ come uno dei fenomeni costitutivi della globalizzazione. Su questo punto occorre evitare semplificazioni. Contro la tesi che l’attuale assetto dell'economia planetaria sia l’esito di processi ‘spontanei’ e involontari, se non ‘naturali’, è stato opportunamente sottolineato che sono state una serie di decisioni politiche a definire il quadro giuridico neoliberista e le scelte operative che hanno aperto la via alla globalizzazione. Ma queste scelte stanno producendo un generale ridislocamento del rapporto fra politica ed economia, e in particolare un trasferimento di poteri dagli Stati ai mercati. Con la ‘deterritorializzazione’ dell'economia sono gli Stati a divenire funzionali ai mercati, e le corporations nascono e si sviluppano come soggetti autoctoni dello spazio transnazionale. Istituzioni come la World Trade Organization (WTO), difficilmente definibili rispetto all’opposizione fra ‘pubblico’ e ‘privato’, dettano, o influenzano profondamente, le politiche di mol-
ti Stati. Ciò vale per quelli fortemente indebitati ma anche per quelli più industrializzati, costretti più o meno obtorto collo a ridimensionare i sistemi di Welfare e le tutele del lavoro per reggere la competizione economica globale e scongiurare la ‘delocalizzazione’ delle imprese. Secondo gli apologeti della globalizzazione queste tendenze andrebbero incoraggiate e favorite. Per questi autori il principio della deregulation dovrebbe essere generalizzato, in modo da eliminare gli } Cfr. M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società taransnazionale, Il Mulino, Bologna 2000.
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ostacoli allo slancio creativo del mercato mondiale: le frontiere degli Stati nazionali disegnerebbero spazi economici artificiosi e inadeguati e la loro stessa sovranità sarebbe un limite allo sviluppo economico. Si profila, secondo Kenichi Ohmae4, la ‘fine degli Stati-nazione’. Ma an-
che interpreti più critici dei processi in corso riconoscono il radicamento territoriale delle istituzioni politiche sviluppate nella modernità mentre le forze economiche, tecnologiche e culturali trascendono i luoghi e si muovono nello spazio globale. Per parafrasare Carl Schmitt, lo Stato e la politica moderni riproducevano il rapporto essenziale fra Ortnung e Ordnung, e del resto secondo la dottrina giuspubblicistica il legame con un territorio è uno degli elementi definitori dello Stato. Oggi, sostiene Zygmunt Bauman, lo Stato non solo non è capace di go-
vernare le forze transnazionali, ma non riesce neppure ad identificarle. In altri termini, la deregulation significa che le regole non sono più dettate dallo Stato e dalla politica, ma da forze non-politiche; significa la separazione del potere dalla politica?. Queste considerazioni valgono, in particolare, per l’attributo più ti-
pico dello Stato moderno, la sovranità. Se la sovranità si identifica con la suprema potestas superiorera non recognoscens, non c'è dubbio che essa risulta oggi ‘opacizzata’ e ‘frammentata’. Almeno dalla fine della seconda guerra mondiale gli Stati contemporanei riconoscono potestates ‘superiori’ in determinate istituzioni internazionali, di tipo politico, giuridico ed economico, e sono sottoposti a normative e giurisdizioni sovranazionali. Ma oggi le società e le aziende transnazionali, a cominciare dalle grandi corporations, hanno una forza economica e un’articolazione organizzativa tali da soverchiare le possibilità di controllo da parte delle istituzioni nazionali. Questo vale, in primo luogo, per la sovranità fiscale degli Stati. Il potere di imporre tasse deperisce di fronte alla capacità elusiva ed evasiva delle imprese transnazionali e all’incapacità (o alla mancanza di volontà politica) di tassare le transazioni finanziarie e le speculazioni nel mercato globale. Per contro, l'imposizione sui redditi da lavoro si riferisce ad una quota decrescente della ricchezza prodotta e tende a smarrire equità e progressività. Tuttavia la rappresentazione dei processi in atto in termini di fine della sovranità appare unilaterale. Le sovranità forti, tutt'altro che 4 Cfr. K. Ohmae, The End of the Nation State, The Free Press, New York 1995 (trad. it. Baldini & Castoldi, Milano 1996). 5 Cfr. Z. Bauman, Globalization. The Human Consequences, Columbia Uni-
versity Press, New York 1998 (trad. it. Laterza, Roma-Bari 2001); Id., In Search of Politics, Polity Press, Cambridge 1999 (trad. it. Feltrinelli, Milano 2000).
‘frammentate’, sono ben presenti nel mondo contemporaneo. Nonostante la comparsa e lo sviluppo di attori, molto spesso transnazionali, che contendono agli Stati il monopolio della forza fisica e il controllo dei territori — le mafie, i cartelli del narcotraffico, le organizza-
zioni terroristiche — la ‘spada’ hobbesiana è ancora nelle mani del Leviatano. Si delinea un modello che combina l'egemonia globale dell’unica megapotenza - rispetto alla quale parlare di declino della sovranità appare poco più che una battuta di spirito — e la complessa oligarchia delle potenze grandi, medie e piccole in una rete di interdipendenze, di alleanze e di conflitti. La storia recente segna anche una serie ripetuta di sconfitte del diritto internazionale, che con la Carta
delle Nazioni Unite sottraeva agli Stati precisamente quel tipico diritto sovrano che era lo ius ad bellum. E per quanto si sviluppino polizie e agenzie di sicurezza private, non si vedono segnali di indebolimento o di riduzione degli apparati repressivi ‘interni’ degli Stati. È stata elaborata una teoria che, nonostante l’eccesso di semplificazione che la caratterizza, può essere di qualche utilità per sciogliere questa apparente contraddizione: la tesi della trasformazione dello ‘Stato sociale’ in ‘Stato penale’. Con la globalizzazione e la conseguente crisi fiscale gli Stati non sembrano più in grado di attivare politiche di Welfare. Si concentrano pertanto sulla tutela dell’integrità fisica dei cittadini e sulla difesa dalle varie forme di microcriminalità. Gli Stati si riducono, ha sostenuto Bauman, a «commissariati locali di
polizia». In altri termini, i contemporanei ‘Stati deboli’, costretti a politiche di deregolamentazione, di riduzione delle garanzie del lavoro e di ‘flessibilizzazione’, delegano al mercato o tutt'al più alla ‘carità’ il compito di provvedere al benessere dei cittadini. Per contro, gli Stati diventano ‘forti’ nelle politiche sicuritarie, ispirate al principio della ‘tolleranza zero’ e della stigmatizzazione, localizzazione e neutralizzazione dei potenziali devianti. Ma se questo vale per il ‘fronte interno’ della sovranità, ancor più evidente è la concentrazione delle politiche statali in direzione della sicurezza se si considera lo scenario globale. I processi di disarmo, che sembravano avere ricevuto un grande impulso con la fine della guerra fredda, sono di fatto abbandonati. L’unica megapotenza si impegna nello sviluppo di nuove forme — flessibili e maggiormente ‘spendibili — di armamento nucleare; d’altra parte essa è ricorsa massicciamente, fin dal 1991, all’utilizzazione di armamenti di potenza tale da non poter essere più definiti ‘convenzionali’ e ha ripreso il progetto di ‘scudo stellare’. Potenze medio-piccole, alcune delle quali nella sua orbi-
ta, non sono da meno, e il principio di non proliferazione nucleare è già di fatto abbandonato. D'altronde è evidente il tentativo di ridefinire il ruolo delle organizzazioni internazionali fondate dopo la seconda guerra mondiale. Se la NATO ha espanso i confini della sua area di competenza e reinterpretato radicalmente il senso in cui è un’alleanza ‘difensiva’, è evidente che la megapotenza non riconosce le Nazioni Unite come superior né ammette limitazioni di sovranità. Piuttosto, di volta in volta, le Na-
| zioni Unite sono chiamate a distribuire aiuti umanitari, a organizzare operazioni di peace-keeping, ad autorizzare interventi militari, a legittimarli ex post o a mantenere un benevolo silenzio, sia tutto questo coerente o meno con i principi ispiratori o con le procedure previste dalla Carta. Le strategie del new global order mostrano la faccia ‘esterna’ delle politiche di sicurezza. E se nell'epoca del Welfare State erano essenzialmente la spesa sociale e gli investimenti infrastrutturali delle amministrazioni pubbliche a costituire il ‘volano’ keynesiano delle economie nazionali, c'è da chiedersi se questo ruolo non venga, oggi, attribuito quasi integralmente alla spesa militare. La ridefinizione dei rapporti fra politica ed economia costringe a chiedersi che ne è, nell’epoca della globalizzazione, del complesso reticolo di istituzioni e procedure che configurava lo Stato di diritto. I documenti dell’amministrazione americana invocano il rule of law come uno dei principi da salvaguardare nella lotta al terrorismo ma la sua politica collide con il progetto di uno ‘Stato di diritto’ planetario perseguito dai teorici del ‘pacifismo istituzionale’. Sul piano interno le politiche di sicurezza rischiano di violare i principi garantistici della procedura penale e lo stesso valore dell’eguaglianza ‘formale’ di fronte alle legge, faticosamente elaborati in secoli di civiltà giuridica. Le garanzie dello Stato di diritto appaiono tanto più minacciate quanto più le misure di sicurezza interna si connettono con le questioni globali, negli snodi più sensibili della politica contemporanea (dalle misure per la lotta al terrorismo internazionale alle leggi sull’immigrazione, alla repressione dei movimenti che contestano i vertici economici e politici internazionali). Ma la crisi dello Stato di diritto è probabilmente più profonda, in quanto rimanda ad una più generale ‘crisi del diritto’. Già negli ultimi decenni del Novecento la sociologia giuridica ha segnalato le tendenze all’‘inflazione normativa’ e la conseguente riduzione della capacità regolativa e integrativa del sistema giuridico nelle società complesse®. 6 Cfr. N. Luhmann, Rechtssoziologie, Rohwolt, Reinbek bei Hamburg 1972
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Con la globalizzazione cambiano gli attori e i protagonisti del processo giuridico e le modalità di produzione e funzionamento delle regole giuridiche. Si afferma un nuovo sistema del rischio e dell’incertezza,
un ordine giuridico ‘delle possibilità’ fondato sullo schema privatistico del contratto. Lo strumentario giuridico viene prodotto ad opera di soggetti istituzionali o semipubblici (corporations transnazionali, società di revisione contabile e di certificazione, burocrazie internazionali del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale, della Commissione UE, Organizzazioni non governative - ONG). Oppure viene ‘acquistato’ presso le transrational law firms e i collegi arbitrali,
per così dire è la carte. Il nuovo ‘ordine’ giuridico ricorda, per molti aspetti, quello medievale. Si definisce una nuova /ex mzercatoria che configura un’affermazione del diritto commerciale sul diritto del lavoro e del diritto privato sul diritto pubblico e si espone a processi di privatizzazione e di deformalizzazione, mentre sempre più incerta risulta la sua legittimazione. La prevedibilità del diritto declina mentre i mercati tendono ad autoorganizzarsi e ad esprimere «principi operativi e filosofie organizzative di carattere generale»”, piuttosto che norme prescrittive. L’immagine weberiana del diritto moderno come un ordinamento coercitivo, garantito dal monopolio della forza fisica esercitato dallo Stato in un determinato territorio, e che deve la sua legittimità alla sua ‘calcolabilità’ razionale e alla sua prevedibilità, è ormai sfocata. Ma anche la teoria luhmanniana del diritto, basata sul principio della differenziazione funzionale del sottosistema giuridico e sulla sua logica ‘autopoietica’, si rivela inadeguata a tracciare gli incerti confini del giuridico nell’età globale. 3. Uscire dalla gabbia d'acciaio? Quale chiave può essere adeguata ad interpretare, ed eventualmente a criticare, questi processi evolutivi? Come abbiamo già accennato, al di là della valutazione — in generale positiva — che danno della globalizzazione e del modo in cui essa si sta delineando, alcuni autori tendo-
no a vedere i processi in atto come l’esito spontaneo di ciò che li ha preceduti. La globalizzazione, si sostiene, in qualche misura c’è sempre stata o almeno si è sviluppata da quando le società umane hanno (trad. it. Laterza, Roma-Bari 1977); Id., Politische Theorie im Wobhlfartstaat, Hol-
zog, Miinchen 1981 (trad. it. Franco Angeli, Milano 1983). ? Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione, cit., p. 70.
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superato una certa soglia evolutiva. E le forme politiche e istituzionali nelle quali si sta realizzando — la frammentazione e la ridislocazione della sovranità, i processi di deregolamentazione e privatizzazione, il passaggio di poteri dalla politica all'economia, la crisi della normatività — sono fenomeni che la globalizzazione ‘porta con sé. In considerazioni di questo genere è evidente il rischio di incorrere in una sorta di ‘fallacia naturalistica’: si rifà viva la tendenza, così diffusa nella sto-
ria del pensiero economico e della teoria sociale, a considerare ‘spontanei’ e ‘naturali’ assetti sociali e istituzionali che sono in realtà il risultato di scelte volontarie e consapevoli. Ma nel dibattito attuale sulla globalizzazione si riaffaccia anche un altro modo di argomentare, anch'esso familiare, che configura quella che potremmo definire come ‘fallacia progressista’ o ‘fallacia dialettica’. Mi riferisco all’idea che i processi in corso generino, per la loro stessa logica interna, le tendenze e i processi che porteranno al loro superamento. Si potrebbero, grosso rz0do, individuare due versioni di questa fallacia. Secondo alcuni autori la globalizzazione economica produce, per così dire, i suoi anticorpi. Il superamento dei confini agli scambi commerciali e alla circolazione dei capitali si collega ad un abbassamento delle barriere culturali e ad una rapida ed efficace circolazione delle idee, delle opinioni, dei modi di vita, dei valori. Nei sag-
gi più ottimistici diJurgen Habermas, ad esempio, si afferma l’idea che la globalizzazione economica impone a tutte le società, comprese quelle autoritarie, l’utilizzazione del medium giuridico, che a sua volta vei-
cola l’affermazione dei diritti umani e dei principi liberaldemocratici. Per questi autori la ‘società civile mondiale’ e la ‘politica interna del mondo’ sono l’altra faccia della finanza e della competizione globale, e su questa base potranno svilupparsi istituzioni globali capaci di governare democraticamente le global issues e di gestire i global risks. Posizioni di questo tipo possono venire ricollegate alle interpretazioni ottimistiche della rivoluzione telematica, vista a sua volta come una grande occasione di comunicazione, di socializzazione, di arricchimento
culturale nel luogo virtuale di un’inedita agorà politica globale. Altri autori interpretano i processi in corso in senso più direttamente dialettico: la globalizzazione, per la sua stessa logica interna, produce il soggetto sociale e politico che la trascenderà e la supererà. L’idea è che i flussi finanziari globali e la produzione postfordista non possono non sfruttare il ‘cervello sociale’ e il lavoro generalizzato della ‘moltitudine’. In questo modo, si sostiene, la globalizzazione ricon-
nette fra di loro gruppi, ceti, nuclei sociali disparati, dalle periferie urbane dei paesi industrializzati alle aree più povere dell’Asia e dell’AfriXIII
ca, e così forma e unifica il nuovo proletariato globale. La forma economico-politica nella quale la globalizzazione si è realizzata, secondo questa interpretazione, sarà spezzata dal nuovo soggetto rivoluzionario che essa stessa ha fatto nascere. Non è difficile mettere in luce i punti deboli presenti anche in queste argomentazioni. Le tesi ‘progressiste’ rischiano di incamminarsi sul binario morto della filosofia deterministica della storia: di affidarsi all’idea che la forma storica della modernizzazione occidentale, nella
quale l'affermazione dell'economia capitalistica si è collegata con lo sviluppo della società civile, dello Stato di diritto e della democrazia rappresentativa, sia l’unica possibile e sia generalizzabile a livello globale. Le tesi ‘dialettiche’ fanno forza sulla considerazione che una generalizzazione del modello occidentale di sviluppo tale da colmare il dislivello tecnologico e la polarizzazione del reddito fra le varie aree del mondo — come postulano gli apologeti della globalizzazione — entrerebbe in collisione con i limiti del rapporto ecologico della specie umana con l’ambiente naturale. Si potrebbe anche definire questa, marxianamente, come una ‘contraddizione fondamentale’, ma ciò non
significa che ad essa si ricolleghi lo sviluppo di una forza sociale capace di superarla. Nonostante che dopo l’11 settembre 2001 la ‘paura’, in Occidente, sia aumentata, non sembra possibile utilizzare uno sche-
ma interpretativo analogo a quello della ‘lotta per il riconoscimento’ espressa dalla figura hegeliana della dialettica di servo e padrone8. Il modello di sviluppo postfordista, la globalizzazione e la finanziarizzazione dell'economia mantengono il lavoro della ‘moltitudine’ in una condizione subordinata: come ha sostenuto Bauman, i ‘nuovi ricchi’
dell’epoca della globalizzazione non hanno più bisogno dei poveri per diventare più ricchi. Ciò non significa che nello scenario globale non si stiano delineando attori sociali e politici capaci di opporsi alla forma neoliberista della globalizzazione. A partire dalla contestazione del Multilateral Agreement on Investment (MAI) a Seattle nel 1999, è divenuto visibile un complesso movimento transnazionale, che ha coinvolto militanti dei cinque continenti, è riuscito ad imporre temi e questioni alle forze politiche e sindacali ‘ufficiali’ e in certi casi a dettare l’agenda politica (intervenendo spesso sui temi ‘globali’ con molta più efficacia e lungimiranza degli stessi governi). Com'è noto, gli incontri del Forum 8 Mi riferisco ovviamente a G.W.F. Hegel, Die Phinomenologie des Geistes (1807), in Id., Gesamzzelte Werke, Meiner, Hamburg 1968, vol. IX (trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1960, pp. 153-64).
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sociale mondiale di Porto Alegre hanno rappresentato il laboratorio teorico-organizzativo del movimento e successive occasioni, dalle drammatiche giornate di Genova del luglio 2001 alle manifestazioni pacifiste del 15 febbbraio 2003, hanno testimoniato una capacità di mobilitazione impensabile per organizzazioni ben più consolidate, come ad esempio le confederazioni europee e mondiali dei sindacati o le ‘internazionali’ politiche. Si può rilevare che quando si sono definiti obiettivi specifici (l'accordo MAI, il G8, la guerra all’Irag) e si sono profilate linee di frattura su scala globale, si sono rivelati soggetti politici transnazionali e si è intravisto qualcosa come un’opinione pubblica mondiale, almeno allo stadio embrionale. È in queste situazioni, intorno a questi conflitti che il discorso sulla ‘società civile globale” perde il suo carattere esortatorio e i tratti del wisbfu/ thinking. L'esistenza di questo movimento dimostra, secondo la sua parola d’ordine principale, che ‘un altro mondo è possibile’? Si sta sviluppando un’alternativa alla globalizzazione neoliberista e al capitalismo transnazionale? È ovvio che lo stato attuale delle nostre conoscenze non ci permette di dare una risposta. Un aspetto deve comunque essere sottolineato: emerge qui un problema di alternativa culturale. Le brillanti tesi dei liberisti ‘globalisti’ — da quelle più radicali degli anarcocapitalisti a quelle più moderate — godono tuttora di ottima salute. Trovano un significativo riscontro nell’ortodossia della scienza economica e nella teoria delle relazioni internazionali. E il liberismo globalista è stato recentemente declinato in una sorta di identificazione dei ‘valori nazionali’ della liberaldemocrazia anglosassone con i ‘valori universali’. D'altra parte, l'adesione — ‘realistica’ o apologetica che sia — ai processi in corso ha un vantaggio dalla sua parte rispetto ai tentativi di articolarne una critica: ha meno bisogno di teoria, si sottrae più facilmente dall’onere della prova. Le teorie ‘critiche’, per contro, mostrano una salute assai più malferma. Le filosofie liberali della giustizia sembrano essersi estenuate nel confronto con il comunitarismo. Per un verso, sono state costrette
a fare molte concessioni — si pensi al ‘secondo Rawls’ e alla sua ammissione che la giustizia come equità può proporsi al più come una teoria ‘politica’ valida solo in un determinato contesto culturale — e a perdere molto della propria forza normativa. Ma, soprattutto, tali teorie si mostrano sempre meno adeguate alla politica, e alla crisi della politica, nell’epoca della globalizzazione. La difesa del Welfare State sul piano normativo sembra inerme di fronte a quella colossale ridefinizione dei rapporti fra pubblico e privato, fra politica ed economia, cui abbiamo accennato. Il pluralismo culturale e il politeismo dei valori, XV
sia all’interno delle società multiculturali che sullo scenario globale, sono una sfida radicale di fronte alla quale il modello dell’overlapping consensus e il requisito della ‘ragionevolezza’ appaiono impotenti. Più in generale, la cruda realtà dei processi di globalizzazione aggrava quell’‘impotenza del dover essere’ che l'applicazione alla politica dell’etica normativa ha manifestato a più riprese. Ma se le ultime elaborazioni della tradizione liberaldemocratica non offrono molto non sembra che dalla tradizione socialista, e dal filone marxista in particolare, giunga un contributo originale. L'eredità metodologica del materialismo storico, integrata con gli apporti delle scienze sociali, rivive sul piano analitico nelle ‘teorie della dipendenza’ e del ‘sistema mondiale’, nei postcolonial studies e nelle ricerche sulle esperienze sociali delle metropoli. Ma ben più difficile è ricavare dall’eredità marxista e neomarxista valutazioni sulle prospettive possibili e indicazioni normative. La ‘crisi del marxismo’ come teoria generale in grado di individuare non solo le patologie sociali fondamentali, ma anche le tendenze verso il loro superamento e gli attori sociali della trasformazione, ha preceduto di gran lunga il fatale 1989. Sembra dunque che l’eredità del discorso politico e sociale ‘critico’ della modernità si esaurisca di fronte al nuovo scenario. Si può auspicare che dal confronto multiculturale sorgano in futuro contributi significativi. Sarà necessaria un’accurata ricerca sulle esperienze antiche, moderne e postmoderne di integrazione sociale, di organizzazione politica, di gestione dell’ambiente, realizzate nelle comunità estranee all'Occidente. Oggi non si può che riscontrare un deficit di teoria, e i movimenti sociali e politici che tentano una critica della globalizzazione si espongono a due rischi complementari. Da un lato, essi possono esaurirsi nella mera difesa, sempre più arretrata, di identità, as-
setti sociali, istituzioni, servizi, funzioni pubbliche, garanzie giuridiche. Dall’altro lato, rischiano volontaristiche fughe in avanti: si affacciano illusioni di scorciatoie neoribellistiche che richiamano sinistri echi del passato. 4. Un’eredità teorica
Ci si può chiedere se la storia del pensiero giuridico e politico non possa offrirci qualcosa di più. Dalla genealogia del linguaggio politico e dei concetti giuridici potrebbero provenire indicazioni e suggerimenti, o addirittura essa potrebbe dischiudere prospettive alternative. Negli anni Settanta del secolo scorso John Pocock, raccogliendo e ricolXVI
legando i contributi di alcuni storici del pensiero politico della prima modernità, ha proposto nel suo The Machiavellian Moment un nuovo paradigma interpretativo: la sua tesi è che fra il XV e il XVIII secolo, tra la Firenze degli umanisti e l’America della Rivoluzione, abbia circolato largamente un linguaggio politico nel quale ricorrevano parolechiave come vivere civile, virtù civica, corruzione, fortuna, occasione.
Gli autori che utilizzavano questo linguaggio, sostiene Pocock, consideravano la partecipazione politica come l’espressione dell’autentica natura dell’uomo e proponevano sul piano istituzionale il modello del ‘governo misto’, basato sulla ripartizione delle funzioni fra un’istanza monocratica, l’élte dei ‘migliori’, e l'insieme della cittadinanza. Una
comune matrice nella filosofia pratica aristotelica identificava così un paradigma alternativo a, e a lungo concorrente con, quello individualistico-contrattualistico, considerato come la fonte teorica principale del liberalismo moderno. Ho utilizzato il linguaggio dell’epistemologia di Thomas Kuhn? perché la ricerca di Pocock configura qualcosa come un paradigr shift storiografico, che ha modificato significativamente l’interpretazione del pensiero politico della prima modernità. L'immagine che lo riduceva all’elaborazione e alla progressiva affermazione, da Grozio a Kant, di un modello teorico individualistico-contrattualistico, che di-
viene l’ideologia della classe sociale protagonista dell’affermazione del capitalismo e della rivoluzione industriale — un'immagine fatta propria sia dalla storiografia liberale che da quella marxista — ci appare oggi troppo semplificata. Nella modernità si sono dischiusi percorsi alternativi e alcuni sentieri si sono interrotti: il quadro delle possibilità teoriche era assai più ampio di quanto possa sembrare da una ricostruzione schiacciata sugli esiti successivi. Si comprende, allora, come non
pochi autori abbiano tentato di riprendere alcuni di questi percorsi e di spendere nel dibattito filosofico-politico e teorico-giuridico i risultati della ricerca storiografica sul repubblicanesimo. È quanto hanno fatto i filosofi politici di orientamento ‘comunitarista’, come Alasdair MacIntyre, Michael Sandel, Charles Taylor, interessati ad individuare una possibile traduzione delle loro tesi analitiche sulla formazione della personalità morale e sulla definizione dell’identità collettiva in termini di proposte normative e di pratiche politiche. E alcuni giuristi — fra cui Frank Michelman e Cass Sunstein — hanno ricercato nella tradizione repubblicana motivi di ispirazione per impo? Cfr. T. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, The University of
Chicago Press, Chicago 1962 (trad. it. Einaudi, Torino 1969).
XVII
stare il problema del rapporto fra ‘governo del popolo’ e rule of law, per indagare la genesi delle norme giuridiche e per discutere il ruolo del potere giudiziario e delle garanzie costituzionali. Più di recente, altri autori — come Philip Pettit e Maurizio Viroli — si sono impegnati nel tentativo di elaborare una sistematica filosofia politica ‘neorepubblicana’, sulla base dell’idea che il repubblicanesimo costituisca una teo-
ria ben definita, tale da rappresentare una terza alternativa nel dibattito contemporaneo fra liberali e comunitaristi. Di fronte allo scenario della politica globale, le visioni comunitaristico-repubblicane o neorepubblicane possono offrire un contributo teorico significativo? Molti probabilmente risponderebbero di no. Anche perché nel dibattito pubblico degli ultimi anni il repubblicanesimo ha offerto di sé un'immagine standardizzata. É stato presentato come una teoria che vincola il valore della libertà politica al principio dell’autogoverno e che pone uno stretto legame fra lo sviluppo di ordinamenti politico-giuridici tali da proteggere i cittadini dal potere arbitrario e la ‘virtù civica’ della cittadinanza. In altri termini, secondo
questa impostazione, la divisione del potere e la sua articolazione, in generale il sistema di checks and balances e di vincoli costituzionali che articolano il governo ‘repubblicano’, sono una condizione necessaria, ma non sufficiente, perché sia tutelata la libertà e si affermi il principio dell’autogoverno. Occorre poter contare anche su risorse diffuse di saggezza e di generosità, se non su una qualche forma di ‘religione civile’. Nel definire la virtù civile i diversi interpreti insistono, di volta in volta, sull’autogoverno, sul senso di appartenenza, oppure sull’autonomia, sulla dignità, sulla capacità di opporsi ai soprusi e all’oppressione. Ma, al di là delle differenziazioni, questi autori sostengono che la partecipazione politica, se anche non esprime la ‘natura’ specifica dell’uomo, si configura comunque come un dovere civico, è necessaria per difendere la repubblica dalle aggressioni esterne e dalla corruzione interna. E affermano che la politica repubblicana ha di mira una qualche forma di ‘bene comune’ della collettività. Si comprende dunque il diffuso scetticismo sull’idea che, per affrontare le questioni dell’oggi, ‘discettare di spirito repubblicano’ sia di una qualche utilità. Il repubblicanesimo sembrerebbe proporre una sorta di ‘ri-eticizzazione’ della politica tale da aggravare quell’‘impotenza del dover essere’ già segnalata per l’etica pubblica dei liberali e dei comunitaristi. Insistere sulla virtù e sul bene comune nell’epoca della crisi della politica appare velleitario. E con la crisi della democrazia l'appello al dovere di partecipare sembra configurare, nel migliore dei casi, una imbelle consolazione e nel peggiore una beffa. InXVII
| fine, l’enfasi sul senso di appartenenza e sui doveri ‘patriottici’ echeggia una lingua morta nell’epoca della globalizzazione, della frammentazione della sovranità, del mondo come un tutto. Non è un caso che gli autori repubblicano-comunitaristi o neorepubblicani siano costretti a insistere sugli elementi di continuità nelle singole tradizioni politiche (come fa Sandel per la cultura politica nordamericana) o addirittura si pronuncino per una sostanziale uniformità metastorica della politica; altrettanto significativamente evitano riferimenti puntuali alle acquisizioni recenti della sociologia politica e giuridica in termini di sviluppo della complessità e della differenziazione sociale e, appunto, di globalizzazione.
5. Machiavelli preso sul serio
In questo volume raccolgo e rielaboro i risultati di una ricerca che mi ha impegnato negli ultimi anni, ispirata ad un’ipotesi di fondo: nonostante le difficoltà incontrate dai comunitaristi e dai neorepubblicani, il riferimento alla tradizione repubblicana non rappresenta l'ennesimo vicolo cieco della teoria politica e giuridica contemporanea. Quella sorta di ispessimento e approfondimento della nostra consapevolezza storica che è stato realizzato dalla storiografia del repubblicanesimo ci può fornire strumenti concettuali per comprendere le alternative e i mondi possibili dell’oggi. La consapevolezza del fatto che erano possibili altri modi di pensare la modernità suggerisce l’idea che erano e forse sono possibili altre modernità. Ma per verificare quest’ipotesi è necessario riconoscere che quella che chiamiamo ‘teoria’, ‘ideologia’ o ‘tradizione’ repubblicana è in realtà un insieme di visioni e concezioni per molti aspetti differenti, che hanno in comune l'adozione di uno stesso linguaggio politico. Di conseguenza occorre decostruire quell’immagine standard del repubblicanesimo cui abbiamo accennato e le utilizzazioni teoriche che ne sono state fatte. A questo scopo può essere di grande aiuto riconsiderare la figura dell’autore eponimo del ‘momento machiavelliano’. Contro gran parte dell’interpretazione novecentesca, incentrata sul Principe come opera che precorre la ragion di Stato e la scienza politica ‘avalutativa’, credo che sia legittimo considerare Machiavelli come un autore ‘repubblicano’. Ma questo — pace Pocock — non significa che la sua teoria sia di ispirazione aristotelica, né che presenti la politica come l’espressione del fine etico dell’uomo o la partecipazione come un dovere, né che condivida una visione organicistica del bene comune. Prendere sul serio il reXIX
pubblicanesimo di Machiavelli significa portare alla luce distinzioni e contrapposizioni che attraversano gli autori repubblicani della prima modernità: differenti concezioni della politica, declinazioni diverse del valore della libertà, valutazioni opposte del rapporto fra ordine e conflitto. È proprio su quest’ultimo punto che il pensiero politico di Machiavelli si staglia con tutta la sua carica innovativa: Machiavelli, per primo, ha elaborato l’idea che in determinate condizioni il conflitto politico non solo non porta la repubblica alla dissoluzione, ma, in quanto costituisce la via di accesso del ‘popolo’ alla politica, produce l’innovazione istituzionale, sviluppa la libertà civile, incrementa la potenza collettiva del corpo politico. In questo lavoro ho cercato di utilizzare la teoria machiavelliana del conflitto, ripresa e sviluppata da alcuni — ma solo da alcuni — suoi eredi teorici, in qualità di catalizzatore interpretativo per mostrare come alcuni concetti e alcune intuizioni del repubblicanesimo possano essere ripresi e sviluppati. Dopo avere presentato in una breve rassegna alcuni tentativi di attualizzazione del repubblicanesimo e avere discusso brevemente le differenziazioni, le articolazioni, le linee di frattura che
attraversano questa tradizione (cap. 1) cercherò di far reagire questa analisi con alcuni specifici temi teorico-politici e filosofico-giuridici. In primo luogo affronterò il tema dell’identità collettiva e del rapporto fra appartenenza alla comunità politica e cittadinanza sociale: un tema cruciale nell’epoca delle migrazioni, del revival etnonazionalisti-
co, della ridefinzione dei confini giuridici, politici e simbolici interni ed esterni alle comunità politiche. Sosterrò la tesi che le argomentazioni filosofico-politiche elaborate dai comunitaristi e dai liberali si rivelano insufficienti per un'adeguata comprensione dei processi di inclusione ed esclusione, di formazione dell’identità collettiva: l’analisi del tema dell’appartenenza coinvolge approcci etnografici, storici, economici, sociologici. A questo proposito, mentre l’interpretazione
comunitarista del repubblicanesimo propone un’idea dell’appartenenza come obbligo etico, che risulta inadeguata di fronte alle ‘società del rischio’ investite dalla globalizzazione, la versione ‘machiavelliana’
del repubblicanesimo offre importanti contributi sia sul piano analitico che sul piano normativo. Il conflitto sociale, a determinate condizioni, può essere visto come un fattore di riconoscimento reciproco e
dunque di integrazione nella cittadinanza. L'appartenenza, d’altronde, non va intesa come il risultato di un’eredità, né come l’esito della
spontanea identificazione ‘costitutiva’ dei cittadini con l’etbos comune (più o meno autentico, più o meno imposto). La comunità politica
è una costruzione artificiale, prodotta attraverso scelte politiche conXX
sapevoli. La cittadinanza è il risultato di una dialettica fra la rivendicazione dei diritti e l'affermazione degli interessi, da un lato, la costri-
zione delle norme e la condivisione dei principi politico-giuridici, dall’altro. Ma se va delineata in termini politico-giuridici, di diritti e di doveri, ed esclude l’imposizione di una visione morale egemone, la cit-
tadinanza repubblicana non rimanda ad un codice normativo universale è la Habermas: esprime una forma di lealtà democratica ad una particolare, definita, comunità politica, per quanto compatibile con identificazioni e fedeltà che si collocano su altri livelli (cap. 2). La nozione di cittadinanza rimanda immediatamente al tema dei diritti soggettivi. Il linguaggio dei diritti è uno degli idiomi più parlati nel dibattito politico-giuridico della globalizzazione: le guerre ‘imperiali’ sono giustificate in nome dei diritti umani, gli attori giuridici della globalizzazione ricorrono ampiamente alla figura deontica del diritto soggettivo in virtù della sua flessibilità, e d’altra parte gli oppositori del neoliberismo invocano una globalizzazione dei diritti. Ma gli interpreti contemporanei più accreditati del repubblicanesimo tendono non solo a criticare le teorie universaliste r/ghts-based e l’idea che i diritti costituiscano un dato prepolitico, ma anche a presentare il repubblicanesimo come un linguaggio dei doveri. Per valutare queste tesi occorre articolarle. Da una parte, la critica dell’universalismo e dell’idea che sia possibile fondare i diritti, per così dire, a priori rispetto alle pratiche politiche e ai processi sociali è convincente. D’altra parte, un abbandono del linguaggio dei diritti ci priverebbe di un prezioso lascito del discorso giuridico della modernità: uno strumento che si è rivelato estremamente duttile per l’espressione di valori, interessi, rivendicazioni e per elaborare tecniche giuridiche finalizzate alla difesa degli individui dai poteri pubblici e dai domini privati. Un linguaggio che, in virtù della sua adattabilità e della sua duttilità, sembrerebbe adeguato proprio nell’epoca della giuridicità fluida, privatizzata, di debole prescrittività. Ma questo abbandono non è una scelta obbligata: si può delineare un approccio che riproponga il nesso fra conflittualismo ‘machiavelliano’ e linguaggio dei diritti sviluppato da pensatori come Algernon Sidney, Baruch Spinoza e Adam Ferguson. Da un lato l’origine dei diritti ha a che fare con la mobilitazione, la rivendicazione, il conflitto sociale; dall’altro lato sono la rivendicazione,
la mobilitazione attiva, il claizzing a conferire alla figura deontica del diritto soggettivo quell’eccedenza semantica e simbolica che la contraddistingue rispetto a nozioni come obbligo o dovere (cap. 3). Le visioni neorepubblicane connettono la preminenza dei doveri con una visione ‘deliberativa’ della politica e più specificamente della XXI
democrazia, che rimanda ad una concezione della libertà come non-do-
minio. I neorepubblicani tentano infatti di prendere le distanze dalla concezione della politica diffusa nella sociologia e nella politologia novecentesca, in termini di lotta per il potere o di ‘allocazione imperativa dei valori’. Ne risulta una sorta di schema unilineare: ad un estremo sta una visione della politica come prassi comunicativa, intesa al raggiungimento del bene comune o della giustizia, e all’altro una concezione economicistica. Cercherò di mostrare che dal repubblicanesimo protomoderno, e in particolare dal pensiero di Machiavelli, possono invece essere ricavate indicazioni per delineare una concezione della politica che riconosca lo spazio dei sentimenti, dei principi, delle passioni, ma che d’altra parte metta in luce la relativa autonomia della politica dalla morale e individui specifici valori politici distinti dai valori morali. La ricerca dei neorepubblicani sulla libertà come non-dominio apre peraltro un importante spazio teorico fra la concezione ‘positiva’ della libertà, erede della tradizione classica, e la concezione ‘negativa’,
elaborata da Hobbes e fatta propria dal liberalismo moderno. Nell’epoca della globalizzazione una nozione puramente ‘negativa’ della libertà rischia di scivolare in un’apologia dei processi economici in corso, mentre una concezione puramente ‘positiva’ della libertà come esercizio dell’autogoverno rischia di risultare velleitaria. L'ideale del non-dominio definisce un obiettivo ambizioso e una responsabilità politica di grande rilievo; tuttavia è fuorviante vederlo — come fa Pettit — nei termini di un ideale onnicomprensivo, in grado di contenere al suo interno anche valori come l’eguaglianza o la sicurezza. L’epoca contemporanea esalta il politeismo morale e richiede l’impegno nel bilanciamento fra i valori, se non la responsabilità della scelta fra principi incompatibili. La concezione deliberativa della democrazia ha influenzato il tentativo, intrapreso da Habermas, di ‘proceduralizzare’ il principio di sovranità popolare e l’identificazione, da parte di Pettit, dell’autogoverno con la contestability delle istituzioni politiche. Alla luce di tali proposte è possibile sviluppare la critica delle concezioni elitistico-democratiche del Novecento e tentare la costruzione di una teoria postrappresentativa della democrazia. Un più puntuale riferimento al repubblicanesimo conflittualista dovrebbe permettere di insistere sul ruolo vitale che i processi comunicativi, le agenzie della società civile, igruppi che si impegnano nella rivendicazione svolgono nello scenario della politica contemporanea. Tale riferimento dovrebbe in particolare suggerire che solo considerando i processi politici e le istituzioni ex parte populi è possibile qualificarli come ‘democratici’: l’esistenza di XXII
procedure elettorali aperte e di una competizione fra partiti formalmente libera è una condizione necessaria, ma non sufficiente, della democrazia (cap. 4). Questa enfasi sulle pratiche rivendicative e sull’attivismo sociale
non implica la recisione di quel nesso fra principio del rule of law e principio della sovranità popolare che sembra essersi prodotto nei sistemi costituzionali del Novecento. Nell’interpretazione del contributo offerto dalla tradizione repubblicana alla genealogia dello Stato di diritto occorre evitare di generalizzare il modello aristotelico: in esso il ‘governo della legge’ è declinato in termini di moderazione ed implica la critica della democrazia come forma degenerata di ‘governo degli uomini”. D’altra parte occorre anche non enfatizzare eccessivamente il principio dell’autogoverno a discapito del riconoscimento di una serie di diritti costituzionali ‘indisponibili’ alle maggioranze. Anche su questo aspetto ci si può riferire al repubblicanesimo machiavelliano per tratteggiare alcuni elementi di una nozione di Stato di diritto che si coniuga con la concezione rivendicativa dei diritti e con la concezione postrappresentativa della democrazia: lo Stato di diritto rappresenta il quadro istituzionale della ‘lotta per i diritti’; permette al conflitto di svolgersi entro un perimetro di regole e di garanzie e dunque di attuarsi in forme ‘virtuose’ che favoriscono l’innovazione istituzionale e permettono al popolo di esprimere i propri interessi. D’altra parte, se si deve prendere congedo dalla nozione classica della sovranità popolare e della rappresentanza, la diffusione e l’articolazione del potere e l’esistenza di una serie di vincoli giuridici al principio maggioritario divengono un elemento costituivo della democrazia (cap. 5). 6. Alla ricerca di un ‘realismo repubblicano’ Queste indicazioni ron permettono di elaborare una proposta sistematica, una ‘teoria repubblicana’ dei valori politici, delle forme istituzionali, dei principi normativi. Anche su questo punto il riferimento all’approccio di Machiavelli può essere d’aiuto: piuttosto che costruire una teoria normativa sistematica Machiavelli ha ricercato nelle tradizioni politiche a cui si è ispirato, a cominciare da quelle che ritrovava negli autori repubblicani romani, concetti e linguaggi tali da consentirgli di affrontare problemi del suo tempo. Tuttavia è forse possibile ricollegare alcuni degli elementi dell’analisi che proporremo nei capitoli del libro in modo da offrire un qualche quadro di insieme. L’idea di fondo è appunto che dovrebbe essere ‘presa sul serio”, XXIII
nella sua novità e nella sua radicalità, la teoria machiavelliana del con-
flitto. È sulla base di una valutazione degli effetti virtuosi che determinate forme di conflitto politico hanno prodotto nella repubblica romana che Machiavelli ha introdotto un’istanza democratica nella storia del pensiero politico. Machiavelli è forse il primo autore occidentale, dopo la reazione platonico-aristotelica alla filosofia dei sofisti, a
non considerare la democrazia, il ‘governo popolare’ come una forma politica degenerata. D'altronde Machiavelli rinuncia a tracciare disegni dell’‘ottima repubblica’. Insiste piuttosto sui modi in cui il governo popolare si realizza attraverso l'attivazione delle rivendicazioni, la difesa della libertà, l'apertura delle istituzioni alle sollecitazioni che provengono ‘dal basso’. Questa istanza democratica si collega ad un’antropologia politica egualitaria: contro la tesi che le diverse componenti della cittadinanza sono caratterizzate da capacità differenti, e in particolare contro l’idea che solo ‘chi è atto’, solo l’élite dei ‘migliori’ è in grado di discernere le alternative, di elaborare i principi, di soppesare gli interessi, Machiavelli attribuisce al ‘popolo’ piene facoltà deliberative, nella convinzione che la moltitudine è ‘più savia e più costante’ del principe. Ma tutto questo si connette strettamente con l’analisi delle condizioni attraverso le quali il popolo si forma, definisce i suoi interessi, assume il suo ruolo sociale, diviene soggetto politico. E fra queste condizioni l’essere il popolo ‘incatenato dalle leggi’ assume un rilievo preminente. A sua volta, l'istanza ‘popolare’ e conflittualistica si ricollega al principio del ‘governo della legge’ e all’esigenza di un’articolazione costituzionale di controlli, contrappesi e contropoteri. In Machiavelli non c'è alcuna esaltazione della spontaneità immediata e del ribellismo. C’è anzi — come dimostrano molti capitoli dei Discorsi e buona parte delle Istorie fiorentine — la consapevolezza del pericolo che il popolo venga strumentalizzato da singoli e gruppi interessati ad affermare il loro potere particolare sopra e contro gli ‘umori’ della cittadinanza. Sulla soglia della modernità, in una fase cruciale per la successiva evoluzione delle istituzioni politiche, Machiavelli indica un possibile percorso di uscita dalla crisi politica del suo tempo. Come è noto, la storia europea ha preso un’altra direzione: le esperienze repubblicane, vitali fin nel XVII secolo, sono state sconfitte, da Firenze ai Paesi Bas-
si, all’Inghilterra. La forma politica dominante della modernità sarà lo Stato nazionale, monarchico e accentrato, che svilupperà un suo apparato amministrativo e costituirà lo spazio istituzionale per la ‘costruzione’ dei mercati capitalistici e per la rivoluzione industriale. Ma, come ho sottolineato, non pochi segnali inducono a pensare che la faXXIV
se avviata con la prima modernità stia oggi per esaurirsi. È probabilmente azzardato ipotizzare che lo Stato sia in via di estinzione, ma il suo ruolo, le sue funzioni, il suo rapporto con il sistema economico, la sua capacità di emanare norme, di produrre diritto e di agire nel quadro del diritto si vanno radicalmente modificando. La constatazione che nel laboratorio teorico che ha preceduto e accompagnato la formazione dello Stato e della politica moderna siano presenti indicazioni, concetti e sentieri interrotti, potrebbe essere allora qualcosa di più che una suggestione intellettuale. Il repubblicanesimo di Machiavelli e dei suoi interpreti ‘conflittualisti’, insomma, potrebbe contribuire ad orientare l’analisi dei processi politici e delle istituzioni giuridiche della globalizzazione. Potrebbe suggerire, ad esempio, di condurre una ricerca sulle possibili linee di frattura che attraversano il quadro estremamente complesso dei rapporti sociali e politici globali. Spingerebbe ad indagare se e in che modo si definiscono ‘umori’ contrapposti, all’interno delle singole cittadinanze e a livello transnazionale (ho già segnalato come embrioni di opinione pubblica, se non di ‘società civile’, globale siano emersi in relazione a determinate sfide economico-politiche, a definiti contrasti su temi specifici). A partire da questa analisi ci si potrebbe interrogare sulle possibili forme istituzionali che si potrebbero costruire, non per realizzare un utopistico governo del mondo ma per mantenere relativamente ‘permeabili’ i luoghi della formazione delle decisioni alle istanze ex parte multitudinis. Nell’epoca della globalizzazione, la democrazia non può che essere ‘postrappresentativa’: consumata la discussione sui paradossi della rappresentanza, sul deficit di pluralismo nell’offerta politica e sui processi di produzione del consenso, sono evidenti i limiti delle soluzioni puramente proceduralistiche; per qualificare come ‘democratico’ un sistema è necessaria una particolare qualità della domanda politica, occorre che la società eserciti un ‘assedio’ sulle istituzioni. Questo significa anche che nell’epoca contemporanea la democrazia non può che essere ‘postpartecipativa’. Il che non solo non esclude, ma anzi richiede, l'elaborazione e la garanzia di forme istituzionali e di vincoli giuridici — a livello locale, nazionale, re-
gionale e internazionale — che permettano di difendere la complessità sociale, istituzionale e culturale, riducano i rischi della violenza e del-
la guerra, tengano in vita controlli e contrappesi a garanzia della libertà. Una concezione della libertà adeguata all’epoca della globalizzazione non può che includere elementi ‘positivi’ — ricollegabili alla nozione di autonomia — e ‘negativi’ e rimanda al compito ambizioso della tutela degli individui dalle forme pubbliche e private di dominio. XXV
Si tratta di cogliere nei processi in corso quegli spazi, grandi e piccoli, che si offrono per lo sviluppo della libertà, per la ricostruzione della democrazia, per la tutela dei diritti, per un minimo di equità nell’allocazione delle risorse e nella distribuzione degli oneri. Il pensiero repubblicano romano si è confrontato con la crisi della repubblica e ha cercato di mantenere in vita, fin nell'epoca di affermazione del principato, l'ideale della libertà e dell’autogoverno. Qualcosa del genere è avvenuto con il repubblicanesimo protomoderno. Il corso della storia ha fatto conoscere nel primo caso il dispotismo monocratico e nel secondo l’ordine postwestfaliano degli Stati sovrani. Oggi i fronti di resistenza, le mobilitazioni, gli esperimenti ‘repubblicani’ potrebbero essere travolti dall’affermazione di un nuovo ordine ‘imperiale’. Un ordine che potrebbe coniugare, in forme inedite, Stati deboli e sovranità forti, autonormazione del mercato e politiche egemoniche di potenza inaudita, magari in competizione con alcuni regimi fondamentalistici o con un nuovo ‘celeste impero’. La possibilità di mantenere — attraverso una loro inevitabile trasformazione — spazi ‘pubblici’ e autenticamente ‘politici’ di deliberazione e socializzazione delle decisioni e le possibilità di controllo ‘dal basso’ dipenderà dai processi in corso e dal modo in cui si svilupperanno le controtendenze e i contropoteri possibili. Non è certo il caso di scrivere ‘satire politiche’ o ‘ricette per l’osteria dell’avvenire’. Non per questo si deve ritenere irrilevante l’esigenza di mantenere aperta una ricerca teorica, di sperimentare approcci inediti o di recuperare dall’eredità del passato modi differenti di guardare agli eventi. Per prevenire il rischio di cadere nel velleitarismo, queste linee di ricerca dovrebbero trovare il loro complemento metodologico in un approccio alla politica e al diritto che proporrei di definire ‘realismo repubblicano”. Il lavoro di scavo alle radici del pensiero politico moderno può portare alla luce modi di concepire la politica che non si identificano né con la sua eticizzazione alla ricerca del bene comune — ereditata dalle etiche pubbliche contemporanee — né con l’elaborazione della ‘ragion di Stato” — ereditata dalla scienza politica empiristica. Il riconoscimento dell'autonomia funzionale della politica e l’individuazione di specifici valori politici che non collimano, e a volte con-
flisgono, con i valori morali, la tematizzazione della dimensione strategica della politica e della logica autonoma del potere, non implicano un atteggiamento conservatore. Criticare le scorciatoie ideologiche, ricercare la ‘verità effettuale’, tentare di cogliere la ‘qualità dei tempi”,
non significa negare la possibilità del mutamento, dell'intervento creaXXVI
tivo e ‘trasformatore’. Rifuggire l’“impotenza del dover essere’ non significa insomma abbandonarsi al dover essere dell’impotenza. Di fronte allo scenario complesso della società globalizzata, alle possibilità che apre, ai drammi e alle sofferenze che produce, giova a poco immaginarsi «repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero». È più raccomandabile un altro atteggiamento: impegnarsi per i valori e i principi, mostrarsi responsabili verso i sentimenti e le lealtà di cui avvertiamo l’urgenza, che possiamo amare ‘più della nostra anima’, significa cercare di affermarli nell’angusto spazio di possibilità che i processi in atto e le condizioni date aprono, assumendosene l’onere e il rischio.
In alcune parti di questo libro ho rielaborato testi già pubblicati. In particolare, l'articolo «Che fare del repubblicanesimo?» (Filosofia e questioni pubbliche, V, 2000, 1-2) è stato utilizzato per il capitolo 1; alcuni passi di Crttadinanza e appartenenza (in D. Zolo, a cura di, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994), di «Esodo e tribalismo» (Iride,
VIII, 1995, 15) e di «Le ragioni dell’appartenenza» (Teoria politica, XII, 1996, 3) sono stati inseriti nel capitolo 2; alcune parti dei saggi Citizenship between Universalism and Particularism (in G.M. Cazzaniga, Y.C. Zarka, a
cura di, Penser la souveraineté à l’époque moderne et contemporaine, Vrin, Paris/Ets, Pisa 2001) e di Diritti fondamentali: i rischi dell’universalismo (in T. Mazzarese, a cura di, Neocostituzionalismo e tutela (sovra)nazionale dei di-
ritti fondamentali, Giappichelli, Torino 2002) sono state rielaborate nel capitolo 3; la recensione a M. Viroli, From Politics to Reason of State (Filosofia politica, VIII, 1994, 1), gli articoli «Virtù repubblicane e democrazia moderna» (Teoria politica, XVI, 2000, 1), «Libertà e conflitto» (Iride, XIV,
2001, 33) sono stati parzialmente utilizzati nel capitolo 4; la seconda parte del saggio Machiavelli, la tradizione repubblicana e lo Stato di diritto (in P. Costa, D. Zolo, a cura di, Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica,
© Gian-
giacomo Feltrinelli Editore, Milano 2002) è utilizzato nel capitolo 5; una versione inglese più ampia del paragrafo 2.4 è in corso di pubblicazione in R. Bellamy, D. Castiglione, E. Santoro (a cura di), Lineages of European Citizenship, Palgrave, London. Ringrazio gli editori e i curatori dei volumi per aver autorizzato la pubblicazione. Ringraziamenti
Sono stato incoraggiato a scrivere questo libro da Geminello Preterossi, cui sono debitore di utili suggerimenti sia sul piano scientifico che su quello editoriale. Molte parti del testo sono state presentate e XXVII
discusse in seminari, convegni e dibattiti. Nell’impossibilità di ringraziare tutti coloro che mi hanno assistito con le loro critiche e i loro suggerimenti, ricordo almeno Richard Bellamy, Dario Castiglione, Alessandro Ferrara, Luigi Ferrajoli, Marco Geuna, Tecla Mazzarese, Pier Paolo Portinaro, Massimo Rosati, Nadia Urbinati, Gianfrancesco Za-
netti e i redattori e i collaboratori di Jura Gentium. Center for Philosophy of International Law and Global Politics (http://dex1.tsd. unifi.it/juragentium), in particolare Emilio Santoro, Francesco Paolo Vertova, Brunella Casalini, Paola Persano, Pietro Costa, Lorenzo Mi-
lazzo. Stimoli preziosi mi sono venuti anche dai colleghi e dagli allievi del dottorato di ricerca in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali, coordinato da Alessando Pizzorusso presso il dipartimento di Diritto pubblico dell’Università di Pisa. Lavorare in dipartimento accanto a Eugenio Ripepe ha significato per me una continua sollecita-
zione intellettuale. A Eugenio Ripepe devo un ringraziamento ulteriore per l’accurata lettura del manoscritto, e per questo ringrazio anche Filippo Del Lucchese, Tommaso Greco e Thomas Casadei. Come sempre, ringrazio Danilo Zolo, maestro di realismo politico, di rigore teorico e di impegno civile. Questo è il libro di Valeria. Lucca, marzo 2003
Critica del repubblicanesimo
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Capitolo primo
La tradizione repubblicana: differenziazioni e interpretazioni
La ricerca storiografica intorno alla tradizione repubblicana nel pensiero politico e giuridico della prima modernità può essere presentata come la scoperta, o la riscoperta, di un intero continente teorico. Gli studiosi dell’‘umanesimo civico’ nella Firenze del Quattrocento e del
Cinquecento avevano, fin dall’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso, rilevato la persistenza di un linguaggio politico ‘repubblicano’ che utilizza parole-chiave come ‘fortuna’, ‘occasione’, ‘virtù’, ‘corru-
zione’, e ripropone il modello costituzionale del ‘governo misto’. Altri autori hanno poi segnalato l'influenza del linguaggio politico repubblicano, e in particolare del pensiero di Machiavelli, nel dibattito pubblico inglese e britannico del Seicento e del Settecento. Ma soprattutto si è assistito ad una svolta interpretativa nel dibattito storiografico sulla Rivoluzione americana: l’immagine tradizionale di una rivoluzione ‘liberale’, ispirata all’individualismo contrattualistico e alla teoria dei diritti naturali è stata rovesciata. Alla ricostruzione di questa tradizione hanno contribuito storici come Hans Baron, Bernard Baylin, Felix Gilbert, Zera S. Fink, Gordon Wood, Gerald Stourzh!. Ma è solo con The Machiavellian Moment di
John Pocock che è stato elaborato un vero e proprio nuovo paradigma interpretativo. Attraverso una ricostruzione che attribuisce un ruolo chiave all’opera diJames Harrington, Pocock stabilisce una linea di continuità dall’umanesimo civile al dibattito sulla Costituzione federale. Per Pocock, infatti, gli autori che utilizzano il linguaggio della repubblica sono ascrivibili ad una comune matrice filosofica e condividono la teoria istituzionale del governo misto. Il repubblicanesimo viene interpretato da Pocock come un paradigma politico alternativo a quello del giusnaturalismo contrattualistico; la riscoperta di tale paradigma offre, nell’ottica di Pocock, una chiave di accesso alla moder-
nità alternativa sia alle letture di ispirazione marxista, sia all’influente ricostruzione, dai toni apocalittici, proposta da Leo Strauss.
L’opera di Pocock ha segnato la storiografia del pensiero politico degli ultimi decenni: le profonde opere di ‘revisione’ nell’interpretazione di autori-chiave della modernità — da Locke ad Adam Smith, a Rousseau? — che si sono susseguite nel recente passato non sarebbero comprensibili prescindendo dal suo lavoro. La ricerca di Pocock si configura come l’invenzione di una tradizione. Uso qui ‘invenzione’ in senso etimologico, nelle due accezioni dello ‘scoprire’ testi, autori, opere e concetti trascurati dallo storiografia mainstream, e del ‘costruire’ un paradigma interpretativo nuovo e originale. Da questo pun-
to di vista non mi sembra esagerato paragonare il lavoro di Pocock a quello di Jean Barbeyrac che nel Settecento, con la sua introduzione alla traduzione francese del De iure naturae et gentium di Pufendorf, ha costruito il modello giusnaturalistico-contrattualistico della filosofia politica e giuridica moderna, attribuendone la paternità a Grozio e stabilendo ascendenze e filiazioni. Nell’interpretazione di Pocock una delle chiavi di accesso alla teoria repubblicana è l’opposizione virtù-corruzione. La concezione della storia che permea il pensiero politico repubblicano è infatti ricostruita utilizzando quello che potremmo definire come il secondo principio di una sorta di termodinamica morale. L’idea di fondo è che la ‘materia’ dello Stato si trova soggetta ad un processo ineluttabile di progressiva corruzione. La virtù civica — declinata nei termini della dedizione al bene comune e del valore militare — è la forza che si oppone a questo processo entropico. La ‘forma’ di governo repubblicana, che Pocock interpreta esplicitamente come una riattualizzazione della polis aristotelica attraverso il modello del ‘governo misto’, è la condizione istituzionale che permette alla virtù di consolidarsi e di espandersi efficacemente. Virtù e ordine istituzionale rimandano l’una all’altro: la ‘forma’ repubblicana è la condizione per l’affermazione e il mantenimento della virtù. Per contro solo se la ‘materia’ umana è virtuosa, o non totalmente corrotta, è possibile che la repubblica si ‘man-
tenga’. Oltre un certo grado di corruzione gli argini istituzionali sono insufficienti. Più specificamente, sostiene Pocock, la citizensbip — la ‘partecipazione’ nel linguaggio di Guicciardini — trasforma la natura del cittadino in quanto la riconduce alla sua natura originaria di 2067 politikén: «se l’essere cittadino o animale politico costituiva il fine dell’uomo, era la sua natura originaria o pria forma che veniva sviluppata, e sviluppata irreversibilmente, dall’esperienza del vivere civile». La citizenship repubblicana, intesa come diretta partecipazione al governo, trasforma il cittadino in quanto lo riconduce alla sua natura originaria di
zoòn politik6n. È evidente che questa interpretazione di Pocock riposa su una specifica premessa: i teorici repubblicani condividono la tesi dell’etica aristotelica secondo la quale l’uomo è zoòr politikòn e la polis la condizione necessaria dell’ey zen. È in questo senso che nella repubblica la virtù «sviluppa il grezzo materiale umano che la costituisce verso quella vita politica che è il fine dell’uomo»4. Ma la repubblica è una struttura di virtù anche in un altro senso: in essa ogni cittadino si impegna a perseguire il bene comune prima del proprio, e «la virtù di ciascun uomo salva quella di ogni altro dalla corruzione»?. Nella lettura di Pocock, dunque, le idee-chiave della tradizione re-
pubblicana non sono che una riformulazione di fondamentali concetti aristotelici. E questo vale sia per il modello istituzionale del governo misto, sia per l'antropologia politica dello zo6r politikòn, sia infine per l'etica teleologica e per l’idea che la politica realizza il fine della vita umana. La ricerca più recente ha mostrato come il linguaggio politico repubblicano sia stato utilizzato in contesti e autori che non rientrano nella ture! history di Pocock: dalla letteratura retorica nell’epoca dei comuni italiani all’umanesimo inglese, all’elaborazione teorica che ha accompagnato l’esperienza repubblicana dei Paesi Bassi, alla letteratura politica italiana del XVII e XVIII secolo, all’illuminismo francese, al pensiero politico inglese dell’Ottocento$. La riscoperta della tradizione repubblicana arricchisce insomma la nostra consapevolezza storiografica, offrendoci un quadro più articolato della formazione della cultura giuridica e politica occidentale moderna. In questo capitolo discuteremo una serie di recenti tentativi rivolti a ‘utilizzare’ i risultati dell’operazione storiografica avviata da Pocock e i concetti del linguaggio politico repubblicano nella teoria giuridica e politica.
1.1. Attualizzazioni del repubblicanesimo: comunitarismo, diritto costituzionale, teoria del discorso
La ricerca di Pocock si ispira ad un’opzione contestualista, tipica della cosiddetta Cambridge School di storia del pensiero politico. Pocock, come anche, pur con sfumature differenti, John Dunn, Quentin
Skinner e i loro allievi, concepisce la storia del pensiero politico come ricerca intorno al significato che determinati concetti hanno assunto nel contesto linguistico e nelle ‘forme di vita’ in cui sono stati adoperati?. Ne deriva un atteggiamento fortemente critico verso la tendenza - diffusa in molta storia delle idee — ad estrapolare anacronisticamen-
te i concetti dal loro contesto e ad attribuire ad essi un significato atemporale. Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso si è assistito ad una vera e propria escalation dei tentativi di attualizzare concetti e principi ereditati dalla tradizione repubblicana. 1.1.1. Alcuni dei più importanti teorici politici communitarian si sono riferiti al repubblicanesimo per tradurre le loro tesi sulla coesione sociale e sullo sviluppo dell’identità personale —la loro critica dell’‘atomismo liberale’ e dell’‘io senza vincoli’ — in proposta teorico-politica. Charles Taylor, ad esempio, ha sostenuto che l’individualismo liberale non permette di interpretare adeguatamente le modalità della coesione sociale; nella sua ottica questo significa che alcune tesi che egli considera tipiche della tradizione repubblicana — la nozione ‘positiva’ di libertà come exercise-concept, come controllo collettivo sulla vita comune8, l'attribuzione di un peculiare valore alla solidarietà che presuppone la «sensazione di un bene comune immediato condiviso»?, un’interpretazione del legame sociale nel senso della philia aristotelica — mantengono la loro validità. Taylor sostiene che la condizione essenziale di un regime libero è che i cittadini siano impegnati per il bene comune e la libertà generale, condividendo una forma di ‘patriottismo”. La tesi di Taylor è che le «varie fonti atomistiche di lealtà» sono insufficienti per difendere la libertà dalle minacce del dispotismo. Quando il bene comune della libertà è a repentaglio non sono né le considerazioni di interesse né la dedizione ai principi della democrazia liberale a suscitare lo sdegno e la reazione dei cittadini. Si reagisce perché si sente minacciata «una identità e una storia comune, definita dalla fedeltà a certi ideali»!°. Inoltre, per Taylor il fatto che l’Io si formi all’interno di un determinato contesto sociale e attraverso le sue relazioni comunicative implica un obligation to belong alla comunità!!. Analogamente, per Alasdair MacIntyre la fedeltà alla nazione, vista come il risultato di una storia passata e interpretata come un progetto,
comporta un impegno patriottico che va al di là della condivisione della politica del governo. Il patriottismo costituisce così una risorsa necessaria per la sopravvivenza di una società: ai militari si richiede non solo la disponibilità a sacrificare le proprie vite ma anche di rinunciare a mettere in discussione la politica del loro paese: i ‘bravi soldati” non possono essere liberali!2, Il tentativo più sviluppato di elaborare una critica repubblicanocomunitaristica della filosofia politica liberale è forse contenuto nel volume Derzocracy’s Discontent di Michael Sandel. Sandel considera il repubblicanesimo come l’espressione teorica dell’originaria esperien-
za pubblica americana, e lo ricostruisce come una teoria politica ben definita da concetti-chiave come partecipazione, bene comune, senso di appartenenza, legame morale con la comunità, virtù civica, Un’ulteriore tesi di Sandel è che nel corso della storia degli Stati Uniti ha gradualmente guadagnato spazio una concezione differente, che ha finito per divenire egemone: il ‘liberalismo procedurale?!4, che costituisce di fatto la filosofia implicita della politica americana contemporanea. Il liberalismo procedurale si caratterizza per la priorità del ‘giusto [right] sul ‘bene [good] (e dei diritti soggettivi [rights] sui fini sociali) e dunque per l’idea della neutralità dello Stato rispetto alle differenti concezioni del bene. Tutto ciò rimanda ad un’implicita antropologia morale: l’idea del soggetto come ‘io senza vincoli’ [uzencurmbered self) che non ha obblighi nei confronti di quei fini che egli non ha scelto volontariamente. Ben lontana dall’affermare la priorità del right sul good, la teoria politica repubblicana propugna invece per Sandel «a politics of the common good», che non deve essere inteso come un’aggregazione delle preferenze individuali date, secondo la nozione utilitaristica. La politica repubblicana «cerca piuttosto di coltivare nei cittadini le qualità caratteriali necessarie a perseguire il bene comune dell’autogoverno». In questo senso ha di mira l'identità dei cittadini, non solo i loro interessi. Inoltre la politica repubblicana afferma una nozione di libertà differente da quella liberale. Laddove per i liberali, sulla scia della concezione elaborata da Hobbes e teorizzata da Berlin in termini di ‘libertà negativa’, la libertà è definita in opposizione alla democrazia, come «a constraint of self-government»!, per i repubblicani «la libertà
è concepita come una conseguenza dell’autogoverno. Io sono libero nella misura in cui sono membro di una comunità politica che controlla il proprio destino e partecipo alle decisioni che governano i suoi affari»!6,
Sandel argomenta queste tesi attraverso una ricostruzione dei modi in cui il liberalismo procedurale si è affermato in due ambiti-chiave dell’esperienza pubblica americana: il diritto costituzionale e l’economia politica. Nel primo ambito, Sandel rileva un progressivo scivolamento da un costituzionalismo fondato sull’idea repubblicana della diffusione e articolazione del potere ad una visione incentrata sulla nozione dei diritti come tru72ps (cfr. infra, par. 3.2) e sull'idea della neutralità dello Stato rispetto alle differenti concezioni del bene. Riguardo al secondo ambito, Sandel sostiene che nell’epoca della fondazio-
ne e del consolidamento degli Stati Uniti le scelte di politica economica venivano motivate alla luce dei principi repubblicani. Solo alla fine
degli anni Trenta del Novecento la political economy of citizenship è stata abbandonata: l’agenda politica ha finito per cancellare le questioni relative alla struttura dell’economia e alla tutela della partecipazione democratica, per esaurirsi sui temi macroeconomici della cresci-
ta del reddito e della sua redistribuzione. L’egemonia della politica economica keynesiana ha così rappresentato il complemento ideale del liberalismo procedurale, permettendo di evitare le scelte che richiedono un impegno etico e dunque di ottenere maggiore consenso. Nonostante il suo successo, tuttavia, rileva Sandel, il liberalismo procedurale mostra debolezze teoriche e «non può fondare il tipo di comunità politica e di impegno civico necessari per il mantenimento della libertà»!?. In particolare la nozione urencumbered del soggetto è inadeguata a rendere conto del significato della nostra esperienza morale, intessuta di obblighi e legami civili, politici e morali cui attribuiamo valore senza fare riferimento ad una scelta consapevole. Fra questi Sandel include gli ‘obblighi della solidarietà’ e i ‘doveri religiosi’, da un lato, e gli ‘obblighi di appartenenza’ che dipendono dal fatto che comprendiamo noi stessi come membri di una specifica comunità familiare, cittadina, nazionale e come eredi di una determinata vicenda storica, dall’altro!8, La diffusa versione ‘minimalista’ del liberalismo si fonda sull’errato presupposto che sia possibile adottare una posizione di tolleranza prescindendo dal giudizio sul valore morale delle pratiche tollerate. Ma, «se non altro quando sono in gioco questioni morali fondamentali» — si pensi all’aborto, alla schiavitù o al razzismo — «non è possibile che la politica ed il diritto prescindano da giu-
dizi morali sostantivi»!9. Nel secondo dopoguerra, sostiene Sandel, per un lungo periodo i cittadini americani non sembravano essersi resi conto che l’affermazione del liberalismo procedurale e della politica economica keynesiana comporta una secca perdita di libertà in termini di autogoverno: per decenni si sono cullati nella sensazione di possedere un potere prometeico di dominio sulla natura e il governo del pianeta. Ma con la fine degli anni Sessanta la sensazione collettiva di rz4stery lascia il posto a un malessere collettivo. Per farvi fronte Sandel propone di rivitalizzare la tradizione repubblicana. Le difficoltà che un progetto di questo tipo incontra?9, egli sostiene, sono assai meno gravi di quelle che deve affrontare il liberalismo procedurale?!, Non a caso, rileva Sandel, negli anni Ottanta e Novanta nel dibattito pubblico americano sono tornate a circolare tesi di ispirazione repubblicana??. È evidente lo sforzo di replicare ad alcune critiche che sono state poste alle tesi dei comunitaristi in un dibattito ormai pluridecennale.
Non è vero, sembra dirci Sandel, che la filosofia politica ‘repubblicana’ (nell’accezione che egli usa del concetto) sia adeguata solo a piccole comunità organiche, fortemente integrate, che non conoscono il pluralismo ideologico e ignorano la complessità sociale. Né, egli sostiene, questa filosofia politica rimanda ad un'identità prefissata o a forme coercitive di educazione alla virtù civica. Ci si può tuttavia chiedere se Sandel replichi efficacemente alle obiezioni teoriche di fondo che sono state mosse al comunitarismo. Si deve riconoscere che le difficoltà incontrate dall’individualismo ‘atomistico’ nell’interpretare i processi di integrazione sociale e di formazione dell’ordine politico, come pure di formazione dell’identità individuale, sono state opportunamente messe in luce dai comunitaristi. Il problema è se le loro tesi normative siano sostenibili. Alla base di molte argomentazioni dei comunitaristi c'è un’inferenza di questo tipo: dato che l’individuo si forma nella comunità e che la comunità è qualcosa di più della somma dei suoi membri, l’individuo ha obblighi morali di appartenenza nei confronti della comunità stessa. Il passaggio dal piano analitico a quello normativo, dall’indagine antropologica alla prescrizione etica e al programma politico appare troppo sbri-
gativo. E altrettanto affrettato appare quello dalla critica dell’etica deontologica liberale alla legittimazione dell’etica teleologica del bene comune o dalla critica della neutralità liberale dello Stato all’idea aristotelica che il bene dei singoli si identifica col bene della comunità. Non c’e dubbio che la neutralità dello Stato sia difficilmente sostenibile: le politiche governative esprimono scelte di valore o, più frequentemente, interessi organizzati. Ma questo non significa necessa-
riamente che lo Stato persegua #/ bene comune. È assai più verosimile che persegua, nella migliore delle ipotesi, ur bene particolare. Obiezioni di questo tipo, che valgono in generale per l'approccio dei comunitaristi, potrebbero essere mosse a molti degli argomenti di Sandel. E a queste se ne potrebbero aggiungere alcune più specificamente riferite alla versione di repubblicanesimo comunitarista da lui proposta. Ad esempio, sono evidenti le sue simpatie per le concezioni
politiche di ispirazione etico-religiosa. Nella polemica contro la ‘neutralità’ liberale, Sandel sembra non attribuire particolare valore alla laicità dello Stato e delle istituzioni pubbliche, ma piuttosto considerare come un rischio la ‘messa fra parentesi’ della morale e della religione. Una posizione tutt'altro che straordinaria nel dibattito pubblico degli Stati Uniti, ma acclimatabile con qualche difficoltà nell’esperienza politico-costituzionale europea. Inoltre, non c'è dubbio che Sandel giochi su una certa ambivalenza politica. Egli polemizza contro il fonda-
mentalismo religioso ed evidenzia i tratti repubblicani nei programmi di alcuni politici progressisti — ad esempio di Robert Kennedy —, ma non esita a portare come testimonianza a favore delle sue tesi teoriche l’utilizzazione di concetti, posizioni e proposte politiche che ritiene ispirati alla tradizione repubblicana da parte di figure politicamente inquietanti come George Wallace. E non nasconde una sfumatura di delusione per il fatto che Ronald Reagan non abbia mantenuto la promessa di restaurare la 7z4stery americana. Del resto sarebbe arduo individuare nelle pagine di Sandel una presa di distanza rispetto alle forme di imperialismo e di nazionalismo aggressivo che hanno caratterizzato a più riprese la politica estera degli Stati Uniti. Soprattutto, Sandel ci restituisce un'immagine priva di sfumature, compatta e monolitica, della cittadinanza americana, senza affrontare un tema cruciale per il suo argomento: quello della sua progressiva articolazione multiculturale ad opera delle istanze e delle rivendicazioni dei gruppi che ne sono rimasti a lungo esclusi, a cominciare dai nativi americani e dagli afroamericani. Ciò non significa che il repubblicanesimo comunitarista rimandi necessariamente a posizioni politiche conservatrici. Il lessico repubblicano è stato ampiamente utilizzato in alcuni tentativi di riattualizzare una nozione partecipativa, dialogica, ‘forte’ di democrazia, da Carole Pate-
man a Benjamin Barber. Quest'ultimo, ad esempio, utilizza la tradizione repubblicana per interpretare la società civile come una sfera autonoma sia dal mercato che dallo Stato, entro la quale possono essere valorizzate le attività comunicative e sociali del ‘terzo settore’, le associa-
zioni, le forme di mutua solidarietà che permettono di ricostruire un tessuto sociale anche nelle aree più degradate delle metropoli. 1.1.2. Quello dei comunitaristi non è comunque l’unico tentativo di utilizzazione teorica del repubblicanesimo. Un gruppo di giuristi americani, fra cui spiccano Cass Sunstein e Frank Michelman, ha ripreso il repertorio concettuale della tradizione repubblicana per affrontare alcuni problemi di teoria costituzionale, intervenendo nella discussione sviluppata da autori come Ronald Dworkin, Bruce Ackerman, John Ely, Drucilla Cornell. Michelman parte da una premessa forte: il repubblicanesimo non va visto come un’opzione facoltativa, perché è radicato nella cultura giuridica americana. Come tale, è in grado di esprimere il nesso — tendenzialmente problematico — fra legalità e se/f-government, fra rule of law e democrazia in modo più adeguato, ad esempio, del modello di lauw-mzaking elaborato da Ackerman o della nozione di ‘integrità’ proposta da Dworkin. Michelman delinea un modello 10
interpretativo in cui il dibattito politico nell’opinione pubblica e le deliberazioni dei corpi legislativi sono integrati dalla giurisdizione costituzionale, che in determinati casi attua una machiavelliana ‘riduzione
ai principi’ e dunque si richiama ai valori fondanti della repubblica in un’interpretazione dinamica. La nozione di political jurisgenesis elaborata da Michelman è un significativo contributo alla teoria del diritto, in particolare riguardo al tema dei processi di formazione delle norme e dei principi giuridici. E di grande rilevo sono anche le tesi di Michelman sull’identità collettiva del ‘popolo’ e sui diritti soggettivi (cfr. infra, parr 22,32):
E opportuno sottolineare che Michelman introduce alcune differenziazioni all’interno della tradizione politico-giuridica cui fa riferimento: non considera l’eredità repubblicana come un unico blocco. Egli sostiene, a differenza di Pocock, che il dibattito teorico che ha preceduto e accompagnato la Rivoluzione americana e la redazione della Costituzione federale non è stato influenzato direttamente dalle tesi machiavelliano-aristoteliche di Harrington, ma piuttosto da una loro reinterpretazione, che configura un distinguishable strain del repubblicanesimo. Tale reinterpretazione ha costituito la base teorica dell’opposizione politica nella Gran Bretagna del XVIII secolo: sia dell’opposizione conservatrice ai governi sia di quella dei dissidenti radicali. In questo contesto il linguaggio repubblicano veniva utilizzato «allo scopo di tutelare quelli che vengono affermati come i tradizionali diritti, privilegi, beni e status dei sudditi»? e il bene comune veniva identificato con la difesa dei diritti fondamentali. Inoltre Michelman precisa che ‘ritornare ai principi’ non significa proporre un comunitarismo ‘statico, pro-
vinciale o coercitivo’: «la riconsiderazione delle più profonde implicazioni costituzionali del repubblicanesimo ci può ricordare come il rinnovamento delle comunità politiche, attraverso l'inclusione di coloro che erano stati esclusi, accresce la libertà politica di tutti»?4. È significativo che Michelman argomenti queste tesi nel contesto della discussione del caso Bowers vs. Hardwick, la nota sentenza con
cui la Corte suprema ha respinto le obiezioni di costituzionalità alla legge della Georgia che proibisce la ‘sodomia’. Il suo obiettivo è di fornire argomentazioni contro quella sentenza utilizzando appunto il repertorio concettuale fornito dalla tradizione costituzionale di ispirazione repubblicana. Le motivazioni della sentenza includono l’argomento ‘comunitaristico’ secondo il quale la maggioranza ha diritto a imporre attraverso il diritto una specifica concezione della ‘decenza morale’. Ma per Michelman le obiezioni liberali che fanno unicamente riferimento al diritto alla privacy sono insufficienti. Esse vanno in11
tegrate con l’idea che proibire l'omosessualità significa inibire «una modalità o delle modalità di esistenza che costituiscono e caratterizzano la personalità». In questo modo si impedisce lo sviluppo di «un aspetto dell'identità che domanda rispetto»??. Tale impedimento significa l’esclusione dalla cittadinanza, nel senso della piena ed effettiva partecipazione nei vari ambiti della vita pubblica. Siamo insomma molto lontani da una lettura tradizionalistica del repubblicanesimo come teoria politica che idealizza comunità organiche ed auspica l'imposizione della morale ‘comune’ per via politica e giuridica. Sono significative a questo proposito alcune espressioni di
Michelman: Qui non sto raccomandando un repubblicanesimo ‘forte’. Non so cosa è bene per l’anima. Non so in cosa consiste essenzialmente la libertà personale (se consiste in qualcosa). Non so se la cittadinanza è un bene umano fondamentale. Quello che sostengo è che la concezione repubblicana della politica [...] è una concezione di cui una buona spiegazione ed analisi costituzionale contemporanea non può fare a meno?0.
Se Michelman distingue fra due filoni del repubblicanesimo seisettecentesco, il punto di riferimento storico di Sunstein sono invece
le tesi dei federalisti; nella sua interpretazione la loro posizione nel dibattito sulla Costituzione americana non va anacronisticamente inter-
pretata come un'anticipazione di quella concezione della politica, tipica della political science, che la riduce a conflitto di interessi e ricerca di compromessi sull’allocazione delle risorse??. I federalisti avevano piuttosto tentato una rielaborazione del pensiero politico repubblicano, cercando di approntarne una versione adeguata ad una ‘grande repubblica’?8, È a questa rielaborazione che può ricollegarsi un /6eral republicanism capace di elaborare una concezione più ricca e articolata dell’attività politica. L’influenza della ricostruzione di Pocock può essere misurata dal fatto che proprio uno dei più influenti political scientists contemporanei, oggetto delle critiche di Sunstein a proposito dell’interpretazione dei federalisti, l’ha accolta nella versione più recente della sua teoria della democrazia. In Derzocracy and Its Critics Robert Dahl analizza il ruolo della tradizione repubblicana nella genesi della democrazia moderna, ricollegandola ad un’ascendenza aristotelica e seguendone gli sviluppi secondo il percorso individuato da Pocock: da Firenze all’Inghilterra, all’altra sponda dell’ Atlantico?9. di2
1.1.3. Altri autori utilizzano la tradizione repubblicana nella ricerca di una sorta di ‘terza via’ fra liberalismo e comunitarismo. Per Michael Walzer né l’ideologia repubblicana della cittadinanza né quella liberale esprimono in maniera adeguata la specificità della politica moderna. La cittadinanza repubblicana è vista da Walzer come un’ideologia ‘neoclassica’ che si origina nel primo periodo dell’età modena sulla base di un’idealizzazione della polis e si afferma nella fase giacobina della Rivoluzione francese. In questa cornice ideologica la cittadinanza è concepita come ‘motivo fondamentale di comportamento virtuoso’ e come partecipazione attiva alle cariche pubbliche: si configura come una responsabilità e un servizio. La concezione alternativa ha un’origine quasi altrettanto antica: già nell'impero romano la cittadinanza diviene uno status, il godimento di una serie di diritti che proteggono la vita privata e le scelte individuali e garantiscono la libertà ‘negativa’. È questa concezione, ripresa da Bodin e dai teorici dell’assolutismo, a es-
sere fatta propria dal liberalismo moderno. Ma anche questa concezione non è adeguata a interpretare la cittadinanza contemporanea. In determinate circostanze, rileva Walzer, per poter godere dei diritti è necessario impegnarsi nell’attività politica. L'estensione della cittadi-
nanza a nuovi soggetti e l'ampliamento del catalogo dei diritti richiedono organizzazione e lotta. Se i cittadini moderni si riducessero a semplici utenti di protezione politica, sarebbero in realtà ben poco protetti. D'altra parte «è improbabile che la cittadinanza sia l'identità primaria o la passione divorante di donne e uomini che vivono in società complesse e altamente differenziate»?0. Il repubblicanesimo, in particolare nella sua versione giuridica, è un interlocutore privilegiato per la recente produzione filosofico-giuridica di Jiirgen Habermas. Habermas riconosce a Michelman il merito di connettere strettamente il sistema dei diritti fondamentali e l’autonomia politica dei cittadini, e di introdurre una nozione intersoggettivistica e ‘deliberativa’ del diritto. Ma per Habermas la concezione repubblicana vede la politica tou? court come l’espressione di un nesso etico e come un processo comunicativo, e la considera un’istanza costituiva del processo di socializzazione. In questo modo, sostiene
Habermas, si pretende di fondate la democrazia sull’«integrazione etica di una comunità particolare», senza spiegare «come in generale sia possibile ai cittadini orientarsi al bene comune»?!. Habermas, con tutta evidenza, identifica repubblicanesimo e comunitarismo. Anche la teoria habermasiana del diritto vuole essere un proposta di ‘terza via’ fra liberalismo dei diritti e repubblicanesimo: secondo Habermas i fondamenti normativi di un ordinamento politico-giuridico non pos13
sono più essere individuati «nei diritti universali dell’uomo o nella sostanza etica d’una comunità particolare, bensì in quelle regole del discorso e forme argomentative che derivano il loro contenuto normativo dalla base di validità dell’agire orientato all’intesa»?2. Si tratta dunque di riproporre una concezione deliberativa della politica e del diritto, ma superando il riferimento alla Sittlichkeit di una particolare comunità: per Habermas i diritti fondamentali della tradizione costituzionale moderna esprimono sul piano giuridico i presupposti inevitabili — e dunque universali — di ogni processo aperto di comunicazione politica, e sono questi diritti a costituire la matrice della cultura politica dei paesi democratici. 1.2. Differenziazioni: ascendenze neoromane e concetti di libertà
Tutte queste posizioni sono basate — anche quando ne prendono le distanze — sull’interpretazione che Pocock ha dato della tradizione repubblicana, vista come un’elaborazione protomoderna dell’aristotelismo politico. Ma questa interpretazione è stata contestata. Si deve a Quentin Skinner l’introduzione della distinzione concettuale fra civic
hbumanism — aristotelico — e classical republicanism??. Secondo Skinner nell’Italia del XIII secolo, anteriormente alla traduzione latina della fi-
losofia pratica di Aristotele, era già riconoscibile una ben definita ideologia politica ispirata al pensiero repubblicano romano. Skinner ha interpretato gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena come espressione figurativa di questa concezione e ha sostenuto che c’è un legame diretto fra Machiavelli e questa tradizione84. L’aristotelismo informa invece il linguaggio degli umanisti civili, che vedono la politica come un fire essenziale dell’uomo/zodr politikén. Invece, per irepubblicani classici, sostiene Skinner, la.partecipazione politica è un 72ezzo per difendere le libertà civili, e la virtù ha a sua volta un significato strumentale, dato che consiste nell’insieme delle disposizioni e delle capacità necessarie per un'efficace attività politica. Gli individui hanno molteplici fini, ma la condizione per realizzare questi fini è il ‘vivere libero’, che trova la sua forma istituzionale nel ‘governo libero’. La discussione storiografica è ovviamente aperta. Si può continuare a indagare, ad esempio, se e in che misura la traduzione latina della
Politica ha influenzato il pensiero politico tardomedievale e rinascimentale, se ci siano stati influssi aristotelici più o meno mediati (ad 14
esempio dalla cultura araba) sulle fonti dei repubblicani ‘neoromani’ e così via. E probabilmente si dovrebbe anche distinguere accuratamente fra i vari tipi di aristotelismo che hanno interagito con il pensiero politico repubblicano. In ogni caso, l’idea che non sia corretto assimilare alcuni autori — a cominciare da Machiavelli — al paradigma della filosofia pratica aristotelica sembra ben argomentata e condivisibile. Inoltre, si tende ad attribuire agli autori repubblicani una nozione ‘positiva’ di libertà, collocandoli in una linea di continuità che dalla libertà ‘degli antichi’ conduce a Rousseau e ai comunitaristi contemporanei. Per contro, la concezione machiavelliana della libertà è stata ricostruita da Skinner in termini tali da distinguerla sia dalla libertà ‘positiva’ degli antichi sia dalla moderna libertà ‘negativa’ come mera assenza di impedimenti. Per garantire la sicurezza individuale e collettiva è necessaria la libertà: dello Stato dalla dominazione esterna e dei cittadini all’interno dello Stato?%. In questo senso la concezione machiavelliana della libertà è ‘negativa’: la libertà consiste nell’assenza di costrizioni e impedimenti. E in quest’ottica il ‘governo libero’ repubblicano non è un fine in sé ma lo strumento per difendere la libertà degli individui. Recentemente Skinner ha ricostruito i percorsi della «neo-roman understanding of political liberty» nel pensiero politico anglofono del XVII e XVIII secolo, in contrasto con la nozione rivale
di libertà elaborata da Hobbes e destinata a divenire la nozione canonica nell’ambito del liberalismo classico?”. Infine, occorre ricordare che mentre Machiavelli propone un’innovativa apologia del conflitto politico in Roma antica («la disunione della plebe e del senato fece libera e potente quella republica»), la valutazione positiva del conflitto è stata abbandonata da una serie di teorici repubblicani, da Francesco Guicciardini a Jean-Jacques Rousseau. Per contro, l’apologia del conflitto ritorna in autori come Algernon Sidney, Montesquieu, Adam Ferguson. Sulle differenziazioni interne al repubblicanesimo ha insistito Marco Geuna. In particolare egli ha individuato nell’ambito del repubblicanesimo una distinzione tra teorie ‘machiavelliane’ e teorie ‘non ma-
chiavelliane’ in questi termini: Le prime attribuiscono un ruolo positivo ai conflitti politici che si mantengono entro certi canali istituzionali; le seconde sono portate ad escludere il conflitto politico dalla fisiologia del corpo politico; le prime non propongono una nozione sostantiva di bene comune; le seconde ritengono che debba esistere una nozione di bene comune condivisa da tutti i cittadini; le
prime vedono l’ordine politico emergere dal conflitto; le seconde delineano
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un ordine politico che, esclusi i conflitti, è in qualche modo da sempre fissato; le prime assumono come modello Roma, città della feconda disunione tra senato e plebe; le seconde, Venezia, città del governo stretto; le prime han-
no alla loro base un’antropologia prevalentemente negativa, le seconde, un’antropologia per lo più positiva?8.
Nella tradizione politica repubblicana della prima modernità, all’interno di una comune matrice linguistica si possono insomma individuare significative articolazioni teoriche, che possono essere schematizzate elencando una serie di opposizioni: aristotelici versus neo-
romani, politica/fine versus politica/strumento, libertà positiva versus libertà dal dominio, concordia versus conflitto.
È opportuno notare che queste distinzioni sono trasversali: non è corretto, ad esempio, sostenere che da un lato vi siano gli autori (umanisti civici?) di ispirazione aristotelica, che propongono una concezione della politica come fine, una nozione positiva di libertà e valutano negativamente il conflitto politico, e dall’altra gli autori ‘neoromani’, che propongono una nozione specifica di libertà, condividono una concezione della politica come strumento ed elaborano una valutazione positiva di alcune forme di confitto politico. Si pensi proprio ad Harrington, che si ispira tanto a Machiavelli, presentato contro Hobbes come il restauratore dell’‘antica pudenza’, quanto ad Aristotele. Harrington è aristotelico nella valutazione negativa del conflitto ma, da buon machiavelliano, fornisce una delle caratterizzazioni più
incisive della concezione ‘neoromana’ della libertà. In un luogo classico dell’Oceara Harrington, replicando ad Hobbes che aveva sostenuto che i cittadini della Repubblica di Lucca godevano della stessa libertà (intesa come non interferenza) dei sudditi del sultano di Costantinopoli, distingue la libertà from the laws dalla libertà by the laws? (cfr. infra, par. 4.3).
È ben difficile trovare riferimenti a questa distinzione fra umanesimo civile e repubblicanesimo classico, tra filone aristotelico e filone neoromano negli autori contemporanei che tentano un’utilizzazione
teorico-politica della tradizione. Da questo punto di vista, John Rawls è una lodevole eccezione, mentre Jiirgen Habermas è una deprecabile conferma: come abbiamo visto, tutto il confronto fra repubblicanesimo e liberalismo in Faktizitàt und Geltung si fonda sull’assimilazione del moderno repubblicanesimo giuridico con la linea aristotelico-comunitarista*!. Non c'è dubbio, comunque, che fra gli autori che dichiarano di ispirarsi alla tradizione repubblicana queste differenze emergano con evidenza. Da una parte ci sono personaggi come Sandel 16
e MacIntyre, che vedono nel repubblicanesimo una presentabile traduzione politica delle loro tesi sull’identità, la virtù e l'appartenenza comunitaria. Dall'altra parte vi sono autori che si distaccano dalla concezione della politica come fine connaturato alla natura umana e recuperano dalla tradizione repubblicana una visione della libertà che non si identifica con nessuna delle alternative nella classica contrapposizione fra libertà negativa e libertà positiva.
1.3. Un'etica pubblica repubblicana? Su quest’ultima posizione si collocano alcuni autori che hanno cercato di utilizzare i risultati della ricerca di Skinner in ambito propriamente filosofico-politico, nell’intento di costruire teorie normative sistematiche e originali. Questi autori distinguono ciò che intendono per ‘repubblicanesimo’ non solo dal liberalismo ma anche dalla tradizione metafisico-politica di matrice aristotelica, da un lato, e, dall’al-
tro lato, dalle contemporanee teorie comunitaristiche. Di seguito indicherò queste teorie come ‘neorepubblicane’’. Alla luce di una sua interpretazione della ‘terza’ forma di libertà nei termini della liberty as non domination Philipp Pettit tenta l’elaborazione di una complessiva teoria repubblicana dello Stato e del governo nel quadro di «un modello di repubblicanesimo specificamente moderno e inclusivo: un tipo di repubblicanesimo che condivide con il liberalismo [...] l'assunto secondo cui tutti gli esseri umani sono uguali e che ogni ideale politico per essere plausibile dev'essere un ideale universale». La libertà come non-dominio rappresenta infatti secondo Pettit un ideale ‘universale’: un ideale attraente per i liberali come per i comunitaristi, per gli ambientalisti come per le femministe, per i movimenti che si ricollegano alla tradizione socialista come per quelli ispirati dal multiculturalismo. E costituisce un ideale ‘indipendente’, tale da non dover essere bilanciato e contemperato con altri principi, quali l'uguaglianza o l'appartenenza. Come tale, la libertà come non-dominio configura per Pettit il valore guida per definire lo schema del republican government. Un valore che si applica ai campi più disparati, dall’ingegneria istituzionale al diritto penale. Ponendosi dichiaratamente nel solco della ricerca di Skinner, Mau-
rizio Viroli ha proposto una rivalutazione dei concetti di ‘patria’ e di ‘patriottismo’, tentandone una distinzione semantica e assiologica dai concetti di ‘nazione’ e di ‘nazionalismo’ sulla scorta di una lettura in questo senso della tradizione repubblicana#. Ma non solo: più ambi17
ziosamente, ha candidato il repubblicanesimo come «la base di una nuova utopia politica capace di risvegliare quelle passioni da cittadini liberi che gli ideali politici» contemporanei «non sono in grado di mantenere vive e tanto meno di far nascere».
In quest'ottica, il repubblicanesimo costituisce «una ‘famiglia’ bene identificabile nel panorama del pensiero politico in virtù del fatto che tutti i suoi membri condividono alcuni principi politici fondamentali», e cioè «una particolare interpretazione della repubblica e della libertà politica» oltre che «del rapporto che intercorre fra libertà politica e virtù civile»46. AI di là, dunque, delle ‘differenze notevoli’ su
‘questioni politiche fondamentali’ gli autori politici repubblicani si pongono su una definita linea di continuità teorica. Una linea che Viroli ricostruisce in modo parzialmente differente da Pocock, dipanandola a partire da Cicerone, Sallustio e Livio, per proseguire con i teorici dei comuni italiani, gli autori dell’umanesimo civile, Machiavelli, Giannotti, Contarini, gli olandesi de La Court, le Cato°s Letters e i Commonwealthmen, Rousseau, fino a John Stuart Mill, non senza attraversare autori italiani come Pagano, Mazzini e Cattaneo. Rispetto a
Pocock spicca la mancata citazione di un autore-chiave come Harrington e l’assenza di riferimenti al dibattito americano pre e postrivoluzionario. Tuttavia, come Pocock, Viroli sostiene che si dia una signifi-
cativa continuità teorica interna alla tradizione repubblicana. Per Viroli, infatti, è possibile dare una definizione di ‘repubblica’, intendendola come «la comunità politica di cittadini sovrani fondata sul diritto e sul bene comune»7, un’idea che si ritrova in Cicerone come in
Rousseau. Alla luce di questa definizione, il valore-chiave del repubblicanesimo risulta, oltre al governo della legge e al bene comune, la libertà, intesa come «non essere dipendenti dalla volontà arbitraria di un uomo o di alcuni uomini»; e la libertà a sua volta esige «l’uguaglianza dei diritti civili e politici»48. Per affermare la libertà e realizzare la repubblica è necessario contrastare gli effetti disgregatori della corruzione politica. Per questo occorre poter fare conto su una risorsa fondamentale: la «virtù civile dei cittadini», che permette di congiungere interesse individuale e bene comune??. Viroli riconosce l’esistenza di controversie sulla definizione della libertà e sull’identificazione del bene comune. Sostiene che i teorici repubblicani «hanno sempre saputo che il bene comune non è né il bene (o l’interesse) di tutti né un bene (o un interesse) che trascende gli interessi particolari, bensì il bene dei cittadini che desiderano vivere liberi dalla dipendenza personale, e come tale è un bene contrapposto al bene di chi desidera dominare»?0, 18
Di qui la rinuncia ad una concezione organicistica della comunità e all’illusione che la virtù spinga all'unanimità nella visione del bene comune. I repubblicani «non temono i conflitti sociali e politici, a condizione che essi rimangano entro i confini della vita civile» e riconoscono un elemento di irriducibile parzialità nella politica: le differenti interpretazioni della libertà politica non sono tanto i termini di un dibattito filosofico sulla verità quanto l’esito di «conflitti fra interessi e concezioni partigiane». Infatti, «qualsiasi valutazione di atti politici è parziale, appassionata, partigiana»?!. È illusorio pensare che sia possibile dirimere la controversie accertando ‘fatti’ verificabili, e non esi-
stono procedure accettabili da tutte le parti. Con queste tesi Viroli prende le distanze dalle pretese universalistiche di molta filosofia politica contemporanea, ma anche da strategie apparentemente meno ambiziose come quelle del ‘liberalismo politico’ rawlsiano. Credo che il suo riconoscimento del carattere irriducibilmente ‘partigiano’ della politica e la rinuncia alla ricerca di punti di vista imparziali sia salutare. Nonostante queste importanti affermazioni,
tuttavia, è difficile scacciare l'impressione che le proposte neorepubblicane di Pettit e di Viroli accusino un deficit di realismo. Pettit, come abbiamo visto, ricostruisce la nozione di libertà come non-dominio uti-
lizzando materiali teorici che ricava dalla tradizione repubblicana e sviluppa tale nozione fino a farne il fulcro di una teoria normativa delle istituzioni e del governo. L’analisi dei problemi che l’implementazione politica di una teoria del genere potrebbe presentare risulta tuttavia tutt'altro che accurata. Le ricerche prodotte dalla teoria sociale e politica degli ultimi decenni in termini di studio della differenziazione sociale, dell’evoluzione dei rzedia di comunicazione e di controllo, delle
| istituzioni politiche paiono non pertinenti per l'impresa di Pettit. Più specificamente, Pettit non sembra problematizzare a sufficienza la nozione di dominio né la confronta con la secolare discussione sul tema del potere, da Weber ad Arendt, a Foucault, a Luhmann.
La strategia di Viroli è diversa: piuttosto che costruire una teoria normativa sistematica, prova a far ingranare, per così dire in presa di-
retta, alcuni concetti del repertorio repubblicano sul dibattito teorico contemporaneo e si dice convinto della validità di alcuni principi ‘repubblicani’ per la politica dell’oggi. La sua idea è che «la politica cambia nella forma ma non nella sostanza, in quanto a farla sono pur sempre individui che hanno», secondo l’insegnamento di Machiavelli «le medesime passioni». Inoltre vicende come quelle della recente storia italiana dimostrano che la virtù civica è una risorsa necessaria. Le democrazie contemporanee sono inadatte a sollecitare la partecipazione 19
politica e l’impegno civile dei cittadini, in assenza di una rivitalizzazione della virtù civile??, C'è da chiedersi quanto queste tesi siano convincenti. Da un lato, la constatazione dell’esistenza di risorse molto scarse di virtù civica nei sistemi politici contemporanei potrebbe allo stesso
modo essere portata come argomento per sostenere l'impossibilità di una riattualizzazione del repubblicanesimo. D'altro lato, la tesi dell’uniformità ontologica della politica, ricollegata all’idea di una continuità antropologica, per quanto di nobili ascendenti, appare altrettanto semplificatoria. Èprobabilmente possibile individuare alcune costanti metatemporali, o meglio alcune uniformità di lunghissima durata, nella costituzione della nostra specie così come nelle attività di regolazione, controllo, elaborazione delle decisioni e di governo delle collettività umane. Ma questo non significa che gli uomini siano sempre ‘gli stessi”
per tutto ciò che è significativo per la politica, né tanto meno che i processi deliberativi nello spazio pubblico della polis, il governo degli imperi universali, quello degli Stati-nazione e la gestione delle complesse società del rischio nell’epoca della globalizzazione siano riconducibili ad un’unica forma di attività. Ce lo insegnano intere biblioteche di studi storico-comparatistici sull’evoluzione della politica, sull’affermazione della modernità e della postmodernità, sulla differenziazione sociale, sulle relazioni fra il politico, l’economico e gli altri ambiti del socia-
le. Del resto, lo stesso Viroli ha dato un contributo a quest’analisi con la sua netta distinzione fra ‘politica’ classica e ‘Ragion di Stato” moderna?* (cfr. infra, par. 4.1). Né l’ascrizione al repubblicanesimo di un carattere ‘utopico’ modifica molto il quadro: il repubblicanesimo classico non può essere presentato come un'ipotesi controfattuale sulla base della quale valutare e criticare gli assetti politici e sociali esistenti. Le teorie dei repubblicani classici - compresa l’Oceaza, che pure mima alcuni tratti del genere letterario utopico — proponevano soluzioni istituzionali considerate praticabili, non si limitavano a disegnare ‘luoghi buoni” concepiti allo stesso tempo come ‘non-luoghi’’4. Più avanti cercherò di argomentare queste valutazioni in modo più analitico, nell'affrontare alcuni dei concetti-chiave delle teorie di Pet-
tit e Viroli (come quelli di libertà, patria, bene comune) e di prendere in considerazione i termini delle proposte ‘neorepubblicane’ riguardo alla concezione della politica deliberativa, della democrazia e dello Stato di diritto. Qui faccio presente un ulteriore elemento: è stato notato che la — salutare — presa di distanza del repubblicanesimo dalla tradizione metafisica aristotelica e dalle teorie politiche comunitaristiche potrebbe tuttavia finire per fargli smarrire il suo carattere peculiare, per rendere indefinito il confine fra repubblicanesimo e liberali20
smo. Alessandro Ferrara, in particolare, ha sostenuto che se si con-
frontano fra loro non tanto il liberalismo e il repubblicanesimo presi in blocco, ma gli autori ascrivibili al repubblicanesimo romano-machiavelliano, o ‘politico’, e quelli ascrivibili al liberalismo progressista (il liberalismo di autori come Rawls, Dworkin o Ackerman, distinto
dal liberalismo ‘liberista’ di Popper, Nozick o Hayek) non ci troviamo di fronte a paradigmi alternativi ma piuttosto ad una diversità di accenti. In altri termini, «la distanza registrabile fra le formulazioni proprie di autori rappresentativi del repubblicanesimo ‘politico’ e del liberalismo Ziberal non sono certamente superiori alla distanza riscontrabile all’interno del paradigma liberale»??. Ferrara argomenta queste tesi facendo riferimento proprio alla concezione della libertà come non-dominio: nozioni come quella rawlsiana di ‘eguale libertà’, quelle dworkiniane di ‘eguale rispetto’ e di democrazia costituzionale non rientrano nel quadro concettuale delineato dalla libertà come assenza di interferenza, che dovrebbe contrassegnare il liberalismo, e conside-
razioni analoghe valgono per autori come Ackerman o Charles Larmore. Il punto, dunque, non è tanto distinguere fra teorie repubblicane e teorie liberali, quanto piuttosto distinguere «fra un tipo di liberalismo che continua a poggiare sulla tradizionale visione atomistica dell’individuo e della validità»?5 e ad elaborare ‘standard universalistici’, da un lato, e «tradizioni di pensiero che riescono ad accogliere
una concezione del soggetto e della politica che da atomistica si è fatta intersoggettiva», come pure «tradizioni che accettano pienamente
le conseguenze del ‘fatto del pluralismo’ e rinunciano a un normativismo fondato su principi e punti archimedici»?”. Quest'ultimo invito di Ferrara mi pare particolarmente opportuno. Ritengo però che per discutere la sua tesi sui rapporti fra liberalismo e repubblicanesimo occorra introdurre alcuni ulteriori elementi che consentano di precisare meglio le articolazioni interne al campo teorico repubblicano. 1.4. Il nodo del conflitto
Come abbiamo visto Pettit e Viroli riconoscono l’esistenza di differenziazioni nell’ambito della tradizione repubblicana. Essi, inoltre, prendono in considerazione i temi del conflitto, del contrasto di opinioni e di interessi, della contestazione del potere e ricordano come nell’ambito del repubblicanesimo classico si sia attribuito rilievo a questa dimensione del politico. Tuttavia, tendono più ad enfatizzare 21
gli elementi comuni all’intera tradizione repubblicana piuttosto che a sottolineare l’esistenza di linee di frattura al suo interno. E, forse proprio per questo, non mettono a fuoco il rilievo di quella fondamentale linea di frattura che differenzia gli autori repubblicani ‘conflittuali sti da quelli ‘anticonflittualisti’. In questo modo finiscono per sottovalutare uno dei contributi più importanti (di una parte) del repubblicanesimo al pensiero politico moderno. 1.4.1.
Per Machiavelli, fin dai primi scritti, l’idea che la cittadinanza è
irrimediabilmente scissa in componenti diverse, che è attraversata da differenti ‘umori’, è cruciale e ricorrente?8. Gli ‘umori’ esprimono interessi e fini contrapposti, che liportano inevitabilmente al contrasto: Machiavelli abbandona infatti il tradizionale modello antropologico platonico-aristotelico-tomistico, che sottendeva la nozione organicistica
del corpo politico. Nel modello tradizionale, gli individui umani sono per natura diseguali, e proprio per questo portati ad associarsi. Sono irretiti in naturali rapporti di sovraordinazione/subordinazione (uomo/donna, padre/figli, padrone/schiavo) a partire dai quali si sviluppa la socialità politica che forma lo Stato??. Sono, appunto, ‘membra’ di un corpo politico, ciascuno con le sue specifiche funzioni e un suo ‘luogo naturale’ nell'ordine complessivo. Machiavelli, per contro, abbozza un’antropologia che riconosce un’irriducibile tendenza alla conflittualità, radicata nello scompenso fra l’inesauribilità dei desideri umani e la scarsezza delle risorse atte a soddisfarli99. Gli ‘umori’ della cittadinanza non sono ‘membra’ di un corpo, legate da un nesso organico; sono componenti sociali in conflitto potenziale e attuale®*. Il conflitto può assumere forme differenti, virtuose o degenerative, ma è comunque un fatto della politica, compresa la politica delle repubbliche. Quel che più conta, e che segna maggiormente l’originalità di Machiavelli, è che il conflitto può avere effetti produttivi e proprio per questo favorisce l’incremento della potenza della repubblica. Il quarto capitolo del primo libro dei Discorsi introduce una radicale novità nella storia del pensiero politico europeo: la tesi rivoluzionaria secondo la quale, in determinate condizioni, il conflitto politico contribuisce all’innovazione istituzionale e allo sviluppo della libertà. Nel caso della repubblica romana, il conflitto fra i due principali ‘umori’ della cittadinanza — quello dei patrizi e quello dei plebei — produsse «leggi e ordini in beneficio della publica libertà». To dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma,
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e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino, come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro [...]. Né si può chiamare in alcun modo con ragione una republica inordinata, dove sieno tanti esempli di virtù, perché li buoni esempli nascano dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano: perché chi esaminerà bene il fine d’essi, non troverà ch’egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della pubblica libertà®2,
Il conflitto esprime una dinamica politica fisiologica, almeno nelle città che vogliono ‘ampliare’. Infatti, argomenta Machiavelli, per evitare i conflitti e mantenere ‘quieta’ una repubblica occorre seguire l'esempio di Sparta, che ha chiuso la cittadinanza escludendo ogni suo allargamento, o quello di Venezia, che ha evitato l’impiego del popolo in guerra. La scelta contraria dei romani «dette alla plebe forze ed augumento, ed infinite occasioni di tumultuare». Ma perseguire la pace sociale avrebbe reso Roma debole militarmente e le avrebbe impedito di ‘ampliare’. Pertanto, conclude Machiavelli «se tu vuoi fare uno
popolo numeroso o armato per potere fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi maneggiare a tuo modo: se lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non
lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta». Il conflitto che esprime gli ‘umori’ fondamentali della cittadinanza e si incanala in ‘leggi e ordini’ è dunque fisiologico, anzi salutare. Ma in altre condizioni il conflitto diviene patologico e pericoloso. In questo caso si giunge alla rovinosa formazione di ‘sètte’*4. Nella letteratura critica machiavelliana la distinzione tra le due forme di conflitto è stata sovente interpretata alla luce di un ideale di moderazione: le forme virtuose di conflitto sarebbero quelle meno radicali e violente,
quelle che si possono risolvere con mezzi pacifici, ‘disputando’, anziché ‘combattendo’; e sarebbe l'‘ambizione’ della plebe a provocare la degenerazione del conflitto. Ma questa interpretazione è inesatta: in realtà per Machiavelli la via alla tirannide si apre non tanto quando il conflitto si radicalizza, ma piuttosto dal momento in cui il popolo sceglie di affidare la protezione dei suoi interessi, e ancora più la vendetta sui suoi nemici, ad un individuo potente’, Machiavelli, insomma,
più che giustapporre le forme ‘radicali’ di conflitto a quelle ‘moderate’, distingue il conflitto che nasce dalla contrapposizione di gruppi so23
ciali ben definiti ed esprime gli ‘umori’ fondamentali della cittadinanza da quello che si origina dalla ricerca del potere personale e si collega con la costituzione di clientele, fazioni, gruppi armati finalizzati al potere personale. Il primo è virtuoso e produce libertà, il secondo è patologico e conduce alla tirannide. Nella genesi delle forme potenzialmente distruttive di conflitto l’‘inequalità’ è indicata come un potente fattore negativo, alla base appunto della costituzione di fazioni e consorterie. La valutazione positiva del conflitto, come ho accennato, è stata criticata duramente da Francesco Guicciardini, l’altro classico del repubblicanesimo fiorentino («Laudare la disunione è come laudare in
un infermo la infermità, per la bontà del rimedio che gli è stato applicato»), e abbandonata da ammiratori di Machiavelli come Harrington9” e Rousseau. Per contro, Montesquieu ha sostenuto che in Inghilterra «l’on voit la liberté sortir sans cesse des feux de la discorde et de la sédition»98. Adam Ferguson è arrivato ad affermare che «co-
lui che non ha mai lottato con i suoi simili è estraneo alla metà dei sentimenti umani»99, Geuna ha ricostruito nella storia del pensiero politico tre modelli
teorici relativi alla definizione del nesso ordine/conflitto: quello aristotelico, quello hobbesiano e quello machiavelliano. Nella prospettiva aristotelica, l’ordine è dato per natura, e le relazioni agonali che si
stabiliscono nella polis non dovrebbero originare veri conflitti. Per contro, l'ordine per Hobbes nasce dal conflitto ed è artificialmente costruito. Ma la costruzione dell’ordine artificiale consiste precisamente nella neutralizzazione del conflitto, che appartiene alla patologia del corpo politico una volta che si è costituito?0, Anche l’ordine machiavelliano nasce, in parte, sul terreno artificialistico moderno: l’uomo non è per natura un animale politico. Ma non fa sua l’idea che l'ordine si costituisca solo al prezzo della perdita della politicità dei cittadini. A differenza dell’approccio aristotelico prevede il conflitto, ma non lo usa hobbesianamente al fine di una sua neutralizzazione, di una spoliticizzazione. Riesce anzi a rendere produttivo il conflitto, individuando gli
spazi istituzionali nei quali esso può manifestarsi; ridà così nuovo spazio e nuovo significato alla partecipazione politica, alla virtù, del cittadino. L’ordine dei machiavelliani assume alcuni dei presupposti artificialistici moderni, senza condividere dell’artificialismo hobbesiano la negazione radicale del conflitto, per timore che esso degeneri in guerra civile7!,
Ho già segnalato che la distinzione fra repubblicani ‘conflittualisti’ e ‘anticonflittualisti’ è trasversale rispetto a quella fra i ‘neoaristotelici’ 24
e i ‘neoromani’, rilevata da Skinner, o a quella fra i sostenitori della libertà positiva e i teorici della libertà come non-dominio. D'altronde le differenze nella concezione del conflitto politico tendono a ricollegarsi ad opposte valutazioni delle forme democratiche di governo e del ruolo del ‘popolo’, che sembrano alludere a differenti antropologie politiche. Harrington, ad esempio, considera la cittadinanza repubblicana divisa fra l’élite dei ‘migliori’, capaci di analizzare, confrontare e discutere i problemi, e la massa del popolo, in grado solo di selezionare fra le alternative già predisposte e dunque incapace di deliberazione e iniziativa politica. Questa diseguaglianza si risolve — aristotelicamente — in una complementarietà che esclude ogni conflitto irriducibile fra le due componenti della cittadinanza. In questo senso Harrington si distanzia notevolmente da Machiavelli, che non solo aveva sostenuto esservi un conflitto irriducibile fra i due ‘umori’ della cittadinanza, fra i gentiluomini che tendono ad imporre il loro potere personale e il popolo che chiede appunto di essere libero dal dominio e di sottoporsi al governo della legge, ma aveva inoltre attribuito al popolo piena capacità deliberativa. Queste differenti antropologie politiche si esprimono appunto in differenti valutazioni del conflitto e producono, con tutta evidenza, letture ben differenti dei principi del governo della legge e della diffusione del potere: più vicina alla tradizionale concezione organicistica del ‘governo misto’ la riflessione di Harrington, più aperta alle istanze democratiche e al principio dei controlli e contrappesi quella di Machiavelli (cfr. infra, par. 5.1)??. Come abbiamo visto, gli autori impegnati nella costruzione di teorie normative neorepubblicane prendono in considerazione il tema del conflitto, ma tendono a metterlo fra parentesi più che a enfatizzarlo, e
in generale non sembrano ‘prendere sul serio’ le differenziazioni interne alla tradizione repubblicana. Ritengo che questo abbia conseguenze significative per le loro costruzioni teoriche. Cercherò di argomentare nei prossimi capitoli che una più accurata elaborazione del tema del conflitto avrebbe permesso di impostare in modo più adeguato alcune delle questioni centrali trattate da Pettit, come quelle dell'‘universalizzazione’ della libertà come non-dominio o della nozione ‘contestataria’ di democrazia (cfr. infra, parr. 4.3, 4.4). Nel caso
di Viroli una maggiore attenzione alla concezione repubblicana del conflitto politico avrebbe forse permesso di risanare il deficit di realismo che emerge in alcune sue pagine, come pure di elaborare una diversa interpretazione della nozione di rule of law, che costituisce la chiave di volta della lettura che Viroli dà dell’opera di Machiavelli (cfr. infra, par. 5.1). 25
La considerazione dei differenti modi di trattare il conflitto potrebbe risultare utile anche per affrontare il problema della distinzione fra repubblicanesimo e liberalismo. Come abbiamo visto, si è sostenuto che se si prende come criterio indicativo la concezione della libertà come non-dominio la linea di demarcazione fra teorie liberaliprogessiste, 0 liberal, e repubblicanesimo ‘politico’ è tutt’altro che ben definita. Se invece prendiamo in considerazione la concezione del conflitto, e del rapporto fra conflitto sociale, politica e diritto, ci appare un'immagine differente. Una serie di autori, compresi alcuni dei più importanti esponenti del repubblicanesimo protomoderno, trattano il conflitto nei termini del modello aristotelico. E questa impostazione che riemerge in molti contemporanei, e arriva a informare le tesi dei comunitaristi. Il modello hobbesiano trova seguaci nella tradizione del realismo politico, fino a Carl Schmitt e oltre, ma influenza significativamente la formazione del pensiero liberale ed i suoi sviluppi. Alcuni dei padri nobili del liberalismo, dai teorici dei ‘vizi privati, pubbliche virtù’ a quelli della ‘mano invisibile’, fino al Kant della ‘insocievole socievolezza’ possono essere ricollegati a questo modello. In quest’otti-
ca, mentre si tende a considerare del tutto fisiologica la competizione fra gli individui per l'allocazione delle risorse scarse, si guarda con sospetto al conflitto politico innescato da attori collettivi. Un’impostazione di questo genere riemerge nel liberalismo contemporaneo, compreso quello ‘politico’: la teoria di Rawls, ad esempio, sembra essere in grado di tematizzare solo il conflitto economico per l’allocazione di risorse quantificabili e ripartibili, mentre i contrasti fra differenti concezioni etiche, religiose, culturali devono venire ricondotti nell’alveo
del ‘ragionevole’. Il modello machiavelliano trova invece eredi in quegli autori che considerano produttivo il conflitto politico”? — non semplicemente la competizione economica - e in particolare valutano positivamente la mobilitazione di attori collettivi impegnati nella rivendicazione dei loro interessi e nell’affermazione dei loro diritti. Esprime così una concezione della politica e del diritto che si distanzia significativamente sia da quella del liberalismo classico sia da quella del liberalismo politico contemporaneo.
1.4.2. Il democratic liberalism di Richard Bellamy sembra rispondere precisamente a queste esigenze: è ispirato alla tradizione repubblicana ed è mosso dall’intento di elaborare una filosofia politica realistica adeguata alle società complesse e globalizzate, caratterizzate dal pluralismo”4. Il punto di partenza per la costruzione di questa teoria è il conflitto che si origina dalla competizione fra valori incompatibili: il tipo 26
di conflitto esaminato da Machiavelli nella ricostruzione del confronto fra il paganesimo e il cristianesimo e da Weber nell’analisi del ‘politeismo’ morale. Il pluralismo è il risultato di questo genere di conflitto; è una conseguenza della politica liberale, ma comunque costituisce per essa un problema. Secondo Bellamy, infatti, le strategie adottate nell’ambito del liberalismo contemporaneo per fronteggiare il pluralismo sono inadeguate. Sia le concezioni dei libertarian, come Hayek, sia il liberalismo politico di Rawls, sia la teoria delle ‘sfere di giustizia’ di Walzer sottovalutano la portata e la multidimensionalità del conflitto e hanno in comune un inopportuno restringemento del soggetto, dell’ambito e del ruolo della politica”?. Tutte queste strategie — sia che si affidino ai meccanismi del mercato, sia che ‘taglino’ dalla politica la dimensione metafisica, sia che ‘segreghino’ ciascun valore all’interno della sua sfera — hanno come obiettivo l’ottenimento di una qualche forma di consenso su alcuni valori comuni. Ma la possibilità di raggiungere un tale consenso, sostiene Bellamy, è messa a repentaglio dalla realtà del pluralismo. Le «collisioni fra i principi, i valori e gli interessi» prodotti dal pluralismo «possono essere disinnescate solo attraverso il compromesso politico»?*. Nell’accezione proposta da Bellamy il compromesso politico è il risultato della negoziazione e ha un carattere non ‘distributivo’ ma ‘integrativo’; pertanto il conflitto non deve essere visto come «una battaglia da vincere o perdere» ma piuttosto come «un problema collettivo da risolvere». Il compromesso politico può assumere differenti forme e non è sempre possibile. Ma ciò non significa, secondo Bellamy, che esistano tipi di conflitto di per sé insolubili. Anche le forme più radicali — come i conflitti intorno al riconoscimento delle identità collettive- non escludono la possibilità del compromesso. E però necessario definire un criterio di selezione sulle questioni ammissibili per il compromesso e sul modo in cui possono essere argomentate. Tale principio, il ‘principio di reciprocità”””, esclude i ‘fanatici’, rimanda al criterio audi alteram partem, richiede «un insieme di virtù civiche come la civiltà, la carità, il coraggio e l’onore, che informano la politica democratica»?8.
Il carattere distintivo del derzocratic liberalism consiste nell’identificazione del liberalismo con «un aspetto dello stesso processo democratico, piuttosto che con un vincolo normativo sui contenuti delle decisioni democratiche»??. Questo è evidente nelle considerazioni sul rapporto fra democrazia, costituzionalismo e principio dello Stato di diritto. Mentre nella tradizione della democrazia liberale si enfatizza la funzione negativa della costituzione, il suo ruolo nel limitare i poteri 27
dello Stato e nel delimitare lo spazio stesso della politica, il liberalismo democratico afferma un ruolo positivo della costituzione, che identifica con lo stesso sistema politico. In questo modo valorizza maggiormente la democrazia in quanto «presuppone che i cittadini argomentino e ricerchino soluzioni reciprocamente accettabili»89. Per contrastare il dominio arbitrario non è sufficiente un rule of law inteso in senso meramente formale, né l’attribuzione di maggiori poteri al giudiziario nella tutela dei diritti fondamentali. Nella prospettiva del political constitutionalism «la giustizia viene identificata con il processo politico». In altri termini «the rule of law depends upon the rule of men». Il riconoscimento dei tradizionali diritti liberali è garantito, ma il processo di ‘bilanciamento democratico’ coinvolge sia questi diritti sia i valori e gli interessi delle persone coinvolte. Emerge insomma, a tutti i livelli, una centralità della politica e una
priorità dei processi democratici, sia nella società civile che nelle istituzioni statali. A questo scopo per Bellamy occorre sviluppare una rete di luoghi decisionali e di formazione della rappresentanza, in modo da articolare la governance. Le decisioni che rappresentano il risultato del compromesso, infatti, devono essere giustificate e accettate da tut-
ti i cittadini, e a questo scopo sono necessarie forme di condivisione del potere8! tali da permettere di «innestare molte delle qualità associate alla politica partecipativa nel sistema politico»8?. D'altra parte perché i processi di negoziazione siano possibili occorre che i partecipanti considerino le norme comuni «come produttive di qualche forma di bene comune»83. Tutto questo è ciò che Bellamy presenta come una riattualizzazione della tradizione repubblicana. Sfruttando «il potenziale democratico del repubblicanesimo machiavelliano», egli sostiene, si possono elaborare argomenti per trattare i problemi delle società contemporanee, differenziate, pluralistiche e globalizzate. Rimane valida l’idea-chiave del repubblicanesimo: «escogitare un sistema politico che coinvolge nel gioco interessi sociali e ideali morali, limitando le possibilità di dominio dell’uno sull’altro e inducendo ciascuno a trovare una soluzione reciprocamente accettabile»84. Si devono riconoscere molti meriti alla proposta di Bellamy, che evita quei cortocircuiti normativi che abbiamo rilevato nelle teorie neorepubblicane. Egli si confronta con le acquisizioni recenti della sociologia giuridica e politica e, in particolare, prende sul serio le sfide rappresentate dallo sviluppo della complessità sociale e dai processi di globalizzazzione. E questa salutare iniezione di realismo politico non produce in alcun modo esiti conservatori: Bellamy si ricollega esplicitamente 28
all'elemento ‘populare’ e democratico del repubblicanesimo machiavelliano. Di qui l’attribuzione alla politica di un ruolo-chiave nella ricerca del compromesso fra valori differenti, il rifiuto del normativismo unilaterale e della sovraimposizione di criteri morali alla politica, come pure il riconoscimento ‘realistico’ del fatto che nel campo della politica si confrontano anche valori, principi, differenti forme di vita. Tuttavia Bellamy introduce una serie di constraints, necessari per rendere possibile il compromesso, che inducono qualche considerazione critica. Come abbiamo visto, dalla negoziazione sono esclusi i fanatici, cioè coloro che ritengono che la verità possa essere raggiunta solo aderendo al loro credo. E le parti sono vincolate al principio di reciprocità, si ispirano al motto audi alteram partem, hanno di mira una forma di bene comune. Alla luce di questo, nonostante le puntuali critiche che muove loro, e nonostante l’opportuno ridimensionamento
delle sue pretese dalla ricerca del consenso al perseguimento del compromesso, queste posizioni di Bellamy rischiano di avvicinarsi a quelle di Rawls o di Habermas. I criteri introdotti per ottenere un compromesso equo ricordano il principio rawlsiano della ‘ragionevolezza’. D'altra parte, quando precisa le modalità della negoziazione («instead of trading or bargaining, participants in this sort of dispute must argue») sembra avvicinarsi ad Habermas: Bellamy puntualizza opportunamente che il liberalismo democratico è perseguibile solo nel contesto di determinate esperienze politiche e giuridiche, ma anch'egli tende ad identificare la politica con l’argomentazione. Questa impostazione si ricollega all'approccio di Bellamy al tema del conflitto. Come abbiamo visto, la prospettiva nella quale egli lo affronta è quella della competizione fra valori. Gli attori del conflitto — movimenti, classi, gruppi sociali — sono visti essenzialmente come por-
tatori di valori, ela maggiore o minore radicalità del conflitto sembra discendere dalla minore o maggiore vicinanza fra i valori in competizione. Sarebbe forse stato possibile un approccio più ‘pluralistico’ al conflitto come fonte del pluralismo. Il punto di partenza per definire il pluralismo, piuttosto che il politeismo dei valori, avrebbe potuto essere la differenziazione sociale, l’esistenza di articolazioni fra gruppi, forme e modi di vita (oltre che le disuguaglianze nel reddito, nel potere, nello status). O, per meglio dire: il repubblicanesimo machiavelliano offre spunti per affrontare il conflitto da una prospettiva più ampia e da differenti punti di vista. Machiavelli ha effettivamente tematizzato il conflitto fra valori irriducibili. Ma per farlo ha utilizzato un concetto — quello di ‘umori’ — ricco e polisemico, che allude ai gruppi sociali, alle loro passioni, agli interessi e appunto ai valori che li motivano. Del conflitto 29
sociale Machiavelli ci ha offerto inoltre una fenomenologia innovativa,
ricca e articolata (basti pensare alle Istorie fiorentine). E c’è un altro aspetto della teoria machiavelliana del conflitto che Bellamy non utilizza. Come abbiamo visto, Machiavelli non solo tende a ridimensionare
gli effetti negativi del conflitto sociale nelle repubbliche. Afferma — in modo assai più innovativo — che date determinate condizioni sociali ed istituzionali il conflitto produce ‘ordine’, innovazione istituzionale, libertà. Il conflitto non è solo un problema — come appare in definitiva nell’ottica di Bellamy — ma anche una risorsa??.
1.5. Repubblica e impero «La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi». L’îxcipit del primo capitolo del Manifesto del partito comunista esprime nel modo più chiaro la centralità del conflitto sociale nell’opera di Marx ed Engels e nel marxismo. Negli ultimi anni ha conquistato un importante spazio nel dibattito teorico un tentativo di riattualizzare e radicalizzare il marxismo, ibridandolo con gli apporti delle teorie poststrutturaliste e della riflessione sul postmoderno, in modo da fornirne una versione adeguata alle sfide sociali e politiche nell’epoca della globalizzazione. Erzpire, di Michael Hardt e Antonio Negri, è senza dub-
bio il testo più noto di questo filone di ricerca, il lavoro di maggiore successo e insieme il bersaglio delle critiche più radicali. Non è questo il luogo per tentarne una valutazione complessiva. È però opportuno sottolineare tre aspetti particolarmente rilevanti.
In primo luogo, Hardt e Negri enfatizzano l’elemento conflittualista del marxismo. Dichiarano esplicitamente di voler sciogliere un’ambivalenza presente in molta teoria marxista e nello stesso Marx: il conflitto nella loro ottica — o almeno nelle loro dichiarazioni — non si inserisce in una logica dialettica, non corrisponde a una fase del processo finalistico che avrà come esito — attraverso l’Aufhebung — una riconciliazione ‘a livello più alto’ o una ‘sintesi superiore’. Essi propongono «contro la dialettica della storia, una teoria non teleologica della lotta di classe»$6, vista come un «dispositivo è /a Machiavelli, aperto, indeterminato, a-teleologico, rischioso»®”.
In secondo luogo, nel gettare le basi della loro proposta teorica Hardt e Negri si riferiscono ampiamente ad alcuni autori ascrivibili alla tradizione repubblicana protomoderna, si confrontano analiticamente con la ricostruzione di Pocock, esprimono una forte affinità con il repubblicanesimo. Il loro obiettivo, essi dichiarano, è 30
modellare la nostra visione politica sulla tradizione repubblicana della de, mocrazia moderna. Che cosa significa essere repubblicani oggi? Che senso ha, nell'epoca postmoderna, riprendere quell’antagonismo che, nella modernità, diede vita ad un’alternativa radicalmente democratica? [...] Se siamo consegnati al non-luogo dell’Impero come potremo, a nostra volta, costruire un potente non-luogo come terreno per fare crescere un repubblicanesimo postmoderno?88
In terzo luogo, il ‘repubblicaneismo postmoderno’ di Hardt e Negri rimanda a una genealogia della modernità nella quale il repubblicanesimo protomoderno assume il ruolo centrale. La modernità, nella
loro ricostruzione, conosce un inizio rivoluzionario. Una serie di figure-chiave — da Duns Scoto a Dante, al Cusano, a Bacone, a Galileo —
scopre il ‘piano di immanenza?’: «i poteri della creazione, che in precedenza erano stati riservati esclusivamente al cielo, vengono riportati sulla terra»8?. Tale scoperta rivoluzionaria trova una diretta traduzione politica in una linea di autori che va da Ockham a Marsilio, a More, a Spinoza, con il quale «l’orizzonte dell’immanenza e l’orizzonte dell’ordine politico democratico coincidono perfettamente»9?0, I concetti fondamentali di questa visione politica sono stati elaborati nel pensiero di Machiavelli: Questa tradizione repubblicana possiede un solido fondamento nei testi di Machiavelli. In primo luogo, nel concetto del potere come potere costituente, e cioè come un prodotto di un’interna e immanente dinamica sociale. Per Machiavelli, il potere è sempre repubblicano, è sempre il prodotto della vita della moltitudine, di cui costituisce il dispositivo espressivo. [...] L’altro principio machiavelliano è che la base sociale della sovranità democratica è sempre conflittuale: il potere è organizzato dall’emergere e dall’interazione dei contropoteri. In tal senso, la città è un potere costituente in at-
to, immersa in una pluralità di conflitti sociali articolata in un continuum di processi costituzionali. [...] il conflitto sociale è la chiave della stabilità politica ed è la base logica dell'espansione della res publica. La portata del pensiero di Machiavelli è quella di una rivoluzione copernicana che riconfigura la politica come movimento perpetuo?!.
Il concetto di potere costituente e la sua elaborazione nel corso della modernità erano stati ampiamente analizzati da Negri in un testo che precede di un decennio Empire. In esso Negri delineava una «tradizione metafisica», e altresì «una grande corrente del pensiero politico moderno, da Machiavelli a Spinoza, a Marx», nella quale «l’assen-
za di precostituzioni e di finalità si combina con la potenza soggettiva 51
della moltitudine, costituendo così il sociale in materialità aleatoria di un rapporto universale, in possibilità di libertà»?2. Criticando a fondo le nozioni di potere costituente elaborate dalla teoria giuridica dell’Ottocento e del Novecento, Negri ne proponeva una concezione che lo colloca in opposizione irriducibile al potere costituito, mentre tende ad identificarlo con una nozione spinoziana di democrazia quale ‘governo assoluto’ ed espressione della ‘moltitudine’. Per Negri è proprio Machiavelli, nel Principe, ad enne ue concetto di potere costituente, mettendo a frutto la lezione appresa dalla sua esperienza politico-diplomatica. Questa concezione è sviluppata nei Discorsi, che consistono nella «dimostrazione che l’unico contenuto assoluto della forma costituente è il popolo, che la sola costituzione del Principe è la democrazia»?. In quest'opera Machiavelli avanza la tesi rivoluzionaria secondo la quale il popolo è ‘capace di verità’, individua il nesso fra libertà ed eguaglianza, teorizza la legittimità del governo della moltitudine. E supera la nozione del governo misto per una concezione politica basata su un «gioco di veri e propri con-
tropoteri» che rende possibile la democrazia come ‘governo assoluto’. Secondo Negri, la nozione machiavelliana di potere costituente sarà ripresa e sviluppata da Harrington, interpretato come un autore conflittualista, filopopolare e anticapitalista?6. Con Marx il potere costituente verrà poi riconnesso al processo produttivo e identificato con il lavoro vivo”. Questo inizio rivoluzionario della modernità destabilizza l’antico ordine e dà luogo a conflitto e crisi. Ma Negri evidenzia anche un secondo aspetto della modernità, che «contrappose al potere costituente immanente un potere costituito trascendente: ordine contro desiderio»?8. Si avvia su questa linea un colossale processo controrivoluzionario. Sul piano della ‘metafisica’ si dispiega una strategia di ristabilimento dell'ordine trascendente attraverso il ‘dispositivo trascendentale’ elaborato da una serie di filosofi, da Descartes a Kant, a Hegel; sul piano istituzionale, «la sovranità diviene una macchina politica che domina la società intera»??, La sovranità dello Stato si configura insomma come il meccanismo capace di contenere il potere costituente della moltitudine, di neutralizzare la forza dirompente di quella rivoluzione con cui si era aperta la modernità; la trascendenza del potere costituito è giocata contro l’immanenza del potere costituente. Nella ricostruzione di Negri i termini delle opposizioni sono irriducibili: piano rivoluzionario dell’immanenza contro sovranità trascendente, potere costituente contro potere costituito, democrazia come governo assoluto contro costituzionalismo come limitazione del 32
potere costituente della moltitudine. I tentativi di sintesi fra potere costituente e potere costituito sono tutti visti come forme di neutralizzazione del potere costituente. Ciò vale per alcune tesi espresse dagli stessi teorici del potere costituente (da Harrington a Rousseau fino ai teorici della rivoluzione e della Costituzione americana e allo stesso Lenin) ed è l’esperienza pratica dei vari ‘termidori’ che concludono e ‘costituzionalizzano’ le rivoluzioni: da quella inglese a quella francese, allo stalinismo. In questa vicenda alla rivoluzione ‘repubblicana’ americana è attribuito un ruolo particolare, che tende ad essere enfatizzato nel passaggio da I/ potere costituente a Empire. Essa avrebbe avuto il merito di rompere con la tradizione della sovranità trascendente: «l’ordine della moltitudine non poteva essere fondato su un trasferimento della titolarità del potere e del diritto, ma doveva essere prodotto all’interno della stessa moltitudine, tramite un’integrazione democratica tra i poteri collegati in rete»! E con analogo favore Hardt e Negri guardano al principio espansivo della repubblica democratica americana, alla sua costituzione ‘imperiale’ e non ‘imperialista’. Sono questi principi la radice del ruolo svolto dagli Stati Uniti nella globalizzazione contemporanea: «l’idea contemporanea di Impero è nata nel corso dell'espansione su scala globale della Costituzione americana»!0, Questa valutazione positiva dell’esperienza sociale e costituzionale americana si connette ad un’analoga valutazione della progessiva affermazione dell'impero e del declino della sovranità nazionale. Per Hardt e Negri «la costruzione dell'Impero è buona in sé, ma non per sé»!92, in quanto spazza via «i crudeli regimi del potere moderno» e incrementa «i potenziali di liberazione». L'alternativa risiede nei processi di formazione e di sviluppo della moltitudine. Negri replica con veemenza all’accusa di riprodurre una filosofia dialettica della storia. La tesi sulla formazione di un soggetto alternativo all’interno dell’impero, di un proletariato inteso come «tutti coloro il cui lavoro è direttamente o indirettamente sfruttato e soggetto alle norme capitalistiche di produzione e riproduzione»!®, è presentata come il risultato di un’«analisi sociologica, fattuale e puntuta»!°. L’uso di un calco del termine spinoziano multitudo per indicare questo soggetto ha lo scopo di distinguerlo dal ‘popolo’ (prodotto di fatto dello Stato nazione)!9, La moltitudine è il soggetto del potere costituente, che a sua volta, come abbiamo visto, si identifica con la democrazia ‘assoluta’. L’idea che la democrazia assoluta si ponga come «sabotaggio costituente della moltitudine»! risale a I/ potere costituente. In Empire la prospetti33
va si allarga sulla scena globale, sulla quale è comunque possibile, secondo Hardt e Negri, ritrovare «il formalismo rivoluzionario del repubblicanesimo moderno»!. Il repubblicanesimo postmoderno si declina nei termini dell’essere-contro, del nomadismo, dell’esodo, del-
la diserzione, fino al ‘barbarismo’ e all’esperienza dei corpi ‘postumani’ intravista dal cyberpunk!98, Chi sperasse di trovare nei testi di Negri e Hardt una prefigurazione delle istituzioni del ‘controimpero’, espressione del potere costituente della moltitudine, resterebbe deluso. Come Marx, Negri e
Hardt non scrivono ricette per l’osteria dell'avvenire. Ma, a differenza di Marx, non tentano neppure un’analisi dei processi di formazione del soggetto rivoluzionario né prefigurano un quadro delle possibili forme evolutive dell’impero. Si limitano ad ipotizzare una ‘Guerra dei Trent'anni’ fra l’impero e la moltitudine e tentano di individuare i piani su cui potranno sorgere contestazioni e delinearsi alternative!09, Ci deve essere indubbiamente un momento in cui la riappropriazione e l’autorganizzazione raggiungono una soglia e configurano un evento reale. Questo è il momento in cui si afferma effettivamente il politico [...]. Questo
è il punto in cui la repubblica in senso moderno cessa di esistere e in cui sorge il posse postmoderno. [...] Il solo evento che stiamo aspettando è la costruzione — o meglio, l'insorgenza — di una potente organizzazione!!0,
Non molto di più. Chi si pone seriamente il problema teorico e pratico di analizzare e criticare gli assetti economici, geopolitici e giuridici globali, con il loro carico di sofferenze, di miseria e di oppressione per miliardi di esseri umani, può difficilmente essere soddisfatto da questi esiti. L’interessante analisi dei processi di costituzione della modernità, della genesi del suo pensiero politico e metafisico; l’elaborazione di un modello istituzionale per comprenderli, quale quello di ‘impero’; l’opportuna restituzione di uno spazio centrale, in questa vicenda, al repubblicanesimo conflittualista, e i prizzis alla figura di Machiavelli, conduce a questo approdo. Parafrasando ancora Marx, potremmo dire che Negri precipita dalla giurisprudenza nella teologia: dalla critica argomentata delle teorie giuspubblicistiche e filosofiche del potere costituente e della sua soggezione al potere costituito, all’attesa di un soggetto indefinito, indeterminato, quasi messianico. Ci si trova nella poco felice alternativa fra Pabbandono ad una sorta di spontaneismo neoanarchico che valorizza qualsiasi lotta ‘dal basso” 34
come espressione del potere costituente della moltitudine e il ritorno alla teologia della storia!!!, Ho già avvertito che non è questo il luogo per tentare una valutazione complessiva di questa prospettiva teorica. Vorrei solo insistere su un punto: ritengo che alcuni dei suoi limiti abbiano a che fare con un'interpretazione parziale, e in definitiva con una sottovalutazione, della concezione machiavelliano-repubblicana del conflitto sociale e politico. Negri e Hardt hanno il merito di collegare l'elemento democratico del pensiero di Machiavelli alla valutazione positiva del conflitto politico e alla valenza ‘costituente’ della politica popolare. Come abbiamo visto, per Machiavelli il popolo, i quarto attore del conflitto, produce «leggi ed ordini in beneficio della publica libertà». Ma Machiavelli non sostiene che ogni rivendicazione ‘dal basso’, ogni azione conflittuale del popolo siano buone. Insiste anzi a lungo sugli effetti disgregatori di alcune forme di conflitto politico, dalle ‘contenzioni’ nella Roma repubblicana dopo la legge agraria alla gran parte dei ‘tumulti’ nella repubblica fiorentina. Ho cercato di mostrare come per Machiavelli il conflitto virtuoso non sia necessariamente quello meno radicale o meno violento. È piuttosto il conflitto che esprime il contrasto fra gli ‘umori’ fondamentali della cittadinanza. Ma perché questa forma di conflitto sia possibile occorre che la moltitudine trovi una forma di organizzazione, esprima nei modi del costituirsi una sua propria ‘virtù’. È la posizione che emerge in due capitoli-chiave dei Discorsi: 1.57 («La plebe insieme è gagliarda, di per sé è debole») e I.58 («La moltitudine è più savia e più costante che uno principe»)!!2, Il popolo capace di proferire la vox Dei, cui Machiavelli allude, è il popolo «che comandi e sia bene ordinato», il popolo ‘incatenato’ dalle leggi. In determinate forme il conflitto politico ha effetti ‘ordinatori’ e dà forma allo stesso popolo (o alla moltitudine, se si preferisce il calco latino). In altri casi, date altre condizioni, no. Questo non significa, è be-
ne puntualizzarlo, che Machiavelli esprima quella posizione che sarà poi precisata da Hobbes nel XII capitolo del De cive. Lì Hobbes distinguerà fra il popolo, che «è un’unità con una sola volontà, a cui si può attribuire una sola azione»! e la moltitudine come insieme disorganico degli individui. Non c’è dubbio che in Hobbes sia la sovranità come potere costituito a conferire unità al popolo, che non sussiste come tale senza la spada che lo tenga insieme. In Machiavelli, per contro, il popolo mantiene una sua autonomia politica e sociale ri-
spetto al corpo politico costituito, e in questo senso si avvicina di più a quello che Hobbes intende come moltitudine. In Machiavelli, in35
somma, il popolo è effettivamente un ‘insieme aperto’, per usare l’espressione di Negri. Ma ciò non toglie che nella costituzione di questo insieme e nella sua maturazione come soggetto politico l’‘incatenamento’ alle leggi — il ruolo delle norme e delle istituzioni — come pure l’effetto formatore del conflitto siano determinanti. In altri termini, Machiavelli addita precisamente la necessità di interrogarsi sui processi di formazione e sviluppo del popolo-moltitudine, del suo ruolo sociale, della sua articolazione, del suo divenire soggetto politico. Di tutto questo fornisce una fenomenologia ricca e ar-
ticolata nelle sue opere, dagli scritti ‘minori’ ai Discorsi, fino al capolavoro rappresentato, per questo aspetto, dalle Istorze fiorentine. Tutto questo è precisamente quello che Negri e Hardt r0r fanno quando trattano della moltitudine. E, infine, il potere costituente della moltitudine per Machiavelli si esercita entro forme giuridiche, richiama — pace Negri — al principio del governo della legge. Certo, lo fa in termini del tutto differenti da quanto avveniva nella tradizione del governo misto e da quello che avverrà nella giuspubblicistica ottocentesca e novecentesca (cfr. infra, par. 5.1), ma stabilisce comunque una connessione ineludibile fra democrazia e Stato di diritto.
In questo capitolo ho cercato di ricostruire gli importanti contributi degli autori contemporanei che tentano di utilizzare il repertorio concettuale e l’eredità teorica del repubblicanesimo protomoderno e di mettere in luce quelli che mi appaiono i loro limiti. Ritornerò più specificamente su alcuni di questi autori nei prossimi capitoli. Credo comunque che sia opportuna una considerazione generale. Questo lavoro parte dall’ipotesi che il migliore approccio per un’utilizzazione teorica della tradizione non consista nell’individuare alcuni concettichiave, a cominciare da quello di virtù civica o — nel caso di Pettit — da quello di libertà, per costruire su di essi una (ennesima) filosofia politica normativa più o meno sistematica. Fra l’altro, non sembra questa
la lezione del repubblicanesimo protomoderno. Gli autori repubblicani, piuttosto che fare questo — piuttosto che immaginare «republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in ve-
ro» — hanno ricercato nella tradizione antica concetti e linguaggi tali da poter tematizzare problemi della loro contemporaneità e argomentare le loro soluzioni. E questo è anche ciò che sembra suggerire Skinner, quando afferma che riscoprire concezioni diffuse e accreditate in altre epoche rende consapevoli che le modalità nelle quali oggi concepiamo principi e valori «riflettono una serie di scelte compiute in tempi differenti fra differenti mondi possibili»!!4, 36
Dalla tradizione repubblicana, o almeno da una certa tradizione repubblicana, o da una certa lettura della tradizione repubblicana, potremmo dunque ricavare indicazioni per affrontare i nostri problemi, per tematizzare alcune istanze decisive della politica a noi contemporanea. Per elaborare strumenti critici e valutativi, piuttosto che per costruire sistemi normativi!!.
Capitolo secondo
Ragioni e torti dell’appartenenza
L’intero pianeta è disseminato di tensioni e conflitti per la rivendicazione di identità collettive. Gruppi linguisticieculturali, entità regionali, etnie e nazioni avanzano domande di riconoscimento e di autonomia politica. Collettività che in passato erano convissute senza gravi conflitti — spontaneamente o più spesso obtorto collo — chiedono di separarsi, o si prendono sanguinose rivincite. Dovunque — in modo pacato o violento, attraverso ‘rivoluzioni di velluto’ o spietate carnefici-
ne — si tende a dividere, a separare, ad affermare particolarità nei confronti di entità più ampie. Questi processi hanno subito una drammatica accelerazione a partire dal 1989 e sembrano costituire l’altra faccia della globalizzazione economica. Anche molti processi in atto nei paesi occidentali, dall’esplosione del rzelting pot statunitense alle tensioni relative all’immigrazione nei paesi dell’Unione Europea, possono essere ricondotti alla questione dell’identità collettiva, del rapporto fra ‘noi’ e gli ‘altri’. Emergono risentimenti, insicurezze e ostilità che coinvolgono molti cittadini, compresi gli elettorati progressisti. Si ha la sensazione che rischino di cedere alcune importanti dighe ideologiche o etiche, che stiano per essere allagati dalla marea particolaristica fertili po/der di tolleranza e di apertura nei confronti dell'altro’. Schierarsi per l’accoglienza e l’integrazione non sembra più pagare in termini di consenso. Le forze poli-
tiche programmaticamente xenofobe conquistano un macroscopico spazio elettorale e in molti casi dettano l’agenda politica. Igoverni conservatori introducono legislazioni sull’immigrazione che appaiono sempre più in contrasto con la tradizione costituzionale europea e con i principi dello Stato di diritto. Le stesse forze politiche progressiste sembrano incapaci a proporre un’alternativa culturale, ancor prima che politica, a queste tendenze, e appaiono inclini ai compromessi parlamentari o a versioni ‘di sinistra’ delle politiche emergenziali di chiusura e arroccamento. 38
Di fronte a questi fenomeni la tradizione liberale, quella democra-
tica e quella socialista sono state accusate di incapacità di comprensione. Non c’è dubbio che, fin dall’illuminismo, il pensiero progressista ha teso a considerare le identità ‘locali’ e ‘parziali’ alla stregua di problemi residuali o di contraddizioni secondarie. Il nazionalismo, l'identità religiosa, il localismo sono stati liquidati come epifenomeni, questioni la cui soluzione sarebbe stata il risultato quasi automatico del rischiaramento operato dalla Ragione, oppure della rivoluzione proletaria o dello Stato sociale. Tuttavia, è parte integrante di quest’eredità culturale — almeno da Rousseau in poi — anche la simpatia e la solidarietà con le minoranze oppresse in cerca di riconoscimento e di affermazione. Sul piano teo-
rico, queste due sensibilità.sembrano risalire a due differenti istanze. L’universalismo può essere visto come la conseguenza diretta dei principi di libertà individuale — in quanto venga intesa in senso ‘negativo’, come assenza di impedimenti e non interferenza — e di uguaglianza. La simpatia per le richieste di riconoscimento e di autodeterminazione esprime un altro principio costitutivo della cultura democratica: l’autogoverno, il diritto degli individui a incidere sulle decisioni che li riguardano, l'autonomia, la libertà ‘positiva’. Queste due istanze possono configurare un’antinomia: come tale, l’autogoverno presuppone un'entità collettiva, la delimitazione di un ‘noi’ che specularmente individua anche gli ‘altri’. E questa antinomia trova un riscontro nella politica contemporanea: l’autogoverno di una collettività sembra sempre più coniugarsi con la violenta esclusione degli appartenenti ad altre collettività e con la negazione dei diritti individuali. È possibile, entro una prospettiva democratica, ‘tenere insieme’ l'istanza universalistico-egualitaria e la dimensione dell’appartenenza? È possibile fare i conti in modo razionale con fenomeni così pervasivi e potenzialmente pericolosi? È possibile, insomma, una concezione
non esclusivistica della cittadinanza e dell'identità collettiva? 2.1. L'appartenenza fra liberalismo e comunitarismo 2.1.1. H terreno può essere sgombrato agevolmente, almeno sul piano teorico, dalle nozioni genealogiche, biologiche, al limite razzistiche di appartenenza. La critica storiografica ha efficacemente destituito di fondamento le visioni organicistiche, che interpretano le nazioni in termini di Blut und Boden (‘sangue e terra’), come il risultato spontaneo di DO
successioni genealogiche radicate nel territorio. L'identità collettiva, sia etnica, sia, a maggior ragione, nazionale, non può essere considerata alla stregua di un dato biologico. Alcuni autori la interpretano come un tipico prodotto della modernità e della società industriale; altri ne ricercano le origini remote. In ogni caso, l’etnia e la nazionalità appaiono entità artificiali, culturalmente costruite!. La stessa ricerca di Anthony Smith, indirizzata a sostenere che le nazioni moderne hanno le loro ra-
dici nelle etnie premoderne e che un elemento etnico è necessario in ogni processo di formazione di nazioni, mette fuori campo ogni nozione genealogica dell’etnia. Per la formazione e l’affermazione delle etnie, sostiene Smith, sono d'importanza fondamentale gli elementi culturali e simbolici (le tradizioni popolari, i riti, imiti, le credenze religiose tra-
mandate da un clero stabile), come pure la formazione di Stati dinastici o repubbliche cittadine e la partecipazione delle potenziali etnie a guerre e battaglie. E d’altra parte nello sviluppo dell’etnia e ancor più nella trasformazione dell’etnia in nazione vi è un uso consapevole, politico, della memoria e della mitologia da parte delle élites. È ovvio che oltre ad essere teoricamente insostenibili le teorie genealogiche ed organicistiche sono particolarmente pericolose dal punto di vista politico. Si potrebbe sostenere che tali teorie sono un prodotto dell’insicurezza, della ‘paura’ di una minaccia reale o immaginaria rappresentata dagli ‘altri’, dagli stranieri, dai ‘nemici’. I filosofi politici comzunitarian non propongono espliciti riferimenti a genealogie etniche o a ‘comunità di storia e di destino’. Essi sostengono piuttosto che sulla base dell’individualismo non è possibile fondare e sostenere principi normativi ambiziosi come quelli presenti nelle teorie liberali di Rawls e Dworkin. Ad esempio, il secondo
principio della teoria rawlsiana della giustizia (l’idea che le disuguaglianze sociali sono legittime solo se favoriscono i più svantaggiati) può essere giustificato solo se le dotazioni degli individui — sia quelle culturali e sociali che quelle naturali — vengono considerate un patrimonio comune. Allo stesso modo i sacrifici imposti dalla politica libera! a favore delle minoranze discriminate o dei ceti svantaggiati possono essere accettati solo in quanto contribuiscono alla realizzazione di un way of life cui anche il soggetto sacrificato partecipa. Per la sua stessa coerenza interna, sostengono i comunitaristi, la teoria della giustizia richiede una teoria della comunità, rimanda a una concezione ‘forte’, co-
stitutiva, di appartenenza?. E analoghe considerazioni valgono per le politiche di Welfare!. La critica dei communitarians alla filosofia politica liberal riguarda più in generale, come abbiamo già accennato (cfr. supra, par. 1.1.1) la 40
concezione dell’esperienza morale e dell’identità individuale. Charles Taylor si oppone all’antropologia ‘atomistica’ e alla connessa idea di ‘autosufficienza dell'individuo’ che da Locke in poi caratterizzano il liberalismo incentrato sui diritti individuali. Secondo Taylor la difesa dei diritti e della dignità individuale presuppone il riconoscimento di quelle capacities che rendono ‘umana’ una vita e che pertanto richiedono rispetto. Ne deriva un obbligo a sviluppare tali capacità, e un ‘obbligo di appartenere’ (ar obligation to belong) alla forma sociale che le rende possibili. Secondo Alasdair MacIntyre l’abbandono della concezione teleologica dell’individuo e della società e il tramonto della dottrina della ‘virtù’ — elementi tipici della classicità e del medioevo cristiano — lasciano l’etica moderna nell’incapacità di elaborare una teoria normativa coerente. Una dottrina etica è possibile solo in connessione con l'appartenenza ad una comunità e in continuità con una particolare tradizione. Lo Stato ‘neutrale’ del liberalismo non può essere l’espressione di un autentico consenso morale: nel suo ambito la politica si riduce alla guerra civile proseguita con altri mezzi6. Sandel, come abbiamo visto, critica la concezione del soggetto morale implicita nella teoria rawlsiana: l’‘io senza vincoli’ non è un soggetto libero e autonomo, ma un individuo privo di dimensione morale. E l'appartenenza ad una comunità a definire, almeno in parte, ciò che gli individui soro. Una concezione ‘costitutiva’ di comunità è dunque indispensabile anche per una nozione autentica di soggettività. D'altronde, se valesse l’immagine del soggetto come urencumbered self non potremmo comprendere «obblighi di solidarietà, doveri religiosi, e altri legami morali che possono vincolarci per ragioni indipendenti da una scelta»?: obblighi morali e politici che costituiscono «aspetti indispensabili della nostra esperienza morale e politica»8. Il fatto che questi obblighi e legami morali siano artecedent to choice li rende incomprensibili da parte della concezione liberale del soggetto. Di qui gli obblighi di appartenenza verso la particolare comunità in cui il soggetto si trova a vive-
re e con le persone che vivono in essa. In più, per realizzare l’autogoverno «occorre che imembri di una comunità politica si identifichino con il ruolo di cittadini e riconoscano gli obblighi che la cittadinanza impone». E non solo: «la cittadinanza è qualcosa di più che una condizione giuridica, ci chiede di avere determinate consuetudini e deter-
minate inclinazioni, di dare importanza al tutto e di essere orientati al bene comune»?, qualità che richiedono una costante ‘educazione politica’. Tutto ciò è impossibile se, secondo la dottrina liberale, si mettono fra parentesi i constitutive tres.
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Le argomentazioni critiche dei comunitaristi hanno il merito di rilevare come sulla base dell’individualismo metodologico e assiologico sia difficile rendere conto di quel senso di appartenenza che è parte integrante della cittadinanza democratica!?. Ma, come abbiamo già rilevato (cfr. supra, par. 1.1.1), gli argomenti comunitaristi appaiono assai più convincenti sul piano analitico che su quello normativo e comunque sembrano sovrapporre, o confondere, questi due piani. E la critica dell’‘io senza vincoli’, per quanto giustificata, non può ricondurre ad un’immagine a tutto tondo di un io formato dalla e nella comunità. L’individuo moderno è caratterizzato da una pluralità di appartenenze e soprattutto può realizzare i suoi differenti ‘fini’ solo in una pluralità di dimensioni esistenziali. L'impostazione dei comunitaristi sembra inoltre ignorare la possibilità del dissenso etico e politico. Anche l'identità del cittadino moderno si costruisce nel confronto con i valori e le assunzioni condivise in una comunità, e la sua stessa autonomia
è impensabile astraendo da un contesto interindividuale. Ma tale identità include il dissentire, il contrapporsi, il differenziarsi, per così dire l’essere-contro. Il dissenso è un momento costitutivo del processo identitario, e dunque rappresenta non solo un rischio, ma anche una risorsa morale e politica. D’altra parte, la difesa dei valori comunitari in quanto tali può collidere con la difesa dei membri di queste comunità, compresi gli esponenti delle minoranze interne e i dissenzienti. La nozione comunitarista di coesione e di integrazione sociale com-
porta insomma un sovraccarico etico sugli individui e sembra difficilmente riproponibile nella società contemporanea. 2.1.2.
I tentativi di soluzioni intermedie, le ricerche di una ‘terza via’
fra la concezione comunitaristica e quella individualistica della coesione sociale propongono un approccio più convincente all’apparte-
nenza?!! Michael Walzer ha teorizzato il riconoscimento delle comunità di vicinato, di quartiere e di etnia come effettivi soggetti politici e morali. E anche per Walzer lo Stato non può essere ‘neutrale’: deve impegnarsi a favore di determinati valori che in qualche modo delineano i caratteri della comunità politica. Ma Walzer ha anche proposto un'immagine tutt’altro che ‘comunitaria’ della società americana, caratterizzata dalle ‘quattro mobilità’: geografica, sociale, coniugale, politica. In questa situazione, la forma di vita che uno Stato democratico dovrebbe sostenere è un’‘associazione di associazioni’, liberale e pluralistica, sempre esposta ai rischi derivanti dalla mobilità (che
dev'essere salvaguardata e protetta), ma d’altra parte capace di sviluppare forti legami tra gli individui. Proprio per questo gli individui mo-
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derni non possono che essere cittadini part tie: nelle società complesse e differenziate la lealtà alla repubblica deve spartire il tempo e l’attenzione dei cittadini con l'appartenenza etnica, di classe, religiosa, familiare e con la partecipazione alle differenti realtà associative!?. Nessuna forma di esperienza, nessun ruolo, nessun ambito di vita
esaurisce le potenzialità degli individui né esprime una capacità umana essenziale. La stessa cittadinanza va vista come uno dei ruoli sociali dei cittadini!?. Nella prospettiva di Spheres of Justice «la comunità stessa è uno, e presumibilmente il più importante, dei beni che vengono distribuiti»!4. Ma chi distribuisce questo bene? Walzer sostiene che a distribuire la membership è il ‘noi’, il soggetto plurale dei cittadini di un paese. Questo ‘noi’ non è messo in questione da Walzer. Il suo interesse si rivolge piuttosto ad un altro problema: sarebbe irrealistico pensare a comunità dai confini totalmente permeabili. Un’eccessiva apertura delle comunità più vaste tende a tradursi nell’erezione di barriere da parte delle comunità più ristrette che sono interne ad esse: se gli Stati si trasformano in grandi vicinati, i vicinati rischiano di trasformarsi in piccoli Stati. Deve essere perciò consentita una qualche forma di chiusura e un controllo del flusso dell’immigrazione. D'altra parte per Walzer una comunità ha il diritto di ‘plasmare’ la popolazione residente e di salvaguardare la propria identità collettiva. Il ‘noi’ può tutelare se stesso, ha il diritto di impedire di essere trasformato dai processi di inclusione degli ‘estranei’. Ma se una comunità democratica intende rimanere tale, deve trattare equamente i residenti sul suo territorio: una democrazia non può ammettere, ad esempio, che i ‘lavoratori ospiti’ siano considerati come meteci!?.
Proprio in quanto la questione dell’appartenenza è impostata in termini di distribuzione, per Walzer le decisioni sull’ammissione di nuovi membri sono decisioni politiche. La conservazione dei caratteri della comunità è in ultima istanza l’oggetto di un atto politico. L’appattenenza ha insomma a che fare con atti consapevoli e decisioni collettive, e in questo senso Walzer è lontano da visioni etnicistiche e organicistiche. D'altra parte, ciò che accomuna le tesi di Walzer a quelle dei comunitaristi è l’idea che la comunità sia qualcosa di dato, presupposto, assunto, la cui esistenza e la cui identità non sono messe in
discussione. Ciò è evidente nelle considerazioni di Walzer sull’identità americana, considerata come un felice esempio di esperienza plurinazionale. «Non esiste nessuna nazione chiamata America»!° e pertanto la sola cosa che gli americani possono condividere «è la repubblica stessa, gli affari del governo»!7. Gli immigrati sono, per usare la fortu43
nata espressione di Walzer, hyphenated Americans. In espressioni come ebreo-americano o italo-americano la parte a sinistra del trattino esprime l'elemento etnico della cittadinanza e la parte a destra l’elemento politico-artificiale. In altri termini gli americani si sentono «comunitari nei loro affari privati, individualisti in quelli pubblici»!8. D'altra parte l’identificazione etnica, per quanto produca un fondamentale effetto di donazione di senso, «non ha nulla a che fare con l’es-
sere cittadini»!9. La lealtà politica ha per oggetto la repubblica, non l’etnia. AI di là dei dubbi sull’effettiva rispondenza del ‘modello del trattino’ all’esperienza storica americana, rimane l'impressione che Walzer problematizzi in modo insufficiente i processi di formazione dell’identità etnica: la parte a sinistra del trattino è un dato non problematico. E non viene indagato in che misura i processi storici e la prassi politica influenzino la formazione, la costruzione e il riconoscimento di questa appartenenza. Un dubbio aggravato dalla lettura dei saggi scritti da Walzer nella fase di esplosione degli etnonazionalismi, particolarmente cruenta nell'Europa del dopo-1989, per tacere sull’ Africa negli stessi anni. L’enfasi di Walzer era tutta sull’ineluttabilità dei processi di separazione, piuttosto che sui problemi connessi alla pluralità delle appartenenze e sul carattere moderno e democratico dell’affermazione nazionale. La ‘rinascita della tribù’ era vista come un processo irreversibile e irresistibile. L'unico criterio cui riferirsi sembrava l’imperativo «Let the people go who want to go», eco evidente del «Lascia partire il mio popolo» pronunciato da Mosè in Esodo 5,129, Col senno di poi possiamo sostenere che queste considerazioni di Walzer, scritte alla vigilia delle guerre di secessione della Jugoslavia, erano immotivatamente ottimistiche. E soprattutto il modello dell’Esodo appare come un’indebita semplificazione rispetto ad un’impostazione generale del problema della 72ewbership che risultava di grande interesse. Walzer problematizza insufficientemente i processi di formazione, separazione e riconoscimento delle etnie e delle nazioni, e soprattutto mantiene in ombra l’elemento politico, ‘artificiale’ che in questi processi è presente?!. In questo modo non sviluppa le sue stesse considerazioni e soprattutto sottovaluta le conseguenze filosofiche e politiche del fatto che le comunità — le singole etnie negli Stati Uniti, le nazioni in Europa — sono qualcosa che si è costituito attraverso
processi complessi, che includono elementi ‘artificiali’ e atti consapevoli. L'impostazione di Walzer rischia così di lasciare pressoché senza argomenti sul piano valutativo,e normativo. Nella sua prospettiva è difficile contrastare le istanze, anche le più aggressive, dell’etnicismo,
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del nazionalismo, e forse neppure quelle degli egoismi regionali. Né, detto per inciso, Walzer sembra interessato a fornire argomenti contro i nazionalismi ‘forti’, aggressivi e dotati di imponenti mezzi militari??, E comunque opportuna una precisazione. Per quanto differenziate e articolate, da un certo punto di vista le posizioni dei liberali e dei comunitaristi appaiono meno lontane di quanto i loro sostenitori affermino. Sia ritenere che la società moderna possa realizzare una forma universalistica di giustizia, sia riproporre un’etica del bene significa suggerire un'immagine organica della società in cui economia, politica ed etica sono del tutto congruenti, al limite indistinguibili. È dunque probabile che la discussione sulla nozione di appartenenza possa essere arricchita se si va al di là della filosofia politica normativa in senso stretto, segnata dalla discussione fra liberali e comunitaristi. 2.2. Dimensioni della cittadinanza
Per individuare un’alternativa alla concezione comunitaristica dell’appartenenza si può prendere in considerazione il dibattito sul concetto di cittadinanza. Nel classico saggio di T.H. Marshall citizenship esprime la «piena appartenenza ad una comunità»: è definita «uno status
che viene conferito a coloro che sono membri a pieno titolo di una comunità»?? in virtù dell’effettivo godimento di un insieme variabile di diritti civili, politici e sociali. Nella discussione recente si è sostenuto che la nozione di cittadinanza, in quanto esprime il nesso fra godimento di diritti e appartenenza ad un gruppo sociale, permette di connotare fenomeni, tendenze e processi all’opera sia nei paesi economi-
camente sviluppati caratterizzati da un sistema politico liberaldemocratico, sia in ambiti transnazionali e interstatali. Si pensi ai conflitti per l'affermazione di appartenenze etniche, culturali e religiose. Si pensi anche a determinate dinamiche interne alle comunità nazionali: la crisi generalizzata dei patti sociali e fiscali, la lotta per il riconoscimento di identità collettive, il rapporto fra eguaglianza e differenza. E si consideri infine l’impatto della globalizzazione economica sulla sovranità nazionale e sulle funzioni dello Stato?4. Per contro, molti autori considerano la prospettiva universalistica
come la sola compatibile con la democrazia e il costituzionalismo, e vedono ogni teorizzazione dell’appartenenza alla comunità politica come una regressiva affermazione di privilegio. Un significativo gruppo di filosofi politici e di studiosi delle relazioni internazionali afferma che l’unica risposta adeguata ai processi di globalizzazione consiste in 45
una profonda ristrutturazione delle istituzioni internazionali nel senso della democrazia cosmopolitica??. Da un altro punto di vista, Luigi Ferrajoli ha sostenuto che vi è un’antinomia fra la nozione di cittadinanza e il valore ‘universale’ attribuito ai diritti fondamentali dalle costituzioni contemporanee. Ferrajoli auspica dunque il superamento della cittadinanza, vista come «l’ultimo privilegio di st4tus, l’ultimo fattore di esclusione e di discriminazione, l’ultimo relitto premoderno delle disuguaglianze personali in contrasto con la conclamata universalità e uguaglianza dei diritti fondamentali»?5. Non intendo contestare l'opportunità di sviluppare, e soprattutto di democratizzare, le istituzioni internazionali, né tanto meno l’urgen-
za di affrontare le global issues e scongiurare i global risks. Tuttavia appare problematica non solo la realizzabilità di una repubblica cosmopolitica, ma anche la sua desiderabilità??. Una sommaria analisi dei processi politici in corso, a livello nazionale, regionale e globale, dovrebbe far riflettere: quanto più il luogo della decisione politica si allontana dai singoli cittadini, tanto più tendono a prevalere logiche tecnocratiche e decisionistiche, e aumenta il potere delle agenzie — pubbliche e soprattutto private — prive di ogni legittimazione democratica. L'economia globale e la geopolitica potrebbero produrre un paradossale rovesciamento del modello kantiano che richiedeva come condizione della We/trepublik che la costituzione interna dei singoli Stati fosse ‘repubblicana’. Proprio un’istanza cosmopolitica — di tipo tecnocratico — potrebbe limitare drasticamente l’autogoverno delle singole comunità. D'altronde, se la nozione di cittadinanza implicasse necessariamente — come sostiene Ferrajoli — valenze organicistiche, patriottarde ed etnicistiche, essa andrebbe senz'altro rifiutata?8. Ritengo però che sia possibile elaborare una concezione dell’appartenenza libera da implicazioni di questo tipo. Una tale nozione, oltre ad essere più attraente dal punto di vista normativo, esprimerebbe in modo più adeguato la realtà effettiva delle contemporanee società complesse e differenziate. Per elaborare una tale concezione non si deve trascurare, in primo luogo, l’importanza della dimensione economica della cittadinanza. J.M. Barbalet afferma che quando Marshall indica «una percezione diretta dell’appartenenza alla comunità che sia fondata sulla fedeltà ad una civiltà comune»?? come condizione necessaria della cittadinanza, quest’affermazione non deve essere presa in senso normativo. Per civilisation Marshall intende «una civiltà materiale che ha delle conseguenze culturali e sociali»?°. Non tanto la condivisione di valori nazionali quanto una ‘civiltà materiale’ che presuppone l’esistenza della 46
produzione di massa. Condizione dell’integrazione sociale è l’«aspettativa pratica che il sistema soddisferà gli interessi materiali di tutti i settori della popolazione e non soltanto dei più potenti»?!. Più recentemente, è stato Ralf Dahrendorf a sostenere che il peggioramento delle condizioni economiche e la formazione di una underclass estraneano dalla cittadinanza. Povertà e disoccupazione, sostiene Dahrendorf,
minacciano la stessa esistenza della ‘società civile’32, In secondo luogo, occorre considerare la pervasiva influenza esercitata sulle società contemporanee dalla rivoluzione informatica e dalla capillare diffusione dei media elettronici. Lo stesso nazionalismo moderno non sarebbe stato possibile senza la diffusione della stampa. Oggi, nella discussione sull’identità nazionale si dovrebbero tenere presenti, assai più che immagini romantiche del destino collettivo, ben più prosaiche rappresentazioni del pubblico televisivo. In terzo luogo, un ulteriore importante contributo alla comprensione dell’appartenenza proviene dalla teoria sociale, e in particolare dalle tesi del funzionalismo sistemico. Criticando l’immagine della società . proposta da Parsons, nella quale i sottostistemi sono strutturati secondo una rigida gerarchia cibernetica e l’ordine sociale è il prodotto delle norme, che rimandano in definitiva ai ‘valori ultimi’33, Niklas Luhmann ha proposto una concezione non gerarchica e non lineare del sistema, visto come una struttura ‘senza vertice e senza centro’. Luhmann segnala l’esistenza di meccanismi sistemici di produzione del consenso che riducono, per così dire, la quantità del senso di appartenenza con-
sapevole socialmente necessario?4. Per contro, uno dei motivi di interesse nella sociologia di Parsons è proprio il legame fra l'istanza normativa e la concezione della società come sistema. Da questo punto di vistalasua teoria appare meno unilaterale di quella luhmanniana che, specialmente dopo l'adozione del paradigma autopoietico, tende ad 0ggettivare la società alla stregua di un macro-organismo. Habermas ha cercato di riprendere questo aspetto della teoria parsonsiana: per comprendere la coesione sociale, secondo Habermas, occorre analizzare anche i processi comunicativi, a loro volta radicati nella Lebenswelt. Tale radicamento riduce i rischi di dissenso e le conseguenti difficoltà nell’integrazione. Non tutto può essere sottoposto al vaglio dell’argomentazione discorsiva: il linguaggio e i modelli culturali ereditati dal passato costituiscono una sorta di patrimonio comune, un insieme di conoscenze condivise che non hanno bisogno di essere problematizzate??. L'impostazione di Habermas permette di valutare il ruolo giocato dalle convinzioni diffuse, dai sentimenti locali e nazionali, dalle subculture, dalle ideologie politiche, dalle credenze re-
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ligiose nei processi di ‘produzione’ del senso di appartenenza, accanto ai meccanismi sistemici analizzati da Luhmann. Il problema è che per Habermas il riferimento all’interazione comunicativa rappresenta il punto di collegamento fra la teoria dell’azione e la ‘teoria del discorso’. Proprio nelle strutture del linguaggio ordinario, implicite in ogni progresso comunicativo finalizzato all’intesa con un interlocutore, si può individuare per Habermas quel principio di universalizzazione che permette di fondare la morale, l’etica e il diritto?5. Si dà cioè un circolo fra strutture della comunicazione, teoria del discorso e procedure giuridiche. Per Habermas si tratta senza dubbio di un circolo virtuoso; ma è su questo punto che la sua teoria si espone alle critiche più radicali. Habermas ha discusso a lungo sulla condizione ‘postmetafisica’ della filosofia contemporanea; ci si può allora chiedere se in questa condizione sia possibile basare un'etica universalistica sulle (supposte) strutture trascendentali del linguaggio (ricostruite peraltro secondo una particolare interpretazione della teoria degli atti linguistici?”).
Credo che per interpretare le dinamiche dell’integrazione sociale - entrambe le dimensioni del ‘sistema’ e della Lebenswelt debbano essere considerate rinunciando però alla prospettiva universalistica. Nell’impostare il problema dell’integrazione sociale Habermas grava i consociati di un ‘sovraccarico etico’: gli si ritorce contro la sua critica
ai comunitaristi?8, Di qui un'immagine idilliaca della Leberswelt, come se la prassi comunicativa producesse in modo univoco razionalità, processi di intesa, tolleranza, valori democratici. Nelle società del rischio, complesse e differenziate, la coesione sociale è il risultato di un articolato gioco di forze: motivazioni esplicite, scelte di valore, lealtà,
da un lato, processi sistemici che inducono all’obbedienza ‘senza particolari motivazioni” dall’altro. I cittadini sviluppano il loro senso di appartenenza in questo gioco aperto. Non ‘appartengono’ ad una comunità organica, ma a un’entità magmatica, a un terreno di scontri, di conflitti e di giochi cooperativi fra interessi e valori ‘politeistici’. 2.3. Cittadinanza repubblicana e conflitto sociale La considerazione della complessità sociale, della dimensione economica, dell'influenza esercitata dai 724ss 7zedia dovrebbe portare a rifiutare le concezioni eticistiche e moralistiche di appartenenza. Ma questo non significa considerare irrilevante ogni elemento normativo. In questa prospettiva, il repertorio concettuale della tradizione re48
pubblicana non è stato utilizzato solo dai comunitaristi: altri autori hanno proposto versioni differenti di una nozione ‘repubblicana’ dell’appartenenza e della comunità politica. Ronald Dworkin, a lungo considerato il campione della filosofia giuridica liberale progressista, ha proposto una nozione di comunità politica coerente con una forma di liberal civic republicanism. Prendendo spunto da Bowers vs. Hardwick?9, la già ricordata sentenza della Corte suprema che ha dichiarato costituzionale la norma della Georgia che proibisce la sodomia, Dworkin ha criticato la «concezione metafisica, antropomorfica della comunità politica». Una tale concezione, coerentemente sviluppata, rimanda all’idea che «le attività sessuali dei singoli cittadini in qualche modo si combinano in una vita sessuale nazionale». Solo in quest'ottica, infatti, «la vita di un cittadino
potrebbe essere macchiata dalle pratiche sessuali di un altro». Ora, se esiste qualcosa come una vita comune della comunità politica, essa non comprende ovviamente le pratiche sessuali. Include, piuttosto, «i suoi atti politici ufficiali: legislazione, adjudication, attuazione delle leggi, e le altre funzioni esecutive del governo. [...] i cittadini agiscono insieme, come collettivo, solo in questa maniera strutturata»4!. Molto
opportunamente, Dworkin ridefinisce l'appartenenza alla comunità politica facendo riferimento alla dimensione politica e giuridica; ma appare riduttivo identificare questa dimensione con gli atti istituzionali e giuridici formali. Il problema è cosa dà significato e fondamento a tali atti giuridici formali: cosa motiva, ad esempio, l’uso della tas-
sazione progressiva per redistribuire risorse ai cittadini poveri o alle aree meno sviluppate del paese, e la scelta di quello specifico paese. Anche Habermas, negli anni Ottanta, ha espresso l'opzione per un modello ‘repubblicano’ di cittadinanza, intendendolo nell'accezione ‘francese’ che fa riferimento alla ‘nazione-di-cittadini’ in opposizione al modello della nazione come ‘comunità di storia e di destino’. Habermas si ricollega al concetto di Verfassungspatriotismus4 ed evidenzia i pericoli insiti in «un’identità nazionale che non si basi in primo luogo su un’autocomprensione repubblicana, un’autocompresione di patriottismo costituzionale». Solo in questa accezione l’identità nazionale non contrasta con i principi ‘universalistici’ di eguaglianza e di giustizia sociale, e non impedisce il rispetto delle forme di vita e delle culture ‘altre’. È vero, sostiene Habermas, che a partire dalla Rivoluzione francese il nazionalismo ha svolto rispetto al repubblicanesimo la funzione di un catalizzatore, ma in seguito la libertà repubblicana si è emancipata dalla matrice nazionale. I principi liberaldemocratici, riconosce Habermas, devono radicarsi in una cultura politica con49
divisa: i cittadini sono tali in quanto costituiscono un ‘noi’, un'entità collettiva risultante da un processo di riconoscimento intersoggettivo. Ma tutto questo non rimanda necessariamente ad una matrice genealogica, linguistica o culturale: il derzos deve essere distinto dall’etbnos4. È evidente che qui il termine ‘repubblicana’ era declinato in modo parzialmente diverso che in Faktizitàt und Geltung®, dove di fatto diviene sinonimo di ‘comunitarista’: esprimeva l’idea di una cultura politica ancorata ai principi costituzionali, alternativa alle concezioni etnonazionalistiche e alle visioni della nazione come ‘comunità di storia e di destino’. Da questa visione consegue che i cittadini hanno diritto a conservare le caratteristiche della ‘forma di vita’ a cui appartengono, ma tale identità dipende dalla cultura politica e dai principi costituzionali. Ad esempio, è lecito richiedere agli immigrati che vogliono essere inclusi nella cittadinanza il rispetto dei principi costituzionali del paese e delle regole della democrazia liberale; è illegittimo imporre loro una rinuncia alla loro forma di vita etnico-culturale#7. Ma, hanno replicato i critici di Habermas, non sempre è possibile distinguere tra ‘forma di vita’ e appartenenza politico-giuridica. Per tornare all'esempio degli immigrati, lo scambio fra il rispetto rigoroso dei loro modelli culturali e l'accettazione del catalogo dei diritti e dei doveri che definisce l'identità collettiva nelle democrazie occidentali non è sempre facilmente configurabile. Si pensi, ad esempio, al fatto che la stessa idea di una separazione tra forma di vita e cittadinanza politica è una tipica acquisizione della cultura liberale occidentale; un’acquisizione peraltro relativamente recente. Più in generale posizioni come quelle di Habermas o di Dworkin insistono opportunamente sulla dimensione ‘politica’ e giuridica della cittadinanza, ma rischiano di semplificarne eccessivamente i'contorni. Soprattutto, rischiano di far smarrire ciò che connota le singole comunità politiche in un indistinto riferimento ai valori ‘universalistici’, alle procedure e ai diritti fondamentali. Nella ricerca di un modello di appartenenza alla comunità politica che permetta di evitare la Scilla dell’universalismo liberale e la Cariddi del comunitarismo è allora opportuno ritornare alle fonti protomoderne delle teorie repubblicane. I repubblicani classici avvertivano un forte legame con la loro polis, ma questo legame non veniva tematizzato in termini di ascendenze etniche o genealogiche. Piuttosto, essi si sentivano i continuatori di una storia comune e soprattutto i fruitori di una ‘libertà’ che valeva la pena difendere attivamente. Nella tradizione del pensiero politico protomoderno, l’appartenenza alla repubblica esprime un sentimento di lealtà ad un ordine definito in termini po50
litico-giuridici. Ma si tratta appunto di un sentimento, di una passione: l'appartenenza alla comunità politica coinvolge elementi affettivi e simbolici. Inoltre, si tratta dell’appartenza ad una particolare repubblica, connessa con l’adesione ad una cultura politica specifica*8. Su questa linea si colloca l’interpretazione della nozione di ‘patriottismo costituzionale’ proposta da Gian Enrico Rusconi. Rusconi intende il ‘patriottismo costituzionale’, nel senso di «adesione a una Costituzione nella quale lo statuto della cittadinanza è qualificato non soltanto dal catalogo dei diritti e dei doveri individuali ma dal riconoscimento che i vincoli imposti da quella Carta presuppongono, e riportano a una comunanza di storia e di cultura, chiamata sintetica-
mente nazione»*?, In questa prospettiva, anche Rusconi prende le distanze dall’universalismo habermasiano: la cittadinanza e l’identità nazionale hanno bisogno di radicarsi in un ‘mondo di vita’ culturale, storicamente costituito, non possono essere identificati con l’adesione a principi normativi universalistici?0. Analoghe considerazioni valgono per il concetto di ‘popolo’ proposto da Michelman, un concetto costruito esclusivamente in base a rife-
rimenti di tipo politico-giuridico. Infatti, contrariamente a quanto sostiene Habermas, nella teoria di Michelman il soggetto dell’autogoverno non esprime un ethos sostantivo comunitaristico, non rimanda a un «thick, substantive consensus»?!; è piuttosto il risultato di un processo
collettivo di reinterpretazione (e anche di evoluzione e mutamento) dei principi costituzionali. Michelman ha esplicitamente escluso di riferirsi all’ethos di una comunità già integrata. Certo, il processo ‘giusgenerativo’ e il constitutional discourse presuppongono un sentimento di ap-
partenenza, «un senso di condivisione collettiva di una qualche situazione storico-culturale»??. Ma Michelman ha qui buon gioco nel ricordare che anche la morale universalistica habermasiana deve essere sostenuta da una forma di vita che incorpori gli elementi di una cultura politica liberale. Da parte sua la concezione repubblicana non fa che suggerire l’idea di «a Sittlichkeit of communicative ethics»?. Queste considerazioni di Michelman possono dare un’idea del senso in cui il repubblicanesimo classico — in quanto distinto dall’aristotelismo etico e dunque interpretato in modo differente rispetto a quanto fanno i comunitaristi — possa offrire spunti interessanti per il dibattito teorico sulla cittadinanza. Esso consente di enfatizzare il sentimento di appartenenza a istituzioni, forme associative e comunicative, anziché a comunità organiche o forme di vita etnico-culturali. L’appartenenza non è il risultato di un’eredità, una prerogativa dello ius sanguinis. Non è neppure l’esito della spontanea identificazione ‘co51
stitutiva’ dei cittadini con le finalità della comunità politica: Machiavelli sottolineava che è la costrizione delle leggi che rende ‘buoni’ icittadini, perché «gli uomini non operono mai nulla bene se non per necessità»?4,
Nella tradizione repubblicana le norme giuridiche e gli assetti costituzionali — le ‘leggi’ e gli ‘ordini’, nel linguaggio di Machiavelli - non sono né l’applicazione alle circostanze culturali e storiche determinate (la ‘specificazione’, per riprendere la terminologia di Tommaso d’Aquino) della lex naturalis, né l’espressione di un ethos sostanziale, né ov-
viamente la traduzione in ambito politico e giuridico dei principi della teoria del discorso, o di qualche altra teoria morale universalistica. Più modestamente, costituiscono la precondizione istituzionale per l’integrazione sociale e per lo svolgimento ‘virtuoso’ della vita politica (dove ‘virtù’ ha un significato specificamente politico). E dunque scorretto parlare qui di giusnaturalismo o di comunitarismo. D'altra parte anche nelle proposte neorepubblicane, comprese quelle di Michelman, il sistema giuridico è probabilmente oberato di un onere eccessivo in quanto è il diritto a svolgere la decisiva funzione di garanzia dell’integrazione sociale. In realtà, come abbiamo visto, nelle società contemporanee
sono all’opera meccanismi che riducono notevolmente, per così dire, il senso di appartenenza socialmente necessario. Se la coesione sociale dipendesse esclusivamente dalla razionale adesione ai principi costituzionali, dagli effetti integratori del diritto e dai sentimenti di lealtà le no-
stre società sarebbero assai più disgregate??. Ricordo inoltre che nella tradizione repubblicana circola l’idea di un'articolazione verticale e orizzontale dell’appartenenza: qualcosa che ricorda le tesi di Walzer sulla società civile come ‘ambiente di ambienti’ nel quale nessun ambito di vita esprime le potenzialità essenziali degli individui. L'appartenenza repubblicana — oltre ad articolarsi verticalmente in dimensioni culturali, etniche, associative, religiose — non
può non prevedere vari livelli di identità politica: da quello vicinale, di quartiere e di villaggio al territorio, alla regione, fino a possibili identità sovranazionali. In questa pluralità di appartenenze, accanto a quella nazionale, assume un particolare rilievo quella cittadina. Ma soprattutto c'è un aspetto della riflessione repubblicana sulla cittadinanza che mi pare particolarmente rilevante, e che viene sottovalutato da molti teorici contemporanei del repubblicanesimo. Mi riferisco alla già citata valutazione positiva (di alcune forme) del conflitto politico, nella linea inaugurata da Machiavelli nei Discorsi. Questo tema è stato ripreso da Georg Simmel e recentemente sviluppato da Alessandro Pizzotno. Se con la formazione dei grandi Stati nazio52
nali il sentimento di appartenenza tende ad attenuarsi, nel conflitto sociale «sembrano invece ricostituirsi possibilità di riconoscimenti forti, quotidianamente ripetuti e quindi forme di solidarietà attiva che pur non eccede i limiti costituzionali della solidarietà collettiva più ampia»?°. Date certe condizioni, la conflittualità sviluppa la pluralità e la complessità dell’appartenenza contemporanea, ma produce anche effetti di coesione, attraverso una sorta di feedback. D'altra parte, come abbiamo visto, per Machiavelli non tutte le forme di conflitto politico sono virtuose. Lo è il conflitto fra gli ‘umori’, le grandi articolazioni della cittadinanza che esprimono gli interessi, i valori, le passioni fondamentali in campo. Non lo è — come dimostrano molti capitoli dei Discorsi e soprattutto le Istorze fiorentine — il conflitto fra gruppi aggregati intorno a singole personalità, allo scopo di favorire il loro potere personale e di sottomettere gli ordinamenti repubblicani ai loro interessi. Analogamente, potremmo dire, è probabile che il paradosso virtuoso degli «odi privati, pubblica amistade» di cui parla Pizzorno valga soprattutto per il conflitto fra partiti o schieramenti politici ben definiti dal punto di vista della caratterizzazione ideologica e dei riferimenti sociali, come pure per il ‘tradizionale’ conflitto di classe o per le forme di mobilitazione ispirate alla rivendicazione di diritti fondamentali. Effetti diversi, potenzialmente disgregatori sull’identità collettiva, sembrano produrre gli scontri ‘corporativi’ o guidati da interessi particolari, come pure sembrano produrle le rivolte dei gruppi privilegiati. E, reciprocamente, considerazioni analoghe potrebbero valere per i conflitti fra gruppi caratterizzati da identità ‘troppo’ forti (ad esempio, da etnonazionalismi o da ideologie fondamentalistiche di matrice politica o religiosa). Quali forme assumerà il conflitto sociale nella società della globalizzazione e degli assetti ‘imperiali’ dovrà essere oggetto di analisi attenta e approfondita; la mera individuazione della ‘moltitudine’ come soggetto sociale onnicomprensivo appare una scorciatoia comoda ma inadeguata. È possibile riprendere questi riferimenti alla tradizione repubblicana per delineare itratti di una nozione di appartenenza alternativa sia alle concezioni comunitaristiche sia a quelle universalistiche è la Habermas (per quanto molte di queste concezioni utilizzino l’etichetta ‘repubblicana’). Secondo una tale concezione l'appartenenza si declina in termini politico-giuridici. Ma richiedere il rispetto dei diritti e doveri di cittadinanza non significa esigere la sottomissione ad un codice normativo universale, né l’adesione ad una forma ‘superiore’ di razionalità. Più semplicemente, diviene una precondizione per l’integrazione all’interno di una comunità politica. È, per così dire, la ri53
chiesta avanzata da una tribù — una tribù che si autocomprende come società aperta, liberaldemocratica, fondata sul rule of law — ai potenziali nuovi membri. Una tale nozione rimanda ad una sobria affermazione dell’identità nazionale in quanto identità democratica: la cittadinanza politica rinvia alla tradizione storica non per individuare un improbabile ‘destino’ collettivo ma per valorizzare quegli eventi, di alto valore simbolico, e al limite quei miti collettivi di fondazione, che qualificano quella specifica comunità politica come democratica. Si pensi ad esempio, per il nostro paese, alla Resistenza. E deve sempre essere vigile la consapevolezza del carattere ‘artificiale’ e ‘costruito’ dell’identità nazionale. Occorre rendersi conto che se le nazionalità sono degli artefatti, e se in particolare le nazioni moderne sono il prodotto di un'attività consapevole e di una mobilitazione politica, sul piano normativo è impossibile stabilire una discontinuità assoluta tra la formazione di un’appartenenza ‘etnica’ o ‘nazionale’ e quella di un’appartenenza ‘sovranazionale’, come quelle degli Stati federali. Se nella formazione delle etnie e ancor più nell’affermazione delle nazioni hanno operato fattori culturali, simbolici, politici, militari, si sono dispiegati processi analoghi a quelli che si sarebbero potuti avviare — e che in parte si sono avviati — per le aggregazioni sovranazionali. Insomma, sul piano
normativo non c’è una differenza assoluta (per quanto ovviamente ci siano differenze relative) fra la costruzione dell'identità nazionale italiana dopo il 1861 e quella di un’identità federale jugoslava (o socialista-jugoslava) dopo il 1945, o fra la costruzione di un’identità degli Stati Uniti e quella di una possibile identità europea. Una concezione ‘repubblicana’ dell’appartenenza, in questa luce, non esprime il legame con una comunità eticamente integrata ma l’attivismo, il conflittualismo, il senso di un'identità collettiva ‘politica’, finalizzata alla tutela degli individui dal dominio. Questa concezione getta una luce particolare sull’idea che la citizenship permette di assumere la prospettiva ex parte populi anziché vedere i fenomeni politici ‘dall’alto’9”. D’altra parte, in inglese il termine citizenship mantiene una peculiare aura attivistica, esprime in qualche modo l’impegno dell’essere cittadini inteso come rivendicazione dei propri diritti e assunzione delle proprie responsabilità. Ma questo attivismo, questa insistenza sulle virtù della partecipazione si spoglia dei suoi possibili tratti moralistici e non allude all’antropologia dello z06r politikòn né assume colorature comunitaristiche Credo che su questa linea si possa anche far fronte ad alcune delle più significative critiche che sono state mosse alla concezione mar54
shalliana della cittadinanza. In particolare la tendenza di Marshall, sottolineata da differenti autori, a considerare l’inclusione nella cittadinanza come un processo lineare, risultato di un progressivo mutamento nella ‘mentalità’ delle classi dirigenti, dovrebbe essere superata collocando il conflitto sociale al centro dei processi di affermazione dei diritti e di ridefinizione dell’appartenenza?8. Anche all’interno delle ‘cittadinanze pregiate’ dell'Occidente la titolarità formale dei diritti si stabilizza e diviene effettiva, in molti casi, solo attraverso una costan-
te mobilitazione politica, ed è comunque sempre esposta al rischio di un ritorno all’ineffettività. E questo vale in misura maggiore per gli strati più deboli, per gli emarginati, per gli stranieri. Più che abbandonare la nozione di cittadinanza come un relitto premoderno, si dovrebbero valorizzare questi aspetti, che rimandano all’idea della costituzione dell’identità collettiva attraverso la ‘lotta per i diritti’ (cfr. infra, cap. 3). La negazione del nesso fra diritti e appartenenza, del radicamento dei diritti, rischia di risolversi in un misco-
noscimento razionalistico della realtà politica. E in questo modo si finisce anche per impoverire il patrimonio dei valori politici sul quale si può ricostruire una teoria e una cultura democratica nell'epoca della globalizzazione. Il senso di appartenenza non è solo particolarismo aggressivo e ostilità verso l’‘altro’: può anche significare rifiuto dell’omologazione, difesa delle pluralità, resistenza all’etnocidio. Il sentirsi-parte-di, l’essere-membri non è solo un residuo ingombrante e rischioso: rimanda anche a valori progressivi come l’autonomia, la solidarietà, la reciprocità.
2.4. Identità italiana e tradizione repubblicana È plausibile una concezione dell’appartenenza di questo tipo? Davvero un riferimento alla tradizione repubblicana è ancora utile per definire l'identità collettiva nell’epoca della globalizzazione, delle migrazioni, degli etnonazionalismi? Vorrei tentare una risposta a queste do-
mande attraverso il riferimento alla genesi storica e ai problemi attuali dell’identità nazionale italiana. Come abbiamo visto, l’Italia è la patria di origine della tradizione repubblicana nel pensiero politico protomoderno. O, almeno, lo è quella sua parte centro-settentrionale che ha visto, all’inizio dello scorso millennio, l'affermazione dell’esperien-
za politica delle repubbliche cittadine. E questo vale sia che, seguendo la ricostruzione di Pocock, si faccia risalire tale origine all’umanesimo civico fiorentino del Quattrocento, sia che, secondo la tesi di
dI
Skinner, la si retrodati al pensiero politico ‘neoromano’ del XIII secolo. Italiano è l’autore eponimo del pensiero politico repubblicano, il protagonista del ‘Îmomento machiavelliano”. Ed è in Italia che — nell’epoca dell’affermazione delle monarchie nazionali — alcune esperienze repubblicane hanno continuato a resistere, se non a prosperare, fin nel corso del XVIII secolo. Ci si può allora chiedere se il pensiero politico repubblicano abbia influenzato l’identità nazionale italiana e il concetto italiano di cittadinanza, e se esso conservi oggi un valore teoricopolitico.
2.4.1. Credo che sia da rilevare ben più che una vaga assonanza fra il linguaggio politico della tradizione repubblicana e le prime, precoci manifestazioni letterarie di un’identità nazionale italiana. Penso, ad
esempio, al lamento di Francesco Petrarca per le ‘piaghe mortali’ che affliggevano il ‘bel corpo’ della patria?°. È il caso si soffermarsi su una considerazione: nel XIV secolo la penisola italiana fa parte dell’impero, di fatto frammentato in una miriade di unità politiche; è rimasta di-
visa fin dall'invasione longobarda del VI secolo ed è caratterizzata da fortissime differenze linguistiche regionali. L’unica esperienza unitaria è stata quella, ormai molto remota, dell’egemonia di Roma. E in Italia non vi è nulla di paragonabile a quegli embrioni di monarchie protonazionali che si sono affermate in paesi come la Francia o l’Inghilterra. L'Italia non conosce neppure un motivo ideologico analogo a quello della Reconquista, attuata dai regni cristiani della penisola ibe-
rica contro il califfato arabo e la religione islamica. È dunque di grande rilievo che in un tale paese si esprima in termini così forti un senso di identità nazionale, che si connota essenzialmente come un lamento
per l’assoggettamento straniero. È il caso di ricordare che la poetica di Petrarca è innervata dal mito di Roma antica, e più specificamente della Roma repubblicana. Il lamento per l’oppressione straniera dell’Italia, e la denuncia dell’inadegutezza dei suoi governanti, rappresenta un filo rosso che attraversa la storia della letteratura italiana, dal drammatico capitolo fi-
nale del Principe®® ai Sepolcri8!. A questo patriottismo letterario si salda una significativa elaborazione teorica, che si riallaccia alla tradizione romana. All’idea, espressa da Cicerone, secondo la quale «omnium
societatum nulla est gravior, nulla carior quam ea, quae cum re publica est uni cuique nostrum»62, L’allusione ai «cattivi semi i quali [...] rovinorono, e ancora rovinano, la Italia»? segna le ultime parole delle Istorie fiorentine: i testi di Machiavelli sono pervasi dal senso di ap56
partenenza alla patria fiorentina, che egli dichiara di «amare più della sua anima»°4; ma questo patriottismo repubblicano cittadino si salda con un patriottismo nazionale. Se Machiavelli si sente un patriota, come abbiamo visto, emerge
nella sua opera una concezione dell’appartenenza alla comunità politica che fa a meno di riferimenti genealogici, e non allude ad un’omogeneità culturale. L'amore per la patria, che supera quello per la propria anima, è in primo luogo l’amore per la libertà e per le istituzioni del ‘vivere libero’, che tutelano l'autonomia individuale e la vita civile.
Abbiamo anche sottolineato che è costitutiva di questa nozione di cittadinanza l’idea che, mentre un certo tipo di ‘dissensioni’ ha effetti distruttivi, può rendere la repubblica serva e corrotta, un altro tipo di conflitto esprime gli ‘umori’ fondamentali dei cittadini e produce «leggi ed ordini in beneficio della publica libertà» (cfr. supra, par. 1.4). Il patriottismo machiavelliano è, inoltre, alieno da trionfalismo. Machia-
velli riconosce tutti i limiti della sua patria, ne diagnostica impietosamente le crisi e le debolezze. La dissezione delle patologie politiche e sociali di Firenze è tanto spietata, nelle Istorze fiorentine, che si ha ben
raramente l’impressione di trovarsi di fronte ad un’opera scritta su commissione dei Medici. E Machiavelli considera di grande importanza, per così dire un tratto indelebile del codice genetico di Firenze, l’essere nata ‘serva’, e avvia la ricostruzione analitica della sua storia
dal primo scontro violento tra due famiglie ottimatizie®. C'è un passaggio dei Discorsi che esprime in forma sintetica il nesso fra il patriottismo, il repubblicanesimo (e il realismo politico) di Machiavelli: la patria è ben difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria [...] dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita, e mantenghile la libertà”.
La cultura politica repubblicana viene definitivamente sconfitta, a Firenze, con l’affermazione del dominio familiare dei Medici, sancito
dall’istituzione del granducato di Toscana8, ma assicura ancora il suo contributo alle ultime esperienze repubblicane del XVI e XVII secolo, dalla resistenza di Siena ai Medici alla rivoluzione napoletana del 164769. Tale cultura riemergerà a più riprese, nelle repubbliche ‘giadI
cobine’ del periodo 1796-99, nelle rivoluzioni di Roma e di Venezia del 1848-49, fino all’epopea di Garibaldi. Massimo Rosati ha individuato nel ‘triennio giacobino” 1796-99 le prime manifestazioni del patriottismo unitario e le prime elaborazioni teoriche pertinenti7°, che identificano «la dimensione politica del patriottismo [...] con i principi di libertà ed eguaglianza»”!. In seguito, nonostante il gap culturale fra l’illuminismo dei giacobini e il suo misticismo romantico, Giuseppe Mazzini ripropone l’idea di un nesso intrinseco fra patriottismo, repubblicanesimo, costituzionalismo democratico, e anche — si noti — una valutazione positiva del conflitto, della «lotta ordinata d’elementi legali»?2. A differenza di Mazzini, che individua una soluzione rigidamente unitaria al problema dell’indipendenza nazionale, Carlo Cattaneo ripropone l’idea dell’appartenenza multipla, alla città e alla comunità nazionale, e la elabora in senso federale. Per Cattaneo non si può prescindere dall’amore per le ‘patrie singolari’; la libertà si identifica con la repubblica, ma «è una pianta di molte radici». L’idea cattaneana dell’Italia delle ‘cento città’ viene espressa ancora più radicalmente: «i comuni sono la nazione: sono la nazione nel più intimo asilo della sua libertà»??. E in Cattaneo la libertà e l’autogoverno sono la condizione logicamente e assiologicamente necessaria per l’indipendenza e l’unità nazionale. C'è un altro aspetto che Rosati sottolinea: per i giacobini, come pure per Mazzini e Cattaneo, essere patrioti significa anche essere critici
‘interni’ ai problemi del carattere e della storia nazionale, e riproporre il tratto ‘negativo’ dell'identità nazionale rivendicandone l’importanza: «non si parla che di eternare la memoria delle virtù repubblicane per eccitare all’imitazione; perché non eternare la memoria della tirannia per farcela odiare eternamente?»?4. Vincenzo Gioberti, per
contro, tenderà a lasciare in ombra i limiti e le storture dell’esperienza storica nazionale per esaltare un presunto ‘primato morale e civile’
garantito al Belpaese dalla millenaria presenza del papato. E Gioberti sarà fra i primi a subordinare l’elemento civico dell’appartenenza nazionale a quello naturale, linguistico, geografico, etnico e soprattutto religioso, sovvertendo la scala di priorità del patriottismo repubblicano. Su questa linea, il nesso fra patria e libertà verrà sempre più affievolendosi fino a perdersi. Ciò nonostante, i fili della tradizione repubblicana si riannodano nell’opera di una serie di autori, fra cui spiccano quelli che appartengono alla variegata costellazione del liberalsocialismo, del movimento
«Giustizia e libertà» e del Partito d'Azione. Piero Gobetti critica la 58
paura del conflitto sociale come uno degli elementi più perniciosi della identità italiana”, e stigmatizza quei tratti del carattere italiano che hanno reso possibile il fascismo. E tuttavia Gobetti allude ad un’altra identità nazionale, radicata nel riconoscimento del valore democrati-
co del conflitto politico e della lotta popolare contro la tirannide e per l’autogoverno”6. Si può stabilire una linea di continuità, teorica, ideale e politica, fra il liberalismo radicale di Gobetti, i protagonisti del movimento liberalsocialista come Carlo Rosselli, e gli esponenti della cultura azionista. Inoltre, secondo Rosati, è possibile considerare nell’al-
veo del patriottismo repubblicano anche molte analisi di Antonio Gramsci, ‘nonostante’ la sua appartenenza politica comunista e la sua adesione al marxismo””. 2.4.2. Il repubblicanesimo rappresenta dunque una delle radici storiche dell’identità nazionale italiana. Ma si può sostenere che oggi la tradizione repubblicana giochi un ruolo — teorico, etico, politico — significativo? Una buona dose di scetticismo è opportuna. L'identità nazionale italiana è stata per secoli un’esperienza limitata ad una parte dell’élite dirigente (per quanto significativamente diffusa in tale élite). E più specificamente quella della sua versione repubblicana è una storia di sconfitte. Le esperienze repubblicano-giacobine della fine del Settecento furono distrutte sia dalle potenze conservatrici che dalle bande sanfediste, che dalla strategia geopolitica di Bonaparte. L’eroe dell’unità italiana è stato un repubblicano, Giuseppe Garibaldi. Ma, ciò nonostante, le esperienze repubblicane del 1848 — da Milano a Venezia,
a Roma — sono state tanto eroiche quanto effimere, e fin da
quell’epoca la direzione politica del processo di unificazione nazionale è stata tenuta dalla monarchia sabauda e ha trovato in Cavour il suo stratega. La Stato unitario uscito dal processo di unificazione si presenta come una monarchia centralizzata e la retorica dell’identità nazionale non concede niente ai principi repubblicani. Ancora più lontano dalla tradizione repubblicana è il nazionalismo del primo Novecento, che anzi si appropria del linguaggio patriottico scindendo il nesso con la libertà e la democrazia. Ed è il fascismo a monopolizzare infine termini come ‘nazione’ e ‘patria’ fino a renderli a lungo inservibili in una prospettiva democratica. Il fiume carsico del repubblicanesimo riemerge nella seconda fase cruciale per la costruzione dell’identità nazionale, l'opposizione al fascismo e la Resistenza, ma con l'avvento della democrazia repubblicana — nel clima della guerra fredda —- sembra 59
inaridirsi. Nel dopoguerra l'identità nazionale viene piuttosto plasmata dallo scontro fra le due culture politiche egemoni, quella democratico-cristiana e quella comunista. È questo conflitto a configurare, nell'Italia repubblicana, quel processo di affermazione dell'identità collettiva attraverso la trasformazione degli ‘odi privati” in ‘pubblica amistade’, di cui ha parlato Pizzorno”8. L'elemento ‘repubblicano’ dell’intransigenza azionista riemerge in molte fasi della storia recente, ma si trova poi puntualmente ridimensionato e sconfitto??. Ma c’è di più: fra gli studiosi che negli anni recenti hanno analizzato i problemi dell’identità italiana sono emerse voci che hanno imputato proprio alla cultura politica azionista-repubblicana alcune responsabilità storiche. Autori come Renzo De Felice ed Ernesto Galli della Loggia hanno ripreso l’idea che 1’8 settembre 1943, con l’armistizio e la fuga del re da Roma, si sia consumata la ‘morte della patria’. Galli della Loggia enfatizza gli effetti traumatici di lungo periodo della divisione che si è determinata nel paese, fra regno e repubblica di Salò, fra Resistenza antifascista e fascismo, ed auspica un congedo dall’eredità antifascista per ricostruire un’identità nazionale italiana. Galli della Loggia ipotizza fra l’altro che una continuità della monarchia avrebbe viceversa favorito l’affermazione di una più solida identità nazionale8°. Ma anche autori molto più vicini alla tradizione dell’antifascismo, come Pietro Scoppola o Gian Enrico Rusconi, hanno argomentato intorno ai limiti della cultura azionista. Il primo rivaluta il valore, e il significato autenticamente popolare, della ‘resistenza passiva’ all'occupazione nazista, diffusa fra le masse cattoliche, rispetto alla resistenza armata delle é/#es comuniste e azioniste, mentre il secondo — che pure, come vedremo, propone un rilancio del patriottismo costituzionale repubblicano — coglie il tratto elitario del radicalismo democratico azionista8!. AI di là delle valutazioni sul significato normativo della tradizione repubblicana, sono opportune anche altre considerazioni più generali. Ci si può chiedere che senso abbia riferirsi ad una tradizione politica elaborata nell’antichità e nell'epoca protomoderna per confrontarsi con i problemi della cittadinanza nelle contemporanee società complesse e differenziate. Per comprendere i processi di integrazione sociale, si può sostenere, i teoremi della teoria dei giochi o le elaborazioni della sociologia sistemica sono ben più utili della pagine di Machiavelli o di Cattaneo. L’Italia di oggi è una società postindustriale, complessa, inserita nei processi di globalizzazione, investita dalla presenza per60
vasiva dei 7zedia e da forme di differenziazione sociale ben più articolate di quelle espresse dagli ‘umori’ delle repubbliche cittadine. Ma c’è in particolare un elemento, che caratterizza la storia italiana più recente, e che rappresenta una radicale novità: l’Italia, da meno di vent’anni, da paese di emigrazione è divenuto paese di immigrazione. La presenza delle comunità straniere è certo molto meno signi-
ficativa che in paesi di immigrazione storica come la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, i Paesi Bassi, anche se si attendono gli effetti di lungo periodo del bassissimo tasso italiano di natalità. Ma in ogni caso si configura, per la prima volta, la fine di una sostanziale unità culturale, religiosa e linguistica che a lungo aveva costituito il sostrato della cittadinanza italiana. Infine, credo si possa affermare che in Italia il nesso fra identità nazionale e identità europea sia avvertito in modo significativo. Si tratta, per certi aspetti, di un effetto paradossale di quell’elemento ‘negativo’ che abbiamo colto nella idea repubblicana di cittadinanza e che, a livello popolare, si esprime in un’ironica e rassegnata critica dei costumi nazionali, dell’inefficienza della pubblica amministrazione,
del
malcostume diffuso. Da questo punto di vista l'integrazione europea è sentita come un'occasione di riscatto da non perdere. È significativo che i pesanti sacrifici imposti all'economia nazionale, e alle finanze personali, per rientrare nei parametri di Maastricht non abbiano causato in Italia né un significativo conflitto sociale né un’esplicita opposizione politica.
2.43. In ogni caso, quello dell’identità nazionale italiana rimane un problema aperto. Parlo di problema per almeno tre serie di motivi. In primo luogo, una forza politica significativa, radicata in molte zone dell’Italia settentrionale e attualmente presente nella coalizione di governo, auspica esplicitamente forme di rottura del vincolo di solidarietà nazionale. In secondo luogo, le forze politiche e il sistema giuridico italiano sembrano assai poco reattivi di fronte al radicale mutamento di scenario delineato dal fatto che l’Italia, come abbiamo visto,
è divenuta solo in anni recenti un paese di immigrazione e si trova in una posizione geografica tale da rappresentare il primo approdo dei flussi migratori dal Sud e dall’Est mediterraneo verso il Primo Mondo82, In terzo luogo, la transizione italiana, avviata nell’89 e nel ’92, non è ancora conclusa: non si sono consolidate istituzioni politiche rinnovate, né una nuova cultura politica ha preso il posto di quelle che avevano informato l’esperienza storica del dopoguerra. La tradizione 61
repubblicana può allora offrire un contributo — sul piano analitico e/o su quello normativo — nel difficile compito di ridisegnare un’identità nazionale? Se la tradizione repubblicana fosse correttamente rappresentata dalle tesi comunitariste, molto probabilmente no. Ma abbiamo visto come sia possibile, ed opportuno, mettere in discussione quest’immagine. Non sarà difficile riconoscere le forti affinità tra la versione ‘machiavelliana’ del repubblicanesimo e il repubblicaneismo dei ‘patrioti’ italiani. Si comprende dunque che proprio alla tradizione repubblicana si siano recentemente riferiti autori come Viroli e Rusconi, nel ten-
tativo di proporre una nuova versione del patriottismo come virtù della cittadinanza democratica. Questi autori hanno insistito sul nesso fra cittadinanza repubblicana e democrazia, ed enfatizzato la profonda
differenza fra il patriottismo repubblicano e le forme organicistiche ed etnicistiche di nazionalismo83. La riflessione di Rusconi, in particolare, parte da un’allarmata valutazione: la minaccia di secessione è un pericolo reale, e la Lega costituisce una forza politica di massa, radicata nel territorio di molte aree del Nord. Proprio per questo occorre attivare una cultura e un sentimento repubblicano, cioè una risorsa fondamentale per la democrazia84. Mentre Viroli contrappone il concetto (repubblicano) di patria a quello (etnico-culturale) di nazione, Rusconi considera la re-
pubblica come «il punto di incontro tra la razione, quale esito di una lunga e contraddittoria vicenda storica, e la derzocrazia come progetto politico imperfetto ma perfezionabile»85. Sconfitto nel Risorgimento, il repubblicanesimo ha avuto un grande impatto nella fase costituente, che — sostiene Rusconi contro le tesi revisioniste — rimane
«l'episodio più carico di valore e di pathos collettivo nazionale»8£. Rusconi precisa che questo processo non rimanda a un ‘nucleo duro’ etnoantropologico, ma ad un'esperienza storica di interazione e co-
municazione fra individui e gruppi, attraverso la quale la ‘società civile’ e la nazione repubblicana si costituiscono entro determinati confini culturali e geografici. Per Rusconi, inoltre, il repubblicanesimo consente di ridefinire «il nesso necessario in una democrazia tra impianto istituzionale e motivazioni di comportamento dei cittadini»87, D’altra parte, che la tradizione politica repubblicana nella storia italiana sia stata qualcosa di più significativo che un genere letterario o l’oziosa ideologia di qualche éle politico-culturale è confermato anche dalla ricerca sociale empirica. Robert Putnam, in particolare, sostiene che vi è un nesso fra la ‘tradizione civica’ che caratterizza le re62
gioni italiane che hanno conosciuto l’esperienza repubblicana e il rendimento delle istituzioni88. D'altronde è difficile, e forse impossibile, comprendere il processo di affermazione di un’identità nazionale italiana se si prescinde dalla tradizione repubblicana. Come abbiamo visto, per lunghi secoli non si è potuto fare riferimento a miti collettivi, ad un’epopea condivisa, a battaglie eroiche. Gli italiani non hanno sofferto — almeno in patria — persecuzioni etniche o religiose né si sono impegnati in crociate. Nel loro patrimonio letterario non ci sono saghe di eroi semidivini, né epopee di paladini cristiani, ma piuttosto la Divina commedia, il Decameron e l’Orlando furioso. Né alcuna dinastia regnante ha potuto svolgere un ruolo mitopoietico significativo. Ma proprio quest’assenza dei tradizionali 72ytborzoteurs fa risaltare l’importanza della centenaria elaborazione letteraria, del richiamo all’antichità romana e soprattutto della protesta contro il dominio dei ‘barbari’ stranieri: insomma dei tratti costitutivi l'identità repubblicana. In un’epoca di affermazione degli Stati etnici, di richieste di secessione, ma anche, meno drammaticamente, di allentamento dei vincoli
di solidarietà fra regioni ricche e regioni povere, una ridefinizione dell’identità nazionale, a partire dalla consapevolezza del carattere ‘artificiale’ e ‘costruito’ di ogni identità collettiva (di quella etnica e 4 fortiori di quella nazionale) trova insomma argomenti importanti nel repertorio concettuale del repubblicanesimo. Abbiamo visto, inoltre, che nella tradizione repubblicana circola
l’idea che l'appartenenza — oltre ad articolarsi verticalmente in dimensioni culturali, etniche, associative, religiose — non può non prevedere vari livelli di identità politica: da quello vicinale, di quartiere e di villaggio, al territorio, alla regione, fino alla possibile identità europea. L’idea che, a date condizioni, pluralizzare il patriottismo non significa indebolire il senso dell’identità nazionale, viene espressa da Cattaneo con l’immagine della pianta dalle molte radici, e con la tesi che «i comuni sono la nazione: sono la nazione nel più intimo asilo della sua libertà». Ritengo che l’articolazione delle appartenenze civiche, e in particolare la valorizzazione della dimensione cittadina, additi un percorso di innovazione istituzionale, ma non solo. Si può cogliere anche un’importante indicazione per il difficile compito di ricostruire una cultura civica italiana, dopo la crisi di quelle che hanno segnato la storia del dopoguerra. È probabile, infatti, che nell’epoca della globalizzazione e della rivoluzione telematica — e forse in particolare proprio in Italia — le città costituiscano un luogo privilegiato per una politica più controllabile dai cittadini, tale da attivare le risorse disponibili di
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‘patriottismo’ e senso civico. Ed è forse soltanto nel governo delle città che possono radicarsi esperienze di democrazia non meramente formale, tali da conferire ‘senso’ alla politica. Oltre alla nozione civica di identità collettiva e all’articolazione pluralistica dell’appartenenza, un terzo elemento di rilievo mi pare quello che Rusconi ha definito ‘patriottismo espiativo’: «una modalità di partecipazione passiva ai lutti della nazione [...], caratterizzata da un vago sentimento di colpevolezza che non è personale [...] ma collettivo». I dolori causati dalla guerra, internazionale e civile, finiscono per apparire «come il prezzo che la comunità deve pagare per il proprio riscatto dal consenso dato al regime fascista che ha portato alla catastrofe». Si tratta di un sentimento che «produce un nuovo riconoscimento di un destino comune» e si prolunga nella storia repubblicana «facendo da collegamento con il nuovo ordine politico civile» fino a svolgere «una funzione analoga o surrogatoria della ‘religione civile’ »89, Il ‘patriottismo espiativo’ non è immune da rischi. Nell’apparato simbolico di molti nazionalismi aggressivi non si trovano solo condottieri semidivini, santi trionfatori, genealogie più o meno improbabili, miti di origine, ma anche narrazioni di sconfitte (magari immaginarie)?°. Ma ipotizzo che il patriottismo espiativo italiano sia di segno diverso, perché appunto si contrappone all’idea del ‘primato’ nazionale e si ricollega alla tradizione repubblicana, e che proprio per questo costituisca un’eredità da riprendere e riutilizzare. I patrioti e i teorici repubblicani, critici ‘interni’ del carattere e della storia nazionale, hanno riferito strettamente la loro nozione di identità collettiva al rifiuto collettivo dell’oppressione: «a ognuno puzza questo barbaro dominio». Credo che quest'idea, così saldamente inserita nella tradizione identitaria italiana, si colleghi direttamente alla concezione, tipica del repubblicanesimo neoromano, della liberty as non domination, come
esclusione dell’interferenza arbitraria”. E che suggerisca argomentazioni decisive contro la tesi della ‘morte della patria’. Infine, occorre sciogliere un malinteso. Molti autori stabiliscono un nesso stretto fra patriottismo repubblicano, virtù militare, allineamento alle politiche governative nel caso di eventi bellici?2. Su questo aspetto, ritengo che si debba prendere congedo da Machiavelli, o almeno da una certa interpretazione del suo pensiero: se l’esistenza di un processo democratico è una delle condizioni necessarie della cittadinanza repubblicana, e se il conflitto sociale è una condizione necessaria della ‘publica libertà’, la critica, il dissenso, la disobbedienza ci-
vile costituiscono risorse almeno altrettanto vitali quanto la lealtà, il consenso e l'obbedienza. Questo vale, e in modo particolarmente si64
gnificativo, rispetto ad issues fondamentali come la partecipazione di un paese ad una guerra. Non è detto che se un’opinione pubblica si divide su temi del genere, questo esprima un allentamento dei vincoli di appartenenza alla comunità nazionale”. E ritengo che, nonostante le apparenze, il principio right or wrong, r2y country non sia particolar-
mente coerente con la cittadinanza repubblicana — o almeno con il tipo di repubblicanesimo di cui abbiamo parlato. Assai più congruente, come abbiamo visto, è l’idea del ‘patriottismo costituzionale’, che nel caso italiano implica la fedeltà all’articolo 11: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Capitolo terzo
Fondare i diritti?
Ci sono più cose nella teoria politica e giuridica della prima modernità di quante non siano state pensate attraverso lo strumento del contratto sociale: uno dei meriti indiscutibili del lavoro storiografico di Pocock — lo abbiamo già rilevato — è l’aver riportato alla luce, in tutta la sua pervasività, un linguaggio teorico-politico alternativo a quello del paradigma giusnaturalistico moderno. Alla luce di questa operazione storiografica si è affermata, come abbiamo visto; una visione standard
del repubblicanesimo: il repubblicanesimo sarebbe connotato da concetti-chiave come virtù, bene comune, doveri, in contrapposizione al contrattualismo moderno, e al liberalismo contemporaneo, come con-
cezioni individualistiche rights-based, fondate sulla centralità dei diritti. In altri termini, la vicenda del repubblicanesimo risulterebbe precedente, o sarebbe rimasta estranea, alla moderna ‘età dei diritti’, con-
trassegnata dall’affermazione della figura deontica del diritto soggettivo rispetto a quella del dovere!. L'affermazione di quest’idea è stata ovviamente favorita dall’interpretazione del repubblicanesimo come una variante dell’aristotelismo politico. La ricerca storiografica successiva all’opera di Pocock non ha solo messo in questione, come abbiamo visto, questa ascendenza aristote-
lica: ha portato alla luce l’utilizzazione, da parte di molti autori repubblicani, del linguaggio dei diritti, fino a tratteggiare il profilo di un natural rights republicanism?. Tuttavia, i filosofi politici communitarian insistono sulla contrapposizione fra repubblicanesimo e teorie politiche rights-based. MacIntyre ha sostenuto che credere nell’esistenza dei diritti umani equivale a credere in quella delle streghe e degli unicorni?. E Sandel enfatizza la distanza della ‘teoria’ repubblicana dal liberalismo procedurale proprio su questo specifico aspetto. Da un punto di vista storico egli ricostruisce la vicenda della cultura politica e giuridica americana nei termini di uno scivolamento da una filosofia della virtù ad una filosofia dei diritti come #rump cards, come principi su66
periori che prevalgono su ogni scopo sociale in quanto attributi inalienabili di ciascun individuo*. Con una certa malizia, Sandel nota che
fu proprio nella famigerata Lochrer era? che la Corte suprema adottò una rights-based jurisprudence: «Per la prima volta nella storia americana, i diritti soggettivi funzionavano come carte vincenti. La libertà non dipendeva più soltanto dalla diffusione del potere, ma trovava una protezione diretta da parte delle corti»6. Da un punto di vista teorico Sandel non esclude un’utilizzazione del linguaggio dei diritti, ma precisa che «invece di definire i diritti in base a principi neutrali fra le diverse concezioni del bene, la teoria repubblicana interpreta i diritti alla luce di una particolare concezione della buona società, la repubblica che si autogoverna»”. Ma non sono solo i comunitaristi a marcare la distanza fra la concezione repubblicana e quella liberale dei diritti soggettivi. Anche tra gli autori che fanno propria la distinzione fra repubblicanesimo aristotelico e repubblicanesimo machiavelliano, e ricercano una ‘terza via’ fra liberalismo e comunitarismo, o propongono il repubblicanesimo come una forma democratica di liberalismo, emergono critiche delle teorie rights-based. Skinner ha segnalato che «se non mettiamo i nostri doveri prima dei nostri diritti, dobbiamo aspettarci di trovare i nostri stessi diritti messi a repentaglio»8. Bellamy, ispirandosi alle tesi di Onora O’Neill, ha proposto una concezione ‘repubblicana’ della cittadinanza che vede i diritti «come il prodotto del processo politico e non come un suo presupposto»: i repubblicani «ritengono che la struttura morale della politica sia definita dal dovere di partecipare alle decisioni collettive e di prendere sul serio le opinioni dei propri concittadini e non da un diritto di partecipazione che il singolo può esercitare o meno»?. Più recentemente, Bellamy ha precisato che il political constitutionalism, parte integrante del liberalismo democratico, non può essere definito rights-based: I diritti derivano il loro fondamento o dalla legislazione o dai requisiti del sistema politico, entrambi da adattare alle circostanze ed alle caratteristiche della comunità politica e soggetti a cambiamenti. In determinate circostanze può essere opportuno assicurarne l'applicazione coerente conferendo loro una limitata rigidità costituzionale, soggetta a una procedura democratica di emendamento, e mediante forme di controllo di costituzionalità [judi-
cial review]. Ma il sistema opera non garantendo diritti prepolitici bensì incoraggiandone l’attuazione attraverso una cultura politica civile [civzlity] e il dovere generale di ascoltare l’altra parte. Il costituzionalismo politico cerca di promuovere le virtù civiche e non di farne un uso limitato, come vorrebbero invece quasi tutti imodelli costituzionali!0.
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Viroli non considera esplicitamente il tema dei diritti soggettivi e l’enfasi delle sue considerazioni è posta, invariabilmente, su concetti
come ‘bene comune’ e ‘vita civile’. Ed è significativo che, nel suo dialogo con Norberto Bobbio, abbia insistito sull'opportunità di integrare i suoi scritti su L'età dei diritti «con un saggio sulla necessità del dovere»!!. Pettit, a sua volta, non pone il problema di una connessione teorica fra la libertà come non-dominio e il linguaggio dei diritti!?. Sembra dunque che le teorie neorepubblicane, nelle loro varie forme, concordino sull’idea di una prevalenza della figura deontica del dovere su quella del diritto soggettivo, e sulla priorità del processo politico di autogoverno sui diritti fondamentali. In questo modo si espongono ad almeno due tipi di critiche. Da un lato la riaffermazione dei doveri — in genere collegata ad un linguaggio teorico delle virtù civiche e della vita buona — sembra configurare una sorta di ri-eticizzazione della politica, una sorta di superamento di quell’autonomizzazzione relativa degli ambiti della politica, della morale e del diritto che si era definita nella modernità. Un superamento che 4 fortiori appare difficilmente proponibile nelle postmoderne società complesse e globalizzate. D'altro lato l’idea della prevalenza del processo politico sui diritti sembra configurare un congedo dal costituzionalismo contemporaneo, se non dall’intera tradizione dello Stato di diritto, e riaprire la via a concezioni populistiche e plebiscitarie della democrazia, a forme postmoderne di ‘tirannia della maggioranza’ che appaiono particolarmente rischiose proprio nell'esperienza contemporanea. Più in generale, di fronte alla prospettiva di un abbandono del linguaggio dei diritti per sostituirlo con nozioni come ‘vita buona’, bene comune,
virtù e doveri, molti proverebbero una qualche forma di disagio, avvertirebbero l'impressione di rinunciare ad un lascito prezioso dell’esperienza giuridica e politica della modernità. Per un verso, le proposte dei neorepubblicani sembrano dunque irrealistiche; d’altra parte, rischiano di mostrarsi deboli sul piano normativo, rinunciando ad uno strumento efficace e duttile per la formulazione e la ‘traduzione’ giuridica di principi, interessi e valori quale si è dimostrato, in più di due secoli di modernità, il linguaggio dei diritti. 3.1. I paradossi dell’universalismo Le critiche comunitaristiche e neorepubblicane alle teorie dei diritti hanno comunque alcune buone frecce nel loro arco. Si inseriscono, in particolare, nel solco della critica all’universalismo, considerato uno 68
degli attributi tipici delle teorie rights-based, in contrapposizione alle teorie relativiste, contestualiste e comunitariste. Il paradigma di questo universalismo è considerata la Dichiarazione universale dei diritti ‘ dell’uomo, approvata dall’assemblea delle Nazioni Unite nel 1948, e successivamente fatta propria dalla quasi totalità degli Stati, tanto da venire considerata un ‘decalogo’ valido per tutto il genere umano!3. Ma la genealogia dei diritti soggettivi rivela un’origine a sua volta particolaristica. Il dibattito sul significato di is nel diritto romano classico è molto articolato, tanto che alcuni negano l’esistenza stessa di una nozione di diritto soggettivo!4; è comunque da escludere che ius potesse indicare qualcosa come un diritto soggettivo ‘naturale’ o ‘universale’. La moderna affermazione del concetto di diritto soggettivo si ricollega all'esperienza giuridica medievale: il Medioevo ha conosciuto una proliferazione di rivendicazioni di libertà, franchigie, immunità da parte di soggetti individuali e collettivi che chiedevano di essere riconosciute e tutelate giuridicamente, di essere cioè dichiarate ira. Ma questo non significa che si attribuisse ai diritti soggettivi validità universale. Nel caso paradigmatico dell’ordinamento inglese, i rights — dalla Magna Charta al Bill of Rights del 1689 e oltre — erano concepiti come antichi diritti e libertà goduti ‘fin da tempi immemorabili’ dai sudditi inglesi, in quanto membri di quella particolare comunità, in virtù della loro Ancient Constitution. Se le origini del linguaggio dei diritti sono indelebilmente segnate da questo particolarismo, anche il percorso che ha portato all’elaborazione di una nozione compiutamente soggettivistica e universalistica dei diritti fondamentali come attributi e poteri ‘naturali’ degli individui umani si rivela molto tortuoso e soprattutto è aperto ad esiti paradossali. In particolare, è difficile sostenere che quanto più una teoria distingue analiticamente fra il significato soggettivo e quello oggettivo di diritto tanto più è adeguata a fondare la tutela giuridica degli individui. Né è possibile parlare dell’universalismo in maniera univocamente positiva. Propongo solo alcuni esempi. Nella ‘controversia sulla povertà’, che nel XIV secolo contrappose l'ordine francescano a papa Giovanni XXII, la nozione di diritto soggettivo venne elaborata da un lato dai teologi francescani, che intendevano teorizzare la possibilità di rinunciare a tali diritti, e d’altro lato dal papa, che voleva iporre a determinati soggetti la titolarità di tali diritti. D'altra parte — come ha lucidamente mostrato Luigi Fer-
rajoli — la prima teoria universalistica dei ‘diritti umani’, quella di Francisco de Vitoria, ha legittimato la colonizzazione spagnola delle Indie occidentali!?. 69
La definizione paradigmatica del diritto soggettivo in contrapposizione al diritto in senso oggettivo (right contro law, ius contro lex), la sua attribuzione a tutti gli uomini in quanto tali, la teorizzazione dell’eguaglianza naturale sono opera di Hobbes; ma questo avviene nel contesto di una teoria intesa a fondare la rinuncia ai propri diritti - disponibili agli individui in quanto loro proprietà — da parte dei sudditi e a legittimare lo Stato assoluto. Per contro, Locke potrà riproporre la tradizionale funzione di garanzia svolta dai rights all’interno del quadro costituzionale inglese solo reintroducendo un riferimento alla legge naturale posta da Dio e al conseguente dovere di autoconservazione!%. Tutto questo potrebbe non essere pertinente, se non nella misura in cui invita a cautele e distinzioni. Al di là delle difficoltà e degli inci-
denti di percorso, il secolare processo di elaborazione della nozione dei diritti fondamentali potrebbe comunque averci riconsegnato uno strumento concettuale affidabile. È vero che le critiche alla concezione giusnaturalistica dei diritti — dall’analisi humeana di quella che è poi stata definita la ‘fallacia naturalistica’ alla concezione benthamiana dei diritti di natura come 4 ronsense upon stilts, fino alla critica corrosiva del giuspositivismo novecentesco — si sono esercitate per più di due secoli. Ma, al di là dei loro limiti epistemologici, queste critiche non rendono conto dell’incorporazione dei diritti ‘fondamentali’ o ‘inviolabili? nelle costituzioni contemporanee!”. Emerge dunque una sorta di paradosso del giuspositivismo conseguente: gli ordinamenti giuridici positivi fanno propri, e dunque positivizzano, diritti fondamentali la cui fonte non è l'autorità statale, e che mantengono, per così dire, una sporgenza normativa rispetto allo stesso ordinamento.
Si pone però un problema ulteriore. La storia dell’elaborazione del linguaggio dei diritti, ed anche la storia dell’attribuzione ad essi di un valore universale, è una storia tipicamente occidentale, tanto che lo stesso concetto di diritto soggettivo è pressoché intraducibile in altre culture giuridiche e in altre tradizioni etiche. È allora opportuno chiedersi fino a che punto i ‘diritti fondamentali’ presentano una validità interculturale. Il riferimento ai testi normativi internazionali, a cominciare dalla Dichiarazione universale del 1948, non è sufficiente a risol-
vere il problema. Già nella discussione del 1946-48 in seno alle Nazioni Unite è emersa la forte impronta occidentale del suo contenuto!8. Successive Carte dei diritti promosse da organizzazioni internazionali che fanno riferimento ad aree geografiche a lungo rimaste estranee alla cultura illuministico-liberale potrebbero però essere interpretate come il segno di una grande capacità espansiva del linguaggio dei dirit70
ti. Tuttavia, la lettura di tali carte mostra una significativa influenza delle tradizioni culturali sul modo in cui il linguaggio dei diritti viene recepito, un modo che risulta difficilmente conciliabile con il classico individualismo liberale!9. D'altra parte, credo si possa sostenere che anche i tentativi contemporanei di fondazione dei diritti rimandano all’esperienza politica e giuridica della modernità occidentale. Né i «valori fondamentali» di John Finnis, né la teoria rawlsiana della giustizia paiono pensabili al di fuori della vicenda culturale inaugurata dal diritto romano, rilanciata nel medioevo cristiano e sviluppata nell’età moderna. D'altra parte, il contestualismo, se non il comunitarismo, della più nota rights theory, quella di Dworkin, è addirittura esplicito?0, Nel dibattito recente, il tentativo più articolato di fondare i diritti in prospettiva universalistica è probabilmente quello di Jiirrgen Habermas. In Faktizitàt und Geltung i diritti fondamentali risultano: 1) il ‘precipitato’ della normatività che nelle società arcaiche e tradizionali era ancorata nell’ezbos tradizionale ed oggi è differenziata nei codici normativi della morale postconvenzionale e del diritto positivo; 2) la
condizione necessaria perché si costituisca il codice diritto, che richiede la garanzia dell'autonomia privata e pubblica; 3) l’implementazione, attraverso una ‘genesi logica dei diritti’, del principio normativo generale della teoria del discorso — il ‘principio D’?! — per quanto riguarda l’ambito politico-giuridico. Ciò riconduce in ultima istanza i diritti fondamentali alle strutture quasi-trascendentali del discorso. Su questa via, Habermas attribuisce ai diritti dell’uomo una validità tendenzialmente universale. Per Habermas, infatti, è vero che la prassi legislatrice, entro i limiti stabiliti dal principio del discorso e dal medium giuridico, è libera di promulgare e specificare nuovi diritti??. Ma d’altra parte i vari cataloghi storici dei diritti sono letture differenti «d’uno stesso sistema dei diritti»: «più di due secoli di sviluppo costituzionale europeo [...] possono guidarci ad una ricostruzione generalizzante delle intuizioni su cui poggia la prassi intersoggettiva di una legislazione intrapresa con strumenti di diritto positivo»??. Ma non è difficile argomentare che anche la fondazione habermasiana rimanda ad un contesto storico, sociale e culturale ben definito. Habermas tratta dell'evoluzione dei sistemi sociali, politici e giuridici occidentali. È in Occidente che si realizza la ‘genesi cooriginaria’ di diritti fondamentali e sovranità popolare, Stato di diritto e democrazia, cui Habermas allude. E quando considera i diritti come il presupposto necessario del codice giuridico, si riferisce non a ogni ordinamento giuridico come tale, ma al diritto positivo occidentale moderno, ere71
de del diritto romano, in senso specifico, non in un’accezione lata come nelle teorie istituzionalistiche, ispirate al motto ubi societas ibi ius?4. In realtà, in tutti i luoghi in cui Habermas argomenta l’universalità dei presupposti inevitabili del discorso, introduce una clausola del tipo ‘per tutti coloro che vogliano intendersi reciprocamente’. Ora, è chiaro che il volersi ‘mettere d'accordo’, l’impegnarsi nell'interazione comunicativa, il porre la propria verità a disposizione dell’interlocutore, costituisce in realtà il gesto decisivo. Ad accettare di discutere e confrontarsi la cultura occidentale è pervenuta gradualmente, con molta fatica e in modo incompleto. Si tratta di una conquista evolutiva fragile e sempre in pericolo, come dimostra anche la storia più recente. AI di là dei persistenti problemi di ‘fondazione’ nell’epoca ‘postmetafisica’ della filosofia, la posizione di Habermas è esemplare del fatto che anche i tentativi contemporanei di riproporre una concezione universalistica dei diritti generano paradossi ed effetti perversi. Questo vale, ad esempio, per le tesi habermasiane sui.cosiddetti Asia7 Values. Come è noto, alcuni esponenti delle é/tes dell’ Asia orientale, a cominciare dall’ex premier di Singapore Lee Kuan Yew, contrappongono all’individualismo universalistico l’idea che in Asia la disciplina, la coesione sociale, i valori familiari, la gerarchia e l’ordine sono considerati prioritari rispetto alla libertà politica e che proprio questa diversa gerarchia dei valori favorisce una superiore efficienza economica?5. Habermas ha replicato ai teorici degli Asian Values con la tesi che non si diano (né in Europa né in Asia) equivalenti funzionali del medium giuridico tali da garantire le sue prestazioni sul piano dell’integrazione sociale; e il diritto moderno tutela sia l'autonomia etica individuale sia il perseguimento dell’interesse individuale?6. Semplificando, la tesi di Habermas è che con la globalizzazione economica i paesi di recente industrializzazione non possono che utilizzare il 72edium giuridico, e dunque sviluppare lo Stato di diritto — che a sua volta tutela i diritti umani — accettando il pluralismo culturale. Habermas, insomma, tende a generalizzare in termini quasi di filosofia della storia il ‘composto chimico instabile’ realizzato in Occidente, capace di coniugare progresso scientifico, tolleranza, diritti, democrazia. Ma non riesce a dimostrare che non siano possibili ‘altre’ modernità rispetto al modello storico occidentale. Forme di sviluppo magari più rispettose dell’ambiente e più efficienti sul piano tecnologico, ma caratterizzate da differenti scale di valori (ad esempio, dalla prevalenza di scopi sociali come la tempestività delle decisioni o l’integrazione comunitaria rispetto ai diritti civili o ai principi democratici) e capaci di approntare ordinamenti giuridici coerenti con esse. Ma soprattutto se 72
i diritti individuali risultano un portato della globalizzazione economica si recide il nesso fra Stato di diritto, diritti umani e sovranità popolare, su cui la teoria habermasiana del diritto si regge. Peggio ancora, questa impostazione potrebbe paradossalmente avvicinare i teorici autoritari dell’«Asia che sa dire no» ai movimenti di resistenza all’omologazione, di difesa del pluralismo culturale, di opposizione alle conseguenze perverse della globalizzazione economica. Altrettanto significativa è stata la posizione assunta da Habermas nel 1999 sulla guerra condotta dalla Nato contro la Federazione Jugoslava: la prima guerra ad essere combattuta in nome dei diritti umani?7. L’evidente violazione del diritto internazionale vigente, sia sul piano dello ius ad bellum che su quello dello ius ix bello, è stata giustificata facendo riferimento alla superiore esigenza di sanzionare la violazione dei diritti umani dei cittadini kosovari e di impedire la reiterazione di tale violazione. Habermas ha riconosciuto che solo nella prospettiva cosmopolitica della cittadinanza universale i diritti umani potrebbero assumere uno status giuridico analogo a quello dei diritti fondamentali nelle costituzioni contemporanee, e dunque le azioni militari per tutelarli si potrebbero configurare come ‘interventi legali’. In assenza di questa ‘istituzionalizzazione a livello globale’ dei diritti umani la discussione si trova in una zona indistinta fra diritto e morale. Tuttavia per Habermas il riferimento ai diritti umani ha legittimato l'intervento della Nato, che — per quanto ‘paternalistico’ — è avvenuto «con buone motivazioni etiche»?8. E auspicabile che queste argomentazioni non finiscano per dare sostegno a «un nuovo fondamentalismo, che rischia di opporre l'Occidente ai diritti del resto del mondo e di riproporre la stessa ossessione identitaria che è propria delle guerre etniche: da un lato l'Occidente, dall’altro il mondo restante cui si pretende d’imporre i valori dell'Occidente con il mezzo della violenza»??. D'altronde, l’utilizzazione ideologica dell’universalismo dei diritti nella competizione geopolitica globale e nei processi ‘imperiali’ di affermazione del New Global Order è evidente. La legittimazione della strategia di global security degli Stati Uniti, incentrata sulla guerra al terrorismo globale, vista a sua volta come «un’impresa globale di incerta durata» fa perno sul riferimento ai diritti umani?9. Nel recente documento della Casa Bianca The National Security Strategy of the United States of America essi includono rule of law, libertà di parola e di culto, equal justice, rispetto per le donne e, esattamente sullo stesso piano, «rispetto per la proprietà privata». E i diritti umani sono con-
siderati universali, risultano «veri per ogni persona, in ogni società». 73
Ma, senza alcun imbarazzo, nel documento della Casa Bianca si scivo-
la dai riferimenti ai diritti universali all’affermazione dei valori e degli interessi americani: «la strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti si fonderà su un internazionalismo specificamente americano che ri-
flette l’unione dei nostri valori con i nostri interessi nazionali». Per difendere questi valori e questi interessi la cooperazione delle alleanze e delle istituzioni internazionali èbenvenuta ma non necessaria. E l’azione degli Stati Uniti sarà, se necessario, preventiva: «our best defense is a good offense». Queste tesi violano platealmente le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite, che vietano la guerra preventiva e ammettono solo interventi di legittima difesa di fronte a un’aggressione. D'altronde in questo documento gli Stati Uniti si mostrano consapevoli del loro ruolo ‘imperiale’ e della leadership che hanno il diritto-dovere di esercitare su scala globale. Corollario di questa dottrina è la tesi dell’impunità degli americani rispetto alla giurisdizione della Corte penale internazionale. Il passaggio immediato, e la tendenziale identificazione, dal piano dei ‘valori americani’ a quello dei principi universali è ancora più evidente nel documento che un gruppo di intellettuali statunitensi ha pubblicato dopo l1°11 settembre 20015. Ma se questi sono i ‘doni avvelenati’ dell’universalismo dei diritti??, ciò non significa necessariamente che la nozione dei diritti soggettivi sia da rigettare, o che il linguaggio dei diritti sia sic et simzpliciter l’idioma dell'impero. È opportuna qui una precisazione terminologica. Quando si parla di ‘universalismo dei diritti’ si fa riferimento ad almeno due distinte questioni. Determinati diritti possono essere considerati ‘universali’ nel senso che ne sono titolari ‘tutti’ i soggetti facenti parte di una determinata classe?3. Nel caso dei diritti umani, tale classe corrisponde all’intera umanità. Ma in genere l’'‘universalismo’ tende ad implicare anche una seconda dimensione: si sostiene che i diritti sono universali nel senso che costituiscono un codice etico o giuridico universalmente riconosciuto o comunque fondato in modo tale da assumere una validità universale. Nella classica concezione del giusnaturalismo moderno i due universalismi — che potremmo chiamare l’universalismo dei titolari e l’universalismo dei fondamenti — vengono identificati. Secondo i giusnaturalisti moderni, cioè, il fondamento dei diritti naturali fa riferimento a principi ‘derivati’ dalla natura umana in quanto natura razionale e questo implica che tutti gli uomini, in
quanto uomini, sono titolari dei diritti naturali. Qualcosa di simile avviene anche con alcune etiche normative contemporanee, che — con un approccio lato sensu kantiano — tendono a connettere universaliz-
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zazione e fondazione: sono i principi e i valori capaci di superare il test di universalizzazione, in determinate condizioni ideali, a poter essere considerati ‘fondati’, e questo vale anche per i diritti. Si tratta comunque di due questioni che devono essere analiticamente distinte. Un conto è considerare, da una determinata prospettiva, tutti i soggetti umani, o tutti gli appartenenti ad una determinata categoria, titolari di determinati diritti. Un altro è considerare questi diritti universalmente fondati. Le argomentazioni addotte sopra hanno di mira i tentativi di connettere universalismo dei titolari e universalismo dei fondamenti. Ma si potrebbe sostenere che il congedo dall’universalismo dei fondamenti favorisca il confronto interculturale, se non la tendenziale universalizzazione dei diritti. Contro il rischio di un nuovo fondamentalismo occidentale il linguaggio dei diritti dovrebbe essere presentato come il contributo di una tradizione giuridico-culturale al dibattito con altre tradizioni. Un contributo significativo: il linguaggio dei diritti si è rivelato particolarmente funzionale, in molte situazioni, ad esprimere le istanze e i valori dei deboli e degli svantaggiati e si è rivelato particolarmente duttile per tradurli in norme e procedure giuridiche. Non si tratterebbe insomma di assumere una posizione relativistica, se per ‘relativismo’ si intende l'affermazione dell’indifferentismo morale e l'accettazione di qualunque cultura morale, sia pur criminale o oppressiva. È più o meno questa la posizione di Richard Rorty. Per Rorty non è sufficiente attribuire all'‘uomo’ determinati diritti, perché coloro che li violano considerano ‘non umani’ le vittime di tale violazione. Per garantire i diritti è necessario un cambiamento dei sentimenti morali, in un processo graduale che presuppone l'aumento della sicurezza del gruppo e il superamento dell’indigenza?4. E considerare ‘irrazionali’ le culture che non hanno sviluppato una concezione liberaldemocratica dei diritti è il modo peggiore per avviare un confronto interculturale: Usare la parola ‘razionale’ per rendere encomio alle proprie scelte di fronte a tali dilemmi è un vacuo complimentarsi con se stessi [...]. La retorica che noi occidentali usiamo per tentare di persuadere tutti quanti ad assomigliarci di più migliorerebbe, se noi fossimo più onestamente etnocentrici, e smettessimo di professare universalismo. Sarebbe meglio dire: noi siamo divenuti ciò che siamo, perché abbiamo smesso di esercitare la schiavitù, abbiamo mandato le donne a scuola, abbiamo separato Stato e Chiesa, ecc.
ecc.; ecco che cosa è accaduto quando abbiamo cominciato a considerare arbitrarie certe distinzioni. Cercate di fare le stesse cose e potreste scoprire che
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vi si addicono. Dire tali cose è preferibile a dire: guarda quanto siamo più bravi noi a distinguere quali differenze fra le persone sono arbitrarie e quali non lo sono; quanto siamo più morali noi rispetto a vol??.
L’etnocentrismo non è evitabile e «le credenze suggerite da un’altra cultura devono essere controllate cercando di tesserle assieme alle credenze che già possediamo»?6. Per Rorty l’apertura all’incontro con le altre culture è una preziosa scoperta della ‘recente cultura liberale’. Ma essa va concepita come «un etbros che va fiero della sua punta di etnocentrismo, che si vanta non tanto del possesso della verità, quanto
della sua capacità di accrescere la libertà e l'apertura degli incontri»?”. La franchezza etnocentrica di Rorty mi pare da apprezzare. Ma nella sua idea di mite confronto interculturale, l'Occidente, e gli Stati Uniti in particolare, rimangono nella posizione paternalistica di chi ha una ricetta normativa già pronta; per contro, nel processo evolutivo
delle società occidentali, cui Rorty fa riferimento, i diritti non sono stati concessi paternalisticamente; sono emersi ‘dal basso’, sono nati da
richieste di riconoscimento, rivendicazioni, lotte sociali. E su questo punto che la tradizione repubblicana ha qualcosa da offrire. 3.2. Diritti attivi
A differenza di altri autori neorepubblicani, Sunstein e Michelman hanno tentato di ridefinire i diritti soggettivi, in connessione con le nozioni di rule of law e di sovranità popolare. La loro posizione è stata criticata da Habermas anche su questo punto. Egli, partendo dall’idea (errata) che in quanto sono repubblicani, Sunstein e Michelman sono aristotelici, e dunque considerano la politica il fine dell’individuo entro la comunità, interpreta la loro concezione dei diritti politici come l’espressione di una visione comunitaristica della politica. Secondo Habermas per i liberali - preoccupati della ‘tirannia della maggioranza’ e ispirati al valore dell’autodeterminazione — i diritti umani sarebbero un dato prepolitico e un limite alla sovranità. Per i repubblicani farebbero invece parte della tradizione storica, e verrebbero riconosciuti dai membri delle singole comunità politiche solo in quanto espressione «del proprio autentico progetto di vita»88, Per Habermas la via d’uscita dalla contrapposizione fra diritti umani e sovranità popolare passa attraverso la teoria dell’agire comunicativo. La legittimità del diritto esprime il consenso dei consociati giuridici come partecipanti a un discorso razionale. Il sistema dei diritti garantisce per contro sia l'autonomia privata che l’autonomia pubblica, 76
senza subordinare l’una all’altra??. Questa soluzione habermasiana non pare in antitesi con il repubblicanesimo di impronta machiavelliana. Il passo machiavelliano sulla libertà in Discorsi II.2 sembra esprimere — in forma molto meno elaborata — un’intuizione analoga a quella del nesso fra autonomia privata e autonomia pubblica. Per contro Habermas colloca esplicitamente la visione repubblicana dei diritti sulla linea aristotelica-harringtoniana dell’umanesimo civico ricostruita da Pocock4!, Secondo Habermas la tradizione repubblicana identi-
fica la politica con «la forma di riflessione di un vitale nesso etico»4? e la considera costitutiva del processo di socializzazione. La nozione repubblicana di cittadinanza, inoltre, è per Habermas ispirata dall’ideale della libertà positiva come mezzo per la realizzazione etica dell’individuo#. I «diritti ‘soggettivi’ rinviano ad un ordine giuridico ‘oggettivo’»4* e la politica obbedisce alla logica dei processi comunicativi orientati all’intesa. Tutto ciò per Habermas dipenderebbe dalla concezione della cittadinanza «non in termini di diritto ma di etica», e
verrebbe superato dalla teoria del discorso5. Ma se anziché all'immagine stereotipata del repubblicanesimo riproposta da Habermas ci riferiamo al repubblicanesimo machiavelliano la valutazione non può che essere diversa. Al posto della libertà positiva compare la libertà come non-dominio (cfr. infra, par. 4.3), la cittadinanza si definisce in termini politico-giuridici e soprattutto la politica non può essere vista come la forma di realizzazione dell’autentica natura dell’uomo-cittadino. Anziché riproporre una concezione comunitarista del diritto il repubblicanesimo machiavelliano suggerisce anche su questo punto una diversa ‘terza via’ fra liberalismo e comunitarismo. Sunstein e Michelman utilizzano diffusamente il linguaggio dei diritti. Nella loro argomentazione i diritti politici godono di uno status analogo a quello che lo stesso Habermas attribuisce loro: la loro particolarità è nell’essere autoreferenziali, nel permettere cioè l'avvio di procedure democratiche attraverso le quali si possono conquistate e tutelare ulteriori diritti. I diritti civili, a loro volta, sono considerati come le precondizioni o
come gli esiti di un processo deliberativo”. Per Sunstein molti dei diritti tutelati nella Costituzione americana, che difendono l'autonomia
privata dallo Stato, possono essere fondati «in a republican fashion», mentre il sistema dei controlli e contrappesi corrisponde «alla centrale concezione repubblicana che il disaccordo può essete una forza creativa»43. Quello che stride con la concezione repubblicana è la teo94
ria dei diritti di natura e l’idea che i diritti siano antecedenti alla deliberazione politica”. Secondo Michelman la tradizione repubblicana attribuisce particolare valore all’ordine legale e alle precondizioni socio-economiche dell’active citizenry. Di qui deriva «a republican attachment to rights»: Questi includono ovviamente la libertà di espressione e il diritto di proprietà. Possono anche includere diritti di privacy, forse più estesi di quanto auspicherebbero molti liberali contemporanei. Tuttavia la concezione repubblicana non è meno legata all’idea dell’attività politica popolare come sola fonte e garanzia dei diritti, che all’idea del diritto, compresi i diritti soggettivi, come precondizione della buona politica. La visione repubblicana pertanto richiede una qualche concezione del modo in cui le leggi e i diritti possono essere le libere creazioni dei cittadini e, allo stesso tempo, i dati normativi che costituiscono e sottendono un processo politico capace di creare diritto costitutivo?0,
Il fondamento dei diritti va dunque ricercato in «una riserva di materiale normativamente effettivo»?!, riconoscibile e contestabile, sem-
pre già disponibile. E quest'idea ha forti affinità con l’immagine del diritto come ‘integrità’ proposta da Dworkin. Michelman allude a un processo di political jurisgenesis cui partecipano i corpi deliberativi istituzionalizzati, la giurisdizione (i prirzis quella costituzionale), e tutte le arene di dibattito pubblico aperto ai cittadini?2. È in questo processo che si realizza «un’interazione reciproca senza fine tra il
principio di legalità (che implica il rispetto per il retaggio storico) e l’auto-governo (che implica il rispetto per la capacità umana di autorinnovarsi)»?3, Dovrebbe essere chiaro che su questo punto non sussiste un contrasto fra una concezione comunitaristica che vedrebbe il diritto come il prodotto di una comunità eticamente integrata e una concezione deliberativa più adeguata alla modernità. Piuttosto, Michelman è più conseguente di Habermas nel riconoscere il carattere irriducibilmente contestuale di ogni fondazione — anche della morale universalistica, del sistema dei diritti e del diritto moderno — e dunque evita le antinomie in cui Habermas finisce per cadere. In quest'ottica è opportuno ritornare alla genealogia della nozione moderna dei diritti soggettivi. Abbiamo già accennato all’esistenza in essa di due linee riconoscibili: quella che sviluppa la nozione dei diritti soggettivi come libertà, poteri e garanzie goduti dagli appartenenti ad una determinata comunità politica e fondati sulla consuetudine giu78
ridica di quella comunità, da un lato; quella che riconduce alla nozio-
ne dei diritti soggettivi come diritti naturali universali, goduti da tutti gli uomini in quanto membri della specie umana e fondati sul riconoscimento razionale, rigorosamente dimostrato, di determinate caratteristiche della natura umana, dall’altro lato. Ma un’analisi più attenta dei processi di formazione della modernità politica e giuridica porta alla luce riflessioni ed elaborazioni non riconducibili a queste due prospettive. Quentin Skinner e Richard Tully, in particolare, hanno rilevato la persistenza di una «constitution-enforcing conception of rights». Secondo tale concezione i diritti soggettivi hanno la funzione di costringere o condizionare i poteri pubblici «ad agire nel quadro di una struttura di legalità nota e riconosciuta», e dunque «di sottomettere i governanti al rule of law»?4. A quest'idea si può riconnettere il conflittualismo machiavelliano. Abbiamo già avuto modo di vedere come i giuristi neorepubblicani non ‘prendano sul serio’ fino in fondo il tema del conflitto sociale. Sunstein ricorda che per i repubblicani la turbulence può avere effetti positivi”, ed elabora un modello ‘madisoniano’ in cui vi è la possibilità per singoli e gruppi di perseguire i propri interessi. Nel processo giurisgenerativo di Michelman la mobilitazione e l’attivismo hanno un’analoga importanza. Lo stesso Habermas, come abbiamo accennato, considera fondamentali i diritti politici perché a loro volta consentono la mobilitazione per la difesa dei diritti acquisiti e la conquista di ulteriori diritti. Anche i diritti sociali, che pure potrebbero essere concessi ‘paternalisticamente’, sono riletti alla luce del principio di autonomia e visti nella prospettiva di un attivismo dei cittadini-utenti. Ma anche in Habermas questa istanza attivistica e conflittuale finisce per rimanere oscurata dalla generale tendenza ad enfatizzare gli elementi comunicativi, le istanze di giustizia, gli approcci universalizzanti. E finisce per andare dispersa nel modello della ‘politica deliberativa’ (cfr. infra, par. 4.1) proposto dai neorepubblicani. Invece, una maggiore consapevolezza della centralità che il conflitto assume in un ampio settore della tradizione repubblicana potrebbe favorire un'elaborazione teorica originale. In particolare, l’idea che la concezione repubblicana dei diritti non esprime il legame con una comunità eticamente integrata ma piuttosto l’attivismo, il conflittualismo, il senso di un'identità collettiva politica, finalizzata alla tutela degli individui dal dominio. Nella storia del pensiero giuridico i differenti modi di trattare il rapporto ordine/conflitto si riverberano sulle diverse concezioni del rapporto diritti/doveri: il modello aristotelico, nei casi in cui apre uno spazio ai diritti soggettivi, li inquadra in un ordine ‘naturale’ dato; ius 79
esprime id quod iustum est, il giusto rapporto di ripartizione nel contesto di un ordine naturale/sociale, la ‘giusta parte’5%. Nel modello hobbesiano i diritti soggettivi sono intesi classicamente come diritti naturali, proprietà e poteri degli individui. Non c’è dubbio che il linguaggio dei diritti è estraneo a Machiavelli. Ma già per gli autori ‘neoromani’ del XVII secolo la libertà viene intesa nel senso del godimento effettivo di un insieme specifico di diritti civili”. In Algernon Sidney, Baruch Spinoza e Adam Ferguson, la machiavelliana valutazione positiva del conflitto si collega con il linguaggio dei diritti?8. In particolare, nell’Essay on the History of Civil Society di Ferguson è il conflitto sociale a stimolare lo sviluppo di nuove istituzioni e l’innovazione costituzionale??. Sulla valorizzazione del conflitto sociale si innesta l’utilizzazione da parte di Ferguson del linguaggio dei diritti: ne risulta l’apologia di quella che, per parafrasare il titolo di un noto saggio di Rudolf von Ihering, potremmo chiamare la «lotta per i diritti». Per Ferguson la libertà è un diritto da rivendicare; considerarla come un privilegio concesso significa smarrirne il senso, e per difenderla non sono sufficienti le istituzioni: occorre la costante disposizione ad «opporsi agli oltraggi»90. Anche Ferguson, come Hobbes, individua il fondamento dei diritti nella natura umana. Ma questo non nel senso razionalistico del giusnaturalismo moderno: i diritti esprimono un sertimento e un atteggiamento generalmente umano di affermazione della propria dignità e di ostilità al dominio. Ogni contadino ci dirà che un uomo ha dei diritti e che violare questi diritti costituisce una ingiustizia. Se gli domandiamo che cosa intenda con il termine diritto, lo costringiamo probabilmente a sostituire ad esso un termine meno espressivo e meno appropriato; oppure gli chiediamo di spiegare quello che è un modo originario della sua mente e un sentimento al quale egli, in ultima istanza, si riferisce quando vuole spiegare a se stesso un suo particolare modo di esprimersi. I diritti degli individui possono riferirsi a una molteplicità di oggetti ed essere compresi sotto differenti capitoli. [...] Non è qui compito mio seguire la nozione di diritto in tutte le sue applicazioni, ma solamente ragionare sul sentimento di predilezione con il quale questa nozione viene accolta nella mente®!,
L’identificazione della cittadinanza moderna con un catalogo di diritti, la prevalenza della figura deontica del diritto su quella del dovere è stata considerata come il segnale di una profonda trasformazione etico-politica tipica della modernità: appunto dell'evoluzione dei ‘sudditi’ in ‘cittadini’°2. Buona parte del giuspositivismo formalistico del80
l’Ottocento e del Novecento tende a ridurre il diritto soggettivo al diritto oggettivo, nel senso di affermare la priorità del diritto statale sui diritti soggettivi. Tuttavia, giuristi fra loro differenti come Alf Ross, Herbert Hart e Neil MacCormick hanno criticato la tesi della riduzione dei diritti al correlativo dei doveri63. Emerge un’eccedenza semantica del linguaggio dei diritti sul linguaggio dei doveri, cui ritengo si colleghi un’eccedenza simbolica. Ma se i diritti non sono riducibili al correlato dei doveri, cosa li ca-
ratterizza? Joel Feinberg ha connesso la nozione di diritto soggettivo a «the activity of claiming». Per Feinberg l’uso caratteristico dei diritti è «l’essere pretesi [c/aizzed], richiesti, affermati, rivendicati» e so-
prattutto «è l’atto del rivendicare [c/aizzi1g] che conferisce ai diritti il loro specifico significato morale. [...] Avere diritti ci rende capaci di ‘alzarci in piedi da uomini’, di guardare gli altri negli occhi»9?. Verosimilmente, è proprio questo a rendere il linguaggio dei diritti particolarmente adeguato ad assumere la prospettiva ex parte populi, a sostenere, per usare una felice espressione di Ferrajoli, «le ragioni del basso, rispetto alle ragioni dell’alto». Ma non solo il linguaggio dei diritti esprime l’attività del c/a/772/7g, l’affermazione della propria dignità. Anche l’origine storica dei diritti può essere ricollegata alla rivendicazione e al conflitto sociale. Ci si può qui ricollegare a un’importante tesi di Norberto Bobbio. Adoperando una felice espressione paradossale, Bobbio scrive che «i diritti naturali sono diritti storici» e cioè «sono nati in certe circostanze, contras-
segnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre»®. Il riferimento alla tradizione repubblicana — o meglio: ad una linea della tradizione repubblicana, che ha coniugato il conflittualismo machiavelliano con il linguaggio dei diritti — e alla sua rielaborazione da parte di Michelman e Sunstein permette dunque di affrontare il tema dei diritti soggettivi con un approccio assai differente da quello prevalente fra i neorepubblicani contemporanei. Pur contribuendo alla critica dell’universalismo, non suggerisce una rinuncia al linguaggio dei diritti per un’etica dei doveri e neppure l’idea di un'assoluta subordinazione dei diritti soggettivi al principio dell’autogoverno. La nozione ‘attivistica’ dei diritti come espressione del clairzing e l’idea di una genesi conflittuale dei diritti si incontra con la tesi che il linguaggio dei diritti esprima la moderna prospettiva ex parte populi, lo sguardo ‘dal basso’ ai fenomeni politici, le ragioni delle libertà contro quelle del dominio. In questo approccio, inoltre, si attribuisce un valore particolare ai diritti politici, intesi non solo come diritto all’elettorato 81
attivo e passivo, ma come garanzie della possibilità di intraprendere attività sociali e politiche, di avanzare rivendicazioni nello spazio pubblico, di ottenere altri diritti. Ma questo non significa attribuire un ruolo meno importante ai diritti civili e sociali: per impegnarsi nel processo rivendicativo sono necessarie una serie di precondizioni, fra cui quelle garantite dai diritti sociali (si pensi, ad esempio, ad un certo livello di istruzione), e ovviamente, il godimento delle libertà fondamentali e dell’‘autonomia privata”. Ma se non raccomanda un congedo dal linguaggio dei diritti, il repubblicanesimo conflittualista offre comunque argomenti per una critica della nozione dei diritti come ?#477ps: piuttosto che creare una sorta di fascia di protezione degli individui assolutamente inattaccabile dalle interferenze del potere statale, quali che siano i suoi scopi, l'esercizio (attivo) dei diritti ha la funzione di costringere i poteri dello Stato ad agire nell’ambito della struttura costituzionale, rispettando il rule of law e rendendo possibile un bilanciamento fra i principi e gli scopi sociali8. Di qui una dialettica fra l’attivismo degli individui (e dei gruppi) che rivendicano i propri diritti e il quadro costituzionale (in evoluzione). Una dialettica che ovviamente non può collocarsi nello spazio vuoto di un atomismo in cui gli individui ‘hanno’ dei diritti in quanto esseri umani.
In questo modo, dunque, è possibile reimpostare sia la questione del rapporto fra diritti fondamentali e democrazia, sia ridefinire il senso in cui i diritti prevalgono sugli scopi sociali e sono indisponibili al potere politico. Questo non significa che il linguaggio dei diritti diventi meno adeguato per la tutela giuridica degli individui. Accade probabilmente il contrario. Una concezione attivista e conflittualista dei diritti, come l’espressione di pratiche sociali e di rivendicazioni,
esalta piuttosto la loro ‘indisponibilità’. Se i diritti non vengono concepiti come una ‘proprietà’ degli individui, ma come l’espressione di pratiche sociali, diviene molto più difficile legittimarne l’alienazione e il trasferimento. Non si possono, ad esempio, utilizzare i diritti così
concepiti per legittimare la rinuncia al diritto alla vita, la schiavitù volontaria o la stessa sottomissione ad un sovrano assoluto, come viceversa è avvenuto nel corso dell’elaborazione del paradigma giusnaturalistico-razionalistico: se i diritti, espressione della ‘natura umana’, costituiscono una ‘proprietà’ del soggetto, il soggetto può anche rinunciare ad essi, alienarli o trasferirli allo Stato, come è evidente, ad
esempio, nelle teorie contrattualistiche di Hobbes e di Rousseau. D’altra parte, la consapevolezza della loro funzione — l’espressione dell’opposizione a situazioni di oppressione, la tutela degli individui e dei 82
gruppi dalle varie forme di dominio — permette di modulare il linguaggio dei diritti in riferimento alle situazioni nelle quali il dominio si esercita, che si trasformano storicamente e contestualmente, ed evita di ipostatizzare il soggetto dei diritti, permettendo di modificarne i contorni a partire dalle concrete situazioni di sofferenza e dagli specifici bisogni. È evidente che una tale prospettiva — che non impone aprioristicamente ‘il’ soggetto dei diritti — risulta meno esposta all’accusa di etnocentrismo e sembra anzi favorire più in generale il confronto interculturale. Alcuni autori che hanno affrontato il problema della ‘traduzione’ del linguaggio dei diritti hanno proposto come soluzione la ricerca di comuni esigenze di giustizia o di codici normativi trascendentali. Ci si potrebbe chiedere se non sia percorribile una via alternativa: valorizzare piuttosto l’idea della rivendicazione, della richiesta di riconoscimento, dell’opposizione al dominio e all’oppressione. Anche l’attività del claîming sembra esprimere, a sua volta, un atteggiamento tipico della modernità occidentale. Ma il ricorso al linguaggio dei diritti nell’ambito delle culture ‘altre’, o da parte dei gruppi svantaggiati nel confronto globale, potrebbe essere il segno di un interesse proprio nei confronti di questo elemento. Ciò che probabilmente un approccio ‘francamente etnocentrico’” dovrebbe sottolineare nel linguaggio occidentale dei diritti sarebbe allora la valorizzazione del-sentimento di dignità, dell’insofferenza per la sottomissione, della capacità di sollevarsi e reagire: qualcosa di analogo alla kantiana ‘uscita dalla minorità’ o al blochiano ‘camminare eretti’. L'elemento tendenzialmente universale del linguaggio dei diritti potrebbe essere dunque colto, più che nei contenuti specifici che esso ha espresso di volta in volta, nelle sue mo-
dalità ‘formali’, che lo rendono adeguato a tradurre in istanze normative questi atteggiamenti e questi sentimenti. In quest'ottica la ricerca
del fondamento ultimo perde molte delle sue ragioni d’essere.
Capitolo quarto
Realismo repubblicano
Nei ‘preliminari’ a Oceana James Harrington contrappone Machiavelli a Hobbes. Il primo è osannato come il campione dell’‘antica prudenza’, fondata sul governo della legge. Il secondo è esecrato come il fondatore della ‘Îmoderna prudenza’, che consiste nel governo degli uomini!, L’idea che il repubblicanesimo esprime una concezione ‘classica’ o ‘premoderna’ della politica, eticamente ispirata, alternativa alla concezione ‘moderna’ della politica come scontro di interessi, perseguimento di posizioni di potere e ricerca di compromessi fra parti in competizione per l’allocazione di risorse scarse, avrà una notevole fortuna. Ad essa verranno associate l’idea che il repubblicanesimo ripro‘ pone la ‘libertà degli antichi’ e quella che esso si ispira a forme premoderne di governo: secondo quest’interpretazione la repubblica, in definitiva, è la riproposizione del modello della polis entro cui si realizzano, di volta in volta, esperienze oligarchiche o forme di democrazia diretta, comunque molto lontane dai governi rappresentativi contemporanei. In questo capitolo cercheremo di valutare e problematizzare queste tesi.
4.1. Fra ‘ragion di Stato’ e ‘politica deliberativa’ Abbiamo visto più volte come nell’interpretazione di Pocock il paradigma repubblicano rimandi alla nozione classica della politica come attività pratica che esprime la ‘natura’ dell’uomo/zodr politikén. Uno degli aspetti su cui l’interpretazione di Skinner del repubblicanesimo e dell'esperienza politica ‘neoromana’ si allontana dalle tesi di Pocock è proprio questo: per i repubblicani classici gli uomini hanno molteplici fini e la politica è lo strumento per realizzare tali differenti fini. Masela concezione repubblicana della politica non si identifica con il modello aristotelico, non corrisponde all'idea che la politica esprima la natura essenziale dell’uomo, come si colloca rispetto alle altre conce-
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zioni della politica che si sono affermate nella modernità? A dare credito alle interpretazioni ‘neorepubblicane’ la distanza sembra comunque grande. Maurizio Viroli, ad esempio, ha proposto un modello interpretativo dicotomico, esplicitamente ispirato alla visione di Harrington, che nella fase storica compresa fra il XIII e il XVII secolo contrappone la ‘politica’ — erede della concezione classica — alla ‘ragion di Stato’ — anticipatrice della visione moderna?. Nel corso del Duecento, sostiene Viroli, gli sparsi frammenti del pensiero greco e romano tramandati attraverso il Medioevo vennero rielaborati da una serie di giuristi, retori, filosofi e letterati. Divenne così disponibile un nuovo linguaggio, quello della ‘politica’, definita paradigmaticamante da Brunetto Latini come la scienza di rango più elevato e l’attività più nobile in quanto insegna a governare i sudditi di un regno o i membri di una comunità cittadina «selonc raison et selonc justice». L'epoca aurea della ‘politica’ è rappresentata ovviamente dall’‘umanesimo civile’, nel quale ‘vita politica’ diviene sinonimo di bene comune, uguaglianza, giustizia, concordia e la repubblica è trattata come la forma di governo più adeguata alla civitas. Ma fra il XVI e il XVII secolo il linguaggio della ‘politica’ perderà gradualmente di rilievo, fino a venire riassorbito in quella forma espressiva che storicamente aveva rappresentato il suo principale concorrente: il linguaggio dell’arte dello Stato”. Per un lungo periodo l’‘arte dello Stato’ — dove ‘Stato’ indica in generale il dominio —, pur praticata dai funzionari, dai capi delle fazioni e soprattutto dagli esponenti delle famiglie signorili come i Medici, non era assurta a dignità letteraria. E stato Francesco Guicciardini
(che pure ha continuato ad adoperare il linguaggio della ‘politica’) a portare il linguaggio dell’arte dello Stato a un alto livello di raffinatezza, e a introdurre l’espressione ‘ragione degli Stati°. Con Giovanni Botero avviene la definitiva affermazione del linguaggio della ‘ragion di Stato”3: è ormai matura l’identificazione, compiuta da Trajano Boccalini, della ‘politica’ con la ragion di Stato, e cioè con la conoscenza dei mezzi per mantenere il dominio sopra un popolo. Una lunga tradizione interpretativa ha considerato Machiavelli il fondatore della politica moderna ir quanto avrebbe identificato la politica con la ragion di Stato. Viroli contesta questa visione. Nella sua prospettiva Machiavelli rimane un pensatore di transizione. Rileva che Il Principe è la prima opera in cui il linguaggio dell’‘arte dello Stato” è utilizzato in un testo pubblicato, ma, significativamente, in essa non
compare mai il termine ‘politica’. Le opere machiavelliane di ‘politica’ sono quelle dedicate alle repubbliche, in particolare i Discorsi. E Viroli sottolinea come in queste opere Machiavelli segua alla lettera le 85
convenzioni linguistiche della filosofia civile. Insomma, anziché introdurre la concezione moderna della politica, per Viroli Machiavelli ha contribuito a conservare il linguaggio tradizionale della ‘politica’ e a mantenere vivo l’ideale repubblicano*. Questa interpretazione della storia del pensiero politico ha per Viroli dirette implicazioni teoriche. Le teorie ‘realistiche’ della politica, egemoniche nella nostra epoca, sono eredi dell’arte dello Stato. Ciò vale sia per la concezione weberiana, che vede la politica nei termini della lotta per il potere fra differenti Stati e fra differenti gruppi all’interno dello Stato, sia per le elaborazioni della ‘scienza politica’ empiristica, alla luce di una visione della politica come ‘allocazione imperativa di valori’, secondo la nota espressione di David Easton. Queste concezioni non colgono la specificità che connota le pratiche ‘politiche’ come tali, che devono soddisfare appropriati criteri di giustizia”. E d’altra parte le concezioni ‘realistiche’ non sono adeguate per comprendere eventi come i rivolgimenti del 1989 nell'Europa orientale. In quegli eventi non erano tanto in questione differenti schemi di allocazione dei valori, quanto la rivendicazione di un differente stats — quello di cittadino, in opposizione a quello di suddito —, una richiesta di riconoscimento, l'affermazione di nuovi valori.
Viroli precisa comunque le differenze fra la sua impostazione e quella di altri autori che in tempi recenti hanno ripreso la concezione ‘repubblicana’ della politica. Contro Hannah Arendt Viroli sostiene che la politica è un’attività essenzialmente strumentale, non rappresenta uno scopo in sé, e la libertà consiste nell’indipendenza dalla soggezione alla volontà altrui, non nella diretta partecipazione all’attività di governo. Contro i communtitarians Viroli sostiene che la virtù civile repubblicana non significa un’identificazione patriottica «basata sul sentimento di un destino condiviso», può anzi significare anche un dovere alla disubbidienza nel caso in cui sia in pericolo la libertà. Anche se il vocabolario dei communitarians è simile a quello della filosofia civile, e se le aspirazioni comunitaristiche all’amicizia e alla solidarietà sono legittime, una teoria che si fonda su particolari tradizioni e su concezioni ‘sostanziali’ del bene è inadeguata: «il bene comune, per i repubblicani, è la giustizia»”. Da questo punto di vista per Viroli sono più vicini agli ideali della ‘filosofia civile’ i teorici libera! come John Rawls. Ma Viroli non risparmia critiche ai tratti idealizzanti e al deficit di realismo dei modelli rawlsiani e sostiene che per rivitalizzare l’ideale della ‘politica’ abbiamo bisogno di una concezione repubblicana della giustizia: è necessario un linguaggio morale che sostenga e promuova la virtù civica e incoraggi l'indignazione contro la discrimina86
zione e il privilegio: una forma aggiornata della tradizionale arte retorica. La ‘virtù civile’ rimane una risorsa politica necessaria anche nelle società contemporanee8.
Anche Habermas tenta l’elaborazione di una concezione della politica—nel suo lessico la deliberative Politik—alternativa sia alle visioni liberali che alle visioni repubblicane, sulla base di un metodo che tenta il superamento dei tradizionali limiti della sociologia politica e giuridica, della scienza politica empiristica, delle teorie dei sistemi e della scelta razionale. La politologia empiristica è per Habermas tanto condizionata dalla concezione strumentalistica della politica da non comprendere le forme di azione sociale che non si conformano al modello dell’agire ‘egoistico’ e da non tener conto dei contesti sociali che modificano gli orientamenti di valore. La teoria sistemica, per contro, in virtù del paradigma autopoietico, finisce per vedere isottosistemi sociali come affetti da una sorta di autismo: politica, diritto, economia non sono solo retti da
specifici codici funzionali, ma si rivelano incapaci di comunicare fra loro e con la Lebenswelt. La teoria del discorso, invece, concepisce il di-
ritto come un ‘trasformatore’ che si colloca fra la Lebenswelt e i sottosistemi dell'economia e dell’amministrazione. Le istanze valoriali provenienti dalla Lebenswelt, formulate nel linguaggio ordinario, vengono ‘tradotte’ giuridicamente in modo da poter condizionaree regolare economia e amministrazione, che operano attraverso i codici funzionali del denaro e del potere amministrativo. E solo attraverso la giuridicizzazione che norme morali e valori etici possono avere efficacia; d’altra parte il diritto rappresenta un’essenziale risorsa pete per l’economia capitalistica e per il sistema amministrativo?. In questa prospettiva Habermas propone la sua concezione ‘deliberativa’ della politica. Nella sua ottica i liberali concepiscono la politica come un processo finalizzato all'ottenimento di compromessi fra parti che esprimono interessi differenti; la cornice normativa dei dirit-
ti civili garantisce l’equità dei risultati di questo processo. Nella concezione liberale si dà un’incolmabile separazione fra l'apparato statale e la società civile. Secondo la concezione repubblicana, sostiene invece Habermas, il processo democratico di ‘formazione della volontà” ha la forma di un ‘chiarimento etico-politico’. Si avvia un processo deliberativo che presuppone l’esistenza di un consenso di fondo ereditato in virtù dell’appartenenza culturale ad una determinata comunità. In questo contesto non si dà alcuna separazione fra la società e l’apparato politico: la società è fin dall’inizio una società politica e la democrazia si identifica con l’auto-organizzazione politica globale della 87
società. La concezione deliberativa della politica elaborata dalla teoria del discorso rimanda invece alla distinzione fra discorsi ‘morali’, riferiti alla dimensione universalistica della giustizia, discorsi ‘etici’, che
concernono l’ambito dell’autenticità, dei valori specifici che definiscono il bere degli individui e delle forme di vita, discorsi ‘pragmatici’ che riguardano le norme strumentali e strategiche che permettono di perseguire l’uz/e!°. Habermas ovviamente riconosce che l’attività degli organi legislativi non può essere identificata con la prassi discorsiva: «Nella politica legislativa, il reperimento d’informazioni e la scelta dei mezzi razionali rispetto-allo-scopo s’intersecano a bilanciamento d’interessi e a formazione di compromesso, autochiarimento etico e formazione di preferenza, formazione morale e controllo giuridico di coerenza»!!, Egli sostiene però che la teoria discorsiva sia in grado di distinguere — e gerarchizzare — i diversi modelli di prassi, ispirandosi in ultima analisi alla prospettiva universalistica della morale deontologica. La teoria del discorso riconosce una procedura ideale di consultazione e deliberazione che stabilisce un collegamento interno fra considerazioni pragmatiche, compromessi, discorsi di autochiarimento e discorsi di giustizia, presupponendo che sia sempre possibile ottenere risultati ragionevoli ed equi. In quest’ottica «la ragion pratica» risiede «in quelle regole del discorso e forme argomentative che derivano il loro contenuto normativo dalla base di validità dell’agire orientato all’intesa, dunque — in ultima istanza — dalla struttura della comunicazione linguistica e dall’ordinamento insostituibile di una socializzazione comunicativa»!2,
L’idea habermasiana che sia possibile sottomettere la politica, almeno in ultima istanza, ai pricipi della morale universalistica mi sembra un’illusoria semplificazione, che peraltro si collega alla problematica distinzione fra discorsi pragmatici, etici e morali!3. Ed è opportuno rilevare, ancora una volta, che la rappresentazione habermasiana del repubblicanesimo, pur plausibile per una serie di autori, paradossalmente non si adatta proprio a quelli con cui prevalentemen-
te si confronta. Sunstein e Michelman sono ben lontani dall’identificare la ragion pratica con «la sostanza etica di una comunità particolare» e la politica con l’unica forma ‘autentica’ di vita activa. Tuttavia anche in questi autori emerge un cortocircuito teorico fra la critica del concetto economicistico di politica e quello che anch'essi definiscono il modello ‘deliberativo’. Nell’elaborare questa concezione anche i neorepubblicani che più o meno esplicitamente prendono congedo dalla tradizione aristotelica finiscono per rivelare un debito sostanziale con l'impostazione di Hannah Arendt. A cui si aggiunge proba-
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bilmente l’influenza delle loro fonti principali: i padri della Costitu-
zione americana. Da questo punto di vista è interessante soprattutto la ricostruzione di Sunstein. Egli elabora una critica del ‘pluralismo’!4 contemporaneo e della sua concezione della politica, ricalcata sul modello dell’economia, attraverso una riduzione dello 2067 politik6n ad un bomo oeconomicus alla ricerca di compromessi utili ad ottimizzare i suoi risultati nell’allocazione delle risorse. Riferendosi ai dibattiti dell’epoca di elaborazione della Costituzione americana, Sunstein riconosce
che il repubblicanesimo degli ‘antifederalisti’ implicava una concezione della politica, identificata con l’autogoverno popolare e incentrata sull’antitesi virtù-corruzione, difficilmente riproponibile nella società moderna. È proprio nella fase costituente che comincia a venire elaborata la moderna concezione ‘pluralista’. Ma per Sunstein esiste anche una terza alternativa. Sarebbe infatti errato identificare la proposta dei federalisti, e di Madison in particolare, con un protopluralismo. Piuttosto, questa concezione «riformulava i principi del repubblicanesimo nel tentativo di sintetizzare elementi del repubblicanesimo tradizionale con la teoria rivale pluralista»!5. Questa riformulazione vede con favore la formazione di repubbliche di vaste dimensioni, ammette una forma di rappresentanza ed elabora un sistema di checks and balances. Non può comunque essere confusa con la riduzione della politica a bargaining e trade-0ffs!6. L'idea della partecipazione diretta viene abbandonata. Ma d’altra parte i rappresentanti devono distaccarsi dalla pressioni immediate del proprio elettorato e deliberare in vista di «qualcosa come un bene comune oggettivo»!”. Nella concezione ‘ibrida’ della rappresentanza «i legislatori non dovevano né seguire ciecamente le pressioni dell’elettorato né deliberare in un vuoto»!8. Uno dei punti in cui il ‘repubblicanesimo madisoniano’ differisce da quello degli antifederalisti è la valutazione positiva dei conflitti politici!?. L'alternativa alla concezione pluralistica è allora quella di una ‘politica deliberativa’ esercitabile sulla scala macroscopica di una repubblica vasta e di una società complessa. In essa, l'elemento del con-
trasto fra gli interessi e quello deliberativo rappresentano i due poli di un continuum. In un passo criticato da Habermas Sunstein scrive: Ciò che alla fine vediamo emergere è un ‘ventaglio’ senza soluzioni di continuità. Al suo primo estremo troviamo casi in cui dominano largamente le pressioni delle lobbies, e dove l'emanazione legislativa può essere intesa come una ‘transazione’ d'interessi in conflitto. All’estremo òpposto vediamo invece i legislatori impegnarsi in una consultazione deliberante in cui i co-
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siddetti gruppi d’interesse non giocano nessun ruolo, oppure un ruolo minimo. Lungo questo ventaglio viene a disporsi un’ampia gamma di decisioni, i cui esiti dipendono sempre da un ‘mix’ di fattori come pressione, consultazione discorsiva ecc. Con un test semplice non potremo mai distingue-
re tra loro casi collocati su punti diversi del ventaglio?0.
In quest'immagine non va criticata tanto — come sostiene Haber-
mas — la mancanza di una netta discontinuità fra i due aspetti della politica. Piuttosto, va rilevata l’unidimensionalità della concezione di
Sunstein. Qui sembra che la politica sia riducibile o allo scontro di interessi e alla ricerca di compromessi — qualcosa di analogo al mercato — o alla deliberazione consensuale, o a una qualche mescolanza delle due. Ricompare quel modello dualistico che abbiamo riscontrato in Viroli e nello stesso Habermas, nonostante il suo tentativo di distinguere questioni ‘etiche’ e questioni ‘morali’ e di attribuire un primato di fatto a queste ultime. Ma questa concezione della politica sembra indebitamente semplificata, e questo vale sia sul piano analitico che sul piano normativo. La riconduzione della politica a una qualche forma di prassi comunicativa, o di ricerca del ‘bene comune’, non solo non
vale come una rappresentazione adeguata della politica reale: neppure sembra un adeguato modello ideale. Gli elementi fronetici, simbolici, intuitivi, strategici esprimono qualcosa di insito nell’agire politico, non riscontrabile nei processi comunicativi finalizzati all’intesa. Il buon politico — non necessariamente il Rea/politiker, il caudillo o il demagogo della politica-spettacolo, anche il politico ispirato da alti convincimenti morali — è capace di cogliere le tendenze in atto, di interpretare il senso degli accadimenti, di dare ‘forma’ agli eventi, di individuare le possibilità aperte nelle condizioni date. Si pensi alle figure di politici virtuosi — non solo il ‘principe nuovo’ ma anche i leader repubblicani — analizzate diffusamente da Machiavelli. E si pensi all’importanza che nella riflessione machiavelliana hanno i codici forma/materia e fortuna/occasione/virtù. A questo si deve aggiungere il rilievo che nella politica hanno i sentimenti e le passioni, a cominciare dalla paura. Se non si tiene conto di questa pluridimensionalità della politica si rischia di cadere nell’errore che Habermas opportunamente individua in Rawls quando parla di ‘impotenza del dover essere’ e afferma che i modelli normativi devono trovare un qualche riscontro nella realtà effettuale.
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4.2. Virtù politiche e valori morali
E opportuno, dunque, ritornare brevemente a Machiavelli anche su questo punto. Molte interpretazioni ‘repubblicane’ di Machiavelli tendono a ridimensionare il carattere innovativo del suo pensiero, e so-
prattutto presentano Machiavelli come un pensatore premoderno. Come è stato magistralmente documentato da Giuliano Procacci?!, la storia delle interpretazioni dell’opera di Machiavelli ha un andamento oscillatorio. Da un lato si sono susseguiti gli autori — dal cardinal Pole
a Leo Strauss — che l’hanno considerata ‘scritta dal dito di Satana’ o comunque da un autore ‘diabolico’ e ‘maestro del male’. Più meditatamente, ma sempre in questa prospettiva, una consolidata tradizione interpretativa considera l’opera di Machiavelli all’origine della tradizione cinque-secentesca della ‘ragion di Stato’?2. In questa linea Machiavelli, più che un autore ‘diabolico’, viene considerato come colui che «scopre la necessità e l'autonomia della politica che è di là, o piuttosto di qua, del bene e del male morale, che ha le sue leggi cui è vano ribellarsi»?3. I/ Principe è visto come «l’opera classica della teoria politica, l’opera in cui, per la prima volta dacché il mondo era cristiano, fu affermato il principio dell’autonomia dell’agire politico da ogni premessa e finalità metafisica, la sua autonomia dalle altre forme di atti-
vità umana, prima fra tutte la morale»?4. Queste interpretazioni sono in genere sorrette da tesi filologiche che enfatizzano la continuità teorica nell'opera di Machiavelli e hanno avuto largo consenso per buona parte del XX secolo, in particolare con l’affermazione, nel secondo dopoguerra, della ‘scienza politica’ empiristica. Machiavelli è visto come l’iniziatore, o l’anticipatore, di una teoria politica ‘obiettiva’ e ‘ava-
lutativa?. D'altro lato c’è la tradizione interpretativa che ha visto l’‘acutissimo’ Machiavelli come il teorico della repubblica, come l’anti-Hobbes,
come colui che «temprando lo scettro ai regnator / gli allor ne sfronda, ed alle genti mostra / di che lagrime grondi e di che sangue» e lo stesso Principe come il ‘libro dei repubblicani’??. L'eredità di questa interpretazione sembrava smarrita nel corso del Novecento, ma la ‘revisione’ di Pocock ha rimescolato le carte. O meglio: alcuni studi fondamentali sull'opera di Machiavelli, che mettono in questione l’interpretazione nella linea della ragion di Stato e della scienza politica avalutativa, sono all’origine dell’elaborazione da parte di Pocock del paradigma repubblicano. Il Principe è stato ricondotto a un preciso genere letterario, quello degli specula principis o dei consigli ai principi, in tal modo ridimen91
sionando la sua originalità?6. E la tesi di una contiguità cronologica e di una continuità teorica fra I/ Principe e i Discorsi è stata contestata sia sul piano filologico che su quello della biografia politico-intellettuale del loro autore: Hans Baron ha sostenuto con vigore che le due opere sono state scritte l’una dopo l’altra, appartengono a due fasi ben distinte dell'esperienza di Machiavelli — la fase della caduta in disgrazia e del tentativo di accreditarsi presso i Medici e la fase della frequentazione del circolo letterario filorepubblicano degli Orti Oricellari — hanno obiettivi diversi e affermano tesi incompatibili?”. Viroli riprende, e per certi aspetti radicalizza, le tesi di Baron, individuando nell’opera di Machiavelli la compresenza dei differenti linguaggi della ‘politica’ e dell’‘arte dello Stato”. Tali linguaggi appaiono tanto differenziati da escludere ogni possibilità di ‘traduzione’ e di comunicazione. In altri termini in Machiavelli non vi sarebbe una ‘politica’, intesa in generale come quel codice linguistico che si riferisce ad un ambito di attività relativo alla composizione degli interessi, alla regolazione dei rischi sociali attraverso l’azione istituzionale e più in generale al governo dei gruppi sociali, ma due distinte discipline che rimandano a due differenti generi letterari. La ricerca di Viroli è un esempio di come il lavoro all’interno del ‘paradigma repubblicano’ possa risolversi in una sorta di ‘eticizzazione’ di Machiavelli, o di una parte della sua produzione teorica, in una sfida all'immagine di Machiavelli come scopritore dell’autonomia della politica, della sua separazione dall’etica, e come primo teorico politico della modernità. Il problema è che se si accetta questa netta demarcazione si delinea l’immagine di un Machiavelli scrittore di ‘politica’ e di ‘arte dello Stato” a fasi alterne. Come è noto, dal 1498 al 1512 Machiavelli ha lavorato al
servizio della Repubblica fiorentina: un'attività che egli ha esplicitamente definito ‘arte dello Stato”28, Se si segue la ricostruzione di Viroli, si deve ammettere che abbia elaborato a poca distanza di tempo un trattato di ‘arte dello Stato’ e una teoria della ‘politica’ repubblicana. Questo potrebbe essere considerato plausibile se si tengono presenti le drammatiche esperienze vissute da Machiavelli all’epoca del ritorno dei Medici a Firenze, nel 1512. Machiavelli potrebbe essere definitivamente approdato al repubblicanesimo e alla ‘politica’ dopo un periodo di illusioni su un suo possibile ruolo nel governo mediceo, e quindi di interesse specifico nell’arte dello Stato. L'immagine si fa meno netta se si pensa, ad esempio, ad una delle ultime opere machiavelliane, la Vita di Castruccio Castracani??.In essa viene riproposta l’immagine di un ‘principe nuovo” e della sua ‘virtù’ nel procurarsi e mantenere lo “Stato”, e il 92
termine ‘Stato’ è indubbiamente adoperato nell’accezione che per Viroli prevale anche nel Principe. E come si colloca in questa ricostruzione l’ultima grande opera di Machiavelli — scritta peraltro su commissione dei Medici — e cioè le Istorie fiorentine? Più in generale questo tipo di interpretazioni sembrano ridimensionare eccessivamente l'originalità di Machiavelli e la modernità del-
la sua opera. Esse hanno senza dubbio il merito di inserire gli scritti machiavelliani nel contesto di generi letterari definiti, e rilevano opportunamente la rottura machiavelliana con le convenzioni tradizionali di tali generi. Tuttavia su questa base non si riesce ancora a capire perché Machiavelli abbia rappresentato una sfida così radicale per il pensiero politico successivo. Si incontra qui una questione metodologica più generale: basare tutta l’interpretazione di un ‘classico’ come Machiavelli esclusivamente sull’analisi del suo linguaggio politico espone a rischi di riduzionismo. Propongo a questo proposito un esempio: Copernico ha enunciato le sue tesi ricorrendo alle forme espressive dell’astronomia tradizionale, ha fondato le sue argomentazioni sulle assunzioni metafisiche della scuola neoplatonica e ha mantenuto uno strumentario concettuale che comprendeva ancora le sfere solide, idealizzava il moto circolare come ‘perfetto’, presupponeva il carattere ‘chiuso’ e ‘centrato’ del mondo. Eppure sarebbe difficile negare che la sua opera abbia avviato quella trasformazione rivoluzionaria che porterà all’elaborazione del paradigma cosmologico newtoniano. Adoperando le convenzioni linguistiche condivise in una tradizione di pensiero e in una ‘forma di vita’ è possibile introdurre contenuti e approcci (parzialmente) nuovi. Nel linguaggio di Kuhn si potrebbe sostenere che sottoporre a tensione le convenzioni linguistiche è un modo di forzare dall’interno le regole di una ‘scienza normale”, avviando un paradigr shift. Ritengo che considerazioni analoghe siano possibili anche a proposito di Machiavelli: egli ha introdotto, per usare il suo linguaggio, una ‘materia’ nuova nella vecchia ‘forma’ linguistica.
Alla luce delle distinzioni di cui abbiamo parlato è possibile individuare in un filone della tradizione repubblicana — a cominciare dall’opera di Machiavelli, alla quale farò esclusivo riferimento — un’impostazione del rapporto fra etica e politica alternativo sia alla tradizione della ‘politica’ classica sia quella della ‘ragion di Stato’ protomoderna e della moderna Realpolitik. Affrontare questo tema con una qualche completezza implicherebbe fra l’altro una presa di posizione sulla vexata quaestio della cronologia delle opere di Machiavelli e della continuità o discontinuità del suo pensiero. Un problema, come è
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noto, insolubile sulla mera base dei documenti filologici di cui disponiamo. È solo il caso di ricordare che propendere per una visione sostanzialmente continuistica della produzione machiavelliana, che certo riconosce tensioni e differenze ma non considera I/ Principe, i Discorsi e le Istorie fiorentine come l’opera di tre autori diversi, non implica necessariamente sottovalutare la portata del repubblicanesimo machiavelliano?9. Significa piuttosto porsi il problema del rapporto fra repubblicanesimo e realismo politico. In questa prospettiva le stesse interpretazioni di Pocock e di Skinner forniscono utili indicazioni. Il primo sostiene che il carattere ‘moralmente sovversivo’ del Principe emerge perché l’opera tratta il problema dell’innovazione e dell’agire politico in assenza di legittimazione. È infatti la stessa virtù, la qualità necessaria per portare ‘ordine’ in una situazione anomica, a distruggere il fondamento comunemente accettato della legittimità, cioè la consuetudine. Nel succedersi caotico degli eventi dominato dalla ‘fortuna’, il principe deve decidere di volta in volta se è opportuno (se è ‘virtuoso’) obbedire ai precetti della morale. Ma anche i Discorsi propongono tesi eversive, e in particolare
esprimono una ‘militarizzazione della virtù’, che rimanda all’idea che le repubbliche virtuose sono quelle che, come Roma, armano il popo-
lo e intraprendono una politica espansiva?!. La repubblica può essere virtuosa moralmente e civilmente negli affari interni solo se nei rapporti con gli altri popoli si comporta come ‘golpe’ e ‘lione’. In quest’ottica la virtù diventa ‘cannibale’: la repubblica, per essere virtuosa, non può non ‘ampliare’ e sottomettere altre repubbliche, e quello esercitato dalle repubbliche è il tipo peggiore di dominio?2. Tuttavia nell’ampia ricostruzione pocockiana delle opere machiavelliane i terminichiave sono quelli della virtù, della corruzione, del bene comune, ter-
mini che conservano una valenza sia etica che politica. E nella ricostruzione storica del filone repubblicano del pensiero politico early modern la radicalità di certe tesi machiavelliane sembra via via scolorarsi.
Skinner contesta la tesi secondo la quale Machiavelli teorizzerebbe la separazione fra politica e morale e l'autonomia della politica e insiste sui suoi legami con le convenzioni e i valori tipici della tradizione repubblicana classica. Ma afferma che Machiavelli introduce una reinterpretazione del concetto di virtù che ha una portata rivoluzionaria. La grande originalità di Machiavelli rispetto alla letteratura precedente consiste nell’utilizzare il concetto di virtù in riferimento a qualsiasi serie di qualità necessarie per ‘mantenere lo Stato” e ‘compiere grandi cose’: «se queste qualità qualche volta possono sovrapporsi con levirtà 94
convenzionali, l’idea di un’equivalenza — necessaria o anche approssimativa — fra la virtà e le virtù è un errore fatale»?3. Questa distinzione fra la ‘virtù’ e le virtù tradizionali si trova sia nel Principe che nei Discorsi. I fini della politica, sostiene Skinner, sono per Machiavelli gli stessi che per i repubblicani umanisti suoi contemporanei: realizzare ‘cose grandi’, ricercare onore, gloria e fama. Ma, secondo gli umanisti, per conseguire questi fini si devono seguire i precetti della morale cri-
stiana. Per Machiavelli la priorità attribuita al bene della città e alla sua libertà comporta invece una reinterpretazione del concetto di virtà, nel senso della qualità che permette a un popolo di mantenere la sua libertà e ampliare il proprio stato, in particolare attraverso la partecipazione politica. Vi è dunque una sorta di circolarità fra virtà e libertà: la virtù è la migliore difesa della libertà, e la libertà repubblicana costituisce la migliore condizione per lo sviluppo della virt2?4. Anche i massimi esponenti della storiografia sul repubblicanesimo, dunque, tendono ad avvicinare la concezione della politica presente nei Discorsi e nel Principe, ben lungi dal contrapporre un Machiavelli ‘realista politico’ e consigliere dei principi a un Machiavelli repubblicano e teorico della ‘politica deliberativa’. Inoltre, Pocock e Skinner riconoscono che Machiavelli imposta in modo innovativo il rapporto fra etica e politica. Il problema è: fino a che punto Machiavelli è un innovatore? Le tesi del Prizcipe — che hanno sconcertato contemporanei e posteri di Machiavelli — sono valide in generale o solo con riferimento al problema dell’innovazione politica? Oppure, semplicemente, la loro radicalità si spiega con l’intenzione di stupire e interessare i Medici? La politica machiavelliana si distacca dalla morale teologica o si autonomizza dalla morale in generale? Per tornare al linguaggio di Kuhn: Machiavelli opera all’interno della ‘scienza normale’ o è un pensatore ‘rivoluzionario’? In ogni caso, se le interpretazioni di Pocock e Skinner hanno qualche fondamento, è evidentemente insostenibile la tesi che Machiavel-
li proponga una concezione ‘avalutativa’ della teoria politica. Il teorico politico, per Machiavelli, non può non valutare, e l’azione politica è ispirata a principi e valori; valori che non sono peraltro riducibili al solo fine della conservazione del potere o ai principi della ‘ragion di Stato”. Ma, andando oltre la lettura di Pocock e di Skinner, si può rilevare una (almeno tendenziale) autonomizzazione dei valori politici dai valori morali. Si prenda, ad esempio, l’uso di ‘buono’ nelle opere machiavelliane. Si tratta di un termine polisemico: in generale esso tende ad indicare tutto ciò che ha un valore positivo; è solo in un’accezione più specifica che ‘buono’indica i valori morali; inoltre, vi sono 95
una serie di passi che appaiono volutamente paradossali, che sembrano segnalare la presenza di codici differenziati per i valori politici e i valori morali; in tale contesto, ‘buono’ indica i valori morali, ‘virtuoso’
quelli politici. Nel VII capitolo del Prircipe, ad esempio, si afferma che per dare «buon governo» alla Romagna occorreva Remirro de Orco, «uomo crudele ed espedito»; e si ricorda in Cesare Borgia la coesistenza di «tanta ferocia e tanta virtù»??. Forse ancora più significativo è l’exemplum di Agatocle, che «accompagnò le sue sceleratezze con tanta virtù di animo e di corpo»?£. A questi passaggi del Principe fanno riscontro innumerevoli luoghi dei Discorsi: ad esempio in II.13 si sostiene che «a un principe che voglia fare grandi cose, è necessario imparare a ingannare [...]. E quel che sono necessitati fare i principi ne’ principii degli augumenti loro, sono ancora necessitate a fare le republiche, infino a che le siano diventate potenti, e che basti la forza sola»?7. In III.21 è notevole il nesso fra il comportamento «scelerato» di Annibale e la sua «eccessiva virtù»?8. In III.30 è spietatamente diagnosticata l’inefficacia della bontà di Piero Soderini??, In III .42 si invita a non osservare le promesse fatte per forza. Ma fondamentale è il già citato III 41: la patria è bene difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria [...] dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà*!.
Si noti che il fine della salus rei publicae e della sicurezza collettiva non è isolato né assoluto: si connette immediatamente a quello della libertà. Sono questi fini politici a legittimare quella sorta di deroga dai precetti morali cui Machiavelli allude. Ed è il caso di sottolineare un ultimo aspetto. Non è semplice «sapere essere non buono», come è
evidente nel classico luogo del Principe 15: egli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare impara più tosto la ruina che la preservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, sapere esse-
re non buono, e usarlo 0 non l’usare secondo la necessità”.
Questo tema ricorre anche in altri luoghi e riemerge nei Discorsi. Essere non buono al momento giusto e nel modo giusto non è facile: 96
c'è in Machiavelli l’idea di una costruzione consapevole della cattiveria necessaria; occorre «non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato»44. Dunque un’ulteriore differenza fra comportamento politico e comportamento morale è che il primo richiede una maggiore dose di riflessione, è in qualche modo una costruzione, un artefatto, una conquista: occorre «sapere intrare nel male». Si pensi ad esempio agli errori di Piero Soderini nel seguire la sua buona indole, e alla grande difficoltà che incontrano i governanti nell’abbandonare le proprie inclinazioni — siano essi ‘impetuosi’ o ‘respettivi’ — per seguire il corso di azione più adeguato alle circostanze date. Secondo questa impostazione, nell’ambito della politica si danno comportamenti adeguati (cioè ‘virtuosi’) in relazione a determinati valori di riferimento (come la conservazione dello Stato, la sicurezza, e,
in modo tutto particolare, la libertà) che sono autonomi rispetto ai valori della morale. D’altra parte è possibile una sorta di feedback: in certi casi Machiavelli sostiene che alcuni comportamenti immorali trovino una loro giustificazione in relazione alla loro conformità ai valori politici (in relazione a un fine buono, «accusandolo il fatto, lo effetto
lo scusi»). E determinate morali — in particolare, determinate morali religiose — possono contribuire allo sviluppo di un ethos diffuso che favorisce l’agire politico virtuoso. Per connotare sul piano assiologico i comportamenti politici e morali Machiavelli adopera due codici, parzialmente sovrapposti: virtù-corruzione, utilizzato prevalentemente, ma non esclusivamente, nella dimensione politica; bontà-sceleratezza (cattiveria), adoperato prevalentemente, ma non esclusivamente, in
ambito etico; il discorso politico si autonomizza così dal discorso morale e teologico, pur continuando a utilizzarne categorie fondamentali che vengono reinterpetate. D'altra parte — per rendere meno approssimativo il quadro — si deve tenere presente che Machiavelli, attraverso una felice, tendenziosa parafrasi di Polibio, pone la questione della costruzione politica della morale#5. Credo che per rendere conto di quest'impostazione si possa ancora utilizzare il concetto di ‘realismo politico’. Si tratta di un termine di cui occorre riconoscere l'ambiguità e la polisemia, e che dunque deve essere specificato. In particolare, sarebbe gravemente fuorviante identificare, o connettere strettamente, il realismo politico di Machiavelli
con la successiva teoria della ragion di Stato e con il pensiero politico dell’assolutismo, e più in generale con le posizioni politiche conservatrici. Una lucida, aggiornata e brillante riproposizione di quest’ultima tesi è opera di Pier Paolo Portinaro. Portinaro non solo contrappone il suo tentativo di delineare un ‘profilo complessivo’ del realismo po24
litico al «discettare, con vocazione consolatoria, di spirito repubblicano e di etica pubblica»47, ma vede il ‘principio di realtà’ del realismo politico in opposizione al ‘principio speranza’#. Più specificamente, Portinaro sostiene che se nella modernità il realismo politico confligge con le ideologie del liberalismo e del socialismo, «con il conservatorismo e il nazionalismo intrattiene invece un rapporto preferenziale», fino quasi a configurarsi come «una forma universale di conservatorismo». Alla radice di quest’affinità starebbe «l’idea della costanza della natura umana e dell’indisponibilità di alcune tendenze fondamentali del processo storico»4?. Il realismo politico di Machiavelli potrebbe invece essere inteso più adeguatamente come il riconoscimento dell’autonomia funzionale della politica dall’etica. Non come la rinuncia al tentativo di affermare determinati valori (in Machiavelli in primo luogo quello della libertà) ma come il riconoscimento del fatto che il codice della politica non è determinato da valori e da principi etici. Machiavelli è il primo grande pensatore occidentale a sostenere che la politica è incomprensibile se pensata attraverso il codice ‘buono-cattivo’ e che è necessario tematizzare la dimensione strategica della politica, il gioco opportunistico degli interessi, la logica autonoma del potere. Ma un'immagine del realismo politico machiavelliano sarebbe unilaterale se non tenesse presente un altro elemento fondamentale: per Machiavelli, seguire la ‘verità effettuale’ non significa negare la possibilità del mutamento, dell’intervento creativo e ‘trasformatore’. Né è escluso che le norme e le istituzioni giuridiche possano svolgere un ruolo importante nell’incanalamento del conflitto e nell’innovazione politica, nella costruzio-
ne di «leggi ed ordini in beneficio della publica libertà»?0, Il realismo politico in Machiavelli non si coniuga con il conservatorismo: è assai lontano sia da quello di Trasimaco che da quello della Rea/politik. Ricollegarsi alla tradizione repubblicana del pensiero politico permette di mantenere aperta questa prospettiva di un ‘realismo repubblicano’. In questa luce una nozione come quella di ‘virtà’ può essere riproposta, ma a patto di declinarla in termini politici, come ‘energia e competenza strategica’ e ‘astuzia situazionale’, ovvero come capacità di cogliere la ‘qualità dei tempi’?!; è in questo senso che non si può delineare un passaggio dalla dimensione politica alla dimensione morale senza soluzione di continuità?2: la virtù politica non può essere identificata con la Gesinnungsethik del fiat iustitia, pereat mundus?>. Non si tratta, insomma, di contrapporre «un'etica della vita pubblica e della politica», che sostiene «che sia compito della politica agire per il bene pubblico ispirandosi a un ideale umanitario»?4, ad una concezione del 98
realismo politico che fa della logica della forza il perno dell’agire politicamente orientato. Si tratta piuttosto di ritrovare il filo, forse solo temporaneamente smarrito, di un realismo repubblicano. 4.3. Libertà e dominio
Molti critici del repubblicanesimo, ma anche molti suoi sostenitori,
identificano la libertas delle repubbliche protomoderne con la libertà ‘positiva’, ‘degli antichi’, nel solco della tradizione interpretativa che inizia con Benjamin Constant e si prolunga fino a Isaiah Berlin e oltre??. Proprio su questo punto Skinner ha preso le distanze da Pocock. La concezione ‘repubblicana classica’, o ‘neoromana’ di libertà muove dall’idea machiavelliana che i diversi gruppi di cittadini hanno fini differenti. Solo alcuni di essi ricercano onore, gloria e potere e si impegnano nell’attività di governo, mentre la maggior parte persegue la propria sicurezza. Un capitolo dei Discorsi offre lo spunto per l’interpretazione di Skinner: Ma quanto all’altro popolare desiderio, di riavere la sua libertà, non potendo il principe sodisfargli, debbe esaminare quali cagioni sono quelle che gli fanno desiderare d’essere liberi; e troverrà che una piccola parte di loro desidera di essere libera per comandare; ma tutti gli altri, che sono infiniti, desiderano la libertà per vivere sicuri. Perché in tutte le republiche, in qualunque modo ordinate, ai gradi del comandare non aggiungono mai quaranta o cinquanta cittadini: e perché questo è piccolo numero, è facil cosa assicurarsene, o con levargli via, o con fare loro parte di tanti onori, che, secondo le condizioni loro, e’ si abbino in buona parte a contentare. Quelli altri, ai quali basta vivere sicuri, si sodisfanno facilmente, faccendo ordini e
leggi, dove insieme con la potenza sua si comprenda la sicurtà universale?©.
Ma proprio per garantire la sicurezza è necessaria la libertà: lo Stato deve essere libero dalla dominazione di altre potenze e i cittadini debbono essere liberi all’interno dello Stato??. In questo senso la concezione machiavelliana della libertà è ‘negativa’: la libertà consiste nell’assenza di costrizioni e di impedimenti al godimento di determinati beni. E questa idea si evolverà negli autori ‘neoromani’ del XVII secolo nella concezione della libertà come «godimento privo di costrizioni di un certo numero di specifici diritti civili»?8. Da un altro punto di vista, la libertà consiste nel non trovarsi in condizione di schiavitù, nel non essere 7 potestate di un altro ma piuttosto sui iuris. La condizione opposta alla libertà non consiste nell’effettiva e attuale co29
strizione, ma piuttosto nell’essere «permanentemente esposti alle offese ed alle punizioni»?? in quanto si dipende dalla volontà di qualcun altro. Skinner rileva che, ispirandosi agli scritti di autori romani come Cicerone, Sallustio e Livio e alla lezione di Machiavelli, i ‘neoromani’ inglesi del XVII secolo affermarono la tesi radicale, e antihobbesiana, che sia possibile essere liberi solo in uno Stato libero. L'individuo è
privato della sua libertà se il potere dello Stato lo costringe a comportarsi in un modo determinato, senza che ciò sia previsto dalla legge. Ma per i neoromani «non è sempre necessario subire questo tipo di aperta coercizione per perdere la libertà civile». La stessa «condizione di soggezione o di dipendenza politica», il fatto di essere esposti al pericolo di venire privati dei propri diritti è già una violazione della libertà®0, Per un certo periodo Skinner aveva considerato la concezione ‘repubblicana classica’ come una variante della concezione ‘negativa’ della libertà formulata da Hobbes e poi ripresa dai liberali: il punto di disaccordo avrebbe riguardato le condizioni necessarie per garantire la libertà. Pettit ha sostenuto invece che è in gioco una differenza sul significato stesso della nozione di libertà, e Skinner ha finito per concordare con questa posizione®!. Pettit propone una sua interpretazione della libertà repubblicana, sintetizzata nell’efficace formula della liberty as non domination. La concezione della libertà condivisa dagli autori del repubblicanesimo classico è ‘negativa’ nel senso che esprime un’assenza. Tale assenza non include ogni forma di interferenza, ma solo quelle forme arbitrarie di interferenza che si traducono nella soggezione alla ‘padronanza’ altrui. In altri termini, la relazione di dominio può darsi senza che vi sia interferenza, mentre può non darsi dominio in presenza di una qualche interferenza. L’esempio che Pettit più volte utilizza è quello della relazione fra signore e servo e fra padrone e schiavo: un padrone benevolo può non interferire nella vita dello schiavo e dunque lasciargli ampi margini di libertà ‘negativa’. Tuttavia lo schiavo è alla mercè del padrone che può, a suo arbitrio, revocare questa concessione. Per contro, uno schiavo scaltro può in-
gannare il padrone o comunque sottrarsi alla sua interferenza, ma può farlo in quanto se lo ingrazia, rinuncia a contrapporsi a lui. In ogni caso egli non può ‘guardarlo negli occhi’, non può elevarsi alla sua dignità. Per contro, si danno casi di interferenza non arbitraria, come quello delle leggi legittime e riconosciute. Pettit cita il classico luogo dell’Oceana nel quale Harrington, replicando ad Hobbes che aveva sostenuto che i cittadini della repubblica di Lucca godevano della stessa libertà (intesa come non interferenza) dei sudditi del sultano di Co100
stantinopoli, distingue la libertà from the laws dalla libertà by the laws. Intesa in questo senso, la libertà repubblicana si connette strettamente con il principio del rule of law®. Nonostante le critiche che sono state mosse alle tesi di Skinner e di Pettit, ritengo che esse esprimano effettivamente una visione della libertà non riducibile alla classica bipartizione della linea ConstantBerlin, che lascia molte cose fuori dal campo. Fra la libertà come positiva capacità di determinare le decisioni che ci riguardano, tale da esprimere una peculiare caratteristica politica della natura umana, e la libertà hobbesiana come non interferenza c’è un ampio spazio teorico, particolarmente importante per chi non si colloca né fra gli aristotelici né fra i liberali individualisti. Insomma, ha un qualche senso sostenere che i cittadini che scrivevano sulle porte delle proprie mura la parola libertas erano più liberi dei sudditi del sultano, senzà per questo ritenere che in tal modo realizzassero la loro natura più autentica. D'altra parte la messa a punto di Pettit sembra opportuna. Considerare la libertà repubblicana una sottocategoria della libertà negativa lasciava qualcosa di inespresso: c’è un elemento attivistico, ‘positivo’ nella politica repubblicana, difficilmente cancellabile*4. In questa prospettiva la nozione repubblicana di libertà si ricollega alla concezione repubblicana dei diritti: i diritti nel godimento dei quali la libertà consiste non sono ‘proprietà’ degli individui ma poteri frutto di rivendicazioni e bisognosi di ‘cura vigile’ (cfr. supra, par. 3.2). E questo vale anche per motivi teorici che riguardano questioni dell’oggi: una concezione della libertà adeguata alla società contemporanea può difficilmente esaurirsi nella non-interferenza: si pensi soprattutto alla tensione fra la libertà ‘negativa’ e l'autonomia individuale. Un soggetto esposto alla comunicazione dei rzedia gode di un’ampia libertà negativa: può scegliere il canale che preferisce o spegnere la televisione; ma si trova a confrontarsi con una ‘realtà’ in gran parte filtrata e costruita dai media stessi. E lo sviluppo della libertà ‘negativa’ nel mercato televisivo rafforza paradossalmente questi effetti. Analogamente, ci si può chiedere fino a che punto la libertà politica è garantita da elezioni segrete e da una pluralità di candidati, se l’attribuzione del consenso non è autonoma e spontanea e le parti non offrono una reale pluralità di programmi. In generale la libertà ‘negativa’ di espressione appare insufficiente, in assenza di un diritto — positivo — all’informazione®?. Il nesso fra non-dominio e autonomia personale è ripreso e sviluppato da Pettit6. Opportunamente, egli rinuncia a un’idea troppo forte di autonomia, all’idea che ogni credenza e ogni desiderio che il soggetto ha fatto propri siano stati elaborati «in un processo storico di au101
to-costruzione». Piuttosto, per essere autonomo il soggetto deve essere «capace di sottoporre ciascuna delle sue credenze e ciascuno dei suoi desideri ad appropriati test». L'individuo autonomo può agire, per gran parte del suo tempo, sulla base di credenze e desideri ricevuti; è autonomo se non è vittima di queste credenze e desideri, se ha la
possibilità e la capacità di esaminarli e metterli in questione. E, analogamente, la collettività che si autogoverna è quella che ha la possibilità e la capacità di contestare le decisioni e imporre la loro modifica: non è francamente plausibile che la condizione necessaria dell’autonomia 0 dell’autogoverno individuale sia l'aver preso in esame e condiviso ogni proprio singolo desiderio o credenza in un processo storico di autocostruzione; se così fosse, non esisterebbero individui autonomi. Più plausibilmente, il requisito essenziale è che gli individui possano eventualmente sottoporre tutti i propri desideri e le proprie credenze, senza eccezione alcuna, alle opportune verifiche, soprattutto nel caso in cui emergano dei problemi, e che dall’esito di tali verifiche dipenda se gli individui manterranno o meno i loro impegni. L’indice dell’autonomia individuale è modale o controfattuale, non storico. [...] Per analogia, anche il popolo — il ‘demos’ — che si autogoverna agisce spesso automaticamente, consentendo ai processi decisionali di procedere in maniera più o meno indiscussa o meccanica. Ciò che lo rende tale è il fatto di non essere esposto volente o nolente a questo modello decisionale: il popolo in questione se vuole può contestare le decisioni prese e, nel caso in cui la contestazione rilevi una discrepanza rispetto ai suoi interessi e alle sue opinioni, può esigere che siano cambiate®?.
Appunto in questa capacità e possibilità di mettere autonomamente in questione le decisioni, le scelte, l’agenda, i valori diffusi con-
siste il nucleo irrinunciabile di libertà ‘positiva’, vitale per la sopravvivenza della democrazia anche e soprattutto nella società complessa. Ma se un elemento ‘attivo’, ‘positivo’ è difficilmente eliminabile dalla nozione di libertà come non-dominio, ciò non significa che — come ha proposto Sandel — sia possibile ricondurla nella stessa categoria della libertà positiva. Sandel distingue fra una strong version — di matrice aristotelica — e una 70re modest version della libertà repubblicana. Per la prima versione la virtù civica e la partecipazione politica sono intrinseche alla libertà, per la seconda esse sono strumentali68, Ma si tratta di una differenza di grande rilievo, che rimanda a distinte antropologie politiche (l’idea dell’uomo come zoòx politikòn è compatibile solo con la strong version), e a concezioni della politica radicalmente differenti. La nozione di autogoverno, in altre parole, ha significati differenti per le due versioni, 102
Anche l’idea di Pettit che il valore di riferimento per una teoria neorepubblicana sia appunto la libertà, piuttosto che la virtù civica, apre prospettive interessanti. Ma egli enfatizza questa centralità, fino a sostenere che la libertà come non-dominio costituisce un ideale politico universale. Si tratta cioè di «un bene personale che pressoché tutti hanno buone ragioni di volere e, più in generale, di apprezzare»? e tale da rappresentare un vero e proprio fine per le istituzioni politiche: per Pettit l'ideale della libertà come non-dominio è autosufficiente, non richiede di essere associato ad altri valori come l’uguaglianza, l’utilità o la giustizia sociale. La concezione repubblicana della libertà, sostiene infatti Pettit, è un «bene egualitario»: si realizza tanto più quanto più viene distribuito fra imembri della società. Ne consegue che tutti i gruppi «relativamente oppressi» ed esposti al dominio in quanto «resi particolarmente vulnerabili dal genere o dall’appartenenza etnica, dal colore della pelle o dalle preferenze sessuali, e così via»?! trovano una causa comune nella libertà come non-dominio. La libertà come non-dominio si rivela dunque un valore attraente non solo — sul piano teorico — per liberali e comunitaristi, ma anche per esponenti di movimenti politici e sociali ispirati all’ambientalismo, al femminismo, al socialismo e al multiculturalismo. Pettit si impegna a definire e articolare le forme istituzionali e pratiche di tutela della libertà come non-dominio adeguate per le società contemporanee. Secondo la sua ‘teoria repubblicana del governo’ l’ideale repubblicano della libertà non implica né l’adesione a concezioni statalistiche o collettivistiche né un rigido egualitarismo, ma promuove piuttosto l’individuazione di ambiti rilevanti per un intervento selettivo delle istituzioni. Questa posizione di Pettit non appare particolarmente originale nel dibattito teorico-politico contemporaneo, né risulta inaudita la sua valorizzazione del costituzionalismo come realizzazione del rule of law e di forme di ‘distribuzione del potere’ che includono sia la divisione fra legislativo, esecutivo e giudiziario sia il federalismo e il decentramento. La ricerca di Pettit intorno al valore filosofico-politico della libertà repubblicana ha il merito di proporne una sintesi efficace e suggestiva e permette di vederla come l’espressione di sentimenti, passioni, interessi che hanno trovato spazio in significative esperienze politiche. Una considerazione sembra particolarmente felice: Pettit ammette la possibilità «che in determinate situazioni gli individui manifestino un desiderio ideologicamente indotto di sottomettersi a questo o a quel sottogruppo». Ma questo «presuppone la soppressione-di un profondo e universale desiderio umano di autonomia e dignità, nonché l'eli103
minazione di una robusta e salutare disposizione a indignarsi di fronte a simili pretese di superiorità»?2. L’associazione della libertà come non-dominio al sentimento della dignità, all’idea dell’autoaffermazione e alle pratiche di rivendicazione restituisce al concetto una ricchezza semantica che viceversa rischia di andare perduta se si seguono le indicazioni di alcuni critici, per quanto ispirate da una legittima aspirazione alla chiarezza concettuale?3. All’accusa secondo la quale la nozione ricostruita da Pettit ‘moralizza’ il concetto di libertà si può rispondere che la stessa nozione ‘negativa’ di libertà è — e non potrebbe non essere — tutt’altro che ‘avalutativa’: privilegia alcune delle valutazioni (e alcune delle passioni) che vengono associate alla nozione di libertà, a preferenza di altre. Meno convincente appare la pretesa di sistematicità normativa
avanzata da Pettit. Egli fa della concezione repubblicana della libertà il fulcro di una filosofia politica a tutto tondo: l'ideale del non-dominio si esprime in indicazioni normative su quali fini lo Stato deve perseguire, su come le istituzioni devono essere disegnate, su quale cultura politica deve essere sviluppata. Il riconoscimento che fra la libertà negativa e la libertà positiva si dà uno spazio teorico e politico rilevante non implica che la libertà sia l’unico valore politico o l’unico ideale da perseguire. Sostenere che la libertà come non-dominio include al suo interno valori come l'uguaglianza e l'utilità espone ad alcune delle critiche più classiche contro i sostenitori della libertà positiva: è sempre possibile produrre definizioni persuasive della libertà tali da includere altri valori, ma in questo modo si finisce per smarrire pericolosamente il senso del concetto”4. Berlin aveva molte ragioni per sostenere che una nozione troppo inclusiva di libertà finisce per rendere meno consapevoli del pluralismo etico: di fronte ai dilemmi dell’etica, della politica e del diritto, l’idea di un unico supervalore di riferimento rischia di rendere meno perspicua la rappresentazione dei conflitti fra valori e più ardua la ricerca di forme di composizione e bilanciamento (o l’assumersi la responsabilità politica della decisione ultima fra principi non conciliabili e non componibili). D'altronde, la stessa tesi di Pettit secondo la quale la libertà come non-dominio esclude un egualitarismo assoluto segnala che la libertà può confliggere con l’eguaglianza. Altrettanto si potrebbe dire a proposito di valori comela sicurezza, l’utilità collettiva, la tempestività delle decisioni. ‘Prendere sul serio’ il conflitto fra valori dovrebbe essere tanto più importante nel contesto del politeismo etico e 4 fortiori nella società multiculturale??. Manifestamente affetta da un eccesso di ottimismo normativo mi pare, in particolare, la tesi secondo la quale l’ideale della libertà come 104
non-dominio soddisferebbe sia i comunitaristi che i liberali e che potrebbe permettere di declinare, e conciliare, le istanze espresse dai movimenti ambientalisti, socialisti, femministi e multiculturalisti. L’affer-
mazione che «il linguaggio repubblicano della libertà come non-dominio garantisce un medium in cui è possibile articolare una grande varietà di rivendicazioni e insoddisfazioni»? non implica che tutti i gruppi svantaggiati siano ricondotti ad «un’unica causa solidaristica»??: avere un linguaggio rivendicativo comune non significa che gli interessi non confliggano o che i diritti affermati dai differenti gruppi siano sempre compatibili. Basta pensare alla tradizionale opposizione fra la cultura ‘industrialista’ dei sindacati e quella ambientalista, o ai contrasti — sempre più diffusi nelle società multietniche — tra l’affermazione dei diritti individuali (a cominciare da quelli delle donne) e la tutela delle identità culturali (a cominciare da quelle minoritarie). A ciò fa riscontro un'eccessiva semplificazione della nozione di dominio e, più in generale, di quella di potere: le articolate riflessioni di autori come Foucault o Luhmann sembrano del tutto sconosciute a Pettit, nel quadro di una generale disattenzione alle ricerche prodotte dalla teoria sociale e politica degli ultimi decenni: la sfida della complessità sociale rischia di far apparire idealistico e irrealistico l’intero progetto normativo di Pettit. Ma anche a prescindere da questo deficit di realismo, credo che alcune debolezze della teoria di Pettit risal-
gano alla sua scelta metainterpretativa riguardo alla storiografia del repubblicanesimo. Pettit non si occupa delle differenziazioni interne al repubblicanesimo, che considera «come un’unica tradizione»?8, men-
tre invece alcune di queste differenziazioni appaiono particolarmente rilevanti riguardo ai temi che egli affronta. Mi riferisco, anche qui, al tema del conflitto politico. Ho l’impressione che un approfondimento di questo tema avrebbe consentito di presentare in modo più convincente la stessa concezione della libertà come non-dominio, di sviluppare alcuni temi accennati da Pettit, se
non di sciogliere alcuni nodi teorici che appaiono irrisolti. Anche perché le differenze nella valutazione del conflitto politico tendono a ricollegarsi a differenti teorie delle forme di governo (cfr. infra, par. 5.1), a valutazioni differenziate del ruolo degli attori politici, ad antropologie politiche assai distanti l’una dell’altra. E una maggiore attenzione per le versioni conflittualiste del repubblicanesimo avrebbe forse permesso a Pettit di affrontare in modo più convincente anche temi come quelli del femminismo o del multiculturalismo: la libertà repubblicana ha più chances di successo se riesce ad offrire un linguaggio comune alle rivendicazioni e alla mobilitazione di gruppi più esposti al do105
minio, piuttosto che costituire un utopistico orizzonte normativo universale.
Anche Skinner allude ad una qualche ‘utilizzabilità’ della nozione ‘neoromana’ di libertà nel dibattito teorico-politico ma è ben lontano dal costruire una teoria del governo repubblicano. Se «ciò che è possibile fare in politica è generalmente limitato da ciò che è possibile rendere legittimo»??, e se questo rimanda alla possibilità di ispirarsi a principi normativi generalmente accettati, la conoscenza del modo in cui questi principi normativi si sono affermati è rilevante anche per l’azione. Ciò «può consentirci di acquisire una concezione più autoconsapevole di un complesso di concetti che ora applichiamo in modo del tutto inconsapevole»89, fino a suggerirci di riconsiderarli. Così oggi la concezione ‘liberale’ della libertà negativa ha completamente oscurato quella repubblicana, fino ad essere considerata come l’unica concezione coerente, come 7/ modo di concettualizzarla. Skinner si riferisce qui esplicitamente alla posizione di Berlin: nella sua argomentazione — e in quella dei critici della libertà repubblicana che a lui si ispirano — traspare la tendenza a presentare determinate tesi sostanti-
ve (in questo caso una certa concezione della libertà) come il frutto della «chiarezza concettuale per quel che concerne i valori fondamentali che soggiacciono alle nostre prescrizioni politiche»8!, se non come il risultato di una disamina ‘avalutativa’. Per contro, riportare alla luce una coerente concezione della libertà, diffusa pervasivamente nell'Europa protomoderna, permette di comprendere quanto i nostri valori, e il nostro modo di concepirli, «riflettano una serie di scelte fatte in tempi differenti fra differenti mondi possibili»$?. Una riscoperta storiografica mostra che la nozione di libertà è stata a lungo associata a determinati sentimenti e a determinati valori. E questo sviluppa il nostro senso della possibilità, la nostra capacità di ‘ruminare’ — secondo l’espressione nietzscheana nella Geneaologia della morale®: Entrambi i partiti in conflitto concordano sul fatto che uno degli scopi primari dello Stato debba essere quello di riservare e preservare la libertà dei singoli cittadini. Un partito sostiene che lo Stato può sperare di adempiere a questo impegno semplicemente garantendo che i suoi cittadini non soffrano interferenze ingiuste o non necessarie nel perseguimento dei fini da loro scelti. Ma l’altro partito ritiene che ciò non possa mai essere sufficiente, poiché sarà sempre necessario che lo Stato garantisca, allo stesso tempo, che i cittadini non cadano mai in una condizione di evitabile dipendenza dalla buona volontà di altri. [...] Noi dell'Occidente moderno abbiamo adottato la prima di queste prospettive, scartando largamente la seconda. [...] Abbiamo scelto bene? Lascio a voi il compito di ruminare su questa questione®4.
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4.4. Democrazia «ex parte populi»
Fin dall’inizio del secolo scorso la classica teoria della democrazia come ‘governo del popolo’, espressione della volontà e della sovranità popolare, è stata sfidata dalla critica elitista dei fondatori della scienza politica. Nel corso del Novecento a questa sfida hanno risposto le elaborazioni dell’‘elitismo democratico’, da Schumpeter a Dahl e Sartori, che reinterpretano la democrazia come un insieme di procedure tali da garantire la competizione fra differenti attori politici e il pluralismo degli interessi®?. La tradizione repubblicana offre argomenti per una critica delle concezioni procedurali della democrazia. In primo luogo, il concetto ‘repubblicano’ di cittadinanza può rivelarsi un indicatore adeguato per l'osservazione ‘dal basso”, ex parte populi, di processi e sistemi politici che la teoria politica ha tradizionalmente analizzato ex parte principis, e dunque di valutarne l’effettiva democraticità86. Tutto questo significa che la democrazia non può essere concepita semplicemente come una forma di governo caratterizzata da determinate procedure: per connotare come ‘democratico’ un sistema politico dal punto di vista della cittadinanza non è sufficiente constatare l’esistenza di una pluralità di partiti che si presentano ad elezioni a suffragio universale sottoponendosi al giudizio del ‘pubblico’. Se il problema è quello dell’effettivo godimento dei diritti politici ci si dovrà chiedere fino a che punto è possibile formulare ed esprimere liberamente un consenso e un dissenso, che ‘portata’ ha il voto8”, in che misura i cittadini detengono il potere di investire e giudicare i governi e così via. E altrettanto rilevanti sono le eventuali discriminazioni di genere e di etnia, la diffusione dell’istruzione, il ruolo dei 724ss rzedia e più in generale l'impatto sulle procedure democratiche della moderna società complessa e multimediale88, In secondo luogo, si deve riconoscere che la nozione repubblicana di cittadinanza mantiene un’aura attivistica, rimanda all’effettivo esercizio dei diritti da parte dei cittadini. Ma ciò, a sua volta, non rinvia in
modo obbligato a concezioni partecipazioniste della democrazia, non significa necessariamente sostenere che l’appartenenza alla comunità politica e lo status dei diritti debbano tradursi in una diretta partecipazione al governo. Credo che le obiezioni contro i tentativi di riproporre qualcosa di analogo al modello rousseauiano di democrazia nelle moderne società complesse e differenziate siano convincenti. Ma anche le teorie che esaltano il ruolo positivo dell’apatia politica hanno probabilmente fatto il loro tempo. Sembra sempre più difficile soste107
nere — proprio per il carattere ‘rischioso’ delle società complesse — che sia possibile qualificare come democratico un sistema politico prescindendo da una valutazione del saggio di attività, interesse, azione
politica dei cittadini. D'altra parte, è stato sostenuto con ragioni convincenti che nelle società contemporanee non si realizzano i requisiti minimi (il pluralismo, la competizione fra i partiti, la sovranità dell’elettore nella scelta fra élites in concorrenza) che le teorie elitiste-democratiche considerano condizioni necessarie della democrazia. Sono le ‘promesse non mantenute’, i ‘rischi evolutivi’ e gli effetti inattesi della democrazia liberale che spingono a interrogarsi sui suoi fondamenti e sulla sua necessaria reinterpretazione.
Una delle grandi promesse non mantenute concerne la nozione stessa di sovranità popolare. Nei sistemi democratici reali, ha sostenuto Bobbio, sono le grandi organizzazioni a detenere la quota più rilevante di sovranità, e gli individui non sono affatto ‘sovrani’. Lo sviluppo tecnologico rende sempre più difficile al singolo cittadino comprendere i problemi al centro della vita politica: protagonisti diventano, in misura crescente, i tecnici e gli esperti. La democrazia ha inoltre uno spazio limitato: molti settori della società, a cominciare dall’amministrazione
pubblica e dalle grandi imprese, sono esclusi dal gioco democratico. E la democrazia non ha eliminato il potere invisibile8?, Le considerazioni di Bobbio andrebbero forse aggiornate alla luce — ad esempio — della crescita esponenziale delle risorse investite nelle campagne elettorali nell’epoca della politica-spettacolo, e dei connessi pesanti condizionamenti cui si espongono i candidati, nel quadro più generale dei mutati rapporti fra sistema economico-finanziario e sistema politico. D’altra parte sembra che lo stesso modello elitisticocompetitivo accusi un deficit di realismo. Nelle società contemporanee, il pluralismo politico rischia di scomparire, perché i partiti tendono a trasformarsi in organi burocratici dello Stato, e a svolgere più una funzione di legittimazione che un ruolo di critica del sistema politico. Iloro programmi tendono ad avvicinarsi e ad omologarsi, e le opposizioni incontrano difficoltà nello svolgere un ruolo effettivo. La pervasiva diffusione dei r24ss media produce effetti di lungo periodo in termini di narcosi politica del cittadino. Per la stessa logica di funzionamento dei rzedia, all'aumento dell’informazione corrisponde una diminuzione della partecipazione, una diffusione dell’apatia, un’atte‘nuazione del senso critico. Ma soprattutto si tende a considerare co-
me temi rilevanti dell'agenda politica solo ciò che passa nei programmi delle grandi reti televisive, fino a riconoscere come ‘reale’ solo ciò che è presentato come tale dalla televisione?0, 108
Se questi sono i ‘rischi evolutivi’ della democrazia, è stata rilevata anche una serie di effetti inattesi. Si pensi all’egoismo corporativo ‘democratico”, tipico delle politiche rot-in-m2y-backyard, e al tema collegato della società dei ‘due terzi’ con il connesso sostegno di massa al liberismo economico e la tendenziale emarginazione politica delle fasce più svantaggiate della popolazione. Si pensi infine alla grande difficoltà dei regimi democratici di avviare politiche lungimiranti dal punto di vista degli equilibri ecologici e di una maggiore equità fra Nord e Sud del mondo. Autori prestigiosi, come Hans Jonas, si sono spinti a sostenere che per la salvezza del pianeta e la sopravvivenza della nostra specie è auspicabile una sorta di dispotismo ecologicamente illuminato?!, L’opposizione fra concezioni procedurali e concezioni sostanziali della democrazia dovrebbe essere superata nell’idea che le procedure esprimono la sostanza stessa della democrazia, ma che d’altra parte procedure lontane dai sentimenti dei cittadini, non sostenute da un certo subtsrato di etbos civico e di cultura politica, sono impotenti. È alla luce di esigenze di questo genere che sono state elaborate le differenti versioni di deliberative democracy che, come abbiamo visto, criticano l'approccio economicistico della scienza politica novecentesca e la conseguente riduzione della politica a mero scontro di interessi”. La democrazia viene vista piuttosto come un processò comunicativo
pubblico dove si confrontano principi e valori e si dibattono argomenti morali. A tali concezioni si ricollegano i contributi di Habermas. Nel corso dell’elaborazione della sua nozione di Stato di diritto Habermas aveva delineato la ‘proceduralizzazione’ della nozione di sovranità popolare secondo un interessante ‘modello dell’assedio’, che valorizzava la mo-
bilitazione sociale e i processi comunicativi della cittadinanza. Habermas rileva che la nozione di ‘sovranità popolare’ non può più essere intesa in senso troppo concreto: è impossibile, nelle moderne società differenziate e complesse, rinunciare all’apporto dei tecnici o moltiplicare all’infinito le sedi decisionali. D'altra parte le istituzioni rappresentative in quanto tali tendono a diventare autoreferenziali, ad autonomizzarsi dalla società e a perdere contatto con le istanze, gli interessi e i valori espressi dai cittadini. Perché si possa parlare, in modo ‘astrattificato’, di sovranità popolare, nella società deve svilupparsi una rete di comunicazione politica, entro sfere pubbliche autonome, tale da sviluppare un ‘potere comunicativo’ e da tenere sotto assedio le istituzioni. Queste ultime devono rimanere ‘permeabili’ al flusso'comunicativo che proviene dalla società, «ai valori, temi, contributi e argomenti libe109
ramente fluttuanti in quella comunicazione politica che la fa da sfondo e che, come tale, non è mai completamente organizzabile»?. Questa impostazione viene ricollegata in Faktizitàt und Geltung alla concezione deliberativa della politica e inserita nell’impianto sistematico della teoria del discorso. Per Habermas occorre imparare la lezione del funzionalismo sistemico: la società non è e non può essere ‘costituita’ dalla politica, che non è che uno fra gli altri sottosistemi sociali. Ma sono inadeguate anche le strategie ‘deflazionistiche’, che identificano la democrazia con il soddisfacimento di un minimo di condizioni procedurali”. Il senso di una concezione procedurale della democrazia può essere colto, sostiene Habermas, solo se si tiene presente che «il procedimento democratico istituzionalizza discorsi e trattative servendosi di quelle forme di comunicazione che possono fondare una presunzione di ragionevolezza per tutti i risultati raggiunti secondo procedura»”. A questa condizione la politica deliberativa svolge una funzione di integrazione sociale. I processi comunicativi che si sviluppano nella rete delle ‘sfere pubbliche politiche’ della società civile, opportunamente istituzionalizzati secondo i principi dello Stato di diritto, interagiscono con le procedure democratiche degli organi legislativi: All’interno e all’esterno del complesso parlamentare — e dei suoi corpi che sono programmati per deliberare — queste comunicazioni senza soggetto formano arene in cui può prender piede una formazione più o meno razionale dell’opinione e della volontà circa materie rilevanti per l’intera società e bisognose di disciplina. Il flusso di comunicazione che s’instaura tra pubblico formarsi dell’opinione, decisioni elettorali istituzionalizzate e deli-
berazioni legislative serve a garantire che la generazione d’influsso pubblicistico e di potere comunicativo si trasformi — attraverso la funzione legislativa — in un potere amministrativamente esercitabile?6,
I procedimenti democratici costituiscono la ‘chiusa idraulica [Schleuse] tra il flusso comunicativo proveniente dalla società e le decisioni politico-amministrative. In questo modo, come abbiamo visto, è possibile ‘tradurre’ politicamente e giuridicamente le istanze sociali e garantire un «mantenimento contro-direttivo della complessità»??: questo permette di tenere i sistemi dell'economia e dell’amministrazione ancorati alla Leberswelt e di scongiurare una loro illegittima autonomizzazione. Occorre però che «le reti della comunicazione pubblica non-istituzionalizzata rendano possibili processi formativi dell’opinione più o meno spontanei», in modo da «disturbare le procedu110
re di routine del sistema politico»??. Ciò non è semplice né garantito: anche la spontaneità sociale è una risorsa scarsa. Tuttavia il sistema po-
litico ha bisogno del ‘sistema di allarme’ e della ‘cassa di risonanza’ rappresentata dalla sfera pubblica; e per quanto possano venire manipolate le opinioni «una sfera pubblica non può mai esser ‘costruita’ in maniera artificiale e arbitraria»!0, Habermas riconosce, realisticamente, che i processi comunicativi
sono profondamente condizionati dalle disuguaglianze nella distribuzione delle risorse organizzative, a tutto vantaggio dei partiti consolidati e dei grandi gruppi di interesse, e dalle strategie di trattamento dell’informazione (si riferisce alla personalizzazione e alla spettacolarizzazione della politica, alla mescolanza di informazione e intratteni-
mento e così via). E la contemporanea sfera pubblica è «dominata da mass media e grandi agenzie, tenuta sotto osservazione da inchieste di mercato e sondaggi d’opinione, irretita dalla pubblicità e dalla manipolazione di partiti politici e gruppi d’interesse»!%. Tuttavia le associazioni volontarie della società civile formano il sostrato organizzativo della sfera pubblica, alla quale il sistema politico è intrecciato mediante i partiti e le procedure elettorali!°2, Sarebbe un errore concepire la società civile come il luogo di un’auto-organizzazione complessiva della società; la società civile deve anzi ‘autolimitarsi’, escludendo una diretta partecipazione alla formazione del potere politico. L’influenza che essa può esercitare è comunque rilevante. Soprattutto nelle situazioni di crisi, gli attori della società civile possono «far entrare
in vibrazione» il sistema politico, fino a «capovolgere nella sfera pubblica e nel sistema politico la direzione convenzionale delle circolazioni comunicative»! e a dettare l’agenda politica. Nonostante le sue critiche alla concezione repubblicana della politica, alcuni aspetti della teoria habermasiana della democrazia trovano un'eco significativa nelle pagine di Pettit. Per quest’ultimo il principio della libertà come non-dominio richiede che le decisioni del potere legislativo, dei funzionari amministrativi e dei giudici siano prese in modo da escludere il potere arbitrario. Normalmente si ritiene che questa condizione sia soddisfatta se tali decisioni hanno il consenso dei cittadini. Ma se tale consenso deve essere esplicito e libero, ci si pone un obiettivo pressoché irraggiungibile; se si assume che il consenso sia implicito, l’assenza di arbitrio diviene un ideale vuoto. Di fronte a queste difficoltà Pettit — a mio parere opportunamente — suggerisce di sostituire al principio del consenso quello della contestability e di «concepire la democrazia alla luce di un modello centrato più sul conflitto e dii
la contestazione che sul consenso»!°. Ciò che impedisce a una decisione di divenire un atto di interferenza arbitraria e dunque di negare la libertà è «il fatto che possiamo contestare la decisione in maniera più o meno efficace nel caso in cui ci sembri che non si attenga ai nostri interessi ed alle nostre idee pertinenti»! Pettit rileva che quest’ «immagine agonistica, contestataria della democrazia» è ben presente in una linea della tradizione repubblicana — da Sidney a Locke, a Paine — secondo la quale la sovranità popolare si situa «non nella delega elettorale ma nel diritto di resistenza»!°, La democrazia come contestability rimanda ad alcune precondizioni necessarie: occorre che «il processo decisionale sia condotto in modo tale che vi sia la possibilità di contestarlo», deve essere «disponibile un canale o una voce per esprimere tale contestazione» e deve sussistere «uno spazio in cui venga esaminata la consistenza delle rivendicazioni avanzate, e, nel caso, ven-
ga approntata una risposta adeguata»!°?: la repubblica deve essere ‘deliberativa’, ‘inclusiva’ e ‘ricettiva’!98, Nell’argomentazione di Pettit la libertà come non-dominio sembra
insomma alludere ad una visione della democrazia ex parte populi, costruita a partire da uno sguardo ‘dal basso’ che valorizza soprattutto la mobilitazione dei gruppi e delle agenzie sociali e la ‘vigilanza repubblicana’ sulle istituzioni. Ma quasi immediatamente Pettit riassume la prospettiva ‘dall’alto’, ex parte principis. Egli si pone il problema di come le istituzioni possano consentire la contestazione e risponde alludendo appunto alla nozione ‘deliberativa’ della democrazia, alla prospettiva dell’accordo, all’ideale di una ‘repubblica delle ragioni’, al principio audi alteram parte; e attribuisce valore e legittimità solo a quelle che definisce le contestazioni ‘dialogiche’. L'idea della contestabilità sembra scolorarsi in una sorta di autodisciplina di chi contesta, mentre emerge in primo piano una ricettività delle istituzioni che mostra tratti paternalistici. In altri termini, il motore del processo sembra risiedere più nell’apertura delle istituzioni che nella mobilitazione dei cittadini. Analogamente, Habermas insiste sulla ‘permeabilità’ delle istituzioni, ipotizza una conformità dei corpi legislativi al modello deliberativo, finisce per assimilare i processi politici della società civile al modello dell’agire comunicativo, per quanto disturbato e distorto dalle intromissioni del potere amministrativo ed economico. Ho già sostenuto che il modello deliberativo della politica non presenta solo, sul piano analitico, un significativo deficit di realismo, ma risulta anche
inadeguato sul piano normativo. L'immagine dei parlamenti, dei con112
sigli municipali e territoriali, delle corti giudiziarie come arene del discorso, della comunicazione finalizzata all’intesa reciproca, è assai sfo-
cata. E le ‘sfere pubbliche autonome’ di cui parla Habermas non sembra possano essere intese come qualcosa di totalmente libero dagli imperativi funzionali del sistema economico e di quello amministrativo. Non c’è alcuna garanzia che le rivendicazioni dei cittadini abbiano un contenuto genuinamente democratico: sarebbe illusoria e agiografica un'immagine della società civile che trasferisca le patologie sociali, gli egoismi corporativi e lacorruzione totalmente a carico del sistema politico e dell'economia. È esperienza quotidiana di come l’intolleranza, la difesa miope di interessi immediati, l’ottusità corporativa e particolaristica siano espresse dalla società civile, spesso anche attraverso l’associazionismo di base e i ‘comitati di cittadini’!°, Non si deve inoltre dimenticare la collocazione della teoria deliberativa della democrazia nell’impianto sistematico generale della teoria del discorso. Habermas rimanda anche in questo caso al cielo delle astrazioni normative: il ‘principio democratico’ che fonda sovranità popolare e diritti umani non è che la traduzione del generale ‘principio D’ in ambito politicogiuridico. I processi comunicativi della società civile producono legittimità in quanto attivano, in ultima istanza, i presupposti ‘quasi tra-
scendentali’ del linguaggio e dunque rimandano alla morale universalistica. AI di là di queste critiche, l’idea di Habermas secondo la quale una moderna nozione della democrazia debba incentrarsi sul rapporto fra i processi e le attività della società e il sistema politico mantiene un significativo interesse. Si può forse sostenere che la formulazione più felice, per quanto più schematica, si trovasse nel primo scritto habermasiano sul tema, in cui si delineava il ‘modello dell’assedio’. Questo
modello si incontra adeguatamente con la nozione di ‘contestabilità’ e con la concezione conflittuale della democrazia. Si può riprendere questa impostazione liberandola, per così dire, da un riferimento troppostretto al paradigma della politica deliberativa e alle astrazioni normative della teoria del discorso. Anche su questo tema si potrebbero misurare le opportunità offerte da una rilettura del conflittualismo machiavelliano. Dal vasto repertorio concettuale della tradizione repubblicana potrebbe essere recuperata, più che una nozione ‘deliberativa’ della democrazia, la valorizzazione del ruolo politico svolto dagli ‘umori’ della cittadinanza attraverso la mobilitazione e il conflitto politico. Opportunamente, i neorepubblicani criticano il modello mercantile della politica, presente nelle varie concezioni dell’elitismo democratico, sia nel modello competitivo 113
di Schumpeter che in quello ‘poliarchico’ di Dahl. Ma il riconoscimento del fatto che il cittadino democratico non è riducibile al consumatore politico non implica l’identificazione della politica autentica con i processi comunicativi. E l’idea della democrazia come fattore ‘controdirettivo” di mantenimento della complessità sociale non rimanda necessariamente alle astrazioni universalistiche dell’etica del discorso. Come abbiamo visto, la tradizione repubblicana offre un'immagine della politica più ricca del modello dicotomico, polarizzato sull’opposizione fra politica come allocazione autoritativa dei valori e politica come prassi comunicativa, che ricorre negli autori cui ci siamo riferiti. In questa prospettiva è possibile anche recuperare dalla tradizione repubblicana importanti contributi sul tema delle forme di governo, in direzione di una teoria ‘postrappresentativa’ della democrazia. Da questo punto di vista sono ovviamente cruciali il problema del rapporto fra politica ed economia e quello del rapporto fra politica e mass media. Fra le misure ‘controdirettive’ per la difesa della complessità sociale quelle intese a mantenere l’intervento pubblico in settori-chiave come la scuola, la sanità e la sicurezza sociale, per difende-
re quei diritti sociali che rappresentano una precondizione necessaria per attivare i processi di ‘contestazione’ assumono un ruolo centrale. Come, più in generale, è decisivo il mantenimento di uno spazio pubblico, la difesa dei luoghi della politica, formali e informali, istituzionalizzati o meno, rispetto alla pervasiva invadenza dell’economia globalizzata. D'altra parte occorre prendere sul serio l’idea che nelle società contemporanee i mezzi di comunicazione di massa sono il ‘quarto potere’ e trattarli come tali. Ciò significa elaborare, e introdurre nelle costituzioni, forme di incompatibilità fra controllo sui rzedia e de-
tenzione del potere legislativo, esecutivo e giudiziario, oltre che garanzie per la diffusione del potere mediatico fra più soggetti. Accanto a questo, sono decisive le tutele per l’indipendenza degli operatori dell’informazione e della trasparenza per i metodi di selezione e trattamento delle informazioni. Passa da qui una delle frontiere su cui le risorse scarse di attivismo sociale — l’eredità postmoderna della virtù politica repubblicana — si misurano con le forme contemporanee di ‘corruzione’: gli effetti di dominio che risultano dall’intreccio di potere economico, potere comunicativo, potere politico, o dall’utilizzazione delle risorse e delle istituzioni pubbliche per fini privati. Se la comunicazione politica diffusa è una risorsa fondamentale e un presupposto necessario della democrazia, diviene di grande importanza ilmantenimento e l’articolazione di luoghi politici dove le istanze della società — che lasciate a se stesse tendono ad esprimersi nei 114
vari egoismi corporativi — possano trasformarsi in proposte politiche generali. Tutto ciò è vitale a fronte di una crisi del sistema dei partiti che appare irreversibile, e sembra trovare il suo luogo elettivo nella politica locale e nel governo delle città!!0, Più in generale, la difesa e lo sviluppo delle garanzie costituzionali, il ‘trinceramento’ di una serie di diritti fondamentali e la definizione di alcune procedure-chiave al riparo dalle oscillazioni dei risultati elettorali non è affatto in contrasto, ma è piuttosto una conseguenza di un’impostazione di questo tipo, che non privilegia le assemblee legislative come luogo della sovranità popolare, ma vede l’autogoverno come il risultato di un complesso intreccio di fattori che si pongono su piani diversi e dell’azione di processi differenti. È probabile che in questa linea sia auspicabile una riconfigurazione in forme più agili ed efficaci delle istituzioni rappresentative. Un esempio può essere la delegificazione: perché il gioco su più piani risulti virtuoso è necessario migliorare la responsiveness e l'efficienza dei parlamenti, e dunque sgravarli da un eccessivo carico relativo a questioni di dettaglio. Per contro, dovrebbe venire rinforzata la capacità di controllo dei parlamenti sugli esecutivi e la possibilità di riforma della legislazione sui grandi temi di interesse generale. In ogni caso, fra gli insegnamenti vitali della tradizione repubblicana credo vada incluso il nesso fra autogoverno e Stato di diritto, fra democrazia e rule of law, che prenderemo in considerazione nel prossimo capitolo.
Capitolo quinto
Governo della legge e governo degli uomini
L’espressione ‘Stato di diritto’, con i suoi corrispondenti linguistici, ricorre nel dibattito pubblico dell'Europa continentale, come l’espressione rule of law in quello di lingua inglese. Maggioranze e minoranze, governanti e movimenti sociali, conservatori e progressisti dichiarano di ispirare la loro azione a tali principi o, viceversa, denunciano la loro violazione. Il rule of law è presentato dall’amministrazione americana come uno dei principi-chiave da difendere nella guerra globale al terrorismo, mentre i suoi oppositori colgono gravi violazioni del rule of law nelle politiche ‘patriottiche’ di sicurezza attuate o progettate dalla stessa amministrazione, dalla detenzione dei prigionieri di guerra alle nuove procedure penali per gli stranieri. Nel dibattito italiano, il principio dello Stato di diritto è invocato per scongiurare un'eccessiva interferenza della magistratura sul potere esecutivo, come pure per denunciare determinate misure legislative come ispirate alla tutela di posizioni particolari e personali. Ma, nonostante la fortuna di queste espressioni, nel dibattito teorico molti ne mettono in dubbio l’attuale fecondità e la stessa utilizzabilità. Non c’è dubbio che oggi ci si trovi di fronte ad uno scenario radicalmente differente rispetto ai sistemi politici liberali ottocenteschi, fondati su una ristretta base elettorale, nei quali le nozioni di rule of law e di Rechtsstaat erano state elaborate. Alla diffusione della democrazia
politica e all’avvento della società di massa si ricollega l'affermazione del costituzionalismo contemporaneo: l’introduzione di costituzioni rigide e del controllo giurisdizionale di costituzionalità delle leggi colloca il rapporto fra rule of law e sovranità popolare in una nuova prospettiva e pone in termini inediti il problema dello status e del ruolo del giudiziario. Inoltre, le costituzioni europee postbelliche includono nei loro bill of rights un significativo insieme di diritti sociali, e più in generale la ‘cittadinanza sociale’ presuppone il godimento di una serie di prestazioni e servizi garantiti ed erogati dallo Stato. 116
Tutto questo significa che la nozione di ‘Stato di diritto’ non può non collegarsi a quelle di ‘Stato democratico’, ‘Stato costituzionale’ e ‘Stato sociale’. Ma la ridefinizione dei titolari, dei processi di legittimazione, delle forme di esercizio di quel potere che dovrebbe esercitarsi ‘sulla base”, ‘per mezzo’ e ‘nel quadro” del diritto finisce per mettere in questione le stesse funzioni e lo stesso significato del ‘diritto’. Nelle complesse società del rischio il sistema giuridico assume caratteri che lo differenziano significativamente da quello strumento formalmente razionale e proceduralmente affidabile che era stato analizzato e teorizzato dai giuristi dell'Ottocento. Di fronte a questo scenario molti auspicano l’abbandono della nozione di Stato di diritto o, in alternativa, propongono una strategia po-
litico-teorica che coniuga un approccio ‘minimalista’ con una sorta di ‘ritorno ai principi’. Da più parti si sostiene cioè che la democratizzazione dei processi politici, l'espansione dei servizi pubblici, la costituzionalizzazione dei diritti sociali, i principi di giustizia materiale e di eguaglianza sostanziale finiscono per attribuire allo Stato funzioni e poteri non più fondati giuridicamente e non più esercitabili sotto l’impero del diritto. Le trasformazioni subite dal sistema giuridico, d’altra parte, minerebbero un caposaldo del rule of law: la certezza del diritto. Alla crisi dello Stato di diritto si potrebbe dunque rispondere solo attraverso un drastico ridimensionamento dell’intervento pubblico e una deflazione della domanda di prestazioni e servizi sociali. Un ridimensionamento che peraltro molti vedono come una conseguenza inevitabile dei processi di globalizzazione economica e della conseguente ridefinizione dei confini fra politica ed economia. Una via differente per affrontare questi problemi potrebbe passare attraverso un’analisi della ‘preistoria’ concettuale dello Stato di di-
ritto, e in particolare attraverso la valutazione del contributo offerto dalla tradizione repubblicana. Ad un primo sguardo una tale analisi sembrerebbe portare ulteriori argomenti a favore della netta distinzione, se non della contrapposizione, fra Stato di diritto, Stato democratico e Stato sociale. Se si può affermare che la tradizione repubblicana del pensiero politico è nella prima modernità uno dei terreni di coltura del rule of law, tale tradizione sembra esprimere, attraverso il
principio del governo misto, una critica radicale della democrazia. Elementi di questa critica possono venire considerati l’attribuzione alle élites di un ruolo politico radicalmente differenziato rispetto a quello del ‘popolo’, l’esclusione dall’ambito del politico dei temi economici e sociali, la condivisione di una nozione organicistica del corpo politico che vede la disunione e il conflitto tout court come patologie. 117
Ma se molti autori ascritti alla tradizione repubblicana condividono tesi di questo tipo, emergono anche posizioni significativamente differenti. In particolare, nell’opera di Machiavelli la nozione di ‘governo della legge’ è centrale, ma assume significati ben differenti rispetto a molti autori repubblicani cui viene avvicinata. Un confronto con la tradizione repubblicana, e in particolare con la teoria machiavelliana, può allora fornire argomenti per la trattazione di alcuni dei temi di maggior rilievo nella discussione contemporanea sullo Stato di diritto. L'analisi di questi temi consente di mettere a punto quell’approccio ‘repubblicano-conflittualista’ alla teoria dei diritti e alla democrazia che abbiamo cercato di tratteggiare nei capitoli precedenti. 5.1. I/ governo della legge e gli ‘umori’ della cittadinanza
L’ideale classico del ‘governo della legge’, alla radice della nozione di rule of law, sembra implicare un pregiudizio antidemocratico fin dalla sua origine nel pensiero politico e giuridico ellenico e romano. Nella Politica di Aristotele il concetto è introdotto nel contesto della critica alle forme radicali e ‘demagogiche’ di democrazia, nelle quali è la massa dei poveri a governare, piuttosto che le leggi!. Cicerone mette,
per così dire, la legge al riparo dalla deliberazione popolare, riferendola ‘giusnaturalisticamente’ ad un orizzonte normativo ‘naturale’ e perciò indisponibile: le leggi delle quali «omnes servi sumus ut liberi esse possimus» esprimono la ragione suprema insita nella natura, eter-
na, precedente la formazione dello Stato?. L’ideale del governo della legge percorre il pensiero politico medievale e si ripropone negli autori ‘repubblicani’ della prima modernità. In questi autori la critica alla democrazia si collega con l'opzione istituzionale per il governo misto, inteso come una struttura costituzionale in cui alle diverse com-
ponenti della cittadinanza — il monarca, i ‘migliori’ e i ‘molti’ — è attribuito il ruolo politico cui sono adatte. La critica ‘repubblicana’ della democrazia si prolunga fino all’opera di Kant, l’auctoritas filosofica dei primi teorici del Rechtsstaat?. Ciò che è più rilevante, entro questa tradizione la critica della democrazia esprime un’antropologia della diseguaglianza. L’idea aristotelica secondo la quale gli uomini sono per natura diseguali e proprio per questo esseri socievoli, ‘politici’, costituisce la matrice teorica della tesi che entro la cittadinanza solo i ‘pochi’, i ‘migliori’, gli ‘ottimati’, sono capaci di deliberazione politica; per contro, i ‘molti’ si dimostrano adatti soltanto alla scelta fra alternative già elaborate. Questa distinzio118
ne rimanda ad una sorta di divisione politica del lavoro, ancora collocabile nella linea platonico-aristotelica: le diverse componenti della cittadinanza devono svolgere il ruolo per cui sono adatte, occupare il proprio posto nell’ordine complessivo, perseguire il proprio fine ‘naturale. È questo il senso del governo misto, che attraverso tale divisione del lavoro permette un’ordinata concordia del corpo politico (credo si pos- . sa sostenere che questa concezione si inserisce ancora all’interno del paradigma organicista dello Stato*). Quest’idea percorre il pensiero politico dell’umanesimo civile fiorentino e in particolare le opere dei pensatori politici più vicini all’élite ottimatizia, a cominciare da quelle di Francesco Guicciardini, e si ritrova formulata con molta chiarezza
nell’Oceana diJames Harrington. Per Harrington in ogni repubblica vi è un'‘aristocrazia naturale’, eccellente in qualità e virtù, naturalmente portata alla deliberazione politica e dotata di tempo libero per gli affari di governo. D'altra parte il popolo è per natura adatto a scegliere fra le alternative proposte ed esaminate dall’aristocrazia?. Ai ‘pochi’ —l’aristocrazia, gli ottimati, l’élite— è attribuito il potere di proporre e discutere, mentre i ‘molti’ — il popolo — possono solo eleggere i governanti e scegliere fra le opzioni che vengono loro presentate, dopo una preventiva discussione e selezione da parte dei ‘pochi’. La critica della democrazia, l'antropologia elitista, la teoria del governo misto si collegano, in questi autori, con una nozione di ordine che esprime una netta avversione — potremmo dire un’ossessione — per ogni
forma di conflitto politico. Nella politica di Aristotele emerge l’idea che la prevalenza del ceto medio garantisce che la polis non sia sconvolta dalle fazioni6 e la critica delle repubbliche ‘tumultuarie’ ricorre nel pensiero politico repubblicano della prima modernità. La tendenza alla ‘sedizione’ e la ricorrenza dei ‘tumulti’ sono per Harrington sic et sirzpliciter una patologia del corpo sociale; ma le cause del conflitto possono essere rimosse se si introduce un’adeguata ‘bilancia della proprietà’; è così possibile realizzare una repubblica ‘perfetta’ e ‘immortale’. In Kant l'affermazione della forma ‘repubblicana’ significherà non solo l'esclusione del principio di resistenza, ma anche l’illegittimità di ogni forma di opposizione pubblica al potere sovrano*. Questa concezione del governo della legge come critica del principio democratico dovrebbe rientrare senza forzature nel quadro del repubblicanesimo protomoderno delineato da John Pocock in The Machiavellian Moment. Alla concezione aristotelica dell’uomo come zoòn politik6n e all'idea che la partecipazione politica esprime la sua ‘vera natura’ corrisponderebbe sul piano istituzionale la teoria del governo misto, a sua volta radicata nell’antropologia politica di cui ab119
biamo parlato. In questo quadro la ‘virtù’ repubblicana tende ad esprimere un ideale di morigeratezza e una netta distinzione, se non una
contrapposizione, tra sfera del politico e dimensione economica. Questo varrebbe in differenti fasi del pensiero politico repubblicano: da Machiavelli ai commonwealthmen settecenteschi ostili al capitale commerciale e finanziario, ai repubblicani americani?. Quale contributo potrebbe essere offerto da una tale teoria politico-giuridica al dibattito sullo Stato di diritto? Alla luce di quanto abbiamo riportato finora, parrebbe portare argomenti in favore della contrapposizione fra i principi dello Stato di diritto e quelli della sovranità popolare, a un’opposizione fra ‘governo della legge’ e democrazia come forma particolarmente insidiosa del ‘governo degli uomini’. Oltre a questa visione antidemocratica la tradizione repubblicana sembrerebbe riproporre la classica opposizione fra ambito del politico e ambito dell’economico, sembrerebbe suggerire la tradizionale esclusione dei temi economici dall’ambito ‘pubblico’ della prassi politica, e dunque delineare l’incompatibilità dell’intervento pubblico nell'economia e del Welfare State con l’ideale del governo della legge. Tuttavia, le differenziazioni interne al paradigma repubblicano, di cui abbiamo parlato a più riprese, e le peculiarità dell’opera di Machiavelli dovrebbero essere tenute ben presenti quando si affronta, in particolare, il tema del governo della legge. In questa prospettiva assume particolare rilievo la teoria machiavelliana del conflitto politico. Nella prospettiva della teoria repubblicana del governo misto rule of law e conflitto politico sembrano costituire i poli di una contrapposizione, o perlomeno segnalare una tensione. È dunque comprensibile che le interpretazioni che hanno enfatizzato nell’opera di Machiavelli l’importanza del tema del ‘governo della legge’, fino a considerarla la cifra autentica del suo repubblicanesimo, abbiano cercato di ridimensionare il significato della valutazione positiva del conflitto, alla luce della tesi che anche per Machiavelli governo della legge significhi moderazione. «Il repubblicanesimo di Machiavelli esprime l’opzione per un governo popolare bene ordinato: per repubblica bene ordinata, o rz0derata, Machiavelli intende, conformandosi al concetto ciceroniano di
regolatezza o moderazione, una repubblica nella quale ogni componente della cittadinanza ha il suo proprio spazio»!°. Viroli insiste sull’idea che Machiavelli stigmatizza non solo l’‘arroganza’ dei nobili ma anche l'‘ambizione’ del popolo. Il riferimento è alle lotte sociali conseguenti alle leggi agrarie romane e a tutta la storia dei conflitti fiorentini, con le ‘esagerate richieste’ del popolo. Per Viroli il conflitto sociale 120
che diviene scontro armato è il principale pericolo per una repubblica; per contro le forme virtuose di conflitto si concludono con leggi che promuovono il bene comune. I conflitti, per Viroli, favoriscono la pubblica libertà «solo nella misura in cui non violano le precondizioni principali della vita civile, cioè il governo della legge e il bene comune»!!, Ed è sempre nel segno della moderazione che Viroli legge il nesso fra rule of law e libertà: una città «si può chiamar libera» se il suo ordinamento è tale da controllare e contenere i ‘cattivi umori’ dei nobili — il desiderio di non sottomettersi alle leggi — e del popolo — la licenza. In questa prospettiva, Viroli attribuisce notevole importanza al capitolo III.5 delle Istorie fiorentine, nel quale un anonimo cittadino riconduce alla divisione in sètte l’origine dei ‘mali’ e dei ‘disordini’ di Firenze e delle altre città italiane. Il governo della legge è con evidenza contrapposto al ‘potere delle sètte’, e Firenze è il caso paradigmatico di «città che con le sètte più che con le leggi si vuol mantenere». Di fronte a interpretazioni di questo tipo si potrebbe controbattere ricordando i luoghi in cui Machiavelli enfatizza l'elemento agonale della politica, cogliendo in essa un’irriducibile carica di violenza, tale da forzare ogni argine istituzionale!?. Ma, a ben guardare, questo significherebbe riprodurre per l'ennesima volta il tipico movimento pendolare che ha caratterizzato la storia della letteratura critica su Machiavelli! e fornire un’ulteriore immagine unilaterale e semplificata della sua posizione. A me pare assai più opportuno riconoscere l’effettiva centralità del tema del governo della legge nell’opera di Machiavelli e porsi il problema della sua compatibilità con il conflittualismo. L’idea che la cittadinanza è irrimediabilmente scissa in componenti diverse ed è attraversata da differenti ‘umori’, è cruciale e ricorren-
te nelle opere machiavelliane, fin dal Principe!4, e non può essere edulcorata. Machiavelli sottolinea che le diverse componenti della cittadinanza hanno differenti interessi e sono caratterizzate da differenti ‘fini’. Tuttavia ciò non significa che siano dotate di differenti capacità di deliberazione politica. I ‘popolari’ e i ‘gentiluomini’ sono egualmente adatti all’attività politica, e fra le istituzioni della repubblica romana che vengono più lodate vi sono quelle che attribuivano alla plebe il potere di proporre e discutere le leggi. Machiavelli vede con molto favore la possibilità, a lungo garantita ai cittadini romani, di proporre nuo-
ve leggi alla discussione dei comizi, e di intervenire su esse ‘o in favore o incontro”: Poteva uno tribuno, e qualunque altro cittadino, preporre‘al Popolo una legge; sopra la quale ogni cittadino poteva parlare, o in favore o incontro, in121
nanzi che la si deliberasse. Era questo ordine buono, quando i cittadini erano buoni; perché sempre fu bene che ciascuno che intende uno bene per il publico lo possa preporre; ed è bene che ciascuno sopra quello possa dire l’opinione sua, acciocché il popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere il meglio. Ma diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo; perché solo i potenti proponevano leggi, non per la comune libertà, ma per la potenza loro; e contro a quelle non poteva parlare alcuno, per paura di quelli: talché il popolo veniva o ingannato o sforzato a diliberare la sua rovina!?.
Siamo molto lontani dal tipico repubblicanesimo filo-ottimatizio; ad esempio, dalla visione guicciardiniana del governo della legge, secondo la quale «non debbe governare se non chi è atto e lo merita»!‘. L'attribuzione a tutti i cittadini di analoghe capacità politiche forza la tradizionale teoria del governo misto, fino a mutarne il significato. Se la teoria era stata elaborata per limitare i rischi del governo del popolo, Machiavelli ne inverte il segno affermando la tesi che il pericolo maggiore per la comunità politica è rappresentato dall’incontenibile tendenza dei ‘gentiluomini’ ad imporre il loro dominio. Nei Discorsi si stabilisce un nesso fra repubblica e ‘equalità’, si sostiene che i ‘gentiluomini’ sono pericolosi per la repubblica!7, si afferma la superiorità politica del popolo sul principe e la superiorità istituzionale della repubblica sul principato. Le analisi machiavelliane sulla dinamica dei conflitti sono indirizzate a valorizzare le capacità politiche del popolo, più che ad individuare una sorta di punto di equilibrio fra i due ‘umori’. E se in alcuni luoghi Machiavelli sembra condannare l'‘ambizione’ della parte popolare alla stessa stregua della sete di potere dei nobili, precisa anche che senza gli ‘appetiti’ della plebe Roma avrebbe perso molto più velocemente la sua libertà!8. È difficile sopravvalutare l’importanza di questo chiarimento. Machiavelli ribadisce l’effetto virtuoso del conflitto,
l’idea che le leggi a difesa della libertà nascono dalla contrapposizione di passioni che si bilanciano l’una con l’altra. Questo significa che la stessa ambizione della plebe, che Machiavelli a tratti sembra esecrare, ha effetti virtuosi. Il governo misto, così, non esprime un ideale organico, e neppure il principio aristotelico della r2esotes, del ‘giusto mezzo”, ma piuttosto l’idea dei controlli e contrappesi, l’articolazione dei poteri in modo tale che «l’uno guarda l’altro»!9, Tutto ciò è strettamente connesso al tema del governo della legge: Machiavelli abbandona la tradizionale celebrazione aristotelico-tomistica della monarchia, da un lato per affermare che un popolo sottoposto al governo della legge è più virtuoso di un principe nella medesima condizione, e dall’altro lato per negare che le forme ‘licenziose’ 122
di democrazia costituiscano — ancora secondo la visione tradizionale — la forma peggiore di tirannide?°, Ciò che più risalta, rispetto al ricorrente collegamento fra governo della legge, governo misto, critica della democrazia, è che in Machiavelli il popolo ha un ruolo di protagonista politico, e che questo ruoloè svolto attraverso il conflitto politico. È infatti mediante il conflitto che la parte popolare avvia l’innovazione istituzionale. Le «leggi che si fanno in favore della libertà» nascono precisamente dalla ‘disunione’ fra i due ‘umori’ principali della repubblica?!. E questa idea si lega di nuovo al tema del governo della legge. Nelle Istorie fiorentine, in genere presentate come l’espressione di una
svolta ‘moderata’ nell’opera machiavelliana??, si precisa che i signori e i nobili si contrappongono per loro natura al governo della legge: l’inimicizia fra il popolo e i ‘potenti’ è insuperabile «perché, volendo il popolo vivere secondo le leggi, e i potenti comandare a quelle, non è possibile cappino insieme»?3. Il popolo sembra dunque spontaneamente, ‘naturalmente’ predisposto a rispettare il governo della legge. Il rovesciamento della teoria tradizionale mi pare evidente. Una rilettura in questa chiave del repubblicanesimo di Machiavelli potrebbe aprire la via ad una diversa interpretazione del suo contributo alla genealogia della nozione di Stato di diritto. Governo della legge in Machiavelli non significa moderazione, né governo misto significa attribuzione al popolo di un ruolo subordinato. Piuttosto, il governo della legge offre la cornice istituzionale entro la quale il conflitto può attuarsi in forme virtuose. Entro questa cornice il conflitto retroagisce sul quadro istituzionale, si esprime in ‘leggi e ordini’ che favoriscono la libertà e la potenza della repubblica. Proprio perciò il conflitto sotto il governo della legge non è un fattore degenerativo, bensì si oppone alla tendenza entropica della repubblica alla ‘corruzione”. Come abbiamo visto, il conflittualismo di origine machiavelliana si connetterà, in alcuni autori repubblicani della prima modernità, con
la constitution-enforcing conception of rights (cfr. supra, par. 3.2). Secondo Adam Ferguson, ad esempio, la moderazione e la disposizione conciliatoria possono tradursi in indifferenza politica, e adagiarsi sul godimento dei diritti significa mettere a repentaglio la libertà. La libertà e i diritti non sono mai garantiti una volta per sempre. Non solo per conquistarli, ma per renderli effettivi, è necessaria la vigilanza, e la
capacità di mobilitazione attiva, la «cura vigile dei propri diritti»?4: la libertà è così difesa più dalla divergenza e dal conflitto che dalla ricerca del bene comune??. E fra i principali vantaggi della forma repub123
blicana di governo è proprio il fatto che mantiene aperta la possibilità del conflitto e della mobilitazione attiva?°. L’autorità delle leggi, quando ha un effetto reale sulla salvaguardia della libertà, non consiste in qualche potere magico discendente da scaffali carichi di libri, bensì invece nella autorità reale di uomini risoluti ad essere liberi, di uomini che, dopo aver messo per iscritto i termini in cui essi debbono vivere con lo Stato e con i loro concittadini, sono determinati a far osserva-
re questi termini con la loro vigilanza e il loro spirito”.
Come abbiamo visto (supra, par. 4.3) una tale concezione ‘attiva’ e agonale dei diritti può essere ricollegata alla nozione repubblicana di libertà come attiva resistenza al dominio. Questa concezione è alternativa sia alla visione giusnaturalistica dei diritti come dotazioni natu-
rali degli individui preesistenti alla formazione dello Stato, sia alla concezione giuspositivistica dei diritti come ‘effetti riflessi’ del potere statale o come risultato di una ‘autolimitazione’ dello Stato stesso, ben presente nella teoria ottocentesca del Rechtsstaat?8.
5.2. Stato di diritto e ‘lotta per i diritti Questo non significa che sia possibile delineare una teoria ‘repubblicana’ dello Stato di diritto. La consapevolezza storiografica del modo in cui il principio del ‘governo della legge’ è stato declinato da Machiavelli e da alcuni suoi eredi in relazione al tema del conflitto politico e poi alla teoria dei diritti soggettivi permette comunque di guadagnare un punto di vista, una prospettiva interpretativa utile per getta-
re una luce differente su alcuni temi che si trovano al centro del dibattito contemporaneo sullo Stato di diritto. 5.2.1. Uno dei temi più ricorrenti riguarda la compatibilità dello Stato di diritto con lo Stato sociale. Nel corso del Novecento si sono a lungo confrontati quelli che potremmo definire un paradigma liberale, ‘minimalista’, e un paradigma socialdemocratico-welfarista. La critica neoliberale pone al di là della soglia di ammissibilità tutto l'ambito dei diritti sociali (se non anche quella dei diritti politici tipici delle democrazie rappresentative). Il tradizionale modello di Stato sociale è stato anche criticato sia per i suoi insuccessi, sia alla luce dell’esigenza di estendere il catalogo dei diritti verso i diritti di ‘terza’ e ‘quarta’ generazione (culturali, ecologici, biologici)??.
Più recentemente si è cercato di controbattere alle critiche neoliberali distaccandosi tuttavia anche dal paradigma welfarista tradizio124
nale. Una strategia teorica è quella di collocare le differenti generazioni dei diritti su di un’unica linea evolutiva. Nella prospettiva di questo passaggio lineare l'affermazione della democrazia e dello Stato sociale non significano l’introduzione di nuovi principi, come quelli di giustizia sociale o di responsabilità collettiva, potenzialmente confliggenti con il principio di autonomia della tradizione liberale. In particolare, Habermas ha cercato di estendere la sua ‘genesi logica dei diritti” oltre i tradizionali diritti sociali, per includervi i diritti di terza e quarta generazione?°. Per Habermas diritti politici e sociali non limitano l’autonomia, ma garantiscono il «concreto realizzarsi di eguali libertà soggettive per tutt».
La concezione dei diritti sociali come lineare evoluzione dei diritti civili e politici è stata criticata da più parti. Sia alcuni critici ‘di sinistra’, sia i teorici dell’analisi economica del diritto hanno sostenuto che vi è una notevole differenza fra i diritti civili e politici e i diritti sociali: questi ultimi richiedono un diretto intervento dello Stato per erogare servizi e prestazioni e hanno un costo tale da farne, più che dei diritti azionabili in giudizio, delle ‘opportunità condizionali”?! Contro queste tesi si è obiettato, a mio parere con efficacia, che ogni tipo di diritti ha un costo?. Ma è difficile negare che le critiche neoliberali contengano almeno un grano di ragione. Non solo perché l’estensione delle prestazioni del Welfare rende lo Stato una realtà potente e pervasiva, che come tale limita di fatto gli spazi di libertà ‘negativa’. E non solo perché le politiche di Welfare — soprattutto in determinate esperienze nazionali, come quella italiana — hanno dimostrato una limitata capacità di raggiungere gli obiettivi di redistribuzione ed eguaglianza sostanziale. Anche i modelli più efficaci di Stato sociale hanno prodotto effetti di stereotipizzazione dei bisogni sociali, oltre a imporre modelli sociali determinati (familistici, maschilisti, etnocentrici). D'altronde negli ultimi
anni si assiste non solo all'aumento del consenso sul linguaggio dei diritti, ma ad una sorta di inflazione dei diritti e soprattutto dei soggetti dei diritti (dagli animali non umani, o addirittura dai vegetali e dai minerali, fino al pre-embrione). Si è parlato a questo proposito di ‘diritti sbagliati’, sostenendo che altri concetti giuridici e altre figure etiche (dalla responsabilità alla cura) sono più adeguate per regolare determinati ambiti??, E d’altra parte si assiste alla produzione di effetti perversi (la proliferazione dei soggetti di diritto in certi casi finisce per risolversi in una limitazione dei diritti dei soggetti già definiti). Una possibile risposta a queste situazioni — indirettamente ispirata alla tradizione repubblicana — fa riferimento ad una sorta di priorità dei diritti politici in quanto diritti ‘riflessivi’, precondizione per l’otte125
nimento di altri diritti. Riprendendo le tesi di Axel Honneth, Habermas afferma che i criteri che permettono di individuare le categorie da trattare in modo ‘eguale’ nell’allocazione delle risorse e nell’erogazione dei servizi possono essere definite solo sul presupposto di una ‘lotta per il riconoscimento’. Una lotta che costituisce una reazione a sofferenze e offese, che non possono essere individuate da altri che dagli interessati34. Ci si può però chiedere se la ‘genesi logica’ habermasiana costituisca la cornice teorica più adeguata per inquadrare queste tesi, che invece sembrerebbero più congruenti con una concezione conflittualistica dei diritti (cfr. supra, par. 3.2). Se i diritti vengono concepiti come l’espressione di rivendicazioni e la formalizzazione del claimzing non solo vengono valorizzati i diritti politici (senza limitarne il significato all'elettorato attivo e passivo) ma anche — in forma differente — i diritti civili e i diritti sociali. Riconoscere che i diritti non sono mai completamente garantiti, richiedono mobilitazione costante per divenire effettivi e non rimandano ad un fondamento assoluto o ad una prospettiva universalistica, significa anche ammettere che non è possibile stabilire una netta cesura fra i diritti di prima generazione e i diritti sociali. L’effettività di ogni categoria di diritti richiede un investimento non solo in termini economici ma anche riguardo alle risorse comunicative e alla mobilitazione dei soggetti interessati. Ed anche i diritti sociali rientrano fra le precondizioni necessarie perché l’attività di rivendicazione possa svolgersi efficacemente. Un esplicito riferimento alla tradizione ‘conflittualista’ del repubblicanesimo permette dunque di definire meglio la critica alle nozioni paternalistiche dei diritti e dello Stato di diritto. Inoltre, è opportuno sottolineare, permette di vedere in una luce diversa gli stessi classici diritti di libertà. E possibile reinterpretare il senso in cui essi rappresentano una tutela dell’autonomia privata, intendendola come una riserva di identità e una risorsa morale, fondamentale per ‘entrare’ nello spazio pubblico e avanzare le proprie rivendicazioni. Ci si può ricollegare anche qui alla teoria repubblicana di Michelman: non solo la discriminazione razziale, ma anche quella di genere o quella relativa ai comportamenti sessuali inibiscono la possibilità di affacciarsi sulla scena della società civile e rivendicare i propri diritti. Nel commentare la nota sentenza Bowers vs. Hardwick (cfr. supra, par. 1.1.2) Michelman rileva che le leggi contro la ‘sodomia’ non solo violano uno spazio intimo intangibile di ogni individuo, ma inibiscono la presenza sullo spa-
zio pubblico degli omosessuali. Un diritto tipicamente ‘liberale’ come quello della privacy si collega così al principio della cittadinanza attiva, in un processo di ‘fertilizzazione incrociata”??. D'altra parte, in que-
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st’ottica i diritti politici e sociali costituiscono a loro volta la condizione per l'affermazione dei diritti di libertà. Se i diritti non sono facoltà ‘naturali’ degli individui da far valere ‘contro’ lo Stato, ma piuttosto uno strumento di affermazione del soggetto entro un quadro costituzionale, l'intervento dello Stato per renderne effettiva la titolarità non è qualcosa di aggiuntivo o di secondario. Il catalogo dei diritti risulterebbe comunque aperto a successive rivendicazioni, tali da ampliarne la gamma. Ma questo non aprirebbe necessariamente la via ad un’eccessiva inflazione dei diritti: una concezione attivistica e conflittualistica dei diritti implica la valorizzazione di ciò che differenzia il loro linguaggio da altri codici normativi (e dunque implica anche il riconoscimento che rispetto a determinate situazioni sono più adeguati al-
tri codici normativi) ed esclude una moltiplicazione senza limiti dei soggetti dei diritti. Inoltre, se sono i soggetti delle rivendicazioni che individuano i loro motivi di disagio e di sofferenza, declinano i loro bisogni e le loro aspettative, e in questo processo si definiscono e si ri-
definiscono, si scongiurano gli effetti di stereotipizzazione e le classificazioni arbitrarie tipiche dei modelli paternalistici di Welfare.
5.2.2. Il problema del rapporto fra Stato di diritto e democrazia — probabilmente il più ricorrente nella storia del concetto — è stato affrontato in un significativo saggio di Michelman. Sia l’idea dell’autogoverno sia quella del ‘governo della legge’ — rileva Michelman — sono principi indiscutibili del costituzionalismo e pertanto devono coesistere in qualche modo, per quanto il loro rapporto possa risultare problematico?9. La soluzione individuata da Michelman allude ad una sorta di convergenza fra il processo di autocostituzione del popolo, del ‘sé’ che si autogoverna, e il processo di produzione del diritto: il modo in cui il popolo — dotato di sovranità — si costituisce come tale è in qualche modo governato dalla legge. Si tratta di quel processo ‘giusgenerativo?’37 cui già abbiamo accennato. Queste intuizioni di Michelman potrebbero essere sviluppate in modo da articolare la concezione ‘postrappresentativa’ della democrazia (cfr. supra, par. 4.4) Se l’alternativa alla teoria ‘classica’ della democrazia non si identifica con l’allontanamento progressivo dalle sue premesse normative e dalle sue promesse, ma consiste in un modello che prevede il mantenimento di forme di apertura delle istituzioni agli input provenienti dalle agenzie della società, il rule of law diviene la garanzia della ‘permeabilità’ e dell'apertura delle istituzioni. In quest’ottica il problema del rapporto fra costituzionalismo, rule of law e democrazia risulta in un certo senso sdrammatizzato, in un altro senso radi-
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calizzato. Da un lato la contrapposizione non è fra principi puri e assoluti: se si è consapevoli che la sovranità popolare non può realizzarsi come ipotizzato dalla teoria classica, l’idea che si diano dei principi giuridici che sostanziano il rule of law e pongono limiti al principio maggioritario è più facilmente accettabile. L'esperienza storica, peraltro, mostra come in assenza dello Stato di diritto e senza la garanzia dei diritti fondamentali la democrazia si risolve in un'illusione autoritaria?8. D’altra parte se si concepisconoi diritti come principi mai completamente garantiti, che richiedono quindi mobilitazione attiva, si chiarisce che senza forme democratiche di mobilitazione, senza un’istanza di effetti-
va resistenza al dominio lo stesso Stato di diritto rischia il deperimento.
5.2.3. Strettamente collegata alla questione del rapporto fra Stato di diritto e democrazia è quella concernente il ruolo del giudiziario, e in particolare della giurisdizione costituzionale negli ordinamenti in cui sono in vigore forme di judicial review. Questo dibattito è stato svi-
luppato soprattutto a partire dalla discussione delle sentenze dei tribunali costituzionali tedesco e statunitense: sono stati colti rischi di ‘paternalismo giudiziario’ sia nei documenti del Bundesverfassungsgericht, sia nelle tesi dei costituzionalisti americani’, e contro tali rischi
è stato proposto l’antidoto di una nozione strettamente deontologica, à la Dworkin, dei diritti fondamentali. Per contro, nell’ambito delle
proposte neorepubblicane si è sostenuta l'opportunità di ridimensionare il potere giudiziario, visto come un limite dell’autogoverno. Nel dibattito politico-giuridico americano degli ultimi decenni, l’idea che il ruolo dei giudici della Corte suprema sia quello di ‘rigidi interpreti’ della Costituzione si è generalmente associata ad una posizione conservatrice. Bruce Ackerman, per contro, vede la Corte come un interlocutore privilegiato di We #he People, che nelle fasi ‘rivoluzionarie’ di higher lawmaking riassume il suo potere costituente, mentre si affida all’opera della Corte nelle fasi di legiferazione ordinaria*!. Più interessante appare la tesi di Michelman, secondo la quale il processo ‘giusgenerativo’ non si sviluppa solo in casi eccezionali? e l’attore di tale processo non è necessariamente il popolo nella sua interezza. Particolarmente istruttiva a questo proposito è la storia delle sentenze contro la discriminazione razziale. Gli afro-americani, rileva
Michelman, costituivano all’inizio della vicenda una parte marginalizzata della società che stava trasformando la sua autopercezione. Con lo sviluppo del loro movimento — che peraltro ha conosciuto conflitti interni alla loro stessa comunità — gli afro-americani si sono contrapposti a «quel tipo di cittadinanza parziale che la costituzione aveva lo128
ro attribuito», ma hanno anche rivendicato e fatto valere questa ‘cittadinanza parziale’. Il potere giudiziario in questo processo «ha sviluppato possibilità interpretative che la stessa attività degli sfidanti ha aiutato a creare»#?.
Michelman imposta il problema dell'innovazione costituzionale e del controllo di costituzionalità delle leggi in modo da evitare sia l’attribuzione di una sorta di onnipotenza al legislatore ordinario, sia la riproposizione di una visione statica e conservatrice del ruolo della giurisdizione costituzionale. Una tale visione può esprimersi sia nella cassazione di leggi volte a introdurre elementi di tutela sociale — tipica
dell’epoca Lochner della Corte suprema - sia nella tesi, riproposta in Bowers vs. Hardwick, che le assemblee parlamentari hanno diritto a legiferare in materia di morale collettiva*4. Nell’ottica di questa visione appare come dato prepopolitico e pregiuridico quello che in realtà è prodotto di politiche, attività sociali e decisioni giuridiche; ciò finisce per favorire pratiche di emarginazione”. Per contro, quella che Sunstein definisce un concezione liberal republican della giurisdizione costituzionale costituisce una sponda per le rivendicazioni dei gruppi socialmente svantaggiati ed emarginati dall’ethos maggioritario. Nella dialettica fra prassi comunicativa della società e produzione legislativa la giurisdizione svolge un ruolo attivo. Ma si evita di ricadere in una concezione ‘paternalistica’ del ruolo dei giudici costituzionali: è evidente che la loro funzione innovatrice può esplicarsi in quanto siano la controparte di soggetti, processi e movimenti presenti nella società. In questo senso può essere contrastata la tendenza, diffusa nella politica e nel dibattito teorico contemporanei, a delegare all’espertocrazia giudiziaria e al ‘governo dei giudici’ la soluzione di problemi capitali che il sistema politico non riesce a trattare. Se l’obiettivo essenziale della politica repubblicana è mantenere aperta la possibilità di contestare il potere, allora la giurisdizione costituzionale — ben lungi dall’essere il luogotenente paternalistico di una politica deliberativa irrealizzabile nelle società complesse — diviene uno degli elementi essenziali di garanzia e il referente istituzionale dell’attivismo civico; una condizione necessaria, non sufficiente, che richiede comunque un ruolo attivo dei cittadini e la loro capacità di mobilitazione. Una concezione conflittualistica dello Stato di diritto contrasterebbe con l’impostazione conservatrice che riconduce di fatto la funzione del giudiziario alla tutela degli assetti sociali e politici esistenti. D'altra parte, si deve riconoscere che nelle società contemporanee un aumento dello spazio del diritto giurisprudenziale è probabilmente inevitabile. Ma è evidente che c’è differenza se i giudici 129
- e in particolare i giudici costituzionali — svolgono il ruolo conservatore di rigidi interpreti — da questo punto di vista è secondario se del diritto ‘spontaneo’ o della legislazione scritta — oppure se si attribuiscono un ruolo autoritario di rappresentanti diretti di We she People o di profeti dell’etbos collettivo, oppure infine se si pongono come interlocutori dei soggetti e dei gruppi impegnati nella ‘lotta per i diritti’. Sesi concepiscel’ordinamento costituzionale come un’entità in evoluzione, in rapporto con le rivendicazioni dei consociati giuridici, con le trasformazioni dell’ethos politeistico, con i conflitti di valore, con i
processi di definizione e ridefinizione dei principi e dei soggetti, la giurisdizione costituzionale può trovare significative forme di collegamento ai processi giusgenerativi. Il potere giudiziario — in virtù dell’interpretazione e reinterpretazione dei principi costituzionali — può sollecitare o anticipare l’azione legislativa delle maggioranze parlamentari, ma non può sostituirsi ai soggetti individuali e collettivi. In questo senso, le corti costituzionali possono svolgere un ruolo ‘progressivo’ e riformatore; ma non è incompatibile con quest'idea anche un ruolo delle corti in funzione della difesa — in qualche modo ‘conservatrice’ — dei diritti costituzionali di gruppi minoritari dall’azione delle maggioranze. Così concepito il potere giudiziario rappresenta un principio antimaggioritario, ma non antidemocratico. Si presenta come una delle agenzie — accanto alle assemblee legislative, all’esecutivo, alle autonomie locali— che
intervengono nella dialettica fra processo rivendicativo ‘dal basso’ ed elaborazione normativa con gli strumenti del diritto.
5.2.4. Il problema della crisi dello Stato di diritto investe la stessa concezione del diritto. Se Albert Venn Dicey aveva rilevato un’opposizione fra diritto amministrativo e rule of law*?, Friedrich von Hayek considerava inconciliabile con lo Stato di diritto la contemporanea prevalenza della legislation sulla lav 48. Bruno Leoni è arrivato a considerare compatibile con il rule of law solo il diritto giurisprudenziale a formazione ‘spontanea’: la massimizzazione della libertà si identificherebbe con la minimizzazione dell'ambito sottoposto alle decisioni di maggioranza espresse dai ‘rappresentanti’ del popolo e alla legislazione. L’affermazione e lo sviluppo dello Stato sociale sembrerebbero dare spazio a posizioni di questo genere. Il sistema giuridico si trasforma
significativamente con l'introduzione delle ‘concrete’ misure di redistribuzione; l'adozione delle leggi-provvedimento e più in generale la tendenza all’inflazione legislativa allontanano sempre più dal modello della ‘legge’ come norma generale e astratta cui faceva riferimento l'ideale della certezza del diritto. Secondo Dieter Grimm, ad esempio,
130
l'introduzione di valori sostantivi nella costituzione e le finalità sociali dello Stato configurano un modello politico ben differente da quello del Rechtsstaat ottocentesco, estraneo a criteri di giustizia materiale. Per Grimm tutto ciò configura la crisi dello Stato di diritto. L’indisponibilità di mezzi imperativi e di norme giustiziabili mette in questione la forza della legge come limitazione giuridica del potere e prefigura il superamento della classica distinzione fra Stato e società civile4?, Di fronte a questi scenari un filone della teoria politica contemporanea delinea ipotesi ‘anarco-capitalistiche’ di superamento dello Stato nel mercato globalizzato. Ma anche se si considerano queste posizioni come utopie regressive i problemi posti dalla trasformazione del medium diritto rimangono. Si tratta di trasformazioni non evitabili: il classico diritto ottocentesco non dispone della requisite variety necessaria per la regolazione giuridica delle moderne società del rischio, investite dai processi di globalizzazione. Ciò, credo, vale 4 fortiori per il diritto giurisprudenziale ‘spontaneo’, irrimediabilmente ‘conservativo’, adeguato a società tradizionali che conoscono un’evoluzione molto lenta. Di fronte alla globalizzazione economica e finanziaria, questo tipo di diritto sembra più assecondare passivamente i processi in corso che permetterne una qualche forma di controllo e di governo?9, Suggerisco che alla luce del paradigma conflittualista questi problemi potrebbero essere ripensati in un’ottica differente. Non c’è dubbio che nelle società contemporanee una ridislocazione dei ruoli rispettivi del diritto legislativo e di quello giurisprudenziale sia da un lato una tendenza inevitabile e dall’altro un'opportunità da perseguire. Le tesi favorevoli alla legislazione ‘leggera’, alle leggi-quadro entro le
quali individuare i provvedimenti amministrativi e operare le decisioni giurisprudenziali, al ‘diritto mite’ e ‘duttile’, sono ben note?!. In
quest'ottica il diritto appare soprattutto come la cornice che permette agli attori sociali di esprimersi, perseguire i propri fini e affermare i propri valori, rendendo possibile il loro contemperamento in quanto ancorati ad alcuni principi fondamentali in un quadro irriducibilmente pluralistico. Si tratta però di interrogarsi su quali sono gli attori in campo e su quali processi sociali sono pertinenti. Un approccio conflittualista allo Stato di diritto prende evidentemente le distanze dallo statalismo e dal centralismo, dall'idea che l’au-
mento delle garanzie pubbliche coincida con l’espansione del controllo statale sulla vita dei cittadini. In un quadro legislativo definito alla
luce delle norme costituzionali e delle istanze della società, i provvedimenti pubblici sono espressione di pratiche sociali e di rivendicazioni dal basso. In questa prospettiva non sussiste l'opposizione scola131
stica delineata da Leoni fra la produzione ‘spontanea’ del diritto da parte della società civile e la legislazione, vista come di per sé autoritaria. Si tratta di interrogarsi su quale (relativa) spontaneità sia in questione.
Leoni contrappone la nozione di certezza del diritto nel senso di ‘precisione’, che si origina nella democrazia greca e arriva ad informare l’esperienza giuridica continentale moderna, all’idea di ‘certezza’ elaborata dal diritto romano e poi ripresa dalla cormzzzon law. Nel primo caso il governo della legge rimanda all’esistenza di leggi scritte e ‘certe’. Ma tali leggi possono variare ad opera dell’intervento delle maggioranze, da un giorno all’altro. Nel secondo caso il diritto non è visto come l’opera arbitraria di un legislatore, ma come il risultato di un'elaborazione spontanea da parte degli attori sociali. Non si tratta allora di produrre il diritto, ma piuttosto di ‘accertarlo’; ed è appunto questa funzione — analoga a quella degli scienziati per quanto riguarda le leggi fisiche — ad essere stata svolta, rispettivamente, dai giureconsulti romani e dai giudici inglesi. In questo contesto, ‘certezza del diritto’ significava l'assenza di cambiamenti repentini e imprevedibili. I cittadini romani e i sudditi inglesi godevano così, sostiene Leoni, di una libertà analoga a quella degli operatori economici in un mercato libero sottoposto a regole costanti”. In favore della sua tesi Leoni adduce la testimonianza di Catone il Censore, che avrebbe contrapposto gli ordinamenti politici greci, creati da particolari legislatori, con la repubblica romana, formata in un processo secolare, in modo da potersi giovare dell’esperienza di numerose generazioni’. Anche Machiavelli rileva che l'ordinamento romano non è stato l’opera di un singolo legislatore, ma si è prodotto a partire da processi spontanei?4. Il tipo di spontaneità cui Machiavelli fa riferimento è data dalla contrapposizione dei due ‘umori’ fondamentali: i ‘grandi’ che perseguono il potere esclusivo e il ‘popolo’ che difende la libertà. E da questo contrasto che si producono le ‘leggi e ordini in beneficio della publica libertà’. Non dalle relazioni mercantili, ma dal conflitto politico e sociale. Alla luce di questa ricostruzione ritengo sia possibile non delineare una concezione neorepubblicana dello Stato di diritto ma piuttosto riconoscere che nel corso dell’evoluzione del pensiero politico occidentale autori significativi sono stati capaci di tenere insieme rele of law, conflittualismo, istanza democratica, concezione rivendicativa dei
diritti soggettivi. L'idea che nella nostra ascendenza culturale governo della legge non significhi sempre moderazione, diffidenza verso la par132
tecipazione popolare, ricerca della conciliazione sociale può arricchire il confronto teorico. Si può così prospettare il superamento della tradizionale opposizione fra un paradigma socialdemocratico-welfarista e un paradigma minimalista-liberista dello Stato di diritto. O si possono rideclinare le istanze per una nozione democratica e ‘sociale’ dello Stato di diritto che nella seconda metà del Novecento erano state espresse dal paradigma socialdemocratico-welfarista. Fra gli altri, l'imponente contributo sistematico di Habermas offre una serie di spunti significativi ma rimane irretito in un’ottica ‘fondazionalista’, erede del progetto filosofico del giusrazionalismo moderno. I costituzionalisti ‘repubblicani’ americani, come Michelman e Sunstein, hanno il merito di assumere
una prospettiva ‘dal basso’, di osservare il rapporto fra Stato di diritto e democrazia dal punto di vista dei gruppi sociali emarginati e svantaggiati. Ma questa prospettiva, che emerge a tratti anche nel contributo neorepubblicano di Pettit, potrebbe venire meglio definita alla luce di un’idea dello Stato di diritto come quadro istituzionale e forma di garanzia della ‘lotta per i diritti’. Senza citare l’abusata metafora kantiana della rivoluzione copernicana, si può ipotizzare che i dilemmi all’estensione delle garanzie sociali (l'aumento delle forme di tutela degli individui avviene attraverso un’estensione delle prestazioni dello Stato che diviene una minaccia per l'autonomia individuale), del rapporto fra rule of law e democrazia, del rapporto fra potere legislativo e potere giudiziario possano essere affrontati in una luce diversa. Mantenere e possibilmente sviluppare i diritti civili, politici e sociali non implica in quest'ottica una generalizzazione del principio maggioritario o un aumento della pervasività dell’intervento statale, né per contro implica l’affidarsi all’espertocrazia paternalistica dei giudici. Significa piuttosto mantenere in vita la complessità e l’articolazione sociale, dare spazio ai processi comunicativi e alle pratiche rivendicative che emergono dalla società. Tutto questo pone domande pressanti alle istituzioni. Tuttavia un approccio di questo tipo porta anche a riconoscere i limiti delle istituzioni statali e degli ordinamenti giuridici. L’effettività dello Stato di diritto richiede comunque che anche nelle moderne e complesse società del rischio e della globalizzazione i cambiamenti del rapporto fra sfera pubblica e privata, l'aumento esponenziale del flusso di informazioni, le trasformazioni nei modi di vita e di lavoro, la fine delle ideologie non si identifichino con una generalizzata apatia sociale. D'altra parte, sosteneva Machiavelli, di fronte ad una ‘universale corruzione’
anche le migliori soluzioni istituzionali sono impotenti. 133
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Note
Capitolo primo ! Cfr. H. Baron, The Crisis of the Early Italian Renaissance, Princeton University Press, Princeton 1966 (trad. it. Sansoni, Firenze 1960); Id., «Machiavelli: The Republican Citizen and the Author of ‘The Prince’», in English Historical Review, 76, 1961, pp. 217-51 (trad. it. in Id., Machiavelli autore del «Principe» e dei «Di-
scorsi», Anabasi, Milano 1994, pp. 7-65); B. Baylin, The Ideological Origins of the American Revolution, Belknap, Cambridge (Mass.) 1967; Id., The Origins ofAmerican Politics, Vintage Books, New York 1970; Z.S. Fink, The Classical Republicans:
An Essay in the Recovery of a Pattern of Thought in Seventeenth-Century England, Northwestern University Press, ciardini: Politics and History in Press, Princeton 1965 (trad. it. la vita culturale del suo tempo,
Evanston 1945; F. Gilbert, Machiavelli and GuicSixteenth-Century Florence, Princeton University Einaudi, Torino 1977); Id., Niccolò Machiavelli e Il Mulino, Bologna 1964; G. Stourzh, Alexander Hamilton and the Idea of Republican Government, Stanford University Press, Stanford 1970; G. Wood, The Creation of the American Republic, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1969. Per una recente reinterpretazione dell’apporto della filosofia di Locke alla cultura politica della Rivoluzione americana cfr. B. Casalini, Nei limziti del compasso. Locke e le origini della cultura politica e costituzionale americana, Mimesis, Milano 2002.
2 Cfr. ad esempio D. Winch, Adam Smiths Politics. An Essay in Historiographic Revision, Cambridge University Press, Cambridge 1978 (trad. it. Otium, Ancona
1991); J. Dunn, The Political Thought of John Locke, Cambridge University Press, Cambridge 1969 (trad. it. Il Mulino, Bologna 1992); R. Tully, A Discourse on Property. Jobn Locke and His Adversaries, Cambridge University Press, Cambridge 1980; M. Viroli, Jean-Jacques Rousseau and the ‘Well-ordered Society’, Cambridge University Press, Cambridge 1988 (trad. it. Il Mulino, Bologna 1993). 3 J.G.A. Pocock, The Machiavellian Moment. Florentine Political Thought and the Atlantic Republican Tradition, Princeton University Press, Princeton
1975
(trad. it. Il Mulino, Bologna 1980), p. 184. 4 Ivi, pp. 183-84.
5 Ivi, p. 184.
6 Cfr. Q. Skinner, The Foundations of Modern Political Thought, Cambridge University Press, Cambridge 1978 (trad. it. Il Mulino, Bologna 1989); B. Worden, The Sounds of Virtue: Philip Sydney's Arcadia and the Elizabethan Politics, Yale University Press, New Haven 1996; M. Peltonen, Classical Humanism and Republicanism in English Political Thought 1570-1640, Cambridge University Press, Cambridge 1995; M. van Gelderen, The Political Thought of the Dutch Revolt.
135
1555-1590, Cambridge University Press, Cambridge 1992; H.W. Blom, Morality
and Causality in Politics. The Rise of Naturalism in Dutch Seventeenth Century Political Thought, dissertazione, Utrecht 1995; G. Bock, Q. Skinner, M. Viroli (a cu-
ra di), Machiavelli and Republicanism, Cambridge University Press, Cambridge 1990; G. Silvestrini, Alle radici del pensiero di Rousseau. Istituzioni e dibattito politico a Ginevra nella prima metà del Settecento, Franco Angeli, Milano 1993; D. Wootton (a cura di), Republicanism, Liberty and Commercial Society, 1649-1776, Stanford University Press, Stanford 1994; H. Resenblatt, Rousseau and Geneva.
From the First Discourse to the Social Contract, Cambridge University Press, Cambridge 1997; J.K. Wright, A Classical Republican in Eighteenth-Century France. The Political Thought of Mably, Stanford University Press, Stanford 1997, M. van Gelderen, Q. Skinner (a cura di), Republicanism. A Shared European Heritage, vol. I, Cambridge University Press, Cambridge 2002, oltre ai paper del convegno Lsbertà politica e coscienza civile. Liberalismo, comunitarismo e tradizione repubblicana, Fondazione Agnelli, Torino, 21-22 novembre 1996, con relazioni di M. Viroli, E. Guarini Fasano, E. Villari, B. Worden, J.G.A. Pocock, K. Baker, E. Biagini, M. Larizza, M. Salvadori, Q. Skinner, J.F. Spitz, S. Holmes, B. Barber. Si potreb-
be segnalare il rischio di un uso eccessivamente inclusivo del terme ‘repubblicano’. Se, come appare in alcuni interventi, in gran parte del pensiero liberale e socialista si trovano influenze repubblicane, si potrebbe concludere, parafrasando Benedetto Croce, che «non possiamo non dirci repubblicani» salvo poi abbandonare il concetto come ormai inservibile. Cfr. M. Geuna, «La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali», in Filosofia politica, XIV, 1998, 1; Id., Alla ricerca della libertà repubblicana, introduzione alla trad. it. di È Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, Feltrinelli, Miano 2000.
7 Cfr. J.G.A. Pocock, Politics, Language, and Time, Athenaeum, New York 1972 (trad. it. parz. Comunità, Milano 1990);J.Dunn, «The Identity of the History of Ideas», in Philosophy, 43, April 1968, pp. 85-104; J. Tully (a cura di), Meazzng in Context. Quentin Skinner and His Critics, Polity Press, Cambridge 1990 (trad. it. parz. in Q. Skinner, Dell’interpretazione, Il Mulino, Bologna 2002). 8 Cfr. C. Taylor, What's Wrong with Negative Liberty, in Id., Philosophy and the Human Sciences, Cambridge University Press, Cambridge 1985. ? Cfr. C. Taylor, Cross-purposes: The Liberal-Communitarian Debate, in N. Rosenblum (a cura di), Liberalism and the Moral Life, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1989 (trad. it. in A. Ferrara, a cura di, Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 151); su Taylor cfr. Paolo Costa, Verso ur’on-
tologia dell'umano. Antropologia filosofica e filosofia politica in Charles Taylor, Unicopli, Milano 2001. 10 Taylor, Cross-purposes, cit., p. 157. «Il puro interesse egoistico razionale [enlightened selfinterest] non mobiliterà mai abbastanza persone con abbastanza determinazione per costituire una vera minaccia per despoti e golpisti potenziali. Né vi saranno, purtroppo, abbastanza persone mosse da un principio universale, non temperato da identificazioni particolari, cittadini morali della coszopolis, stoici o kantiani, per fermare questi malfattori sul loro cammino» (ivi, p. 158).
Li Ivi, p. 157.
12 Cfr. A. MacIntyre, Is Patriotism a Virtue?, University of Kansas, Lawrence
1984 (trad. it. in Ferrara, a cura di, Comunitarismo e liberalismo, cit.).
13 Cfr. M. Sandel, Democracy’ sDiscontent. America in Search of a Public Pbilosophy, Belknap, Cambridge (Mass.) 1996, pp. 5-6. 14 La nozione di ‘liberalismo procedurale’ è stata elaborata da Sandel nella sua classica critica comunitaristica a Rawls, in Liberalism and the Limits of Justice,
Cambridge University Press, Cambridge 1982 (trad. it. Feltrinelli, Milano 1994)
136
>
cfr. anche M. Sandel, Introduction, in Id. (a cura di), Liberalism and its Critics, Basil Blackwell, Oxford 1984.
!> Sandel, Derzocracy's Discontent, cit., p. 25. !6 Si noti che questa concezione repubblicana della libertà ricomprende per Sandel sia la ‘libertà positiva’ che, sulla scia di Aristotele, considera «la virtù e la
partecipazione politica come intrinseche alla libertà» (la strong version della libertà repubblicana), sia quella 7z0re mzodest concezione della libertà, teorizzata da Machiavelli, che vede «la virtù civica e il servizio pubblico come strumentali alla libertà» (ivi, p. 26). Cfr. par. 4.3.
17 Ivi, p. 24, 18 Ivi, p. 14. 19 Ivi, p.23. 20 Cfr. ivi, pp.317-21. 21 Cfr. ivi, p.322.
22 Cfr. ivi, pp. 324-38. Questa tesi, sostiene Sandel, vale 4 fortiori nell'epoca
della globalizzazione. Per affrontare le sfide della globalizzazione si richiede uno sviluppo delle istituzioni internazionali e un rafforzamento della global governance. Ciò a sua volta rimanda all’idea della cittadinanza globale o cosmopolitica (ivi, p. 341) e richiede un processo di diffusione della sovranità fra una pluralità di corpi politici di dimensioni maggiori o minori rispetto agli Stati-nazione. Per Sandel la debolezza del liberalismo procedurale e della sua concezione del soggetto risalta ancora di più di fronte a queste sfide, che richiedono di gestire lealtà molteplici, spesso in tensione fra loro (cfr. ivi, pp. 338-951). 2 F. Michelman, «Laws Republic», in The Yale Law Journal, XCVII, 1988, 8,
p. 1504. 24 Ivi, p. 1495. 25 Ivi, p. 1533. 26 Ivi, p. 1504.
27 Il riferimento è a R. Dahl, A Preface to Democratic Theory, University of Chicago Press, Chicago 1956 (trad. it. Comunità, Milano 1994, pp. 7-39). 28 Cfr. C. Sunstein, «Interest Groups in American Public Law», in Stanford Law Review, XXIX, 1985; cfr. Id., «Beyond the Republican Revival», in The Yale Law Journal, XCVII, 1988; 8, pp. 1540-42, 1547 sgg., 1566 sgg.; cfr. anche B. Ackerman, «The Storr Lectures: Discovering the Constitution», in The Yale Law Journal, XCIII, 1984; M.P. Zuckert, Natural Rights and the New Republicanism, Princeton University Press, Princeton 1994, pp. 305-19.
2° Cfr. R. Dahl, Derzocracy and Its Critics, Yale University Press, New Haven 1989 (trad. it. Editori Riuniti, Roma 1990). 30 M. Walzer, «Citizenship», in Democrazia e diritto, XXVIII, 1988, 2-3, p. 52;
cfr. anche Id., «The Problem of Citizenship», in Obligations. Essays on Disobedience, War, and Citizenship, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1970; e
anche Id., «Limiti del repubblicanesimo. Un dialogo tra Thomas Casadei e Michael Walzer», in I/ pensiero mazziniano, LV, 2000, 3.
31J. Habermas, Faktizitàt und Geltung. Beitrige zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1992 (trad. it. Guerini e Associati, Milano 1996, p. 333).
32 Ivi-p. 351:
33 Più recentemente Skinner, riferendosi al pensiero inglese del XVI e XVII secolo, ha adottato l’espressione neo-roman theory of liberty. Infatti, classical republicanism può indurre confusione dato che non tutti gli autori che condividevano tale teoria erano antimonarchici (cfr. Q. Skinner, Liberty before Liberalism, Cambridge University Press, Cambridge 1998; trad. it. Einaudi, Torino 2001, in parti-
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colare p. 13 e n. e p. 59 n.): fra essi Skinner include un classico del giusnaturalismo moderno e della monarchia costituzionale, e un progenitore del liberalismo, come
John Locke. Singoli temi, concezioni, sensibilità, riferibili al vasto ambito del repubblicanesimo, ne attraversano i confini (del resto, tutt'altro che ben definiti e ben controllati: cfr. M. Geuna, «La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali», in Filosofia politica, XII, 1998, 1, e il mio «Non possiamo non dirci repubblicani?», in Iride, X, 1997, 22). Tuttavia, ritengo opportuno continuare ad usare i termini ‘repubblicano’ e ‘repubblicanesimo’ (peraltro abbandonati dallo stesso Michelman: cfr. F. Michelman, «Cos'è il costituzionalismo progressista liberaldemocratico?», in Filosofia e questioni pubbliche, V, 2000, 1): la ricerca storiografica di Pocock e Skinner ha di fatto contribuito alla formazione di un contesto linguistico (o metalinguistico) che sarebbe inopportuno ignorare. 34 Cfr. Q. Skinner, «Ambrogio Lorenzetti. The Artist as a Political Philosopher», in Proceedings of the Brithis Academy, LXXII, 1986, pp. 1-56; Id., Machiavelli's «Discorsi» and Pre-Humanist Origins of Republican Ideas, in G. Bock, Q. Skinner, M. Viroli (a cura di), Machiavelli and Republicanism, Cambridge University Press, Cambridge 1993. 3 Cfr. su questo G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell'età moderna, Laterza, Roma-Bari 1995.
36 Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livo, 1.16, in Id., Tut te le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1992, pp. 99-101; Q. Skinner, The
Paradoxes of Political Liberty, in S. MeMurrin (a cura di), The Tanner Lectures on Human Values, vol. VII, The University of Utah Press-Cambridge University Press, Salt Lake City-Cambridge 1986, pp. 225-50; cfr. anche Id., «Machiavelli on the Manteinance of Liberty», in Politics, XVIII, 1983, pp. 3-15; Id., The Idea of Negative Liberty: Philosophical and Historical Perspectives, in R. Rorty, J.B. Schneewind, Q. Skinner (a cura di), Philosophy in History. Essays on the Historiography of Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1984; Id., The Italian City Republics, in J. Dunn (a cura di), Derzocracy: The Unfinished Journey 508 BC to AD 1993, Oxford University Press, Oxford 1992 (trad. it. Marsilio, Venezia 1995). 37 Cfr. Skinner, Liberty before Liberalism, cit.; Sandel, Derzocracy’s Discontent, cit., pp. 25-28.
38 Geuna, «La tradizione repubblicana e i suoi interpreti», cit., p. 119. 3° Cfr. J. Harrington, The Commonwealth of Oceana (1656), in J.G.A. Pocock (a cura di), The Political Works of James Harrington, Cambridge University Press, Cambridge 1977 (trad. it. Franco Angeli, Milano 1985, pp. 110-12); Skinner, Liberty before Liberalism, trad. it. cit., pp. 55-57. 4° Cfr. J. Rawls, Political Liberalism, Columbia University Press, New York
1993 (trad. it. Comunità, Milano 1994, pp. 177-78). 41 Cfr. Habermas, Faktizitàt und Geltung, trad. it. cit., in part. pp. 122-28, 31640, 350-57.
4 Alessandro Ferrara si è riferito a questo tipo di teorie con le parole ‘repubblicanesimo politico’, attraverso un’esplicita parafrasi dell’espressione rawlsiana ‘liberalismo politico’. Cfr. A. Ferrara, «La scoperta del repubblicanesimo ‘politico’ e le sue implicazioni per il liberalismo», in Filosofia e questioni pubbliche, V, 2000, 1.
4 P. Pettit, Republicanism. A Theory of Liberty and Government, Oxford University Press, New York 1997 (trad. it. Feltrinelli, Milano 2000, pp. 118-19). 4 Cfr. M. Viroli, For Love of Country: An Essay on Patriotism and National ism, Clarendon Press, Oxford 1995 (trad. it. Laterza, Roma-Bari 1995). Il patriot-
tismo esprimerebbe quel senso di appartenenza collettiva e di lealtà civica neces-
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sario alla democrazia, ben differente dalle «celebrazioni nazionaliste dell’unità cul-
turale di un popolo». % M. Viroli, Repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari 1999, p. x1. Sio IT #2 Ivi, p. VII 48 Ivi, pp. VII-VII.
4° «Gli ordinamenti costituzionali e le leggi, anche i migliori, non sono sufficienti a proteggere la repubblica dall’aggressione esterna, dalla tirannide e dalla corruzione se non sono sostenuti da quella particolare forma di saggezza che fa capire ai cittadini che il loro interesse individuale è parte del bene comune; da quella generosità dell’animo e da quella giusta ambizione che li spinge a partecipare alla vita pubblica; da quella forza interiore che dà la determinazione di resistere contro i potenti e gli arroganti che vogliono opprimere. Ma quella saggezza, quella giu-
sta ambizione, quella generosità dell’animo non sono altro che i diversi aspetti di quella virtù che gli scrittori politici repubblicani chiamavano virtù civile, perché è la virtù di chi vuole vivere come cittadino» (ivi, p. Lx). Viroli si sofferma sulla concezione repubblicana della libertà, rivendicandone il valore attuale. Discutendo le tesi di Constant e Berlin, egli afferma che i repubblicani non ‘devono’ (il carattere prescrittivo delle tesi di Viroli è evidente) attribuire «minor valore o dignità» alla libertà ‘negativa’ come assenza di interferenza. Tuttavia, nel caso in cui si verifichi un conflitto fra libertà ‘negativa’ e libertà ‘repubblicana’, la seconda deve prevalere sulla prima «perché questa scelta è più consona all’ideale della res publica intesa come una comunità di individui in cui nessuno è costretto a servire e a nessuno è consentito di dominare» (ivi, p. 39). 20 Ivi, pp.39-40.
51 Ivi, p. 40.
Ave pe 5 Cfr. M. Viroli, From Politics to Reason of State: The Acquisition and Transformation of the Language of Politics, 1250-1600, Cambridge University Press, New York 1992 (trad. it. Donzelli, Roma 1994). 54 Cfr. B. Baczko, «Utopia», in Enciclopedia, vol. XIV, Einaudi, Torino 1981. 5 Ferrara, «La scoperta del repubblicanesimo ‘politico’ e le sue implicazioni per il liberalismo», cit., p. 34.
56 Ibid.
5 Ivi, p; 46. 58 «In ogni città si trovono questi dua umori diversi, e nasce da questo, che il
populo desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi, e li grandi desiderano comandare e opprimere il populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nelle città uno de' tre effetti, o principato o libertà o licenzia» (N. Machiavelli, De principatibus, IX, in Id., Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1992,
p.271). 59 L’ovvio riferimento è ad Aristotele, Politica, 1252a-1253a. 60 Cfr. Machiavelli, Discorsi, cit., II, Introduzione, p. 145.
61 Da questo punto di vista mi sembra che non si debba interpretare in modo eccessivamente letterale la metafora medica implicita nell’uso del termine ‘umori’,
come avviene in A.J. Parel, The Machiavellian Cosmos, Yale University Press, New Haven-London 1992. 62 Machiavelli, Discorsi, cit., 1.4, p. 82.
6 Ivi, 1.6, pp. 85-86. 64 Cfr. ivi, 1.7: «ne nasceva offesa da privati a privati, la quale offesa genera paura; la paura cerca difesa; per la difesa si procacciano partigiani; da’ partigiani nascono le parti nelle cittadi; dalle parti la rovina di quelle» (p. 87). In 1.8: «Di che
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ne nasceva che da ogni parte ne surgeva odio: donde si veniva alla divisione; dalla divisione alle sètte; dalle sètte alla rovina» (p. 89). 6 Cfr. ivi, 1.40, pp. 124-25. 6 F, Guicciardini, Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli, in N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Einaudi, Torino 1983, p. 528.
6 Cfr. Harrington, The Commonwealth of Oceana, trad. it. cit., pp. 123-24, 309-11. Per una valutazione opposta dell’opera di Harrington, basata essenzialmente su testi successivi a Oceana, cfr. A. Negri, I/ potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno (1992), Manifestolibri, Roma 2002, pp. 142-72.
68 Montesquieu, Lettres persanes, in Id., Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1949, vol. I, p. 336.
69 A. Ferguson, An Essay on the History of Civil Society (1767), Edinburgh University Press, Edinburgh 1966 (trad. it. Laterza, Roma-Bari 1999, p. 24). «L’ordi-
ne che nasce dalla partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica è un ordine conflittuale. Ferguson spende intere pagine dell’Essay e dei Principles ad elaborare un vero e proprio elogio del conflitto. I cittadini divergono e si scontrano per le loro opinioni; riuniti in partiti, si oppongono per le scelte politiche da assumere a livello dello stato. Le comunità politiche sono in uno stato di continua tensione vicendevole: Ferguson sottolinea anche il ruolo positivo dell’emulazione fra gli stati e a volte della stessa guerra. La libertà scaturisce solo dal conflitto dei cittadini virtuosi; l’ordine politico è quello che consente alle differenze, alle dissonanze, di emergere e che le sintetizza ad un livello superiore. Ciò che spenge la libertà è la ‘tranquillity’, la ‘unanimity’ che si danno nelle nazioni moderne in cui il cittadino si disinteressa degli affari pubblici, si dedica alle sue occupazioni private ed affida la salvaguardia della libertà ai politici di professione ed ai meccanismi istituzionali del ‘rule of law'» (M. Geuna, Il linguaggio del repubblicanesimo di Adam Ferguson, in E. Pii, a cura di, I linguaggi politici delle rivoluzioni in Europa, Olschki, Firenze
1992, p. 153).
70 Sulle implicazioni antropologiche di questi temi cfr. D. D'Andrea, Prozzeteo e Ulisse, NIS, Roma 1997.
71 Ivi, p. 158.
72 Sulle teorie protomoderne del conflitto politico cfr. T. Berns, Violence de la loi è la renaissance. L’originaire du politigue chez Machiavel et Montaigne, Kimé, Paris 2000; F. Del Lucchese, «Disputare’ e ‘combattere’. Modi del conflitto nel
pensiero politico di Niccolò Machiavelli», in Filosofia politica, XV, 2001; Id., Twmulti e «indignatio». Conflitto, diritto e moltitudine in Machiavelli e Spinoza, dissertazione, Dottorato di ricerca in Giustizia costituzionale e diritti fondamentali,
Dipartimento di diritto pubblico dell’Università di Pisa, 2002. ? Per l’analisi di una linea ‘conflittualista’, erede del repubblicaneismo, nel pensiero politico italiano del Novecento, cfr. F. Sbarberi, L’utopia della libertà eguale. Il liberalismo sociale da Rosselli a Bobbio, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p.218.
74 R. Bellamy, Rethinking Liberalism, Pinter, London 2000, p. x. 7 Bellamy nota che Hayek propone un «dethronement of politics by markets», Rawls una «consitutional avoidance of politics», Walzer un «communitarian containment of politics». «Queste restrizioni impediscono alla politica di svolgere la sua funzione cruciale di risolvere i contrasti attraverso la negoziazione ed il dibattito e rischiano di rimuovere dall’agenda politica determinate questioni e perciò di delegittimare la sfera pubblica» (R. Bellamy, Liberalism and Pluralism. Towards a Politics of Compromise, Routledge, London 1991, p. 60).
76 Ivi, p.93.
7? «La reciprocità pone dei vincoli agli oggetti ed alle modalità delle richieste
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e costringe ad argomentare coerentemente facendo appello ad assunzioni pubblicamente verificabili e ad interessi condivisibili». Se considerazioni di questo tipo sembrano avvicinare Bellamy a posizioni rawlsiane o habermasiane, o alle tesi della deliberative democracy, egli precisa che i processi di negoziazione e deliberazione sono avviati allo scopo di ottenere effettivi compromessi, piuttosto che alla ricerca del consenso. Bellamy rovescia le valutazioni di Habermas: «Pace Habermas, il consenso è possibile solo al livello degli interessi [...]. È il conflitto dei valori che rende necessari i compromessi» (ivi, p. 110). 78vi pali
79 Ivi, p.93. 80 Ivi, p. 116. 81 Ivi, p. 124. Savi ypi313de 8-Ivi, p13.
84 Bellamy, Rethinking Liberalism, cit., p. XxM. 8 Considerazioni analoghe potrebbero valere per le tesi di Stuart Hampshire relative all’identificazione della giustizia con le procedure eque di risoluzione dei conflitti: cfr. S. Hampshire, Justice is Conflict, Princeton University Press, Princeton 2000 (trad. it. Feltrinelli, Milano 2001). 86 «Globalizzati di tutto il mondo, scegliete: Kant o Foucault?», dialogo fra T. Negri e D. Zolo, in Reset, LKXIII, 2002, p. 9. 87 Ivi, pp. 13-14. 88 M. Hardt, A. Negri, Eypire, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2000 (trad. it. Rizzoli, Milano 2002, p. 199).
89 Ivi, p. 82. 90 Ivi, pp. 82-83.
21 Ivi, pp. 156-597. 2 Negri, I/potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, cit., pp. 27-28. 9 «Il potere costituente si definisce emergendo dal vortice del vuoto, dall’abisso dell'assenza di determinazioni, come un bisogno totalmente aperto. È per questo che la potenza costitutiva non si conclude mai nel potere, né la moltitudine tende a divenire totalità ma insieme di singolarità, molteplicità aperta. [...] Ora, l’onnipotenza e l’espansività caratterizzano anche la democrazia, poiché caratterizzano il potere costituente. La democrazia è insieme una procedura assoluta della libertà e un governo assoluto. [...] L’assenza, il vuoto, il desiderio sono il motore della dinamica politico-democratica in quanto tale» (ivi, p. 28).
% Ivi, p. 89.
9 «Solo in tal modo, quando cioè la disunione si è fatta chiave delle relazioni istituzionali, il governo assoluto può formarsi: come governo democratico che non cela le differenze ma chiede ai cittadini di sempre ricostruire unità dalle differenze. Il principio dell’assolutezza del potere è quello della moltitudine in azione. Un rapporto fra ‘furore ed ordine’, fra cupiditas e razionalità, fra innovazione e con-
senso, che rappresenta la materia di cui è fatto l’agire del Principe — a maggior ragione quello della repubblica» (ivi, p. 106). 9 Ivi, p. 148. «Comunismo e-ibertà, proprietà e diritto, moltitudine e sovranità sono dunque sistematicamente connessi e non è più possibile separarli. In questa non-separazione costituisce quel motore di libertà che produce tutto il sistema di Harrington» (ivi, p. 159).
97 Ivi, p. 403.
98 Hardt, Negri, Empire, trad. it. cit., pp. 83-84. 92Ivitp. 94:
100 Ivi, p. 155. 141
101 Ivi, p. 174. Mimando la classica ricostruzione di Polibio della costituzione
romana, Hardt e Negri vedono l’impero come una struttura economica, politica e istituzionale articolata su tre livelli: il vertice, rappresentato dagli Stati Uniti, dal gruppo di Stati nazione che controllano i principali strumenti monetari globali e dalle principali organizzazioni che dispiegano il potere biopolitico e culturale; l’aristocrazia, rappresentata dalle reti delle corporation capitalistiche transnazionali che operano sul mercato mondiale e dal complesso degli Stati nazione; infine gli organismi che rappresentano gli interessi popolari, cui si aggiungono i media, le istituzioni religiose e le ONG, «la forza vitale che anima il popolo globale» (ivi, p. 293).
102 Ivi, p, 55. 103 Ivi, p. 64.
104 Negri, Zolo, «Globalizzati di tutti i paesi unitevi», cit., p. 14. 105 Da questo punto di vista è particolarmente perspicua la contrapposizione
fra popolo e moltitudine proposta da Hobbes in De Cive, XII.8 (cfr. T. Hobbes, De Cive, in Id., Opera philososphica, quae latine scropsit, omnia, Bohna, Londinii 1839-45; trad. it. TEA, Torino 1994, pp. 239-40). Il popolo è ricondotto ad unità dallo Stato ed è identificabile con la sovranità. Per contro «La moltitudine è una molteplicità, un piano di singolarità, un insieme aperto, né omogeneo né identico a se stesso, che genera una relazione indeterminata e inclusiva con coloro che stanno al di fuori. [...] Mentre la moltitudine è una relazione costitutiva e conclusa, il
popolo è un sintesi costitutiva adeguata alla sovranità» (Hardt, Negri, Empire, trad. it. cit., p. 107). «A nostro avviso, la moltitudine è una rzo/teplicità di singolarità, che non può trovare in nessun senso v7/f rappresentativa; popolo è invece una
unità artificiale che lo Stato moderno esige come base della finzione di legittimazione; massa è, d’altra parte, concetto che la sociologia realistica assume alla base del modo capitalistico di produzione [...], in ogni caso un’unità indifferenziata. Per noi, invece, gli uomini sono singolarità, una moltitudine di singolarità. Un secondo significato di moltitudine deriva invece dal fatto che noi la opponiamo a ‘classe’. Dal punto di vista di una sociologia del lavoro rinnovata, il lavoratore si presenta infatti sempre più come portatore di capacità immateriali di produzione. Il lavoratore si riappropria dello strumento/utensile del lavoro. Nel lavoro produttivo immateriale, lo strumento è il cervello (e così ha termine anche la dialettica he-
geliana dello strumento). Questa capacità singolare di lavoro costituisce i lavoratori in moltitudine, anziché in classe. Di qui, di conseguenza, un terzo terreno di definizione, che è quello più specificatamente politico. Noi consideriamo la moltitudine una potenza politica suz generis: è rispetto ad essa, cioè rispetto ad una moltitudine di singolarità, che vanno definite le nuove categorie politiche. Noi pensiamo che queste categorie politiche debbano essere identificate attraverso l’analisi del comune piuttosto che attraverso l’ipostasi dell’unità» (Negri, Zolo, «Globalizzati di tutti i paesi unitevi», cit., p. 17).
106 Cfr. Negri, I/ potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, cit., pp. 411.12. 107 Hardt, Negri, Erzpire, trad. it. cit., p. 201.
108 Ivi, pp. 202-203, 239.
109 Nella dimensione dello spazio, l'istanza politica costitutiva della moltitudine è quella della cittadinanza globale, la rivendicazione del «diritto universale di controllare i propri movimenti» (ivi, p. 371). Nella dimensione temporale della ‘produzione biopolitica’, l'istanza politica è quella di «un salario sociale e un reddito garantito per tutti» (ivi, p. 372). Infine, la dimensione teleologica della moltitudine è quella del suo potere costituente, che configura il «diritto di riappropriazione» e cioè il «libero accesso e controllo della conoscenza, dell’informazione, del-
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la comunicazione e degli affetti, in quanto mezzi primari di produzione biopolitica», ossia «il diritto della moltitudine all’autocontrollo e a un’autonoma autoproduzione» (ivi, p. 375).
110 Ivi, p. 379.
111 E significativo che Hardt e Negri concludano il loro lavoro alludendo al modello agostiniano delle due città e caratterizzino il militante postmoderno attraverso un riferimento alla figura di Francesco d'Assisi (cfr. ivi, pp. 364-67). 112 Cfr. Machiavelli, Discorsi, cit., pp. 139-42. 153 Cfr. Hobbes, De Cive, XII.8, trad. it. cit., p. 240. 114 Skinner, Liberty before Liberalism, trad. it. cit., p. 117; cfr. Id., The Idea of Negative Liberty, cit., e The Italian City Repubilics, cit.
1> Recentemente Skinner ha esplicitamente riconosciuto che l'eredità del pensiero repubblicano — o, come egli si esprime preferibilmente, del pensiero neoromano — «è stata altamente ambigua». E, riferendosi a un tema ‘caldo’, ha precisato di essere «molto lontano dall'idea di far rivivere l’intera struttura del pensiero politico neoromano. Naturalmente esso è nemico di diversi dei più importanti valori della nostra vita pubblica, fra i quali l'eguaglianza dei sessi che, come è facile argomentare, è uno dei più cruciali» («Conseguire la libertà promuovere l’eguaglianza», intervista a Q. Skinner di T. Casadei, in I/ pensiero mazziniano, LV, 2000,
3, pp. 121-22).
Capitolo secondo ! Cfr. B. Anderson, Imagined Communities. Reflections on the Origins and Spread of Nationalism, Verso, London 1983 (trad. it. Manifestolibri, Roma 1996); E. Gellner, Nations and Nationalism, Basil Blackwell, Oxford 1983 (trad. it. Editori Riuniti, Roma 1985); E.J. Hobsbawm, Nations and Nationalism Since 1780,
Cambridge University Press, Cambridge 1990 (trad. it. Einaudi, Torino 1991). 2 Cfr. A.D. Smith, The Ethnic Origins of Nations, Basil Blackwell, Oxford 1986
(trad. it. Il Mulino, Bologna 1992). 3 Cfr. M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge University Press, Cambridge 1982.
4 Cfr. ad esempio Id., Derzocracy's Discontent. America in Search of a Public Philosophy, Belknap, Cambridge (Mass.) 1996, pp. 117-19. ? C. Taylor, Atorzism, in Id., Philosophy and the Human Sciences, Cambridge
University Press, Cambridge 1985. 6 Cfr. A. MaciIntyre, After Virtue, Duckworth, London 1981 (trad. it. Feltrinelli, Milano 1988). ? Sandel, Democracy's Discontent, cit., p. 13.
8 Ivi, p. 14.
9 Ivi, p. 117. 10 Sulla traduzione politica del communitarianism cfr. anche M. Sandel, Intro-
duction, in Id. (a cura di), Liberalismand Its Critics, Basil Blackwell, Oxford 1984,
pp. 4-7; Id., «Moral Argument and Liberal Toleration: Abortion and Homosexuality», in California Law Review, LXXVII, 1989, 3 (trad. it. in A. Ferrara, a cura di, Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 1992).
11 Nella ‘seconda fase’ della sua opera Rawls ha concesso molto alla critica dei communitarians: la sua teoria ha perso ogni pretesa universalistica e risulta anco-
rata a determinate assunzioni intuitive latenti nella cultura politica delle società a regime liberaldemocratico. Ma Rawls non ha posto il problema di come la coesio-
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ne sociale si realizzi, rimanendo sul piano ‘ontologico’ in un’ambigua terra di nessuno fra individualismo e olismo (cfr. J. Rawls, Political Liberalism, Columbia University Press, New York 1993; trad. it. Comunità, Milano 1994). 12 Cfr. M. Walzer, «The Communitarian Critique of Liberalism», in Political Theory, XVIII, 1990, 1. 13 Cfr. Id., «The Idea of Civil Society», in Disset, 1991, 1 (trad. it. in Id., I/filo della politica. Democrazia, critica sociale, governo del mondo, a cura di T. Casadei, Diabasis, Reggio Emilia 2002).
14 Cfr. Id., Spheres of Justice: A Defense of Pluralism and Equality, Basic Books,
New York 1983 (trad. it. Feltrinelli, Milano 1987, p. 39). Lalvilicapy2! 16 Id., «What Does it Mean to Be an ‘American’?», in Socia/ Research, LVII, 1990, 34 (trad. it. in Id., Che cosa significa essere americani, a cura di N. Urbinati, Marsilio, Venezia 1992, p. 15). 17 Id., «Civility and Civic Virtue in Contemporary America», in Socia/ Research, XLII, 1974, 4 (trad. it. in Id., Che cosa significa essere americani, cit., p. 96).
18 Id., «Pluralism: A Political Perspective», in The Harvard Encyclopedia of American Etbnic Groups, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1980, pp. 781-89 (trad. it. in Id., Che cosa significa essere americani, cit., p. 63).
19 Îvi, p. 75.
20 Cfr. Id., «La rinascita della tribù», in Microrzega, 1992, 5 (ed. ingl. «The New Tribalism», in Disserz, 1992, 2).
21 Naturalmente non si deve banalizzare. Per Walzer gli Stati non sono ‘totalità organiche’ o ‘comunioni mistiche’, anche se la loro integrità e sovranità hanno un valore che trascende la forma di governo e riguarda anche gli Stati autoritari (cfr. M. Walzer, Just and Unjust Wars, Basic Books, New York 1977; trad. it.
Liguori, Napoli 1990; Id., «The Moral Standing of States: A Response to Four Critics», in Philosophy and Public Affairs, TX, 1980, 3). Tutto questo ha origine in quel particolare genere di consenso che si radica nella storia di una vita comunitaria. È particolarmente importante a questo proposito una pagina di Just and Un-
just Wars: «I diritti degli Stati riposano sul consenso dei propri membri, ma su un genere particolare di consenso. Essi non costituiscono l’esito del trasferimento di diritti preesistenti dagli individui al sovrano, né di una serie di scambi tra individui. Ciò che realmente accade è qualcosa di più complesso. Nei secoli, la condivisione di esperienze e la gestione collettiva di diversi tipi di attività si concretizza in una vera e propria vita comunitaria. ‘Contratto’ è la metafora con cui si è soliti rappresentare un processo di associazione e di reciprocità della cui sopravvivenza si
rende garante lo Stato, al quale spetta tra l’altro il compito di difenderlo dalle aggressioni esterne. La protezione non copre soltanto la vita e la proprietà degli in-
dividui, ma si estende alla vita e alla libertà che i singoli condividono con gli altri, alla comunità indipendente cui hanno dato vita, e per la quale alcuni di loro hanno a volte dovuto essere sacrificati» (Id., Just and Unjust Wars, trad. it. cit., p. 81). In più luoghi Walzer accenna al carattere ‘artificiale’, se non arbitrario, delle appartenenze comunitarie. In Spheres of Justice dichiara che «il carattere nazionale, inteso come mentalità stabile e permanente, è naturalmente un mito» e che «la politica istituisce dei legami comunitari suoi propri» (Id., Spheres of Justice, trad. it. cit., p. 39). Nel saggio sulla rinascita del tribalismo si riferisce alla «scoperta postmoderna che le comunità sono costruzioni sociali immaginate, inventate, messe in-
sieme». Walzer riconosce che non vi sono unità naturali e che anche «le tribù contemporanee più sicure della loro specifica identità e cultura [...] sono in realtà storicamente composite» (Id., «La rinascita della tribù», cit., p. 102). Ma queste asserzioni sembrano dimenticate quando Walzer passa alla proposta teorico-politica.
144
22 Just and Unjust Wars, con la teoria della supreme emergency e della ‘egittima difesa preventiva’, permette di giustificare guerre offensive come quella dei Sei giorni, provocata da Israele nel 1967. Walzer ha poi sostenuto attivamente gli interventi militari dei vari governi americani, da Desert Storm nel 1991 alla guerra per il Kosovo nel 1999. Ricordo infine l’adesione di Walzer al documento «What We Are Fighting For» (The Washington Post, 12 febbraio 2002), manifesto degli intellettuali americani a favore della guerra globale al terrorismo successiva all’11 settembre 2001, basato sull’identificazione dei ‘valori americani’ con i valori uni-
versali. Nel caso della guerra all’Iraq del 2003 Walzer ha sostenuto che «la guerra di Saddam è ingiusta» perché il principio di legittima difesa non può essere applicato ad un singolo dittatore o al gruppo dei suoi accoliti. Allo stesso tempo «da guerra dell’ America è ingiusta»: nonostante Walzer affermi la legittimità delle finalità generali dell’azione degli Stati Uniti e l'opportunità dell’uso della forza, sostiene anche che nel marzo 2003 la guerra è stata combattuta «prima del suo tempo». Indicative del senso complessivo della posizione assunta da Walzer sono le sue aspre critiche alla Francia e la sua presa di distanza dalle dimostrazioni contro la guerra, con la motivazione che interromperla avrebbe significato la vittoria di Saddam e impedito il collasso del suo regime (cfr. M. Walzer, «So, is this a Just War?», in Dissent Magazine, Spring 2003, http://www.dissentmagazine.org/). 2 Cfr. T.H. Marshall, Citizenship and Social Class, in Id., Citizenship and Social Class and Other Essays, Cambridge University Press, Cambridge 1950 (trad. it. Utet, Torino 1976, p. 7). E possibile distinguere fra una nozione strettamente giuridica di cittadinanza, che connota l’ascrizione di un individuo all'ordinamento
giuridico di una comunità politica, e una nozione teorico-politica, che identifica «il complesso delle condizioni politiche, economiche e culturali che sono garantite a chi sia a pieno titolo membro di un gruppo sociale organizzato» (D. Zolo, «Cittadinanza», in Filosofia politica, XIV, 2000, 1, p. 5). Nel primo caso ‘cittadino’ si op-
pone a ‘straniero’, nel secondo a ‘suddito’.
i
24 Cfr. Id. (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza,
Roma-Bari 1994, e in particolare il saggio introduttivo del curatore, La strategia della cittadinanza. Per un’analisi dell’evoluzione storica della nozione di cittadinanza è fondamentale P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, Laterza, Roma-Bari 1999-2001, 4 voll.
2 Cfr. ad esempio D. Archibugi, D. Held (a cura di), Cosrzopolitan Democracy; An Agenda for a New World Order, Polity Press, Cambridge 1995; D. Archibugi, D. Held, M. Kohler (a cura di), Re-Imagining Political Community: Studies in Cosmopolitan Democracy, Polity Press, Cambridge 1998; D. Held, Derzocracy and the Global Order, Polity Press, Cambridge 1995 (trad. it. Asterios, Trieste 1999). 26 L. Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, in Zolo (a cura di), La cittadinanza, cit., p. 288. Cfr. L. Ferrajoli et al., Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Laterza, Roma-Bari 2001.
27 Non intendo affrontare la vexata quaestio del cosmopolitismo di Kant, della sua preferenza per una ‘repubblica mondiale’ o piuttosto per una ‘federazione di popoli’. A favore dell’interpretazione cosmopolitica cfr. G. Marini, Tre studi sul cosmopolitismo kantiano, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma 1998. Si noti, comunque, che lo stesso Marini ricorda come Kant avesse ben pre-
sente che un’organizzazione politica sovranazionale si esporrebbe al rischio del dispotismo.
28 Cfr. Ferrajoli, Dai diritti del cittadino ai diritti della persona, cit., pp. 267 e
268 n.
29 Marshall, Citizenship and Social Class, trad. it. cit., p. 34. Cfr. J.M. Barbalet,
145
Citizenship, Open University Press, Milton Keynes 1988 (trad. it. Liviana, Padova
1992, pp. 127-33). 30 Ivi, p. 128. 31 Ivi, p. 132.
32 Cfr. R. Dahrendorf, Per un nuovo liberalismo, Laterza, Roma-Bari 1988. 3 Cfr. T. Parsons, The System of Modern Societies, Prentice-Hall, Englewood
Cliffs 1969 (trad. it. parz. Giuffrè, Milano 1975). 34 Cfr. N. Luhmann, Politische Theorie im Woblfartstaat, Holzog, Minchen
1981 (trad. it. Franco Angeli, Milano 1983, pp. 53-54); Id., Soziologische Aufklirung I, Westdeutscher Verlag, Opladen 1970 (trad. it. parz. Il Saggiatore, Milano 1983, pp. 139-41, 179-204); Id., Rechrssoziologie, Rohwolt, Reinbek bei Hamburg 1972 (trad. it. Laterza, Roma-Bari 1977, p. 87). 35 Cfr. J. Habermas, Theorie des kommunikativen
Handelns, Suhrkamp,
Frankfurt a.M. 1981 (trad. it. Il Mulino, Bologna 1986). 36 Cfr. J. Habermas, Faktizitàt und Geltung. Beitrige zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1992 (trad. it. Guerini e Associati, Milano 1996, in particolare il cap. III).
37 Su questo tema cfr. D. Rasmussen, Reading Habermas, Blackwell, Oxford 1990 (trad. it. Liguori, Napoli 1993); ho cercato di argomentare una critica dell’universalismo habermasiano in I/ particolarismo dei diritti. Poteri degli individui e paradossi dell’universalismo, Carocci, Roma 1999, pp. 125-36. 38 O meglio, se si preferisce utilizzare la terminologia che Habermas adotta da più di un decennio: al ‘sovraccarico etico’ imposto dai comunitaristi fa riscontro il ‘sovraccarico morale’ imposto da Habermas. 39 487 U.S. 186 (1986). 4° R. Dworkin, «Liberal Community», in California Law Review, LXXVII, 1989, 3 (trad. it. in Ferrara, a cura di, Comunitarismo e liberalismo; cit., p. 218).
41 Ivi, p. 222.
4 Cfr. D. Sternberger, Verfassungspatriotismus. Schriften X, Insel, Frankfurt a.M. 1990; J. Habermas, Eire Art Schadensabwicklung, in Id., Eine Art Scabadens-
abwicklung. Kleine politische Schriften VI, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1987 (trad. it. Einaudi, Torino 1987, pp. 23-24, 164). 4 J. Habermas, Die nacholende Revolution, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1990 (trad. it. Feltrinelli, Milano 1990, p. 215). 44 Cfr. ad esempio Id., «Staatsbiirgerschaft und nationale Identitàt», in Id., Faktizitàt und Geltung, cit. (trad. it. in Morale, diritto, politica, Einaudi, Torino 1992); Id., Die nacholende Revolution, cit.
4 Ma sui paradossi dell’universalismo etico-giuridico habermasiano cfr. A. Ferrara, «Democrazia e giustizia nelle società complesse: per una rilettura di Habermas», in Filosofia e questioni pubbliche, II, 1996, 1.
46 Cfr. anche J. Habermas, «Anerkennungskimpfe im demokratische Rechtsstaat», in appendice all’ed. ted. di C. Taylor, Mu/tikulturalismus und die Politik der Anerkennung, Fischer, Frankfurt a.M. 1993 (trad. it. in Ragion pratica, II, 1994); Id., Nazione, Stato di diritto, democrazia, in F. Cerutti (a cura di), Identità e politica, Laterza, Roma-Bari 1996.
47 Cfr. J. Habermas, «Staatsbiirgerschaft und nationale Identitàt», trad. it. cit., pp. 106-17, sul tema dell’appartenenza ‘repubblicana’ cfr. anche Z. Bauman, In Search of Politics, Polity Press, Cambridge 1999 (trad. it. Feltrinelli, Milano 2000, in part. pp. 163-72). 48 Su questo, cfr. M. Viroli, For Love of Country: An Essay on Patriotism and Nationalism, Clarendon Press, Oxford 1995 (trad. it. Laterza, Roma-Bari 1995). 4 G.E. Rusconi, Patria e repubblica, Il Mulino, Bologna 1997, p. 16.
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20 In questo senso Rusconi si era già pronunciato in Se cessiamo di essere una nazione, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 126-37. Cfr. F. Belvisi, «Rights, World-Society and the Crisis of Legal Universalism», in Ratio Juris, IX, 1996, 1, pp. 60-71 (trad. it. in Id., Società multiculturale, diritti, costituzione. Una prospettiva realista, Clueb, Bologna 2000, pp. 17-38). Cfr. anche J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1996 (trad. it. Feltrinelli, Milano 1998,
pp. 126-27).
21 F. Michelmann, «Family Quarrel», in Cardozo Law Review, XVII, 1996,
4:5, p. 1170. 52 Ivi, p. 1171. 53 Ivi, p.1174.
24 N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1.3, in Id., Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1992, p. 82. ? Su questo rimando al mio «Ordine e teoria dei sistemi», in Parolechiave, 1995, 7-8.
26 «L'identità nazionale, che può essere intensa durante i momenti di formazione rivoluzionaria dello stato e durante i confronti col nemico, è sostenuta, nella
quotidianità, da una ritualità troppo intermittente, poco intensa, facilmente disertabile, insufficiente quindi a soddisfare bisogni più circoscritti e continui di riconoscimento di identità e di costituzione di solidarietà. Proprio nel conflitto fra parti politiche durature — che i fondatori delle repubbliche democratiche avevano giudicato negativamente — sembrano invece ricostituirsi possibilità di riconoscimenti forti, quotidianamente ripetuti e quindi forme di solidarietà attiva che pur non eccede i limiti costituzionali della solidarietà collettiva più ampia» (A. Pizzorno, Come pensare il conflitto, in Id., Le radici della politica assoluta, Feltrinelli, Milano
1993, pp. 193-94). 57 Cfr. Zolo, La strategia della cittadinanza, cit. 58 Cfr. A. Giddens, Class Division, Class Conflict and Citizenship Rights, in Id.,
Profiles and Critiques in Social Theory, Macmillan, London 1982. 52 «Perdio, questo la mente / talor vi mova, et con pietà guardate / le lagrime del popol doloroso, / che sol da voi riposo / dopo Dio spera; et pur che voi mostriate / segno alcun di pietate, / vertù contra furore / prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto: / che l’antiquo valore / ne l’italici cor” non è anchor morto» (F. Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, CXXVIII, vv. 87-96, in Id., Canzoniere, a cura di G. Contini, Einaudi, Torino 1992). 60 N. Machiavelli, De principatibus, XXVI, in Id., Tutte le opere, cit., pp. 296-98.
61 «il monumento / vidi ove posa il corpo di quel grande / che temprando lo scettro a’ regnatori / gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue» (U. Foscolo, Dei sepolcri, vv. 154-58, in Id., Opere, Einaudi/Gallimard, Torino 1994). Foscolo, nelle U/tizze lettere di Jacopo Ortis, aveva de-
nunciato il tradimento di Bonaparte che, nel trattato di Campoformio, aveva ceduto la sua patria-repubblica Venezia all'impero asburgico. Qui, più in generale, lamenta la sorte dell’Italia. E, rivolgendosi a Firenze, scrive che personaggi come Machiavelli, Galileo, Dante, Petrarca, i cui sepolcri si trovano nella chiesa di San-
ta Croce, sono le uniche glorie nazionali («da che le mal vietate Alpi e l’alterna / onnipotenza delle umane sorti / armi e sostanze t’invadeano ed are / e patria e, tranne la memoria, tutto», ivi, vv. 181-185). Nell’Orzzs Foscolo utilizzava il termine ‘patria’ per Venezia («il sacrificio della nostra patria è consumato»), e insieme lamen-
tava che «noi italiani ci laviamo le mani nel sangue degli Italiani» (U. Foscolo, U/time lettere di Jacopo Ortis, 1, in Id., Opere, cit.); nei Sepolcri Firenze, con le inva-
sioni straniere, ha perduto la ‘patria’: il termine si riferisce evidentemente alla pro-
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spettiva più ampia, nazionale. Si deve anche ricordare il sonetto A Zacinto, dedicato all’isola natale del poeta, pervaso del sentimento dell’esilio e della nostalgia per la ‘terra materna’: in Foscolo si trova quell’articolazione di appartenenze concentriche che è una caratteristica del ‘patriottismo’ di molti autori repubblicani. 6 M. Tullio Cicerone, De officiis, 1.17, in Id., Opere politiche e filosofiche, vol. I, a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, Utet, Torino 1974-76. 6 N. Machiavelli, Istorie fiorentine, VIII.36, in Id., Tutte le opere, cit., p. 844. 64 Cfr. ad esempio Machiavelli a Francesco Vettori, 16 aprile 1627, in Id., Tutte le opere, cit., p. 1250. Inoltre, Id., Istorie fiorentine, III.7, in Id., Tutte le opere, cit.,
p. 696.
6 «Liberate diuturna cura Italiam, extirpate has immanes belluas, quae hominis, preter faciem et vocem, nichil habent» (Machiavelli a Francesco Guicciardini, 17 maggio 1526, in Id., Tutte le opere, cit., p. 1232). Ricordo anche che il servizio politico-diplomatico, insieme a Guicciardini e Vettori, al campo di Giovanni dalle Bande Nere, in un tentativo di resistenza all'occupazione spagnola, fu l’ultima importante occasione di ‘voltolare un sasso’ nella vita di Machiavelli. 66 Cfr. Machiavelli, Istorie fiorentine, cit., IT.3, pp. 660-62. 7 Id., Discorsi, cit., III.41, p. 249.
68 L’opera classica che ha descritto questa vicenda è R. von Albertini, Das floretinische Staatsbewusstsein im Ubergang von der Republik zum Prinzipat, Francke Verlag, Bern 1955 (trad. it. Einaudi, Torino 1995). 9 Cfr. R. Villari, Patriottismo e riforma politica, relazione al convegno Libertà politica e coscienza civile. Liberalismo, comunitarismo e tradizione repubblicana, Fondazione Agnelli, Torino, 21-22 novembre 1996. La tesi di Villari è che la «virtù grande nelle membra» degli italiani di cui parla Machiavelli nel Principe XXVI non sia mera costruzione letteraria, ma abbia dato significativa prova di sé. 70 M. Rosati, I/ patriottismo italiano. Culture politiche e identità nazionale, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 107-16. 7! Ivi, p. 113. Sui giacobini settecenteschi cfr. anche C. Passetti, I/ giacobinismo radicale di Vincenzo Russo. Gli elementi non utopici del suo pensiero politico, La Città del Sole, Napoli 1999. 72 Repubblica, sostiene Mazzini, significa «cosa pubblica: governo della nazione tenuto dalla nazione stessa: governo sociale: governo retto dalle leggi, che siano veramente espressione della volontà popolare [...] bilancia politica, equilibrio de’ tre poteri, lotta ordinata d’elementi legali, reggimento misto parlamentare etc.» (G. Mazzini, Det doveri dell’uomo, in Id., Scritti politici, a cura di T. Grandi, A. Comba, Utet, Torino 1972, pp. 263, 270). 3 C. Cattaneo, Sulla legge comunale e provinciale, in Id., Scritti politici, a cura di M. Boneschi, vol. IV, Le Monnier, Firenze 1965, p. 422.
74 M. Gioia, Quale dei governi liberi meglio convenga alla libertà d’Italia, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma 1988, p. 27. 7 Cfr. P. Gobetti, Scritti politici, a cura di P. Spriano, Einaudi, Torino 1960, pp. 677-78; Id., La rivoluzione liberale, Einaudi, Torino 1995, p. 46.
76 Cfr. Rosati, I/ patriottismo italiano, cit., pp. 124-35.
7? Ivi, pp: 141-62.
78 Cfr. par. 2.2, nota 57. 7° Si potrebbe sostenere che fra le ultime sue manifestazioni vi siano state il pro-
cesso di rinnovamento della politica, che ha percorso pur fra tante ambiguità la società civile italiana fra il 1992 e il 1996 come risposta alla generale corruzione del sistema fatta emergere dall’inchiesta ‘Mani pulite’, o alcuni recenti movimenti di ‘resistenza’ alle politiche governative.
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80 Cfr. E. Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell'idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e repubblica, Laterza, Roma-Bari 1996. 81 Cfr. ad esempio Rusconi, Se cessiamzo di essere una nazione, cit., pp. 86-91.
82 La pur recente legge italiana sulla cittadinanza (legge 5 febbraio 1992, n. 91), che prevede ancora una lunga e complessa procedura per la naturalizzazione e continua ad attribuire grande rilievo allo ius sanguinis si rivela già inadeguata. E addirittura in tendenza opposta alla generalizzazione del principio dello ius soli e del nesso fra residenza e cittadinanza va la riforma costituzionale per consentire la partecipazione dei cittadini italiani residenti all’estero alle elezioni nazionali (legge 27 dicembre 2001, n. 459). Dalla penultima legge sull’immigrazione — la cosiddetta Turco-Napolitano (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) — la norma relativa al diritto di voto nelle elezioni amministrative, presente nella prima stesura, è stata stralciata e mai più ripresa. E le più recenti disposizioni in materia di immigrazione — la cosiddetta legge Bossi-Fini (legge 30 luglio 2002, n. 189) — sembrano finalizzate più al contenimento dell’immigrazione e alla marginalizzazione degli immigrati che alla loro integrazione nella comunità italiana. 8 Cfr. Viroli, For Love of Country, cit. 84 Rusconi, Patria e repubblica, cit., p. 29.
85Ivi, p.9. 86Ivi p. 15. 87 Ivi, p. 18.
88 Cfr. R. Putnam, Making Democracy
Work, Princeton University Press,
Princeton 1993 (trad. it. Mondadori, Milano 1993). 8° Rusconi, Patria e repubblica, cit., pp. 22-23. 20 Il riferimento più ovvio è all’importanza che la sconfitta di Kosovopolije riveste come 772ythomoteur del nazionalismo serbo. ?1 Cfr. par. 1.2 e par. 4.3. Anche qui emerge un punto di contatto con la prospettiva della cittadinanza europea. È stato dopo secoli di guerre fra europei, dopo l’immane catastrofe della seconda guerra mondiale, dopo la Shoa, che si è avviato in Europa il faticoso processo di costruzione di un’identità comune. Cfr. F. Cerutti, Identità e politica, in Id. (a cura di), Identità e politica, cit., in part. pp. 38-41.
? Cfr. ad esempio A. MaciIntyre, Is Patriotism a Virtue?, University of Kansas, Lawrence 1984 (trad. it. in Ferrara, a cura di, Comunttarismo e liberalismo, cit.,
pp. 55-76). 9 Cfr. A. Panebianco, «‘Representation without taxation’: l’idea di cittadinanza in Italia», in I{ Mulino, XL, 1991, 1.
9 Nella canzone A/l’Italia, che non è certo la migliore prova della sua poesia, Giacomo Leopardi contrappone il destino dei soldati italiani negli eserciti napoleonici a quello di chi combatte per la difesa della propria patria: «Oh misero colui che in guerra è spento. / Non per li patri lidi e per la pia / consorte e i figli cari, / ma da nemici altrui / per altra gente, e non può dir morendo: / alma terra natia, / la vita che mi desti ecco ti rendo» (G. Leopardi, A/l’Italia, vv. 54-60, in Id., Canti, a cura di G. e D. De Robertis, Mondadori, Milano 1978). Verrebbe da dire
che il pensiero di Leopardi è coerente con il diritto costituzionale italiano, e con la Carta delle Nazioni Unite: entrambi ammettono solo la guerra difensiva. Uno dei massimi storici e teorici del repubblicanesimo ha avuto occasione di criticare nettamente l'ideologia della ‘guerra umanitaria’: cfr. P. Passarini, «Afghanistan? Non è una guerra somiglia alla vendetta», intervista a Q. Skinner, La Stampa, 16 dicembre 2001.
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Capitolo terzo 1 Cfr. N. Bobbio, L'età dei diritti, Einaudi, Torino 1992, pp. 51-61.
2 Cfr. M.P. Zuckert, Natural Rights and the New Republicanism, Princeton University Press, Princeton 1994. » Cfr. A. MacIntyre, After Virtue, Duckworth, London 1981 (trad. it. Feltrinelli, Milano 1988, p. 90). 4 Cfr. M. Sandel, Derocracy's Discontent. America in Search of a Public Philo-
sophy, Belknap, Cambridge (Mass.), p. 279 (trad. mia). Sulla teoria dei diritti come #rump cards cfr. R. Dworkin, Taking Right Seriously, Duckworth, London 1977, pp. XI-XII, XV (i passi non sono compresi nella trad. it. parz. Il Mulino, Bologna 1982). 5 Il riferimento è alla sentenza Lochner vs. New York (198 U.S. 45, 1905), con
la quale la Corte dichiarò incostituzionale una normativa che regolamentava l’orario di lavoro dei fornai, paradigma di una giurisprudenza costituzionale ispirata ad una strenua difesa della proprietà e della libertà di contrattazione, assunti come diritti assoluti. 6 Sandel, Derzocracy's Discontent, cit., p. 42; cfr. pp. 25-54.
Avi spi25. 80. Skinner, The Republicanism of Political Liberty, in G. Bock, Q. Skinner, M. Viroli (a cura di), Machiavelli and Republicanism, Cambridge University Press, Cambridge 1990 (trad. it. in appendice a Liberty before Liberalism, Cambridge University Press, Cambridge 1998; trad. it. Einaudi, Torino 2001, p. 100). ? R. Bellamy, Tre modelli di cittadinanza, in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 249-50. Il saggio è stato ripubblicato, con il titolo Three Models of Rights and Citizenship, in R. Bellamy, Retbinking Liberalism, Pinter, London 2000. 10 R. Bellamy, Liberalism and Pluralism. Towards a Politics of Compromise, Routledge, London 1999, p. 135. !! N. Bobbio, M. Viroli, Dizlogo intorno alla repubblica, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 39; «forse noi laici abbiamo parlato troppo poco dei doveri e troppo dei diritti» (ivi, p. 40). !2 Il problema è sfiorato, con risultati deludenti, nel «Poscritto 1999» alla nuova edizione di Republicanism. Cfr. P. Pettit, Republicanism. A Theory of Liberty and Government, Oxford University Press, New York 1997 (trad. it. Feltrinelli, Milano 2000, pp. 356-957). 13 Cfr. A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, Roma-
Bari 1988. 14 Cfr. G. Pugliese, «Res corporales, res incorporales» e il problema del diritto soggettivo, in AA.VV., Studi in onore di Vincenzo Arangio-Ruiz, vol. III, Jovene,
Napoli 1954; M. Villey, Legons d’histoire de la philosophie du droit, Dalloz, Paris 1962; Id., La formation de la pensée juridique moderne, Montchretien, Paris 1975 (trad. it. Jaca Book, Milano 1985); R. Tuck, Natura! Right Theories, Cambridge University Press, Cambridge 1979. 15 Cfr. L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno. Nascita e crisi dello stato
nazionale, Anabasi, Milano 1995, pp. 15-16. 16 Mi permetto ancora di rimandare al mio I/ particolarismo dei diritti. Poteri degli individui e paradossi dell’universalismo, Carocci, Roma 1999, pp. 15-72. 17 Si prenda l’art. 2 della Costituzione italiana: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni socia-
li ove si svolge la sua personalità». Se si ‘riconoscono’ dei diritti, vuol dire che già
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‘ci sono’, che un qualche insieme di principi viene considerato preesistente e assiologicamente superiore alla stessa Costituzione (cfr. G. Zagrebelsky, I/ diritto mite, Einaudi, Torino 1992; Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, cit.; Id. et al., Diritti fondamentali, Laterza, Roma-Bari 2002). Un’idea esplicita nel IX emenda-
mento della Costituzione degli Stati Uniti: «L’enumerazione di alcuni diritti fatta nella Costituzione non potrà essere interpretata in modo che rimangano negati o menomati altri diritti che il popolo si è riservato». 18 Cfr. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, cit.
1° La Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, adottata nel 1981 dall’Organizzazione per l’unità africana, sancisce la protezione della morale e dei valori tradizionali, e della famiglia come ‘guardiano’ di tali valori. Nella Dichiarazione
islamica universale si afferma che i diritti derivano dal patto ancestrale fra Dio e gli uomini, mentre la libertà religiosa può essere esercitata solo nell’ambito della legge divina. E difficoltà di traduzione emergono anche nell’ambito di altre grandi tradizioni giuridiche come quella induista o quella confuciana. Cfr. D. Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 138-46; F. Belvisi, «Universal Legal Concepts? A Critic of ‘General’ Legal Theory», in Razio Juris, 9, 1996 (ora in Id., Società multiculturale, diritti, costituzione. Una prospettiva realista, Clueb, Bologna 2000); R. Rouland, «I fondamenti antropologici dei diritti dell’uomo», in Rivista internazionale di filosofia del diritto, LXXV, 1998, 2. 20 Sono ancora costretto a rimandare al mio I/ particolarismo dei diritti, cit., pp. 96-136.
21 Il ‘principio D’ è formulato in questi termini: «sono valide soltanto le norme d’azione che tutti i potenziali interessati potrebbero approvare partecipando a discorsi razionali» (J. Habermas, Faktzitàt und Geltung. Bettrige zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1992 (trad. it. Guerini e Associati, Milano 1996, p. 131). 22 «Né la sfera dell’autonomia politica dei cittadini viene preventivamente ri-
stretta da diritti naturali o morali che aspettino solo d’essere messi in vigore, né l’autonomia privata del singolo individuo diventa strumentalizzabile agli obiettivi della sovranità popolare. Due cose soltanto la prassi di autodeterminazione dei cittadini si trova come prefissate: il principio del discorso da un lato (principio che già appartiene in generale alle condizioni della socializzazione comunicativa) e il medium giuridico dall'altro. Se, tramite pari diritti comunicativi e partecipativi, noi vogliamo implementare nelle procedure legislative il principio di discorso come principio democratico, allora non possiamo far altro che servirci del medium giuridico» (ivi, p. 154).
23 Ivi, p. 155.
24 Inoltre, l’elemento universalistico rimanda per Habermas alla distinzione fra questioni etiche e questioni morali. Alessandro Ferrara ha dimostrato che c’è qui un’aporia nella teoria habermasiana, e ha rilevato che sulle questioni morali fondamentali si innestano inevitabilmente questioni etiche relative all’autenticità e al riconoscimento. Fra i giudizi morali e i giudizi etici vi è dunque una mera differenza di grado. Ma se le cose stanno così, gli argini teorici posti da Habermas in difesa dell’universalismo finiscono per cedere. Il ‘principio D’ potrebbe allora essere più correttamente interpretato «come un'espressione, formulata all’interno di un vocabolario controllato, delle nostre intuizioni di partecipanti alla cultura del-
la modernità» (A. Ferrara, «Democrazia e giustizia nelle società complesse: per una rilettura di Habermas», in Filosofia e questioni pubbliche, II, 1996, 1, p. 72). 25 Sul dibattito intorno agli Asian Values cfr. R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio. Benessere economico, coesione sociale e libertà politica, Laterza, Roma-Bari 1995; il dibattito è emerso in occasione della Conferenza di Vienna sui diritti uma-
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ni del 1993, nella quale i rappresentanti di Singapore (lo Stato-modello dell’autoritarismo confuciano) e della Cina (a quattro anni dalla strage di Tienanmen) si espressero in tal senso; cfr. A. Sen, «Human Rights and Asian Values», Morgenthau Memorial Lecture, 1997 (trad. it. in Id., Lazciswo indiano, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 147-48); J.R. Bauer, D.A. Bell (a cura di), The East Asian Chal-
lenge for Human Rights, Cambridge University Press, Cambridge 1999. 26 «Questa forma giuridica si adatta bene ai requisiti funzionali delle società di mercato, che costitutivamente dipendono dalle decisioni decentrate di numerosi attori indipendenti. Ma nel quadro di un’economia globalizzata anche le società asiatiche si servono del diritto positivo come medium di regolazione. E lo fanno per le stesse ragioni funzionali per cui questa forma di diritto riuscì un tempo a imporsi in Occidente contro le precedenti forme corporative di socializzazione. La certezza del diritto, per esempio, è una condizione indispensabile per un traffico commerciale fondato su prevedibilità, affidabilità e tutela dell’affidamento. In questo senso, l'alternativa decisiva non è sul piano culturale ma su quello socio-economico» (J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1996; trad. it. Feltrinelli, Milano 1998, pp. 226-27). 27 T. Mazzarese, «Guerra e diritto: tra etica e retorica», in Ragion pratica, 1999,
19 pal:
28]. Habermas, «Humanitàt, Bestialitàt», in Die Zeit, 29 aprile 1999 (trad. it. in G. Bosetti, a cura di, L’u/timza crociata, Reset, Roma 1999, p. 85). 2° L. Ferrajoli, «Guerra ‘etica’ e diritto», in Ragion pratica, 1999, 13, p. 124.
30 The National Security Strategy of the United States of America, http://www.whitehouse.gov/nsc/nss.html. 31 Cfr. «What We Are Fighting For», in Washington Post, 12 febbraio 2002. 32 Cfr. A.M. Iacono, Fra individui e cose, Manifestolibri, Roma 1995, pp. 95-110. 8 Cfr. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., pp. 5, 282 passim. 34 Cfr. R. Rorty, Human Rights, Rationality and Sentiment, in S. Shute, S.
Hurley (a cura di), On Human Rights: The Oxford Amnesty Lectures, Basic Books, New York 1993 (trad. it. I diritti umani. Oxford Amnesty Lectures, Garzanti, Milano 1994, pp. 141-42). 35 R. Rorty, «Giustizia come lealtà più ampia», in Filosofia e questioni pubbli-
che, II, 1996, 1, pp. 63-64.
36 Id., Objectivity, Relativism and Truth. Philosophical Papers, vol. I, Cambridge University Press, Cambridge 1991 (trad. it. Laterza, Roma-Bari 1994, vol. I, p. 35). 37 Ivi, p. 4, cfr. pp. 32-39. 38 Cfr. Habermas, Faktizitàt und Geltung, trad. it. cit., pp. 123-24. 39 «Di conseguenza il richiesto nesso interno tra sovranità popolare e diritti
umani consisterà nel fatto che il ‘sistema dei diritti’ definisce precisamente le condizioni per cui le forme di comunicazione necessarie a una produzione giuridica legittima possono essere anche esse giuridicamente istituzionalizzate. Il sistema dei diritti non è riducibile né a una lettura morale dei diritti umani né a una lettura etica della sovranità popolare, in quanto l'autonomia privata dei cittadini non può essere né sottordinata né sovraordinata alla loro autonomia politica» (ivi, p. 128). 40 «Tutte le terre e tutte le provincie che vivono libere in ogni parte, come di sopra si disse, fanno profitti grandissimi. Perché quivi si vede maggiori popoli, per essere e’ connubi più liberi, più desiderabili dagli uomini: perché ciascuno procrea volentieri quegli figliuoli che crede poter nutrire, non dubitando che il patrimonio gli sia tolto; e ch’ei conosce non solamente che nascono liberi e non schiavi, ma ch’ei possono mediante la virtù loro diventare principi. Veggonvisi le ricchezze multiplicare in maggior numero, e quelle che vengono dalla cultura, e quelle che
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vengono dalle arti. Perché ciascuno volentieri multiplica quella cosa, e cerca di acquistare quei beni, che crede, acquistati, potersi godere. Onde ne nasce che gli uomini a gara pensono a’ privati e a’ pubblici comodi; e l’uno e l’altro viene maravigliosamente a crescere. Il contrario di tutte queste cose segue in quegli paesi che vivono servi; e tanto più scemono dal consueto bene, quanto più dura è la servitù» (N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Il.2, in Id., Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1992, p. 150).
41 «Se i concetti di diritto romano servono nella modernità a definire le libertà negative dei cittadini — garantendo la proprietà e il commercio degli individui privati dalle intromissioni di quel dominio politico-amministrativo da cui erano stati esclusi — il linguaggio dell’etica e della retorica custodisce invece l’immagine di una prassi politica che realizza le libertà positive dei cittadini partecipanti su un piede di parità giuridica. Il concetto repubblicano di ‘politica’ non riguarda i diritti a vita, libertà e proprietà garantiti dallo Stato ai privati, bensì la prassi di autodeterminazione dei cittadini orientati al bene comune, che s'intendono come liberi ed
eguali partecipanti ad una comunità di cooperazione e autogoverno. Diritto e legge sono cose secondarie rispetto al vitale nesso etico di una polis in cui può svilupparsi e consolidarsi la virtù di un’attiva partecipazione alle faccende pubbliche. Soltanto in questa prassi civica l’uomo può realizzare il telos della sua natura [Ga#tung]» (Habermas, Faktizitàt und Geltung, trad. it. cit., p. 318).
42 Ivi, p. 319. 4'Gfrsfivi, p-321. 44 Ivi, p.322. 45 Ivi, p. 332.
46 «La formazione democratica della volontà non trae preliminarmente forza legittimante dalla convergente armonia di convinzioni etiche ereditate, bensì da quei presupposti comunicativi e procedurali che nel processo consultivo fanno entrare in funzione gli argomenti migliori. La teoria del discorso rompe con ogni concezione etica dell’autonomia civica: per questo non deve riservare ad uno stato di eccezione i modi della politica deliberativa» (sbid.). 4 «Le teorie repubblicane [...] non sono ostili alla protezione dell’autonomia degli individui o dei gruppi dal controllo statale [...]. Ciò che caratterizza la concezione repubblicana è che essa interpreta la maggior parte dei diritti come le precondizioni, o il prodotto, di un processo deliberativo non distorto. Così, per esempio, il principio deliberativo fornisce argomenti in favore della libertà di espressione e di coscienza o del diritto di voto; queste sono le precondizioni fondamentali del processo deliberativo repubblicano. I sistemi liberali possono essere, e in effetti sono stati, fondati su premesse di questo tipo [...]. Nella prospettiva repubblicana, l’esistenza di spazi di autonomia privata deve essere giustificata in termini pubblici». C. Sunstein, «Beyond the Republican Revival», in The Yale Law Journal, XCVII, 1988, 8, p. 1551.
48 Ivi, p. 1562; cfr. anche pp. 1569, 1575-76. 49 «I repubblicani naturalmente credono nei diritti, concepiti come il risultato di un processo deliberativo ben funzionante; di conseguenza approvano con entusiasmo l’uso del costituzionalismo per il controllo delle maggioranze popolari. Ma i repubblicani sono scettici nei confronti di approcci alla politica e al costituzionalismo che fanno affidamento su diritti presentati come antecedenti la deliberazione politica» (ivi, pp. 1579-80). 50 F, Michelman, «Laws Republic», in The Yale Law Journal, XCVII, 1988, 8, pp. 1504-5035.
51 Ivi, p. 1514.
52 Michelman fa riferimento agli «incontri e ai conflitti, alle interazioni e ai di-
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battiti che sorgono nelle e intorno alle assemblee cittadine e alle istituzioni del governo locale; alle associazioni civiche e volontarie; ai circoli sociali e ricreativi; alle
scuole pubbliche e private; ai consigli di amministrazione, agli organismi direttivi e ai vertici delle organizzazioni di ogni genere; alle fabbriche e ai luoghi di lavoro; agli avvenimenti pubblici e alla vita di strada; ecc. Tutte queste sono arene di dialogo potenzialmente trasformativo» (ivi, p. 1531). 33 Ivi, p. 1518.
54]. Tully (Placing the «Two Treatises», in N. Phillipson, Q. Skinner, a cura di, Political Discourse in Early Modern Britain, Cambridge University Press, Cambridge 1993, p. 261) rileva come anche Locke esprima una tale concezione dei diritti. Cfr. Q. Skinner, The State, in T. Ball, J. Farr, S. Hanson (a cura di), Political Innovation and Conceptual Change, Cambridge University Press, Cambridge 1989, . 114-16. Le 55 Cfr. C. Sunstein, «Interest Groups in American Public Law», in Stanford Law Review, XXIX, 1985, pp. 39-40.
56 Cfr. Villey, La formation de la pensée juridique moderne, trad. it. cit., in part. p. 198; J. Finnis, Natural Law and Natural Rights, Clarendon Press-Oxford University Press, Oxford-New York 1980 (trad. it. Giappichelli, Torino 1996). 57 Skinner, Liberty before Liberalism, trad. it. cit., p. 18. 58 Sono ancora costretto a rimandare al mio I/ particolarismo dei diritti, cit., pp. 169-79.
59 Cfr. A. Ferguson, An Essay on the History of Civil Society (1767), Edinburgh University Press, Edinburgh 1966 (trad. it. Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 115 sgg.). 60 «Per concedere alla comunità qualche grado di libertà politica è forse sufficiente che i suoi membri, sia in quanto singoli, sia in quanto componenti i loro diversi ceti, sostengano fermamente i loro diritti [...]. In mezzo ai conflitti di parte gli interessi pubblici e anche le massime della giustizia e della lealtà sono a volte dimenticate, e tuttavia non ne seguono inevitabilmente quelle fatali conseguenze che un tale grado di corruzione sembra far presagire. L’interesse pubblico è spesso assicurato non perché gli individui sono disposti a considerarlo come il fine della loro condotta, ma perché ciascuno nella sua posizione è deciso a salvaguardare il proprio interesse. La libertà è sostenuta dalle continue divergenze e opposizioni tra i diversi gruppi, non dal concorso del loro zelo a favore di un governo giusto» (ivi, pp. 120-21). «La libertà è un diritto che ogni individuo deve essere pronto a rivendicare per se stesso, e colui che pretenda di concederla come un favore con quest'atto l’ha in realtà negata. Neanche sulle istituzioni politiche si può fare affidamento per la salvaguardia della libertà, anche se esse sembrano indipendenti dalla volontà e dall’arbitrio degli uomini. Possono nutrire, ma non possono sostituire quello spirito fermo e risoluto con cui una mente liberale è sempre pronta a opporsi ai torti e ad assumere su di sé la propria sicurezza» (ivi, pp. 300-301).
61 Ivi, p. 43.
6 Cfr. Bobbio, L'età dei diritti, cit.; P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, Laterza, Roma-Bari 1999-2001, vol. I. 6 Cfr. A. Ross, On Law and Justice, Steven & Sons, London 1958 (trad. it. Einaudi, Torino 1990, pp. 158-59); H.L.A. Hart, Are There any Natural Rights?, ora in J. Waldron (a cura di), Theories of Rights, Oxford University Press, Oxford 1984, pp. 80-83; N. MacCormick, Rights in Legislation, in P.M.S. Hacker, J. Raz (a cura di), Law, Morality and Society. Essays in Honour of H.L.A. Hart, Clarendon Press, Oxford 1977. 6 Massimo La Torre ha sostenuto, a mio parere opportunamente, che una so-
cietà dove non si conoscessero diritti, ma solo obblighi, vedrebbe «il predominio
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_
delle norme sociali (e giuridiche) sugli individui e la loro autonomia» (cfr. M. La Torre, Disavventure del diritto soggettivo, Giuffrè, Milano 1996, p. 338).
© J. Feinberg, The Nature and Value of Rights, in Id., Rights, Justice, and the Bonds of Liberty. Essays in Social Philosophy, Princeton University Press, Princeton 1980, p. 151. 6 Bobbio, L’età dei diritti, cit., p. vm.
©? Ivi, pp. XII-XvV. Anche Ferrajoli afferma che il diritto «è il prodotto [...] delle diverse generazioni di lotte e rivoluzioni che l’hanno storicamente modellato, incorporandovi altrettante generazioni di diritti fondamentali» (Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., p. 148). 68 E stato Amartya Sen a proporre una teoria ‘mista’ che combina l’approccio
deontologico delle teorie rights-based a quello conseguenzialistico; cfr. ad esempio A. Sen, «Rights and Agency», in Philosophy and Public Affairs, XI, 1982, 1; Id., «Well-Being, Agency and Freedom. The Dewey Lectures 1984», in The Journal of Philosophy, LKXXII, 1985, 4; Id., «Legal Rights and Moral Rights: Old Questions and New Problems», in Ratto Juris, IX, 1996, 2.
Capitolo quarto ! Cfr. J. Harrington, The Commonwealth of Oceana, in J.G.A. Pocock (a cura di), The Political Works of James Harrington, Cambridge University Press, Cambridge 1977 (trad. it. Franco Angeli, Milano 1985, pp. 99-101). 2 Cfr. M. Viroli, From Politics to Reason of State: The Acquisition and Transformation of the Language of Politics, 1250-1600, Cambridge University Press, New York 1992 (trad. it. Donzelli, Roma 1994). 3 Sua è la definizione paradigmatica: «Stato è un Dominio fermo sopra popoli; e Ragione di Stato è notitia di mezzi atti a fondare, conservare, eampliare un dominio così fatto» (G. Botero, Della ragion di Stato. Con tre libri delle cause della grandezza delle Città, 1589, I.1, a cura di L. Firpo, Utet, Torino 1948). 4 Su questa linea la monografia Machiavelli, Oxford University Press, Oxford 1998, inclusa nella collana ‘Founders of Modern Political and Social Thoughts”, la
cui tesi centrale è che Machiavelli 707 fonda il pensiero politico moderno. 5 Viroli, From Politics to Reason of State, cit., p. 283 (trad. it. cit., p. 186; E-
pilogo dell’edizione italiana è sensibilmente differente da quello dell’originale inglese). 6 Ivi, p. 290 (trad. it. cit., p. 189). ? Ibid. (trad. it. cit., p. 187). 8 Cfr. anche Id., Repubblicanesimo, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 57-67; N. Bobbio, M. Viroli, Dialogo intorno alla repubblica, Laterza, Roma-Bari 2001, in part. pp. 3-12.
°J. Habermas, Faktizitàt und Geltung. Beitràge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Sahrkamp, Frankfurt a.M. 1992 (trad. it.
Guerini e Associati, Milano 1996, pp. 68-72). 10 «La produzione di norme si colloca anzitutto nella prospettiva della giustizia, commisurandosi a principi che stabiliscono che cosa sia, in egual misura, buono per tutti. Diversamente dalle questioni etiche, le questioni di giustizia non sono fin dall’inizio riferite ad una determinata collettività ed alla sua forma di vita. Per essere legittimo, il diritto d’una concreta comunità giuridica dev'essere quanto meno consonante con criteri morali che pretendono validità morale anche al di
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fuori di quella comunità. La parte del leone la fanno in ogni caso i compromessi» (Habermas, Faktizitàt und Geltung, trad. it. cit., p. 336).
11 Ivi, pp.337-38. 12 Ivi, p. 351.
1
13 Per una critica di questa posizione cfr. A. Ferrara, «Democrazia e giustizia nelle società complesse: per una rilettura di Habermas», in Filosofia e questioni pubbliche, II, 1996, 1; R. Bellamy, Rethinking Liberalism, Pinter, London 2000, pp. 110-11.
14 Il termine ‘pluralismo’ è utilizzato qui nell'accezione proposta da RA. Dahl, ad esempio in A Preface to Democratic Theory, University of Chicago Press, Chicago 1956 (trad. it. Comunità, Milano 1994).
15 C. Sunstein, «Interest Groups in American Public Law», in Stanford Law Review, XXIX, 1985, pp. 38-39.
16 Ivi, p. 46. 17 Ivi, p. 42. 18 Ivi, p. 47. 19 Ivi, pp. 39-40.
20 Ivi, pp. 48-49 (trad. it. in J. Habermas, Fatti e norme, Guerini e Associati,
Milano 1996, pp. 338-39). 21 Cfr. G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell'età moderna, Laterza, Roma-Bari 1995.
22 Cfr. F. Meinecke, Die Idee der Staatrison in der neueren Geschichte, Oldenburg, Minchen 1957 (trad. it. Vallecchi, Firenze 1942). 23 B. Croce, Elementi di politica (1925), in Id., Etica e politica, Laterza, Bari
1967, p. 205.
24 F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Einaudi, Torino 1963, p. 212.
2 Cfr. B. Spinoza, Tractatus politicus (1677), trad. it. di P. Cristofolini, Ets, Pisa 1999, X.1, p. 221; Harrington, The Commonwealth of Oceana, cit.; U. Foscolo, Der sepolcri, in Id., Opere, Einaudi/Gallimard, Torino 1994; J.-J. Rousseau, Du contract social (1761), trad. it. di M. Garin, Laterza, Roma-Bari 2000, III.6, pp. 104-105. 26 Cfr. A.H. Gilbert, Machiavelli’ s«Prince» and Its Forerunners. «The Prince»
as a Typical Book «de Regimine Principum» (1938), Barnes & Noble, New York 1968.
27 H. Baron, «Machiavelli: The Republican Citizen and the Author of ‘The Prince», in English Historical Review, 76, 1961, pp. 217-51 (trad. it. in Id., Ma-
chiavelli autore del «Principe» e dei «Discorsi», Anabasi, Milano 1994, pp. 7-65). 28 Cfr. la notissima lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, in N. Machiavelli, Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1992, pp. 1158-60. 2° Cfr. N. Machiavelli, La vita di Castruccio Castracani da Lucca, in Id., Tutte le opere, cit.
30 Cfr. A. Negri, I/ potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno (1992), Manifestolibri, Roma 2002, pp. 84-85. 31 Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, 1.6, in Id., Tutte
le opere, cit., pp. 85-87. 32J.G.A. Pocock, The Machiavellian Moment. Florentine Political Thought and the Atlantic Republican Tradition, Princeton University Press, Princeton 1975 (trad. it. Il Mulino, Bologna 1980, p. 218). 3 Q. Skinner, The Foundations of Modern Political Thought, Cambridge University Press, Cambridge 1978 (trad. it. Il Mulino, Bologna 1999, p. 244). 2a ip oe29gI 3? N. Machiavelli, De principatibus, VII, in Id., Tutte le opere, cit., pp. 267-68.
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?© «Non si può ancora chiamare virtù ammazzare e’ sua cittadini, tradire gli
amici, essere sanza fede, sanza pietà, sanza religione; li quali modi possono fare acquistare imperio, ma non gloria. Perché, se si considerassi la virtù di Agatocle nello entrare e nello uscire de’ periculi, non si vede perché egli abbia ad essere iudicato inferiore a qualunque eccellentissimo capitano; nondimanco, la sua efferata crudeltà e inumanità, con infinite scelleratezze, non consentono che sia infra gli ec-
cellentissimi uomini celebrato. Non si può, adunque, attribuire alla fortuna o alla virtù quello che sanza l’una e l’altra fu da lui conseguito» (ivi, VIII, p. 269). 37 Machiavelli, Discorsi, cit., 11.13, p. 163.
38 Cfr. ivi, III.21, p. 227.
3° Cfr. ivi, II1.30, pp. 236-37; cfr. anche il feroce epigramma I, in Id., Tutte le opere, cit., p. 1005.
4° Cfr. Id., Discorsi, cit., II1.42, pp. 249-50.
41 Ivi, II1.41, p. 249.
4 Id., De principatibus, cit., XV, p. 280 (corsivo mio). # Cfr. Id., Discorsi, cit., 1.27, pp. 109-10 e 1.41, pp. 125-26. 44 Cfr. Id., De principatibus, cit., XVIII, pp. 282-84 (corsivo mio). ME RIBES
46 Machiavelli sostiene che gli uomini primitivi, che inizialmente vivevano isolati, cominciarono a raggrupparsi in seguito all’aumento della popolazione, e scel-
sero per capo «quello che fusse più robusto e di maggior cuore [...]. Da questo nacque la cognizione delle cose oneste e buone, differenti dalle perniziose e ree: perché, veggendo che se uno noceva al suo beneficatore, ne veniva odio e compassione intra gli uomini, biasimando gl’ingrati ed onorando quelli che fussero grati, e pensando ancora che quelle medesime ingiurie potevano essere fatte a loro; per fuggire simile male, si riducevano a fare leggi, ordinare punizioni a chi contrafacessi: donde venne la cognizione della giustizia» (ivi, 1.2, pp. 79-80). Se si confronta il passo con Polibio, Storie, VI, 5-7, si vede come questa sia la probabile fonte di Machiavelli, ma anche come la fonte sia reinterpretata. Polibio sottolinea la spontaneità e la naturalità della selezione dei capi che emergono dalla massa, mentre Machiavelli sostiene che gli uomini li scelgono. E in Machiavelli non ci sono riferimenti all’ontogenesi e alla famiglia, cosicché la morale risulta una costruzione politica: ‘buono’ viene ad identificarsi con fedele al sovrano. La morale non viene ‘scoperta’ quanto'inventata. 47 Cfr. P.P. Portinaro, I/ realismo politico, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 9.
4 Cfr. ivi, pp. 14-15: # Iviipallo
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l
50 Anche su questo punto mi distanzio dalla nozione di realismo politico proposta da Portinaro, ivi, in part. pp. 104-10. 51 Su questo aspetto mi pare illuminante la ricostruzione di Portinaro (ivi, GIL È 52 Cfr. ad esempio F. Rigotti, L'onore degli onesti, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 26-27.
5 «L'onore delle persone pubbliche e delle persone politiche risiede nell’essere fedele a un ideale e a delle convinzioni, avvenga quello che avvenga» (ivi, p. 37).
34 Ivi, p.74.
55 Cfr. B. Constant, De la liberté des anciens comparée è celle des modernes (1819), in Id., Ewvres, a cura di A. Roulin, Gallimard, Paris 1957 (trad. it. Einaudi, Torino 2001); I. Berlin, Four Essays on Liberty, Oxford University Press, Oxford 1969 (trad. it. Feltrinelli, Milano 1989). 56 Machiavelli, Discorsz, cit., I.16, pp. 100-101.
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57 Cfr. ivi, IL.2, pp. 148-50; Q. Skinner, «Machiavelli on the Manteinance of Liberty», in Politics, XVIII, 1983; Id., The Idea of Negative Liberty: Philosophical
and Historical Perspectives, in R. Rorty, J.B. Schneewind, Q. Skinner (a cura di), Philosophy in History. Essays on the Historiography of Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1984; Id., The Paradoxes of Political Liberty, in S. MeMurrin (a cura di), The Tanner Lectures on Human Values, vol. VII, The Uni-
versity of Utah Press-Cambridge University Press, Salt Lake City-Cambridge 1986; Id., The Republicanism of Political Liberty, in G. Bock, Q. Skinner, M. Viroli (a cura di), Machiavelli and Republicanism, Cambridge University Press, Cambridge
1990; Id., Liberty before Liberalism, Cambridge University Press, Cambridge 1998 (trad. it. Einaudi, Torino 2002).
58 Ivi, p. 18. 59 Ivi, p. 32.
60 Ivi, pp. 46-47. 61 Ivi, p. 47, nota 27. 62 Cfr. P. Pettit, Republicanism. A Theory of Liberty and Government, Oxford University Press, New York 1997 (trad. it. Feltrinelli, Milano 2000, pp. 47-54). 6 Pettit propone anche un’interpretazione del motivo per cui la concezione repubblicana è stata abbandonata dal liberalismo moderno in favore della libertà negativa. Quest'ultima concezione avrebbe avuto largo corso fra gli oppositori dell’indipendenza delle colonie americane, come John Lind, che in base ad essa
avrebbero avuto buon gioco di sostenere che la libertà dei coloni è la stessa goduta dagli altri sudditi britannici, compresi quelli che eleggono il parlamento. E la concezione negativa sarebbe stata resa accettabile ai liberali per opera di Jeremy Bentham, che l’avrebbe adottata in virtù del suo universalismo e del suo egualitarismo. Pettit rileva che i pensatori repubblicani, in realtà, implicitamente o esplicitamente consideravano quale soggetto della libertà (come non-dominio) un’élite ristretta, «i maschi benestanti della cultura dominante che di fatto costituivano la
cittadinanza» (ivi, p. 63). Se, coerentemente con i nuovi ideali egualitari, l'ambito della cittadinanza viene esteso a tutti gli individui adulti, l'ideale repubblicano — è questa, in particolare, la tesi diJohn Paley — diviene un ideale troppo esigente: è allora opportuno ripiegare sulla libertà come non-interferenza. 6 Cfr. M. Rosati, «La libertà repubblicana», in Filosofia e questioni pubbliche, V, 2000, 1.
6 Riprendo questi temi da D. Zolo, I principato democratico, Feltrinelli, Milano 1992; Id., La strategia della cittadinanza, in Id. (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 35-39. 66 Cfr. E. Santoro, «Per una concezione non individualistica della autonomia
personale», in Rassegna italiana di sociologia, XXXII, 1991, 3, pp. 268-311. 67 Pettit, Republicanism, trad. it. cit., pp. 223-24.
6 Cfr. M. Sandel, Derzocracy's Discontent. America in Search of a Public Philosophy, Belknap, Cambridge (Mass.), pp. 25-26. 6° Skinner precisa che: «Invece di mettere in relazione la libertà con le opportunità di azione — come nelle teorie neo-romane e in quelle liberali — la concezione ‘positiva’ mette in relazione la libertà con il compimento di azioni di un determinato tipo» (Skinner, Liberty before Liberalism, trad. it. cit., p. 72, nota 22). 7° Pettit, Republicanism, trad. it. cit., p. 101.
71 Ivi, p. 151.
72 Ivi, pp. 119-20. ? Cfr. I. Carter, «Una critica della libertà come non-dominio», in Filosofia e
questioni pubbliche, VI, 2001, 2; B. Casalini, «La costituzione della libertà repub-
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blicana», in Iride, XIV, 2001, 33; cfr. anche C. Altini, «Repubblicanesimo. Note in
margine a ‘Una teoria della libertà e del governo’ di Philip Pettit», in Filosofia politica, XV, 2001, 2. Se Cfr. ad esempio M. Barberis, Libertà, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 41-57, -42.
7 È chiaro che su questo punto condivido la posizione espressa da R. Bellamy in Liberalism and Pluralism. Towards a Politics of Compromise, Routledge, London 1999; cfr. par. 1.4.2. 7° Pettit, Republicanism, trad. it. cit., p. 162.
7 Ivi, p. 151. 78 Ivi, p. 20. 7? Skinner, Liberty 80 Ivi, p. 70.
before Liberalism, trad. it. cit., p. 67.
8! Carter, «Una critica della libertà come non-dominio», cit., pp. 208-209. 82 Skinner, Liberty before Liberalism, trad. it. cit., p. 74. 83 F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral (1887), in Id., Werke, a cura di G. Colli, M. Montinari, De Gruyter, Berlin 1968 (trad. it. in Opere, a cura di G. Colli, M. Montinari, Adelphi, Milano 1968, vol. VI.2, p. 221). 84 Skinner, Liberty before Liberalism, trad. it. cit., pp. 75-76. 8 Cfr. D. Held, Models of Democracy, Polity Press, Cambridge 1987 (trad. it. Il Mulino, Bologna 1989). 86 Cfr. Zolo, La strategia della cittadinanza, cit.; G. Zincone, Da sudditi a cittadini. Le vie dello stato e le vie della società civile, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 8, 12-22 passim.
81 Cfr. ivi, pp. 63-76.
88 Cfr. Zolo, I/ principato democratico, cit. 8° Cfr. N. Bobbio, I/ futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984.
®° Cfr. Zolo, I/ principato democratico, cit., in part. i capp.4 ed. 91 Cfr. P.P. Portinaro, La rondine, il topo e il castoro, Marsilio, Venezia 1993.
2 Cfr. J. Cohen, «An Epistemic Conception of Democracy», in Ethics, XCVII, 1986, pp. 26-38; Id., Deliberation and Democratic Legitimacy, in A. Hamlin, P. Pettit (a cura di), The Good Polity, Blackwell, Oxford 1989; J. Cohen, J. Rogers, Associations and Democracy, Verso, London 1995; J. Elster (a cura di), Delibera-
tive Democracy, Cambridge University Press, Cambridge 1998. 9 Cfr. J. Habermas, Volkssouverdnitàt als Verfabren (1988), ora in Id., Faktizitàt und Geltung, cit. (trad. it. in Morale, diritto, politica, Einaudi, Torino 1992).
% Cfr. Habermas, Faktizitàt und Geltung, trad. it. cit., pp. 342-65. Habermas si riferisce a Bobbio, I/ futuro della democrazia, cit. 9 Habermas, Faktizitàt und Geltung, trad. it. cit., p. 359.
9 Ivi, p. 354. 9 Ivi, p. 389. 98 Ivi, p. 426. 9 Ivi, p. 425. 100 Ivi, p. 432. 101 Ivi, p. 435. 102 Ivi, p. 440. 103 Ivi p, 451. 104 Ivi, p 223.
105 Pettit, Republicanism, trad. it. cit., p. 222.
106 Ivi, p, 242.
107 Ivi, p. 224. 108 Cfr. ivi, pp. 224-39.
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109 Cfr. Portinaro, La rondine, il topo e il castoro, cit., pp. 97-102. 110 È da rilevare che anche la discussione partecipata sui temi ‘globali’ sembra trovare la sua sede più adeguata nella politica cittadina e i suoi interlocutori istituzionali soprattutto in quei governi municipali e territoriali che avviano esperienze di cooperazione decentrata.
Capitolo quinto 1 Cfr. Aristotele, Politica, 1292a-1293a; 1295a-1296b; è opportuno rilevare che
in Aristotele entra in gioco anche la questione del rapporto fra attività produttive e agire pratico (pòzesis e pràxis), segmentazione sociale, disponibilità di tempo ‘libero’ dal lavoro per la politica: le peggiori forme di democrazia, quelle più lontane dall’ideale del governo della legge, sono quelle in cui l’istituto della rzisthophoria permette anche ai lavoratori di partecipare all’assemblea; le migliori sono quelle delle polis di contadini, che hanno poco tempo per la politica e si lasciano governare dal ceto medio. Cfr. anche Platone, Politico, 300c-303b. 2 M. Tullio Cicerone, Pro Cluentio, 53,146, in Id., Le orazioni, a cura di G. Bellandi, vol. II, Utet, Torino 1981; Id., De Re Publica, III, 22, 33; Id., De legibus, I, 16, 43-44, in Id., Opere politiche e filosofiche, a cura di L. Ferrero e N. Zorzetti, Utet, Torino 1978, vol. I. 3 Cfr. P. Costa, Lo Stato di diritto: un’interpretazione storica, in P. Costa, D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Feltrinelli, Milano 2002; I. Kant, Die Metaphysik der Sitten (1797), in Id., Gesammelte Schriften, vol. VI, Reimer, Berlin 1907 (trad. it. Laterza, Bari 1970, pp. 149, 153-54, 175-76). 4 Cfr. N. Bobbio, Orgaricismo e individualismo: un’antitesi, in A.M. Petroni, R. Viale (a cura di), Individuale e collettivo. Decisione e razionalità, Cortina, Milano 1992. > Riemergono qui classici temi aristotelici: accanto all’idea della naturale diffe-
renza nelle attitudini umane al comando e alla deliberazione, la tesi dell’incompatibilità fra funzioni produttive e politica, fra pòzesis e pràxis. La deliberazione politica è monopolio dei nobili in quanto hanno a disposizione tempo libero, sono ricchi e dunque cointeressati alle sorti della repubblica mentre il popolo è incapace di intraprendere autonomamente l’iniziativa politica. Attribuire al popolo la facoltà di dibattere significa cadere in «una grande anarchia come quella di Atene» (cfr.J. Harrington, The Commonwealth of Oceana, inJ.G.A. Pocock, a cura di, The Political Works ofJames Harrington, Cambridge University Press, Cambridge 1977 (trad. it. Franco Angeli, Milano 1985, pp. 230 sgg.). Le repubbliche ‘ornate con la loro aristocrazia’, e cioè Sparta, Roma e Venezia, sono contrapposte e preferite a quelle a tendenza ‘plebea’ come Atene, la Svizzera e l'Olanda. 6 Cfr. Aristotele, Politica, 1295a-1296b. ? Cfr. Harrington, The Commonwealth of Oceana, trad. it. cit., p.95. Del resto questa impostazione è segnalata fin dalle prime pagine dei Prelimzinari: Harrington ripropone l’apologia della democrazia dei contadini di Po/. 1318b-1319b. Sono tali democrazie, caratterizzate da una scarsa partecipazione alle assemblee, le meno esposte «ai tumulti ed ai rivolgimenti» (Harrington, The Commonwealth of Oceana, trad. it. cit., p. 163). 8 Come è noto, Kant formula un ‘principio pratico della ragione’ secondo il quale «si deve ubbidire al potere legislativo attualmente esistente, qualunque possa esserne l’origine». Anche di fronte a gravi atti dispotici da parte del potere sovrano, che mettano in questione la stessa struttura costituzionale, non è legittima
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la sollevazione popolare: «il suddito può a quest’ingiustizia opporre bensì querela (gravamina) ma nessuna resistenza». Kant non solo esclude ogni diritto di ‘insurrezione’, ‘ribellione’, ‘tirannicidio’, perché «il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere» (Kant, Die Metapbysik der Sitten, trad. it. cit., p. 149); non è neppure ammessa una ‘resistenza attiva’ mediante manifestazioni pubbliche che vadano al di là della mera opposizione parlamentare: «non è neppure permessa alcuna resistenza attiva (per mezzo della quale il popolo arbitrariamente riunito costringerebbe il governo a seguire una certa condotta e in conseguenza farebbe esso stesso atto di potere esecutivo), ma soltanto una resistenza regativa, vale a dire un rifiuto del popolo (nel parlamento) di consentire sempre a ciò che il governo domanda sotto il pretesto del bene dello Stato» (ivi, p. 153). ? Cfr. ad esempio J.G.A. Pocock, The Machiavellian Moment. Florentine Political Thought and the Atlantic Republican Tradition, Princeton University Press, Princeton 1975 (trad. it. Il Mulino, Bologna 1980, pp. 396-401, 721-79, 805-19, 877, 887 sgg.). 1° M. Viroli, Machiavelli, Oxford University Press, Oxford 1998, p. 125 (corsivo mio).
11 Ivi, p.127.
12 Per criticare l’interpretazione che Viroli dà del repubblicanesimo machiavelliano come ispirato all’ideale del governo della legge sarebbe agevole citare il XVIII capitolo del Principe, dove Machiavelli si riferisce a «dua generazioni di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza. Quel primo è proprio dell’uomo, quel secondo delle bestie: ma perché il primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo» (N. Machiavelli, De principatibus, XVIII, in Id., Tutte le ope-
re, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1992, p. 283). Oppure si potrebbe addurre il XTI capitolo: «e perché non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge, io lascerò indrieto el
ragionare delle legge e parlerò delle arme» (ivi, p. 275). Del resto,'èdiscutibile che il saggio gentiluomo delle Istorze fiorentine (III.5, in Id., Tutte le opere, cit., pp. 69395) rappresenti esaustivamente il punto di vista di Machiavelli. Si potrebbe sostenere altrettanto legittimamente che sia l’egualitarismo nichilistico del ciompo (ivi, III.13, pp. 701-702) a dare voce alla teoria machiavelliana. 13 Cfr. G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell'età moderna, Laterza, Roma-Bari 1995.
14 Cfr. Machiavelli, De principatibus, cit., IX, p. 271 (cfr. par. 1.4.1). 55 Id., Discorsi, cit., 1.18, p. 103. .
16 «Non è el frutto della libertà, né el fine al quale le furono trovate, che ognuno governi, perché non debbe governare se non chi è atto e lo merita, ma la osservanza delle buone leggi e buoni ordini, le quali sono più sicure nel vivere libero che sotto la potestà di uno o di pochi» (F. Guicciardini, Ricordi, C 109, in Id., Opere, Utet, Torino 1970, p. 759). 17 Cfr. Machiavelli, Discorsi, cit., 1.55, pp. 137-38. 18 «E benché noi mostrassimo altrove, come le inimicizie di Roma intra il Sena-
to e la Plebe mantenessero libera Roma, per nascerne, da quelle, leggi in favore dalla libertà; e per questo paia disforme a tale conclusione il fine di questa legge agraria; dico come, per questo, io non mi rimuovo da tale opinione: perché gli è tanta l'ambizione de’ grandi, che, se per tali vie ed in vari modi ella non è in una città sbat-
tuta, tosto riduce quella città alla rovina sua. In modo che, se la contenzione della legge agraria penò trecento anni a fare Roma serva, si sarebbe condotta, per avventura, molto più tosto in servitù, quando la plebe, e con questa legge e con altri suoi appetiti, non avesse sempre frenato l'ambizione de’nobili. Vedesi per questo ancora, quanto gli uomini stimano più la roba che gli onori» (ivi, 1.37, p. 120).
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19 Ivi, 1.2, p. 80.
20 «Se, adunque, si ragionerà d’un principe obligato dalle leggi, e d’uno popolo incatenato da quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel principe: se si ragionerà dell’uno e dell’altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel principe; e quegli minori, ed aranno maggiori rimedi» (ivi, L58, p. 141). L'opzione ‘popolare’ di Machiavelli emerge in modo netto anche in quello che appare come il suo scritto più ‘moderato’: il Discursus florentinarum rerum rivolto a papa Leone X, in cui Machiavelli delinea per Firenze un possibile modello costituzionale di transizione che prevede la rivitalizzazione delle istituzioni repubblicane sotto una sorta di protettorato a termine dei Medici. Qui Machiavelli si ispira indubbiamente all’ideale del ‘governo misto’, ma lo declina in senso filopopolare. In particolare, propone la riapertura della ‘sala’ del consiglio grande, l’istituzione-cardine e il luogo-simbolo della repubblica popolare fiorentina. Propone cioè il massimo di democrazia possibile nelle condizioni date: cfr. N. Machiavelli, Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, in Id., Tutte le opere, cit., p. 29. 21 «Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma; perché da’ Tarquinii a’ Gracchi, che furono più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio e radissime sangue» (Machiavelli, Discorsi, cit., 1.4, p. 82). 22 In più luoghi delle Istorie fiorentine la ‘licenza’ popolare è condannata alla stregua dell’‘ambizione’ dei grandi e la divisione in sètte appare come il motivo fondamentale di degenerazione della vita civile. Per un’interpretazione opposta cfr. F. Del Lucchese, « Disputare’ e ‘combattere’. Modi del conflitto nel pensiero politico di Niccolò Machiavelli», in Filosofia politica, XV, 2001. 2 Machiavelli, Istorie fiorentine, cit., I1.12, p. 666. 24 A. Ferguson, Ax Essay on the History of Civil Society (1767), Edinburgh University Press, Edinburgh 1966 (trad. it. Laterza, Roma-Bari 1999, p. 237). 2 Cfrivi, pp. 120-21. 26 Cfr. ivi, pp. 206, 241.
27 Ivi, p. 241:
28 Cfr. Costa, Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto, cit., pp. 111-20. 2° Cfr. ad esempio D. Held, Citizenship and Autonomy, in Id., Political Theory and the Modern State, Stanford University Press, Stanford 1989.
3° Cfr. Rechts und it. Guerini 21 Cfr.
J. Habermas, Faktizitàt und Geltung. Beitrige zur Diskurstheorie des des demokratischen Rechtsstaats, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1992 (trad. e Associati, Milano 1996, pp. 148-49). J.M. Barbalet, Citizenship, Open University Press, Milton Keynes 1988
(trad. it. Liviana, Padova 1992); D. Zolo, La strategia della cittadinanza, in Id. (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994,
pp. 35-39. Critica dell’eccessiva proliferazione dei diritti è la scuola della law and economics: cfr. ad esempio R.A. Posner, Economic Analysis of Law, Little, Brown, Boston 1986?. 32 Cfr. ad esempio F. Vertova, Cittadinanza liberale, identità collettive, diritti sociali, in Zolo (a cura di), La cittadinanza, cit.; S. Holmes, C.S. Sunstein, The Cost of Rights: Why Liberty Depends on Taxes, Norton, New York-London 1999 (trad. it. Il Mulino, Bologna 2001).
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? Cfr. E. Wolgast, The Grammar of Justice, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1987 (trad. it. Editori Riuniti, Roma 1991). 24 Cfr. Habermas, Faktizitàt und Geltung, trad. it. cit., p. 505; A. Honneth,
Kampf um Anerkennung. Zur moralischen Grammatik sozialer Konflikte, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1992. 35 Cfr. Bowers vs. Hardwick, U.S. 186 (1986). Michelman basa la tutela della libertà sessuale sulla considerazione che proibire l'omosessualità significa inibire «una modalità o delle modalità di esistenza che costituiscono e caratterizzano la personalità». In questo modo si impedisce lo sviluppo di «un aspetto dell’identità che domanda rispetto» (F. Michelman, «Laws Republic», in The Yale Law Journal, XCVII, 1988, 8, p. 1533) negando così la cittadinanza a determinati individui. In questa prospettiva la privacy viene valorizzata in quanto diritto politico: tale «fertilizzazione incrociata della nozione costituzionale-legale di autonomia — la semplice libertà personale — con il valore della libertà di associazione ispirato al primo emendamento rappresenta esattamente quella propensione repubblicana verso i diritti che collega il personale e il politico». In questa prospettiva la privacy non è vista «soltanto come un fine (per quanto controverso) di liberazione da parte del diritto ma anche come il principio costante e rigenerativo — giusgenerativo — di tale liberazione. L'argomento fornisce il collegamento fra privacy e cittadinanza» (ivi,
p. 1535). 36 Ivi, pp. 1499-500.
37 Cfr. ivi, pp. 1502, 1513.
38 Cfr. L. Ferrajoli et a/., Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 18-22, 145-50, 318-32.
3° Cfr. Habermas, Faktizitàt und Geltung, trad. it. cit., pp. 307-308.
40 Ivi, p. 309.
41 Cfr. B. Ackerman, «The Storr Lectures: Discovering the Constitution», in The Yale Law Journal, XCIII, 1984; Id., We the People, vol. I, Foundations, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1991.
4 Michelman, «Law's Republic», cit., p. 1521.
4 Ivi, p. 1530.
44 Cfr. Bowers vs. Hardwick, cit. Secondo l’opinione di maggioranza non vi è
alcun diritto a comportamenti sodomitici da parte di omosessuali: la sodomia è stata proibita da ‘millenni di insegnamento morale’, dalla corzzzon law e dalle leggi penali in moltissimi Stati, e comunque la maggioranza della popolazione, attraverso le procedure democratiche, ha il diritto di imporre la sua concezione della decenza morale. D'altra parte, prosegue la lead opinion, la Corte suprema non può arrogarsi un ruolo illegittimo di innovazione legislativa. Sul tema cfr. R. Dworkin, «Liberal Community», in California Law Review, LXXVII, 1989, 3 (trad. it. in A. Ferrara, a cura di, Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 1992, 218).
i
4 C. Sunstein, «Beyond the Republican Revival», in The Yale Law Journal,
XCVII, 1988, 8, p. 1539.
46 Da questo punto di vista la posizione di Michelman e Sunstein si differenzia da quella espressa da Bruce Ackermann con la sua teoria della legiferazione a ‘due binari”. Sul tema cfr. B. Casalini, Sovranità popolare, governo della legge e governo dei giudici negli Stati Uniti d'America, in Costa, Zolo (a cura di), Lo Stato di dirit-
to, cit. 4 Cfr. A.V. Dicey, Introduction to the Study of the Law of the Constitution (1885), Liberty Fund, Indianapolis 1982; E. Santoro, Rule of law e ‘libertà degli in-
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glesi. L’interpretazione di Albert Venn Dicey, in Costa, Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto, cit.
48 (trad. 49 staats,
Cfr. F.A. von Hayek, Law, Legislation and Liberty, Routledge, London 1977 it. Il Saggiatore, Milano 1994). Cfr. D. Grimm, Der Wandel der Staatsaufgaben und die Krise des Rechtsin Id., Die Zukunft der Verfassung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991.
50 Il libro di M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società taransnazionale, Il Mulino, Bologna 2000, che propone un’accurata ricognizione di questi processi, mi sembra eccessivamente ottimistico nella loro valutazione. 51 Cfr. ad esempio G. Zagrebelsky, I/ diritto mite, Einaudi, Torino 1992 (ri-
prendo il termine ‘diritto duttile’, a mio parere più felice, dalla traduzione spagnola del libro: E/ derecho diictil, Trotta, Madrid 1995).
52 Cfr. B. Leoni, La libertà e la legge, Liberilibri, Macerata 1994, pp. 95-99. 53 «Il nostro Stato, invece, non è frutto della creazione personale di un solo uomo, ma di moltissimi: non è stato fondato nel corso della vita di un individuo, ma
nel corso di una serie di secoli e di generazioni. perciò egli diceva che non c’è mai stato al mondo un uomo così intelligente da prevedere tutto e anche se si riuscissero a concentrare tutti i cervelli nella testa di un solo uomo, sarebbe impossibile per costui provvedere a tutto nello stesso tempo senza avere l’esperienza che viene dalla pratica di un lungo periodo di storia» (M. Tullio Cicerone, De Re Publica, Gli),
54 «Ma vegnamo a Roma; la quale, nonostante che non avesse uno Licurgo che la ordinasse in modo, nel principio, che la potesse vivere a lungo libera, nondimeno furo tanti gli accidenti che in quella nacquero, per la disunione che era intra la Plebe ed il Senato, che quello che non aveva fatto uno ordinatore, lo fece il caso» (Machiavelli, Discorsi, cit., 1.2, p. 81).
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Indici
se
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ge Di
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Indice dei nomi
Ackerman, B., 10, 21, 128, 137, 163. Agatocle, 96. Albertini, R. von, 148. Altini, C., 1598.
Boccalini, T., 85. Bock; G., 136, 138, 150, 158.
Bodin, J., 13. Borgia, C., 96.
Anderson, B., 143. Annibale Barca, 96. Arangio-Ruiz, V., 150.
Bossi, U., 149. Botero, G., 85, 155.
Archibugi, D., 145.
Carter, I., 158-959.
Arendt, H., 19, 86, 88. Aristotele, 14, 16, 118-19, 137, 139, 160.
Casadei, T., xxvII, 137, 141, 144. Casalini, B., XXVII, 135, 158, 163.
Bacon, F. (Bacone), 31. Baczko, B., 139. Baker, K., 136. Barbalet, J.M., 46, 145, 162. Barber, B., 10, 136. Barberis, M., 158. Barbeyrac, J., 4. Baron His 155; Bauer, J.R., 152. Bauman, Z., IX e n, X, XIV, 146. Baylin, B., 3, 135. Beck, U., vIn. Bell, D.A., 152.
Bellamy, R., XXVI-XXVHI, 26-30, 67, 140-41; 150, 156, 159.
Bellandi, G., 160. Belvisi, F., 147, 151. Bentham, J., 158. Berlin, I., 7, 99, 101, 104, 106, 139, 15% Blom, H.W., 136. Bobbio, N., 68, 81, 150, 154-55.
Cassese, A., 15051. Castiglione, D., XXVII-XXVII. Castracani, C., 92, 156. Catone il Censore, 132. Cattaneo, C., 18, 58, 60, 148. Cazzaniga, G.M., XXVII. Cerutti, F., 146, 149.
Chabod, F., 156. Cicerone, M.T., 18, 56, 100, 115, 148, 160, 164.
Cohen, J., 159. ColliG#159. Comba, A., 148.
Constant, B., 99, 101, 139, 157. Contarini, G., 18. Contini, G., 147. Copernico, 93. Cornell, D., 10. Costa, Paolo, 136. Costa, Pietro, XXVII-XXVII, 145, 154, 160, 162-64.
Court,J. de la, 18. Court, P. de la, 18. Cristofolini, P., 156.
Croce, B., 136, 156. Cusa, N. da (Cusano), 31.
Dahl, R., VI, 137. Dahrendorf, R., 47, 146, 151. Dante Alighieri, 31, 147. De Felice, R., 60. Del Lucchese, F., xXVII, 140, 162. De Negri, E., xIvn. De Robertis, D., 149. De Robertis, G., 149. Descartes, R., 32. Dicey, A.V., 130, 163-64. Dunn, J., 5, 135-36, 138, 142-43.
Duns Scoto, G., 31. Dworkin, R., 10, 21, 40, 49-50, 71, 78, 128, 146, 150, 163.
Giddens, A., 147. Gilbert, A.H., 156. Gilbert, F., 3, 135. Gioberti, V., 58. Gioia, M., 74, 148. Giovanni de’ Medici, detto Dalle Bande Nere, 148. Giovanni XXII, papa, 69. Gramsci, A., 59. Grandi, T., 148. Greco, T., XXVII. Grimm, D., 130-31, 164. Groot, H. van (Grozio), XVII, 4. Guarini Fasano, E., 136. Guicciardini, F., 4, 15, 24, 85, 119, 135, 140, 161.
Habermas, J., XII, XXI-XXI, 13-14, Faston, D., 86. Elster, J., 159.
16, 27, 47-51, 71-73, 87-90, 109-
Ely,J., 10.
1511-52, 155=579159,, 162263?
Engels, F., 30.
Feinberg, J., 81, 154. Ferguson, A., XXI, 15, 80, 140, 154, 123, 162-63.
Ferrajoli, L., xXvm, 46, 69, 123, 1A515.0-52M55AL00I Ferrara, A., XXVII, 21, 136, 138-39,
13, 125-26, 137-38, 141, 146-47, Hamlin, A., 159. Hampshire, S., 141. Hardt, M., 30-31, 33-36, 141-43. Harrington, J., 3, 11, 16, 18, 24-25, 32-33, 84-85, 100, 119, 130, 14041, 155.
Ferrarese, M.R., vIun, xIIn, 164. Ferrero, L., 148, 160.
Hart, H.L.A., 81, 154. Hayek, F.A. von, 21, 27, 140. Hegel, G.W.F., xIvn, 32. Held, D., 145, 159, 162. Hobbes, T., xxII, 7, 15-16, 25, 35,
Fini, G., 149. Emles4Sh83 4185)
Hobsbawm, E.J., 143.
Finnis, J.,71, 154. Foscolo, U., 147-48, 156. Foucault, M., 19, 105, 141.
Holmes, S., 162. Honnet, A., 126, 163. Hussein, S., 145. i
Galilei, G., 31, 147.
Iacono, A.M., 32. Ihering, R. von, 80.
143, 146, 149, 151, 156, 163.
Galli della Loggia, E., 60, 149. Garibaldi, G., 58-59. Garin, M., 156. Gellner, E., 143. Geuna, M., xxVII, 15, 24, 136, 138, 140. Giannotti, D., 18.
70, 80, 82, 84, 91, 100.
Jonas, H., 109.
Kant, I., XVI, 26, 32, 118, 1417145, 160-61.
Kennedy, R., 10.
Koler, M., 145.
—
Kuhn, T., XVI e n, 93, 95. Larmore, C., 21. Latini, B., 85. La Torre, M., 154-55. Lee Kuan Yew, 72. Lenin (V.I. Ul’janov), 33. Leoni, B., 130, 132, 164. Leopardi, G., 149. Lind, J., 158. Livio, T., 18, 100, 140, 156. Locke, J., 4,41, 112,135, 138. Lorenzetti, A., 14, 138. Luhmann, N., xIn, 19, 47, 105, 140.
Mably, G. Bonnot de, 136. MacCormick, N., 81, 154. Machiavelli, N., XIX-XX, XXI-XXV, 3, 14-19, 22-25, 27, 29-32, 34-36, 52-53, 56-57, 60, 64, 80, 84-86, 90-98, 118, 120-24, 132-33, 135-
40, 143, 147-48, 150, 153, 155-58, 161-62, 164. MacIntyre, A., XVII, 6, 17, 41, 55, 136, 143, 149-50.
Madison, J., 89. Marini, G., 145. Marshall, T.H., 45-46, 145. Marsilio da Padova, 31. Martelli, M., 138, 153, 156, 161.
Marx, K., 30-32, 34. Mazzarese, T., xXVI-XXVHII, 152. Mazzini, G., 18, 58, 148. McMurrin, S., 138, 158.
Medici, famiglia, 57, 85, 92-93, 95. Medici, L., 162. Meinecke, F., 156. Michelman, F., XVI, 10-13, 16, 515251 (579% 817 012629,C137-38, 147153163,
Milazzo, L., XXVII. Mill, J.S., 18. Montesquieu, Ch. de Secondat, barone di La Brède e di, 15, 24, 140. Montinari, M., 159.
More, T., 31. Mosè, 44,
Napoleone Bonaparte, 59, 147. Napolitano, G., 149. Negri, A., 30-36, 140-43, 150.
Nietzsche, F., 159. Nozick, R., 21. Ockham, W.,31. Ohmae, K., IX e n. O’Neill, O., 67...
Pagano, M., 18. Paine, T., 112. Panebianco, A., 149.
Parel, A.J., 139. Parsons, T., 47, 146. Passarini, P., 149. Passetti, C., 148. Pateman, C., 10. Peltonen, M., 135. Persano, P., XXVII. Petrarca; F., 56, 147. Petuta Pi VI, SIM 719219257 362 100-105 LME12:8133,135, 138, 158-959. Pii, E., 140. Pizzorno, A., 52-53,:60, 147. Pizzorusso, A., XXVII. Platone, 160. Pocock, J.G.A., XVI-XVII, XIX, 3-5, 1=128 194:18430. 1557 6610/4284, 91,:94-95, 99, 119, 1535-36, 138, 156, 161. Polibio, 97, 142, 157. Popper, K., 21. Portinaro, P.P., xxvI, 97-98, 157, 159-60. Poster, R.A., 162. Procacci, G., 91, 138, 156. Pufendorf, S., 4. Putnam, R., 56, 147.
Ramiro de Lorqua (Remirro de Orco), 96.
Rasmussen, D., 146.
Rawls; J3XX, 16,21, 26-27; 29:86, 90, 136, 138, 140. Reagan, R., 10. Resenblatt, H., 136. Rigotti, F., 157. Ripepe, E., XXVII. Rogers, J., 159. Rorty, R., 75-76, 138, 152, 158. Rosati, M., XXVI, 58-59, 148, 158. Rosselli, C., 59. Rouland, R., 151. Rousseau, J.-J., 4, 15, 18, 24, 33,
135-36. Rusconi, G.E., 51, 60, 62, 64, 14647,149. Russo, V., 148. Sallustio Crispo, G., 18, 100. Sandel, M., 6-10, 16,41,55, 67,102, 136-38, 143, 150, 154, 158.
Santoro, E., XXVI-XXVII, 158, 163. Sartori, G., VI. Sbarberi, F., 140. Schmitt, C., Ix.
Schneewind, J.B., 138. Schumpeter, J.A., VI, 107, 114.
Scoppola, P., 60. SenTASMDOZIO5.
Sidney, A., XXI, 15, 80. Sidney, P., 135. Silvestrini, G., 136. Skinner, Q., 5, 14-15, 17, 56, 67, 79, 84, 94-95, 99-101, 136-38, 143, 149-50, 156, 158-59.
Smith, A., 4, 135. Smith, A.D., 40, 143, 146.
Soderini, P., 96-97. Spinoza, B., XXI, 31, 80, 140, 156. Spriano, P., 148. Sternberger, D., 146. Stourzh, G., 3, 135. Strauss, L., 3.
Sunstein, C.S., XVI, 10, 12, 77, 79, 81, 89-90, 129, 133, 137, 153-54, 156, 162-63.
Taylor, C., XVII, 6, 41, 136, 143. Trasimaco, 98. Tuek#RE6150)
Tully, J., 79, 135-36, 154. Turco, L., 149.
Urbinati, N., XXVII, 6. Van Gelderen, M., 135-36. Vertova, F.P., XXVII. Vettori, F., 148, 156. Villari, R., 136, 148. Villey, M., 150, 154. VILEMSExvINeovi ng 21025: 62, 68, 85-86, 90, 92-93, 120-21, 1535=36713839146714950055: 158, 161. Vitoria, F. de, 69.
Wallace, G., 10. Walzer, M., 13, 27, 42-45, 52, 137, 140, 144-45.
Weber, M., 19, 27. Winch, D., 135. Wolgast, E., 163. Wood, G., 3, 135. Wootton, D., 136. Worden, B., 136.
Wright, T.K., 136. Zagrebelsky, G., 151, 164. Zanetti, G.F., XXVII. Zarka, Y.C., XXVI. Zincone, G., 159. Zolo, D., VI, XXVI-XXVII, 141-42, 158-60, 162-64. Zorzetti, N., 148, 160. Zuckert, M.P., 137, 150.
Indice del volume
Introduzione 1. Democrazia sotto stress, p. VI - 2. La crisi della politica e il diritto «à la carte», p. vm - 3. Uscire dalla gabbia d’acciaio?, p. XII - 4. Un’eredità teorica, p. XVI - 5. Machiavelli preso sul serio, p. XIX - 6. Alla ricerca di un ‘realismo repubblicano’, p. XxMI - Ringraziamenti, p. XXVII
. La tradizione repubblicana:
differenziazioni e interpretazioni 1.1. Attualizzazioni del repubblicanesimo: comunitarismo, diritto costituzionale, teoria del discorso, p. 5 - 1.2. Differenziazioni: ascendenze neoromane e concetti di libertà,
p. 14 - 1.3. Un’etica pubblica repubblicana?, p. 17 - 1.4. Il nodo del conflitto, p. 21 - 1.5. Repubblica e impero, p. 30
. Ragioni e torti dell’appartenenza 2.1. L'appartenenza fra liberalismo e comunitarismo, p. 39 2.2. Dimensioni della cittadinanza, p. 45 - 2.3. Cittadinanza repubblicana e conflitto sociale, p. 48 - 2.4. Identità italiana e tradizione repubblicana, p. 55
38
. Fondare i diritti?
66
3.1.1 paradossi dell’universalismo, p. 68 - 3.2. Diritti attivi, p. 76
84
. Realismo repubblicano 4.1. Fra ‘ragion di Stato’ e ‘politica deliberativa’, p. 84 - 4.2. Virtù politiche e valori morali, p. 91 - 4.3. Libertà e dominio, p. 99 - 4.4. Democrazia «ex parte populi», p. 107
175
. Governo della legge e governo degli uomini
116
5.1. Il governo della legge e gli ‘umori’ della cittadinanza, p. 118 - 5.2. Stato di diritto e ‘lotta per i diritti’, p. 124
Note
135
Bibliografia
165
Indice dei nomi
L71
Percorsi Laterza
. Roberto Finzi Civiltà mezzadrile . Franco De Felice La questione della nazione repubblicana . Luigi De Rosa Conflitti e squilibri nel Mezzogiorno tra Cinque e Ottocento
. . . . . . . .
Maria Luisa Silvestre - Adriana Valerio (a cura di) Donne in viaggio Lorena Preta (a cura di) Nuove geometrie della mente Pino Donghi (a cura di) Limziti e frontiere della scienza Stefano Allovio La foresta di alleanze Adriana Destro - Mauro Pesce Core nasce una religione Francesco Tateo (a cura di) Cinquant'anni di ricerca e didattica Guglielmo Forni Rosa I/ dibattito sul modernismo religioso Maria Immacolata Macioti Pellegrinaggi e giubilei Marco Careri - Raffaele Cattaneo (a cura di) Cambiare la Pubblica Amministrazione
. Pier Paolo Viazzo Introduzione all’antropologia storica . Carla Sabine - Kowohl De Rosa Storza della cultura tedesca fra «ancien régime» e Restaurazione
. Massimo Negrotti Artificiale. La riproduzione della natura e le sue leggi . Giandomenico Amendola (a cura di) Scenari della città nel futuro prossimo venturo LA Mario G. Losano Un giurista tropicale. Tobias Barreto fra Brasile reale e Germania ideale 18. Pino Donghi (a cura di) Aree di contagio 19. Vito Amoruso La letteratura americana moderna. 1861-1915 20-21. Raffaella Simili - Giovanni Paoloni (a cura di) Per una storia del
Consiglio Nazionale delle Ricerche, 2 voll.
. . . . . . .
Agata Piromallo Gambardella Le sfide della comunicazione Adriano Fabris (a cura di) I/ tempo dell’uomo e il tempo di Dio Francesco Bartolini Rozza borghese Mario G. Losano (a cura di) La legge italiana sulla privacy Umberto Artioli Pirandello allegorico Lucia Fanizza Senato e società politica tra Augusto e Traiano Rosario Villari (a cura di) Controllo degli stretti e insediamenti militari nel Mediterraneo
. Marco Folin
Rinascimento estense (versione on line)
. Anna Bravo - Margherita Pelaja - Alessandra Pescarolo - Lucetta Scaraffia Storia sociale delle donne nell'Italia contemporanea . Annamaria Sportelli (a cura di) Generi letterari . Stefano Ferrari Lo specchio dell’Io . Giovanni Battimelli - Michelangelo De Maria - Giovanni Paoloni L'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare
. Emanuele Narducci Lucaro. Un’epica contro l'impero . Marcello Fedele Il management delle politiche pubbliche . Leonardo Piasere L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia . Sara Bentivegna Politica e nuove tecnologie della comunicazione . Bruna Bocchini Camaiani, Ernesto Balducci La Chiesa e la modernità
. Pino Donghi (a cura di) La nuova Odissea . Luigi Biscardi - Antonino De Francesco (a cura di) Vincenzo Cuoco nella cultura di due secoli. Atti del Convegno Internazionale . Roberto Chiarini (a cura di) Quale Europa dopo l’euro . Valentina Pazé I/ concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea . Maria Luisa Maniscalco Sociologia del denaro
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Luca Baccelli (Lucca, 1960) è docente
di Filosofia e sociologia del diritto nell'Università di Pisa. Fra le sue opere, Praxis e poiesis nella filosofia politica moderna (Milano 1991) e //particolarismo dei diritti (Roma 1999). Per i nostri tipi ha collaborato ai volumi Diritti fondamentali (a cura di L. Ferrajoli, 2002?) e Le basi filosofiche del costituzionalismo (a cura di A. Barbera, 2003).
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