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Italian Pages 272 [274] Year 2023
ANNA MARIA URSO
Corpo
L’eredità dei Greci e dei Romani non comprende solo le tracce materiali della loro civiltà o gli splendidi frutti della loro arte e della loro letteratura: queste culture hanno consegnato all’Occidente anche un vocabolario per descrivere il mondo, catalogare le forme della vita associata, organizzare le avventure dell’intelligenza o la percezione del corpo e della natura. Ecco perché esplorare quel vocabolario significa per un verso guardare agli antichi da un osservatorio privilegiato, in grado di restituire l’immagine di una straordinaria esperienza storica, per l’altro riconoscere loro la funzione di interlocutori dei quali non possiamo fare a meno per pensare le grandi questioni del nostro tempo.
Prossime uscite: 6. Frontiera, Gianluca De Sanctis. 7. Mito, Donatella Puliga.
Le parole degli antichi
Collana diretta da Mario Lentano
Le parole degli antichi 5
Anna Maria Urso
Corpo Premessa di Mario Lentano
© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Le parole degli antichi ISSN: 2724-6086 n. 5 – novembre 2023 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-326-6 ISBN – Ebook: 978-88-5529-368-6 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Tiziano Vecellio, Venere allo specchio (1555), olio su tela, National Gallery of Art, Washington D.C.
A Paolo e Michela, giovani favolosi
Premessa
Corpi culturali e culture del corpo di Mario Lentano
«È ben vero», spiega Tristano al suo sempre più disorientato Amico, «che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo è l’uomo; perché (lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo». Chissà se Leopardi era consapevole, scrivendo queste parole così amaramente autobiografiche, di riprendere un motivo che taglia in modo trasversale la poesia dei Greci e dei Romani, quello che vedeva nel trascorrere del tempo – il tempo lungo della storia, non quello delle effimere esistenze individuali – un progressivo indebolirsi dei corpi, che diventavano progressivamente più piccoli e fiacchi, come rattrappendosi: se Omero, a proposito del masso che l’eroe gre-
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co Diomede si accingeva a scagliare contro il suo avversario Enea, precisava che due uomini dei tempi suoi non sarebbero stati in grado di sollevarlo, in Virgilio, mille anni più tardi, la distanza tra passato e presente si è ulteriormente accentuata e sono ben dodici i colli che non saprebbero caricarsi sulle spalle la roccia con la quale Turno minaccia di spacciare Enea. Mundus senescit, dicevano i medievali: e i corpi di chi lo abita condividono, generazione dopo generazione, il medesimo destino. Ci sono varie strade che si possono imboccare nell’esplorazione di un tema affascinante e immenso come quello del corpo, realtà universale e insieme chiave di accesso privilegiata alla cultura di ogni società umana. Per i Greci e i Romani, la miseria della condizione mortale si manifesta anzitutto nella natura vulnerabile del corpo: il testo più antico della letteratura occidentale, il poema della forza, come lo definì Simone Weil, si apre in realtà su un’immagine di debolezza senza rimedio, quella dei guerrieri achei che muoiono a decine per la peste scatenata da Apollo, la cui violenza senza scampo prende la forma concreta delle micidiali frecce scoccate dall’arco del dio; ma anche la battaglia, banco di prova degli eroi, è il luogo del repentino passaggio dal vigore dei
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corpi giovani e pieni di energia al destino freddo della morte, quando si sciolgono le ginocchia, le membra si abbattono nella polvere e l’anima ne fuoriesce insieme all’ultimo respiro. Di lì a poco, toccherà poi a Esiodo, il primo autore greco della cui esistenza storica possiamo essere certi, menzionare i morbi fuoriusciti dall’orcio di Pandora e diffusi ovunque nel mondo, che vagano sulla terra di notte e di giorno e colpiscono senza preavviso, perché Zeus ha tolto loro la voce, impedendo agli uomini di conoscerne per tempo l’arrivo: un’immagine che trasforma ogni malattia in un’imboscata. Del resto, anche il mito racconta, a suo modo e secondo le sue peculiari sintassi narrative, un’analoga storia di fragilità: che si tratti del Titano Prometeo che modella gli uomini a partire dal fango o del dio Efesto che plasma la prima donna sul paradigma delle dee immortali allo scopo di punire quegli stessi uomini, la creazione degli esseri umani è sempre un’opera di alto artigianato, in cui le figure divine coinvolte agiscono alla stregua di abili vasai. Storie che per un verso ricordano il ruolo centrale che la modellazione dell’argilla occupa nelle culture antiche, per l’altro restituiscono l’idea di vasi di coccio sempre a rischio di spezzarsi: una sorte
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non compensata da promesse mirabolanti di riscatti ultraterreni, in culture che prima del cristianesimo non hanno mai elaborato o condiviso un’immagine rasserenante e retributiva dell’oltretomba, concependo piuttosto i defunti come ombre inconsistenti, immerse in un buio perenne, in un paesaggio liquido e fangoso che sembra riportarle alla materia bruta dalla quale furono un tempo estratti gli uomini. Forse proprio perché consapevole della sua transeunte bellezza, la cultura aristocratica greca esalta la fisicità: sono i corpi dei giovani efebi che si allenano nudi nel ginnasio, le cui forme perfette suscitano il desiderio degli adulti che li guardano, o i corpi degli atleti che vincono a Olimpia e nelle altre competizioni panelleniche, orgoglio delle loro città, esaltati negli epinici chiamati a eternare la fama delle loro imprese. Achille non è solo il più valoroso tra i guerrieri venuti a bruciare la loro giovinezza sotto le mura di Troia, ma anche il più bello di tutti, mentre la viltà di un Tersite si riflette anche e in primo luogo nel carattere sgraziato del suo corpo deforme. Molto diversa è invece la relazione con il corpo nella cultura romana, che vede nella nudità così ampiamente praticata dai Greci un indizio di depravazione e per la quale il corpo è
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anzitutto quello del cittadino, avvolto dalla toga che si piega ripetutamente intorno alle membra e impone un movimento pausato e lento, coerente con la solennità che si addice a chi governa un impero, ma anche quello della matrona, non meno fasciato da un abito che scende sino ai talloni e nella sua natura di barriera tessile metaforizza la chiusura verso l’esterno di una carne il cui unico scopo è offrire la sede di riproduzione del corpo civico. Eppure, proprio questa realtà così precaria è annodata da una molteplicità di fili con il mondo del cielo. Anche se scontano sin da subito le prese di distanza del pensiero filosofico, e più tardi quelle della tradizione giudaico-cristiana, la religione greca e quella romana non hanno mai smesso di concepire il divino come corporeo – un corpo certo speciale, immune dall’elemento che più di ogni altro segna la vicissitudine degli involucri umani, la soggezione all’invecchiamento e alla morte, ma che per altri versi ne rappresenta un doppio, persino in aspetti come il bisogno di bere e di mangiare, la necessità di dormire, il desiderio sessuale, il parto e i suoi travagli. Né si tratta dell’unico nesso che lega i due mondi: i Romani sono convinti che ogni parte del corpo, anche la più apparentemente
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insignificante, sia presidiata da una specifica divinità – che a Giunone, ad esempio, siano sacre le sopracciglia –; d’altra parte, una dottrina che si diffonde in particolare a partire dall’età ellenistica mette in relazione i dodici segni dello zodiaco e i sette pianeti (comprensivi di Sole e Luna) con le parti del corpo sulle quali esercitano la loro influenza, stabilendo ad esempio che Marte, il pianeta consacrato al dio della guerra, abbia a che fare con le parti genitali, ma anche con i reni e con il sangue – rosso come l’astro celeste – e che governi la cicatrizzazione delle ferite. C’è il corpo della riflessione filosofica, di volta in volta prigione dell’anima, aggregato di atomi destinato alla dispersione dopo la morte, sede di una scintilla della medesima intelligenza divina che governa l’universo; il corpo della medicina, con i suoi umori e le sue quattro qualità costitutive, ma anche le sue distinzioni tra il maschile e il femminile e le sue teorie che naturalizzano il pregiudizio trasformando un dato sociale come la marginalizzazione della donna nel portato di una differenza che preesiste alle regole umane e le ispira; il corpo del diritto, con le sue puntuali segmentazioni volte a stabilire lo statuto giuridico del feto, ma anche con le regole che autorizzano o impongono la tortura o che chia-
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mano lo schiavo andrápodon, “uomo-piede”, riducendolo a carne senz’anima, buona solo per servire. Ma c’è anche il corpo che entra nelle pratiche dell’antropopoiesi, nelle forme di manipolazione che lo modificano, lo modellano, lo trasformano per allontanarlo dal dato inerte della sua naturalità e per questa via lo umanizzano, dalla fasciatura dei neonati alle tecniche della cosmesi sino alle regole sul trattamento del cadavere, in grado di fare del morto un oggetto culturale e di consentirne così l’ordinata espulsione dall’orizzonte umano e il corretto ingresso nella memoria individuale e collettiva. Potremmo continuare a lungo, percorrendo altri fili di una trama virtualmente infinita; ma la cortesia minima che una premessa deve usare al libro che introduce è quella di cedere ad esso tempestivamente la parola. Condotto dalle mani sicure e dalla penna scintillante di Anna Maria Urso, il lettore si imbarcherà in un viaggio vertiginoso popolato di umori fuori controllo e uteri che vagano attirati dagli odori, di eroi dalle proporzioni colossali e dèi che perdono sangue, di occhi che sprigionano dardi e ricette per l’ottimale tintura dei capelli, di bambini tessuti nei ventri delle loro madri e donne-talpa. Un viaggio di scoperte, di sorprese, a volte di spaesamen-
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ti, solo raramente di conferme: ma questo è in fondo ciò che si richiede perché valga davvero la pena di mollare gli ormeggi intellettuali e mettersi, una volta di più, nel mare aperto del pensiero umano.
I
Il corpo prima del corpo
1. In principio era il seme In principio era il seme, e di sicuro costituiva il contributo del maschio alla procreazione. Su questo gli antichi avevano le idee chiare, così come era loro chiaro che il terreno del suo attecchimento fosse il grembo della donna, tant’è che per i Greci assimilare ingravidamento e semina era naturale. Nel prologo delle Trachinie sofoclee, per esempio, Deianira lamenta le assenze prolungate del marito Eracle, paragonandolo a «un contadino che possiede un terreno fuori mano e lo visita solo quando semina e quando miete». Con la stessa naturalezza, la scienza antica sfruttava l’accostamento a fini didascalici, costruendovi sopra ragionamenti analogici. Quando il medico Sorano di Efeso, attivo a Roma sotto Traiano e Adriano e autore di un trattato considerato la bibbia della ginecologia
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antica, vuole sottolineare la necessità di preparare il corpo della donna all’accoppiamento in modo adeguato, propone un accostamento con la pratica dell’agricoltura: alla donna vanno praticati un’unzione e un massaggio defatiganti (sono le due manovre del trattamento detto in greco apotherapeía), così come un contadino purifica il suo campo, se vuole che la nuova semina abbia buon esito. Non altrettanto scontata appariva, invece, l’esistenza di un seme femminile, esistenza che, in un’epoca che non conosceva ancora né le ovaie né tanto meno la funzione che svolgevano, costituiva la necessaria premessa per riconoscere anche alla donna un ruolo attivo nella procreazione. In effetti, la definizione di tale ruolo costituiva una delle grandi questioni dell’embriologia antica, insieme al problema di individuare le cause della differenziazione sessuale dell’embrione. L’altra questione riguardava, invece, l’origine del seme e su questo, come scriveva nel III secolo d.C. il grammatico Censorino nella sua opera Il giorno natalizio, non vi era accordo tra «coloro che facevano professione di scienza». In effetti, i fisiologi antichi – ovvero quei pensatori presocratici che traevano il nome dall’avere nella natura (physis) il proprio
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campo d’indagine e di cui lo stesso Censorino di preoccupa di riassumere le posizioni, chiamandoli sapientiae professores – ne indicavano l’origine ora nel cervello, ora nel midollo, ora dal sangue, mentre altri lo credevano provenire dal corpo intero. L’apparente bizzarria di tali tesi non deve stupire, così come non deve sorprendere la riflessione sul presunto seme femminile. Con l’unica eccezione rappresentata dall’Egitto dei Tolemei del III secolo a.C., su cui torneremo più avanti, nel mondo antico la conoscenza dell’anatomia umana si limitò infatti a quanto si poteva desumere dalle ferite; quanto all’anatomia animale, a partire dalla quale, fino al Cinquecento inoltrato, si fu costretti a ricostruire quella umana, prima delle indagini condotte da Aristotele si conobbe solo ciò che emergeva dall’osservazione degli esemplari impiegati nei sacrifici. Ciò che non si poteva osservare veniva immaginato attraverso l’elaborazione di paradigmi teorici che si applicavano in modo dogmatico, a prescindere dai riscontri dell’esperienza, ed erano inevitabilmente condizionati dalla mentalità del tempo; la coerenza dei sistemi di pensiero in cui si inquadravano bastava a legittimare anche le ipotesi più fantasiose.
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Queste premesse giustificano il proliferare di teorie sull’origine del seme, così come le opinioni di quanti negavano alla donna ogni ruolo nella generazione, opinioni nelle quali è particolarmente evidente il condizionamento dell’idea preconcetta di una superiorità naturale del maschio sulla femmina, così radicata nella cultura antica. Quando nell’ultimo dramma della sua Orestea, andata in scena nel 458 a.C., Eschilo fa dire ad Apollo che «Colei che viene chiamata madre non è genitrice [tokeús] del figlio, bensì soltanto nutrice [trophós] del germe appena seminato in lei», aggiungendo che «È il fecondatore che genera» e che «ella, come ospite ad ospite, conserva il germoglio, se un dio non lo soffoca prima», il drammaturgo non ha escogitato una brillante trovata per difendere Oreste dall’accusa di aver ucciso sua madre Clitemnestra, né vuole metterlo al riparo dalla persecuzione delle Erinni, le dee vendicatrici dei crimini contro il proprio sangue; piuttosto, Eschilo chiama in causa una precisa teoria della generazione. E tale teoria doveva suonare familiare a quanti quel giorno, ad Atene, assistevano alla rappresentazione assisi nel teatro di Dioniso, quand’anche non sapessero, per esempio, che secondo Diogene di Apollo-
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nia, un discepolo del filosofo Anassimene, la donna un seme non lo aveva affatto, mentre il pitagorico Ippone, se questo è realmente il suo nome, credeva che lo avesse, ma del tutto improduttivo. Va detto che questa linea “negazionista” non è l’unica attestata nel pensiero antico. Democrito, il fondatore dell’atomismo, attivo anche lui nel V secolo a.C., credeva al contrario che la donna partecipasse alla procreazione con un proprio seme, e tale opinione era condivisa anche dall’autore delle più antiche opere embriologiche che ci siano pervenute integralmente, appartenenti alla Collezione ippocratica: i trattati Seme e Generazione (in realtà, due parti di un’unica operetta), insieme a Natura del bambino. Torneremo a nominare questo corpus eterogeneo, formato da oltre sessanta scritti di argomento medico, del quale si possono individuare quelli di epoca e pensiero ippocratico senza che però nessuno di essi sia ascrivibile con certezza al celebre medico di Cos. Qui basta ricordare brevemente la teoria “pangenetica”, esposta anch’essa nelle operette citate, che interpreta il seme come la parte più forte e più grassa della massa liquida dell’intero corpo: grazie al calore prodotto dai movimenti durante l’amplesso,
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per una sorta di processo di centrifugazione, tale parte si separerebbe dal resto sotto forma di schiuma e dal capo raggiungerebbe i genitali, passando per il midollo e i reni. L’autore ippocratico riconosce in entrambi i sessi i portatori sia del seme maschile sia di quello femminile; tuttavia, ancora una volta il pregiudizio sull’inferiorità della donna condiziona il ragionamento suggerendo un’asimmetria: il seme femminile (che finisce per identificarsi con il sangue mestruale) viene considerato più liquido e debole, quello dell’uomo più vischioso e forte. Secondo questa dottrina, il sesso del nascituro dipenderebbe dalla prevalenza (in greco epikráteia) dell’uno o dell’altro seme nella massa totale emessa da entrambi i genitori durante l’accoppiamento, e poiché «il maschio è più forte della femmina […] deve necessariamente derivare da un seme più forte», osserva l’autore applicando in modo dogmatico il paradigma, nonché il principio generale secondo cui il simile genera il simile. La superiorità del maschio orienta anche alcune interpretazioni della differenziazione sessuale elaborate dai presocratici. Parmenide, per esempio, il grande pensatore di Elea in Magna Grecia, vissuto nella prima parte del V seco-
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lo a.C., ritiene che la determinazione del sesso sia legata al luogo di provenienza del seme, la parte destra del corpo per quello maschile, la sinistra per quello femminile. Declinando un’opposizione di valore sinistro/destro caratteristica del pensiero antico, ma diffusa in moltissime culture, Parmenide attribuisce infatti una preminenza alla parte destra, in quanto caratterizzata da maggiore forza e calore. Analogamente, secondo il filosofo agrigentino Empedocle il nascituro sarà maschio se al momento del concepimento l’utero è caldo, femmina se è freddo. Anche dietro questa opinione agisce l’idea di una superiorità della natura maschile, ritenuta calda, quindi vitale, al contrario di quella fredda e debole della donna. A ciò si aggiungeva la convinzione che l’utero avesse una temperatura variabile, presentandosi più caldo nel periodo vicino alle mestruazioni, più freddo negli altri momenti del ciclo. Tutte le opinioni che abbiamo citato provengono dal pensiero del V secolo a.C. Anche in seguito, però, entrambe le posizioni, quella “negazionista”, risalente ad Anassimene e alla dottrina pitagorica, e quella prima democritea e poi ippocratica, restano vitali, riproponendosi all’interno di sistemi di pensiero diversi.
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Aristotele, applicando alla teoria della generazione il paradigma termico e la distinzione tra materia e forma, ripropone la tesi che identifica nell’uomo l’unico vero genitore. Secondo la sua dottrina, infatti, alla procreazione contribuiscono lo sperma maschile e il mestruo femminile, entrambi intesi come residui del sangue non utilizzato per il nutrimento del corpo. Tra i due residui il filosofo stabilisce, però, una differenza fondamentale, di tipo funzionale: mentre il liquido seminale è l’esito di un processo di cozione (e quindi di trasformazione) del sangue, che l’uomo è in grado di realizzare grazie al suo calore vitale, il sangue mestruale è un residuo crudo, che la donna non riesce a elaborare a causa della propria freddezza. Inoltre, per Aristotele è il solo padre a trasmettere l’anima e la forma al prodotto del concepimento, grazie alla capacità di movimento inscritta nello sperma, mentre la madre si limita a fornire la materia inanimata. Così concettualizzata, tale contrapposizione implica che da un accoppiamento dovrebbero nascere solo maschi: e in effetti la nascita di una femmina è considerata da Aristotele un prodigio contro natura (teras) dovuto a un difetto del padre, la cui forza demiurgica sia affievolita per giovinezza, per vecchiaia o per effetto di una malattia.
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Vedremo più avanti come nel filosofo di Stagira questa posizione si inserisca in una sistematica svalutazione del femminile a vantaggio del maschile e a quali paradossali conseguenze tale svalutazione possa portare. Qui ricordiamo ancora che nel III secolo a.C. un medico originario di Calcedone, Erofilo, che si distinse ad Alessandria d’Egitto per le sue scoperte anatomiche, propose nuovamente l’ipotesi del seme femminile, ma escludendo che giocasse un ruolo attivo nella generazione. Toccherà a Galeno di Pergamo, il grande medico degli Antonini, sul cui sistema dottrinale si fonderà la medicina occidentale dal Medioevo sino alla rivoluzione scientifica dell’età moderna, riportare in auge, nel II secolo d.C., la tesi ippocratica che postula nella generazione un ruolo attivo di entrambi i semi, maschile e femminile. Come avremo modo di constatare anche più avanti, il pensiero di Galeno è imbevuto di dottrina aristotelica, e spesso medico e filosofo si ritrovano sulle stesse posizioni; quando però Aristotele si oppone a Ippocrate e l’esperienza non costituisce un impedimento, Galeno si schiera senz’altro con il fondatore della medicina razionale, che rappresenta per lui l’auctoritas per eccellenza, il cui pensiero è impegnato a sistematizzare e interpretare.
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2. Crescere nell’utero: da seme a feto È nell’utero dunque – lo scrive in modo chiaro l’autore del trattato ippocratico Natura del bambino – che seme maschile e sangue femminile si fondono grazie ai movimenti della donna; qui la miscela che ne risulta, in conseguenza del calore dell’organo, si addensa e si solidifica come in un forno e, sviluppandosi gradualmente, diventa, come dirà Sorano, prima una sostanza autonoma (physis, “natura”) e poi un essere vivente (psyché, “anima”), un “embrione”. L’autore del più importante trattato di ginecologia che l’antichità ci abbia trasmesso non si dilunga sulle tappe della formazione e dello sviluppo dell’embrione; è infatti tipico della scuola di pensiero in cui si riconosce, quella metodica, tralasciare quanto non è direttamente conoscibile con i sensi. Sorano si limita piuttosto a precisare quanto gli permetteva di constatare l’esperienza, ovvero che l’embrione si trova circondato da due membrane – una interna, l’ámnios, e una esterna, il chórion, che evolverà in quella che noi chiamiamo placenta, da cui parte il cordone ombelicale –, e a descrivere la costituzione e la vascolarizzazione del cordone. Come lo stesso medico documenta nelle preziose sezioni dossografiche della sua opera, in cui
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discute le opinioni dei suoi predecessori, l’esistenza dell’ámnios era materia di dibattito, perché la membrana non era sempre nitidamente visibile alla nascita. Sorano non nomina, inoltre, la membrana allantoide, menzionata, invece, dal medico Rufo di Efeso nel I secolo d.C. e da Galeno nel II, la quale avvolge l’ámnios dall’esterno – più precisamente, come scrive il medico di Pergamo in un’opera della sua giovinezza, nelle parti prominenti dell’embrione (testa, natiche, piedi) – e deriva il nome dalla sua forma caratteristica (allantoeidés significa in greco “a forma di salsiccia”). Discrepanze di questo tipo non devono sorprenderci più del dovuto, poiché derivano dalla confusione tra anatomia umana e anatomia animale: gli animali di cui gli antichi avevano contezza potevano anche mostrare le tre membrane al momento della nascita, mentre negli esseri umani (e in genere nei mammiferi placentati) l’allantoide non si rileva più alla nascita perché si oblitera nel cordone ombelicale. Lo sviluppo dell’embrione è invece al centro del trattato Natura del bambino, dove è ricostruito per analogia e con il ricorso, quando è possibile, all’esperienza e alla sperimentazione. È un metodo, quello analogico, che punta a pensare l’invisibile a partire dal visibile, ben
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noto anche ai filosofi presocratici e riassumibile nella fortunata formula attribuita al pensatore Anassagora, secondo la quale «il visibile è vista dell’invisibile». Proviamo a seguire l’autore ippocratico nel suo ragionamento, perché si tratta di un bell’esempio dello sforzo concettuale compiuto da questo medico per teorizzare, con i mezzi disponibili nel V secolo a.C., una preistoria laica del corpo. L’anonimo medico immagina che all’interno dell’amalgama, che continua a chiamare “seme”, si sviluppi, per il calore dell’utero, una sorta di vapore, lo pneuma (“spirito”), concepito come un principio vitale e distinto dall’aria esterna, di cui si alimenta attraverso il respiro della madre. È per effetto dello pneuma che il seme si gonfia e si dota di una membrana: proprio come avviene per un pane cotto nel forno – ecco un primo esempio di impiego dell’analogia –, sulla cui superficie si forma una sottile pellicola in corrispondenza del punto di lievitazione. Dall’apertura che si produce al centro della parte gonfia, e che il nostro autore dichiara di avere osservato de visu in un aborto di sei giorni, il seme inspira ed espira. Il seme si accresce grazie al sangue materno, il residuo alimentare che, quando la donna non
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è gravida, viene smaltito attraverso la mestruazione. Col passare del tempo si formano prima altre membrane, aderenti le une alle altre, quindi la carne, la cui comparsa porta le membrane ad accrescersi e a formare delle cavità, entro le quali viene secreto il sangue che non è utile alla crescita: è così che prendono forma prima il chórion (è il nome qui dato genericamente alle membrane attorno all’embrione) e poi, al suo interno, l’embrione, che va articolandosi, come il seme, per l’azione dello pneuma. Se lo pneuma è la causa efficiente, il principio che governa l’articolazione delle parti è quello secondo cui il simile si aggrega con il simile, risalente al filosofo Democrito: umido con umido, da cui derivano gli organi, rado con rado, processo che genera le ossa porose, denso con denso, da cui hanno origine le ossa più dure. L’autore del trattato lo dimostra con un esperimento di fisica: un otre riempito di terra, sabbia e limatura di piombo vedrà i vari elementi mescolarsi insieme quando vi si verserà sopra dell’acqua, e poi separarsi e aggregarsi secondo la loro natura quando si soffierà con una cannuccia dell’aria sulla miscela. L’autore ricorre infine a un’analogia di carattere vegetale: come l’albero sviluppa per ultime le sue propaggini, così anche nel processo di arti-
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colazione dell’embrione gli ultimi a svilupparsi sono gli arti, di cui le unghie sono concepite come una sorta di sigillo dei vasi e delle terminazioni nervose. Galeno riproporrà con qualche precisazione questo schema di sviluppo nel suo trattato Il seme, sistematizzandolo in quattro fasi, che dirà ricavate dall’osservazione degli aborti e delle embriotomie, ovvero le incisioni del feto in utero che si praticavano per salvare la vita alla gravida quando il feto fosse già morto e le sue dimensioni non permettessero di estrarlo intero. È una pagina, questa di Galeno, sulla quale vale la pena di soffermarsi poiché da un lato illustra un uso tassonomico della terminologia ippocratica, che in realtà le fonti non presentano col medesimo rigore, dall’altro permette di constatare quanto il lessico tecnico degli antichi diverga dal nostro e quali problemi possa presentare la traduzione quando si tenti di sovrapporre categorie antiche e categorie moderne. Galeno identifica la prima fase con il periodo in cui ancora predomina la forma del seme, per cui – scrive – Ippocrate usa il termine goné (non stupisca leggere il nome di Ippocrate: Galeno tratta la Collezione ippocratica come un tutto unitario, distinguendo non, come noi moderni,
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tra autori ippocratici, ma tra un Ippocrate autentico e uno non autentico). Il medico di Pergamo indica poi la seconda fase nel tempo in cui si realizzano l’afflusso di sangue e la formazione di una sostanza carnosa: per questa fase, in cui si sono progressivamente formate le tre membrane ma restano ancora indistinti i tre organi principali, cuore, fegato e cervello, Ippocrate adopera il termine kýema, “prodotto del concepimento”, laddove noi moderni parleremmo di embrione. Nella terza fase, quando gli organi principali si distinguono nitidamente mentre le altre parti sono ancora allo stadio di abbozzo, il kýema accede allo statuto di émbryon. La quarta fase, infine, si realizza quando tutte le altre parti si sono ormai formate, e per definirla Ippocrate ricorre non più a émbryon, ma a paidíon, “bambino”: come si vede, con questi ultimi due termini si designa ciò che più si avvicina al nostro concetto di “feto”, se non fosse che secondo i moderni l’embrione diventa feto, ovvero sviluppa le forme della specie, dalla decima settimana in poi, mentre per i medici antichi questa fase di evoluzione ha inizio a partire dalla fine del primo mese. Ho scritto «a partire dalla fine del primo mese»: e infatti, sui tempi di sviluppo e di formazio
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ne dell’embrione gli antichi avevano pareri diversi, così come non c’era accordo sui tempi del movimento del feto nell’utero né sulla durata complessiva della gestazione. Secondo l’autore di Natura del bambino, per esempio, il processo di articolazione avviene in trenta giorni, mentre il movimento compare solo al terzo mese, ma questa scansione è valida solo nel caso di un maschio; la femmina, che deriva da un seme più acquoso, si muove infatti con un mese di ritardo e può impiegare fino a quarantadue giorni per completare la sua formazione. Opinioni diverse in merito sono raccolte all’interno del trattato ippocratico Alimento, in realtà di epoca ellenistica, dove i tempi riferiti vanno, per la forma, da trentacinque a cinquanta giorni, per il movimento da settanta a cento, per il compimento della gestazione e la nascita da duecentodieci a trecento, mentre Galeno dirà che non esistono tempi fissati in modo univoco, né per la formazione, né per il movimento, né per la nascita. Quale che fosse la posizione sostenuta, ciò che in tutti gli schemi di calcolo appare costante – e risultava chiaro già ai commentatori antichi di Ippocrate – è il rapporto numerico che lega fra loro i tre momenti: la prima formazione e l’apparizione del movimento occupano, infatti,
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ciascuna un quarto del tempo della gestazione, mentre l’altra metà è assegnata interamente al compimento della gravidanza. La questione dei tempi non è fine a sé stessa, ma si lega a un altro problema dibattuto nel pensiero antico e ricco di implicazioni per i giuristi e più tardi per i pensatori cristiani, quello dell’animazione del nascituro, ovvero del momento a partire dal quale quest’ultimo si possa considerare a pieno titolo un essere vivente. Le opinioni al riguardo erano molteplici e dipendevano naturalmente dalle condizioni cui gli antichi subordinavano l’acquisizione dello statuto di essere vivente. Una delle questioni dibattute nel trattato Le opinioni dei filosofi, attribuito falsamente a Plutarco, riassume rapidamente le diverse posizioni. Secondo Platone, per esempio, in quanto capace di muoversi l’embrione è già un essere vivente, mentre Empedocle ritiene che tale statuto si acquisisca con l’autonomia della respirazione, e dunque al momento della nascita. Erofilo valorizza il movimento naturale, ma ritiene comunque l’atto della respirazione necessario perché si possa dire compiuta l’animazione. Ancora, secondo gli stoici l’anima appare nel corpo solo al momento della nascita, quando lo pneuma natu-
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rale è temprato a contatto con l’aria fredda; prima di allora, il futuro bambino non è un essere autonomo, ma una parte del ventre materno, come i frutti sono parte di una pianta. Ancora diversa appare la posizione di Aristotele; secondo il filosofo, infatti, il prodotto del concepimento è fin da subito un essere vivente, ma un vivente paradossale, perché non contiene in sé il principio della propria sopravvivenza, ovvero la propria anima. Esso possiede relativamente presto il cuore, che è principio della vita, del movimento e della sensibilità, ma è nondimeno imperfetto, poiché riceve il suo nutrimento da qualcun altro; pertanto, può essere considerato un essere vivente, ma solo in potenza e non in atto, fino al possesso dell’anima sensitiva. A sua volta, Galeno crede che l’animazione abbia luogo per gradi, avviandosi con la formazione del feto e realizzandosi pienamente solo al momento della nascita. Egli definisce, infatti, zoon, “vivente”, il prodotto del concepimento (kyoúmenon) da quando ha un cuore che batte imprimendo il proprio movimento alle arterie: a partire da quel momento, il kyoúmenon non ha più lo statuto di una pianta, ma quello di un essere vivente, seppure ancora dell’ordine di un mollusco. Una terza e più alta tappa di esistenza
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comincia poi quando la formazione del cervello consente all’embrione il movimento delle membra, e ciò avviene solo alla fine della gestazione, quando le parti sono differenziate e il viso ha già acquisito i tratti della specie umana. Non possiamo chiudere questa sintetica rassegna senza ricordare la posizione dei padri della Chiesa, per i quali il problema dell’animazione dell’embrione era di fondamentale importanza poiché si legava a doppio filo, allora come oggi, con quello dell’aborto. Essi ammettevano, come Tertulliano (II secolo d.C.) o Gregorio di Nissa (IV secolo d.C.), che l’anima sviluppasse le sue facoltà con lo sviluppo del corpo, ma ritenevano che nella sua sostanza essa fosse presente fin dall’inizio nel concepito: già dal suo primo formarsi, pertanto, quest’ultimo doveva essere ritenuto un essere vivente in senso pieno. Nella sua realizzazione consueta, l’accoppiamento produceva un unico essere normoconformato. Gli antichi avevano però sviluppato una riflessione anche sulle gravidanze gemellari, che addebitavano a una particolare abbondanza di seme, prodottasi durante un unico accoppiamento o per via di due accoppiamenti successivi, di cui il secondo realizzatosi in gravidanza (è la cosiddetta “superfetazione”). I medici ippocra-
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tici, tra cui l’autore di Natura del bambino, e, prima di loro, alcuni presocratici, si spiegavano il fenomeno immaginando che l’utero fosse composto di due sacche simmetriche (ma anche più di due, nel caso degli animali multipari), nelle quali il seme potesse contemporaneamente impiantarsi. Secondo l’autore del trattato ippocratico Regime, databile tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C., se la donna possedeva un utero ben conformato e simmetrico in entrambe le sue parti ed emetteva un seme in quantità e vigore uguali a quello dell’uomo, allora il concepimento poteva essere gemellare. In questi autori, dunque, la nascita di un gemello si presenta come un paradigma ideale di fertilità, alla stregua di quanto suggerisce il trattatello pseudo-plutarcheo L’educazione dei figli, dove si legge addirittura che proprio la natura avrebbe dotato la donna di due seni per consentirle di allattare contemporaneamente due gemelli. C’era però chi interpretava il fenomeno come un fatto negativo, accostandolo ad altri concepimenti teratologici dovuti a un’alterazione del seme o a una perturbazione del suo movimento o delle sue facoltà: tra questi rientra il fisiologo Empedocle, che annoverava quello gemellare tra i parti mostruosi che avvenivano
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«per un eccesso o un frazionamento del seme», o Aristotele, che – fatta salva l’idea comune di un eccesso di seme, emesso in uno o più coiti ravvicinati – lo addebitava all’incapacità della forma (ovvero del seme maschile) di dominare la materia (ovvero il sangue femminile), la stessa motivazione con cui giustificava, come abbiamo visto, la nascita di una femmina invece di un maschio e da cui faceva dipendere varie forme di teratosi. Aristotele mostra anche come, in caso di concepimento gemellare, la vicinanza possa indurre i due embrioni a saldarsi insieme, cosa di cui fornisce, però, esempi tratti esclusivamente del mondo animale; agli uomini fa esplicito riferimento, invece, quando segnala come particolarmente pericoloso il caso di gemelli di sesso diverso, che realizzano in tempi diversi il loro sviluppo embrionale. L’idea, che si fonda, come abbiamo visto, su una credenza comune al mondo antico, è ribadita da Plinio il Vecchio; nella sua Storia naturale, una sorta di enciclopedia in trentasette libri composta nel I secolo d.C. e tratta dalle fonti più diverse, egli scrive infatti che «in un parto gemellare è raro che sopravvivano sia la madre, sia entrambi i figli; se poi i gemelli sono di sesso diverso, le possibilità che sopravvivano sono ancora più scarse».
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Anche le alterazioni di quelli che venivano avvertiti come i tratti caratterizzanti della specie e persino gli orientamenti sessuali potevano essere ricondotti al seme e alle variabili del concepimento. Lo scrittore africano Lattanzio riporta infatti una teoria secondo la quale Le nature anomale si ritiene che nascano nel modo seguente: quando il seme maschile viene a cadere nella parte sinistra dell’utero, è convinzione che nasca un maschio; ma poiché è concepito nella parte che è propria delle femmine, ha in sé alcunché di femminile, più di quanto si accordi con la dignità maschile, sia che abbia una bellezza insigne, sia una bianchezza eccessiva, o leggerezza del corpo, o membra delicate, o statura bassa, o voce gracile, o animo debole, o molte di queste cose insieme. Analogamente, se il seme di genere femminile viene a cadere nella parte destra, nasce una femmina; ma poiché è stata concepita nella parte che è propria dei maschi, ha in sé alcunché di maschile, più di quanto la caratteristica del sesso permetta, o membra forti, o una statura eccessiva, o un colorito scuro, o una faccia pelosa, o un volto non bello, o una voce robusta, o un animo audace, o molte di queste cose insieme.
La testimonianza è registrata da Diels e Kranz tra quelle di Parmenide. Sempre a Parmeni-
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de un altro autore africano di cui torneremo a parlare nel prossimo capitolo, Celio Aureliano, attribuisce una spiegazione dell’omosessualità passiva che chiama in causa una cattiva fusione dei semi maschile e femminile, i quali al momento del concepimento, pur mescolandosi fra loro, manterrebbero separate le loro naturali inclinazioni. Secondo i medici antichi, inoltre, sempre stando a quanto leggiamo in Celio Aureliano, l’omosessualità passiva costituiva una vera e propria malattia ereditaria, che tramite il seme poteva trasmettersi per generazioni. E poiché la nostra fonte attribuisce la tesi a «molti capiscuola» (multi sectarum principes), dobbiamo ritenere che l’idea fosse piuttosto diffusa. 3. Venire al mondo Trascorso il periodo di gestazione, il nuovo corpo che ha trovato nell’utero materno calore e cibo per svilupparsi si appresta ad affrontare l’ambiente esterno. Esso è cresciuto ormai a un punto tale che l’utero non può più contenerlo e il sangue della madre non è più in grado di soddisfare il suo bisogno di cibo. Il parto, che noi moderni sappiamo essere un processo di espulsione provocato e modulato dalle contrazioni pe-
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ristaltiche dell’utero, agli occhi degli antichi non è infatti che il frutto di questa ricerca di spazi e di nutrimento più consoni da parte del nascituro, che lo induce a dimenarsi fino a rompere il sacco amniotico che lo contiene alla stregua di un pulcino dentro il guscio. È il nuovo nato, dunque, per Greci e Romani, il vero protagonista della sua venuta al mondo, mentre il corpo della madre non è che il teatro dell’evento. Ecco perché, quando il parto tardava a verificarsi, gli antichi appendevano al corpo della partoriente amuleti di pietra rossa, corniola o diaspro, chiamati in greco okytókia (propriamente “acceleratori della nascita”), che su un lato presentavano il disegno stilizzato di un utero, con un abbozzo di vagina dall’orifizio chiuso, sull’altro le parole «sui tuoi piccoli piedi», che invitavano direttamente il feto a fuoriuscire. Un invito a liberare la donna dai dolori del travaglio, ma anche a restituirle quel corpo che per mesi era stato forno, dispensa, ostello e in cui il bambino lasciava ora, nel latte, l’ultimo avamposto della sua presenza. Staccatosi dal corpo della madre, dentro il quale si è formato ed è cresciuto, il neonato deve ora dimostrare di possedere egli stesso un corpo che gli ottenga il lasciapassare necessario per restare al mondo. Come scrive ancora una
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volta Sorano di Efeso, deve gridare quando viene deposto a terra, reagire se punto, avere gli orifizi liberi da ostruzioni, le membra né lente né deboli, le ginocchia capaci di piegarsi e di allungarsi, insomma deve essere perfetto in tutte le parti, membra e sensi, perché l’ostetrica possa stabilire che vale la pena di allevarlo. In realtà, neanche adesso che è fuori dall’utero il neonato è ancora, compiutamente, un essere umano. Finché non si taglia il cordone ombelicale, il suo statuto appare agli antichi autori assimilabile a quello di una pianta; inoltre, per i primi quaranta giorni – come rivelano i suoi occhi azzurri, tali perché ancora incapaci di vedere – egli resta parzialmente privo di sensazioni. Nessun animale nasce in condizioni altrettanto imperfette, osserva Aristotele; nessuno è tanto debole e brutto, con quel viso rosso e i pochi capelli sul cranio; nessuno, sostiene Platone, è altrettanto ingestibile, nella sua incontrollabile emotività. Sia Aristotele sia Platone paragonano il bambino ad altre categorie di umani considerate inferiori: ai vecchi, di cui il neonato condivide la debolezza, i capelli radi e la scarsa memoria; alle donne, come lui deboli e irrazionali; ai nani, con cui il bambino ha in comune la disarmonia fisica, quella per cui a un tronco normale si tro-
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vano attaccate un paio di gambe corte e una testa grande. Per tale sproporzione delle gambe, invece di assumere una stazione eretta, il bambino gattona come un quadrupede, così come è la grossezza fuori misura della testa che determina la sua scarsa memoria, dal momento che grava sul suo organo di percezione, rendendone gli impulsi incapaci di mantenere la loro direzione originaria. Alla testa grossa, per l’eccesso di freddo che produce e per l’effetto paralizzante che tale freddo provoca nell’organismo umano (Aristotele concepisce il cervello come un organo refrigerante del calore sviluppato dal cuore), si deve anche la particolare inclinazione al sonno dei bambini, che peraltro, rappresentando uno stadio intermedio tra vita e non vita, esprime molto bene la condizione di chi si trova ancora sulla soglia di una esistenza piena. Per diventare un essere umano, tuttavia, il bambino deve acquisirne innanzitutto l’aspetto, e questa conquista gli antichi non sempre aspettavano che avvenisse da sé, ma la perseguivano operando attivamente sul corpo del neonato: non a caso, l’autore del trattato ippocratico Regime paragona l’insieme degli atti con i quali ci si prende cura del corpo del neonato a quelli dei conciatori, che «stendono, pressano, pettinano,
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lavano: queste operazioni», scrive, «costituiscono il trattamento dei bambini». Il primo obiettivo che ci si poneva rispetto al corpo del nuovo nato era quello di indurirlo, sfruttando l’azione del freddo. Mentre Sorano riteneva che il processo si verificasse spontanea mente, in seguito al brusco contrasto tra l’aria esterna e il calore dell’utero, altri suggerivano di immergere il bambino in acqua fredda, come facevano alcune popolazioni “barbare” quali i Germani e gli Sciti, ma anche, secondo Virgilio, gli antichissimi abitanti del Lazio: un’azione che aveva anche lo scopo di testare l’adeguatezza del bambino ad affrontare la vita, dato che chi diventava livido o veniva preso da convulsioni era lasciato morire. A volte, specie a proposito dei Germani, gli antichi immaginano che l’immersione in acqua fredda assuma anche la funzione di una prova di legittimità, tesa a confermare o a smentire l’appartenenza del nuovo nato alla stirpe: se il bambino sopravvive, vuol dire che si tratta di un figlio legittimo, altrimenti che è il frutto di un adulterio della madre. A “indurire” il neonato potevano servire anche i bagni nel vino o nella salamoia, che tenevano dietro a frizioni di noce di galla e mirto e purificavano il bambino dalle scorie del parto;
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a questo scopo, Sorano dichiara di preferire le frizioni di sale, perché meno violente e altrettanto efficaci. Le frizioni ci riportano alla questione, fondamentale, della forma. Molti autori paragonano la consistenza del corpo infantile a quella della cera per la sua morbidezza e malleabilità: una cera da modellare con cura, così da trasformare un animaletto avvizzito in un essere umano. Fondamentale a questo fine era la fasciatura, che si raccomandava di praticare il prima possibile per prevenire la deformazione delle gambe e che Platone riteneva necessaria addirittura fino ai due anni, così come ammoniva a portare in braccio il bambino fino ai tre. Sorano, che dedica pagine intere del suo trattato di ginecologia a descrivere nei dettagli il procedimento da seguire per l’applicazione delle fasce, ritiene invece che si possa interrompere la pratica dopo quaranta giorni, pur aggiungendo che i tempi devono essere regolati sulla costituzione del singolo bambino. La fasciatura non era però l’unico mezzo per dare forma al corpo del neonato; una grande importanza aveva anche il massaggio, la cui tecnica il medico efesino spiega nel dettaglio. Inoltre, lo stesso Sorano conserva la testimonianza di
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altri metodi, sicuramente più violenti. Il medico Antigene, per esempio, suggeriva di coricare il bambino in un tronco cavo, al centro di una sorta di pagliericcio, avvolto nelle bende fino ai lombi, e di legarlo con cinghie trasversali passanti per intagli praticati nel legno. Anche i Tessali coricavano il neonato su tavole dure, per distendere la schiena e la nuca: una pratica piuttosto rude, visto che la testolina – osserva ancora Sorano – poteva essere modellata con dolcezza durante il bagno. Naturalmente, il letto non doveva neppure essere troppo morbido, perché cedendo avrebbe potuto provocare distorsioni. Qui possiamo aggiungere che le fasce appaiono intimamente legate al bambino cui sono applicate, di cui rappresentano una sorta di estensione o prolungamento: non a caso, in molti testi letterari esse vengono abbandonate accanto ai neonati esposti alla nascita e possono consentire il loro riconoscimento una volta divenuti adulti. Inoltre, è interessante che in alcuni racconti apocrifi sull’infanzia del Cristo alle fasce che hanno avvolto il corpicino del figlio di Maria sono attribuiti poteri miracolosi, come se esse avessero assorbito per contatto le medesime virtù curative o taumaturgiche del Cristo stesso.
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Insomma, gli antichi dedicavano, almeno in teoria, molta attenzione ai primi momenti della vita del bambino, attribuendo a ostetriche e balie il compito di perfezionare quel processo di formazione che si era svolto per nove mesi nell’utero della donna e purtuttavia aveva prodotto un corpo ancora imperfetto. Simbolicamente, la fasciatura esercita una funzione di grande rilievo perché non solo mira a dare forma al bambino, ma gli permette anche di drizzarsi saldo sulle sue gambe, assumendo la posizione eretta che caratterizza gli esseri umani. In modo curioso, i quaranta giorni che Sorano prevede per questa pratica coincidono con quelli che secondo Aristotele servono al neonato per acquisire pienamente l’anima sensitiva: ancora quaranta giorni, gli ultimi perché quell’amalgama impiantatosi nell’utero della donna diventi finalmente un corpo umano. Ed è di questo corpo che adesso è venuto il momento di parlare.
II
La scoperta del corpo
1. Concepire il corpo I Greci usavano nomi diversi per designare il corpo, a seconda dell’angolatura da cui guardavano ad esso e della stessa percezione complessiva che ne avevano. Per esempio, soma, che è il termine canonico a partire dal V secolo a.C., nei poemi omerici e in altri testi di età arcaica è impiegato solo per il cadavere. Per il corpo vivo, in Omero si trovano talvolta demas, che indica una struttura ordinata e in particolare la statura e la corporatura; eidos, da porre in relazione alla forma; più spesso chros, che in senso proprio è la pelle, intesa come superficie del corpo, portatrice di colore, oppure forme plurali come guia e mélea, che significano entrambe “membra”. In particolare, guia è usato per le membra in quanto mosse dalle articolazioni, mélea in quanto ricevono forza dai muscoli.
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Queste diverse denominazioni del corpo corrispondono alla modalità con cui esso è concepito in età arcaica: non ancora un insieme organico, in cui le diverse parti sono in relazione l’una con l’altra (vedremo più avanti come questa concezione troverà il suo ideale compimento, in età classica, nel cosiddetto canone di Policleto), ma, come si apprezza nelle raffigurazioni artistiche del tempo, nei termini di un assemblaggio di singole parti, di mélea e guia appunto, ovvero membra con muscoli robusti distinte le une dalle altre da giunture fortemente accentuate. Solo quando, nel V secolo a.C., il corpo è ormai concepito come un tutto armonioso e i filosofi e i medici cominciano a riflettere su di esso, il termine canonico per questo insieme unitario, che tuttavia non cancella la sopravvivenza delle altre denominazioni, è soma, che dal cadavere passa ora a designare il corpo vivo nella sua interezza. Ed è al soma così concepito, irrorato dal sangue e per questo caldo, umido e morbido, al corpo insomma come luogo del sapere medico, diverso da quello con cui si interagisce nella quotidianità, che saranno dedicate le prossime pagine. La letteratura medica costituisce, infatti, un osservatorio privilegiato per interrogarsi sulla percezione che gli antichi avevano della fisicità
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del corpo, né questo può stupirci, visto che capirne la natura e il funzionamento ha costituito per i medici la premessa imprescindibile della loro attività. Prima della nascita di una medicina razionale, la malattia era concepita dai Greci come una punizione divina o come una forza demonica che si impadronisce dall’esterno del malato. Nel testo più antico della letteratura greca, l’Iliade, la peste che fa strage di guerrieri nel campo acheo, con cui si apre il poema, è la punizione inviata da Apollo per il rifiuto opposto da Agamennone di restituire la giovane Criseide al padre, sacerdote del dio. A sua volta, nelle Opere e i giorni, Esiodo, un autore che avremo occasione di nominare ancora nei prossimi capitoli, descrive le malattie come entità che «si aggirano» (il greco usa il verbo phoitáo) tra gli uomini spontaneamente, in silenzio, di notte e di giorno, arrecando dolore. Quando, però, in un V secolo a.C. che vede il fiorire delle professioni, questa concezione viene superata dalla presa di coscienza che la malattia non ha un’origine magico-sacrale, ma nasce dall’alterazione di una condizione ideale del corpo che spetta al medico ristabilire, diventa prioritario interrogarsi su come il corpo umano sia fatto e su quali siano i fattori che ne condizionano lo stato di salute o di malattia.
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Le vie attraverso le quali gli esponenti della nuova medicina razionale credono di poter attingere tale conoscenza sono diverse. Per alcuni, il modello resta quello della generazione dell’universo, elaborato in ambito filosofico e del quale i medici si limitano a trasferire all’uomo gli elementi costitutivi. L’autore del trattato ippocratico Regime, che ci è già capitato di citare, si annovera tra questi: la sua asserzione secondo cui «il corpo umano è imitazione del tutto» ci consegna infatti la più antica formulazione della teoria che stabilisce una corrispondenza tra ciò che si verifica nel più vasto mondo della natura (macrocosmo) e quanto accade nel più piccolo mondo dell’uomo (microcosmo). L’anonimo medico crede che l’uomo, così come il mondo, sia costituito da due elementi opposti e complementari, identificati nel fuoco, caldo e secco, principio del movimento, e nell’acqua, fredda e umida, principio del nutrimento. Lo stesso modello macromicrocosmico è applicato dall’autore ippocratico di Carni, che, a dispetto del titolo, è un trattato sulla natura dell’uomo. L’autore sostiene che gli elementi primi dell’universo sono tre, fuoco (in greco aithér, da aitho, “bruciare”), terra e aria, e che dalla loro mescolanza e trasformazione si originano le varie parti del corpo, la cui forma-
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zione è descritta nei dettagli, così come quella delle facoltà che regolano i cinque sensi. Alcuni medici scelgono invece una via del tutto nuova. Rifiutando di fondarsi su principi estranei all’arte, peraltro non osservabili e incapaci di spiegare – come scrive uno di loro – sia il dolore, sia la diversità delle malattie e dei rimedi, sia la generazione, essi ritengono che la medicina debba cercare gli strumenti di conoscenza della natura dell’uomo a partire dall’osservazione diretta. All’epoca, tuttavia, non erano ancora praticate le dissezioni umane, per cui i medici dovevano immaginare l’interno di quella «scatola nera» (la metafora è di Mario Vegetti) rappresentata dal corpo basandosi su ciò che vedevano o tastavano attraverso un esame esterno o, tutt’al più, sull’osservazione delle viscere degli animali. Stando così le cose, il dato più significativo era costituito dai fluidi corporei: il sangue, soprattutto, di cui si faceva esperienza in caso di ferite o nei sacrifici, la bile, anch’essa legata alla cucina sacrificale, ma anche saliva, urina, catarro, impurità di occhi e orecchie, che si vedevano fuoriuscire dal corpo sia in stato di salute, sia nel corso di una malattia. A partire da questi dati dell’osservazione, i medici ippocratici hanno ideato un elaborato
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sistema che concepiva il corpo come il luogo della circolazione degli umori e gli organi come i loro recipienti. Ricostruendo un percorso per tali flussi, hanno immaginato che gli umori provenissero dal cervello (o vi confluissero) e che, defluendo da lì, andassero a fissarsi in alcuni punti (secondo alcuni trattati a ispirazione aritmologica, sempre sette), provocando dolore. Quanto agli umori, cui spetterebbe un ruolo essenziale nella fisiologia del corpo, le posizioni testimoniate dai trattati della Collezione ippocratica sono differenti. Una delle ricostruzioni individua tali umori nella bile e nel flegma, originariamente concepito come un umore infiammatorio e successivamente, non si sa in base a quale percorso di pensiero, come l’umore più freddo; un’altra teoria distingue sangue, flegma, bile e acqua. La teoria più nota, tuttavia, con cui si identifica tout court l’umoralismo ippocratico, è quella espressa nel trattato La natura dell’uomo, databile all’incirca al 410-400 a.C. e unico della collezione a poter vantare una precisa paternità: esso è infatti attribuito a Polibo, un medico in cui la tradizione identifica un discepolo e insieme il genero di Ippocrate e al quale si deve anche la critica alla medicina filosofica che abbiamo sopra riferito. Secondo Polibo, lo
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stato di salute del corpo dipende dall’equilibrio e dalla mescolanza di quattro umori, sangue, flegma, bile nera e bile gialla. La malattia si ingenera quando uno degli umori si corrompe o prevale sugli altri e, separandosi, provoca dolore nel punto da cui è iniziato il flusso e in quello in cui va a collocarsi; ognuno di essi prevale in una determinata stagione dell’anno: per il medico ippocratico, infatti, l’uomo non può essere considerato senza tener conto dell’ambiente in cui vive, e questa ne è una dimostrazione. La teoria si affermò sulle altre restando legata al nome di Ippocrate grazie alla formulazione coerente e organica che ne diede Galeno, mettendola in rapporto con le quattro qualità elementari – caldo, freddo, secco e umido –, dalla cui combinazione secondo quattro coppie possibili derivano anche i quattro elementi, le quattro stagioni, le quattro età dell’uomo e i quattro temperamenti. Nella sistemazione di Galeno, il sangue deriva dalla combinazione di caldo e umido (la stessa dell’aria), il flegma da quella di freddo e umido (come l’acqua), la bile nera da freddo e secco (allo stesso modo della terra), la bile gialla da caldo e secco (come il fuoco). A seconda delle stagioni e delle età dell’uomo, vi è prevalenza di un umore o di un altro: in parti-
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colare, il sangue prevale in primavera e nell’infanzia, la bile gialla in estate e in giovinezza, la bile nera in autunno e nella maturità, il flegma in inverno e nella vecchiaia. Quanto ai temperamenti, senza che si arrivi a uno squilibrio patologico, la prevalenza del sangue è causa di un temperamento sanguigno, quella del flegma produce un temperamento flemmatico, quella della bile gialla, collerico, quella della bile nera, infine, melancolico. Che dire invece degli organi, dei quali si aveva contezza solo a partire dall’anatomia degli animali e dei quali si ignorava ancora la funzione? Quegli organi, quattro dei quali Galeno avrebbe poi collegato agli umori (il cuore al sangue, il cervello al flegma, il fegato alla bile gialla, la milza alla bile nera), che ruolo si vedevano assegnato in questa «medicina di fluidi»? Il passo più illuminante per comprendere la «fisica dei recipienti» della Collezione ippocratica (entrambe le definizioni sono di Robert Joly) si trova nel trattato Antica medicina, in cui essi, non a caso, sono chiamati non “organi” (il concetto di órganon, letteralmente “strumento”, allusivo della loro funzione, è aristotelico), ma schémata, che potremmo tradurre “strutture”, “configurazioni”, poiché proprio dalla forma di
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queste parti del corpo dipenderebbe il loro rapporto con gli umori. Stando all’autore del trattato, infatti, testa, vescica e utero, parti cave e piriformi, sarebbero in grado di attirarli, e infatti sono regolarmente piene di liquidi provenienti dall’esterno. A loro volta, milza, mammelle e polmoni, spugnosi e laschi, sono capaci di assorbire gli umori per continuità e in seguito al loro afflusso si gonfiano e si induriscono, non potendo realizzare né cozione né evacuazione. Strutture o, come diremmo noi, organi cavi e svasati, invece, non sono in grado di attirare da sé gli umori, ma sono i più adatti a riceverli e trattenerli; al contrario, quelli solidi e arrotondati non attirano né ricevono. È indubbio che ricostruzioni di questo tipo richiedono una buona dose di immaginazione. Ma i medici ippocratici avevano trovato una risorsa formidabile nel metodo analogico, ovvero nell’uso del mondo dell’apparenza sensibile quale chiave di accesso all’invisibile. Abbiamo già avuto modo di osservare l’applicazione di questo metodo, comune anche ai filosofici presocratici, da parte dell’autore di Natura del bambino, che ne è considerato uno specialista. Possiamo ora aggiungere che è frutto di un ragionamento analogico anche la fisica dei recipienti di cui ab-
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biamo esposto i tratti secondo l’autore di Antica medicina, i cui principi, come scrive egli stesso, si possono «apprendere da ciò che si vede all’esterno». Per l’anonimo medico, infatti, la circostanza per cui sono gli organi cavi e piriformi ad attirare gli umori più degli altri è desumibile osservando come si realizza, nell’esperienza quotidiana, l’aspirazione. La bocca non può aspirare quando è aperta, ma occorre allungare e avvicinare le labbra, facendo pressione, meglio ancora se su un cannello: in altre parole, la bocca deve assumere un assetto che la renda simile a testa, utero e vescica. Un’altra analogia è individuata nell’ambito della pratica medica, in riferimento alla forma degli strumenti utilizzati per attirare il sangue in superficie. Questi strumenti, che noi moderni chiamiamo coppette o ventose e i Greci definivano sikyúai, “zucche” (in traduzione latina cucurbitae o, al diminutivo, cucurbitulae), hanno infatti la base larga, per poi restringersi verso l’apertura. Il procedimento analogico trovava i suoi termini di confronto negli ambiti più vari: il mondo della natura, ampiamente sfruttato per trattare questioni di embriologia, quello delle arti (l’ana logia che abbiamo appena citato deduce il funzionamento di certi organi da quello di uno stru-
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mento medico della stessa forma), spesso quello della cucina. La digestione, per esempio, viene concepita fin dalla Collezione ippocratica, come poi sarà in Aristotele, nei termini della cottura in una pentola, oltre che della fermentazione in un tino, così come il processo di separazione degli umori è paragonato a quello di preparazione del burro, in cui la parte grassa del latte viene a galla, separandosi dal resto. Il modello di corpo come luogo di circolazione degli umori, dai quali dipende il suo stato di salute, non è però l’unico elaborato dai medici antichi, ma solo il più famoso, visto che la teoria umorale ha dominato il pensiero medico fino alle soglie della modernità. Altri modelli vennero formulati, con i quali si tentava di dare un’interpretazione unitaria al suo funzionamento e all’origine delle malattie. Asclepiade di Prusa, per esempio, un medico che nel I secolo a.C. si trasferì a Roma dalla Bitinia (e qui si attirò una vasta clientela e una notevole celebrità con le sue terapie dolci fatte di dieta, vino, bagni, ginnastica e massaggi), oppose all’umoralismo ippocratico una concezione del corpo ispirata alla dottrina atomistica. Il cuore di questa teoria è che il corpo sia formato da corpuscoli percepibili soltanto con la ragione
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(onchoi), molto fragili e divisibili (e in ciò diversi dagli atomi di Leucippo e Democrito), che si muovono in canali anch’essi non visibili, detti poroi, grazie alla presenza del vuoto all’interno di questi. Nel contesto di tale dinamica, la malattia insorge per un’alterazione dell’equilibrio tra il vuoto e i corpuscoli, talora favorita dalla stessa struttura dei canali, troppo stretti o troppo ampi: i corpuscoli possono infatti disaggregarsi eccessivamente o, al contrario, aggregarsi l’uno all’altro in modo eccessivo; in quest’ultimo caso si produce un ingorgo, che genera per contraccolpo un flusso in un’altra direzione. La dottrina qui esposta non restò circoscritta ad Asclepiade; i cosiddetti metodici, di cui l’esponente più autorevole è il già citato Sorano di Efeso, ne raccolsero, infatti, l’eredità da un allievo di Asclepiade, Temisone di Laodicea. Questi è ritenuto da alcuni il fondatore dell’orientamento metodico, mentre altri, che preferiscono attribuire il ruolo di fondatore a Tessalo di Tralle, attivo un secolo dopo, ne fanno una figura ponte fra Asclepiade e lo stesso Tessalo. Partendo dalla concezione “solidistica” del corpo elaborata da Asclepiade, i metodici distinsero le malattie in tre categorie, le cosiddette “comunità”, a seconda che il disequilibrio nei canali tra particelle e
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vuoto ponesse il corpo in uno stato teso, lasco o misto dell’uno e dell’altro. L’appartenenza delle malattie a uno dei tre stati era dedotta immediatamente dai sintomi: dolori, rossori o congestioni rivelavano uno stato teso; flussi di vario tipo e provenienza, uno stato rilassato; la compresenza di entrambi i tipi, uno stato misto. Alla malattia ci si opponeva, come già sapevano gli autori ippocratici, agendo in senso contrario: rilassando il corpo teso, tendendo il corpo rilassato e riequilibrando quello che presentasse contemporaneamente entrambe le condizioni. Abbiamo detto che la concezione asclepiadea è influenzata dall’atomismo; un’altra interpretazione del corpo elaborata in età imperiale risente, invece, della filosofia stoica, all’interno della quale riveste un ruolo importante lo pneuma (“soffio”, in latino spiritus, diverso dall’aria inspirata), individuato come il principio vitale dell’universo e dell’uomo. Tra i medici che vengono definiti pneumatici, per la centralità assegnata allo pneuma nella loro dottrina, ricordiamo soprattutto Ateneo di Attalia, il grande innovatore, e Agatino di Sparta, suo discepolo e vero padre fondatore della setta, il quale non a caso faceva parte a Roma della cerchia del filosofo stoico Anneo Cornuto, attivo nel I seco-
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lo d.C. Essi credevano che lo pneuma fosse il grande principio di vita e salute del corpo, deducendone l’esistenza, ancora una volta, a partire dall’osservazione semeiotica, in particolare dalla percezione del battito del polso. Questo sguardo in avanti verso concezioni diverse dall’umoralismo ci ha portato a introdurre concetti e dottrine, quali quelle di pneuma e polso, le cui origini sono legate alle prime ricostruzioni anatomo-fisiologiche, elaborate ad Alessandria d’Egitto grazie alle ricerche dei medici che operarono con il patrocinio della corte tolemaica. Lo stesso termine “setta”, che abbiamo adoperato sopra (in greco haíresis, da hairéo, “scegliere”, in latino secta, da sequor, “seguire”), fa riferimento a una differenziazione tra gli orientamenti dottrinali della medicina che nasce ad Alessandria, dove per la prima volta un gruppo di medici sceglie di mettersi al seguito di uno di loro, di cui sposa il pensiero in contrapposizione polemica con quello di altri. Prima di spostarci ad Alessandria, sulle tracce dei primi anatomisti, dobbiamo però dedicare qualche parola all’arte dell’osservazione, nella quale già i medici ippocratici erano maestri e con la quale la medicina è costretta a confrontarsi a prescindere dall’epoca e dall’orientamento dottrinale.
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2. Interpretare i segni Se Alessandria porta alla ribalta l’indagine anatomica, questo non offusca il ruolo centrale dell’osservazione semeiotica nell’esercizio dell’arte. Su di essa, oltre che sulla dissezione, continua a fondarsi il ragionamento dei medici cosiddetti razionalisti, che per curare ritenevano fondamentale conoscere le cause nascoste delle malattie, e da essa era direttamente dedotta l’indicazione terapeutica di empirici e metodici, i quali non ritenevano pertinente né utile per la medicina quanto esulasse dall’esperienza sensibile. Gli empirici, in particolare, negavano ogni utilità alla dissezione, affermando, in accordo con Aristotele, che un corpo morto non possiede le stesse caratteristiche di un corpo vivo: secondo il filosofo di Stagira, infatti, «Il cadavere ha lo stesso aspetto esteriore e tuttavia non è un uomo. […] Nessuna delle parti di un cadavere […] è più veramente tale» e c’è solo un rapporto di omonimia tra esse e gli organi del corpo vivente. Inoltre, gli empirici credevano che la malattia non si nascondesse negli organi interni, ma si manifestasse nei sintomi, dei quali la consideravano una semplice somma; curare la malattia equivaleva dunque a curarne i sintomi, la cui osservazione attenta era, pertanto, essenziale.
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In realtà, si può affermare senza paura di smentita che nessuno ha descritto il corpo umano nei suoi minimi dettagli al pari di quanto hanno fatto i medici, osservandolo, come si chiede loro in alcuni testi della collezione ippocratica, con tutti i sensi – vista, udito, olfatto, tatto, gusto – e con l’intelligenza e il ragionamento, al fine di non trascurare nulla di utile alla diagnosi. Il sesto libro delle Epidemie, uno dei sette trattati ippocratici in cui sono raccolti note e resoconti di esperienze compiute in sedi diverse da medici itineranti (epidemía vuol dire in greco proprio “soggiorno”), oltre ad asserire l’esigenza di un approccio multisensoriale del medico al corpo del malato, ne offre anche alcuni esempi illuminanti. Basterà citare, per darne un’idea, la descrizione di come possono presentarsi il sudore e le lacrime nel paragrafo dedicato alle secrezioni: Il sudore, da dove è cominciato, dove è cessato, da cosa si è separato. In questi casi il colore, il calore, la salinità, la dolcezza o lo spessore, in maniera omogenea o non omogenea […]. Lacrime: volontarie, involontarie, molte, poche, calde, fredde, spessore, gusto.
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Di grande interesse è anche la descrizione minuta e varia delle manifestazioni del corpo umano che accompagnano l’insorgere delle febbri (calore, sudore salato, bolle, variazioni del colore della pelle): Febbri: alcune mordenti al tatto, altre miti; alcune non mordenti ma che tendono ad aumentare al tatto; altre acute, ma meno calde della mano; alcune subito ardenti; alcune continuamente umide; secche; alcune salate; alcune accompagnate da pustole, terribili a vedersi; alcune leggermente umide al tatto; alcune rossastre; alcune livide; alcune gialle e così via.
Come si apprezza da questi esempi, dunque, tutto quello che è possibile percepire sulle alterazioni che il corpo del paziente subisce per effetto della malattia, comprese le sue sensazioni, viene registrato dal medico, poiché il dettaglio all’apparenza più insignificante può diventare decisivo per precisare una diagnosi o formulare una prognosi. Si noti, peraltro, che proprio nei trattati intitolati Epidemie (in particolare nei libri I, III e V) si conservano complessivamente circa un centinaio di schede di singoli malati, che, alla stregua delle moderne cartelle cliniche, seguono giorno per giorno (e manifestazione per
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manifestazione) il decorso della malattia, dal suo insorgere sino all’esito. Alcune descrizioni della collezione sono diventate famose e ancora oggi appartengono al patrimonio lessicale della medicina: per prima, l’alterazione dei tratti del viso del malato, che i medici di oggi evocano con l’espressione facies Hippocratica e già l’autore del Prognostico interpretava come un segno dell’approssimarsi della morte: naso affilato, occhi infossati, tempie collassate, orecchie fredde e contratte con i lobi rivolti all’esterno, pelle della fronte rigida, tesa e arida, colore del viso pallido o anche nero, livido o plumbeo. […] se non vi è alcun miglioramento entro il tempo precedentemente indicato, si deve sapere che questo è un segno di morte.
Ma sono entrate nel lessico medico, per esempio, anche due similitudini che si leggono in un trattato come Malattie II, rimasto a lungo un riferimento per il procedimento diagnostico dell’auscultazione immediata, quella che si realizza accostando semplicemente l’orecchio al petto del malato: in una di esse l’autore cerca di rendere il rumore del polmone collassato contro il fianco paragonandolo a quello prodotto
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dal cuoio, nell’altra assimila il rumore percepito in caso di idropisia a quello dell’aceto che fermenta – un rumore, peraltro, che gli consente di distinguere se il polmone è malato per la presenza di acqua o di pus. Queste similitudini sono state codificate in espressioni moderne quali “rumore del cuoio” o “rumore dell’aceto”, che indicano rispettivamente l’attrito pleurico, segno di pleurite secca, e il crepitio sottile, segno di infiltrazione polmonare. Vale la pena di sottolineare che il paragone, come evidenzia la stessa vitalità di questi due esempi ippocratici, è una delle risorse più fruttuose che si offrono al medico quando aggettivi e avverbi non riescono a rendere ragione in modo sufficientemente preciso della realtà fenomenica da descrivere; esso, quindi, è tanto più diffuso nei testi medici, quanto più l’autore dà importanza al dettaglio del quadro semeiotico. Ne fa ampio uso Sorano, nel trattato sulle Malattie delle donne, ma soprattutto in quelli dedicati alle Malattie acute e alle Malattie croniche, di cui possiamo conoscere il contenuto grazie agli adattamenti latini che ne fece in età tardo-antica Celio Aureliano. Non conosciamo nulla di quest’ultimo personaggio, se non quello che possiamo dedurre dalle sue opere: era
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un medico metodico attivo nell’Africa romana, probabilmente nei primi decenni del V secolo d.C., e aveva concepito il progetto grandioso di tradurre le opere di quello che chiamava il “principe dei metodici” per fornire i libri di testo alla cerchia di discepoli che sembra gravitare attorno alla sua figura. Peccato che egli non abbia portato a termine il suo progetto o che parte di quanto era riuscito a realizzare, comunque, non sia giunto fino a noi: avremmo avuto a disposizione fonti preziose per la conoscenza del metodismo di Sorano, seppure filtrate da un’altra lingua e dai tratti stilistici di un traduttore dal piglio autoriale e dalla spiccata personalità. Ma torniamo all’uso del paragone in semeiotica. I trattati sulle Malattie acute e sulle Malattie croniche ne offrono un folto campionario, presentandone alcuni ereditati dalla tradizione precedente, altri apparentemente nuovi, altri ancora, comunque, destinati a durare. Nei minuziosi quadri semeiotici di questi trattati si descrive il sintomo dello stiracchiamento delle membra del paziente che sta covando la letargia paragonandolo al gesto di chi «si stia appena svegliando dal sonno»; dei pleuritici in fase ingravescente si scrive che «corrugano intensamente le sopracciglia come se fossero tristi»; la fissità
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con cui guardano, a occhi spalancati, i catalettici è paragonata allo sguardo di chi desidera qualcosa e perciò la guarda intensamente oppure a quello dei buoi, nel momento in cui cadono per un colpo repentino alla cervice; mentre la contrazione dei masseteri di chi è affetto da spasmo canino, prima descritta nei termini di una tensione verso l’esterno delle labbra, è chiarita dal un paragone efficace, «come se ridessero», diventato anch’esso canonico, tanto che nella medicina moderna si cristallizza nel sintomo del riso sardonico. Particolarmente significativo il caso dei corpi mobili che disturbano il campo visivo dei pazienti in procinto di sviluppare un’epilessia, descritti dalla loro stessa prospettiva. Sono questi, evidentemente, a spiegare le proprie percezioni ricorrendo a una serie di immagini che l’autore sembra registrare minuziosamente, quasi a voler esaurire tutte le tipologie riferite. Scrive Celio, infatti, che ai malati sembra di vedere «qualcosa di simile alle macchie del marmo, […] a ragnatele, a nubi sottilissime, a insetti piccoli come zanzare», a «scintille lampeggianti o cerchi di fuoco». Ricorrente l’uso del paragone, infine, per rendere il colore. Ricordo solo la descrizione del vomito in caso di colera, che passa attraverso
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un’articolata gamma di colori con il progredire della malattia (prima è «di bile gialla, poi simile al rosso d’uovo, poi di color verde porro, ruggine e infine nero»), per poi essere definito, nella fase ingravescente, «simile a lavatura di carne». Questa stessa associazione è usata anche nel trattato Malattie delle donne di Sorano, dove il paragone con la lavatura di carne indica l’aspetto del liquido sanguinolento che accompagna l’espulsione del feto in caso di aborto e il colore delle secrezioni femminili in una delle loro manifestazioni patologiche. È interessante la vitalità di questo paragone: derivato a Sorano dal medico di età ellenistica Demetrio di Apamea, esso sarà ripreso da Galeno e dai suoi compilatori ed esegeti di età bizantina e medievale, per indicare in modo particolare il colore delle deiezioni, nel quadro clinico dell’epatopatia. L’eredità galenica è stata raccolta anche dalla moderna urologia, che con l’espressione “a lavatura di carne” indica il colore di un tipo di ematuria. C’è un altro elemento dei trattati di Celio Aureliano in cui la raffinatezza dell’osservazione si spinge al massimo grado, ed è quello della diagnosi differenziale, dove la precisione del dettaglio è necessaria per distinguere tra malattie simili. Per averne un’idea, riporto a chiusura di
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questo paragrafo il passo in cui si forniscono le indicazioni che aiutano a distinguere i malati di una patologia caratterizzata da febbre e delirio, la frenite, caduti addormentati poiché la malattia è in remissione, da quelli che un aggravamento del morbo, evolutosi in letargia, ha sprofondato in un sonno patologico. Dopo aver precisato quali sono gli otto elementi ai quali bisogna prestare attenzione (colorito del malato, espressione del volto, respirazione, polso, sensazione al tatto, posizione durante il decubito, grado della febbre e tempo in cui il sonno si manifesta), Celio Aureliano si sofferma a renderne conto in questo modo: Ho detto che si distinguono per il colorito: infatti, il corpo di chi è semplicemente addormentato non presenta alterazioni, è florido e pieno di vita e ha un aspetto molto naturale; quello di chi è affetto dallo stupor letargico, invece, si presenta pallido, plumbeo o di qualunque altro colore non naturale. Ancora, l’espressione di chi dorme risulta allegra, quella dei letargici, triste; analogamente, la respirazione di chi dorme appare regolare, quella dei letargici, lenta. Distinguiamo le due categorie anche sulla base del polso, poiché, sebbene in entrambi i casi esso sia teso e grande, tuttavia nei letargici si presenta vuoto, in chi dorme, pieno.
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Inoltre, nei letargici i precordi sono molto tesi al tatto e tutto il corpo diventa più duro per la condizione di eccessiva costipazione. Al contrario, nel caso di chi dorme, poiché la costipazione diminui sce, anche la regione precordiale si rilassa e tutto il corpo risulta più morbido al tatto. Un’indicazione per la diagnosi differenziale si deduce anche dalla posizione nel decubito, dato che i letargici scivolano dalla testa del letto alla parte dei piedi e giacciono in una posizione scomposta e disordinata, mentre chi dorme si riconosce dalla posizione naturale. Ho detto che si distinguono dal grado della febbre: infatti, la febbre di chi dorme è più bassa e più blanda, quella dei letargici più alta e più aggressiva. E perciò si deve anche tenere conto dei tempi. Se infatti i pazienti hanno perso coscienza nella fase di declino della malattia o durante la remissione o il declino dell’attacco, facciamo diagnosi di sonno; al contrario, se tale perdita avviene nel periodo di incremento della malattia o durante l’attacco, e soprattutto all’inizio, ci pronunciamo per la letargia.
3. Aprire la scatola nera Dal V secolo a.C. in poi, dunque, l’occhio del medico osserva il corpo del paziente sottoponendolo a un’analisi scrupolosa condotta
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con l’ausilio di tutti i sensi. Il corpo descritto in contesti come quelli qui esaminati, tuttavia, è per lo più un corpo patologico, e per un paio di secoli quello che i medici sono in grado di osservare è soltanto il suo involucro esteriore. La prospettiva cambia quando la pratica sistematica della dissezione consente finalmente di guardare dentro quel corpo, al cui interno si immaginava che avessero luogo i processi di una fisiologia umorale fondata solo sulla conoscenza dei materiali in ingresso e in uscita. A partire da quel momento, la medicina dei fluidi lascia il posto a una medicina incentrata sugli organi e le loro funzioni, alla luce della quale l’umoralismo ippocratico deve essere ripensato per il suo sviluppo futuro. E se l’osservazione delle alterazioni patologiche del corpo, come abbiamo detto, continua a essere scrupolosamente praticata ai fini della diagnosi e della terapia, il medico si interessa ora anche allo stato di salute, sforzandosi di comprendere come si presentino gli organi e come si esplichino le funzioni fisiologiche in un corpo sano. Questa rivoluzione epistemologica, com’è stata efficacemente definita, si realizzò ad Alessandria d’Egitto sotto il patrocinio dei Tolemei. Qui la floridezza economica e, soprattutto, la volon-
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tà dei sovrani di dare un fondamento culturale al loro potere politico, legittimandosi anche come gli eredi spirituali di Alessandro Magno, crearono le condizioni ideali perché la città sul delta del Nilo diventasse un centro di richiamo e di scambio. Attirati dalle due istituzioni culturali della biblioteca, che Tolemeo II Filadelfo aveva allestito secondo il modello della scuola di Aristotele e le direttive del filosofo peripatetico Demetrio Falereo, e del Museo, una sorta di istituto di ricerca i cui ospiti erano mantenuti dallo Stato, consumando pasti in comune, ad Alessandria confluirono infatti, da varie aree del mondo greco, non solo poeti e grammatici, spesso incarnati dalla stessa persona, ma anche scienziati. Vi giunse da Cirene Eratostene, un erudito dai molti interessi, noto soprattutto per la sua misurazione straordinariamente precisa della circonferenza terrestre, che per un certo periodo ricoprì anche il ruolo di bibliotecario e fu in contatto con il siracusano Archimede. Da Perga, in Panfilia, con l’intento di studiare con Euclide, vi giunse Apollonio, matematico e astronomo noto soprattutto per i suoi studi sulle sezioni coniche. Soprattutto vi giunsero, il primo da Calcedone, il secondo da Ceo, i medici Erofilo
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ed Erasistrato. Furono loro, come abbiamo anticipato, ad avviare le dissezioni del corpo umano e alle loro scoperte è dedicato questo paragrafo. Ma prima di trasferirci ad Alessandria, dobbiamo passare per Atene. Perché ad Atene opera Aristotele, e Aristotele è una tappa fondamentale nel percorso che porta alla nuova medicina di età ellenistica, così come lo è per gli studi sulla produzione teatrale e per l’ordinamento della biblioteca dei Tolemei. Il filosofo di Stagira incrocia il percorso dei medici nei suoi scritti biologici, nei quali, peraltro, delinea una nuova figura di physikós, aperto anche alla conoscenza dei principi basilari della salute e della malattia come parte di un sapere globale sulla natura. I non addetti ai lavori conoscono poco queste parti della sua produzione, che pure costituiscono circa un terzo dell’intero corpus del filosofo e il luogo privilegiato per la formazione e l’applicazione di alcuni dei temi portanti del suo pensiero (la teoria delle cause, la teleologia, la dottrina dell’atto e della potenza). Troviamo in questi trattati (in particolare in quello intitolato Generazione e corruzione) una dottrina degli elementi (aria, acqua, terra e fuoco) e delle qualità (caldo, freddo, secco e umido) come componenti primari dei corpi organici e inorganici
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che costituisce un punto di intersezione con la medicina, in particolare con quella cosiddetta “logica”, interessata alle questioni teoriche. Ma, soprattutto, viene eretto in questi scritti, com’è stato detto, «un edificio di anatomo-fisiologia comparata» fondato sull’assioma dell’esistenza di un rapporto di senso fra la struttura di un organo e la relativa funzione (un’applicazione della teleologia che caratterizza il pensiero del filosofo), da cui la medicina non avrebbe più potuto prescindere e con il quale, al contrario, si sarebbe misurata fino a Galeno. Una condizione rese possibile questi avanzamenti: il ricorso alla dissezione. Convinto che per conoscere veramente un organismo animale non bastasse interrogare macellai, allevatori e pescatori, ma fosse necessario ispezionarne direttamente la struttura e gli organi interni, Aristotele aprì infatti il corpo animale, dando avvio, per la prima volta nel mondo greco, all’esercizio sistematico della dissezione. L’era delle scoperte anatomiche era cominciata; toccava ora ai medici alessandrini raccogliere l’eredità di Aristotele e correggerne gli errori di osservazione. Due sono, con la teleologia, gli assi portanti della fisiologia aristotelica. Il primo è il paradigma termico cardiocentrico: Aristotele riteneva,
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infatti, che il motore fondamentale di tutti i processi fisiologici fosse costituito dal calore innato posto nel cuore, che dunque, in quanto “focolare del corpo”, costituiva per il filosofo l’organo principale a tutti gli effetti, sia delle funzioni vitali, dalla nutrizione alla riproduzione, sia della percezione e del pensiero. All’interno di questo modello, i maggiori processi fisiologici erano pensati come livelli successivi di “cozione” degli alimenti, trasformati in sangue per la nutrizione, poi, solo nei maschi, a partire dal sangue e per ulteriore cozione, in seme. Contro la tradizione ippocratica, nettamente encefalocentrica, e contro lo stesso Platone (ma il primato del cervello era già stato affermato nel VI/V secolo a.C. da Alcmeone di Crotone), il cervello veniva così declassato a vantaggio del cuore e ridotto a mero organo refrigerante del calore cardiaco. L’altro elemento-chiave del sistema era costituito dallo pneuma innato, una sorta di vapore caldo, prodotto dal cuore e impossibile da osservare, a cui Aristotele attribuiva, proprio per ciò, una pluralità di funzioni che non era in grado di spiegare altrimenti. Poiché ignorava il sistema nervoso, che identificava con i tendini, egli assegnava allo pneuma un ruolo nella percezione, considerandolo il mezzo di trasmissione degli
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impulsi sensoriali dagli organi di senso al cuore. Dallo pneuma faceva inoltre dipendere il movimento volontario, considerandolo intermediario delle decisioni dal cuore a tendini e muscoli. Infine, con questo fluido misterioso identificava la componente volatile del seme maschile che trasmette all’embrione – come abbiamo visto – la forma della specie, assegnandogli così anche un ruolo nella generazione. Aristotele, tuttavia, disseziona animali. La vera svolta avviene quando i Tolemei, infrangendo il tabù secolare dell’inviolabilità del cadavere, autorizzano la dissezione dei criminali condannati a morte a fini scientifici e, secondo una notizia di Celso (discussa ma esplicita), anche la vivisezione: li sezionavano e, mentre il respiro ancora permaneva nei loro corpi, studiavano le parti che la natura aveva fino ad allora nascosto, la loro posizione, il colore, la forma, le dimensioni, […] le reciproche inserzioni […]. Né è crudele, come molti sostengono, che i rimedi per le persone innocenti di ogni tempo siano ricercati attraverso il supplizio di pochi criminali.
Questo accesso al corpo umano non fu un’acquisizione definitiva, ma solo una procedura ec-
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cezionale. Dopo la metà del III secolo a.C., con l’esaurirsi di quello che è stato definito «il clima da nuova frontiera intellettuale» della prima Alessandria, la dissezione umana tornò infatti a essere proibita e tale proibizione restò in vigore per tutta la durata del mondo antico, dove più di una volta si levarono voci contro tali pratiche del passato, soprattutto, come è facile immaginare, da parte di autori cristiani quali Tertulliano e Agostino. Si tornò a sezionare e a vivisezionare animali, con la consapevolezza, generalmente diffusa, che la morte cambiasse in ogni caso la natura del corpo, e nel foro boario, in età imperiale, era possibile incontrare personaggi che si aggiravano in cerca di organi: erano gli assistenti dei medici. Lo stesso Galeno, autore di opere di anatomia tra cui i poderosi Procedimenti anatomici in quindici libri (in greco se ne conservano sette, ma gli altri sono stati messi in salvo dalla traduzione araba), se si escludono alcune occasioni del tutto fortuite in cui poté sezionare cadaveri insepolti o riportati alla luce dall’apertura di una tomba, fu costretto a compiere le sue dissezioni sugli animali. Egli ne sezionò di ogni specie, tutti quelli che gli capitavano a tiro. Sezionò animali esotici, leoni, cammelli, coccodrilli, ip-
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popotami, serpenti; quando capitò che a Roma venisse sgozzato un elefante, ne individuò nel cuore quello che i paleontologi descrivono come una formazione cartilaginea, ma che egli credette essere un osso; fattoselo consegnare dai cuochi dell’imperatore, probabilmente Commodo, lo tenne esposto in casa sua suscitando, per la sua intuizione, l’ammirazione dei visitatori. Sezionò balene, orsi, ma anche maiali, faine, topi, molte specie di uccelli e pesci e altri animali marini; non provò a sezionare soltanto zanzare, formiche, pulci, evidentemente scoraggiato dalle loro dimensioni eccessivamente ridotte. Al primo posto della sua scala, tuttavia, pose le scimmie, in particolare la specie definita oggi il Macacus rhesus che dell’uomo gli sembrava una «ridicola imitazione» e che insegna a sezionare nel quarto libro dei suoi Procedimenti anatomici: la somiglianza con l’uomo era stata segnalata da Aristotele e diventerà una regola per gli anatomisti di epoca romana. Galeno compì scoperte importanti, quali, nel campo della miologia, quelle dei muscoli che muovono le palpebre superiori o l’articolazione di ogni dito, di cui ci informa in prima persona, o, per quanto riguarda le ossa, apofisi, epifisi, diafisi e scatola cranica, ma il fatto di non sezio-
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nare corpi umani influenzò negativamente alcune sue conclusioni. Di questo limite, del resto, il medico di Pergamo era pienamente consapevole: perciò esorta gli aspiranti medici a recarsi ad Alessandria, dove si conservavano ancora scheletri umani sui quali si poteva studiare direttamente almeno l’anatomia delle ossa, e perciò si scaglia contro i medici ignoranti, che nella guerra contro i Germani, pur avendone la libertà, non si erano dati pena di sezionare i cadaveri dei barbari e pertanto «non appresero nulla di più di ciò che sanno i macellai». Ma tutto questo avvenne dopo. Prima che il tabù tornasse in vigore, i medici che gravitarono attorno alla corte dei Tolemei poterono compiere fondamentali scoperte e revisionare su queste basi l’anatomia e la fisiologia aristoteliche, superandone alcuni concetti, a partire dal cardiocentrismo, insieme con la teoria del calore e dello pneuma innati. Ciò non vuol dire che venissero abbandonate tutte le tesi aristoteliche: Galeno in particolare, come avremo modo di constatare anche nel prossimo capitolo, ne riprenderà il paradigma termico e il teleologismo, applicandolo minutamente a tutte le parti del corpo nell’opera intitolata proprio per questo L’utilità delle parti.
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A riaffermare su basi anatomiche il primato del cervello in relazione all’attività cognitiva fu Erofilo, che fu anche il primo a descrivere i principali ventricoli di quest’organo e le loro formazioni, tra cui il cosiddetto kálamos (oggi “calamo scrittorio”, così chiamato per la sua forma), situato in corrispondenza del pavimento del quarto ventricolo, e il lenos (letteralmente “torchio”), ovvero la struttura che costituisce la confluenza dei quattro grandi seni venosi del cranio, cui ancora oggi si dà il nome di “torculare di Erofilo”. Egli studiò gli organi genitali maschili e femminili, compiendo scoperte su cui avremo occasione di tornare nel prossimo capitolo, e ha lasciato la prima descrizione classica del fegato, un organo che aveva affascinato gli autori greci, da Omero ad Aristotele, i quali peraltro ne avevano intuito la funzione vitale individuando in esso la sede dei sentimenti e dell’irrazionale. Erofilo studiò inoltre l’anatomia dell’occhio: a quanto pare (ma la cautela è d’obbligo, poiché tutta la produzione medica alessandrina, come quella della prima età imperiale, ci è giunta solo in frammenti), distinse nell’organo quattro membrane; inoltre, egli scoprì e descrisse il nervo ottico. La menzione del nervo ottico ci introduce al contributo più rilevante che Erofilo diede all’a-
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natomia, quello della scoperta dei nervi, che per primo distinse dai tendini e dai terminali arteriosi; il medico ne individuò l’origine nel cervelletto e nel midollo spinale adiacente e li classificò in motori, dal corpo solido ed elastico, responsabili del movimento volontario, e sensori, cavi e molli e pieni di pneuma, che dovevano fungere da medium per la trasmissione del messaggio percettivo. Proprio la scoperta che il cervelletto è il centro responsabile dell’attività muscolare e dell’equilibrio del corpo, compiuta attraverso la vivisezione, dovette portare Erofilo a concludere che questa parte del cervello è quella che esercita il controllo più significativo sul corpo e a formulare una teoria che godette di grande fortuna e che anche Galeno poté poi confermare a partire dai suoi esperimenti sugli animali. Nervi motori e tendini vennero considerati da Erofilo come componenti di un’unica famiglia nervoso-tendinea, e forse da questo dipende il fatto che l’uso della terminologia greca relativa (nervi/tendini) non è sempre coerente. Se Erofilo riesce a spiegare il funzionamento dei nervi sensori ricorrendo al medium dello pneuma (le testimonianze superstiti riguardano il nervo ottico, ma è lecito estendere il meccanismo all’intera categoria), resta problematica, in-
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vece, la trasmissione del movimento volontario, visto che non è perfettamente chiara la funzione da lui assegnata al corpo del nervo. Galeno gli rimprovererà di non avergli attribuito quella di órganon, ovvero di strumento, ma solo quella di causa, sulla quale peraltro il medico di Pergamo non poteva essere d’accordo, poiché nel suo pensiero fisiologico la causa del movimento va ricondotta solo a una delle facoltà naturali che sovrintendono a ogni tipo di modificazione di un corpo. Quanto all’altro sistema di vasi, Erofilo distinse per la prima volta vene e arterie in base allo spessore delle rispettive tuniche e al loro contenuto: considerò le vene vasi sanguigni, con la funzione di trasmettere il nutrimento al corpo, mentre le arterie conterrebbero pneuma, oltre a una certa quantità di sangue, destinato al nutrimento delle tuniche: un dettaglio, questo, in contrasto con il pensiero del suo maestro Prassagora e con quello di Erasistrato (lo vedremo fra breve), ma in accordo con la posizione che avrebbe assunto poi Galeno. Lo pneuma nelle arterie, a differenza di quello contenuto nei nervi, proverrebbe dal cuore, così come il sangue, e sembrerebbe legato alla respirazione: da qui quella distinzione, che sarebbe poi divenuta
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canonica, tra pneuma vitale e pneuma psichico (Galeno ipotizza anche l’esistenza di uno pneuma naturale contenuto nel fegato e nelle vene). Secondo Erofilo, esso non veniva pompato nelle arterie dal cuore, ma erano le stesse arterie ad attirarlo per dilatazione, come facevano, direttamente dall’esterno, i pori epidermici, secondo il modello tecnologico del mantice. Il modello del mantice è applicato anche alla respirazione polmonare. Distaccandosi dalla tradizione precedente, nella quale era fatta dipendere dal calore e dal movimento del cuore, Erofilo la ascrive puramente alla facoltà del polmone e del torace di dilatarsi e di contrarsi in passaggi successivi. I frammenti superstiti ci permettono di identificare quattro fasi che, attraverso movimenti di dilatazione e contrazione, portano l’aria dall’esterno al polmone e dal polmone al torace e viceversa, quando il torace è pieno. Non siamo però in grado di ricostruire come lo pneuma possa raggiungere il cuore per essere da qui attirato nelle vene, e questa è una difficoltà della fisiologia di Erofilo, se non si tratta di un’altra lacuna della nostra conoscenza. In questo sistema, infine, arterie e pneuma sono responsabili dei movimenti involontari, tra cui si annovera anche la pulsazione, dovuta alle
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sistoli e alle diastoli arteriose. Erofilo fu il primo a studiare il polso e a usarlo come strumento diagnostico: questa acquisizione fu un regalo del nuovo sapere anatomo-fisiologico alla tradizionale semeiotica ippocratica, di grande valore diagnostico persino per la rilevazione della febbre in un’epoca che non conosceva l’uso del termometro. Le scoperte di Erofilo furono continuate e sistematizzate da Erasistrato, di poco più giovane, ma attivo nel medesimo milieu. Egli distinse il cervello dal cervelletto; inoltre, studiò le circonvoluzioni della corteccia cerebrale e, dopo averne notato la diversità nei vari animali e aver constatato che nell’uomo si presentavano più complesse, ne dedusse che la cosa fosse da correlare al suo maggiore grado di intelligenza. Rispetto a Erofilo, Erasistrato ebbe una conoscenza più avanzata delle valvole cardiache, che gli consentì di concepire il cuore come una doppia pompa fornita di valvole unidirezionali, all’origine dei più importanti processi organici, quali nutrimento e respirazione. Nel suo sistema di pensiero, infatti, la sistole del ventricolo destro pompa sangue nelle vene che lo distribui scono a tutto il corpo, ricostituendo la materia organica consumata, mentre quella del ventri-
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colo sinistro pompa pneuma nelle arterie, dopo che la diastole ne ha effettuato il richiamo dal polmone al cuore. Da qui lo pneuma si bipartisce, in modo che la parte più cospicua raggiunga le cavità muscolari, per costituire il principio energetico dei movimenti, mentre l’altra parte perviene alle meningi e ai ventricoli cerebrali e qui si trasforma in pneuma psichico, necessario per la trasmissione degli impulsi sensori e del movimento. Quanto al problema posto dal confronto con l’esperienza sensibile, che fa rilevare la presenza di sangue al momento della perforazione di un’arteria, Erasistrato lo aveva risolto ipotizzando che la fuoriuscita (invisibile) dello pneuma contenuto nell’arteria, che si realizzava di conseguenza, richiamasse sangue dalle vene per il vuoto prodottosi, mediante la forzatura di un’invisibile synanastómosis, una connessione provvista di valvole, situata tra i terminali capillari di vene e arterie. Il sangue che fuoriusciva dall’arteria proveniva dunque, in ultima analisi, da lì. A differenza di Erofilo, che sembra aver integrato nel nuovo sistema anatomo-fisiologico la patologia umorale (un segno della forza della tradizione ippocratica, dalla quale, come abbiamo detto, non prescinde neppure Galeno),
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per Erasistrato il rapporto tra salute e malattia si gioca sul permanere delle tre “materie” (sangue, pneuma psichico e pneuma vitale) nei rispettivi vasi (vene, nervi, arterie). La malattia trarrebbe infatti origine dalla pletora, ovvero da un eccesso di materia, in particolare di sangue, nell’organismo, che tracimando nei sistemi contigui (è questo il fenomeno della parémptosis) altererebbe le condizioni fisiologiche del corpo. Per spiegare la nutrizione, cioè l’apporto di sangue alle tuniche dei nervi e delle arterie, che egli voleva assolutamente prive di sangue per garantire lo stato di salute, Erasistrato ipotizzò l’esistenza della triplokía, un intreccio invisibile di nervi, arterie e vene di cui sarebbero composte le pareti dei nervi, delle arterie e delle vene osservabili. Un’altra struttura “teoricamente osservabile” (logoi theoretón), come la synanastómosis, con cui riusciva a far quadrare i conti nei punti chiave della sua anatomo-fisiologia, risolvendone le difficoltà epistemologiche. Per la triplokía, è probabile che Erasistrato avesse come modello le molle a torsione che costitui vano l’elemento propulsivo dell’artiglieria ellenistica, formate di crini e tendini intrecciati, mentre dietro il sistema in cui si inserisce la synanastómosis si coglie il modello dei disposi-
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tivi pneumatici, sifoni, pompe o altri macchinari ad aria compressa. Come scrive Mario Vegetti, «l’osservabilità teorica deriverebbe allora da una trasformazione metaforica di una osservazione effettiva». 4. Il corpo innamorato Erasistrato scrisse sull’eziologia e la terapia di molte malattie, tra cui le febbri, le affezioni del tubo digerente e la podagra. Inoltre, fu il primo a redigere un trattato interamente dedicato all’idropisia, un versamento di liquido in una cavità del corpo o nel tessuto intracellulare di cui soffrirono personaggi storici illustri – dal filosofo Eraclito a Cervantes, dall’imperatore Adriano a Boccaccio –, che i moderni considerano non una malattia in sé stessa, ma un sintomo di vari stati patologici. Sappiamo, peraltro, che Erasistrato si opponeva alla pratica della paracentesi, già in uso presso i medici ippocratici, ovvero all’eva cuazione dell’accumulo di tale liquido dalla cavità addominale attraverso l’incisione e l’introduzione di una cannula, per averla sperimentata personalmente con esiti fatali per i pazienti. Il nome di Erasistrato fa però la sua comparsa anche a proposito di un caso celebre di mal
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d’amore come quello del medico che diagnosticò tale “patologia” ad Antioco I Soter (324-261 a.C.), figlio di Seleuco I di Macedonia e della battriana Apama. L’episodio è ricordato in varie fonti, da Valerio Massimo all’imperatore Giuliano passando per Plutarco e Galeno, con variazioni e modalità che vanno dalla semplice menzione alla narrazione diffusa. Raccontano tali fonti che il principe si innamorò perdutamente della giovane moglie del padre, Stratonice, figlia di Demetrio Poliorcete, la quale aveva già avuto un figlio da Seleuco, allora ultrasessantenne. Consapevole di provare un sentimento illecito, il giovane – così viene definito, ma all’epoca dei fatti doveva avere in realtà circa trent’anni – lo tenne nascosto e, dopo aver lottato invano contro la sua passione, cadde in uno stato di prostrazione che lo portò a un passo dalla morte. Richiesto di un consulto, il medico Erasistrato avrebbe riconosciuto che il principe soffriva di mal d’amore; inoltre, osservando con attenzione le reazioni del suo corpo alla vista di giovani e giovanette che potevano aver suscitato la sua passione (nella versione riferita dall’imperatore Giuliano è organizzato dal medico un vero e proprio défilé), era riuscito a capire che l’oggetto del desiderio era la matrigna. Dopo averne
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fatto partecipe Seleuco, direttamente o – come racconta Plutarco – con uno stratagemma (Erasistrato aveva finto che il principe fosse innamorato della propria moglie, inducendo il re a chiedergli di rinunciare a lei per chi era la sua ragione di vita), Seleuco non avrebbe esitato a cedere Stratonice al figlio, che nel 293-292 a.C. la sposò e fu nominato reggente delle satrapie orientali. Precisiamo subito che se il matrimonio, con la nomina di Antioco a reggente, è un dato storico, Erasistrato con ogni probabilità non fu l’autore della diagnosi, che Valerio Massimo attribuisce in alternativa all’astrologo Leptine, Plinio il Vecchio a Cleombroto, medico di Seleuco e padre di Erasistrato. Lo dimostra non solo questa discordanza nelle fonti, ma anche l’esistenza di due tipi diversi di diagnosi, in una delle quali soltanto si fa ricorso all’alterazione del battito del polso: visto che la diagnosi attraverso il polso si afferma in età alessandrina, come si è detto, questo sintomo deve essere stato introdotto nel racconto più tardi, verisimilmente insieme al personaggio di Erasistrato. Può darsi anche che sia stato proprio Cleombroto a essere chiamato al capezzale di Antioco, come qualcuno ha ipotizzato, e che poi il suo nome sia stato sostituito
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con quello ben più noto del figlio. Comunque sia andata, a noi non interessa sapere chi ha posato il suo sguardo diagnostico sul corpo di Antioco, quanto il fatto che una passione dell’animo, producendo i suoi effetti sul corpo, possa diventare campo di indagine medica attraverso i suoi segni esteriori osservabili. La storia di Antioco ci offre perciò l’opportunità di guardare al corpo innamorato in una prospettiva diversa, attraverso l’ottica oggettiva e analitica del medico. Quello di Antioco non è in effetti l’unico caso clinico di malato d’amore conservato nella letteratura greco-romana. Una storia analoga, la cui fonte più antica è una Vita di Ippocrate attribuita a Sorano di Efeso, si raccontava per esempio a proposito di Perdicca II, re di Macedonia dal 450 al 413 a.C., innamorato della concubina del padre Alessandro Filelleno, all’epoca già morto. Stavolta al capezzale del malato è convocato nientemeno che il grande medico di Cos, il quale svela la situazione alla donna e lo guarisce. Della storia, considerata una variante più recente della vicenda di Antioco, e oltre tutto eticamente non problematica (era del tutto lecito che il giovane sposasse la concubina del padre morto), è tuttavia più nota la rielaborazione che ne offre un poemetto anonimo
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tardo-antico, La malattia di Perdicca, scoperto da Emil Baehrens nel 1877, che in duecentonovanta esametri sventaglia tutta la fenomenologia fisica e psichica dell’innamoramento. In questa versione Perdicca si consuma d’amore per la madre Castalia a causa di una vendetta di Afrodite, a cui il ragazzo non tributa i dovuti onori. La vicenda, insomma, ripropone il triangolo del racconto mitico di Ippolito, il quale attira su di sé la punizione di Afrodite per il fatto di disdegnare il culto di questa dea e detestare in generale il mondo femminile, con la differenza che a nutrire l’amore incestuoso non è il giovane, ma la matrigna Fedra, di cui la dea si serve per compiere la sua vendetta. Come Erasistrato fa con Antioco, anche Ippocrate, con evidente anacronismo, riconosce la malattia d’amore e individua la persona che l’ha suscitata alla palpazione del polso, una pratica diagnostica che si afferma, come si è detto, solo in età alessandrina. Diversamente da Antioco, tuttavia, nel caso di Perdicca è (inevitabilmente!) escluso l’happy ending, e il giovane (come accade a Fedra nella tragedia euripidea) si uccide per impiccagione. Come ultimo esempio si può citare quello di Cariclea, protagonista delle Etiopiche di Eliodoro. In questo elegante romanzo greco, datato fra
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il III e il IV secolo d.C., la passione per il nobile Teagene, bello come Achille, sconvolge l’eroina a cui essere sacerdotessa di Artemide imporrebbe la castità, alterandone corpo e mente e gettandola in uno stato di debolezza e di languore. Scambiata in un primo momento per effetto del malocchio e come tale sottoposta dal padre all’intervento del sacerdote Calasiri, la malattia d’amore viene poi diagnosticata attraverso una visita accurata del dotto Acessino – un medico dal nome parlante, visto che akéomai in greco significa “curare” – di cui Eliodoro riferisce in dettaglio tutti i passaggi. Dopo aver valutato ogni dettaglio, compreso il dato sfigmologico, da cui tuttavia non trae conseguenze, dopo aver considerato che «non esiste alcuna zona ingrossata, il mal di testa non la tormenta, la febbre non la brucia e nessun’altra parte del corpo risulta in qualche modo sofferente», Acessino dichiara che la malattia della ragazza è l’amore e l’unica cura è l’unione con l’oggetto del desiderio, affidando, tuttavia, al padre il compito di individuare l’amato e la definitiva risoluzione della questione. Questi i casi clinici in letteratura; ma la concezione delle passioni come altrettante patologie, che matura nell’ambito delle filosofie ellenisti-
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che, concede loro diritto di cittadinanza anche nella produzione medica. A causa dello stato frammentario della documentazione, non siamo in grado di ricostruire con esattezza la trattazione della patologia d’amore fino al II secolo d.C.; al contrario, da Galeno all’età bizantina si può individuare una tradizione coerente. La passione amorosa in particolare trova spazio nei manuali di patologia, accanto alla trattazione di altre malattie, quali la frenite, la melancolia e la follia, di cui secondo alcuni l’amore sarebbe una delle manifestazioni. Di amore si tratta anche nei libri sulle febbri, che nel contesto delle febbri effimere dedicano uno specifico capitolo ai febbricitanti per amore, prima che i trattati di patologia facciano spazio a capitoli interi Sugli innamorati o Sull’amore. Inoltre, l’amore è considerato insieme ad altre forme di turbamento dell’anima quali l’ansia, la paura o il pensiero intenso, rivolto ossessivamente a qualche oggetto (in greco phrontís), di cui secondo il medico bizantino Paolo di Egina la passione amorosa costituisce una forma: Non è fuori luogo aggiungere l’amore alle affezioni del cervello, poiché è una sorta di pensiero intenso. Il pensiero intenso [phrontís] è un’affe-
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zione dell’anima che si ha quando la facoltà razionale è impegnata in un movimento accompagnato da fatica.
In realtà, c’è una singolare coincidenza fra testi letterari e testi medici quando si descrivono i sintomi del mal d’amore e anche una certa osmosi, tant’è che quello di Antioco, probabilmente per la correlazione con Erasistrato, diventa per i medici un caso clinico emblematico. Quali sono, dunque, i sintomi del corpo innamorato? A volerne fornire un quadro complessivo (ma le fonti superstiti mostrano come l’osservazione si sia progressivamente affinata), essi si possono individuare nel deperimento fisico, nel pallore, nell’irrequietezza, nell’insonnia, negli occhi infossati e secchi, ad essa collegabili e «sempre ardenti di fiamme», come si esprime l’autore della Malattia di Perdicca, a volte nella febbre, quando il desiderio resta irrealizzato per un periodo di tempo abbastanza lungo. A partire da un certo momento si dà maggiore rilievo agli occhi: Oribasio, medico dell’imperatore Giuliano e compilatore di Galeno, aggiunge all’elenco uno sguardo languido (definisce infatti gli occhi dell’innamorato «pieni di piacere») e lo sbattere delle palpebre, precisando che «mentre le altre parti del corpo si accasciano, solo gli occhi negli
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innamorati non lo fanno». Ma anche Eliodoro aveva sottolineato lo sguardo perso degli occhi cerchiati di Cariclea, la quale, peraltro, mostra quella contiguità di amore e follia che troviamo codificata in alcuni trattati di medicina nel cedimento della ragione e nel farneticare ad alta voce: come la Fedra euripidea, che vagheggia i boschi e la caccia, evocando luoghi e attività dell’amato, alla presenza del sacerdote la ragazza recita, infatti, un verso dell’Iliade, «O Achille, figlio di Peleo, di gran lunga il più forte degli Achei», evidentemente perché il giovane di cui è innamorata ricorda la bellezza dell’eroe. A questi sintomi si aggiungono poi elementi che riguardano il comportamento sociale degli innamorati, che si mostrano completamente sordi alle parole di amici e familiari e rifiutano di collaborare con il medico all’anamnesi: così Antioco, così Cariclea, così la signora della buona società antonina innamorata di un pantomimo al cui capezzale è chiamato Galeno, che nel trattato Prognosi racconta la vicenda proprio accostandola al caso di Antioco ed Erasistrato; anch’ella, infatti, rifiuta la comunicazione, girando le spalle al medico come per mettersi a dormire. Infine, ma al primo posto per la rilevanza diagnostica, è segno di malattia d’amore l’altera-
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zione del polso, che abbiamo visto svolgere un ruolo determinante nella diagnosi di Antioco e Perdicca e che è risolutiva anche nella diagnosi di mal d’amore fatta da Galeno: un sintomo, quello della pulsazione arteriosa, talmente significativo che ha portato alcuni medici a sostenere l’esistenza di uno specifico “polso erotico” e indotto, per converso, Galeno a puntualizzare che la pulsazione arteriosa si altera allo stesso modo per ogni turbamento dell’animo, di qualunque natura esso sia. Questi, dunque, i sintomi del mal d’amore riconoscibili in contesti in cui l’innamorato è, per così dire, medicalizzato, ovvero esaminato dallo sguardo analitico e oggettivo di un medico che ha l’obiettivo di descrivere una patologia o di formulare una diagnosi. Non sono stati i medici, però, né gli autori che hanno dato forma alla vicenda di Antioco i primi a descrivere la sintomatologia amorosa, bensì Saffo nella mirabile lirica conosciuta impropriamente come Ode della gelosia, in cui la poetessa di Lesbo, vissuta tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C., descrive il turbamento che le provoca la vista della fanciulla amata a colloquio con un uomo. È celebre questo componimento, oggetto di traduzioni e imitazioni che van-
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no da Catullo a Quasimodo (e oltre), passando per Racine, Foscolo, Tennyson, Pascoli e altri; un componimento che qualcuno ha interpretato, per la presenza dell’uomo, nei termini di un epitalamio, altri come uno dei carmi d’addio dedicati da Saffo alle compagne che abbandonano il suo circolo per sposarsi. In ogni caso, la presenza dell’uomo è del tutto ininfluente di fronte alla descrizione della passione amorosa, della quale sono enucleati dieci sintomi fulminanti, descritti, come da tempo è stato sottolineato, con un linguaggio che anticipa quello dei medici ippocratici e accostati l’uno all’altro secondo la modalità dei quadri clinici nei trattati di medicina: lo sconvolgimento del cuore in petto (un sobbalzo?), l’afasia improvvisa per lo «spezzarsi» della lingua (forse un balbettio), un fuoco sottile che si insinua sotto la pelle, l’ottenebrarsi della vista, il rimbombo delle orecchie, una sudorazione fredda e abbondante, un tremore diffuso, un pallore che il paragone con l’erba fa percepire come verde e umido, la sensazione della morte imminente. Sintomi, questi, che Plutarco aggiunge all’anomalia del polso nella descrizione dell’alterazione psicofisica di Antioco alla vista di Stratonice, offrendo in tal modo nel suo racconto il più comple-
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to quadro semeiotico dell’innamoramento del sovrano. Ma mettiamo a confronto i testi. Ecco la meravigliosa lirica di Saffo, pervenuta mutila della sezione finale, nella recente traduzione di Camillo Neri: A me pare che sia uguale agli dèi quell’uomo – chi sia – che di fronte a te siede, e accanto, mentre sì dolcemente parli, ti ascolta, e sorridi e susciti desiderio, ciò che mi sconvolge il cuore nel petto: ché appena ti vedo, non mi è concesso dire più nulla, ma la lingua si è franta ed un sottile fuoco tosto corre sotto la pelle, con gli occhi non vedo nulla e rimbomba no le orecchie, e freddo sudore si effonde, e un tremito tutta mi cattura, e sono più verde dell’erba, e al morire poco lontana paio a me stessa. Ma tutto si può sopportare dacché…
Ed ecco la parte del racconto di Plutarco che descrive la malattia di Antioco, sfruttandone l’eredità:
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Era infatti accaduto, a quanto pare, che Antioco si fosse invaghito di Stratonice […]. Tormentato, dopo aver lottato in tutti i modi con la passione, alla fine […] cercò un modo per liberarsi della vita. A poco a poco si lasciò deperire, trascurò la cura del proprio corpo e si astenne dal cibo, simulando una malattia. Senonché il medico Erasistrato non ebbe difficoltà ad accorgersi che era amore: difficile invece era scoprire di chi fosse innamorato. Per farlo, rimaneva costantemente nella camera e se entrava qualche giovinetto o qualche donna nel fiore della bellezza, guardava in faccia Antioco e osservava le parti e i moti del corpo che per natura condividono più vivamente le emozioni dell’animo. Ora, quando entravano altri, Antioco rimaneva com’era; ma quando gli faceva visita Stratonice […] spesso si verificavano in lui tutti quei sintomi che descrive Saffo: blocco della voce, rossore di fuoco, annebbiamento della vista, improvvisi sudori, irregolarità e disordini nelle pulsazioni, e infine, col cedimento totale dell’anima, smarrimento, stordimento, pallore.
Si noterà che i sintomi di Saffo, estrapolati dal loro contesto poetico e parafrasati in prosa, sono riprodotti da Plutarco pressoché in toto, con qualche eccezione, per lo più spiegabile: se non risulta perspicua l’assenza del tremito, infatti, si comprende quella del balzo del cuore in petto,
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che in realtà è semplicemente sostituito dalle pulsazioni disordinate che ne sono l’effetto. Quanto allo spezzarsi della lingua, Plutarco, come dimostra altrove, doveva considerare il sintomo tutt’uno con l’afasia, mentre il ronzio alle orecchie non sarà stato registrato perché non può essere percepito dal medico. Filtrate dallo sguardo analitico e oggettivo di chi isola i segni e li sottopone a verifica per poterne fornire, attraverso una diagnosi, un’interpretazione complessiva, sottratte alla modalità comunicativa dell’effusione personale, private insieme alla musica del verso di tutti i tratti di stile che ne fanno un esempio di sublime poetico (è l’Anonimo cosiddetto del Sublime, infatti, ad averci conservato i versi di Saffo), le parole della poetessa di Lesbo vivono una seconda vita nel testo di Plutarco, riducendosi a puro dato denotativo. «Certi amori non finiscono», recita il testo di una bella canzone degli anni Novanta. E neppure finiscono di vivere – potremmo aggiungere noi – certe insuperabili descrizioni dell’amore.
III
Il corpo “altro”
1. «Why can’t a woman be more like a man?» Nel finale di uno dei suoi dialoghi più noti, il Timeo, Platone, formidabile inventore di miti a sfondo filosofico, traccia una storia della vita sulla terra nella quale presenta la differenziazione dei generi maschile e femminile come l’esito di un processo di mutazione degenerativa. In un primo momento, spiega Platone, il genere umano era composto solo di uomini. Quando, secondo la dottrina della metempsicosi, essi nacquero una seconda volta, le anime degli uomini vili, che avevano trascorso la loro vita nell’ingiustizia, si reincarnarono in donne. Allo stesso modo, secondo un criterio peggiorativo si generarono anche le famiglie degli animali: gli uomini poco curiosi della verità rinacquero come animali pedestri e selvaggi; quelli più irragionevoli ancora si reincarnarono in rettili;
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infine, dagli esseri più stolti e più ignoranti di tutti si generò la specie degli animali acquatici, che gli dèi non ritennero degni neppure di una respirazione vera e propria. Per Platone, dunque, la differenziazione tra uomo e donna coincide con la perdita di una perfezione originaria e il genere femminile si colloca al confine tra l’umano e il bestiale, all’inizio del processo degenerativo che ne deriva. In realtà, con diverso immaginario e variato in senso peggiorativo, lo schema proposto dal Timeo è quello della versione mitica tradizionale sull’origine delle donne, raccontata tre secoli prima dal poeta Esiodo. In questo racconto, infatti, i mortali formavano in principio con gli immortali una società omogenea, in cui regnava una felicità senza riserve. Ma quando il titano Prometeo sfidò Zeus, fino al punto di rubargli il fuoco per farne dono agli uomini, il sovrano dell’Olimpo si vendicò inviando sulla terra un nuovo essere vivente, sino ad allora sconosciuto se non fra gli dèi, la donna. Il dio artigiano per eccellenza, Efesto, mescolò acqua e fango e plasmò una creatura «simile a vergine vereconda»; poi, dopo che essa fu dotata di ogni ornamento da parte di tutti gli dèi, Pandora (questo il nome assegnatole, da pan, “ogni”, e doron, “dono”) fu condotta sulla terra tra gli
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uomini insieme con un vaso che conteneva al suo interno tutti i mali da cui gli uomini erano stati sino ad allora esenti. L’arrivo di Pandora – creata dall’acqua e dal fango proprio come il mito voleva che fosse stato creato l’uomo, ma artatamente, con il solo scopo di punirlo – dà origine alla stirpe delle donne, segnando per l’umanità la fine dello stato primigenio di beatitudine. Se è vero che il mito è una chiave d’accesso importante alla percezione che una cultura ha di sé, nulla come questi racconti dimostra quanto fosse radicata nei Greci l’idea di un’alterità negativa delle donne o, come nel mito del Timeo, di una loro connaturata inferiorità, che costituisce, variamente declinata, una costante del pensiero antico. Su tale pregiudizio si fondava lo statuto giuridico che sottometteva la donna all’uomo o le precludeva determinate attività, ritenute monopolio del mondo maschile, riconoscendogliene come specifiche altre, in primis la tessitura o la cucina. È la stessa prospettiva misogina, inoltre, ad alimentare l’elaborazione di una caratterologia femminile che rovescia in maniera simmetrica quella dell’uomo, di cui l’esempio più significativo resta forse il catalogo del giambografo Semonide di Amorgo (VII secolo a.C.), nel quale le donne sono classificate
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per tipi in base ai difetti che ciascuna di esse condivide con un animale, con l’esclusione della sola, laboriosa donna-ape. «Perché la donna non è come noi?», «Why can’t a woman be more like a man?», secondo le battute del testo originale, chiede al colonnello Pickering un perplesso Mr. Higgins in My Fair Lady, celebre commedia musicale tratta da Pigmalione di George Bernard Shaw, più nota per la versione cinematografica firmata da George Cukor nel 1962 e interpretata da Audrey Hepburn e Rex Harrison. E ancora: «Perché pensare è qualcosa che le donne non fanno mai? E perché non provano mai a usare la logica?». E se quella di Higgins è una misoginia trattata con ironia scherzosa, secondo le regole di una commedia brillante, il cui finale non può che prevederne la sconfitta, non sono mancate, in età moderna, voci autorevoli che hanno declinato l’alterità femminile in termini analoghi, magari cum ira et studio, ma con pretese di oggettività scientifica. È il caso di Arthur Schopenhauer, che, in un’epoca in cui figure femminili dell’Illuminismo e del Romanticismo come Germaine de Staël, Henriette Herz e la stessa madre del filosofo, Johanna Trosiener, intraprendevano il lungo cammino verso l’emancipazione, elabora
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un’antropologia del comportamento della donna di cui può essere significativo questo esiguo campionario di citazioni: Le donne sono sexus sequior, il secondo sesso, che da ogni punto di vista è inferiore al sesso maschile. Quando la natura spaccò il genere umano in due metà, il taglio non fu da essa fatto proprio nel mezzo. Nonostante la polarità, la differenza fra polo positivo e polo negativo non è soltanto qualitativa, ma anche quantitativa. Le donne sono destinate unicamente alla propagazione del genere umano e in ciò si esaurisce il loro compito. Quando le leggi concessero alle donne gli stessi diritti degli uomini, avrebbero anche dovuto munirle di un’intelligenza maschile. Le teste più dotate dell’intero sesso femminile […] non sono mai state capaci di produrre una qualche opera di valore duraturo.
Cum ira et studio, abbiamo scritto con Franco Volpi, curatore di un florilegio di sentenze sulle donne del pensatore tedesco: e in effetti le vicende personali di Schopenhauer sono tali, dal tormentato rapporto con la madre alle infelici avventure sentimentali, che non possono non aver influito sulla sua considerazione del gene-
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re femminile. Colpisce, però, nelle parole del pensatore moderno la piena consonanza con le fonti antiche: in particolare, Schopenhauer sembra condividere con queste la persuasione che l’inferiorità femminile sia uno stato naturale, e dunque immodificabile, piuttosto che la conseguenza di precise condizioni sociali, economiche e culturali. Una persuasione, del resto, che si pone in continuità con tutta una tradizione filosofica che va da Aristotele a Rousseau passando per Tommaso d’Aquino e i giusnaturalisti, secondo la quale «la natura delle donne è, in primo luogo, la composizione del loro corpo», o, per dirla con Rousseau, «non v’è alcuna parità dei due sessi quanto alle conseguenze del sesso», perché «lo spirito delle donne risponde […] perfettamente alla loro costituzione» e «i loro teneri muscoli sono senza resistenza». Perché si levi una voce diversa bisogna attendere, in piena Rivoluzione francese, il trattato Sull’ammissione delle donne al diritto di cittadinanza del marchese di Condorcet (1790), in cui il diritto naturale prende il posto della legge naturale; ma la stessa testimonianza di Schopenhauer mostra quanto siano dure a morire le vecchie convinzioni. Tra i molti esempi di misoginia rintracciabili nella letteratura antica, i più significativi sono in
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effetti quelli da cui traluce l’idea di un’inferiorità biologica della donna, che ne legittima di per sé il ruolo sociale e la sottomissione giuridico- economica all’uomo. Scrive, per esempio, nella Politica, quell’Aristotele che anche per le sue idee sulle donne Schopenhauer non omette di elogiare, che «la relazione che sussiste tra il maschio e la femmina è per natura quella di chi è migliore verso chi è peggiore, di chi comanda verso chi è comandato». E Senofonte, discepolo di Socrate, afferma a sua volta nell’Economico che «gli dèi […] hanno reso la donna naturalmente capace di fare alcune cose che anche la legge approva» e che nel prosieguo dell’operetta si precisano nel compito di procreare, controllare la gestione e i beni della casa e occuparsi degli schiavi ammalati. Nel I secolo d.C. il filosofo Seneca prima definisce la donna «un essere senza senno», incline ad abbandonarsi ai suoi istinti e a ogni tipo di passione se non acquisisce una educazione superiore, poi aggiunge che i generi femminile e maschile «contribuiscono allo stesso modo alla vita comune, ma uno è nato per obbedire, l’altro per comandare». Infine, nel VII secolo d.C., all’inizio di un Medioevo che esaspera in chiave etica questa distinzione tra i sessi, il vescovo Isi-
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doro di Siviglia, nelle sue Etimologie, fa derivare i nomi di vir e mulier dalla differenza naturale dei due generi e spiega che L’uomo è stato chiamato vir perché in lui vi è più vis, ossia più forza, che nelle femmine, donde anche il nome virtù [virtus]; ovvero [ed ecco la legittimazione dell’autorità dell’uomo sulla donna] perché vi, ossia con la forza, tratta la femmina stessa. La donna, invece, è stata chiamata mulier con riferimento alla sua mollezza [mollitia], quasi fosse mollier, con eliminazione o cambio di una lettera.
L’etimologia degli antichi non obbedisce a rigorosi criteri linguistici, ma è spesso nulla più che una paretimologia: è quello che accade qui per mulier e per il suo presunto legame con il termine mollitia, fondato su una semplice assonanza fra le due parole. Proprio per questo, però, tali etimologie risultano interessanti, in quanto rivelano il rapporto necessario che gli antichi credevano di cogliere tra le parole e le cose. Nel nostro caso, Isidoro lascia affiorare lo stesso bisogno delle altre fonti antiche che abbiamo citato: quello di ridurre il sociale al biologico, così da legittimarlo in modo pieno e sottrarlo a ogni discussione. Del resto, sarebbe strano se nel sentimento ambivalente, di attrazione e repulsione, che
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l’uomo ha da sempre provato per la donna e nell’esigenza di dominarla che esso implica non giocasse un ruolo il corpo: quel corpo femminile così diverso, della cui peculiarità la mestruazione mensile era il segno più vistoso e inquietante, ma dal quale l’uomo doveva accettare di dipendere per la continuazione della specie. E quanto questa dipendenza potesse pesare lo esprimono in modo eloquente le parole con cui Giasone risponde alle accuse di Medea, nella tragedia omonima di Euripide, che difficilmente avranno mancato di strappare un applauso al loro risuonare nella cavea del teatro di Dioniso ad Atene, quel giorno di primavera del 431 a.C. in cui la vicenda veniva messa in scena per la prima volta: Bisognerebbe che gli uomini generassero i figli in qualche altro modo e non esistesse la razza delle donne; in questo modo per loro non ci sarebbe alcun male.
Poco diverse le parole di disprezzo che sempre Euripide fa pronunciare al casto Ippolito, a proposito di quel genere femminile che lo stesso personaggio definiva senza esitazioni, nella tragedia a cui dà il nome, «un fraudolento malanno» (kýbdelon kakón):
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O Zeus, perché hai messo alla luce e imposto agli uomini la donna, questo fraudolento malanno? Se era nel tuo intento propagare il genere umano, non era necessario farlo attraverso le donne. Gli uomini avrebbero dovuto semplicemente, depositando nei templi una somma in oro o in bronzo o in ferro, comprare la generazione dei propri figli a seconda del valore della propria offerta, e così avrebbero avuto le loro case libere dalle donne. Che la donna sia un malanno, è chiaro dal fatto che il padre che l’ha generata e allevata paga un prezzo per liberarsene. Viceversa, chi se lo porta a casa, questo malanno, gode di adornare con gioielli l’immagine malvagia e spende in vestiti, disgraziato! E così dilapida gli averi della sua casa. Il meno peggio è ancora tenersi in casa una nullità, stupida e buona a niente. Le donne sapienti le odio, e mai vorrei a casa mia una più intelligente del dovuto. È in donne come queste che Afrodite instilla di più la malizia, mentre proprio lo scarso cervello preserva dal vizio la donna scema. Bisognerebbe non farle avvicinare dalle serve; quelle che stanno con loro dovrebbero essere bestie mute, così da non poter scambiare parola.
Come concepivano, dunque, i Greci il corpo femminile? E quanto la medicina e la biologia greche, con l’autorevolezza che si riconosce a un discorso che si presume neutrale poiché scien-
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tifico, hanno contribuito a fondare l’idea di una inferiorità naturale della donna? È quello che andremo a indagare nei prossimi paragrafi. 2. Un corpo in precario equilibrio Abbiamo già detto che nella Collezione ippocratica la donna è considerata portatrice di un seme più debole e acquoso e che la nascita di una femmina è il frutto della prevalenza di tale seme al momento della procreazione. Una simile debolezza, anche questo lo sappiamo già, condiziona lo sviluppo più lento della femmina nell’utero materno e – aggiungiamo ora – si riflette nelle condizioni fisiche della gravida, al punto che osservando la madre si possono formulare predizioni sul sesso del nascituro: per esempio, come leggiamo in una delle opere ippocratiche più famose, gli Aforismi, «una donna gravida ha un buon colorito se è incinta di un maschio, cattivo se lo è di una femmina». Altri segni si ricavano poi dall’aspetto diverso che prendono nel corpo della gestante la parte destra o la parte sinistra, per tradizione collegate rispettivamente, come abbiamo visto a proposito delle teorie sulla generazione, al maschio e alla
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femmina. Leggiamo, per esempio, la ricca rassegna di opposizioni polari conservata nell’enciclopedia medica di Aezio Amideno, risalente al V secolo d.C., il quale, citando Ippocrate e altri, sembra riconoscere a questa credenza una certa diffusione tra i medici: Ippocrate – con altri – dice che è segno di gravidanza di un maschio il fatto che la gestante è colorita e agile, ed ha il seno destro più sviluppato e gonfio, con il capezzolo rizzato, mentre, se è incinta di una femmina, è piuttosto pallida; in quest’ultimo caso è il seno sinistro a essere più gonfio, e specialmente il capezzolo. Nella gravidanza di un maschio, poi, i vasi sanguigni della parte destra, voglio dire le vene, si trovano a essere più gonfi, e specialmente quelli sotto la lingua; nella gravidanza di una femmina, invece, sono più gonfi quelli della parte sinistra. Segno evidentissimo e sicuro è che nella gravidanza dei maschi la pulsazione della mano destra della gestante è più forte e più rapida, più sostenuta e dura; in caso di gravidanza di femmina, tale è invece la pulsazione della mano sinistra.
È però nei testi ginecologici della Collezione che questa asimmetria di genere viene sviluppata fino alle sue estreme conseguenze; in tali scritti, che sono tra i più antichi della raccolta, viene infatti a configurarsi l’immagine di un cor-
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po femminile difettoso, totalmente incentrato sulla sua finalità riproduttiva, del quale anche le specifiche funzioni fisiologiche sono ricondotte a uno scarto patologico dal corpo maschile. Abbiamo detto a proposito della dottrina del seme che, dove non può fondarsi sull’osservazione diretta, il pensiero antico costruisce modelli basandosi su presupposti teorici e subendo l’inevitabile condizionamento dei pregiudizi sociali. Per quanto riguarda l’osservazione diretta, il dato vistoso e imprescindibile era quello dell’evacuazione mensile della donna, di cui non poteva sfuggire il rapporto con la gravidanza; per quanto riguarda invece i presupposti teorici, l’autore ippocratico immaginava il corpo femminile all’interno di una generale idea di corpo concepito – lo abbiamo visto nel capitolo precedente – come luogo di circolazione degli umori, dei quali gli organi costituiscono i contenitori. A partire da queste premesse, la medicina ippocratica spiega le mestruazioni come il residuo del processo di metabolizzazione del cibo in sangue, che la donna assorbirebbe dallo stomaco in quantità superiore al necessario a causa della natura delle sue carni, umide e spugnose. Tale surplus di sangue, essendo quest’ultimo per sua natura caldo, creerebbe anche uno squili-
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brio termico, che, unito alla pletora (l’eccesso di sangue), metterebbe il corpo femminile in uno stato di sofferenza, richiedendo periodicamente un’evacuazione dell’umore in eccesso. Leggiamo direttamente quanto scrive l’autore del trattato ippocratico Malattie delle donne I, in cui questo modello viene esposto nel modo più completo: Io dico che la donna ha carne più rada e più morbida dell’uomo […]. Così, dunque, anche la donna, poiché ha una natura più porosa, attira l’umore dal ventre al corpo in maggiore quantità e più velocemente dell’uomo, e poiché è più porosa, quando il corpo si è riempito di sangue, se non c’è evacuazione, nello stato di pletora e di calore in cui si trovano le carni, c’è sofferenza. La donna ha il sangue più caldo ed è il motivo per cui è più calda dell’uomo. Ma se lo stato di pletora che si è prodotto si evacua, a causa del sangue non si producono né dolore né calore.
Attenzione: il calore di per sé è un valore positivo nella fisiologia antica. In Aristotele infatti, che adotta un paradigma termico in cui il calore costituisce il principio attivo dei processi naturali, la contrapposizione uomo/donna si presenta anche – lo abbiamo visto e ci torneremo – come contrapposizione caldo/freddo. Nel modello ip-
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pocratico, tuttavia, in cui «la donna ha il sangue più caldo ed […] è più calda dell’uomo», la contrapposizione termica tra i due sessi non si realizza come opposizione polare freddo/caldo, ma nei termini di uno stato di equilibrio vs uno di eccesso. L’autore di Malattie delle donne I, nel seguito del passo citato, mostra infatti di concepire il corpo della donna come strutturalmente patologico, in contrapposizione allo stato di equilibrio naturale del corpo sano del maschio; in quest’ultimo, infatti, per la compattezza della sua carne, il sangue che costituisce il residuo alimentare si presenta in una quantità del tutto fisiologica e in ogni caso tale da essere smaltita dall’attività fisica, che è prerogativa maschile: L’uomo, avendo la carne più densa della donna non si riempie in eccesso di sangue così che, se non ne evacua mensilmente una certa quantità, si ammala; egli attinge quello che richiede il nutrimento del corpo, e il suo corpo, senza essere molle, non è troppo tonico e neppure troppo caldo per la pletora come quello della donna. A ciò non poco contribuisce poi nell’uomo il fatto che egli si affatica di più della donna; l’affaticamento infatti dissipa l’umore.
Da questo modello fisiologico (nel quale, peraltro, si riflette un caposaldo della cultura greca
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tradizionale, quello della donna che si garantisce i mezzi di sostentamento standosene comodamente a casa, grazie alla fatica dell’uomo) derivano due importanti conseguenze. La prima consiste nell’attenzione costante del medico ippocratico alla mestruazione, in cui si individua il processo regolatore del precario equilibrio della fisiologia femminile. Mentre la presenza mensile delle mestruazioni è segno di buona salute, l’inceppamento del meccanismo di evacuazione, di cui non a caso il nome più ricorrente è “purgazione” (kátharsis in greco, purgatio in latino), porta infatti con sé una serie di disturbi, che vanno dal semplice dolore variamente localizzato sino all’insorgere di formazioni tumorali o alla follia. Particolarmente esposte a questi rischi sembrerebbero le vergini, dal momento che l’assenza di rapporti sessuali rende in loro meno pervi i vasi da cui passano il seme e il sangue mestruale; quest’ultimo, non trovando agevole sbocco all’esterno, si riversa sul cuore e sul diaframma, rendendole preda di visioni che le spaventano fino a spingerle alla morte. Ma la mancanza della mestruazione crea uno squilibrio in qualunque corpo femminile e per questo il medico ippocratico dà fondo a un ricco e variato arsenale di rimedi allo scopo di provocarla:
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pozioni varie (quali scorza di finocchio marino triturata nel vino, idromele annacquato o altro beveraggio a base di vino, in cui sia ammollato il tronco di quattro cantaridi, con grani neri di peonia, uova di seppia e semi di lino), bagni di vapore, fumigazioni all’utero e pessari, ovvero tamponi di cotone o lana impregnati di medicamenti (miele e foglie di vite, narciso, cantaride, grasso d’oca, ecc.), da assumere per via vaginale. La seconda conseguenza, più importante per le sue implicazioni sociali, è l’identificazione del matrimonio e della gravidanza come condizioni necessarie a mantenere in salute il corpo della donna. Così come il rapporto sessuale, infatti, anche la maternità rende più dilatati e più effusivi i vasi da cui passano il seme e il sangue mestruale, facilitando anche i movimenti di apertura dell’utero. Inoltre, e soprattutto, la gravidanza consente di compiere nel modo migliore il processo di smaltimento del residuo alimentare. Durante la gestazione, come già sappiamo, il sangue che dovrebbe essere evacuato diventa la base da cui si forma il nutrimento dell’embrione; quanto il feto non ha assorbito, inoltre, viene eliminato subito dopo il parto tramite la purgazione lochiale, mentre nel periodo successivo l’evacuazione del surplus continua tramite l’allattamento.
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Il latte deriva, infatti, come scrive ancora l’autore di Malattie delle donne I, dalla parte più grassa e bianca del residuo dei cibi, che, addolcita dal calore naturale del ventre, quando la donna ha partorito va a depositarsi nelle mammelle, le quali lo attirano «come per suzione» (gli antichi credevano a un collegamento tra organi della riproduzione e seno): «Necessariamente allora il resto del corpo si svuota […] e diventa meno pieno di sangue». Nel senso di una valorizzazione della gravidanza come garanzia dello stato di salute va inteso anche l’altro elemento caratteristico della ginecologia ippocratica: l’interpretazione dell’organo femminile per eccellenza, l’utero, nei termini di un contenitore in movimento libero attraverso l’intero corpo della donna, assimilato a un canale compreso fra due orifizi, la bocca vera e propria e l’orifizio uterino, che in greco si chiama ugualmente “bocca” o, al diminutivo, “boccuccia” (stoma, stómion; in latino os, osculum o, più frequentemente, orificium). Per come è concepito dagli autori ippocratici, infatti, la caratteristica peculiare di questo organo è la sua autonomia di movimento, che lo porta da un lato ad aprirsi e chiudersi secondo i movimenti della vita genitale e sessuale della donna
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(per lasciar uscire il sangue mestruale, accogliere il seme maschile e trattenerlo, proteggere il feto durante la gravidanza ed espellerlo invece al momento del parto), dall’altro a spostarsi all’interno del corpo femminile nelle direzioni più varie, attirato dagli odori e dall’umidità, così da mettere in sofferenza il corpo stesso. Un’idea che doveva essere a tal punto diffusa nella cultura del V e IV secolo a.C. da ritrovarsi persino nel già citato Timeo di Platone: secondo il grande filosofo ateniese, l’utero è come un animale desideroso di fare figli, che quando rimane sterile a lungo dopo la sua stagione, si irrita e lo sopporta male, ed errando dappertutto nel corpo e ostruendo i passaggi dell’aria e impedendo la respirazione, getta il corpo in difficoltà estreme e provoca altre malattie di ogni specie.
Da qui l’affermazione di un altro medico ippocratico, l’autore del trattato I luoghi nell’uomo, secondo cui «l’utero è la causa di tutte le malattie»: un’affermazione che si comprende facilmente se solo si sfoglia quel prontuario terapeutico per le diverse patologie dell’apparato genitale femminile che significativamente porta il titolo di Natura della donna, in cui sono presentati una serie di trattamenti da adottare qua-
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lora i movimenti dell’utero, toccando altri organi vitali, diano origine a stati patologici. Per esempio, quando «aderisce, preme e, se lo si tocca, lo si trova duro sotto il fianco, il dolore prende il basso ventre, i fianchi e le anche, scende verso la gamba e la malata non può distenderla. Spesso si producono suppurazioni». Se invece «l’utero si trova in mezzo alle anche, il dolore coglie il basso ventre e le gambe sono tese; quando la donna va di corpo, i dolori si fanno più acuti e le feci escono con sforzo e piccole; l’urina esce goccia a goccia e la donna ha svenimenti». Se invece «si sposta verso il fegato», organo, peraltro, rigurgitante di umore e quindi dotato di un forte potere attrattivo, «la donna diventa improvvisamente afona, serra i denti, la sua pelle diventa livida». È questo, tra quelli citati, il caso che presenta le conseguenze più gravi, poiché l’organo, spostandosi verso il fegato, viene a ostruire il passaggio dell’aria, cosicché la donna prova un senso di soffocamento arrivando anche a perdere i sensi. Tale sindrome, che si presenta anche quando l’utero tocca gli ipocondri o il cuore, è definita dagli autori post-ippocratici “soffocamento isterico” (hysteriké pnix), cioè dell’utero, che in greco si chiama hystéra: una sindrome
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esclusivamente organica e pertanto diversa dalla moderna isteria, di cui si è voluta invece rappresentare come la progenitrice a partire dal libro del 1965 di Ilza Veith, Hysteria. The History of a Disease. La condizione della donna che ne era colpita poteva essere così grave da apparire simile alla morte: Plinio il Vecchio fa riferimento a questo tipo di spostamento dell’utero (per cui usa l’espressione conversio volvae) quando racconta di aver letto in un libro del filosofo greco Eraclide Pontico, allievo di Platone, «il caso di una donna richiamata in vita dopo essere stata priva di sensi per sette giorni». Per fronteggiare tali movimenti, gli autori ippocratici prescrivono la cosiddetta terapia odorifera, ovvero la somministrazione in corrispondenza dei genitali di fumigazioni aromatiche che attirino l’utero verso il basso, in sinergia con l’inalazione dalle narici di sostanze maleodoranti (bitume, zolfo, corno di cervo, il fumo di uno stoppino appena spento, olio di foca, castoreo), che lo mettano in fuga nella stessa direzione. La via maestra per fronteggiare la tendenza naturale del corpo femminile alla patologia era considerata però la gravidanza, che appesantendo l’utero lo spinge verso il basso, impedendogli il libero vagare. «Queste sono le prescrizioni
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per una vedova», scrive l’autore di Natura della donna dopo aver esposto nel dettaglio la terapia odorifera per riportare al suo posto l’utero che si è spostato contro il fegato, «ma il rimedio migliore è restare incinta. Quanto alla vergine», particolarmente esposta a tali spostamenti a causa della secchezza del suo utero, che non conosceva il seme maschile, la cura poteva essere una sola: «si sposi». 3. Figlie di un dio minore Nessuno potrà mai negare che Aristotele sia stato uno dei pensatori più prolifici e influenti di tutti i tempi; ma con la stessa obiettività si dovrà constatare che egli aveva una concezione profondamente dispregiativa della donna. Non solo nella sua visione politica ne sanciva l’assoluta sottomissione al marito, considerandola alla stregua di un figlio o di uno schiavo, ma il fondamento di tale sottomissione era costruito nelle sue opere biologiche, dalle Ricerche sugli animali alle Parti degli animali, dalla Generazione degli animali alla Locomozione degli animali alle operette che compongono il piccolo corpus dei Parva naturalia. In questa ricca produzione Aristotele sviluppa la tesi dell’inferiorità natu-
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rale del genere femminile nel suo complesso, all’interno di un tentativo di classificazione sistematica di tutte le forme viventi, dagli insetti all’uomo. In questo contesto, l’opera di diminuzione della donna si realizza col ricorso al paradigma teorico della polarità, declinato in una serie di opposizioni – destra/sinistra; alto/basso; forte/debole; veloce/lento; caldo/freddo; più/meno ecc. – in cui il femminile è pensato come un sottoinsieme dell’anatomo-fisiologia dell’uomo, che ne varia regolarmente le qualità collocandosi nella colonna del difettoso. All’interno di questa classificazione, che mescola asserzioni vere e asserzioni false a partire dallo stesso preconcetto ideologico, Aristotele ritiene, per esempio, che i maschi abbiano il cervello più grande, un maggior numero di suture craniche e più denti, tratto che ne assicurerebbe in genere la longevità. La femmina, al contrario, è meno dotata di tendini e ha articolazioni meno robuste, ha pelo più sottile negli animali che hanno pelo […]. Le carni della femmina sono più umide di quelle dei maschi, le ginocchia più ravvicinate, le gambe più sottili, i piedi più delicati […]. Quanto poi alla voce, tutte le femmine l’hanno più sottile e più acuta; fanno eccezione le vacche […]. Le parti naturalmente destinate alla lotta, quali i
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denti, le zanne, le corna, gli sproni e le altre siffatte, in alcuni generi sono presenti nei maschi e affatto assenti nelle femmine […]. In altri generi invece tali parti toccano sia al maschio sia alla femmina, più e meglio però al primo.
Con questa lente deformante, che legge il femminile come difetto del maschile, è interpretato anche l’organo genitale, disposto nella donna in modo contrario a quello del maschio, poiché presenta la parte inferiore della regione pubica cava invece che prominente. Non è tutto: uno dei passi più rivelatori del condizionamento ideologico su cui si regge l’intero sistema è infatti quello in cui Aristotele, con disarmante falsità, attribuisce la formazione del latte anche all’uomo, motivando la differenza con la diversa consistenza delle mammelle: «Il latte», scrive, «si forma anche nei maschi: ma la loro carne è compatta, mentre quella delle femmine è spugnosa e ricca di pori». Così facendo, il filosofo riconduce la differenza all’opposizione codificata di compattezza e porosità, che abbiamo visto operante anche nella concezione ippocratica del corpo, all’interno della quale la donna viene a occupare, una volta di più, il polo negativo. A questo punto, non ci stupirà vedere operante tale asimmetria fin dal momento del par-
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to: quando nasce un maschio il travaglio è più rapido, presentandosi con dolori più acuti e a fitte; viceversa, quando nasce una femmina è più lento e laborioso, e caratterizzato da dolori sordi e continui. La polarità centrale di questa costruzione è però senza dubbio quella termica, che Aristotele applica, come abbiamo già detto, in modo da collocare il maschio nel versante positivo del caldo, la donna in quello negativo del freddo. Dalla sua natura fredda, concepita come una menomazione, la donna è condannata all’inferiorità; da essa dipendono la sua crescita lenta durante la gestazione (caratteristica esclusiva, peraltro, della femmina dell’uomo, perché il feto delle femmine animali non conosce tale ritardo), come anche l’invecchiamento e la morte precoci: La femmina effettivamente acquista definitezza in più lungo tempo del maschio nella madre, ma dopo la nascita tutte le tappe, come per esempio la pubertà, la maturità, la vecchiaia, sono raggiunte compiutamente dalle femmine prima che dai maschi. Ciò perché le femmine sono per natura più deboli e più fredde, e si deve supporre che la natura femminile sia come una menomazione. Per la freddezza il processo di distinzione all’interno si svolge lentamente (la distinzione è infatti
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una cozione, e ciò che cuoce è il calore, e ciò che è più caldo viene cotto), all’esterno invece per la sua debolezza la femmina raggiunge rapidamente la maturità e la vecchiaia.
La conclusione del ragionamento è disarmante: confermando il particolare con l’universale, Aristotele sentenzia che «Tutti gli esseri inferiori giungono, infatti, alla fine più rapidamente, come avviene sia nelle opere dell’arte sia nelle cose messe insieme dalla natura». Come abbiamo già detto a proposito delle teorie della generazione, secondo Aristotele la freddezza condiziona anche in questo campo il ruolo passivo della donna, riducendone il contributo, individuato nel sangue mestruale, a quello della pura materia; agli occhi del filosofo, dunque, solo il padre può considerarsi pleno iure genitore, e poiché è ai genitori che somigliano i figli, in base al principio per cui il simile genera il simile, l’implicazione genetica di questa teoria è che dall’accoppiamento debba necessariamente nascere un maschio. Al contrario, la nascita di una femmina, che si verifica quando il padre è portatore di un seme debole e pertanto incapace di dare forma alla materia, è definita, come abbiamo visto, un prodigio (teras), così come sono prodigi i giganti o i nani o chi ha due teste o quattro mani o il
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fegato a sinistra e la milza a destra, poiché anche quando nasce una femmina «la natura si è in qualche modo fuorviata dal genere». Un dato non poteva essere negato, tuttavia, neanche dal nostro misogino pensatore: senza quel sangue, quella materia, quel “maschio menomato”, quell’“uomo sterile”, quel “prodigio”, come egli ha a definire la donna, il genere umano non avrebbe potuto conservarsi. Egli constata pertanto che Anche chi non rassomiglia ai propri genitori in effetti costituisce in un certo modo un prodigio [teras], perché la natura in questi casi si è in qualche modo fuorviata dal genere. Il primo inizio è nascere femmina e non maschio, ma questo è necessario alla natura, perché si deve conservare il genere degli animali.
Una creatura contro natura, dunque, la donna, ma necessaria alla natura stessa. Solo questa ragione doveva renderla, agli occhi di Aristotele, tollerata e tollerabile. 4. Simmetrie e opposizioni Questo quadro teorico si modifica solo con le ricerche di età alessandrina, che faranno co-
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noscere meglio l’anatomia della donna. L’idea di un corpo femminile umido e poroso, segnato irrimediabilmente dalla patologia e dall’esigenza di un’evacuazione mensile, viene abbandonata: Erofilo di Calcedone – un medico del quale ci è già capitato a lungo di parlare per il suo contributo alla conoscenza dell’anatomia umana, ma che è autore anche di opere ginecologiche, pervenute solo per frammenti – arriva ad affermare che le mestruazioni possano essere utili per certe donne, quanto dannose per altre. La stessa tesi viene rilanciata qualche secolo dopo dal più grande ginecologo dell’antichità, Sorano di Efeso, il quale sostiene la nocività delle mestruazioni per tutte le categorie di donne, anche se tale nocività non è sempre la stessa e può passare inosservata in un corpo poco sensibile al dolore. Inoltre, chiamando a testimone la buona salute delle donne in menopausa o delle ragazze non ancora mestruate, così come il fatto che solo le donne in età fertile hanno le mestruazioni, Sorano sostiene in modo deciso che è la procreazione l’unica ragion d’essere dell’evacuazione mensile: Se la natura […] ha creato le mestruazioni, non ha pensato a preservare la buona salute ma a favorire la procreazione: il ciclo, infatti, non si manifesta
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né nelle donne che non possono ancora procreare, come le bambine, né in quelle che non possono procreare più, come le anziane […]. Bisogna dire che le mestruazioni sono un momento nocivo per la salute di tutte le donne, ma tale nocività tocca di più quelle più cagionevoli, mentre il danno passa inosservato nei corpi più resistenti. Rileviamo che la maggior parte delle donne che non hanno mestruazioni sono più energiche […]; inoltre la fine delle mestruazioni non compromette lo stato di buona salute nelle donne anziane.
Con l’utilità delle mestruazioni cade anche un altro dogma della ginecologia ippocratica, quello che sosteneva l’importanza della maternità per la salute della donna. Al contrario, Sorano si pone nel solco di quanti pensano che la gravidanza e il parto consumano il corpo della donna; chiamando a testimone quanto si constata in natura, egli asserisce che lo stato di salute, sia per la donna sia per l’uomo, è legato alla verginità e che la maternità è necessaria solo alla sopravvivenza della specie. Infine, sulla base delle dissezioni anatomiche di Erofilo, che mettono in luce come l’utero sia trattenuto nella sua sede da membrane che lo collegano agli altri organi pelvici, viene smentita anche l’idea dell’utero vagante, che abbiamo
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visto attestata in Ippocrate e in Platone; anche la soffocazione isterica, la più grave delle patologie causate dal movimento dell’organo, viene spiegata da Sorano in modo più conforme a natura, sicché, riprendendo l’immagine del Timeo platonico, ma per negarne la validità, Sorano scrive che «l’utero non striscia fuori dalla propria tana come un animale selvatico attratto da odori piacevoli e respinto da quelli disgustosi, ma piuttosto si contrae per la costrizione dovuta all’infiammazione». Insomma: dopo Alessandria la medicina non può più legittimare su basi biologiche la presunta natura patologica del corpo femminile né la sua destinazione esclusiva al ruolo materno. Ciò, tuttavia, non vuol dire che non si continui a pensare la donna a partire dall’uomo. Quando Erofilo scopre le ovaie e le tube di Falloppio, senza comprenderne la specificità e applicando il modello dell’anatomia maschile, definisce le ovaie “testicoli” e le tube “canali spermatici”. Egli, infatti, vede nelle ovaie il luogo della produzione non di un ovocita, ma di un seme femminile, che peraltro non considera utile alla generazione, e nelle tube la via attraverso la quale questo seme si riverserebbe nell’utero.
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Nel II secolo d.C., Galeno di Pergamo riprende con Erofilo la teoria ippocratica dei due semi, ma a differenza del medico alessandrino attribuisce anche a quello femminile un ruolo attivo nella procreazione. Ma non per questo il vecchio dogma dell’inferiorità della donna, che trovava fondamento nella sua freddezza, cessa di imporsi. Proprio il paradigma termico, anzi, giustifica per Galeno la differenza dell’apparato genitale femminile, concepito come il doppio introflesso di quello dell’uomo, che non è riuscito a estroflettersi per difetto di calore. In questo, secondo Galeno, la natura della donna è simile a quella delle talpe, che hanno gli occhi all’interno, sebbene le talpe non si avvantaggino in alcun modo della cecità, mentre l’incompiutezza della donna porta un contributo (bontà sua!) alla sopravvivenza della specie: Come dunque l’uomo è il più perfetto di tutti gli animali, così per questo stesso il maschio è più perfetto della femmina. La causa della perfezione è la maggior quantità di calore, che è lo strumento principale della natura […]. Come la talpa ha gli occhi imperfetti, ma non così imperfetti come gli animali che non li hanno affatto, o ne hanno solo un abbozzo, così anche la donna è più imperfetta dell’uomo quanto alle parti genitali; infatti queste
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parti erano state configurate dentro di lei mentre era ancora nell’utero e non potendo sporgere ed emergere all’esterno per la debolezza del calore, resero l’animale stesso che si veniva formando più imperfetto di quello assolutamente perfetto, ma resero alla specie nel complesso un servizio non indifferente, perché dovevano esserci il maschio e la femmina. Non credere infatti che il nostro artefice avrebbe fatto imperfetta e per così dire mutilata la metà di tutto il genere umano volontariamente, se da questa mutilazione non avesse dovuto venire un grande vantaggio.
Niente che non ci si potesse aspettare, del resto, da un medico che spiega anche l’assenza della barba nella donna con una sua presunta inferiorità. Secondo Galeno, infatti, i peli del mento non coprono soltanto le mascelle, ma contribuiscono anche all’abbellimento. Il maschio infatti appare più decoroso, specie nel procedere degli anni, se i peli ne circondano bellamente il mento da ogni parte. […] Nella donna […] l’assenza di peli sul viso, avendo ella il resto del corpo molle e fanciullesco e privo di peli, non può riuscire indecorosa, e del resto quest’animale non ha un carattere così nobile come il maschio, sicché non gli bisogna neppure un aspetto nobile.
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In realtà, neppure le teorie ippocratiche vengono del tutto relegate in soffitta dalle nuove scoperte, ma continuano a circolare per tutto il Medioevo e oltre, in particolare, cambiate di segno, in pratiche e saperi che potremmo definire popolari. L’attenzione esasperata per le mestruazioni, per esempio, che nel pensiero ippocratico si inseriva in un sistema a suo modo razionale e pienamente coerente, costituisce il presupposto di una serie di credenze che sopravvivono fino ai nostri giorni. Ne offrono un significativo campionario alcune pagine della Storia naturale di Plinio il Vecchio, un’opera in cui magia e sapere scientifico, del resto, si mescolano con assoluta disinvoltura in un quadro variegato: Non sarebbe facile trovare qualcosa di più prodigioso [monstrificum] del flusso mestruale delle donne. Al sopraggiungere di una donna che ha le mestruazioni il mosto inacidisce; al suo contatto le messi diventano sterili; muoiono gli innesti, bruciano i germogli dei giardini, cadono i frutti degli alberi presso cui la donna si è fermata; al suo solo sguardo, la lucentezza degli specchi si appanna, si smussa la punta delle lame, si oscura lo splendore dell’avorio, muoiono le api negli alveari; persino il bronzo e il ferro si arrugginiscono all’istante e il bronzo prende un odore sgradevole. I cani, se
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assaggiano il liquido mestruale, diventano rabbiosi e il loro morso è contaminato da un mortale veleno [insanabili veneno]. […] Si dice che anche nelle formiche, animali minuscoli, vi sia una sensibilità per il liquido mestruale; gettano via i granelli che hanno portato alla bocca e in seguito non li riprendono più. Un male siffatto e così grande compare nella donna ogni trenta giorni (il flusso è più abbondante ogni tre mesi); in alcune più di una volta al mese, in altre mai. Ma queste ultime non possono avere figli, dal momento che il sangue mestruale è la materia da cui si genera l’uomo: il seme maschile, come un coagulo, ne fa tutt’uno con se stesso, e questa massa, col passare del tempo, prende vita e forma umana. […] Se le donne indisposte percorrono nude il perimetro di un campo di grano, cadono dalle spighe i bruchi, i piccoli vermi, gli scarabei e altri insetti nocivi […]. Ma bisogna stare attenti che queste donne non lo facciano al sorgere del sole, altrimenti – dicono – si seccano le sementi, come pure, al loro contatto, le viti novelle vanno irrimediabilmente in rovina, la ruta e l’edera, pregiate erbe medicamentose, muoiono all’istante. […] È certo che se una donna in tale stato tocca gli alveari, le api fuggono via; al suo contatto il lino, durante la cottura, annerisce, il filo del rasoio dei barbieri si spunta, il rame prende un odore fetido molto forte e si trasforma in verderame, particolarmente
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se il fatto capita in fase di luna calante; le cavalle, se gravide, abortiscono, anzi a provocare questo incidente basterebbe addirittura lo sguardo della donna mestruata, anche da lontano […]. Le donne stesse sono esposte nella loro persona ai danni causati dal proprio sangue mestruale: se una donna incinta se ne macchia o solamente ci passa sopra, abortisce.
Non scompare del tutto neppure la teoria dell’utero vagante, che a metà del V secolo d.C. fa la sua comparsa in un’opera a pieno titolo scientifica come La medicina dell’autore africano Cassio Felice, in un passo in cui è trattata una malattia dello stomaco che si manifesta con abbondanza di flussi e disturbi digestivi. Dopo aver precisato che questi sintomi si presentano anche alla donna nei primi mesi di gravidanza, il medico latino raccomanda di proibire, quando il paziente è donna, l’uso di una resina odorosa quale lo storace, per evitare che l’utero si sollevi verso lo stomaco attirato dal profumo. Particolarmente interessanti sono per noi, però, le preghiere ispirate alla concezione ippocratica che si trovano attestate a partire dalla tarda antichità, sia in papiri greci sia in manoscritti latini medievali, poiché mostrano come una teoria nata con pretese scientifiche possa perdurare
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nel tempo, trasformata in credenza popolare. In queste preghiere, destinate a essere copiate e portate addosso come amuleti, chi scrive si rivolge all’utero stesso, evidentemente immaginato come un’entità sovrannaturale, perché cessi di tormentare la donna malata. Ne riportiamo qui, a titolo esemplificativo, una, vergata in un manoscritto medico da uno scriba del X secolo, con la quale ci piace concludere questa incursione nell’immaginario antico sul corpo della donna: Ti scongiuro, utero, per nostro signore Gesù Cristo, che camminò sulle acque con piedi asciutti, che curò l’infermo, che scacciò i demoni, resuscitò il morto […] di non nuocere a questa serva di Dio [qui veniva inserito il nome della donna], né di aggrapparti alla sua testa, collo, gola, petto, orecchie, denti, occhi, naso, spalle, braccia, mani, cuore, stomaco, fegato, milza, reni, schiena, lombi, anche, ombelico, viscere, vescica, cosce, tibie, caviglie, piedi o dita, ma di rimanere quietamente nel luogo in cui Dio ti ha relegato, cosicché questa serva di Dio [il suo nome] possa essere curata.
IV
Il corpo degli eroi e degli dèi
1. Una fisicità fuori misura Chi sono gli eroi? La risposta a questa domanda ci viene dal poeta Esiodo, che nelle Opere e giorni traccia una storia dell’umanità concepita nei termini di una progressiva decadenza. Essa inizia infatti in una sorta di Eden, un mondo felice nel quale gli uomini vivevano spensierati al pari di dèi, senza conoscere né la fatica né la miseria, né la malattia né la vecchiaia; si godevano i frutti che la terra produceva spontaneamente e in abbondanza, gioivano nelle feste e poi, senza perdere vigore, morivano, come se cadessero addormentati. A questa epoca felice, a questa età dell’oro, seguirono altre epoche e generazioni meno fortunate, tutte designate dal poeta con nomi di metalli progressivamente più vili: l’età (e la generazione) dell’argento, l’età (e la generazione) del bronzo e infine l’età più infelice di tutte, quel-
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la del ferro in cui vive il poeta, segnata dalla fatica e dalla miseria e dominata dal delitto e dall’ingiustizia. Prima che si scendesse l’ultimo gradino, tuttavia, Zeus volle spezzare la catena del male e regalare alla terra la stirpe degli «uomini eroi», che compì imprese gloriose. Questi eroi, che il poeta chiama anche, sulla scia dei poemi omerici, «semidei», caddero sul campo di battaglia a Tebe, ai tempi di Edipo, o morirono in mare di ritorno dalla guerra di Troia; alcuni Zeus li strappò a questa sorte, dando loro una sede ai confini del mondo, nelle cosiddette Isole dei Beati. Abbiamo cominciato da qui la nostra riflessione sul corpo degli eroi perché l’eroe per eccellenza, nella mentalità dei Greci, è proprio la figura che si ricostruisce dai versi esiodei: un personaggio del mito, e perciò appartenente a un passato avvertito come remotissimo, seppure, per i Greci, reale, che condivide con gli uomini il destino doloroso di invecchiare e morire, ma che rispetto a un comune mortale è dotato di una scintilla divina, riconoscibile nella sua eccezionalità. Si può essere eroi per diritto di nascita, come chi è il frutto dell’unione di una creatura divina (di solito il padre) con una mortale: nacquero così Eracle, da Zeus e Alcmena, già moglie di Anfitrione, erede del regno di Tirinto temporaneamente fuoriuscito
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a Tebe, quando l’eroe fu concepito; Achille, da Peleo, re di Ftia, e da Teti, la più seducente delle ninfe del mare; Enea, da Afrodite e dal pastore Anchise, così bello da suscitare il desiderio della dea. Ma sono eroi anche Ettore, Aiace Telamonio e Diomede, che si coprirono di gloria a Troia, allo stesso modo di Odisseo, l’uomo dal multiforme ingegno (polýtropos), come recita il primo verso del poema a lui consacrato, e ciò senza che nessuno di loro sia figlio di un dio. Inoltre, anche figure della storia potevano subire un processo di “eroizzazione” o essere percepite come eroi, qualora fossero capaci di compiere atti straordinari o morissero in circostanze eccezionali. L’eccezionalità, la dismisura, l’eccesso: è questo essere “fuori norma” che costituisce il tratto distintivo dell’eroe; una dismisura che appare declinata in vari ambiti e in varie direzioni, senza distinzione di confini tra bene e male. Eracle, l’eroe nazionale dei Greci, è colui che libera il mondo dai mostri, portando ovunque la civiltà. Ne erano convinti anche i Romani, secondo i quali l’eroe (che chiamavano Ercole) sarebbe passato per l’Italia e qui avrebbe inaugurato una nuova stagione culturale, ponendo fine ai sacrifici umani. Tuttavia, con lo stesso slancio e la stessa sovrumana energia egli è anche capace,
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in un impeto d’ira, di rompere la cetra sulla testa del suo maestro Lino uccidendolo, quando quest’ultimo si mostra insofferente per la scarsa sensibilità musicale dell’allievo, o di gettare da una rupe un amico leale quale Ifito, e persino di uccidere la propria moglie e i propri figli in preda a un attacco di follia. L’eroe tebano è l’emblema del coraggio senza confini, ma senza limiti sono anche i suoi appetiti, alimentari e sessuali. Eracle mangione e beone è un personaggio della commedia e la sua caratterizzazione in questo senso nell’Alcesti introduce un elemento di evidente comicità nella tragedia euripidea. Quanto alla lussuria, il mito gli attribuisce molte donne: quattro mogli – Megara, Onfale, Deianira, Ebe, che prende in sposa nella sua vita ultraterrena –, un numero imprecisato di relazioni extraconiugali con uomini e donne, lecite e illecite (pensiamo ad Auge, che seduce sebbene fosse una sacerdotessa di Atena Alea e quindi obbligata alla castità), e almeno un’ottantina di figli. Di questi, cinquanta erano nati da altrettante figlie di Tespio, re di Tespi, che secondo una versione del mito l’eroe aveva addirittura fecondato tutte in una sola notte: si capisce bene perché un anonimo poeta ne parlasse come della sua tredicesima fatica. A Roma
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era detto “di Ercole” il nodo che legava la veste nuziale della sposa e che lo sposo scioglieva prima di consumare il matrimonio, e si riteneva che il gesto, oltre ad anticipare l’imminente deflorazione della donna, fosse anche di buon auspicio per un matrimonio fecondo. Eracle, tuttavia, non è il solo eroe dotato di appetiti smodati: lo è anche il ben meno noto Lepreo, eponimo della città di Leprea, che lo sfida a una gara mangiatoria e che, sebbene da tale gara esca sconfitto, è capace di consumare un bue intero alla stregua dello sfidato, e lo stesso è capace di fare l’altrettanto misconosciuto Ida, gemello di Linceo e figlio di Poseidone, che prima aveva morigeratamente diviso l’animale in quattro parti, ma poi aveva finito per mangiarle tutte e quattro. Inoltre, come Eracle, tutti gli eroi sono dotati di un appetito sessuale particolarmente robusto, che spesso li induce a rapire e a violare le donne di cui si invaghiscono: a partire da Teseo. L’eroe nazionale ateniese seduce Arianna, la figlia di Minosse che lo aiuta a uscire vivo dal labirinto in cui è rinchiuso il Minotauro, e Ippolita, la regina delle Amazzoni; rapisce – ben prima che lo facesse Paride, scatenando la guerra di Troia – Elena bambina, insieme all’amico Piritoo; tenta di ra-
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pire dall’Ade Persefone a beneficio dello stesso Piritoo. Quanto a Elena, accortosi che era giovanissima, la portò in Attica e la affidò alle cure dell’amico Afidno, nell’attesa che crescesse e un sorteggio stabilisse a chi, tra lui e Piritoo, dovesse andare in sposa: ma, poi, sappiamo tutti come andò a finire. Gli appetiti degli eroi ci hanno però introdotto a quella corporeità che è il fuoco del nostro libro e, quindi, anche delle nostre riflessioni sull’eroe. E, naturalmente, dopo quanto si è detto, non ci sorprenderà rilevare che anche nel corpo l’eroe è “fuori norma” e che, in sintonia con il mondo in cui vive, dove tutto è grande – l’ira e il dolore, i dardi e le lance, i massi e i prodigi –, tale eccezionalità si manifesta perlopiù nei termini di una struttura fisica possente, accompagnata da uno straordinario vigore. Nel terzo libro dell’Iliade, Priamo interroga Elena, accorsa sulle mura per assistere al duello tra Paride e Menelao, chiedendole il nome dell’uomo «poderoso [pelórios] […], forte [eús] e d’alta statura [megas]», che gli sembra distinguersi fra tutti e che Elena identificherà per lui in Agamennone. E Agamennone non è neppure il più alto dei guerrieri che combattono a Troia, poiché lo stesso Priamo dice di vederne
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altri «più alti di tutta la testa», né è l’unico a essere definito pelórios, termine che abbiamo tradotto «poderoso» ma in cui, come nota Angelo Brelich, il grande storico delle religioni che ha scritto pagine fondamentali sugli eroi greci, il gigantismo si unisce al prodigioso. In Omero, infatti, sono definiti così Achille, che incalza i Troiani nella piana di Troia, Ettore, Perifante, Aiace Oileo. Anche le singole membra di questi personaggi del mito partecipano a tale possanza: «vigorosi» (liparoí) sono i piedi di Agamennone e «possente» (barýs) il braccio di Ipsenore, mentre di Diomede, che ispirato da Atena impazza sul campo di battaglia come un torrente in piena, si sottolinea che è «forte» (kraterós), al punto che, pur ferito a una spalla, è in grado di sollevare un masso enorme, «che non alzerebbero in due gli uomini che vivono oggi». «Gli uomini che vivono oggi»: quelli che Esiodo colloca nell’età del ferro, i comuni mortali venuti a popolare la terra dopo l’età degli eroi. Una scena analoga, con analogo commento, la leggiamo nell’ultimo libro dell’Eneide, quando l’eroe troiano e il suo nemico Turno si affrontano in un duello mortale. Descrivendo il masso che il principe dei Rutuli solleva e lancia contro il proprio avversario, fallendo la presa, prima di
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soggiacere alla vittoria di Enea, Virgilio scrive: «lo porterebbero a stento sul collo dodici uomini scelti, / corpi di uomini quali ai nostri giorni genera la terra». Eracle, che abbiamo sopra nominato, è forse colui che più di ogni altro si presta a illustrare la possanza e il vigore straordinario propri di un eroe: non a caso in varie lingue una forza fuori dal comune si definisce “erculea”, con un uso figurato dell’aggettivo derivato dal suo nome latino, così come si dicono “erculee” una statura eccezionale, un’impresa che richiede un’enorme energia o una fatica estenuante. Qualità fisiche, quelle dell’eroe, su cui le fonti letterarie insistono in vario modo, ma che si colgono a colpo d’occhio nel colossale Eracle Farnese del Museo archeologico nazionale di Napoli, copia marmorea, che dobbiamo a Glicone, di un originale bronzeo di Lisippo del IV secolo a.C. Evochiamo brevemente, per richiamarla alla memoria, la postura di questa statua famosa: Eracle vi è raffigurato a riposo, mentre si appoggia con la spalla sinistra a un supporto costituito dai suoi attributi identificativi, la pelle di leone e la clava, e tiene stretti dietro la schiena, nella mano destra, i pomi delle «Ninfe della sera», le Esperidi, conquistati nella sua penultima fati-
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ca. La dilatazione della fisicità, che si esprime nell’evidenza della muscolatura e nell’altezza, superiore ai 3 metri, ha fatto di questa statua l’immagine esemplare della forza e della potenza muscolare per l’immaginario europeo fin da quando fu scoperta nelle Terme di Caracalla, probabilmente nell’estate del 1545, al punto che – fatto per noi curioso, ma emblematico di quali percorsi stravaganti possa seguire la fortuna del classico – ha attirato su di sé, nel tempo, anche l’interesse degli esperti di culturismo. Il primo a interessarsene fu il padre di questa disciplina, il tedesco Eugen Sandow, che, affascinato dalla corporatura delle statue antiche e dai racconti del mito, nel 1897 si fece fotografare nella posa dell’Eracle Farnese. Non fu una folgorazione occasionale; per tutta la vita, infatti, lo sportivo si impegnò a incarnare quell’ideale estetico, modellando i propri muscoli sui corpi della statuaria greca e romana. Né tale obiettivo è rimasto circoscritto alla sua persona, visto che l’Eracle Farnese campeggia a tutt’oggi nella pubblicità di programmi di body building e che in Italia la statua ha dato addirittura il nome a una competizione nazionale di tale specialità. Può rappresentare una curiosità ulteriore che tale destino fosse stato prefigurato già nel 1825
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dall’anatomista scozzese John Bell, il quale peraltro aveva espresso sulla fisicità della statua un giudizio negativo, vedendo nei suoi muscoli «the bad effects of exaggeration». Tale opinione non sembra però aver riscosso successo fra gli specialisti, che continuarono ancora per tutto il Novecento a prendere a modello la statua per le loro dettagliate descrizioni anatomiche. Ma torniamo al tempo e al mondo degli eroi, per mostrare come Eracle riveli fin da bambino la sua natura ibrida proprio dando dimostrazione di una forza fisica sorprendente. Qui è necessario ricordare le circostanze che portano alla nascita dell’eroe, concepito quando Anfitrione è impegnato in una campagna militare contro i Teleboi e Zeus, invaghitosi di Alcmena, decide di presentarsi alla donna dopo aver assunto le sembianze del marito. Doveva tenerci molto, Zeus, a quell’amplesso, se per farlo durare il più a lungo possibile bloccò il carro del sole nelle sue stalle così da dilazionare di tre notti l’apparire del nuovo giorno: un precedente mitico cui qualche poeta ellenistico si rifece per invocare analoghe dilazioni in favore dei propri amori, tutt’altro che divini. In ogni caso, poiché qualsivoglia accoppiamento di un dio non può che essere fecondo, Alcmena quella notte concepisce
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il rampollo di Zeus, cioè Eracle. Nel frattempo, tuttavia, Anfitrione torna dalla guerra, smanioso a sua volta di salire sul talamo della moglie, e il caso vuole che anche quell’accoppiamento sia fruttuoso, cosicché nella stessa notte la nuova unione procura a Eracle un fratello gemello (ecco un esempio famoso di quella “superfetazione” di cui abbiamo parlato nel primo capitolo), ma stavolta completamente umano. Cose che capitano nel mondo mitico: secondo una tradizione minoritaria, lo stesso avvenne anche a Castore e Polluce, che nascono entrambi da Leda, ma sono rispettivamente figli del mortale Tindareo e di Zeus. In ogni caso, i due bambini di Alcmena rivelano presto la loro diversa natura quando, a pochi giorni dalla nascita, Era, cieca d’odio e di gelosia, suscita dalla profondità della terra due orribili serpenti, pronti a soffocare con le loro spire il neonato divino, frutto del tradimento del marito. Eracle, infatti, li afferra con le proprie mani e li strangola, così come avrebbe fatto in futuro con il terribile leone di Nemea e con altri mostri, contro i quali si sarebbe trovato a combattere per portare a compimento le sue terribili fatiche. A questo riguardo, vale la pena di ricordare anche la variante del mito riferita dallo storico ateniese Ferecide, secondo cui i
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serpenti non erano velenosi ed erano stati posti nella camera dei bambini dallo stesso Anfitrione: messo sull’avviso da Tiresia, il re intendeva infatti capire quale, tra i due gemelli partoriti da Alcmena, fosse suo figlio. Così, quando vide che Eracle affrontava a mani nude i due rettili mentre Ificle fuggiva, non gli restò che concludere, immaginiamo non senza un qualche rammarico, che fosse quest’ultimo a essere nato da lui. A parte la sapidità del racconto, a interessarci è però soprattutto il fatto che l’eroe sia chiamato a rivelare la sua natura attraverso una prova e che a sancirne lo status più che umano sia proprio la sua smisurata energia. Eracle è eroe per il suo pedigree. Ma una forza fisica straordinaria è anche quella del pugile Cleomede di Astipalea, un personaggio storico realmente vissuto all’inizio del V secolo a.C., che alla sua morte l’oracolo di Apollo, per bocca della Pizia, impone di venerare come «l’ultimo degli eroi». La sua vicenda è narrata dal periegeta Pausania. Dopo essere stato squalificato dai giochi olimpici per condotta sleale e privato del titolo per aver ucciso il suo antagonista durante un incontro, fuori di senno per il dolore, Cleomede entra in una scuola e abbatte con un pugno la colonna su cui si reggeva il tetto, facen-
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do morire nel crollo tutti i sessanta allievi che la frequentavano. Naturalmente non è questa la causa per cui venne eroizzato, ma piuttosto ciò che avvenne in seguito: incalzato dai suoi concittadini, Cleomede si rifugia nel santuario di Atena e qui si nasconde all’interno di una grande cassa. Grazie alla sua forza eccezionale, l’uomo tiene serrato il coperchio, trattenendolo dall’interno, al punto che nessuno è in grado di sollevarlo; quando infine si riesce a sfondare la cassa, essa viene però trovata vuota. A questo punto gli abitanti di Astipalea decidono di consultare l’oracolo di Delfi, il quale fornisce agli interroganti la risposta cui già abbiamo fatto cenno: «Ultimo degli eroi è Cleomede di Astipalea, / e voi onoratelo con sacrifici, perché non è più un mortale». La vicenda è dunque paradigmatica del fatto che il vigore eccezionale degli eroi non si indirizzava solo al bene. 2. Di strani ritrovamenti e dimensioni smisurate Il gigantismo caratterizzava perlopiù gli eroi: perlopiù, perché alcuni, a dispetto della loro natura sovraumana, erano bassi. Secondo Angelo Brelich, questo carattere, che in termini mitici si configura come nanismo, sarebbe ammesso a
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malincuore dagli antichi, e dobbiamo presupporre che quando ricorre sia perché lo imponeva una tradizione nota e radicata. Nell’Iliade, per esempio, sono di bassa statura due eroi, Aiace Oileo e Tideo: a proposito di quest’ultimo, il grande commentatore omerico attivo nella tarda età bizantina, il vescovo Eustazio di Tessalonica, affermava che Tideo portava tale destino nel suo nome, che si collegherebbe alla parola greca tytthós, “piccolo”. L’Eracle Farnese è alto 3 metri e 17 centimetri; detto alla maniera antica, sia greca sia romana, poco più di 7 cubiti, visto che un cubito attico, come quello romano, misura 444 millimetri. Secondo lo Pseudo-Apollodoro, però, ovvero secondo colui che tentò di ordinare cronologicamente i racconti del mito greco scrivendo una Biblioteca, l’eroe era un po’ più basso: 4 cubiti, meno di 1 metro e 80 centimetri, misura che, se paragonata ad altre ben superiori in cui gli antichi esprimono la loro percezione del gigantismo degli eroi, può concordare con la sorprendente espressione del grande poeta lirico Pindaro, che definisce «di breve statura» l’eroe simbolo del vigore fisico. Tale statura sembra stridere col racconto dello storico greco Erodoto, che riferisce l’esistenza di un’orma erculea della misura
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di 2 cubiti rimasta impressa su una pietra della Scizia, presso il fiume Tire: davvero troppo lunghi, dei piedi di 90 centimetri, per un’altezza che non raggiunge il metro e ottanta! Ma è vero che 2 cubiti misurava per Erodoto anche il calzare di Perseo, l’eroe figlio di Danae e Zeus che decapitò Medusa, il quale faceva ogni tanto la sua apparizione in Egitto come preannunzio di prosperità, cosicché i 2 cubiti sembrano quasi la misura standard per un piede da eroe. È una curiosa (e gustosa!) coincidenza, invece, che l’Eracle Farnese abbia la stessa altezza che fonti diverse, da Erodoto a Gellio, attribuiscono a un altro famoso personaggio mitico, Oreste, figlio di Agamennone, che all’epoca della guerra di Troia era un bambino, ma poi aveva avuto la sua parte di fama nel mito, diventando matricida per vendicare la morte del padre. E questa misura aveva il supporto di una prova materiale inoppugnabile: niente meno che lo scheletro stesso dell’eroe, rinvenuto nella città peloponnesiaca di Tegea. La letteratura antica ci conserva vari episodi relativi a ritrovamenti di ossa gigantesche, spesso messe in luce dalla voragine che un terremoto apriva nella terra. Si è supposto che, proprio per la loro misura, potessero essere affioramenti di
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fossili preistorici, ma a noi interessa che per la stessa ragione gli antichi pensavano invece che fossero ossa di eroi. L’operetta paradossografica Sulle cose mirabili e i longevi di Flegonte di Tralles, liberto dell’imperatore Adriano, registra alcuni casi di simili ritrovamenti e vari esempi se ne leggono nell’Eroico, il dialogo tra un marinaio fenicio e un vignaiolo scritto qualche decennio più tardi dal retore Flavio Filostrato. In questo secondo testo, il vignaiolo è impegnato a convincere il suo scettico interlocutore dell’esistenza degli eroi, operazione preliminare perché poi egli sia disposto a credere ai poteri di Protesilao, il primo guerriero caduto a Troia: la tomba di quest’ultimo si trova infatti proprio nei pressi della vigna alla cui guardia l’uomo è preposto. E l’argomento principe su cui il vignaiolo fonda la difesa della propria tesi è quello dei ritrovamenti di scheletri giganteschi, che snocciola elencando luoghi, testimoni oculari e soprattutto misure. Ne emerge un catalogo divertente, che ci consente anche di visualizzare concretamente questo mondo “fuori misura”, prendendo coscienza dei termini secondo cui veniva concepito dagli antichi. Il corpo di Aiace Telamonio, per esempio, emerso a Troia dopo che il suo sepolcro era stato
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distrutto dal mare (proprio in riva al mare l’eroe si era tolto la vita per la vergogna, dopo che, sconfitto da Odisseo nella contesa per le armi di Achille, era impazzito e aveva ucciso pecore scambiandole per guerrieri), è un corpo persino più grande di quello di Oreste, poiché il suo scheletro è detto misurare ben 11 cubiti: con una certa coerenza, potremmo notare a margine, visto che nell’Iliade l’epiteto ricorrente di questo personaggio è megas. Un altro scheletro non identificato, interrato in Lidia dentro un cavallo di bronzo ancora prima che Gige divenisse re, è definito genericamente «troppo grande per essere umano»; più precisamente, però, è indicata l’altezza di un tale Ariade, il cui scheletro, trovato in Assiria presso il fiume Oronte, misura ben 30 cubiti. Il vignaiolo ricorda anche un corpo di 22 cubiti, attribuito a un guerriero caduto a Troia, che, rinvenuto sul promontorio Sigeo, ha attirato per ben due mesi una folla immensa da varie parti, in attesa che l’oracolo si pronunciasse sulla sua identificazione. I più grandi di tutti sono quelli degli Aloàdi Oto ed Efialte, figli naturali di Poseidone, ritrovati in Tessaglia, la cui altezza è tale da essere misurata non in cubiti ma in orgìe, nello specifico, 9 orgìe, ovvero, dato che 1 orgìa
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misura 29 metri e 6 centimetri, oltre 260 metri: davvero niente male per due bambini che all’epoca della morte, in cui incapparono per mano di Apollo mentre tentavano la scalata all’Olimpo, avevano soltanto nove anni! Come si è detto, sull’immaginario che assegna agli eroi una statura gigantesca agisce il presupposto della loro superiorità, che si manifesta in primo luogo sul piano fisico. Va in questa direzione il mito delle età dell’uomo di Esiodo, su cui ci siamo soffermati ad apertura di questo capitolo, ma anche il finale del primo libro delle Georgiche: qui Virgilio immagina i contadini del futuro che, arando la terra a Farsalo e a Filippi, rinverranno le armi dei legionari che si sono affrontati in quegli scontri fratricidi e resteranno stupiti alla vista delle ossa immense (grandia […] ossa) offerta dai sepolcri scoperchiati. Era infatti opinione degli antichi che le generazioni umane, anche in età storica, continuassero progressivamente a indebolirsi con il passare del tempo: con una prospettiva vertiginosa, Virgilio sa volgere lo sguardo dal presente al passato, per notare che Turno può sollevare massi enormi, perché ha la forza di dodici uomini scelti del tempo del poeta (lo abbiamo visto sopra), e dal futuro al presente, come in questo passo, dove
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adotta la prospettiva di chi guarderà al tempo del poeta con gli occhi del poi. 3. Le stimmate e il mostruoso L’essere fuori norma del corpo dell’eroe non si esaurisce però nelle sue dimensioni, ma può esprimersi anche attraverso altre forme di anomalia, tutte per difetto. Una di queste è il teriomorfismo, di cui possiamo citare quale esempio Cecrope, il primo mitico re di Atene, nato dalla terra stessa dell’Attica (non per niente era chiamato a provare l’autoctonia ateniese) e perciò immaginato dai Greci come un essere ibrido, uomo dalla vita in su, per il resto serpente. Un’altra forma di anomalia è l’androginismo. In senso pieno, tale caratteristica è prerogativa del solo Ermafrodito, il giovane figlio di Hermes e di Afrodite (e quindi un dio), divenuto una crea tura con i caratteri esteriori di entrambi i sessi a causa dell’amore che aveva suscitato nella ninfa Salmace. Invaghitasi di lui non appena lo vide presso la fonte in cui aveva sede, la ninfa si avvinghiò al giovane pregando gli dèi affinché le concedessero di non essere mai separata dal suo amato; gli dèi la ascoltarono e la fusero insieme al giovane in un unico corpo, la cui identità mista
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è sottolineata dal poeta latino Ovidio, che nelle sue Metamorfosi ne descrive il farsi, attraverso un efficace paragone con l’innesto. Esistono, però, anche eroi che subiscono mutamenti di sesso, così da essere ora donne ora uomini in epoche diverse della loro vita. Ne è un esempio l’indovino Tiresia, che venne trasformato in donna (e rimase tale per sette anni) dopo aver ucciso la femmina di due serpenti che aveva visto accoppiarsi e tornò a essere uomo quando, ripresentandosi sotto i suoi occhi una scena simile, uccise invece il serpente maschio. Non a caso, fu a lui che Zeus ed Era si rivolsero quella volta che stavano polemizzando su quale dei due sessi provasse maggiore piacere durante l’amplesso: con tutta evidenza, Tiresia era l’unico in grado di rispondere a questa insidiosa domanda. E mal gliene incolse, perché avendo affermato che alle donne toccavano i nove decimi del piacere e agli uomini solo il decimo restante, venne reso cieco dalla regina degli dèi. Ma vediamo altre forme di anomalia. Molo, figlio (o fratello, secondo altre fonti) di Deucalione, il Noè della mitologia greca, veniva rappresentato senza testa, e si diceva che gli fosse stata mozzata perché aveva usato violenza a una donna, mentre a Tritone la testa era stata tron-
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cata da un uomo di Tanagra, dopo che lo aveva fatto ubriacare, poiché il mostro usava razziare gli armenti dei Tanagrei. Al contrario, aveva tre teste Gerione, il re dell’isola di Eritea, ucciso da Eracle quando Euristeo gli impose di rubargli le vacche, mentre i figli gemelli di Attore e Molione (o, come anche si diceva, di Poseidone e Molione), secondo la versione antica del mito, costituivano un unico essere mostruoso con due teste. Oltre ad acefalia e policefalia, gli eroi potevano caratterizzarsi per la balbuzie, rappresentata per esempio da Batto, il fondatore di Cirene, che proprio perché fondatore si era meritato il titolo di eroe, e oltre alla balbuzie la gibbosità, caratteristica per esempio di Tersite, un eroe connotato in negativo anche dal punto di vista etico (è lui, nel secondo libro dell’Iliade, a esortare i compagni dell’esercito acheo all’ammutinamento), che Omero dice essere «il più spregevole [aíschistos] fra tutti quelli venuti all’assedio di Troia». Le anomalie più ampiamente attestate tra gli eroi sono però quelle che riguardano i piedi e le gambe. La mitologia greca pullula di figure zoppe o ferite agli arti inferiori: a partire dall’eroe forse più famoso, Achille «piè veloce», che paradossalmente era vulnerabile proprio
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nel tallone e che al tallone, infatti, fu colpito a morte dal troiano Paride, certamente non il più valoroso dei suoi nemici. Due diversi racconti spiegano tale vulnerabilità, cui peraltro allude l’espressione figurata “tallone d’Achille”, presente in diverse lingue. Secondo il primo, e più noto, Teti aveva tentato di rendere il figlio immortale immergendolo nell’acqua dello Stige, ma lo aveva fatto tenendolo per un tallone, che rimase perciò vulnerabile. Nella seconda versione, invece, il tallone sarebbe rimasto ustionato durante uno dei tentativi notturni di Teti, che cercava di raggiungere il suo scopo ungendo di giorno Achille con l’ambrosia e bruciandone di notte la parte mortale. Sorpresa una notte da Peleo, la dea lasciò cadere il figlio e fuggì per sempre negli abissi marini; Peleo ricorse all’aiu to del centauro Chirone, esperto anche nella medicina oltre che nelle scienze e nelle arti, il quale sostituì l’astragalo bruciato con quello del gigante Damiso, veloce nella corsa: se Achille nell’epica è detto «piè veloce» lo deve a lui, di cui ereditò con l’osso anche tale abilità. Tra gli eroi feriti agli arti inferiori, due hanno una certa notorietà: il primo è Filottete, morso al piede da un serpente prima di giungere a Troia e abbandonato per dieci anni sull’isola di
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Lemno dai compagni per via dell’odore nausea bondo emanato dalla ferita; l’altro è Telefo, re dei Misi, figlio di Eracle e della già ricordata Auge, il quale fu ferito da Achille a una coscia quando l’esercito acheo diretto a Troia era sbarcato per sbaglio sulle coste della Misia. Sono entrambe ferite che marchiano (e tormentano!) a lungo coloro ai quali sono state inferte e guariscono solo a condizioni particolari: quella di Filottete richiederà l’intervento dei figli di Asclepio, Podalirio e Macaone, quando finalmente l’eroe sarà ricondotto nel campo acheo, mentre quella di Telefo, come aveva sentenziato l’oracolo di Delfi, sarebbe guarita solo per mano di Achille, e dunque dello stesso eroe che l’aveva originariamente procurata. Abbiamo qui la presenza di un motivo divenuto poi proverbiale, secondo il quale «guarisce solo chi ha ferito». Il mito risolve però la questione in due modi diversi: in una versione, attestata da un frammento del Telefo perduto di Euripide, l’eroe è infatti guarito dalla ruggine della spada di Achille, mentre secondo una variante attestata dall’enciclopedista latino Plinio il Vecchio Achille avrebbe utilizzato un’erba dalle virtù cicatrizzanti, che dal suo scopritore aveva preso il nome di achillea.
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Ricordiamo ancora due eroi che portano già nel loro nome il segno della menomazione ai piedi, Melampo, l’uomo dai piedi neri (da melas, “nero”, e pous, “piede”), e Edipo, l’uomo dai piedi gonfi (da oidéo, “essere gonfio”, e pous, “piede”). Il primo da neonato fu dimenticato al sole dalla madre e il sole gli bruciò i piedi, che non erano coperti dalle fasce come il resto del corpo. Al secondo personaggio, più famoso, furono trafitti i piedi prima che venisse abbandonato a morire sul Citerone: suo padre Laio voleva così sfuggire alla predizione di un oracolo, secondo cui sarebbe stato ucciso per mano del figlio. Per tutta la vita Edipo porta addosso, ignorandolo, questo marchio che è il segno della sua identità e della sua natura di reietto, anche mentre cerca l’assassino di Laio e le sue qualità intellettuali gli fanno credere di essere un prescelto: egli è stato infatti capace di interpretare il linguaggio enigmatico della Sfinge e, risolvendo l’enigma del mostro, di salvare la città di Tebe. In questo doppio statuto, di reietto e di prescelto, per usare categorie della fiaba, i due eroi segnati nei piedi si somigliano, poiché anche Melampo sembra aver avuto in sorte alcuni poteri particolari come controparte della menomazione: il bambino dai piedi bruciati di-
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venne infatti un guaritore e un indovino, capace di decifrare il volo degli uccelli e la lingua dei tarli. In Edipo, tuttavia, l’integrità fisica appare minata anche da un’altra menomazione tipica del mondo eroico, la cecità, che Edipo, tuttavia, almeno nella versione del mito resa canonica da Sofocle, si procura da sé quando scopre di essere parricida e incestuoso. È singolare che nel mondo eroico menomazione delle gambe e menomazione degli occhi possano essere interscambiabili, comparendo come varianti l’una dell’altra in versioni diverse dello stesso mito. Il caso più noto a questo riguardo è quello di Anchise, che dovette pagare la sorte di aver condiviso il letto di una dea e che secondo alcune fonti perse la vista, secondo altre l’uso delle gambe dopo aver rivelato il segreto dell’unione, che Afrodite gli aveva imposto di custodire gelosamente: da qui l’immagine plastica di Enea che lascia Troia tenendolo sulle spalle che tanti artisti ha ispirato, da Raffaello a Barocci a Bernini. In ambito greco possiamo invece citare Licurgo, il re di Tracia ostile a Dioniso, che il mito punisce con un ventaglio di sciagure alternative, tra cui anche la perdita della vista o di un piede. La tradizione che gli fa perdere la vista risale a Omero: Licurgo aveva inseguito, spaventando-
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le, le nutrici di Dioniso, il quale, da parte sua, per la paura si era gettato in mare, venendo poi salvato da Teti; questo aveva suscitato l’ira degli dèi e indotto Zeus ad accecare il re. Una seconda tradizione è conservata con varianti da Servio, il grande commentatore di Virgilio, e dal mitografo Igino: secondo il grammatico tardo-antico, Licurgo aveva finito per ferirsi mentre distruggeva le viti, simboli dell’odiato dio, mentre secondo Igino si sarebbe addirittura amputato la gamba. Questa carrellata di difetti ci ha mostrato l’altra faccia, quella negativa, dell’eccezionalità dell’eroe, facendoci toccare con mano l’ambiguità del suo statuto. Figure di questo tipo, in cui l’anomalia si configura come mancanza, ricalcano anche il ruolo dell’unpromising hero della tradizione folclorica, ovvero l’eroe che si rivela tale a dispetto di quanto avrebbero lasciato immaginare le premesse della sua condizione: come Cenerentola, che crede di aver vissuto solo il sogno di una notte e sposerà invece il principe azzurro, superando le apparentemente assai più titolate sorellastre, o come, nella Roma regia, Bruto lo sciocco, che, andato a Delfi con i figli di Tarquinio il Superbo solo come trastullo per intrattenerli durante il lungo viaggio, è l’uni co a intendere il senso delle parole della Pizia
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e a conquistarsi il ruolo di console alla caduta del re (a ottenere il sommo potere a Roma sarà quello che per primo bacerà la madre, aveva detto la Pizia; Bruto riconosce la metafora e, giunto a Roma, ne bacia il suolo). Edipo, a sua volta, veste i panni di un unpromising hero quando risolve l’enigma della Sfinge; colui che riporta la vittoria sul mostro è, infatti, marchiato nei piedi come un reietto e giunge a Tebe come un esule, avendo lasciato quella che crede essere la sua patria per sfuggire al destino di parricida e incestuoso che gli ha profetizzato l’oracolo. La risoluzione dell’enigma, che gli regala un regno e una regina, sembra cambiare le carte in tavola e renderlo piuttosto un prescelto. Tuttavia, lo sappiamo, questo non è l’happy ending della sua storia: la regina si rivelerà essere sua madre e la vittoria sulla Sfinge solo una tappa verso il compimento del suo destino e della sua fine. 4. Morire da eroi Una dea come Teti doveva faticare ad accettare che il proprio figlio fosse destinato a morire come un uomo qualunque: non ci stupiscono, pertanto, i tentativi che compie per renderlo
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immortale, nei modi su cui ci siamo soffermati. Un tentativo simile è attestato anche nell’Inno omerico a Demetra, uno dei trentaquattro componimenti scritti nello stesso verso e nella stessa lingua dell’Iliade e dell’Odissea e perciò attribuiti dalla tradizione a Omero, ma risalenti invece a epoche più recenti. Stavolta a compiere il gesto è Demetra: giunta a Eleusi sotto mentite spoglie in cerca della figlia Persefone, rapita da Ade, la dea vi si ferma, ospitata alla corte di Celeo, e qui diventa nutrice del piccolo Demofonte. Anche Demetra mira a rendere immortale il bambino e a questo scopo lo nutre di ambrosia, il cibo degli dèi, lo alimenta con il suo soffio divino e lo espone di notte alla fiamma viva del fuoco, così che Demofonte cresce precocemente, simile nell’aspetto agli dèi. Ma anche il piano di Demetra, come quello di Teti, fallisce, quando la madre del piccolo, Metanira, la sorprende una notte, spaventandosi terribilmente: la sua reazione suscita la collera della dea, che pone fine all’impresa, rivelando la sua vera identità. Insomma, sembra che questi corpi semidivini siano concepiti proprio come doppi, quasi due parti sovrapposte che attraverso le opportune manipolazioni si può cercare di separare. L’operazione non riesce quando l’obiettivo è
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dare all’eroe un’immortalità che non gli compete, perché pertiene solo agli dèi, ma va in porto quando, al contrario, la consumazione della parte mortale costituisce il tramite dell’apoteosi. Il rogo di Eracle sul monte Eta ha proprio questo fine, ed esempi di tale pratica sono attestati anche in ambito latino dal poeta delle Metamorfosi, con la differenza che l’elemento usato per la purificazione non è il fuoco, ma l’acqua: Ovidio ci presenta infatti Venere che «lava via» la parte mortale di Enea per consentirgli l’assunzione tra gli dèi, e qualcosa di simile, sempre nelle Metamorfosi, fa Marte nei confronti di Romolo. Tutto quanto si è detto non fa che ribadire lo stesso concetto: l’eroe è mortale, l’eroe muore, e a volte, anzi, è proprio la morte fuori dalla norma che crea l’eroe, come abbiamo visto avvenire per il pugile Cleomede di Astipalea, eroizzato dopo la morte perché il suo corpo non era stato ritrovato quando si era aperto il suo nascondiglio. Cleomede, infatti, ripropone un motivo, quello della sparizione del corpo al momento della morte, che è tipico della biografia eroica, e in quanto tipico, le fonti vi fanno riferimento attraverso forme linguistiche codificate: in greco si usa il verbo aphanízo, in latino la locuzione nusquam/non comparuit.
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Una sparizione misteriosa, per esempio, chiude secondo alcune fonti la parabola umana di Enea. In questa variante del mito, infatti, l’eroe sparisce sulle rive del fiume Numicio, in seguito alla confusione creatasi per lo scoppio inatteso di una tempesta, nel momento in cui si apprestava a sfidare Mezenzio, re della città etrusca di Agilla, chiamato in aiuto dai Rutuli dopo la morte di Turno; da allora, come scrive l’autore dell’operetta anonima L’origine del popolo romano, Enea «non venne più visto in nessun luogo» (nusquam comparuit). Ma una fine simile tocca anche a Romolo, che si conferma anche sotto questo aspetto discendente diretto dell’eroe troiano: secondo la versione più diffusa sulla sua fine, una tempesta improvvisa lo aveva infatti sottratto alla vista dei cittadini e dei soldati mentre passava in rassegna le truppe nel Campo Marzio. Si possono a buon diritto accostare questi racconti a quello della morte di Gesù raccontata nei vangeli sinottici: anche qui abbiamo una tempesta che accompagna la fine del Cristo e una sparizione del corpo dal sepolcro nel quale era stato deposto, anche se stavolta il corpo muore e la sua sparizione avviene solo in un secondo tempo. Nel racconto degli evangelisti, Gesù riappare ai discepoli nei
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giorni che seguono l’apertura del sepolcro, ma anche gli eroi che abbiamo nominato conoscono analoghe apparizioni spettacolari: si diceva che Romolo si fosse manifestato a un certo Giulio Proculo, rivelandogli di essere diventato un dio e di aver assunto l’appellativo di Quirino, e anche per Enea si raccontava qualcosa di simile, in una versione che lo immaginava caduto nelle acque del Numicio, invece che sparito nel corso di una tempesta. Come scrive ancora una volta l’autore anonimo dell’Origine del popolo romano, che riporta anche questa versione, tempo dopo [la caduta nel fiume] Ascanio e altri testimoni affermarono di averlo visto sulla riva del Numicio, con l’abbigliamento e le armi che aveva al momento di scendere in battaglia, e questo corroborò la diceria che fosse divenuto immortale.
Quando l’eroe muore, il soffio vitale fuoriesce dal suo corpo e ciò che continua a esistere di lui non è che un’ombra. Questo soffio vitale, che viene esalato dalla bocca come un ultimo respiro o trova la sua via di fuga in una ferita aperta, ha un nome, psyché, parola che si traduce spesso con “anima”, ma che rappresenta qualcosa di concettualmente e valorialmente differente dall’anima della tradizione filosofica
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di matrice platonica, la quale individua in essa la parte immortale di un essere umano. Sfruttando una paretimologia che collega soma a sema (“tomba”), il filosofo ateniese elabora infatti un dualismo di corpo e anima che svaluta il primo a tutto vantaggio della seconda, concepita come qualcosa di immateriale, che preesiste e sopravvive al corpo e che gli è superiore anche in vita, nella misura in cui è la sede dei processi intellettuali ed emotivi. Nel corpo essa è in certo senso sepolta e imprigionata, come in una tomba e in un carcere; la morte, dunque, è intesa come una liberazione e ad essa l’uomo deve costantemente tendere con il pensiero e con l’esercizio della filosofia. Nel mondo omerico, invece, la psyché è qualcosa che ha valore solo se dà vita al corpo; al di fuori del corpo, la pysché non è che un’ombra, come lo sono le anime che popolano l’Erebo di cui l’undicesimo libro dell’Odissea ci offre una descrizione potente: «teste senza forza», membra senza vigore, cui restituisce una parvenza di vita il sangue caldo degli animali sacrificati da Odisseo, pure immagini (eídola), che sfuggono al contatto. Anticlea, la madre che Odisseo tenta per tre volte di abbracciare e per tre volte gli vola via dalle mani, «simile a un’ombra
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o a un sogno», spiega dolorosamente la ragione di ciò: La legge degli uomini è questa, quando si muore: i nervi non reggono più la carne e le ossa, ma la furia violenta del fuoco ardente li disfa, appena la vita abbandona le bianche ossa e l’anima [psyché] vagola, volata via, come un sogno.
È evidente già da queste parole che i termini del rapporto anima-corpo sono, rispetto a Platone, completamente capovolti. Nessuno lo esprime meglio di Achille: alla constatazione di Odisseo che l’eroe sembra godere ancora, persino in quel mondo di ombre, di grande onore, questi obietterà: vorrei da bracciante servire un altro uomo, un uomo senza podere che non ha molta roba piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti.
In realtà, dopo la morte quel che conta per l’eroe è la tomba, a cui è affidato il ricordo del suo nome e della sua gloria. La tomba, dalla quale l’eroe può proteggere o punire i cittadini che la custodiscono o addirittura risvegliarsi per accorrere loro in aiuto; la tomba, che diventa, perciò, oggetto di culto e di venerazione, come
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le stesse reliquie che contiene, da custodire gelosamente o da trafugare. L’Edipo a Colono, la bellissima tragedia del l’estrema maturità di Sofocle in cui si conclude la tragica vicenda del protagonista, si gioca interamente, almeno nella condotta scenica, attorno alla contesa sul cadavere di Edipo, che, secondo l’ultimo degli oracoli che dominano il destino sfortunato dell’eroe, garantirà vittoria e salvezza a chi ne entrerà in possesso: «Sarai cercato un giorno dalla gente di là, vivo o morto, per la propria salvezza», è il responso del dio, come riferisce a Edipo la figlia Ismene, «si dice che il potere di Tebe è riposto in te». Da questo dipendono le incursioni di Creonte e Polinice nel borgo di Colono, dove l’eroe ramingo e cencioso è giunto per morire, e i tentativi di Creonte di forzare la mano a Edipo attraverso il rapimento delle figlie, affinché torni in patria. Ed è questo il significato delle parole che Edipo rivolge a Teseo, che non è immediatamente trasparente per il pio sovrano di Atene: «Vengo a offrirti questo mio misero corpo, non un dono prezioso a guardarlo, ma i vantaggi che ne possono venire valgono più di un bell’aspetto». Nell’Iliade mancano riferimenti a un’azione post mortem degli eroi; tuttavia, la situazione
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prospettata nell’Edipo a Colono è antica, poiché già attorno all’VIII secolo a.C. il culto legato alle tombe eroiche, vere o fittizie, appare ben radicato in Grecia e nelle colonie greche del Mediterraneo, così che ogni città esibiva il proprio eroe, come dal Medioevo in poi avrebbe esibito il proprio santo. Ancora nel II secolo d.C. il periegeta Pausania, viaggiando attraverso la Grecia, si imbatte in innumerevoli tombe di eroi, presso le quali si celebravano atti di culto. Di Aristomene, per esempio, il re dei Messeni che verso il 650 a.C. aveva guidato il suo popolo nella difesa contro Sparta, resistendo per undici anni sul monte Eira, Pausania conosceva due tombe: una a Rodi, dove l’eroe si era ritirato negli ultimi anni della sua vita, l’altra in Messenia, dove si diceva che le sue reliquie fossero state traslate per volere di Apollo. Dalla tomba l’eroe – che, come si era scoperto alla sua morte, aveva il cuore irto di peli, cosa che ne attestava il coraggio – continuava a soccorrere i suoi compatrioti, sia dando presagi, sia manifestandosi personalmente: si diceva infatti che il suo fantasma fosse apparso a Leuttra, dove la falange tebana aveva sconfitto gli Spartani concedendo ai Messeni una nuova rinascita.
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Apparizioni di eroi quali Achille e Aiace fanno parte dell’esperienza quotidiana dei pastori della Troade: stando, almeno, al già citato Eroico di Filostrato, dove peraltro l’eroe Protesilao, sepolto vicino alla vigna del protagonista, non si limita a dare oracoli agli atleti e a vendicarsi degli adulteri, ma si intrattiene con il vignaiolo, discutendo dei poemi omerici e degli eroi che ne popolano il racconto. Le tombe eroiche erano spesso collocate in bella vista al centro delle città, ma a volte venivano poste in luoghi liminali, quasi a fungere da guardiani della soglia: è quello che avviene anche con il corpo di Edipo, visto che Colono era uno dei demi di confine dell’Attica e pertanto una sorta di soglia di Atene. Un altro esempio è quello di Laomedonte, quinto sovrano di Troia dopo Dardano, sotto il cui regno furono edificate dagli dèi Apollo e Poseidone le celebri mura della città. Si diceva che le ossa del re fossero sepolte presso le porte Scee e che, finché quel sepolcro fosse rimasto inviolato, la città non sarebbe caduta. Non sempre, comunque, le tombe eroiche erano visibili. Il punto in cui Edipo sparisce, nel bosco sacro delle Eumenidi, quando tuono e folgore ne annunciano la fine, deve restare
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segreto, e analoga segretezza avvolgeva il luogo sul monte Eta nel quale era stato allestito il rogo su cui Eracle aveva abbandonato le sue spoglie mortali. Ne doveva essere al corrente il solo Filottete, l’unico che aveva accettato di appiccare il fuoco alla pira e che in cambio di ciò aveva ricevuto l’arco e le frecce dell’eroe, con cui era diventato un arciere infallibile – anche se Filottete non saprà tenere il segreto e, pur non parlando, indicherà il punto esatto imprimendovi col piede la propria orma. Del resto, che le tombe potessero essere posizionate in un luogo segreto non stupisce, visto che la sacralità del corpo eroico lo rende appetibile e ricercato. Nel corso della guerra tra Tegea e Sparta, gli Spartani avevano ricevuto un oracolo delfico, secondo il quale avrebbero ottenuto la vittoria sugli avversari solo se avessero trasferito a Sparta le ossa di Oreste. Grazie a un incontro fortuito e alla sua capacità di decifrare correttamente il linguaggio oracolare, che aveva indicato in modo enigmatico il luogo della sepoltura, lo spartano Lica individuò nel cortile della casa di un fabbro le ossa dell’eroe (a questa vicenda abbiamo già fatto cenno) e le portò da Tegea a Sparta, decidendo così a favore dei suoi concittadini le sorti della guerra. Qualcosa di simile
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fecero gli Ateniesi quando, ancora su consiglio dell’oracolo, riportarono ad Atene le ossa di Teseo da Sciro, dove il loro eroe nazionale era stato ucciso a tradimento dal re del luogo, Licomede. A compiere la missione fu Cimone, figlio di Milziade, che in tal modo poté, non molto tempo dopo, conquistare l’isola. Come bene osserva Giulio Guidorizzi, quelli offerti dal mito sono i primi esempi di furti delle reliquie, così frequenti in età medievale in relazione al corpo dei santi: anche nel caso del corpo eroico, tali furti erano considerati atti patriottici, da cui chi ne era stato l’artefice avrebbe ricavato gloria imperitura. 5. Tra fulgore e metamorfosi Nel VI secolo a.C. Senofane di Colofone, figlio di quella terra ionica che è stata la culla del pensiero greco, lanciava i suoi strali contro la concezione antropomorfica della divinità tipica del mondo antico. Il filosofo se la prendeva con Omero ed Esiodo, che «attribuirono agli dèi […] / quanto presso gli uomini è oggetto di onta e di vergogna: / rubare, commettere adulterio e ingannarsi a vicenda», e più in generale con la stoltezza degli uomini, i quali «credono che gli déi nascano / e abbiano vesti, lingua e figura co-
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me loro». E infatti gli Etiopi, rappresentandosi gli dèi simili a loro, affermano che essi sono neri e camusi, così come i Traci a loro volta, secondo la stessa dinamica, se li raffigurano con gli occhi azzurri e i capelli rossi. Però tale principio è assurdo, al punto che, in base ad esso, se i buoi ‹ e i cavalli › e anche i leoni avessero mani, e con le mani potessero dipingere e compiere le opere che compiono gli uomini, i cavalli dipingerebbero immagini di dèi simili ai cavalli, e i buoi simili a buoi, e plasmerebbero i corpi degli dèi tali quali essi stessi hanno, ciascuno secondo il proprio aspetto.
Ci colpisce, questo filosofo, che anticipa di secoli la critica alla religione formulata poi da Feuerbach e da Marx, le cui obiezioni, peraltro, consuonano con la concezione della divinità elaborata dalla tradizione giudaico-cristiana, che ne marca l’alterità dall’uomo spiritualizzandola e defisicizzandola, fino a vietarne la rappresentazione. Ma per giudicare gli dèi omerici dal punto di vista di Omero (dèi, lo ricordiamo velocemente, della terza generazione, che succedono a creature dal fisico marcato e dalla forza smisurata quali
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i Centimani, i Titani e i Ciclopi, figli di Urano e Gea), dobbiamo tenere presente un concetto al quale abbiamo avuto modo di fare riferimento nelle pagine precedenti e su cui pone l’accento Jean-Pierre Vernant: ovvero che la Grecia arcaica, quella a cui Omero ed Esiodo appartengono, ignora la distinzione tra anima e corpo, tant’è che nella sfera corporea umana ricadono senza differenza realtà organiche, forze vitali, attività psichiche, ispirazioni o influssi divini. Lo stesso Senofane non dissocia radicalmente la natura divina dalla realtà corporale, ma segna la dissimiglianza tra dio e uomo dando al corpo divino il segno della perfezione immanente e compiuta: per il filosofo antico, infatti, dio coincide con l’intero cosmo, è pensiero e materia insieme e ha persino una forma, che è quella sferica. Come scrive lo studioso francese, più che stupirci che i Greci abbiano potuto dotare di un corpo i loro dèi, dovremmo allora interrogarci su come essi abbiano declinato la differenza tra uomini e dèi nel contesto della stessa corporeità, ovvero individuare i tratti attraverso i quali, pur immaginando una presenza divina accessibile all’uomo, l’abbiano sottratta alle limitazioni cui è soggetto l’essere umano. Bisogna chiedersi, insomma, come abbiano immaginato quello che
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Vernant definisce un «sovracorpo», diverso da quel «sottocorpo» dell’uomo condannato alla mortalità, su cui è impresso «il marchio della limitazione, della mancanza, dell’incompiutezza». Gli dèi nascono da altri dèi: il corpo divino è infatti un corpo fecondo, al punto che non esiste accoppiamento con un dio senza generazione. Inoltre, gli dèi provocano i dolori del parto alle loro madri divine; come le donne mortali, esse in travaglio invocano in Grecia l’intervento di Ilizia e a Roma quello di Giunone Lucina, offrendo, peraltro, argomento di irrisione a chi, come Arnobio nel IV secolo d.C., si erge a difensore della fede cristiana. Una volta nati, però, gli dèi non sono soggetti al fluire del tempo al pari degli uomini; non solo non muoiono, ma neppure invecchiano, vivendo in uno stato di perenne giovinezza e vigore o di compiuta e immutabile maturità: «è sempre bello e sempre giovane», scrive per esempio Callimaco di Apollo, nell’inno che dedica al dio, «e mai gli giunse neanche un po’ di peluria sulle guance femminee». Questa abissale differenza, osserva ancora Vernant, fa sì che «pur appartenendo allo stesso universo degli uomini, gli dèi costituiscano una razza diversa», portatrice di una corporeità altra sia nei suoi meccanismi interni sia nel suo aspetto esterno.
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Poiché il dio non lega la sua esistenza ai processi fisiologici dell’uomo, infatti, nelle sue vene non scorre sangue (haima in greco), ma un umore diverso, che prende il nome di “icore” (ichór). Quando nell’Iliade un’asta scagliata da Diomede ferisce a una mano Afrodite, scesa in campo per proteggere Enea, è questo il liquido che fuoriesce dalla ferita, macchiandole di nero la bella pelle. La dea grida e abbandona per il dolore la battaglia, rifugiandosi sull’Olimpo, ma una volta giunta qui, non appena la madre Dione toglie via l’icore con le sue mani, la ferita guarisce immediatamente e i dolori hanno fine. Sempre nell’Iliade, questo sangue non sangue, in grado di scorrere fuori da un corpo senza portare via con sé la vita, è collegato alla dieta degli dèi, che, a differenza dei mortali, «non mangiano pane e non bevono vino scintillante». Potremmo aggiungere che essi neppure mangiano carne, altro cibo putrescibile e per questo estraneo alla incorruttibilità intrinseca del divino. Ecco perché delle vittime sacrificate sui loro altari gli dèi prendono per sé solo il fumo: da qui la formidabile invenzione comica di Aristofane, il rappresentante più significativo della commedia ateniese del V secolo a.C., secondo cui quel fumo viene intercettato, con grande
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ira dei destinatari divini, da Nefelococcugia, la Città delle nuvole e dei cuculi, che gli uccelli erigono fra terra e cielo nella commedia che da loro prende il nome. Quando siedono a banchetto poi, come spesso accade nella letteratura antica, gli dèi non sono mossi dall’esigenza di nutrirsi, ma dal piacere della festa, e consumano esclusivamente nettare e ambrosia, due sostanze aromatiche capaci di conferire l’immortalità di cui hanno l’esclusivo consumo e in cui consiste il loro nutrimento fin dalla nascita. Quando Apollo viene al mondo, come racconta l’autore dell’inno omerico a lui dedicato, non si attacca al seno di Latona, ma è Temide, la dispensiera degli dèi, a offrirgli «nettare e amabile ambrosia con mani immortali»; al dio basta assumerli per avere lo slancio di liberarsi dalle fasce che lo avvolgono (anche gli dèi bambini vengono fasciati, come un qualsiasi neonato mortale), rivendicare quali suoi attributi l’arco, la cetra e il potere profetico e, alla vista sbigottita delle dee che hanno assistito alla nascita, mettersi in cammino. Gli dèi, infatti, nascono già dotati dei loro attributi e compiono fin da bambini imprese mirabolanti: Hermes, per esempio, nato al sorgere dell’aurora, a mezzogiorno suonava la lira e dopo il tramonto aveva già rubato le vacche ad Apollo.
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Vediamo a questo punto come si manifesta all’esterno il «sovracorpo» degli dèi. Se si deve immaginare, in generale, come la realizzazione al superlativo delle caratteristiche positive di un corpo umano giovane e nel pieno del vigore (anche Efesto, nonostante fosse piuttosto brutto, era dotato di grande forza nelle spalle e nelle braccia, oltre a saper lavorare i metalli con ineguagliabile perfezione), vi sono alcuni tratti che appartengono intimamente al corpo divino, al punto da rivelarne inequivocabilmente la natura. Il primo consiste nelle dimensioni, riprodotte anche nelle statue che rappresentano gli dèi, alte da 3 a 10 metri. Il secondo, nella luce abbagliante che irradia loro dagli occhi e dalla pelle, cui allude, nelle descrizioni letterarie, il ricorrere di termini derivati o composti del sostantivo chrysós, mentre nella statuaria la stessa funzione è assolta dall’uso dell’oro. Tale metallo, per il suo pregio particolare, si prestava a esprimere più in generale la perfezione delle figure divine, sottolinean do il divario tra immortali e mortali, tant’è che in un frammento incerto di Pindaro l’oro stesso è detto «figlio di Zeus». Un terzo elemento proprio del corpo divino è il profumo, che infatti è un ingrediente importante delle cerimonie reli-
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giose e legato per tradizione alla manifestazione del dio: se ne ricorda bene Foscolo nei Sepolcri, quando rivolge alla «bella Musa» del Parini le parole «[…] Non sento / spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume». Tra l’altro, è interessante che questo aspetto sia transitato almeno in parte nel cristianesimo: esso è ravvisabile, infatti, nella credenza secondo cui i cadaveri dei santi emanano un profumo particolarmente gradevole (da qui l’espressione “morire in odore di santità”). Infine, a caratterizzare gli dèi è il loro incedere: nel mondo antico, del resto, il portamento rappresenta un tratto fortemente identitario e non stupisce pertanto che a maggior ragione lo sia per un dio. Quando interagiscono con gli uomini, gli dèi non si manifestano in genere secondo la loro vera forma, se vera può dirsi quella che in realtà è solo una delle loro possibili apparenze. A meno che non vogliano essere riconosciuti, come accadde a Demetra, la volta in cui nei panni di una vecchia faceva da nutrice, a Eleusi, al piccolo Demofonte, figlio di Celeo e Metanira. Quando la regina, come ci è già capitato di dire, la sorprende nell’atto di esporre il bambino al fuoco per bruciarne la parte mortale e garantirgli l’immortalità, la dea si rivela come tale nei tratti che abbiamo sopra evidenziato: statura, luce,
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profumo e, naturalmente, giovinezza e bellezza. Questo il racconto dell’autore dell’inno omerico dedicato alla dea: così dicendo la dea mutò la statura e l’aspetto respingendo da sé la vecchiaia; la bellezza intorno a lei raggiava, un dolce aroma dal suo peplo odoroso si effondeva, e per largo tratto una luce dalle membra immortali della dea rifulgeva; le bionde chiome le coprivano gli omeri, e la solida casa si riempì di splendore, come per un lampo.
Una metamorfosi analoga è quella di Afrodite nell’inno omerico a lei dedicato, che dopo essersi unita ad Anchise sul monte Ida ed essersi rivestita, sveglia l’amante per rivelarsi a lui e predirgli la nascita di Enea. Altezza, luce e bellezza ne svelano immediatamente al pastore la natura immortale, quella che in un primo momento la dea gli aveva tenuto nascosta, apparendogli nella statura e nell’aspetto simile a una vergine fanciulla, perché non avesse paura: E dopo ch’ebbe cinto con grazia tutte le vesti, la divina fra le dee si erse nella capanna: il suo capo toccava
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il tetto ben costruito, e raggiava dal volto la bellezza immortale che si addice a Citerea coronata di viole.
In entrambi i casi, la vista del dio sconvolge l’uomo: Metanira perde momentaneamente l’uso delle gambe e della voce, mentre Anchise, colto da paura, distoglie il volto e si copre gli occhi col mantello. «Terribili sono gli dèi se appaiono in piena luce», dichiara Era nell’Iliade: e infatti, vederli nella pienezza della loro maestà suscita sempre nell’uomo paura e stupore, anche se probabilmente ha ragione Adeline Grand-Clément a pensare che sia soprattutto la luce a provocare quello che definisce «uno choc sensoriale», di cui Metanira e Anchise possono esemplificare le conseguenze emotive e somatiche. Il caso più eclatante di un mortale che paga caro un incontro ravvicinato con il divino è però quello della principessa tebana Semele, una delle tante donne che avevano suscitato il desiderio di Zeus. Semele chiede al suo amante divino di mostrarsi a lei nella sua piena potenza di signore del cielo e dei fulmini, così come si mostra a Era, e il dio, legato da un giuramento, deve acconsentire. Ma la donna non sostiene quella vista e muore folgorata. Solo raramente, tuttavia, il dio si manifesta all’uomo in una forma umana magnificata, nel
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suo pieno splendore; più spesso egli si nasconde invece dietro una pluralità di forme diverse, così che ora si mostra nei panni di un comune mortale, anche cambiando genere, come spesso fa Atena; ora assume le sembianze di un animale o di un fenomeno naturale, come Zeus che, per realizzare i suoi desideri amorosi, si trasforma in un toro, in un cigno e persino in una pioggia d’oro; ora si veste di aer, che è non l’aria, ma una sorta di sospensione nebbiosa; ora indossa una nuvola. Come scrive Gabriella Pironti, «di metamorfosi in metamorfosi gli dèi attraversano il reale prendendo varie forme, confondendo generi e tassinomie, e sembra che talvolta amino giocare con gli uomini e le loro percezioni». Non bisogna dimenticare, infatti, che gli dèi sono di fatto delle potenze: per questo il loro antropomorfismo non è assoluto, ma essi possono manifestare la loro presenza e la loro volontà attraverso una moltitudine di segni. Per limitarsi a un paio di esempi, nella sua veste di protettore delle strade (Agyieús) Apollo riceve un culto aniconico, nella forma di una colonna di pietra, così come una pietra di confine presentificava il dio romano dei confini, Terminus. È anche vero, tuttavia, che, soprattutto quando gli dèi compaiono sotto spoglie mortali, l’uo-
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mo ha sempre la possibilità di riconoscerli. Nel l’Iliade, quando Afrodite si mostra a Elena nei panni di una vecchia filatrice di lana a lei cara, per indurla a raggiungere Paride nel loro letto, la donna la riconosce dal collo bellissimo, dal seno spirante desiderio e dagli occhi luminosi. Nell’Eneide la stessa dea, che stavolta chiamiamo Venere, con il suo nome latino, dopo aver rassicurato e istruito Enea che ha appena fatto naufragio sulla costa nord-africana, vestita come una giovane cacciatrice, è riconosciuta dal figlio proprio mentre sta per allontanarsi: anche stavolta a tradirla è la luminosità della pelle («rifulse dal roseo collo»), ma a questo segno si uniscono anche l’odore divino di ambrosia che spira dai suoi capelli e soprattutto il passo, l’incessus, nel quale, come scrive Virgilio, «si rivelò veramente dea». Nell’Iliade dal passo, o più precisamente dalle impronte, è riconosciuto anche Poseidone, che si era manifestato ai due Aiaci, d’Oileo e Telamonio, avendo assunto le fattezze e la voce dell’indovino Calcante. Lo riconosce il primo, forse, come scrive Vernant, perché l’impronta rivela «il carattere anomico, paradossale, prodigioso di un corpo “altro” […] a un tempo stesso più pesante e più leggero»:
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ma non è certo Calcante, il profeta che osserva gli uccelli: ho subito visto dietro di lui le impronte dei piedi e dei passi mentre se n’andava: si riconoscono bene gli dèi!
Sì, come dice Aiace, gli dèi sono riconoscibili, ma non tutti con la stessa facilità. Così, almeno, sembra pensare Odisseo a proposito di Atena, che, forse perché collegata per statuto alle risorse dell’ingegno e dell’astuzia, è tra le divinità omeriche quella che assume il maggior numero di forme differenti. Quando, a Itaca, la dea appare al suo protetto nelle vesti di un delicato pastore di greggi e, una volta rivelatasi, lo rimprovera affettuosamente per non averla riconosciuta, Odisseo si giustifica proprio chiamando in causa il suo peculiare polimorfismo: Per un mortale è difficile, o dea, riconoscerti quando t’incontra, anche se è molto accorto: poiché ti fai simile a tutti.
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Forme e riti della bellezza
1. Belle fra le belle: Afrodite e le sue ipostasi Già […] abbiamo detto dell’età in cui visse Prassitele, artista che superò anche se stesso con la gloria conquistata nella scultura del marmo. […] non solo su tutte le sue statue, ma nel mondo intero, primeggia la sua Venere: molti sono andati per nave a Cnido semplicemente per vederla. Di Veneri ne aveva fatte e messe in vendita due contemporaneamente, delle quali una velata. Gli abitanti di Coo, che sceglievano per primi, preferirono quest’ultima […] perché ne ritennero l’atteggiamento austero e casto. La Venere che gli abitanti di Coo non avevano voluto la comprarono i Cnidi: la sua fama fu immensamente più grande di quella dell’altra. Qualche tempo dopo il re Nicomede avrebbe voluto acquistarla dai Cnidi, promettendo che avrebbe saldato tutti i debiti della città – ed erano ingenti. Loro però preferirono affrontare qualsiasi sacrificio, e fecero bene, per-
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ché con quella statua Prassitele aveva fatto la fama di Cnido. Il tempietto dove essa si trova è tutto fruibile, in modo che si possa ammirare da ogni parte l’immagine fatta, come si crede, col favore della stessa dea. E da qualunque parte si guardi, l’ammirazione non è minore. Si dice che un tale si innamorò di questa statua, si nascose di notte e si accoppiò con essa (sulla statua sarebbe rimasta traccia della libidine di costui, una macchia).
A raccontare con queste parole l’origine e la fortuna di uno dei capolavori dell’arte antica, l’Afrodite di Cnido di Prassitele, è Plinio il Vecchio, in quel trentaseiesimo libro della sua Storia naturale che si rivela prezioso per ricostruire l’evoluzione della scultura in Grecia. Per un lettore comune, tuttavia, il pregio maggiore di questa pagina non risiede nel suo valore documentale e neppure nella piacevolezza del racconto, ma nei toni vividi con cui è evocata la bellezza della statua. Chi legge si trova all’improvviso mescolato alla turba dei visitatori, richiamati a Cnido dalla sua fama e ora accalcati davanti alle due porte del tempio di Afrodite Euplea che la accoglie, desiderosi di ammirare in ogni sua parte il corpo della dea. La statua originale è andata purtroppo perduta già in età tardo-antica, ma i tratti che dovevano suscitare
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lo stupore degli astanti, quei tratti che la rendevano «capace di incendiare le pietre, benché di pietra anch’essa», come ebbe a scrivere un epigrammista greco, possiamo provare a immaginarli dalle numerose copie romane che si possono ancora oggi ammirare nei musei di Londra, Monaco, Berlino, Strasburgo, al Louvre o in Vaticano, dove in particolare, nelle sale del Museo Pio-Clementino, si conserva forse la copia più bella: la luminosità del marmo, la postura lievemente sbilanciata in avanti, la grazia pudica del gesto della mano destra a coprire il pube, mentre la sinistra prende (o depone?) la veste sopra un’idria, l’ovale perfetto del viso, i capelli ondulati spartiti in due bande e raccolti in uno chignon sulla nuca, lo sguardo che si perde nel vuoto, tutto contribuisce a renderla tale. Plinio non rivela l’identità della modella che ispirò la statua, né lo fa chi ha scritto Gli amori attribuiti al versatile e prolifico autore del II secolo d.C. Luciano di Samosata. Qui, insieme con la descrizione della statua, si legge anche, elaborata con fantasiosa dovizia di particolari, la vicenda dell’innamoramento del giovane cui fa cenno anche la pagina di Plinio: uno dei casi di amore per le statue, o agalmatofilia, come tecnicamente si definisce, conservati dalla let-
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teratura greca, di cui il mito di Pigmalione può considerarsi l’archetipo, che si conclude con il topico suicidio in mare dell’innamorato, incapace di guarire dalla sua insana passione. Sappiamo da altre fonti, però, che a posare per quella statua, che in modo sovversivo rappresentava per la prima volta nudo il corpo della dea, fu la stessa amante dell’artista, una donna originaria di Tespi, che viveva ad Atene esercitando il mestiere di cortigiana: Mnesarete, più nota con il soprannome di Frine (“ranocchietta”, “rospo”); una donna non solo seducente, ma anche spregiudicata e ambiziosa, cui lo scalpore suscitato dalla statua dovette procurare indubbi vantaggi professionali, che ne fecero la Afrodite di elezione per tutti gli artisti del suo tempo. Stando ad Ateneo di Naucrati, che nel III secolo d.C. utilizza la cornice narrativa di un banchetto di eruditi come pretesto per raccogliere stralci di letteratura e curiosità di ogni tipo, «Frine era più bella nelle parti nascoste; di conseguenza, non era neanche facile vederla nuda». Ella aveva infatti l’abitudine di indossare «una tunichetta attillata», probabilmente per suscitare la curiosità e accrescere così il proprio fascino, e non frequentava i bagni pubblici, luoghi in cui i Greci (come poi i Romani, persino nell’impero
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cristianizzato) ammettevano la nudità promiscua. Ciò non le impediva, tuttavia, di esibire il proprio corpo anche in modo plateale. Sempre Ateneo racconta infatti che una volta, in occasione delle feste di Poseidone a Eleusi, che erano particolarmente care alle etere e prevedevano una processione a mare, sotto gli occhi di tutti i Greci riuniti, deposto il mantello e sciolti i capelli, scese in acqua. Secondo la fonte, la scena avrebbe ispirato il celebre pittore Apelle, che la dipinse nuda, dopo il bagno, simile ad Afrodite, nell’atto di strizzare dolcemente con la punta delle dita le lunghe chiome bagnate. Chiunque ne sia stata la modella (secondo alcuni non si trattava di Frine ma di Pancaspe, una delle favorite di Alessandro Magno), anche quest’opera – la cosiddetta Afrodite Anadiomene («che sorge dalle acque»), che ispirò una serie di rappresentazioni posteriori, da Botticelli a Tiziano, da Barry a Ingres, da Bouguereau a Picasso – è andata perduta; anch’essa fu celebrata dagli epigrammi di epoca ellenistica e anch’essa era talmente bella da volerla possedere a qualsiasi prezzo: nel 30 a.C. Augusto la portò a Roma per consacrarla nel tempio di Cesare, concedendo in cambio ai Coi, a cui apparteneva, la cancellazione di un tributo di 100 talenti.
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Di un altro coup de théâtre, ben più famoso, la più celebre fra le cortigiane antiche fu poi protagonista, attiva o passiva, quando venne trascinata in tribunale da un antico amante con l’accusa di venerare un dio straniero celebrando feste orgiastiche e di corrompere i giovani; della difesa si fece carico l’oratore Iperide, noto per il suo debole verso le cortigiane e anch’egli annoverato tra gli amanti della donna. Dell’orazione di difesa non sono rimasti che frammenti, ma l’aneddotica fiorita sull’argomento è varia. Secondo la tradizione accolta anche nella Vita di Iperide attribuita a Plutarco, che qui riportiamo secondo il racconto di Ateneo, quando vide che la situazione era compromessa e il rischio di perdere la causa si faceva concreto, poiché con la sua orazione non otteneva nessun risultato, temendo che i giudici votassero la condanna a morte prevista dal capo di imputazione, accompagnata Frine in un punto bene in vista, il suo avvocato le stracciò la veste in modo da denudarle il seno, e declamò la perorazione finale con l’ausilio della visione che lei offriva: riuscì pertanto a ottenere che i giudici, pieni di superstizioso timore, si muovessero a pietà e non mandassero a morte colei che appariva loro come la sacerdotessa e ancella di Afrodite.
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Altre fonti riportano versioni differenti: in una è Frine stessa a esporre il seno, in un’altra Iperide le strappa la veste per intero, mentre c’è chi non fa alcuna menzione del denudamento, attribuendo il merito dell’assoluzione a una supplica piena di pathos che l’accusata avrebbe rivolto ai giudici, prostrandosi ai loro piedi e baciando loro le mani. Non è questa la sede per discutere l’attendibilità storica di ciascuna variante; piuttosto, a noi interessa cogliere, ancora una volta, la reazione che è capace di suscitare la bellezza del corpo, il suo soggiogante e irresistibile potere di seduzione. È a questa, infatti, che in tutte le versioni Frine deve, direttamente o indirettamente, la sua salvezza. È interessante, inoltre, che sia il seno il dettaglio del corpo della donna su cui le nostre fonti pongono l’accento, poiché si tratta di un tratto fisico che collega ancora una volta Frine ad Afrodite, della cui bellezza proprio il seno era forse l’elemento più caratterizzante. Particolarmente eloquenti in questo senso sono i paragoni che instaura l’epigrammista Rufino, attivo forse tra il I e il II secolo d.C., che per elogiare le grazie della sua ragazza le paragona a quelle delle dee: gli occhi sono quelli di Era, le mani di Atena, le caviglie di Teti, il seno di Afrodite.
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Ma la storia comincia da lontano. Già nell’Iliade nel «seno spirante desiderio» è indicato uno dei tratti identificativi della dea, insieme con «il collo bellissimo» e «gli occhi luminosi»; e il dettaglio è colto anche nelle Argonautiche, il poe ma di età ellenistica in cui Apollonio Rodio si cimenta con il racconto mitico più famoso dopo quello della guerra di Troia, le peripezie della nave Argo e del suo equipaggio di eroi. Qui, nel ricamo del mantello di Giasone, Afrodite è raffigurata con la cima del chitone mollemente scivolata sul gomito, sotto il seno sinistro, mentre si specchia nello scudo di Ares. È un’immagine che condensa tutto il potere di seduzione della dea, la cui bellezza è ulteriormente suggerita dal dettaglio dei riccioli folti, espresso dall’epiteto bathyplókamos. Il seno di Afrodite è evocato ancora dal poe ta bizantino Colluto, che tra il V e il VI secolo d.C., in terra d’Egitto, scrisse un epillio dal titolo Il ratto di Elena, in cui racconta gli eventi che precedettero la guerra di Troia. Colluto immagina che la dea lo abbia scoperto quando sul monte Ida contendeva il primato della bellezza a Era e Atena, per convincere Paride ad assegnarle la vittoria, in cambio dell’amore della donna più bella del mondo: l’esposizione di
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quella parte del corpo doveva evidenziare il valore della promessa. Al termine della guerra di Troia, poi, è la vista del seno nudo di Elena che induce Menelao a riporre la spada già sguainata per punirla: Elena, alter ego mortale di Afrodite, cui la dea stessa ha riconosciuto i requisiti per rappresentarla sulla terra. Elena, che Eschilo definisce «gentile ornamento di ricchezza, dolce dardo degli occhi, fiore d’amore che punge il cuore». «Non è certo motivo di biasimo», come mormorano i vecchi Troiani al suo apparire sulle porte Scee, «se per tale donna a lungo / Troiani e Achei […] sopportano dolori», poiché, come scriverà Goethe quasi tremila anni più tardi, «chi l’ha conosciuta non può vivere senza di lei». 2. Sulle tracce della bellezza Di Frine sappiamo solo quanto abbiamo detto finora. Ma in che cosa risiede la bellezza di Elena? In che modo dovremmo immaginare, se dovessimo darle un corpo e un volto, questa donna che, come mormorano ammirati i cittadini di Troia, «somiglia terribilmente alle dee immortali»? Chi non frequenta la letteratura antica si stupirà forse di sapere che per leggere una descri-
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zione sistematica della donna più bella del mondo dobbiamo rivolgerci a testi piuttosto tardi. Secondo la Storia della distruzione di Troia del sedicente Darete Frigio, un autore che finge di essere un testimone oculare del celebre conflitto ma scrive in realtà al tramonto del mondo antico, Elena era «bella, di animo schietto, dolce, con gambe perfette, una boccuccia piccola»; Darete si mostra persino in grado di rivelare che la donna aveva «un neo tra le sopracciglia». Ancora più tarda, probabilmente, è una pagina del cronista bizantino Giovanni Malala, che nel VI secolo d.C. così immagina Elena al tempo della guerra di Troia: Elena era al culmine della sua bellezza, di perfette maniere, bello il seno, bianco il volto come la neve, belle le sopracciglia, belli il naso, il volto nitido, ricci i capelli e quasi dorati, grandi gli occhi, aggraziata, dalla bella voce, stupendo spettacolo fra le donne. Aveva ventisei anni.
Solo in questo periodo, infatti, si diffonde un tipo di descrizione, intesa a fornire i tratti precisi di una fisionomia, che in precedenza non sembra praticata. Viceversa, i Greci di età arcaica e classica rappresentano come individuale solo ciò che si ribella alla norma, cioè il brutto o il de-
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forme. Ciò non vuol dire che la letteratura precedente non canti la bellezza e non permetta, pertanto, di ricostruire l’aspetto fisico di Elena come di altre protagoniste femminili; tale bellezza però, più che descritta, è colta di volta in volta per singoli dettagli. Nei poemi omerici, grazie a una serie di aggettivi composti (quegli epiteti che, oltre a caratterizzare un personaggio, offrivano all’aedo già bell’e pronta una tessera di testo), Elena viene presentata come una donna «dalle bianche braccia», «dalle belle guance», «dalla veste fluente», «dai bei capelli»; quando appare sulle porte Scee, la donna è «avvolta in veli bianco lucenti» e la sua veste è odorosa. Il poeta tragico Euripide menziona a sua volta i riccioli biondi di Elena, le sue caviglie sottili e gli occhi bellissimi. Di tali occhi, lo abbiamo già ricordato, il suo predecessore Eschilo evoca l’intensità dello sguardo, chiamandolo «dolce dardo», sia pure in un contesto nel quale biasima gli effetti rovinosi di quella bellezza, mentre Luciano, nel II secolo d.C., loda l’imponenza del corpo. Una menzione a sé merita infine il seno, di cui si è già detto nel precedente paragrafo, talmente bello che una volta scoperto le salva la vita. Questi tratti, sparsi e ripresi con varianti nella lette-
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ratura antica, costruiscono nel loro insieme la bellezza della donna per la quale si è scatenata una guerra. Ancor più che coglierne i dettagli, però, gli autori antichi indugiano a sottolinearla, ribadendone l’eccezionalità, talvolta anche con un’allusione al suo valore funesto: come quando, nell’Iliade, Achille dirà della donna che «agghiaccia le membra». Ricostruire la bellezza di Elena ci permette di individuare quali sono nella letteratura antica le parti del corpo femminile identificate come sedi privilegiate della bellezza: viso, occhi, braccia, seno, caviglie, piedi, capelli; a parte il seno, che si scopre solo in occasioni di gravità estrema (sia per Frine sia per Elena è in discussione la vita), sono le parti che gli abiti lasciavano scoperte e che era possibile ammirare. Altre porzioni del corpo femminile non si potevano vedere scoperte se non in cortigiane e liberte e quindi se ne trova elogiata la bellezza solo in certa poesia amorosa o in testi della letteratura comica o satirica: proprio in una delle sue Satire, scritte in età augustea, il poeta latino Orazio osserva che di una matrona, a parte il viso, non è possibile vedere nulla, in quanto coperta dalla stola, la lunga veste indossata a Roma dalle donne “perbene”, chiamata talaris proprio perché arrivava fino ai
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talloni (in latino “tallone” è talus); al contrario, la cortigiana «porta in giro senza inganni la sua mercanzia e ciò che ha da vendere lo mostra apertamente». Dobbiamo poi a un altro poeta augusteo, Ovidio, che ha cantato l’amore in migliaia di versi, esplorandone tutte le tonalità espressive e le possibilità di rappresentazione, un testo di poesia erotica in senso moderno, in cui il corpo della sua amante Corinna, che lo ha raggiunto per un convegno amoroso nell’ora della siesta, è descritto in ogni dettaglio, dalle spalle alle caviglie, e senza alcuna censura. Ma si tratta di un unicum; nella restante letteratura, quella greca in particolare, i tratti di bellezza elogiati sono gli stessi di Elena. Come si vedrà dagli esempi seguenti, i Greci mostrano infatti una tendenza a tipizzare la bellezza che nella poesia di età arcaica è resa ancora più evidente dalla convenzionalità del linguaggio formulare; si tratta di una bellezza colta, per così dire, “per istantanee”, che riescono a condensarne e a trasmetterne tutta la seduzione e la potenza erotica. Nell’Odissea, sono dette «dalla bella chioma», alla stregua di Elena, due incantatrici divine come la ninfa Calipso e la maga Circe, ed è senz’altro bella la chioma che «velava le spalle e
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la schiena» della ragazza (un’etera?) a cui è dedicato un frammento del poeta Archiloco. Nelle tragedie euripidee sono bionde Fedra, Cassandra, Clitemnestra e Ifigenia, come è d’oro la chioma di Agesicora, che guida il coro in uno dei parteni di Alcmane, canti corali eseguiti da fanciulle per altre fanciulle. La bellezza, infatti, è anzitutto luce, tant’è che nello stesso canto di Agesicora si dichiara la volontà di celebrare «la luce di Agido» e Agesicora ha, insieme con la chioma d’oro, il volto d’argento. Anche la carnagione bianca, infatti (considerata particolarmente attraente e appropriata per una donna, la cui vita si svolgeva pressoché esclusivamente nel chiuso delle pareti domestiche), è luce, e non stupisce che di Elena si celebrino, come abbiamo visto in Omero, le bianche braccia e la bella (e certamente bianca) guancia, così come sono bianchi, in tragedia, il corpo di Alcesti, il collo (bianchissimo) di Medea, la guancia della giovane principessa per cui Giasone la abbandona, della quale la tradizione conosce due nomi, Glauce (con cui qui torneremo a chiamarla) e Creusa. Ma la pelle chiara non è apprezzata solo nelle eroine del mito: in un breve e delizioso carme in cui invita a cena l’amico Fabullo, Catullo si augura che accan-
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to alla compagnia e al buon vino, l’allegria del banchetto sia garantita dalla presenza di una candida puella, presumibilmente una cortigiana, mentre sulle pareti di Pompei una mano anonima inneggia a un’altra candida che ha insegnato all’ignoto autore del graffito a «odiare le ragazze dalla pelle bruna». Questo candore, peraltro, può essere sublimato dal rosso del sangue che traluce attraverso il bianco della pelle: tale appare, allo sguardo ammirato di Cicerone, l’Afrodite Anadiomene dipinta da Apelle («un rosso che si mescola al bianco e si fonde con esso»), e così è celebrata da Ovidio una donna che, pur invecchiando, ha mantenuto il colorito della sua giovinezza: «fu bianca, prima, e il candore della sua pelle era soffuso di un roseo rossore; / il rossore brilla nel suo volto di neve». Ma avremo modo di tornare su questo colorito che abbiamo già detto essere un segno di buona salute e che, qualora non si possedesse per natura, le donne cercavano di ottenere con il maquillage. Ora aggiungiamo solo che il lucore delle bianche braccia di Elena è comune, per esempio, a Nausicaa, la giovane principessa dei Feaci, la quale, nei versi dell’Odissea in cui è raffigurata nell’atto di giocare a palla con
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le sue ancelle in riva al fiume, regala a questo epiteto, con l’evocazione del movimento, un guizzo particolare. In Nausicaa si colgono anche due ulteriori tratti di bellezza, che non abbiamo rilevato per Elena. Il primo è dato dalla flessuosità della sua figura, suggerito dal paragone che Odisseo instaura con un giovane virgulto di palma da lui ammirato a Delo; il secondo è costituito dall’alta statura, che emerge dal confronto con le sue ancelle: in mezzo a loro, la giovinetta «col capo e la fronte le supera tutte». La statura, infatti, è un’altra qualità che rende belli: non per nulla si attribuisce a dèi ed eroi, mentre Aristotele, nel IV secolo a.C., non esiterà ad affermare che «la bellezza risiede in un corpo grande: le persone piccole possono essere eleganti e proporzionate ma non possono essere belle». Quando Atena rende bella Penelope, prima che si presenti ai Proci (ci torneremo), la fa apparire più alta e lo stesso fa con Odisseo, prima che si presenti a Penelope (o in precedenza a Nausicaa). La bellezza, però, è anche movimento: per questo può essere definito «amabile» l’incedere della lontana Anattoria, che suscita il rimpianto malinconico della poetessa Saffo, ma anche quello della Lesbia catulliana, candida diva che
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incede con «morbido passo» mentre varca la soglia della casa in cui incontra clandestinamente il suo amante poeta. Inoltre, è nel movimento che possono spiccare le caviglie sottili di Atalanta, la cacciatrice veloce nella corsa, gli «agili piedi sottili» di Astimelusa, che guizza «come una stella che trascorre il cielo luminoso», laddove «l’incedere aggraziato» di Glauce, che si specchia voltandosi indietro, con i talloni sollevati, mentre indossa la veste e la corona di Medea che a breve le incendieranno le carni, ne pone in risalto il piede, naturalmente «bianchissimo». Sede privilegiata della bellezza femminile – e per questo li abbiamo lasciati in chiusura, in questo catalogo che prende le mosse da Elena – sono però gli occhi, attraverso il cui dolce dardo, per riprendere ancora una volta l’espressione di Eschilo, si seduce e si è sedotti: una dinamica mirabilmente condensata in un verso, «Cinzia per prima ha fatto prigioniero me, sventurato, con i suoi dolci occhi», con cui il poeta latino Properzio apre il racconto in versi dell’amore per la sua donna, in quell’età augustea che costituisce l’epoca d’oro di questo genere di poesia. Scintillano di grazia gli occhi di Atalanta, della quale abbiamo appena colto il dettaglio delle caviglie, nel catalogo di eroine in cui la collo-
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ca il poeta Esiodo, completando un’immagine di bellezza che lascia sbigottito chi la guarda, mentre quelli di Astimelusa, che abbiamo detto «guizzare» in un partenio di Alcmane, fissano con una intensità che provoca un desiderio «più struggente del sonno e della morte». Gli occhi ci riportano al viso, che è comunque ciò che per primo attira la vista e più influenza il giudizio complessivo sull’aspetto fisico: non per niente il latino usa una stessa parola, facies, per indicare il viso e la bellezza, a volte senza che si possa distinguere tra i due significati. Ed è proprio il primo poeta d’amore della letteratura latina, Catullo, a comunicarci alcuni tratti di bellezza del volto femminile riconosciuti dal mondo antico, in un singolare carme nel quale viene elencata in litote una serie di difetti che rendono «non bella» una certa Ameana, amante di un «bancarottiere di Formia» da identificare con l’odiatissimo Mamurra, sgherro di Cesare. Mentre altri la considerano leggiadra, infatti, Catullo la apostrofa come fanciulla dal naso non piccolo dal piede non bello e dagli occhi non neri dalle dita non lunghe dalla bocca non netta.
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Per il poeta, dunque (e – dobbiamo ritenere – per la società romana del I secolo a.C., visto che il difetto è messo in rilievo per smentire l’opinione corrente sulla donna), anche il naso piccolo è un segno di bellezza: in un altro carme Catullo definisce direttamente «bruttino» (turpiculus) il naso «non piccolo» di Ameana e qualche decennio dopo di lui Orazio, in una satira che abbiamo già citato, considererà segno di bruttezza per una donna il naso pronunciato, alla stregua dei fianchi stretti, del sedere piatto e dei piedi grandi. Colpisce, inoltre, nei versi di Catullo, il riferimento a una bocca «netta», cioè non bavosa, soprattutto in relazione a una giovane donna: Plauto aveva infatti già fatto dire di sé qualcosa di analogo al personaggio di una sua commedia, ma questi era un vecchio signore che, sentendosi ancora in credito con la vita, così si autoelogiava: «Non sputo, non scaracchio, non sono bavoso [mucidus] […] / e il fiato non mi puzza!». Torniamo, però, a Catullo. Gli ulteriori tratti di bellezza, quelli che il poeta evoca dicendo che non appartengono ad Ameana, li conosciamo già, a parte le dita affusolate; notiamo, però, che per Catullo gli occhi belli sono non già grandi o dallo sguardo intenso e vivace, come abbiamo visto per Elena e le altre, ma neri, e ciò in sinto-
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nia con l’erudito e antiquario romano Varrone, che degli occhi neri aveva tessuto un elogio in un frammento delle sue Satire menippee: «Oh le nere pupilline, dentro occhietti birichini, quanta allegria comunicano all’animuccia bella!». Ma bastano i tratti fisici per giudicare bella una donna? In realtà no; perché una donna (ma anche un uomo) sia realmente tale, deve possedere ciò che i Greci chiamano charis e i latini venustas o direttamente venus, ovvero la grazia, il fascino, che la bellezza riesce a esercitare su chi la contempla: come si legge in un epigramma dell’Antologia Palatina attribuito a un oscuro Capitone, «La bellezza senza la grazia piace solo, ma non conquista, come un’esca che galleggia priva d’amo». È proprio la charis, infatti, un elemento riconoscibile in tutti i passi che abbiamo citato finora, sia che venga direttamente esplicitato, sia che gli autori lo evidenzino attraverso la reazione di chi dalla bellezza risulta sedotto. Nell’Odissea, anzi, la charis è qualcosa che Atena «versa» su Odisseo, che già si è lavato e spalmato di unguento profumato per rendersi più gradevole agli occhi di Nausicaa e delle sue ancelle (torneremo nel prossimo paragrafo su questi atti elementari di toletta) e che già la stessa dea ha
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reso di aspetto più grande e robusto, facendogli anche scendere dal capo «riccioli simili a fior di giacinto»: un ultimo tocco, dunque, la charis, una sorta di patina che la divinità gli «infonde sul capo e sugli omeri», come un artefice che versi intorno all’argento dell’oro, perché il naufrago re di Itaca possa conquistare a suo vantaggio il cuore della dolce Nausicaa. Qualcosa che lo fa «risplendere», «luccicare» (il greco usa il verbo stilbein, da cui deriva anche l’epiteto del pianeta Mercurio, detto Stilbon, «Lo scintillante»), quasi come lo scintillio di luce che la fata madrina accende, con la sua bacchetta magica, sulla Cenerentola di Walt Disney già abbigliata per il ballo, prima che salga sulla zucca trasformata in carrozza. Tuttavia, che cosa sia, fuor di metafora, la venustas, nessuno lo esprime in modo più esplicito di Catullo, in un carme in cui celebra la bellezza della sua donna. Anche i versi per Ameana avevano come contrappunto la bellezza di Lesbia, alla quale, secondo Catullo, solo gente priva di gusto poteva paragonare l’amante di Mamurra. È nello stabilire la superiorità di Lesbia su una certa Quinzia, però, una donna non solo giudicata bella (formosa) da molti, ma anche dotata di tutti gli attributi che potrebbero renderla tale,
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che troviamo il riferimento a quel surplus che lega tutto, al colpo di bacchetta magica, alla patina che rende una donna veramente seducente, per cui Catullo chiama in causa i termini venus e venustas. Ecco, infatti, che cosa scrive il poe ta di Verona della donna che continua a fargli battere il cuore anche quando la odia: Quinzia a giudizio di molti è bella; per me è bianca, alta, diritta. Riconosco singolarmente questi pregi, ma nego quel “bella”: non c’è, infatti, nessuna grazia [venustas], non c’è un pizzico di sale in quel corpo così grande. È Lesbia, invece, quella bella: lei che, oltre ad essere tutta bellissima, ha rubato alle altre donne ogni attrattiva [veneres].
Fascino, capacità di sedurre, potenza erotica: in questo, dunque, consistono la charis dei Greci e la venustas dei Latini. E infatti nel dialogo Sull’amore di Plutarco la charis è detta anche «consenso della femmina al maschio che precede l’unione». Non stupisce, allora, che ci sia un’età per la charis e che essa coincida con la primavera della vita, quando il corpo è pieno di linfa e di vigore (i Latini direbbero «di succo»). Ricordiamo che nella sua descrizione, co-
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me abbiamo visto, Giovanni Malala presenta Elena come una donna che a ventisei anni ha raggiunto il culmine della sua bellezza. Prima della pubertà, infatti, non c’è ancora posto per la charis ed essa è irrimediabilmente perduta quando la giovinezza è trascorsa. 3. La bellezza è un atleta Finora ci siamo soffermati soprattutto sulla bellezza femminile, anche se in uno dei passi dell’Odissea che abbiamo citato a essere reso bello e perfuso di charis da Atena è Odisseo. Del resto, nell’Ippia Maggiore di Platone il protagonista, interrogato da Socrate su che cosa sia il bello, risponde che «Il bello è una bella ragazza», come risponderebbe l’uomo della strada e come abbiamo risposto noi, cercando in primo luogo la bellezza nell’armonia del corpo femminile. Naturalmente Ippia sarà smentito da Socrate e naturalmente lo saremmo anche noi, se la nostra ricerca non avesse un limite predefinito nella dimensione corporale, anche adesso che ci accingiamo a parlare della bellezza maschile, di cui quella femminile costituisce di fatto uno scarto. I Greci, infatti, percepivano la definizione della bellezza come un problema complesso e
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il bello come un concetto inscindibile dai valori morali. Nella Grecia arcaica, per esempio, un individuo fisicamente bello (kalós) doveva essere anche necessariamente “buono” (agathós), tant’è che gli eroi omerici sono tutti vigorosi e imponenti (le deviazioni alla norma sono sottolineate) e Saffo poteva affermare che «chi è bello è bello solo da vedere, chi è buono sarà subito anche bello». Un legame, questo tra bellezza interiore e bellezza esteriore, distante dalla nostra mentalità, che tende piuttosto ad associare la bellezza a una mancanza di doti morali o intellettive, ma particolarmente valorizzato nella società aristocratica greca, nella quale, peraltro, poiché le doti morali erano considerate inscindibili dalla nobiltà di sangue, si veniva a creare una corrispondenza necessaria tra aspetto fisico, doti interiori e appartenenza sociale. Questa premessa – che dà alla bellezza anche una valenza sociale e politica su cui qui non possiamo soffermarci – aiuta a capire meglio perché, in Grecia, il modello canonico di bellezza maschile sia incarnato dall’atleta, la cui perfezione corporea è frutto di un esercizio (áskesis) che ne ha modellato la forma, ma ne ha anche temprato la volontà con l’amore per la fatica (philoponía): ciò per raggiungere la vitto-
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ria e la fama e con esse il riconoscimento della comunità d’appartenenza. Il caso esemplare di bellezza maschile è quello di Carmide, il giovane protagonista del dialogo omonimo di Platone, il quale – come si dichiara prima ancora che faccia il suo ingresso nella palestra in cui è ambientato il testo – si distingue su tutti i ragazzi della città. Carmide ha un corpo imponente ed è bello in modo «sovrannaturale» (hyperphyôs), al punto da suscitare, al suo ingresso, la meraviglia ammirata degli astanti, che ne fanno oggetto di contemplazione alla stregua della statua di un dio. Di Carmide si loda il volto, con il dettaglio degli occhi, il cui sguardo colpisce Socrate al punto da fargli dire che è impossibile descriverli. Ma è il corpo nudo nella sua interezza, soprattutto, a essere lodato, poiché, come afferma uno dei presenti, è talmente bello che se il ragazzo acconsentisse a spogliarsi, la sua bellezza offuscherebbe persino quella del viso ed egli apparirebbe «senza volto». A differenza di quella femminile, dunque, percepita in modo parcellizzato, la bellezza dell’uomo, ovvero dell’atleta, che si spoglia nelle palestre per esercitarsi, è – com’è stata definita – «una bellezza nuda e totale». Sebbene il
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mondo romano mostri una certa diffidenza nei confronti della pratica agonistica greca, inoltre, questo ideale di bellezza maschile persiste anche in età imperiale, quand’anche come forma di resistenza culturale e di rivendicazione della propria identità ellenica da parte di cittadini di lingua greca. Tra questi si annovera il retore Dione Crisostomo, che tra il I e il II secolo d.C. dedica due orazioni (28 e 29), di cui una è l’elogio funebre, a un atleta forse storicamente esistito, di nome Melankómas (“Il Chiomanera”). Questo atleta, che le fonti considerano tra i più famosi del mondo antico, era un pugile e campione olimpico, indicato come il vincitore delle Olimpiadi nel 49 d.C. nonché come l’amante dell’imperatore Tito. La bellezza di Melankómas, per Dione, va oltre quella corporea e il nostro autore vuole riproporre valori che sono indissolubilmente etici ed estetici in un contesto in cui cultura greca e romana coesistevano: ma il corpo, come frutto tangibile di una costruzione etica, vi assume un ruolo centrale, ed è pertanto un corpo bellissimo, tanto che, come fa Platone con Carmide, anche di lui Dione dice che «nel momento in cui si fosse spogliato non c’era nessuno che guardasse un altro, nonostante la presenza di molti giovani e
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di uomini che si allenavano». E gli atleti, precisa Crisostomo, «sono i più imponenti e i più belli». Molti sono stati considerati belli perché avevano parti del corpo belle, scrive ancora il nostro autore, o perché si trovavano nell’acme della vita, che è – anche noi lo abbiamo appena detto – fiorente per definizione. Ma Melankómas aveva acquisito la bellezza in tutte le parti del corpo in modo omogeneo, sia prima della giovinezza, sia dopo, e anche se fosse diventato molto vecchio nulla avrebbe potuto offuscare il suo aspetto. Secondo l’autore, inoltre, le virtù morali di Melankómas (coraggio, saggezza, fermezza d’animo, capacità di resistere non solo ai suoi antagonisti, ma anche alla fatica, al caldo, alle tentazioni della tavola e al piacere dei sensi) rendono superiore la sua bellezza a quella di altri belli del mito, che poi elenca offrendo anche a noi l’occasione di ricordarli: Ganimede, il principe troiano talmente bello da conquistare Zeus, che lo portò sull’Olimpo perché diventasse il coppiere degli dèi; Adone, il giovane che fece innamorare di sé due divinità, Afrodite e Persefone; Faone, il traghettatore di Lesbo, reso bellissimo da Afrodite e amato perciò da tutte le donne dell’isola, Saffo compresa; e ancora Achille e il mitico re di Atene, Teseo, con suo figlio Ippolito.
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Tanto è vero che l’atleta rappresenta l’ideale di bellezza maschile che all’inizio dell’orazione 28 Dione ne celebra un altro, l’antagonista di Melankómas, Iatrocle, un giovane anch’esso «imponente e bello»; e se il Carmide di Platone era ammirato come una statua dai giovani della palestra, di Iatrocle Dione scrive che «era identico alle statue realizzate con accuratezza. Aveva anche il colore simile a una lega di bronzo». Il modello perfetto della bellezza maschile è, dunque, una statua vivente. Questo riferimento alla scultura ci impone di chiederci, a questo punto, in che cosa gli artisti del tempo individuassero la bellezza del corpo, e la risposta è nelle proporzioni tra le parti, quelle proporzioni che nel V secolo a.C. lo scultore argivo Policleto aveva trasformato in un sistema di rapporti numerici ideali da porre a fondamento della rappresentazione del corpo maschile: delle dita rispetto all’estensione della mano, della mano rispetto all’avambraccio, dell’avambraccio rispetto al braccio, e così via. Non abbiamo piena contezza di questo sistema perché del trattato che Policleto aveva dedicato all’argomento, il cosiddetto Canone, non sono rimasti che due frammenti. Inoltre, non è chiaro quale delle statue di Policleto, peraltro conserva-
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tesi solo nelle copie romane, incarni il canone: le fonti attestano, infatti, che lo scultore volle dare concretezza alle sue parole realizzando una statua secondo i precetti che aveva messo per iscritto e chiamandola Canone così come il trattato. Nel 1863, l’archeologo e filologo Karl Friederichs credette di potere identificare il Canone nel Doriforo, conosciuto nell’antichità sotto il nome di Achille e più volte riprodotto, ma il sistema delle proporzioni della copia meglio conservata, quella del Vaticano, non corrisponde a quello di altre copie, né agli altri tipi statuari tradizionalmente attribuiti allo scultore. Si è pure ipotizzato che la statua del Canone non rappresentasse un soggetto definito, ma solo il modello da bottega di un uomo accuratamente proporzionato. Queste incertezze non inficiano però il dato certo e più importante: se la bellezza maschile è un corpo d’atleta, essa è anche proporzione. 4. “Fare” bellezza Essere belli vuol dire anche essere in salute: secondo Galeno la bellezza, fatta di un buon colorito, una buona proporzione delle membra e una generale armonia dei volumi, è una delle componenti della salute, insieme alla buona
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costituzione e all’integrità. E infatti, la bellezza deriva immediatamente dalla salute, così come ne deriva la facoltà d’azione, intesa come capacità di attendere alle proprie abituali attività. Stando così le cose, non stupirà sapere che proprio Galeno conserva un aneddoto relativo a Frine, del quale, peraltro, è la nostra unica fonte. Il grande medico narra che durante un banchetto l’etera si fece ideatrice di un singolare concorso di bellezza, a cui parteciparono le donne presenti, cortigiane anch’esse, come attesta la loro stessa presenza a un convito. Fatta portare dell’acqua, le invitò toccarsi il viso con le dita bagnate e poi ad asciugarsi, e lo stesso fece anche lei. Il volto delle altre donne, che avevano fatto ricorso a belletti, apparve allora tutto coperto di macchie, rendendole simili a spauracchi; Frine, invece, sembrò ancora più bella, perché la sua bellezza era naturale. È autentico questo racconto o lo ha inventato Galeno? Visto che le altre donne avevano usato biacca (bianca) e polvere rossa, il medico vuole forse attribuire a Frine quell’incarnato frutto di un giusto equilibrio di questi due colori ritenuto segno di salute e di bellezza? E se è così, come si sposa questo dettaglio con il nome con cui la donna era nota, “Rospo”, su cui le fonti riluttano
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e che Plutarco interpreta come un’allusione al suo colorito giallastro, simile a quello dell’animale in questione? Si deve credere, come è stato supposto, a una denominazione antifrastica, e dunque attribuita per contrasto? Comunque stiano le cose, sicuramente l’obiettivo che qui si pone Galeno è quello di valorizzare la bellezza naturale, «esente da imbrogli», alla quale basta il più elementare atto di bellezza per rifulgere: il viso di Frine, privo di artifici, appare ancora più bello di prima. La detersione, infatti, è il primo atto di qualunque rituale di bellezza. Quando Penelope, ispirata da Atena, dichiara di volersi presentare ai Proci, Eurinome, la dispensiera della reggia, per impulso della stessa dea, la esorta a lavarsi e a ungersi le gote: questo per cancellare le lacrime, che le bagnano da anni il volto, consumandolo (come dirà Odisseo più avanti), ma con il fine ultimo di rendersi più attraente. Penelope, infatti, declina l’invito, dichiarando che la bellezza gliela tolsero gli dèi, quando il marito si è imbarcato alla volta di Troia (il greco usa il termine aglaía, che letteralmente significa “splendore”, ma a questo punto non ci stupirà che venga tradotto “bellezza”). Si occuperà tuttavia Atena del suo aspetto, dopo averla fatta cade-
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re in un sonno profondo, e il primo atto che la dea compirà sarà proprio quello di detergerle il volto, con lo stesso unguento divino che adopera Afrodite «quando va all’incantevole danza delle Cariti» (il greco ha qui il verbo kathaíro, che vuol dire “rendere puro”). L’unguento, laddove sia legato a pratiche cosmetiche, è in genere profumato: e sicuramente lo è in questo caso, in cui sono tirate in ballo Afrodite e divinità del suo corteggio come le Cariti, nome di cui, a questo punto, siamo in grado di cogliere tutta la pregnanza. Il legame del profumo con la sfera erotica è ben attestato nella cultura classica, e iconicamente visibile nella pisside del Museo archeologico nazionale delle Marche, dove Peithò (divinità del corteggio di Afrodite, il cui nome significa “Persuasione” e di cui un appellativo è myrópnous, “che esala profumo”) offre alla dea nascente dalle acque un’ampolla di profumo. Anche la scena di toletta più antica ed elaborata della letteratura antica, quella del quattordicesimo libro dell’Iliade che ha per protagonista Era, comincia dalla detersione, realizzata nel suo caso con unguenti divini: decisa a sedurre il suo sposo per distoglierne l’attenzione dal campo di battaglia, la dea, infatti,
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per prima cosa lavò con linfa divina il suo corpo attraente, e lo unse tutto d’un olio profumato eterno, da lei distillato: al solo agitarlo si spandeva l’odore per la casa di Zeus.
E uguale è il primo atto del rituale di bellezza compiuto da Afrodite, quando, presa d’amore per il pastore Anchise, si prepara con cura per recarsi sul monte Ida: entrata nell’odoroso tempio di Pafo, scrive l’autore del quinto dei cosiddetti Inni omerici, dedicato alla dea, le Cariti la lavarono e la unsero con un olio straordinario, usato per la pelle degli dèi eterni, un olio divino e soave che la profumò tutta.
Indossate poi le belle vesti e adornatasi d’oro, ella è pronta per attraversare le nubi e recarsi al suo appuntamento d’amore. Seguire due delle divinità che si contesero il titolo di più bella dell’Olimpo mentre fanno toletta ci permette di cogliere tutte le tappe in cui si articolava un rituale di questo genere, oltre a farci conoscere pagine di letteratura bellissime. Con una efficace dilazione, la parure di Afrodite non è descritta nel suo farsi, ma quando la dea appare ad Anchise, sicché il lettore la scopre se-
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guendo lo sguardo abbagliato dell’uomo, lungo la scia creata dalle vesti e dai gioielli della dea: si tratta di immagini in cui l’elemento della luminosità, che abbiamo già visto essere proprio della descrizione del divino nel mondo greco, è fortemente enfatizzato. Apprendiamo così che ella indossava un peplo più fulgido della vampa del fuoco, portava bracciali ritorti e orecchini lucenti, e al collo delicato erano appese collane bellissime, d’oro intarsiato: illuminavano il suo morbido petto quasi di un bagliore lunare, e l’effetto era meraviglioso.
Nel suo farsi e nel dettaglio è descritta, invece, in ordine e in modo sistematico, la toletta di Era. Deterso e profumato dunque, come abbiamo già detto, il bel corpo e pettinati i capelli, di sua mano compose le splendide trecce, belle, divine, giù dalla testa immortale. Addosso si mise una veste meravigliosa, che Atena per lei aveva tessuto con arte, inserendovi molti ricami, e se la fermava sul petto con fibbie d’oro. Passò attorno ai fianchi una cinta adorna di cento pendagli,
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ai lobi delle orecchie ben forati applicò gli orecchini a tre pietre ciascuno, grossi come more: ne riluceva una grazia incantevole. Poi la dea fra le dee si pose in testa un velo, bello, tutto nuovo: era splendente, come il sole; calzò infine ai floridi piedi i sandali belli.
Manca solo un dettaglio per rendere compiuta questa scintillante immagine di bellezza e seduzione, una sorta di progenitore del moderno reggiseno: il cinto di Afrodite, il keston sede di tutti gli incanti («l’amore, il desiderio, il colloquio segreto, la persuasione / che ruba il senno pure a chi ha saldo il pensiero»), che la regina dell’Olimpo avrà a breve in prestito dalla legittima proprietaria. Una volta indossato anche quello, per lo sposo divino non ci sarà più scampo. Anche le dee immortali si prendono, dunque, cura della loro bellezza (Afrodite, in particolare, è spesso raffigurata allo specchio); lo fanno, persino loro, per sedurre, e lo fanno, ancora prima, perché intervenire esteticamente sul corpo è un atto di cultura antico come il mondo, uno dei modi – come direbbero gli antropologi – di “fare umanità”. Lo è a partire dal rituale della fasciatura del neonato, con la quale, lo abbiamo
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visto, un corpo ancora informe viene modellato per aiutarlo ad assumere fattezze umane; lo è nella scelta dell’abbigliamento e degli accessori, che marcano un genere, un’età, un’appartenenza etnica o politica, uno status sociale. 4.1. Cosmetica vs commotica Vi erano vari modi di prendersi cura dell’aspetto del corpo, che potevano andare dagli atti ai quali abbiamo appena visto dedicarsi Era e Afrodite (lavarsi, profumarsi, pettinarsi, abbigliarsi, ingioiellarsi) a manipolazioni più ambiziose, attraverso l’uso di ferri per arricciare la chioma, tinture per capelli, creme di bellezza, depilatori e maquillage, dal carbonato di piombo che serviva a coprire di bianco la pelle (psimýthion), ai rossi per guance e labbra (ánchousa e phykos, miltos, sykáminon, paidéros, sandaráke), al nerofumo per gli occhi (asbóle). Considerato, come abbiamo visto in Galeno, l’espressione di una volontà di sedurre con l’inganno, il maquillage in Grecia è in genere riservato alle cortigiane ed esplicitamente vietato alle donne “perbene” durante i funerali o in determinati contesti religiosi, quali, per esempio, le feste di Demetra. In altre feste cittadine, come quelle in onore di Atena, era invece previsto per le giovani in
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età da marito, che trovavano in circostanze come queste una rara occasione di lasciare la casa paterna. Abbigliate per la festa e con le guance bianche di biacca, esse sfilavano in processione come canefore, portando sul capo un canestro (káneon, da cui la denominazione) contenente le offerte di rito per la divinità. Per gli antichi tutte le attenzioni prestate alla cura del corpo rientravano nella cosmetica (kosmetikè techne in greco, in latino ornatus o cultus o ancora mundus muliebris), un’arte che prende il nome dal termine greco kosmos, “ordine”, “mondo ordinato” e poi “ornamento”. Si trattava, dunque, di un’arte che comprendeva nel senso più ampio la cura del corpo e del proprio aspetto, al punto da sconfinare, come ai nostri giorni, nella farmacologia e nella medicina e da offrire materia di discussione ai moralisti e politici, preoccupati di reprimerne i presunti eccessi con il biasimo o con le leggi. La prima legge suntuaria, che stabiliva limiti all’ostentazione della ricchezza privata, si attribuisce addirittura all’ateniese Solone, che visse a cavallo fra VII e VI secolo a.C. e fu annoverato fra i sette sapienti della Grecia, mentre per Roma l’esempio più famoso è forse quello della lex Oppia, promulgata nel 215 a.C., nel pieno della
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seconda guerra punica, che regolava tra l’altro il peso dell’oro che a una matrona era lecito indossare. La legge restò in vigore per vent’anni, ma alla fine, dopo un lungo dibattito al quale parteciparono Marco Porcio Catone, il famoso censore, e il tribuno della plebe Lucio Valerio, fu definitivamente abrogata. Come tramanda lo storico di età augustea Tito Livio, Valerio riuscì a spuntarla sostenendo che monili e ornamenti sono propri delle donne e che anche gli antenati – la cui evocazione è indispensabile a Roma per sostenere qualunque tesi – riconoscevano in essi un segno lecito della loro eleganza. In effetti, la cura del corpo e del proprio aspetto era considerata, a Roma come in Grecia, appannaggio del sesso femminile, nella misura in cui le donne, da Pandora in poi, sono state pensate come esseri che amano manipolare il naturale per sedurre. Per quanto riguarda il sesso maschile, invece, preoccuparsi eccessivamente del proprio aspetto, al di fuori delle cure che gli si dedicano alle terme e nelle palestre, abbigliarsi in modo lussuoso, ingioiellarsi, è considerato dai Greci costume dei barbari; un cittadino maschio che mostri per questi atti un’eccessiva inclinazione attira su di sé discredito e accuse di effeminatezza. Analogo è l’atteggiamento dei
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Romani, per i quali un bersaglio privilegiato era rappresentato dai gioielli, apprezzati in modo crescente a partire dall’età imperiale; tale apprezzamento era oggetto di attacco politico e gli eccessi di alcuni imperatori erano giudicati manifestazioni del loro essere cattivi principi. Lo stesso pregiudizio si applica alla depilazione. Mentre per le donne era considerata in modo positivo, sia dai Greci sia dai Romani (la commedia antica ricorda più volte che una peluria eccessiva non si addice alle donne e Ovidio raccomanda alle sue lettrici di depilarsi gambe e ascelle), essa è messa sotto accusa quando sia praticata da uomini adulti, poiché viola il principio ben stabilito della separazione dei sessi e le sue implicazioni sociali, ma anche fisiche. Abbiamo già detto in un precedente capitolo che cosa pensasse Galeno della barba come prerogativa maschile. In questo contesto, però, è particolarmente utile ricordare quanto scrive a proposito dei peli del mento il filosofo stoico Epitteto nel I secolo d.C.: «Dovremmo salvaguardare i segni che Dio ci ha dati e non dovremmo rifiutarli, né, per quanto dipende da noi, confondere i sessi, che si trovano ben distinti». Inoltre, non va dimenticato che la comparsa dei peli e della barba, segnando l’ingresso del
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giovane nell’età adulta, metteva fine al suo ruolo passivo di erómenos (letteralmente “amato”) nelle relazioni pederastiche, tant’è che a Roma, come lamenta il filosofo Seneca in una delle sue Lettere a Lucilio, alcuni schiavi particolarmente desiderabili per la loro bellezza erano mantenuti a lungo dai loro padroni in stato di simulata adolescenza anche attraverso questa pratica cosmetica. Scrive il poeta Stratone di Sardi, in uno dei suoi epigrammi pederotici: Ecco, fra loro, Milesio d’eccelso rigoglio fiorisce – rosa chiara dai petali fragranti. Forse però non lo sa: per il caldo uno splendido fiore, per la peluria la beltà perisce.
Depilarsi era ritenuto dunque dai moralisti segno di effeminatezza e dissolutezza, un’abitudine che criticavano infatti nei Greci del Sud Italia e soprattutto nei Tarantini, i quali, oltre a indossare abiti leggeri, si depilavano integralmente: nel II secolo a.C. lo storico greco Polibio contesta l’idea che il re Filippo di Macedonia e i suoi compagni vivessero una vita di mollezze, radendosi e depilandosi, mentre nelle sue Ricerche sulla natura Seneca lamenta che i Romani, nel depilarsi e lisciarsi la pelle, hanno ormai supe-
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rato le raffinatezze femminili e considera anche questo tra i segni della corruzione dei costumi. In ogni caso, la cosmetica si diffuse in modo crescente con l’evolversi della società, soprattutto tra i ceti più abbienti. Così, se i barbieri prendono piede a Roma intorno al 300 a.C. e solo allora gli uomini cominciano a radersi, il biografo Svetonio ricorda tra le attitudini di Cesare le cure assidue che dedicava alla sua persona, sbarbandosi, radendosi accuratamente i capelli e depilandosi; quando poi a causa della calvizie incipiente iniziò a perdere i capelli – è sempre Svetonio a farcelo sapere – il dittatore usava riportare sulla fronte quelli che crescevano sulla parte più alta della testa. A quanto pare, inoltre, fra tutti gli onori che gli furono decretati Cesare apprezzava particolarmente il diritto a indossare in perpetuo la corona di alloro dei trionfatori, proprio perché gli consentiva di occultare quello che percepiva come un intollerabile difetto. Analoghe attenzioni mostrò, un secolo dopo, l’imperatore Otone, il quale – scrive ancora Svetonio – dedicava cure quasi femminili al proprio corpo, depilandosi integralmente. Quel che è certo è che in età augustea, tra le classi agiate, la cura del corpo e l’attenzione all’aspetto fisico sono ormai pratica quotidiana per entrambi
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i sessi: lo testimonia Ovidio, autore peraltro di un poemetto in versi elegiaci che illustra la preparazione e l’uso di alcuni prodotti di bellezza per le donne. E ciò a dispetto delle proteste dei moralisti, che criticano il ricorso alla cosmetica anche da parte delle donne, percependola come un’arte meretricia, e persino dei medici, che aggiungono alle più generali istanze etiche quelle della professione. È questa, infatti, la posizione di Galeno, autore di due monumentali trattati, i Medicamenti ordinati secondo il luogo di applicazione e i Medicamenti ordinati per generi, nei quali raccoglie il frutto di secoli di esperienza farmacologica. Per spiegare i criteri secondo cui ha operato la selezione delle ricette, egli distingue tra una cosmetica, che ha come obiettivo la conservazione della bellezza autentica ed è per questo conforme a natura – per intenderci, quella che gli abbiamo visto elogiare in Frine –, e una commotica (kommós vale propriamente “ornamento superfluo”), che mira invece a una bellezza costruita e falsa, quale quella ottenuta con i belletti dalle cortigiane sfidate da Frine. Poiché la bellezza naturale è frutto dello stato di salute, la cosmetica, che mira a frenare la caduta di capelli, ciglia e sopracciglia o a combattere
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le alterazioni della pelle che dipendono da stati patologici, rientrerebbe pienamente, a suo dire, nell’ambito della medicina. Ma lo stesso non vale, almeno a livello teorico, per la commotica, alla quale appartengono ricette per lisciare le rughe e illuminare l’incarnato, tingere i capelli, infoltirli, arricciarli o lisciarli. Tale arte, infatti, non ha una giustificazione medica, ma è l’esito di un desiderio illecito di bellezza e giovinezza. Spinto dalle richieste dei suoi illustri pazienti – le donne dell’alta società, comprese quelle di palazzo, e gli stessi imperatori, cui il medico prestava i suoi servigi –, Galeno ammette di aver accolto parzialmente anche la commotica, ma non senza le opportune limitazioni e precauzioni: questo sembra dire quando, per esempio, riferisce le ricette di Critone contro la canizie. Scrive Galeno, infatti, di avere alla fine accettato di inserirle nel suo trattato poiché, non si sa come, è ormai invalso l’imperativo che le donne di una certa età si tingano di nero i capelli (ma già Catone lamentava la pratica di impomatare i capelli con la cenere per ravvivarli o cambiarne il colore), quasi che la canizie fosse una vergogna; questa, peraltro, è opinione anche degli uomini, secondo i quali, aggiunge non senza ironia, è sgradevole che una donna vecchia abbia
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i capelli bianchi. A propria giustificazione, tuttavia, precisa che le sue ricette non sono destinate a chi ricorre alla tintura a puri fini estetici, ma a quante vogliono sfuggire allo stigma della vecchiaia ed evitare di dispiacere ai loro mariti. Oltre a questa preoccupazione, che oggi, se non indigna, strappa un sorriso, Galeno ne manifesta anche una di etica professionale, precisando che non prescriverà comunque preparati nocivi, in linea con uno dei principi del giuramento ippocratico. Per tingere i capelli, per esempio, invece dei prodotti astringenti, che li danneggiano, consiglia di applicare la resina di una varietà di cedro, il cedrelate, per quattro o cinque giorni, lasciarla agire per tre o quattro ore e poi sciacquare. Questo tipo di resina, peraltro, sviluppa una sufficiente quantità di calore, cosicché anche le donne più sensibili al freddo possono tollerare senza danni i tempi lunghi dell’applicazione. 4.2. L’eleganza del ricciolo L’attenzione ai capelli testimoniata da Galeno non è casuale, ma copre un aspetto della cosmetica che è da sempre tra i più rilevanti: del resto, i capelli – lo abbiamo visto – sono una componente importante della bellezza, soprat-
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tutto femminile, e offrono diverse occasioni di manipolazione che ne fanno anche uno strumento potente di comunicazione sociale. In un frammento in cui ricorda la figura della madre, per esempio, la poetessa Saffo scrive che «all’epoca della sua giovinezza, se una ragazza portava le chiome strette da un nodo purpureo, questo era già un gran bell’ornamento; ma per colei che abbia le chiome più bionde di una fiaccola (è molto meglio) agghindarle con corone di fiori sgargianti». Anche a Roma le ragazze, sino all’età del matrimonio, andavano a capo scoperto con i capelli sciolti sulle spalle o acconciati semplicemente, più spesso intrecciati, talvolta trattenuti sulla nuca da reticelle a maglie larghe. La semplicità dell’acconciatura era considerata consona, infatti, a uno stato virginale, tanto che Artemide/Diana, la dea che disprezza le nozze, non si acconcia i capelli. Al contrario, bende di stoffa o di lana indicavano lo status della donna sposata, mentre solo una matrona che avesse già procreato poteva indossare una benda sulla parte alta del capo, che prendeva il nome di tutulus. La cura per i capelli può anche essere percepita come la prima tappa di un percorso di civilizzazione: è quello che avviene, nella poesia di Ovidio, per il rude ciclope Polifemo, il quale,
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innamoratosi della ninfa Galatea, finalmente comincia a pettinare «gli ispidi capelli col rastrello» e a tagliare «col falcetto l’irsuta barba». Qualora, poi, una donna decidesse di tingersi i capelli, doveva ricordare che il biondo era più adeguato alle cortigiane che alle donne “perbene”. Proprio perché costituiscono un tratto importante della bellezza femminile, il messaggio più potente di cui i capelli si fanno veicolo resta però quello della seduzione; lo stesso Polifemo, che abbiamo appena citato, si prende cura del suo aspetto per piacere a Galatea. Proprio per tale valenza, nel VII secolo a.C., il poeta greco Semonide, nella sua invettiva contro le donne di cui abbiamo già detto in un precedente capitolo, identifica con la cavalla dalla molle criniera la donna che trascura i lavori di casa per dedicarsi con cura maniacale alla sua bellezza: quasi che delle operazioni che compie – lavarsi «ogni giorno, con cura, […] due volte, talora anche tre», ungersi di profumi e acconciarsi – la più rappresentativa fosse quella di portare la sua chioma «sempre pettinata, lunga e fluente e tutta ombreggiata di fiori». Abbiamo visto, del resto, che l’acconciatura è uno dei momenti fondamentali della vestizione erotica di Era, e non a caso Apollonio Rodio,
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nelle sue Argonautiche, quando vuole cogliere in un momento della toletta quotidiana la dea della bellezza e della seduzione, Afrodite, la rappresenta nella sua camera da letto, mentre, «Lasciando cadere da ambo le parti i capelli / sopra le candide spalle, li ravviava col pettine d’oro, / e ne faceva lunghissime trecce». Anche l’iconografia sottolinea l’appartenenza dei capelli all’universo della seduzione, dal modello dell’Afrodite Anadiomene di Apelle, di cui abbiamo già detto, che rappresenta la dea mentre, con le braccia sollevate, strizza le chiome bagnate uscendo dal mare, alle numerose scene di Afrodite alla toletta che, come il passo di Apollonio, hanno il loro fulcro nella coiffure e che dalle raffigurazioni di età ellenistica giungono fino alla pittura rinascimentale e moderna. Abbiamo citato sinora fonti greche. È però nella letteratura latina, e soprattutto nell’elegia d’amore di età augustea, che l’erotizzazione della capigliatura viene declinata con maggior frequenza e varietà di atteggiamenti. Da un lato, infatti, la cura dedicata ai capelli dalla propria donna risveglia la gelosia del poeta d’amore, che per l’occasione adotta il linguaggio della morale tradizionale: «A che cosa ti giova, o mia vita, incedere con i capelli adorni», recrimina
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Properzio rivolgendosi all’infedele Cinzia, «e agitare le pieghe sottili di una veste di Cos, / o cospargere la chioma di mirra del siriaco fiume Oronte / ed esporti quasi in vendita con doni esotici? / […] / il nudo Amore non ama la bellezza artificiosa». Dall’altro lato, i capelli stimolano il virtuosismo verbale di un poeta come Ovidio, che in quel manuale per il perfetto seduttore rappresentato dalla sua Arte di amare impartisce anche consigli di bellezza alle donne proprio a partire dalla cura dei capelli, ritenendo che «la mano che acconcia i capelli può donare o annullare la bellezza». Elencando una serie di pettinature e indicando per ciascuna quale sia il viso più adatto a portarle, egli dichiara infatti che Un ovale allungato richiede una scriminatura senza orpelli […] un viso rotondo, che sia lasciato al sommo della fronte un minuscolo nodo di capelli, in modo che si vedano le orecchie. Una donna lascerà ricadere i capelli sulle spalle […] un’altra li legherà indietro […] All’una stanno bene capelli vaporosi mollemente cascanti, l’altra dovrà cingersi il capo coi capelli raccolti.
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Una donna […] si acconci con la tartaruga del Cillene, un’altra porti ciocche ondulate come l’onda del mare. […] Anche una chioma trascurata sta bene a molte donne: spesso crederesti che stia lì dal giorno prima e invece è pettinata proprio ora.
Forse più di ogni altro autore, inoltre, Ovidio è esplicito nell’assegnare una connotazione erotica all’atto stesso di pettinarsi o, comunque, di interagire con la propria chioma. Egli, infatti, mentre raccomanda alle sue lettrici di farsi belle a porte chiuse, poiché «l’arte giova all’aspetto solo se ben nascosta» e «molte cose conviene che l’uomo non le sappia», non pone nessun divieto a pettinare in pubblico i capelli, lasciando che si spandano, sciolti, per le spalle. Le acconciature enumerate da Ovidio sono tutto sommato piuttosto semplici. Dall’età tardo- repubblicana in poi, al contrario, cominciano ad andare di moda pettinature sempre più elaborate, su cui, neppure a dirlo, si concentrano gli strali ironici dei moralisti e più tardi degli autori cristiani. Sia Giovenale sia Tertulliano, per esempio, hanno parole di biasimo per l’abi tudine femminile di raccogliere i capelli alti sul
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capo, ricorrendo anche all’uso di toupets. Il poe ta satirico, autore tra I e II secolo d.C. di una celeberrima satira contro le donne, deride colei che «schiaccia la sua testa con tante fila di riccioli e riesce a sopraelevarla con tante impalcature di supporto». A sua volta, tra il II e il III secolo d.C., l’apologeta africano che considerava le donne il varco del Demonio, in quanto pericolose e seducenti per natura, nella sua opera sull’Eleganza delle donne, oltre a criticare tout court la pratica della coiffure che non serve a salvarsi l’anima, si sofferma a descrivere una pettinatura che somiglia tanto a quella messa sotto accusa da Giovenale: «vi piantate in capo», sbotta, «non so quali smisurati toupets di capelli sottili e intessuti insieme, ora a mo’ di berretto di pelliccia – una sorta di fodera della testa e di coperchio del sommo del capo – ora formando un rialzo nel retro della nuca». È curioso constatare che anche i medici, come accade per l’uso di trucchi e tinture, offrono una sponda a critiche di questo tipo. Nel trattare della cefalea, Celio Aureliano ricorda che le donne sono la categoria più colpita dalla malattia e ritiene che questa circostanza sia legata all’abitudine di acconciarsi i capelli: tenuto conto che il testo riscrive in latino, come abbiamo detto,
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un originale greco di I-II secolo d.C., possiamo stare sicuri che a essere chiamate in causa sono qui le stesse “impalcature” di cui parlano Giovenale e Tertulliano. Al contrario di questi autori, però, il testo di Celio Aureliano non contiene nessuno spunto polemico, mostrando, anzi, rispetto di questo costume, fino al punto da proporre una cura diversa per uomini e donne quando siano colpiti da paralisi alla testa. Nel caso degli uomini, egli prescrive «di radere i capelli ora secondo il loro verso, ora contropelo»; nel caso delle donne, che – scrive – «non sono disponibili a permetterlo», propone invece di pettinare i capelli con un pettine a denti fitti secondo la differenza detta prima (ovvero prima secondo il loro verso, poi in senso contrario), tirandoli con veemenza, e prima per mano d’altri con un pettine a denti radi, poi per mano della paziente con un pettine a denti più fitti. Come Galeno, anche il medico efesino doveva evidentemente cedere alle richieste dei suoi pazienti e possiamo scommettere che tra le signore dei ceti benestanti alle quali indirizza la sua prescrizione, le stesse che dice soggette a cefalea, il gusto per le acconciature doveva essere particolarmente diffuso.
Fonti e percorsi
La bibliografia registrata in queste pagine è estremamente selettiva e limitata ai testi impiegati per la stesura del volumetto. L’attenzione per il corpo, crescente negli ultimi cinquant’anni, ha infatti dato origine a una ricchissima messe di pubblicazioni, che lo hanno esaminato sotto vari rispetti e in diversi ambiti disciplinari. Per l’antichità classica, un bilancio complessivo degli studi, sempre più numerosi dalla fine degli anni Novanta, è contenuto nel volume curato da F. Gherchanoc, L’histoire du corps dans l’Antiquité: bilan historiographique, in «Dialogues d’histoire ancienne», suppl. n. 14, 2015, cui si rimanda per un orientamento generale. Tra i vari dizionari del corpo usciti in anni recenti cito ancora qui solo il recente L. Bodiou - V. Mehl (dir.), Dictionnaire du corps dans l’Antiquité, Presses universitaires de Rennes, Rennes
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2019. I frammenti dei presocratici sono citati secondo la numerazione del Diels-Kranz. Con la sigla CMG si fa riferimento alla collana del Corpus Medicorum Graecorum, consultabile on-line, insieme al Corpus Medicorum Latinorum, all’indirizzo: https://cmg.bbaw.de/epubl/ online. Per i testi ippocratici e galenici che non hanno ancora avuto un’edizione critica moderna si fa riferimento alle edizioni ottocentesche di Littré (10 voll.) e di Kühn (20 voll. in 22 tomi), di cui si indicano regolarmente volume e pagine. Dove non è diversamente specificato, le traduzioni sono di chi scrive. 1. Il corpo prima del corpo Sui temi affrontati in questo capitolo vanno visti E. Lesky, Die Zeugungs- und Vererbungslehren der Antike und ihr Nachwirke, Verlag der Akademie der Wissenschaften und der Literatur in Mainz, Wiesbaden 1951; D. Gourevitch, Comment rendre à sa véritable nature le petit monstre humain, in Ph.J. van der Eijk H.F.J. Horstmanshoff - P.H. Schrijvers,(a cura di), Ancient Medicine in Its Socio-Cultural Context. Papers Read at the Congress Held at Leiden University, 13-15 April 1992, 2 voll., Ro-
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dopi, Amsterdam-Atlanta 1995, vol. I, pp. 239260; S. Holman, Molded as Wax: Formation and Feeding of the Ancient Newborn, in «Helios», vol. 24, n. 1, 1997, pp. 77-95; V. Dasen, Les naissances multiples dans les textes médicaux antiques, in «Gesnerus», LV, n. 3-4, 1998, pp. 183204; A.E. Hanson, A long-lived “quick-birther” (okytokion), in V. Dasen (a cura di), Naissance et petite enfance dans l’Antiquité. Actes du colloque de Fribourg, 28 novembre-1er décembre 2001, Academic Press-Vandenhoeck & Ruprecht, Fribourg-Göttingen 2004, pp. 265-280; M. Lentano, La prova del sangue. Storie di identità e storie di legittimità nella cultura latina, il Mulino, Bologna 2007; V. Boudon-Millot, La naissance de la vie dans la théorie médicale et philosophique de Galien, in L. Brisson - M.-H. Congourdeau J.-L. Solère (a cura di), L’embryon: formation et animation. Antiquité grecque et latine, traditions hébraïque, chrétienne et islamique, Vrin, Paris 2008, pp. 79-94 (ma tutta la raccolta offre contributi importanti alla questione dell’animazione dell’embrione); V. Dasen, ‘All Children Are Dwarfs’. Medical Discourse and Iconography of Children’s Bodies, in «Oxford Journal of Archaeology», vol. 27, n. 1, 2008, pp. 4962; F. Giorgianni, Alle origini dell’embriologia,
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intr. a Ippocrate, La natura del bambino, Sellerio, Palermo 2012, pp. 7-117; V. Dasen, Corps d’enfants: de l’anatomie à l’anthropologie du corps, in H. Perdicoyianni-Paléologou (a cura di), Anatomy and Surgery. From Antiquity to the Renaissance, Hakkert, Amsterdam 2016, pp. 205-235; V. Dasen, Modèles anatomiques tératologiques et cabinets de curiosité antiques, in «Pallas», n. 106, 2018, pp. 175-196. Nel capitolo sono citati Sofocle, Trachinie, 31-33, e Sorano, Malattie delle donne, 1, 12, ll. 125-136 Burguière-Gourevitch-Malinas = 1, 10, 40 Ilberg (ingravidamento e semina); Censorino, Il giorno natalizio, 5, 2 (origine del seme); Eschilo, Eumenidi, 658-661 (il padre unico genitore); Diogene di Apollonia, 64 A 27; Ippone, 38 A 13; Democrito, 68 A 142; Ippocrate, Natura del bambino, 6, 1 (dottrina della prevalenza); Parmenide, 28 A 54, ed Empedocle, 31 A 81 e B 65 (sesso del nascituro); Aristotele, La generazione degli animali, 766b 7-16 (teoria della generazione); Anassagora, 59 B 21a (il visibile come specchio dell’invisibile); Sorano, Malattie delle donne, 1, 14, ll. 11-22 Burguière- Gourevitch-Malinas = 1, 12, 43 Ilberg; 1, 19 Burguière-Gourevitch-Malinas = 1, 17, 57-58 Ilberg (dal seme all’embrione; gli annessi feta-
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li); Galeno, L’anatomia dell’utero, 10, in CMG V 2, 1, p. 50, ll. 12-23 Nickel (la membrana allantoide); Ippocrate, Natura del bambino, 1219 (fecondazione e sviluppo dell’embrione); Pseudo-Plutarco, Le opinioni dei filosofi, 907 C (animazione del nascituro); Aristotele, Generazione degli animali, 740a 27 (il prodotto del concepimento è un essere vivente in potenza); Galeno, Il seme, 1, 9, IV, pp. 542-543 Kühn (da “seme” a “bambino”); Ippocrate, Alimento, 42; Pseudo-Galeno, Commento a Ippocrate. Alimento, 4, 20, XV, pp. 407-408 Kühn; La formazione del feto, 1, CMG V 3, 3, p. 54, ll. 16-18 Nickel (tempi della formazione del feto – forma, movimento, gestazione – e loro rapporto); Galeno, La formazione del feto, 3, CMG V 3, 3, p. 74, l. 11-76, l. 20 Nickel (evoluzione del prodotto del concepimento, dallo stato vegetale alla formazione del cervello); Ippocrate, Natura del bambino, 31, 1; Regime, 1, 30, 1 Joly; PseudoPlutarco, L’educazione dei figli, 3 D (concepimento e allattamento dei gemelli); Empedocle, 31 A 81; Aristotele, Generazione degli animali, 769b 13-15; 770a 1-36; 772a 36-37; 775a 23- 28; Ricerche sugli animali, 585a 1-3; Plinio il Vecchio, Storia naturale, 7, 37 (gemellarità e teratosi, tr. di G. Ranucci); Parmenide, 28 A 54 e B
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18 (tr. di G. Reale); Celio Aureliano, Malattie croniche, 4, 11, 135 (nature “anomale” e omosessualità); Sorano, Malattie delle donne, 2, 5 Burguière-Gourevitch-Malinas = 2, 6, 10 Ilberg (come riconoscere il neonato che vale la pena allevare); Plutarco, Questioni romane, 288 C (somiglianza con una pianta del neonato); Aristotele, Generazione degli animali, 779a-778b; 779b 10-12 (occhi chiari segno di debolezza e assimilazione dei neonati ai vecchi); 784a 4-5 (neonati e donne); 779a 24 (incompiutezza del neonato, superiore a quella degli altri esseri viventi); Pseudo-Aristotele, Sui colori, 797b 24-30 (tratti fisici del neonato); Platone, Leggi, 808d (sua ingestibilità); Platone, Leggi, 646a e 664e; Repubblica, 431c (cfr. 441a); Leggi, 653a (somiglianza tra i vecchi e i bambini e tra le donne e i bambini); Aristotele, Parti degli animali, 686b 6-9; 11; 653a 35 (i neonati sono nani); Generazione degli animali, 778b 28; 779a 19-20 (sonno dei neonati); Ippocrate, Regime, 19, 1 Joly (cura del bambino e conceria); Sorano, Malattie delle donne, 2, 6-6a, ll. 35-94 Burguière-GourevitchMalinas = 2, 8, 12-13 Ilberg (prime attenzioni al corpo del neonato, bagni e frizioni); Virgilio, Eneide, 9, 603-604 (immersione in acqua fredda del neonato); Antologia Palatina, 9, 125 (bagno
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freddo come prova di legittimità); Sorano, Malattie delle donne, 2, 6a, ll. 95-178; 2, 12, ll. 42134 Burguière-Gourevitch-Malinas = 2, 9, 14; 2, 10, 16; 2, 16, 32-35 Ilberg; Platone, Leggi, 789e (fasciatura e altre pratiche modellanti). 2. La scoperta del corpo Sui temi affrontati in questo capitolo cfr. R. Joly, Recherches sur le traité pseudo-hippocratique Du régime, Les Belles Lettres, Paris 1960; F. Solmsen, Greek Philosophy and the Discovery of the Nerves, in «Museum Helveticum», vol. 18, n. 4, 1961, pp. 169-197; B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, tr. it. di V. Degli Alberti e A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1963, pp. 19-47; R. Joly, Le niveau de la science hippocratique. Contribution à la psychologie de l’histoire des sciences, Les Belles Lettres, Paris 1966; G.E.R. Lloyd, Polarity and Analogy. Two Types of Argumentation in Early Greek Thought, Cambridge University Press, Cambridge 1966; V. Di Benedetto, Intorno al linguaggio amoroso di Saffo, in «Hermes», n. 113, 1985, pp. 145156 (ora in Id., Il richiamo del testo. Contributi di filologia e letteratura, 4 voll., ETS, Pisa 2007, vol. II, pp. 839-851); I. Garofalo (a cura
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di), Erasistrati Fragmenta, Giardini, Pisa 1988; H. Von Staden (a cura di), Herophilus. The Art of Medicine in Early Alexandria, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1989; I. Garofalo (a cura di), Galeno. I procedimenti anatomici, 3 voll., Rizzoli, Milano 1991; J. Jouanna, Hippocrate, Fayard, Paris 1992; Id., La nascita dell’arte medica occidentale, M. Vegetti, Tra il sapere e la pratica: la medicina ellenistica, e D. Gourevitch, Le vie della conoscenza: la medicina nel mondo romano, tutti e tre in M. Grmek (a cura di), Storia del pensiero medico occidentale, vol. I, Antichità e Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1993, risp. pp. 3-72; 73-120; 121-165; M. Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari, donne alle origini della razionalità scientifica, il Saggiatore, Milano 19962; S. Grandolini, Saffo in Plutarco, in Ead. (a cura di), Lirica e teatro in Grecia. Il Testo e la sua ricezione. Atti del II Incontro di Studi, Perugia, 23-24 gennaio 2003, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2005, pp. 7-20; A. Roselli, Suntonos phrontis e malattia d’amore nei testi medici greci da Galeno agli Ephodia, in Ph. Heuzé Y. Hersant - É. Van der Scheuren (a cura di), Une traversée des savoirs. Mélanges offerts à Jackie Pigeaud, Presses de l’Université Laval,
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Québec 2008, pp. 391-404; M. Vegetti, Aristotele 6. Biologia, zoologia, anatomo-fisiologia, in P. Radici Colace (dir.), Dizionario delle scienze e delle tecniche di Grecia e Roma, vol. I, Serra, Pisa-Roma 2010, pp. 190-192; A. Roselli, Come dire il dolore. Galeno e il linguaggio dei medici e dei malati, in «Antiquorum Philosophia», n. 9, 2015, pp. 55-68; V. Boudon-Millot, Galeno di Pergamo. Un medico greco a Roma, tr. it. di M.L. Garofalo, Carocci, Roma 2016; A.M. Urso, Principi e mal d’amore. L’exemplum di Antioco Soter nella letteratura medica antica, in «Vichiana», LVII, n. 2, 2020, pp. 39-51; C. Savino, La principessa, il sacerdote e il medico. Note sulla rappresentazione del mal d’amore nelle Etiopiche di Eliodoro (3.7-11, 4.6-7), in «Prometheus», n. 48, 2022, pp. 236-252; A.M. Urso, La strategia del paragone. Forme e fini della comparazione nei trattati di Celio Aureliano, in N. Palmieri (a cura di), Images et analogies dans les textes médicaux latins. Antiquité et Moyen Âge, Publications de l’Université de Saint-Étienne, Saint-Étienne 2023, pp. 129-144. Nel capitolo sono citati Esiodo, Le opere e i giorni, 102-104 (malattie che si aggirano nel mondo prive di voce); Ippocrate, Regime, 1, 10, 1 Joly (teoria micro-macrocosmica); 1, 3, 1, e
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4, 1 Joly (cosmologia a due elementi); Carni, 2 (cosmologia a tre elementi); Natura dell’uomo, 2 (critica della medicina filosofica); Luoghi dell’uomo, 1, e Sulle ghiandole, 11 (umori che si fissano in sette punti del corpo); Affezioni, 1, e Malattie, 1, 2 (bile e flegma); 4, 32 (sangue, flegma, bile e acqua); Natura dell’uomo, 4 e 7 (sangue, flegma, bile gialla e bile nera e loro prevalenza secondo le stagioni); Antica medicina, 22, 1-6 Jouanna (forma degli organi); 11, 1 Jouanna; Aristotele, Meteorologia, 381b 6-8 (la digestione come cottura o fermentazione); Ippocrate, Malattie, 4, 51 (separazione del burro); Aristotele, Le parti degli animali, 640b 35 ss. (differenza tra corpo vivo e cadavere); Ippocrate, Epidemie VI, 8, 17 (uso dei cinque sensi e dell’intelligenza per la diagnosi); 8, 8 (sudore e lacrime, tr. di D. Manetti); 1, 14 (insorgere delle febbri, tr. di A. Roselli); Prognostico, 2, 2-3 Jouanna (facies Hippocratica); Malattie, 2, 2, 59 [48], 1 (polmone che stride come cuoio); 61 [50], 1 (aceto che fermenta); Celio Aureliano, Malattie acute, 2, 2, 10 (stiracchiamento); 2, 15, 95 (sopracciglia dei pleuritici); Malattie croniche, 1, 4, 62 (disturbi del campo visivo); Malattie acute, 3, 20, 194 (colore del vomito legato al colera); 3, 20, 195 (lavatura di carne);
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1, 6 (diagnosi differenziale tra i letargici e i frenitici addormentati); Celso, Medicina, Proemio, 23 (tr. di M. Vegetti); Tertulliano, L’anima, 10, 4, e Agostino, La città di Dio, 22, 24 (vivisezione e critica relativa); Galeno, Procedimenti anatomici, 6, 1, p. 544 Garofalo (zanzare e formiche); 7, 10, p. 664 Garofalo (il cuore dell’elefante); 4, 1, p. 380 Garofalo; 6, 1, pp. 538-542 Garofalo; Utilità delle parti, 1, 22, III, p. 80 Kühn (la scimmia imitazione dell’uomo); Procedimenti anatomici, 1, 2, pp. 84-86 Garofalo (importanza di Alessandria per l’osteologia); Composizione dei medicamenti per generi, 3, 2, XIII, p. 604 Kühn (contro i medici che non hanno sezionato i cadaveri dei nemici); la citazione di Vegetti relativa all’osservabilità teorica delle strutture anatomiche erasistratee è tratta da Tra il sapere e la pratica: la medicina ellenistica, cit., p. 102; Valerio Massimo, Fatti e detti memorabili, 5, 7, ext. 1; Plinio il Vecchio, Storia naturale, 7, 123; Plutarco, Vita di Demetrio, 38, 2-4 (tr. di C. Carena); Galeno, Sulla prognosi, 6, CMG V 8, 1, pp. 100-104 Nutton (Antioco e Stratonice); Eliodoro, Etiopiche, 3, 7-11 e 4, 6-7, e Omero, Iliade, 16, 21 (Cariclea innamorata); Paolo Egineta, Trattato, 3, 17, 1, CMG IX 1, p. 160, ll. 10-12 Hude (tr. di A. Roselli); Oribasio, Sinossi
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ad Eustazio, 8, 8, 3, CMG VI 3, p. 250, ll. 5-9 Räder (gli occhi degli innamorati); Galeno, Sulla prognosi, 6, 16, CMG V 8, 1, p. 104, ll. 20-23 Nutton (non esiste il polso erotico); Saffo, fr. 31 Neri (sintomatologia della passione amorosa, tr. di C. Neri). 3. Il corpo “altro” Sui temi affrontati nel capitolo cfr. I. Veith, Hysteria. The History of a Disease, University of Chicago Press, Chicago 1965; G.E.R. Lloyd, Scienza, folclore, ideologia. Le scienze della vita nella Grecia antica, tr. it. di A. Fiore e B. Fiore, con la collab. di R. Chiecchio, Boringhieri, Torino 1987 (ed. or. 1983); S. Campese - P. Manuli - G. Sissa, Madre materia. Sociologia e biologia della donna greca, Boringhieri, Torino 1983; G. Sissa, Filosofie del genere: Platone, Aristotele e la differenza dei sessi, in G. Duby - M. Perrot (a cura di), Storia delle donne, vol. I, L’Antichità, tr. it., a cura di P. Schmitt Pantel, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 58-100; L.A. Dean-Jones, Women’s Bodies in Classical Greek Science, Clarendon Press, Oxford 1994; H. King, Hippocrates’ Woman. Reading the Female Body in Ancient Greece, Routledge, London-New
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York 1998; L. Bodiou, De l’utilité du ventre des femmes. Lectures médicales du corps féminin, in F. Prost - J. Wilgaux (a cura di), Penser et représenter le corps dans l’Antiquité. Acte du colloque international de Rennes, 1-4 septembre 2004, Presses universitaires de Rennes, Rennes 2006, pp. 153-166; J. Bonnard, Male and Female Bodies According to Ancient Greek Physicians, in «Clio. Women, Gender, History», n. 37, 2013, pp. 19-37; G. Sissa, L’errore di Aristotele. Donne potenti, donne possibili, dai Greci a noi, Carocci, Roma 2023 (ed. or. 2021); A. Tatarkiewicz, The ‘cursus laborum’ of Roman Women. Social and Medical Aspects of the Transition from Puberty to Motherhood, Bloomsbury Academic, London-New York 2023. Nel capitolo sono citati Platone, Timeo, 90e92b (donna come mutazione degenerativa del l’uomo); Esiodo, Le opere e i giorni, 42-107 (mito della prima donna; la citazione viene dal v. 71); Semonide, fr. 7 West2 (donne assimilate agli animali); le opinioni di Arthur Schopenhauer sulle donne sono raccolte in L’arte di trattare le donne, tr. it., a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2000; le altre citazioni moderne sulla naturale inferiorità della donna sono tratte da G. Sissa, L’errore di Aristotele, cit., pp. 212-213, com-
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prese quelle di J.-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione; Aristotele, Politica, 1254b (naturale superiorità maschile); Senofonte, Economico, 7, 22-31 (compiti della donna); Seneca, La costanza del saggio, 1, 1 (la donna «senza senno») e 14, 1 (nata per obbedire); Isidoro, Etimologie, 11, 2, 17-18 (vir e mulier, tr. di A. Valastro Canale); Euripide, Medea, 573-575, e Ippolito, 616-648 (sogno di un parto senza donne, tr. di G. Paduano); Ippocrate, Aforismi, 5, 38; Aezio Amideno, Libri di medicina, 16, 9 (tr. di R. Romano); Ippocrate, Malattie delle donne I, 1, VIII, pp. 12-14 Littré; Malattie delle vergini, 1, VIII, pp. 466-470 Littré (il corpo femminile nella ginecologia ippocratica); Malattie delle donne I, 73, VIII, pp. 152-154 Littré (origine del latte); Platone, Timeo, 91c; Ippocrate, I luoghi dell’uomo, 47, VI, p. 344 Littré; Natura della donna, 6, 1; 14, 1; 3, 1 Bourbon; Plinio, Storia naturale, 7, 175 (utero vagante); Aristotele, Parti degli animali 653a 27-b 3; Ricerche sugli animali, 501b 19; 538b 15-23 (tr. di M. Vegetti, come anche più avanti per le altre opere biologiche di Aristotele), 584a 27-30; 493b 2-6; 493a 12; La generazione degli animali, 775a 10-22; 737a 27-30; 728a 1520; 767b 5-13 (inferiorità della donna); Erofilo, Contro le opinioni comuni, T 203, p. 373 von
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Staden, e Sorano, Malattie delle donne, 1, 8 Burguière-Gourevitch-Malinas = 1, 6, 27-29 Ilberg (mestruazioni); Sorano, Malattie delle donne, 3, 5, ll. 144-147 Burguière-Gourevitch-Malinas = 3, 29, 5 Ilberg (contro la teoria dell’utero vagante); Galeno, L’utilità delle parti, 14, 6, IV, pp. 161-162 Kühn (donne e talpe; cfr. anche Il seme, 2, 5, IV, p. 640 Kühn) e 11, 14, III, pp. 899-900 Kühn (barba e decoro, tr. di I. Garofalo per entrambi i passi dell’opera citati); Plinio il Vecchio, Storia naturale, 7, 63-67 (effetti del sangue mestruale, tr. di G. Ranucci); Cassio Felice, La medicina, 42, 6 Fraisse (utero vagante); l’esorcismo dell’utero, originariamente in latino, è ricavato da M. Green (a cura di), Trotula. Un compendio medievale di medicina delle donne, tr. it. di V. Brancone, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze 2009, p. 52 (con altri esempi). 4. Il corpo degli eroi e degli dèi Sui temi trattati nel capitolo cfr. J. van der Vliet, Aeneas nusquam comparuit, in «Mnemo syne», n. 22, 1894, pp. 277-285; A. Brelich, Gli eroi greci. Un problema storico-religioso, Adelphi, Milano 2010 (1a ed. 1958); Ch. Malamoud - J.-P. Vernant (a cura di), Corps des dieux,
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Gallimard, Paris 1986; J.-P. Vernant, Mortali e immortali: il corpo divino, in Id., L’individuo, la morte, l’amore, tr. it., a cura di G. Guidorizzi, Cortina, Milano 2000 (ed. or. 1989), pp. 1-33 (citazioni dalle pp. 7, 10, 25); A. Giardino, L’insostenibile bellezza degli dèi. Visibilità e invisibilità divina nei poemi omerici, in V. Neri (a cura di), Il corpo e lo sguardo. Tredici studi sulla visualità e la bellezza del corpo nella cultura antica, Pàtron, Bologna 2005, pp. 27-39; M. Fumagalli Beonio Brocchieri - G. Guidorizzi, Corpi gloriosi. Eroi greci e santi cristiani, Laterza, Roma-Bari 2012; G. Pironti, Des dieux et des déesses: le genre et la représentation du divin en Grèce ancienne, in S. Boehringer - V. Sebillotte Cuchet (a cura di), Des femmes en action. L’individu et la fonction en Grèce antique, Éditions Ehess-Daedalus, Paris-Athènes 2013, pp. 155167; G. Pironti, I corpi degli dèi: antropomorfismo, epifanie e metamorfosi, in U. Eco (a cura di), Grecia. Mito e religione, Encyclomedia, Milano 2011, pp. 104-119; M. Bettini, Visibilità, invisibilità e identità degli dèi, e A. GrandClément, Colori e sensi: percepire la presenza divina, in G. Pironti - C. Bonnet (a cura di), Gli dèi di Omero. Politeismo e poesia nella Grecia antica, Carocci, Roma 2016, risp. pp. 29-57 e
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59-84 (la citazione nel testo a p. 63); S. Foresta, La fortuna dell’Ercole Farnese. Osservazioni sulla ricezione, diffusione e trasformazione dell’immagine antica nel mondo moderno e contemporaneo, in «ClassicoContemporaneo», n. 2, 2016, risorsa online. Nel testo abbiamo citato Esiodo, Opere e giorni, 109-173 (mito delle età); Omero, Iliade, 12, 23 (gli eroi come semidei); Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, 3, 135 (Ida e Linceo); Eforo, fr. 13 Jacoby, e Pausania, Guida della Grecia, 9, 27, 7 (Tespiadi); Antologia Palatina, 16, 92 (tredicesima fatica di Eracle); Pausania, Guida della Grecia, 5, 5, 4 (Lepreo); Omero, Iliade, 3, 166-168; 2, 44; 5, 81; 5, 286; 5, 303-304; Virgilio, Eneide, 12, 899-900 (corpo degli eroi; la traduzione dei passi iliadici, da qui in poi, è di G. Cerri); Ferecide, fr. 69 Jacoby (i serpenti di Eracle); Plutarco, Romolo, 28, 5-6, e Pausania, Guida della Grecia, 6, 9, 6-8 (Cleomede di Astipalea); Pindaro, Istmiche, 4, 53; Erodoto, Storie, 4, 82 e 2, 91, 3 (piedi di 2 cubiti di Eracle e di Perseo); Flegonte di Tralles, Il libro delle meraviglie, 11; Filostrato, Eroico, 8; Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, 1, 7, 4 (gli Aloàdi); Virgilio, Georgiche, 1, 493-497 (gigantismo degli eroi); Ovidio, Metamorfosi, 4, 347-379 (Ermafrodito); Igino, Miti, 75 (tra le nu-
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merose fonti su Tiresia); Diodoro Siculo, Biblioteca storica, 5, 79, 4; Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, 3, 3, 1; Plutarco, Il tramonto degli oracoli, 417 E (Molo); Pausania, Guida della Grecia, 9, 20, 4 (Tritone); Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, 2, 7, 2 (gli Attorioni Molioni); Erodoto, Storie, 4, 155, e Pindaro, Pitiche, 4, 59-63 (Batto); Omero, Iliade, 2, 211-219 (Tersite); Igino, Miti, 107, e Stazio, Achilleide, 1, 264-271 (Achille e il suo tallone); Canti ciprii, argomento, pp. 40-41 e frr. 20 e 22 Bernabé; Euripide, Telefo, fr. 725 Nauck; Pseudo-Apollodoro, Epitome, 3, 17 e 20; Plinio il Vecchio, Storia naturale, 25, 42 (Telefo e la sua guarigione); Pseudo-Apollodoro, Biblioteca, 1, 9, 12; scolio ad Apollonio Rodio, Argonautiche, 1, 121; scolio a Teocrito, Idilli, 3, 43 (Melampo); Igino, Miti, 94 (Anchise); Omero, Iliade, 6, 130-140; Igino, Miti, 132; Servio, Commento a Virgilio, Eneide, 3, 14 (Licurgo); Livio, Storia di Roma, 1, 56 (Bruto e l’oracolo delfico); Inno omerico a Demetra, 233-280 (Demetra e Demofonte); Ovidio, Metamorfosi, 14, 581-608 e 805-828 (apoteosi di Enea e Romolo); Origine del popolo romano, 14, 2-4 (fine di Enea, tr. di M. Lentano); Livio, Storia di Roma, 1, 16 (fine di Romolo e sua apparizione a Giulio Proculo); Platone, Cratilo, 400c (corpo = tomba); Omero,
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Odissea, 11, 49; 476; 206-208; 218-222; 489-491 (corpi dei morti, tr. di G.A. Privitera); Sofocle, Edipo a Colono, 389-392; 576-578 (corpo di Edipo); Pausania, Guida della Grecia, 4, 32, 3-4, e Dione Crisostomo, Orazioni, 35, 3 (Aristomene); Filostrato, Eroico, 9, 1-17, 6 (apparizioni di Protesilao); Servio, Commento a Virgilio, Eneide, 2, 241 (tomba di Laomedonte); 3, 402 (Filottete segnala con l’orma del piede il luogo in cui è morto Eracle); Pausania, Guida della Grecia, 3, 5-7 (ossa di Oreste e di Teseo); Senofane, frr. 21 B 11, 14, 16, 15 (critica dell’antropomorfismo, tr. di I. Ramelli e G. Reale); Arnobio, Contro i pagani, 3, 10, 5 (parto delle dee); Callimaco, Inno ad Apollo, 36-37 (perenne giovinezza del dio, tr. di G.B. D’Alessio); Omero, Iliade, 5, 334-417 (Afrodite ferita da Diomede); 5, 339-342 (dieta e icore degli dèi); Inno omerico ad Apollo, 123-138 (infanzia del dio); Inno omerico a Hermes, 1718 (infanzia del dio); Pindaro, fr. 222, 1 Maehler (l’oro figlio di Zeus); Inno omerico a Demetra, 275-283 (riconoscimento di Demetra e reazione di Metanira, tr. di F. Càssola); Inno omerico ad Afrodite, 172-183 (rivelazione di Afrodite e reazione di Anchise, tr. di F. Càssola); Omero, Iliade, 20, 131 (dèi terribili in piena luce); 3, 383-398 (Afrodite riconosciuta da Elena); Vir-
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gilio, Eneide, 1, 402-405 (Venere riconosciuta da Enea); Omero, Iliade, 13, 70-72 (Poseidone riconosciuto dai due Aiaci); Omero, Odissea, 13, 312-313 (dialogo tra Odisseo e Atena). 5. Forme e riti della bellezza Sui temi trattati in questo capitolo cfr. S. Lilja, The Treatment of Odours in the Poetry of Antiquity, Societas Scientiarum Fennica, Helsinki-Helsingfors 1972; D. Gerber, The Female Breast in Greek Erotic Literature, in «Arethusa», vol. 11, n. 1-2, 1978, pp. 203-212; N. Worman, The Body as Argument: Helen in Four Greek Texts, in «Classical Antiquity», vol. 16, n. 1, 1997, pp. 151-203; B. Lavagnini, Storie troiane in greco volgare, in F. Montanari - S. Pittaluga (a cura di), Posthomerica I. Tradizioni omeriche dall’antichità al Rinascimento, Dipartimento di Archeologia, Filologia classica e loro tradizioni, Genova 1997, pp. 49-62; A. Dubourdieu - E. Lemirre, Le maquillage à Rome, in Ph. Moreau (a cura di), Corps romains, Millon, Grenoble 2002, pp. 89-114; V. Neri, La bellezza del corpo nella società tardoantica. Rappresentazioni visive e valutazioni estetiche tra cultura classica e cristianesimo, Pàtron, Bologna 2004;
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Ph. Mudry, La peau dans tous ses états. Fards et peinture à Rome, in «Micrologus», n. 13, 2005, pp. 75-89 (rist. in Id., Medicina soror philosophiae. Regards sur la littérature et les textes médicaux antiques (1975-2005), a cura di B. Maire, BHMS, Lausanne 2006, pp. 19-29); S. Nannini, La bellezza del corpo nel lessico della poesia greca arcaica, G. Pucci, Costruire il bello: ancora sul canone di Policleto, e M. Bettini, Venus venusta. Il corpo femminile fra piacere, filtri amorosi e voglia di perdonare, tutti e tre in V. Neri (a cura di), Il corpo e lo sguardo. Tredici studi sulla visualità e la bellezza del corpo nella cultura antica, Pàtron, Bologna 2005, risp. pp. 15-25, 4152 e 107-116 (a tali contributi si è attinto per la stesura del capitolo, ma anche gli altri saggi contenuti nel volume presentano motivi di interesse per il tema); P. Brulé, Promenade en pays pileux hellénique: de la physiologie à la physiognomonie, in V. Dasen - J. Wilgaux (a cura di), Langages et métaphores du corps dans le monde antique, Presses universitaires de Rennes, Rennes 2006, pp. 133-151; V. Boudon-Millot, Le médecin et la courtisane: la Phrynè de Galien, in V. Boudon-Millot - V. Dasen - B. Maire (a cura di), Femmes en médecine. En l’honneur de Danielle Gourevitch, De Boccard, Paris 2008,
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pp. 13-27; F. Gherchanoc, La beauté dévoilée de Phryné. De l’art d’exhiber ses seins, in «Mètis», n. 10, 2012, pp. 201-225; S. Castellaneta, Il seno svelato ad misercordiam. Esegesi e fortuna di un’immagine omerica, Cacucci, Bari 2013; F. Gherchanoc, Concours de beauté et beautés du corps en Grèce ancienne. Discours et pratiques, Ausonius, Bordeaux 2016; Ead., La carnation naturelle et «jaunâtre» de Phrynè. Du bon teint en Grèce ancienne, in V. Boudon- Millot - M. Pardon-Labonnelie (a cura di), Le teint de Phrynè. Thérapeutique et cosmétique dans l’Antiquité, De Boccard, Paris 2018, pp. 181-196; F. Gherchanoc, Beauté, in L. Bodiou V. Mehl (dir.), Dictionnaire du corps, cit., pp. 89-91; F. Gherchanoc, Composer, dire et représenter le corps de la plus belle des femmes. Hélène et quelques autres: de la fragmentation à l’unité d’un corps parfait en Grèce et à Rome, in F. Gherchanoc - S. Wyler (a cura di), Corps en morceaux. Démembrer et recomposer les corps dans l’Antiquité classique, Presses universitaires de Rennes, Rennes 2020, pp. 117-132; Dione Crisostomo, Melankomas. Sulla bellezza dell’atleta, a cura di H.L. Reid, P. Madella, M. Mauri, E. Isidori, Sette città, Viterbo 2022; G. Rosati, Ovidio e il teatro del piacere. Il corpo, lo sguar-
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do, il desiderio, Carocci, Roma 2022; un inquadramento antropologico in F. Remotti, Prima lezione di antropologia, Laterza, Roma-Bari 2000, dalla cui p. 113 abbiamo tratto l’espressione «fare umanità». Nel testo abbiamo citato Plinio il Vecchio, Storia naturale, 36, 20-21 (tr. di R. Mugellesi); Antipatro di Sidone, in Antologia Palatina, 16, 167, 2; Pseudo-Luciano, Gli amori, 15-16 (Afrodite di Cnido); Ateneo, I sofisti a banchetto, 13, 590d-591f (Frine, tr. di M.L. Gambato, liev. mod.); Plinio il Vecchio, Storia naturale, 35, 87 (Pancaspe); Strabone, Geografia, 14, 2, 19, e Plinio il Vecchio, Storia naturale, 35, 91 (statua trasportata a Roma da Augusto); Pseudo-Plutarco, Vita di Iperide, 849 E (processo a Frine); Rufino, in Antologia Palatina, 5, 94 (epigramma sulle grazie della propria donna, ispirato a Omero, Iliade, 3, 396-397); Apollonio Rodio, Argonautiche, 1, 742-746, e Colluto, Il ratto di Elena, 155-158 (seno di Afrodite); Eschilo, Agamennone, 741-743; Omero, Iliade, 3, 155-156 e 158; Euripide, Andromaca, 627631 e lo scolio relativo (630 Schwartz = PMGF 296; cfr. anche Lesche, Piccola Iliade, fr. 19 Bernabè) (Elena scopre il seno); J.W. Goethe, Faust, 6559 (bellezza di Elena); Darete Frigio,
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Storia della distruzione di Troia, 12, e Giovanni Malala, Cronografia, 5, 91 (tr. di S. Nannini; descrizione di Elena); Omero, Iliade, 3, 121; 3, 141; 3, 228; 3, 328; 3, 385; 7, 355; 8, 82; 9, 339; 11, 369; 11, 505; 13, 766; Odissea, 15, 123; Euripide, Elena, 1124; Troiane, 772; Ecuba, 442; Eschilo, Agamennone, 742; Luciano, Giudizio delle dee, 20, 10; Omero, Iliade, 19, 325 (bellezza di Elena); Orazio, Satire, 1, 2, 80-85 e 94-103 (visibilità del corpo femminile); Ovidio, Amori, 1, 5, 9-25 (descrizione di Corinna); Omero, Odissea, 7, 255, e 10, 136 (capelli di Calipso e Circe); di Archiloco abbiamo citato il fr. 31 West, di Alcmane il fr. 1 Davies, di Catullo il carme 13, di un anonimo autore pompeiano CIL IV, 1520 (= CLE 354 = 96 Courtney); Cicerone, La natura degli dèi, 1, 75, e Ovidio, Amori, 3, 3, 5-6 (incarnato femminile); Omero, Odissea, 6, 101, 102-109, 162-163 (Nausicaa); Aristotele, Etica a Nicomaco, 1123b 7 ss.; Omero, Odissea, 6, 230-231, e 23, 56 (bellezza e altezza); Saffo, fr. 16 Neri; Catullo, Il libro, 68, 70-72; Euripide, Medea, 1164 (andatura); Properzio, Elegie, 1, 1, 1 (occhi); Esiodo, Catalogo delle donne, frr. 73 e 21, 94 Merkelbach-West (Atalanta); Alcmane, fr. 3 Davies (Astimelusa); Catullo, Il libro, 41 e 43 (Ameana); Orazio, Satire, 1, 2, 93 (naso);
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Plauto, Il soldato spaccone, 647-648 (bocca); Varrone, Satire menippee, 376-377 Bücheler (sia di Plauto sia di Varrone la tr. è di M. Bettini); Antologia Palatina 5, 67; Omero, Odissea, 6, 223-235 (Atena versa grazia su Odisseo); Catullo, Il libro, 86 e Plutarco, Sull’amore, 751 D (bellezza e bruttezza); Platone, Ippia Maggiore, 287e; Saffo, fr. 50 Neri; Platone, Carmide, 154d; Dione Crisostomo, Orazioni, 28, 6; 29, 4-6 e 17 (bellezza e atletica); l’asserzione che «pour les garçons, la vrai beauté est nue et totale», qui data in traduzione, è di F. Gerchanoc, in Beauté, cit., p. 90; Galeno, A Trasibulo, 15, V, pp. 832833 Kühn (salute e bellezza); Protrettico, 105 Boudon (I, p. 26 Kühn) (gara di bellezza idea ta da Frine); Plutarco, Gli oracoli della Pizia, 401 A (colorito di Frine); Omero, Odissea, 18, 169-184 e 186-196 (parure di Penelope); Meleagro in Antologia Palatina, 12, 95, 1-2 (Peithò myrópnous); Iliade, 14, 170-186 e 216-217; Inno omerico ad Afrodite, 61-63 e 86-90 (toletta di Era e di Afrodite, tr. di G. Zanetto); Aristofane, Le donne all’assemblea, 732 (canefore); Livio, Storia di Roma, 34, 7 (abrogazione della legge Oppia); Epitteto, Diatribe, 1, 16, 14 (tr. di G. Sissa); Seneca, Lettere a Lucilio, 47, 7; Polibio, Storie, 8, 3, 9; Seneca, Ricerche sulla natura, 7,
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32, 1; Stratone di Sardi, Antologia Palatina, 12, 195 (tr. di F.M. Pontani); Svetonio, Cesare, 45; Otone, 12, 1; Ovidio, L’arte di amare, 3, 193 (depilazione); I cosmetici delle donne, 23-26 (gusto per la cosmetica diffuso anche tra gli uomini); Galeno, Sulla composizione dei medicamenti secondo il luogo di applicazione, 1, 2; 3, XII, pp. 434-435 e 440 Kühn (cosmetica vs commotica); Saffo, fr. 98 Neri (tr. di F. Ferrari); Ovidio, Metamorfosi, 13, 765-766; Semonide, fr. 7 West2, 57-70 (tr. di C. Neri); Apollonio Rodio, Argonautiche, 3, 45-47 (tr. di G. Paduano); Properzio, Elegie, 1, 2, 1-8 (tr. di L. Canali, liev. mod.); Ovidio, L’arte di amare, 3, 134-154 e 209-223 (tr. di E. Pianezzola); Giovenale, Satire, 6, 502503; Tertulliano, L’eleganza delle donne, 2, 7, 4 (capelli e acconciature, tr. di M. Toninato); Celio Aureliano, Malattie croniche, 1, 1, 1, e 2, 1, 36 (cefalea e acconciature).
Indice
Corpi culturali e culture del corpo Premessa di Mario Lentano I. Il corpo prima del corpo 1. In principio era il seme 2. Crescere nell’utero: da seme a feto 3. Venire al mondo II. La scoperta del corpo 1. Concepire il corpo 2. Interpretare i segni 3. Aprire la scatola nera 4. Il corpo innamorato III. Il corpo “altro” 1. «Why can’t a woman be more like a man?» 2. Un corpo in precario equilibrio
p. 9 p. 17 p. 26 p. 39 p. 47 p. 61 p. 70 p. 87
p. 101 p. 111
3. Figlie di un dio minore 4. Simmetrie e opposizioni IV. Il corpo degli eroi e degli dèi 1. Una fisicità fuori misura 2. Di strani ritrovamenti e dimensioni smisurate 3. Le stimmate e il mostruoso 4. Morire da eroi 5. Tra fulgore e metamorfosi V. Forme e riti della bellezza 1. Belle fra le belle: Afrodite e le sue ipostasi 2. Sulle tracce della bellezza 3. La bellezza è un atleta 4. “Fare” bellezza 4.1. Cosmetica vs commotica 4.2. L’eleganza del ricciolo Fonti e percorsi
p. 122 p. 127 p. 137 p. 149 p. 155 p. 163 p. 174
p. 187 p. 195 p. 209 p. 215 p. 222 p. 230 p. 239
Le parole degli antichi Collana diretta da Mario Lentano
1. Mario Lentano, Straniero. 2. Tommaso Braccini, Folklore. 3. Stefano Ferrucci, Democrazia. 4. Michele Napolitano, Utopia. 5. Anna Maria Urso, Corpo.
Anna Maria Urso insegna Filologia classica all’Università di Messina. Si occupa di drammaturgia, storia della medicina antica, ricezione del classico. Tra le sue pubblicazioni, Dall’autore al traduttore. Studi sulle Passiones celeres e tardae di Celio Aureliano (Messina 1997) e Liber geneciae ad Soteris obsetrix. Introduzione, edizione critica, traduzione e commento (Santiago de Compostela 2018).
Le parole degli antichi | 5 Collana diretta da Mario Lentano
Che lo si immagini plasmato dagli dèi attraverso una mescolanza di acqua e terra o cresciuto lentamente nel ventre di una donna a partire dal sangue dei suoi genitori, il corpo è onnipresente nella riflessione delle culture antiche: dalla fisicità ideale degli dèi e degli eroi, che prende forma nelle splendide sculture dell’arte greca, alla fragile concretezza degli uomini e delle donne, oggetto di cura e di ricerca per medici e scienziati; dai miti e i riti della bellezza alle credenze sulla formazione dell’embrione e sul destino dell’individuo dopo la morte. Ne risulta un affresco a più colori e a più voci, che restituisce l’eco affascinante di un mondo remoto e insieme straordinariamente moderno, alle prese con la più universale e la più umana delle realtà.
ISBN ebook 9788855293686
€ 10,00