Corpi e storia. Donne e uomini dal mondo antico all'età contemporanea 8883340728, 9788883340727

Il corpo è una costruzione culturale complessa, oggetto di un costante processo di elaborazione che di epoca in epoca ne

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Italian Pages 506 [509] Year 2002

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Table of contents :
Copertina
Collana
Frontespizio
Indice
Introduzione
I. Diritto
M. Perrot, Donne in lotta per i diritti del loro corpo
M. Graziosi, “Fragilitas sexus”. Alle origini della costruzione giuridica dell’inferiorità delle donne
A. Contini, Corpo, genere e punibilità negli ordinamenti di polizia della Firenze di fine Settecento
G. Arrivo, Raccontare lo stupro. Strategie narrative e modelli giudiziari nei processi fiorentini di fine Settecento
A. Bravo, Corpi senza diritti. L’invasione del potere totalitario
A.M. Gentili, Sessualità, maternità e violenza del potere nell’Africa coloniale sub-sahariana
II. Scienza
G. Raina, L’opposizione maschile/femminile nella trattatistica fisiognomica greca e latina
G. Pomata, Donne e Rivoluzione Scientifica: verso un nuovo bilancio
L. Schiebinger, La sperimentazione umana. Sesso e razza nel XVIII secolo
E. Betta, La donna, il feto e l’anima nei decreti del Sant’Uffizio alla fine dell'Ottocento
D. Memmi, Verso una confessione laica? Nuove forme di controllo pubblico dei corpi nella Francia contemporanea
III. Rituali
M. Ventura Avanzinelli, Tracce di un antico rituale femminile in una variante del primo libro di Samuele
A. Bonadeo, Iride, l’arcobaleno e il serpente. Rivisitando alcune storie di iniziazione
M. Treu, Il “reato del corpo”. Esempi di invettiva in Aristofane
M. Bambozzi Tra memoria e morte. Nel corpo di Ecuba il destino di Troia
L. Beltrami, “Periculum iniuriae muliebris”. Il rispetto delle donne del nemico nella cultura romana
M. Stella, Violenza e generazione in un mito di sovranità. Lo stupro del re nell’Edoardo II di Christopher Marlowe
IV. Rappresentazioni
S. Bartoli, Raffigurazioni del Noli me tangere nel palazzo episcopale di Novara. XIV e XVI secolo
T. Plebani, Tra disciplina e diletto: corpi di lettori, corpi di lettrici
L. Accati, Il corpo naturale delle madri e il corpo sociale dei figli: nascite barocche
R. Schulte, Sacrificio come violenza. Aspetti di una relazione madre/figlio nella Germania della prima guerra mondiale
E. Capussotti, Modelli femminili e giovani spettatrici. Donne e cinema in Italia negli anni Cinquanta
V. Maher, Genere, pulizia e decoro. Gli Europei come appaiono a sé e agli altri
Profili delle autrici e degli autori
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Corpi e storia. Donne e uomini dal mondo antico all'età contemporanea
 8883340728, 9788883340727

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I libri di Viella 33

Società Italiana delle Storiche

Corpi e storia Donne e uomini dal mondo antico all’età contemporanea a cura di Nadia Maria Filippini Tiziana Plebani Anna Scattigno

viella

Copyright ©2002 – Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione (carta): novembre 2002 ISBN 88-8334-072-8 Prima edizione (ebook): marzo 2011 ISBN 978-88-8334-624-8 Il volume è stato realizzato con i contributi: del Centro Donna del Comune di Venezia dell’Assessorato alle Pari Opportunità della Provincia di Venezia della Presidenza della Provincia di Venezia

viella Libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

Indice

Introduzione I.

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Diritto

MICHELLE PERROT Donne in lotta per i diritti del loro corpo

3

MARINA GRAZIOSI “ Fragilitas sexus”. Alle origini della costruzione giuridica dell’inferiorità delle donne

19

ALESSANDRA CONTINI Corpo, genere e punibilità negli ordinamenti di polizia della Firenze di fine Settecento

39

GEORGIA ARRIVO Raccontare lo stupro. Strategie narrative e modelli giudiziari nei processi fiorentini di fine Settecento

69

ANNA BELLAVITIS Donne, cittadinanza e corporazioni tra Medioevo ed età moderna: ricerche in corso

87

ANNA BRAVO Corpi senza diritti. L’invasione del potere totalitario

105

ANNA MARIA GENTILI Sessualità, maternità e violenza del potere nell’Africa coloniale sub-sahariana

133

Indice

vi

II.

Scienza

GIAMPIERA RAINA L’opposizione maschile/femminile nella trattatistica fisiognomica greca e latina

153

GIANNA POMATA Donne e Rivoluzione Scientifica: verso un nuovo bilancio

165

LONDA SCHIEBINGER La sperimentazione umana. Sesso e razza nel XVIII secolo

193

EMMANUEL BETTA La donna, il feto e l’anima nei decreti del Sant’Uffizio alla fine dell’Ottocento

213

DOMINIQUE MEMMI Verso una confessione laica? Nuove forme di controllo pubblico dei corpi nella Francia contemporanea

229

III.

Rituali

MILKA VENTURA AVANZINELLI Tracce di un antico rituale femminile in una variante del primo libro di Samuele

253

ALESSIA BONADEO Iride, l’arcobaleno e il serpente. Rivisitando alcune storie di iniziazione

271

MARTINA TREU Il “reato del corpo”. Esempi di invettiva in Aristofane MARZIA BAMBOZZI Tra memoria e morte. Nel corpo di Ecuba il destino di Troia

283

303

Indice

vii

LUCIA BELTRAMI “Periculum iniuriae muliebris” . Il rispetto delle donne del nemico nella cultura romana

311

MASSIMO STELLA Violenza e generazione in un mito di sovranità. Lo stupro del re nell’Edoardo II di Christopher Marlowe

327

IV.

Rappresentazioni

SILVANA BARTOLI Raffigurazioni del Noli me tangere nel palazzo episcopale di Novara. XIV e XVI secolo

343

TIZIANA PLEBANI Tra disciplina e diletto: corpi di lettori, corpi di lettrici

359

LUISA ACCATI Il corpo naturale delle madri e il corpo sociale dei figli: nascite barocche

373

REGINA SCHULTE Sacrificio come violenza. Aspetti di una relazione madre/figlio nella Germania della prima guerra mondiale

395

ENRICA CAPUSSOTTI Modelli femminili e giovani spettatrici. Donne e cinema in Italia negli anni Cinquanta

417

VANESSA MAHER Genere, pulizia e decoro. Gli Europei come appaiono a sé e agli altri

435

Profili delle autrici e degli autori

465

Introduzione

Nei mesi in cui questo volume prendeva corpo giungeva in discussione nel Parlamento italiano una legge sulla fecondazione assistita, che per la prima volta attribuisce personalità giuridica e diritti di cittadinanza all’embrione. Preceduta da un lungo e tormentato iter parlamentare, la legge rappresenta il tentativo di normare una pratica ormai affermata, definendo diritti e doveri dei soggetti coinvolti e limiti dell’intervento medico. Una volontà destinata tuttavia a scontrarsi con idee diverse della libertà individuale e del diritto di disporre del proprio corpo, con vissuti e immaginari molteplici della maternità, dell’infanzia, della famiglia, con concezioni divergenti sulle relazioni tra individuo, società e Stato, in materie che coinvolgono i concetti stessi di vita e di morte. Ancora una volta il corpo è apparso in tutta la sua crucialità come un luogo centrale della costruzione culturale, fondamento delle sue articolazioni, nucleo da cui si dipanano categorie discorsive primarie, a cui si intrecciano sistemi simbolici e da cui discendono modelli, norme e codificazioni: luogo di uno scontro sempre più radicale negli ultimi decenni tra soggettività e poteri, scena di un conflitto che vede presenti e mobilitati «gerarchie ecclesiastiche, scienziati, gi uristi, magistrati e perfino organismi internazionali»,1 alla ricerca del mantenimento o dell’affermazione di un potere simbolico e discorsivo, prima ancora che normativo, come tra i primi ci ha insegnato a distinguere Michel Foucault. Un bio-potere che si alimenta e si enfatizza attraverso il bio-sapere, campo elettivo della ricerca epistemologica della post-modernità, oggetto di un’indagine scientifica quasi ossessiva, ma anche di una riflessione filosofica e sociolo-

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Introduzione

gica che si interroga sulla definizione stessa della corporeità, complicata dalle nuove figure dei cyborg e sconvolta dalle bio-tecnologie, che sembrano autorizzare desideri di onnipotenza e dimenticanza dell’origine. 2 Negli anni Settanta del Novecento, il corpo, come ricorda Michelle Perrot nel saggio che apre questo volume, è stato l’oggetto privilegiato dell’analisi del movimento delle donne, che lo hanno individuato come il luogo originario di formazione dell’identità sessuale, della visibilità e della costruzione culturale dei generi. Nelle sue rappresentazioni si indagava l’origine dei destini biologici e dei ruoli sessuali, delle gerarchie e delle forme di potere, nonché delle norme sociali e giuridiche. Le lotte del movimento hanno assunto come obiettivo primario la libertà sessuale, la libera scelta della maternità, l’inviolabilità del corpo femminile, il rispetto e il riconoscimento della differenza. Queste battaglie, intrecciate al tema della cittadinanza delle donne, hanno prodotto una delle rivoluzioni culturali più significative del Novecento; hanno infatti avviato una trasformazione radicale di modelli culturali di lunga durata, di forme di potere e relazioni di genere, dando il via ad una “ sovversione” sociale e simbolica ancora in atto. 3 Sul corpo le donne hanno elaborato in questi decenni un sapere sessuato nuovo e complesso, capace di rompere steccati cognitivi e disciplinari, di disarticolare contenuti e categorie portanti. La storia come disciplina ha avuto in questo percorso un ruolo tutt’altro che secondario, a partire dai primi studi sulla maternità e sul parto alla fine degli anni Settanta.4 Al tempo stesso, una prospettiva di sapere sessuato, come quella prodotta dalla cultura delle donne, appare oggi quanto mai fertile di suggestioni e irrinunciabile, per cogliere nelle relazioni sesso/genere delle diverse epoche, come nei rapporti di potere e nei loro mutamenti, l’oggetto forse più sfuggente: i corpi. Il presente volume vuole essere un contributo in questa direzione. I saggi che lo compongono restituiscono in parte le relazioni e gli interventi presentati al II Congresso della Società Italiana delle Storiche, organizzato a Venezia dal 3 al 5 febbraio del 2000 e aperto a contributi internazionali e ad un proficuo confronto interdisciplinare: dalla storia all’antropologia, dalla filologia biblica e classica alla letteratura. Il titolo del volume rende ragione di alcune scelte teoriche di fondo: l’attenzione al genere, assunto come rife-

Introduzione

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rimento prioritario, per cui il tema non è il corpo, né solo “i l corpo delle donne”, 5 anche nel caso in cui le ricerche riguardino miratamente soggetti femminili, ma sono invece i corpi maschili6 e femminili nella loro peculiarità, specularità e opposizione: corpi visti e indagati in una dimensione diacronica assai lunga, dall’età antica al mondo contemporaneo. Le sezioni nelle quali il libro è diviso (diritto, scienza, rituali e rappresentazioni) corrispondono a campi che sono stati individuati come particolarmente significativi e nei quali si è prodotta maggiore ricerca in questi ultimi anni: il diritto appunto, con le codificazioni e l’uso sociale delle norme, ma ancor prima con i legami sottesi o esplicitati tra rappresentazioni di genere e principi normativi; la scienza, con il contributo determinante alla definizione dei modelli corporei (da quello monosessuale a quello basato sulla differenza), con le varie direzioni della ricerca, mai neutre, come i suoi protagonisti; i rituali, che regolano pratiche collettive, mediano le relazioni con il sacro, producono e rafforzano appartenenza o esclusione; le rappresentazioni, che per il loro rilievo nella configurazione degli apparati simbolici e dell’immaginario, sono fattori culturali centrali nella costruzione dell’identità e del genere. Corpi e diritti La rappresentazione del corpo femminile ha segnato in profondità la relazione tra le donne e il diritto, introducendo nel campo giuridico una differenza, che ha reso le donne soggetti di un diritto minore e ne ha limitato a lungo la libertà e la piena affermazione di cittadinanza. Alla radice dell’asimmetria, vi è un’antica immag ine di debolezza attribuita al corpo femminile, una sorta di infermità connaturata alle donne, che inficiando il vigore dell’intelletto ne diminuirebbe la capacità razionale e ne renderebbe instabili gli affetti e la volontà.7 Questi tratti attribuiti al femminile hanno condizionato significativamente la costruzione sociale e culturale dei generi e la loro divaricazione. Il percorso tracciato in questo libro, nel considerare la fondazione giuridica della disuguaglianza delle donne, prende avvio proprio da questa immagine di infirmitas, o di fragilitas sexus,8 che nel diritto romano e nella sua tradizione al-

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Introduzione

l’interno dei diversi sistemi giuridici, dall’età medievale all ’età moderna e contemporanea, si configura come una ambigua costruzione concettuale, a lungo priva, osserva Marina Graziosi, di una vera e propria fondazione teorica, ma proprio per questa sua genericità categoria duttile, capace di sostenere misure di tutela ma anche e soprattutto limitazioni diverse delle donne, in ambito civile e penale. All’interno di un percorso che, proprio a partire da un corpo femminile protetto e dominato, ha privato le donne della qualità di soggetti di diritto, è significativa l’attenzione rivolta in questo volume all’individuazione di specifiche configurazioni culturali e sociali, che in un tracciato di continuità apparente segnano invece momenti di passaggio, di rottura o di nuova configurazione di senso, e scansioni efficaci a ricostruire secondo un profilo storico il rapporto tra i corpi e i sistemi di sesso e di genere. Soggetti alla giustizia domestica del pater familias 9 e destinati al compito della riproduzione, i corpi delle donne sembrano non trovare spazio né visibilità nei corpi sociali. Nel passaggio dal tardo medioevo all’età moderna, osserva Anna Bellavitis, la subalternità delle donne nel corpo cittadino e nei corpi di mestiere si aggrava. Se la cittadinanza femminile prima dell’età moderna è un campo di ricerca ancora poco frequentato e lo statuto stesso della cittadinanza vi appare di difficile definizione, il rapporto tra donne e corporazioni presenta studi più consolidati e lineamenti più noti; proprio nelle corporazioni tra medioevo ed età moderna si estende l’esclusione delle donne, mentre subiscono una significativa limitazione in tutte le città europee, non senza reazione e conflitti anche violenti, gli antichi diritti di cui godevano le vedove nel subentrare ai mariti. A partire dal XVI secolo l’irrigidimento gerarchico delle corporazioni e l’accentuazione della loro connotazione di genere sono un fenomeno diffuso. Il legame tra corporazioni, vita pubblica e cittadinanza rafforza l’esclusione delle donne, quando la cittadinanza, come avviene ormai nello stato moderno, assume valenza politica, e rende dunque problematico il nesso tra l’accesso al corpo femminile e l’accesso al corpo dei cittadini, come la trasmissione stessa della cittadinanza da parte delle donne. Priva della connotazione piena di soggetto di diritto, la donna non attinge l’ambito pubblico, è ‘soggetto di famiglia’, anche se la sua appartenenza alla famiglia e alla parentela è in realtà ambi-

Introduzione

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gua.10 La figura della fragilitas sexus, da concezione generica e poco articolata, come era stata a lungo nella tradizione giuridica, assume una coerente fondazione teorica nella scienza penalistica del tardo Cinquecento, con effetti innovativi sotto il profilo normativo, sottolinea Marina Graziosi, rispetto alle stesse fonti romane. La minore razionalità della donna comporta una minore punibilità, che se per un verso solleva le donne da diversi reati e ne protegge i corpi dall’applicazione della pena, d’altra parte ne inficia la capacità di rendere testimonianza e ne sancisce la minorità, contribuendo alla costruzione dello ius maritale. Se dunque la scienza penalistica per un verso, e d’altra parte i nuovi assetti dei corpi cittadini e dei corpi di mestiere, indicano tra la prima età moderna e la fine del XVI secolo un periodo di passaggio nel rapporto tra le donne e il diritto e tra le donne e la cittadinanza, a partire proprio dalla rappresentazione del corpo femminile e dall’accentuata percezione dei suoi limiti, un’altra signific ativa scansione che emerge dai saggi contenuti nel volume è, nel secondo Settecento, l’età del riformismo, quando il disciplinamento religioso e morale della Controriforma cede il passo a forme più laiche di controllo.11 Le donne e le relazioni tra i sessi occupano uno spazio rilevante nella nuova amministrazione della giustizia promossa in Toscana dagli ordinamenti di polizia, negli anni Settanta del Settecento: il dicastero del Buon Governo offre una documentazione di grande interesse che consente a Alessandra Contini di delineare, nel passaggio alla nuova modalità laica di controllo e disciplinamento dei costumi, del corpo e della sessualità, un punto di snodo significativo nel rapporto tra le donne e la legge. Nella imponente documentazione informativa che spia e controlla la vita quotidiana della città, conflittualità tra i sessi e strategie femminili incappano nelle reti di controllo della nuova polizia. Le donne e la loro sensualità, l’onore femminile e l’uso del corpo sono al centro di un animato dibattito, nella tensione tra forme diverse di controllo, fra giustizia ordinaria e polizia del Buon Governo. Nel passaggio di attribuzioni dai tribunali ecclesiastici ai tribunali civili di competenza della polizia leopoldina,12 i comportamenti di quest’ultima nell’osservazione e nel controllo quotidiano delle relazioni familiari e sociali del tessuto urbano mostrano strategie non univoche: per un verso esse tendono ad attribuire maggiore responsabilità alle donne

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Introduzione

e dunque una punibilità pari all’uomo, ma al tempo stesso ne accolgono e ne favoriscono la richiesta di legittimazione dei propri diritti e della propria rispettabilità. In Toscana, una speciale tutela protegge l’onestà e la verginità delle donne, per la loro natura, osserva Georgia Arrivo, di ‘beni’ familiari e sociali al tempo stesso. La ricerca in corso sulle cause discusse presso il Supremo Tribunale di Giustizia per reato di stupro, offre una documentazione di grande interesse, che prosegue il discorso introdotto da Alessandra Contini, sul rapporto complesso che alla fine del Settecento le donne intessono con la legge e con gli apparati della giustizia, e si ricollega d’altra parte agli studi sul consenso femminile nella cultura giuridica moderna,13 alle ricerche recenti sul matrimonio nella disciplina della Chiesa14 e sulle fonti processuali, in particolare sui processi matrimoniali.15 I racconti di violenza subita o di stupro consensuale sembrano rispondere infatti a un canovaccio, dove il confine tra la vittima reale e l’immagine di vittima ideale costruita con l’aiuto del giurista, è difficile da individuare. L’adeguamento al modello, suggerisce Georgia Arrivo, declina storie di abusi e di consensi forzati, dove la promessa di matrimonio opera la seduzione, la gravidanza spesso rivela pubblicamente il reato, e il processo, rischioso e paventabile, può tuttavia consentire alle giovani donne e alle loro famiglie di fare uso, anche in modo spregiudicato, della tutela offerta dalla legge all’onestà femminile, per cercare di ottenere, spesso con l’aiuto di una ben orchestrata rete di testimoni, un matrimonio che restituisca loro onore e rispettabilità. Anche per questa via, e pur nella difficoltà di lettura offerta dalle fonti, sembrano dunque prendere corpo quelle strategie femminili molteplici e differenziate che le ricerche recenti di storia delle donne16 vanno ormai valorizzando. Per un verso, nel tentativo di volgere a loro vantaggio relazioni sessuali segnate dal potere e dalla violenza maschile, le donne si avvalgono di concezioni radicate di debolezza e di tutela del fragile bene dell’onestà e della verginità, per condizionare un percorso di costruzione del matrimonio, che le cause rivelano lungo e complesso e dagli esiti spesso incerti; d’altra parte non esitano a ricorrere alla nuova responsabilità e punibilità che gli ambienti di polizia tendono ormai ad attribuire alle donne, per cercare di affermare pubblicamente in questo terreno non più protetto, ma anche più paritario, i propri diritti nelle relazioni familiari e nell’uso

Introduzione

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del proprio corpo. Come si vede, attorno al corpo dominato ed espropriato delle donne le ricerche di questi ultimi anni mettono in campo fonti nuove e categorie duttili di analisi, in grado di articolare maggiormente i ruoli sessuali e le relazioni sociali, di far emergere conflittualità, reti di solidarietà, comportamenti variegati che appartengono alle strategie e alla vita quotidiana degli individui, e che, nel passaggio ai nuovi modelli di controllo e di regolamentazione di fine Settecento, sembrano articolare per le donne spazi più ampi di iniziativa e nuove opportunità di scelta. Rituali di controllo della sessualità e delle capacità riproduttive delle donne si riscontrano in molte società tradizionali e nelle società post-coloniali. Nel nord della Namibia, alla fine degli anni Trenta del Novecento, la storia di Nangombe, che rimane incinta prima dei riti di iniziazione che precedevano il matrimonio, è una storia in certo modo esemplare, nella rilettura condotta da Anna Maria Gentili in questo volume. Nangombe, colpevole di aver infranto un tabù e di aver attratto la maledizione sulla propria famiglia e sul clan, sceglie di far nascere sua figlia e fugge perciò dal villaggio, ma poi torna, rivendicando la propria identità e la propria fedeltà al clan e alla propria cultura. La storia non è a lieto fine; violenza, sessualità e potere vi si intrecciano, e rivelano, in una società tradizionale sottoposta a forti flussi migratori e a un accelerato processo di modernizzazione, l’ambiguo rapporto tra potere coloniale e autorità indigene, nel riprodurre e nell’organizzare in forma rigida una tradizione, che continua ad affidare il controllo delle donne alla società tribale, privandole dei diritti e sottraendole alla libera scelta della propria sessualità e maternità. Nella storia di Nangombe, la fonte principale è un processo; atti giudiziari come questo, ma anche testimonianze, racconti e storie di vita, sono le fonti attraverso cui nell’Africa subsahariana la nuova ricerca storica cerca di restituire voce alle donne africane. Il recupero delle singolarità come protagoniste della storia, consente anche qui di declinare in modo più articolato categorie altrimenti schematiche, come quelle di dominazione/oppressione e resistenza/riscatto. La ribellione di Nangombe rivela le contraddizioni fra tradizione e modernità in un sistema coloniale in transizione, dove la modernità non annulla il potere patriarcale sulle donne e ne peggiora forse la subordinazione, in un momento in cui il ruolo delle donne nella so-

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Introduzione

pravvivenza delle società rurali acquista d’altra parte rilievo fondamentale. Costruzione del regime dei corpi e costruzione del regime politico procedono in parallelo, osserva Anna Bravo. Il diritto individuale di disporre della propria persona fisica si chiude definitivamente nei regimi che si affermano in Europa tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento, e ciò vale soprattutto per il corpo femminile.17 Corpi di pregio da proteggere, corpi inferiori da espellere e corpi cavia di cui disporre senza limite, segnano in Germania negli anni Trenta il progetto di rimodellamento genetico della nazione. Il controllo crescente sul corpo da parte dello Stato e degli apparati medico-scientifici, osserva Anna Bravo, è un aspetto della modernità, ma i totalitarismi recano in questo un segno peculiare, non assimilabile in alcun modo a quanto avviene negli stessi anni nei paesi a regime democratico. Nei totalitarismi, l’intromissione statale sui corpi non trova più alcun limite in una tradizione e in una cultura dei diritti e della libertà, che appare qui del tutto negata, insieme alla fondamentale distinzione tra sfera privata e sfera pubblica, che consente ai corpi di conservare la propria individualità e la propria autonomia, e di non cadere assorbiti entro il corpo sociale. Uno degli aspetti più significativi che il saggio pone in luce, come pratica del sistema di comando negli stati totalitari, è la contabilità sui corpi, che segna in modo particolare, tra le due guerre, la costruzione del potere in Urss e nel Terzo Reich. Le quote, applicate dalla produzione alla popolazione, distruggono le individualità e riducono i corpi, stretti tra fame e fatica, a pedine irrilevanti nella loro singolarità. Ma il corpo oppresso può essere un terreno di resistenza e anche una risorsa da opporre al totalitarismo. I racconti delle donne e degli uomini rinchiusi nei campi di prigionia nazisti e sovietici rivelano percezioni del corpo differenti: nelle donne, scrive Anna Bravo, il corpo è percepito e rappresentato in modo più complesso. La cura del corpo e della propria femminilità, anche nelle condizioni estreme del campo, è una risorsa contro la devastazione, è resistenza e opposizione.

Introduzione

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Corpi e scienza Il ruolo che la scienza antica e moderna ha avuto nella costruzione culturale del maschile e del femminile e nella elaborazione della differenza sessuale è stato al centro in questi ultimi anni di una vasta serie di studi, a partire dal testo ormai classico di Thomas Laqueur,18 il quale, muovendosi lungo un arco cronologico amplissimo (dai Greci a Freud), reinterroga il rapporto tra sesso e genere, dimostrando la priorità della costruzione culturale in entrambi. Lungi dall’essere fatti che dipendono dall’ordine naturale, il sesso e il genere appaiono, nella dimensione diacronica, rappresentazioni costruite e ricreate, in relazione all’ideologia, alla politica, all’ordine simbolico di un determinato contesto, anche quando quest’ordine intende definirli per tutti i membri della società come fatti di natura.19 La storia del corpo, in tutte le sue manifestazioni, è storia culturale, eine Kulturgeschichte, soprattutto quando tocca gli eventi cruciali della nascita e della morte, come hanno dimostrato gli studi più recenti.20 Nel mondo antico è il genere ad essere fondatore, mentre il sesso non ne é che la rappresentazione.21 La priorità del maschile, anche da un punto di vista anatomico e fisiologico, non ha bisogno di dimostrazioni: discende dalle gerarchie del genere, da un ordine sociale assunto come universale. Per la scienza esiste un solo modello di corpo: quello maschile; il corpo femminile rappresenta una copia imperfetta di questo, resa tale da una mancanza di calore, nella commistione dei quattro elementi di base. È questa maggiore freddezza a determinare sia il minore sviluppo degli organi sessuali, rispetto a quelli maschili, secondo la teoria dell’inversione degli organi sviluppata in particolare da Galeno, sia la limitatezza delle capacità femminili, oltre che il contributo subalterno della donna nella generazione. Se il modello perfetto è maschile, il corpo della donna si definisce attraverso una serie di attributi opposti o contraddistinti dal segno negativo. Questa prospettiva è presente anche nella fisiognomica, una pseudo-scienza molto diffusa nel mondo antico, che postula una relazione di stretta interdipendenza tra corpo e anima (sympatheia), per cui il primo è espressione della seconda, che a sua volta si uniforma alla qualità di questo. Le caratteristiche e i segni del corpo

xviii

Introduzione

diventano così indicia del carattere interno della mente e dell’animo. Nella ricerca che Giampiera Raina conduce sul trattato di un anonimo autore latino del IV secolo (che si presenta come traduzione o interpretazione della più autorevole Physiognomica di Aristotele), le caratteristiche positive sono tutte maschili; il femminile è assunto come polo negativo, come un termine di confronto che neppure merita un’indagine particolareggiata. I segni esterni della mascolinità e della femminilità possono esser accentuati attraverso un mirato esercizio fisico. La sessuazione si estende anche al mondo animale: alle diverse specie vengono attribuite caratteristiche maschili o femminili (ad es. il leone è maschio; il leopardo è femmina), che vanno a definire una gerarchia data per assodata. Ugualmente gerarchizzate sono le caratteristiche razziali, a riprova dell’interconnessione tra sesso e razza, analizzata in particolare, sul versante scientifico, da Londa Schiebinger. Il passaggio da un modello di corpo monosessuale ad un modello bisessuale avviene, secondo Thomas Laqueur e Londa Schiebinger,22 nel corso della seconda metà del Settecento, quando viene elaborata la teoria della differenza sessuale, che s’intreccia subito con il determinismo biologico. Alla radice del cambiamento, secondo gli autori, vi sono trasformazioni sociali e politiche di grande rilevanza: la nascita degli Stati moderni, con il nuovo concetto di cittadinanza, le teorie del contratto sociale, il nuovo concetto di eguaglianza per natura degli individui. Alla medicina viene insomma demandato il compito di risolvere la contraddizione tra principi di egualitarismo dei “cittadini” ed esclusione delle d onne dalla cittadinanza. Aporia politica aggirata appunto attraverso l’elaborazione della differenza, riportando alla natura e alle sue leggi l’origine di ruoli e destini asimmetrici. In questa interpretazione il ruolo della Rivoluzione scientifica del secolo precedente risulterebbe del tutto ininfluente per le donne, se non negativo, come a suo tempo sostenuto da Carolyn Merchant.23 Nel saggio che appare in questo volume Gianna Pomata si propone di confutare queste interpretazioni e di dimostrare al contrario come la Rivoluzione scientifica sia stata determinante nella elaborazione della differenza sessuale, spostando così all’indietro i termini cronologici del cambiamento. A partire da una rilettura di varie fonti mediche, Pomata mette in evidenza come fin dalla se-

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conda metà del Seicento, si fosse manifestata una profonda crisi del modello unico del corpo ed un interesse specifico verso il corpo femminile. Ne sono testimonianza la scoperta dei follicoli ovarici di Regnier de Graaf (1672), quella degli spermatozoi di Leeuwenhoek (1677), e le conseguenti teorie preformiste che rivoluzionano profondamente l’immaginario della generazione, scardinando il primato del contributo maschile. Alla base di questo cambiamento, Pomata vede alcune trasformazioni culturali e scientifiche, quali la crisi delle strutture di pensiero scolastiche; la radicalità dell’empirismo; la costituzione di correnti di “femminismo galenis ta”; la nuova centralità assunta dai fenomeni “strani” e “mostruosi” , che induce uno sguardo nuovo su quel monstruum che era considerata la donna. È proprio il Seicento che conia l’assioma similitudo dissimilis per indicare la relazione tra i sessi, mostrando un nuovo interesse per la differenza sessuale. Agli studi più recenti si deve anche la denuncia del carattere falsamente neutro della scienza, l’analisi dell’influenza, nel linguaggio come nei percorsi epistemologici, di una soggettività maschile postasi come universale. L’intreccio tra riflessione filosofica, sociologica, storica ha dato in questa direzione i suoi frutti migliori e più fortemente innovativi, andando a svelare ed analizzare il genere della scienza ed i suoi riflessi sulla storia delle donne.24 È in questo contesto che si inserisce il saggio di Londa Schiebinger la quale, nell’analizzare alcune caratteristiche della sperimentazione medica del secondo Settecento, mette in luce il peso della soggettività maschile nei percorsi della ricerca. Se da un lato le donne erano sempre presenti come oggetti della sperimentazione (si riteneva che la differenza sessuale avesse un peso nella diversa reazione ai farmaci, al pari delle differenze di età, di razza, di temperamento), la loro presenza era al contrario negata e il loro contributo cancellato sul versante della ricerca e dell’invenzione: varie sperimentazioni attinte da pratiche popolari di donne, sono passate alla storia con il nome dei chirurghi che le hanno successivamente sperimentate. Il fatto che fossero medici-maschi a fissare gerarchie di rilevanza, di interesse e di divulgazione scientifica determinava nella ricerca scarti significativi, ma non esplicitati, delineando, accanto a campi di conoscenza, campi di ignoranza altrettanto importanti per la lettura storica. Emblematico in questo senso il caso di alcune

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piante utilizzate dagli amerindi o dagli schiavi delle piantagioni per procurare l’aborto: malgrado fossero state importate in Europa non ne fu mai accertata sperimentalmente la capacità abortiva, perché la medicina del tempo era intenta a sostenere le politiche di incremento demografico dei governi illuminati. Se nel secondo Settecento la scienza diventa referente dei governi illuminati per quanto riguarda le politiche di cura e di potenziamento del corpo sociale, la sua affermazione avviene attraverso un conflitto, che nei paesi cattolici sembra protrarsi più a lungo e dare esiti forse in parte diversi da quelli ipotizzati dalle classiche tesi foucaultiane. In questi si assiste ad una complessa dialettica, che vede, da un lato il mondo ecclesiastico articolare nuovi discorsi e nuove politiche, dall’altro il mondo scientifico spaccarsi in correnti laiche e filo-cattoliche, come anche oggi si viene riproponendo. La ricerca di Emanuel Betta vede la Chiesa intenta a reagire alla perdita del monopolio tradizionale sul parto e sulla nascita, attraverso l’articolazione di un discorso nuovo e più radicale di tutela del feto, assumendo la difesa della vita come prioritaria ed assoluta. È questa la lettura che egli fa di un passaggio significativo nel campo della pratica ostetrica: la condanna da parte del Sant’Uffizio delle operazioni di embriotomia e craniotomia, negli ultimi decenni dell’Ottocento (1884-1902); un pronunciamento che conclude un dibattito protrattosi per almeno un secolo. L’analisi delle carte dell’Archivio del Sant’Uffizio, sullo sfondo della realtà del mondo scientifico e accademico del tempo, lo porta ad interpretare questa sentenza come il segnale di una precisa svolta politica della Chiesa. Infatti l’affermazione del principio della sacralità della vita nascente come asse portante del discorso, consente alla Chiesa di recuperare un ruolo proprio, forte e distinto, di controllo del corpo femminile e della nascita, riaggregando intorno a questo le diverse componenti cattoliche della società civile, in un momento in cui, tra l’altro, nascono le Università cattoliche e vengono definiti criteri e principi di un insegnamento e di una pratica “scientifica” cattolica. Se la realtà del passato è caratterizzata da forme invadenti di controllo dei corpi da parte dell’autorità ecclesiastica e politica, quella del presente, e in particolare degli ultimi trent’anni, sulla quale si sofferma il saggio di Dominique Memmi, è contraddistinta da una forte spinta di liberazione del corpo, da un movimento che

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ne richiede il pieno autocontrollo e che rivendica al soggetto ogni decisionalità relativa al proprio destino corporeo: procreazione, cambiamento di sesso, disponibilità degli organi, morte. Si tratta di un movimento nel quale le donne hanno avuto un ruolo trainante, proprio a causa della loro maggiore oppressione nel passato, ma che risulta attualmente composito e articolato. Le risposte degli Stati, con la promulgazione nell’arco degli ultimi trent’anni d i numerose leggi di depenalizzazione e di liberalizzazione (libertà di contraccezione, aborto, donazione di organi, cambiamento di sesso) e le trasformazioni del rapporto tra individuo e società a queste sottese, sono al centro dell’analisi di Memmi, che si avvale delle categorie interpretative di Foucault e di Norbert Elias. Essa vede nelle nuove leggi l’abbandono da parte degli Stati del tradizionale sistema di sorveglianza punitivo, il loro ritirarsi dal piano della sanzione penale, ed il passaggio a forme di sorveglianza più raffinate e indirette, attuate attraverso il sostegno economico e procedure di dialogo affidate ad operatori sanitari. Le attuali forme di controllo (colloquio con il medico mirato ad una verifica di “conf ormità biografica”) rivelano l’affermarsi di una precisa rappresentazi one dell’individuo: un sujet-roi che ha interiorizzato l’autocontrollo del proprio corpo e che è in grado di fornire, su richiesta, spiegazioni e motivazioni “legittime”, relative alle scelte da egli stesso co mpiute. La biopolitica degli Stati attuali presuppone dunque un individuo colto, fortemente scolarizzato, che diviene signore del proprio destino, in quanto e nella misura in cui ha interiorizzato le norme sociali ritenute legittime. Rituali Il rapporto con il proprio corpo, con i corpi altrui, e le pratiche corporee segnano in modo rilevante i percorsi di costruzione delle identità individuali e collettive, in un costante lavoro di confronto e di rielaborazione, secondo modalità più o meno libere, dei diversi linguaggi, delle immagini, delle rappresentazioni che nel presente come nel passato si addensano sui corpi, maschili e femminili, veicolando norme comportamentali e trasgressione, approfondendo appartenenze e marginalità. Nella storiografia degli ultimi decenni,

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aperta ad approcci antropologici e attenta al quotidiano, sia le pratiche corporee che gli immaginari ad esse sottesi hanno costituito nuovi e ricchi filoni di indagine: dalle ricerche sul cibo e sull’alimentazione,25 attente agli aspetti di storia sociale ma anche ai contenuti simbolici e culturali, agli studi sull’igiene dei corpi e sulle nozioni di pulizia e sporcizia nella società europea;26 dalla storia degli odori,27 alle ricerche sull’abbigliamento, il costume e la moda;28 e ancora la danza nelle sue diverse tipologie e codificazioni, il linguaggio dei gesti,29 il modellamento del corpo nello sport e nelle discipline ginniche.30 La sessualità è uno dei campi che ha conosciuto una più forte trasformazione negli approcci storiografici: nelle pratiche sessuali e nella storia della sessualità Michel Foucault ha spostato l’attenzione dalle norme e dalle proibizioni al desiderio, indicando nell’uso dei piaceri un percorso di costruzione della soggettività,31 mentre gli studi di Mary Douglas hanno mostrato il rilievo che a partire dal corpo sessuato, e dal corpo femminile in particolare, concetti come purezza e contaminazione rivestono nel configurare gli ordinamenti simbolici in cui si inscrivono relazioni sociali e relazioni di genere.32 Storie meno perlustrate dalla tradizione storiografica, come quelle evocate da Michaeil Bachtin,33 hanno posto in luce la capacità dei linguaggi del corpo di sovvertire e capovolgere il circuito alto/basso della trasmissione del sapere e della costruzione della coscienza, e d’altra parte la prospettiva inaugurata da Luce Irigaray ha segnato con l’irruzione della differenza sessuale34 un profonda rivisitazione della ricerca nel campo degli assetti simbolici e del loro intreccio con la sfera politica. Se le pratiche corporee e i comportamenti sessuali sono dunque un ambito di indagine particolarmente efficace per descrivere le società, la circolazione delle idee e i terreni di conflitto,35 i rituali del corpo acquistano nella ricerca storica un rinnovato interesse, per il loro rilievo nel segnare in forme più o meno codificate, relazioni di amicizia o di aggressività, strategie di integrazione o di espulsione, rapporti tra i sessi e tra i generi,36 e nel testimoniare i diversi passaggi di età e di status. Dal corpo fisico al corpo sociale e al corpo politico, i rituali costruiscono dunque la trama di un fitto tessuto di connessioni e di rispondenze,37 che attinge agli ordinamenti simbolici e media i rapporti con la sfera del sacro.

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L’importanza dello spazio occupato dai corpi nei rituali emerge evidente in questo volume nel saggio di Milka Ventura Avanzinelli, che si occupa di un antico rituale religioso femminile, legato al corpo, all’acqua e al sangue, che affiora ancora per tracce misteriose e di difficile lettura nei testi biblici. Forse inscritto in una antica concezione di consacrazione rituale del corpo femminile nel periodo del sangue, esso appartiene a una tradizione risalente probabilmente al tempo del primo Israele del deserto, e testimonia di un rapporto delle donne stretto e costante con il santuario, come studi recenti sulla religione dell’antico Israele tendono ormai ad accogliere:38 un accesso delle donne al Santo e una loro funzione cultuale,39 cancellata o divenuta forse non più intelligibile con la progressiva ellenizzazione del mondo ebraico, quando l’esigenza di separazione delle donne dagli uomini si tradusse nella loro esclusione dal culto, concentrato nel Tempio, sacerdotale e maschile. Nel suo contesto originario, il rituale affidato alle donne rappresentava un rito di passaggio che aveva come spazio un luogo non sacerdotale, un luogo “vuoto” con funzione protettiva, secondo l’ ipotesi di Menahem Haran: la soglia cioè che divideva il sacro “es terno” e distruttivo dei sacrifici cruenti, dal sacro “interno” de ll’altare dei profumi e dell’Arca. Tutto giocato tra esterno e interno, tra contaminazione e purità, tra morte e vita, il rituale che avviene sulla soglia segna un limite, osserva Milka Ventura Avanzinelli, una zona di passaggio e di trasformazione, affidata al corpo delle donne, e al “tempo” del corpo femminile: nel “santuario del tempo” , al femminile è affidata una precisa funzione di protezione della vita. E sempre in tema di riti di passaggio, l’antichità classica e in particolare la mitologia, osserva in questo volume Alessia Bonadeo, non manca certo di esempi che intrecciano significativamente rituali e momenti iniziatici forti, con trasformazioni radicali del corpo e della sessualità. Tra le figure più rilevanti, c’è Iride, che nella tradizione letteraria classica appare connessa alla sessualità femminile ma anche a momenti fondamentali di trasformazione nel ciclo di vita e nell’uso della sessualità. Iride, messaggera degli dei e dunque figura di collegamento, dea del passaggio per eccellenza, è anche personificazione dell’arcobaleno, e come l’arcobaleno nel le culture classiche, è evocatrice della tempesta, del vento, dell’elemento umido; come l’arcobaleno è portatrice di infausto presagio.

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Una fitta trama simbolica in molte culture, antiche e non, lega l’iride ad altri elementi di segno negativo, associando l’arcob aleno al mondo ctonio del serpente o del drago, e il serpente all’incesto, e ad altre forme di anomalia sessuale, opposte alle regole del genos. Dalle storie di iniziazione del mondo classico alle leggende e ai miti di altre culture, l’arcobaleno, sottolinea Bonadeo, appare così nel trapasso dei colori e nel legame con una figura ambigua come il serpente, il nodo emblematico, che rappresenta e presiede trasformazioni devianti del corpo e della sessualità, e nel corpo l’intreccio tra maschile e femminile, cioè la confusione tra ciò che dovrebbe essere invece disgiunto. Pratiche rituali arcaiche affiorano nella commedia attica antica, dove Martina Treu individua nell’uso, da parte del coro, di violenze verbali e gestuali, di oscenità e di maledizioni, tracce significative delle beffe rituali, di riti di violenza collettiva,40 quali i riti del capro espiatorio, tesi a rafforzare mediante pratiche di emarginazione o di espulsione di un individuo dalla comunità, la coesione della comunità stessa; ma anche analogie con procedure giudiziarie connesse a riti di espiazione e di esecuzione capitale.41 Sotto questo profilo la commedia di Aristofane, secondo l’ipotesi avanzata da Treu, rappresenterebbe al pari della tragedia il momento di passaggio dal pensiero religioso a quello giuridico. Il corpo rivestiva in questi riti un ruolo centrale, testimoniato dal rilievo che ancora esso occupa nella commedia antica, in particolare nel “biasimo” (psògos), rivolto dagli attori, e soprattutto dal coro, a persone estranee alla vicenda, destinate a fungere da vittime di un rituale di espulsione simbolica, che conserva ancora, quando è messo in atto dal coro, tracce profonde di sacralità. Nell’invettiva, i difetti del corpo, la deformità, i bisogni e le impellenze corporali, rimandano costantemente a tratti del comportamento, a qualità interiori restituite attraverso un processo di forte simbolizzazione. Negli attacchi e nelle maledizioni affidate al coro, gli elementi arcaici figurano come “fossili” ancora vitali, insiti fin dalle origini nella na tura stessa del coro, e testimoni di un suo antico potere magico, che rappresenta e dà voce alla comunità, regolarizzando l’ingiuria e l’in vettiva personale. La mancanza di inibizione a livello fisico, e la violazione delle norme del decoro linguistico, conclude Treu, sono strumento atto a ristabilire l’ordine e l’armonia.

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Nelle Troiane di Euripide, il corpo anziché piegarsi al rituale ne stravolge le forme e ne sovverte le prescrizioni. È il corpo di Ecuba, la regina troiana che l’Iliade quasi ignorava, osserva Marzia Bambozzi nel suo saggio, che Euripide mette in scena a rappresentare attraverso il suo linguaggio il dramma della guerra, l’impossibile elaborazione del lutto e della memoria. Complesso nodo di tutta una rete di rapporti simbolici, il corpo svuotato della regina, se è proiezione del vuoto di Troia distrutta, rimanda d’altra parte all’Atene democratica del tempo di Euripide, e denuncia la vanità dell’ideologia dell’ epos, che la città aveva fatto propria a sostegno dell’assetto politico e sociale, e che alimentava attraverso le cerimonie e i riti pubblici. Nella cultura romana, il corpo delle donne è un nodo di complesse relazioni simboliche. In modo particolarmente pregnante, esso esprime, oltre che il complesso di valori che custodiscono l’ordine familiare e sociale, anche il modello romano di rapporto con gli altri popoli: un modello ispirato al concetto di amicizia, osserva Lucia Beltrami in questo volume, che tende a stabilire con i popoli stranieri una relazione positiva e a risolvere gli episodi di guerra in condizioni di alleanza, più che nell’annientamento del nemico. Se il dono come beneficium e come attesa di contraccambio, appare il fulcro di questa politica di soluzione dei conflitti, i racconti di Livio che hanno per protagonista Scipione, figura di grande rilievo e autorevolezza nella cultura romana, indicano proprio nel corpo delle donne, nel rispetto e nella tutela della loro castità, il punto nevralgico della relazione che si gioca sul dono e sullo scambio: lo stupro delle donne, per gli effetti che esso produce sul piano delle discendenza e dell’integrità dei gruppi,42 era percepito chiaramente come atto di estrema ostilità, atto di guerra, volto alla distruzione dell’identità del popolo nemico, alla sua umiliazione e al suo annientamento. Il rispetto del corpo delle donne, appariva invece nei racconti di Livio come un dono di Scipione al nemico, tra i più preziosi e al tempo stesso efficace rappresentazione di un modello romano di alleanza, non improntato ad assoggettamento, ma a gratitudine, fedeltà ed amicizia. Agli studi di Kantorowicz sulla regalità e sul corpo del re,43 ma anche a Kate Millet per i rapporti del codice di genere con le dinamiche del potere,44 e a Luce Irigaray per le riflessioni sull’uso politico del corpo,45 fa riferimento Massimo Stella nel suo saggio sul-

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l’Edoardo II di Christopher Marlowe. Attraverso la sua lettura, la violenza dello stupro del corpo del re nell’Edoardo II implica modalità violente delle relazioni di genere, che rivelano e rappresentano dinamiche di potere e di dominio. Lo scambio tra maschile e femminile, la forte polarizzazione politico-ideologica dei generi e la scandalosa risessuazione al femminile del corpo del re, disvela in Marlowe, nel contesto della rinnovata riflessione sulla sovranità in epoca tudoriana, una provocatoria volontà di demistificazione. Lo stupro subito da Edoardo riconduce il corpo del re dall’accezione divina alla sua realtà naturale, sottrae la sovranità alla politica e al tempo stesso rivela nel re e nel suo corpo il luogo di nascita della politica stessa. Lo stupro assume però, nella lettura di Stella, anche le caratteristiche di un rituale di trasformazione, forse ispirato alla metafora alchemica della uccisione/rigenerazione del re: il corpo del re decaduto lascia il posto al corpo di un re-figlio, che restaura la dignità regale e la linea di legittima discendenza. Rappresentazioni Nel ricco e fecondo campo di ricerca costituito dagli studi sulle rappresentazioni, un particolare percorso di indagine, arricchito di recente da numerosi contributi e discussioni, si incentra sul “corpo disciplinato”, prodotto dai processi di normazione tra Medio evo ed età moderna, cui si attribuisce un ruolo rilevante nella nascita dello Stato moderno e nel processo di civilizzazione. Nella «so cietà delle buone maniere»46 la disciplina dei corpi appariva come veicolo di elezione per l’educazione degli spiriti, a partire da un insegnamento che si nutriva della tradizione monastica non meno che della cultura cortese.47 Secondo questo filone di studi, dalla fine del Medioevo il controllo del corpo e il contenimento delle sue espressioni si sono fondati su una crescente interiorizzazione delle regole che ha reso meno necessari i rigori inflitti alla carne, le privazioni ma soprattutto gli atti esteriori e i rituali legati alla disciplina. La grande diffusione di testi volti a elaborare modelli e norme comportamentali, indica il rilievo di una pratica come la lettura tra tardo medioevo e prima età moderna. Tiziana Plebani nel saggio che appare in questo volume, ne ripercorre la storia secondo un’an-

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golatura nuova, quella dei “corpi in lettura”, 48 che indagati nelle diverse posture e nei differenti contesti del leggere, rivelano pratiche, simbologie, modelli diversi di lettura tra uomini e donne. Un canone radicato nella tradizione medievale, ha imposto a lungo come modello dominante la figura dell’intellettuale, dove leggere si configurava come una vera e propria disciplina, una pratica associata al logos e dunque di esclusiva pertinenza maschile, e di pochi uomini soltanto. Essa imponeva al corpo gesti e posture conformi allo studio e ne mortificava i bisogni e i piaceri: una lettura con la penna in mano, sottolinea Plebani, “regolata”, che si rispecchiava in percorsi nei generi testuali altrettanto canonici e alieni da curiosità e mozione dei sentimenti. Quello che ne emerge è un universo maschile e misogino, che contrasta con l’immagine ‘altra’ restitu ita dalla pratica femminile della lettura: espulsa dagli studi, e dalla dimensione produttiva finalizzata alla scrittura, questa non richiedeva nelle posture e nell’accesso ai testi la stessa rigorosa codificazione di quella maschile; accostata alla musica e alla danza, nelle donne la lettura muoveva semmai dal “diletto”, e come non richi edeva alcun controllo sul corpo, così si rivolgeva ai testi in modo più “disinvolto”, certo privo di rigore metodologico, e capace di dar luogo ad esiti difformi, talvolta trasgressivi. Una libertà insomma non originaria, semmai residuale, nel mondo del piacere e non del sapere, che affiora tuttavia nell’intimità di un gesto per sé, offerta dalle tante immagini di donne in lettura, fino al modello apparentemente più disciplinato, quello della Vergine Maria. Nel cristianesimo, avvertiva Michel De Certeau, il corpo è regno della polisemia, luogo in cui maschile e femminile non si identificano tout-court con la differenza sessuale, così che nutrimento, oralità, disseminazione, dicono del generarsi e del perdersi dei corpi: “l’eclissi del sesso”, lungi dall’abolirla, mette in opera una differenza tra una prassi femminile e una maschile.49 L’attenzione alla polisemia dei corpi ritorna in Carolyne Walker Bynum, che sapientemente ci ha insegnato a riconoscere nel corpo femminile l’affinità più radicale con il Dio incarnato, e a leggere nel corpo di Cristo, nella sua maternità, nell’assimilazione del suo sangue al latte materno, gli slittamenti di segno tra maschile e femminile,50 sottolineando l’inefficacia di categorie corporee sessuate rigide e incontaminate e la prevalenza degli scambi e delle relazioni plurime.

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Una figura che come poche altre ha accompagnato i mutamenti della percezione del corpo nella cultura religiosa, è quella di Maria Maddalena, la peccatrice raffigurata come simbolo della penitenza e della mortificazione, ma anche, nella letteratura mistica e spirituale della Controriforma, come l’amante, modello del desiderio e della dilezione di Dio, nel cui corpo l’iconografia recupera il valore della bellezza femminile. Silvana Bartoli in questo volume si sofferma su due diverse rappresentazioni di Maria Maddalena nel palazzo episcopale di Novara, un affresco trecentesco e una pala d’altare del XVI secolo, che trattano entrambe il tema dell’incontro tra Maria Maddalena e Gesù presso il sepolcro. La pala, nel riproporre il tema del Noli me tangere, ne offre tuttavia una versione innovativa rispetto alla tradizione testimoniata dall’affresco trecentesco, che avrà larga fortuna durante il Seicento: la mano di Gesù che sfiora la fronte di Maria Maddalena recupera, pur nella separazione, quella possibilità di unione che il rifiuto del contatto corporale nel Noli me tangere sembrava invece negare. Il corpo nella sua immagine di organismo composito ma al tempo stesso ordinato, è stato sovente usato come metafora del corpo politico. Si tratta di un terreno ricco di connessioni simboliche e di ripercussioni nell’immaginario popolare e collettivo, come hanno mostrato i lavori di Bloch e di Kantorowicz e come più recenti ricerche vanno approfondendo.51 Nel vivo del corpo come metafora politica e istituzionale, Luisa Accati segue, in questo volume, la trasformazione dell’immaginario operata dal potere ecclesiastico nel corpo di Maria, la Madre per eccellezza. Le immagini nella religione cristiana svolgono il compito di intermediarie autorevoli tra la gerarchia e i fedeli; in questa continuità di funzione, è ancora un momento di cambiamento quello su cui si sofferma Accati, il passaggio cioè che a metà Cinquecento anche tra i cattolici, come tra i protestanti, investe il modo di pensare l’incarnazione e di raffigurarla. L’ immagine ecclesiastica del materno e della concezione, quale si afferma nella Controriforma,52 sottrae il concepimento all’unione degli sposi e cancella il corpo del padre; nel corpo della Vergine, gravida nella mente di Dio dall’eternità e rappresentata come una adolescente abitata da un figlio eternamente nascituro, essa fonde insieme con il corpo della madre il corpo del figlio, in una relazione esclusiva, fonte di ambiguità e di laceranti dipendenze.

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La coppia madre-figlio riemerge in mutato contesto, sullo sfondo della prima guerra mondiale, nel diario di Käthe Kollwitz, al centro del saggio di Regina Schulte. Il figlio, caduto in guerra e offerto dalla madre alla patria, assume nel diario i tratti del Cristo crocifisso, ma Kollwitz ripete solo in parte i tratti della Mater Dolorosa, cerca invece identificazione in figure del Vecchio Testamento, e nella Madre Terra. Con la sua produzione artistica, avvertita come vocazione, Kollwitz tenta di dare espressione a questo percorso non lineare, segnato da fratture, nel quale Regina Schulte pone in luce il legame di Käthe Kollwitz con la propria madre, e il rilievo della relazione madre-figlia. Modelli del materno di matrice ottocentesca e modelli del maschile guerriero si intrecciano nei diari e nel percorso dell’artista, che riuscirà infine, infrangendo l’immaginario del materno, a giungere alla consapevolezza dell’impossibilità di rappresentare nel linguaggio artistico la morte del figlio, ponendo fine alla ripetizione rituale di questa morte. Al centro delle configurazioni discorsive, i corpi delle donne assunti come testi culturali consentono, osserva Enrica Capussotti, di raccontare non solo i modelli femminili sedimentati nell’immaginario collettivo, ma anche i desideri di libertà delle donne, i loro processi di formazione soggettiva, di costruzione di nuove immagini di sé. Nella “storia dei giovani” ancora in larga parte da scrivere,53 gli anni Cinquanta del Novecento hanno visto tra i soggetti storici emergenti le giovani donne, ed è a partire dagli anni Cinquanta, sostiene Capussotti, che è possibile individuare nel modo in cui esse si sono costruite e percepite, rotture significative. Per descrivere il percorso dei “piccoli passi” 54 compiuto allora dalle giovani donne, l’autrice ha scelto come fonte principale e luogo fondativo della nuova soggettività femminile nel secondo dopoguerra, il cinema. L’attenzione è rivolta ai modelli e ai conflitti intergenerazionali che i corpi di attrici come Sofia Loren e Gina Lollobrigida proponevano, e in modo diverso Silvana Mangano, Lucia Bosé, Elsa Martinelli e Lea Massari; ma anche allo sguardo, ai desideri, al nuovo stile che, attraverso personaggi come Guendalina, i film diffondevano. A partire dagli anni Cinquanta, l’età appare dunque come un nuovo e rilevante elemento nella costruzione identitaria, e come strumento di trasformazione, antecedente delle rotture degli anni Sessanta e Settanta.

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Le rappresentazioni che si incentrano sul corpo, sul colore della pelle, sulle abitudini alimentari, sul modo di vestire, osserva Vanessa Maher nel saggio che chiude il volume, esprimono spesso conflitti e divisioni tra gruppi sociali, tra etnie e culture differenti. In particolare, le nozioni di pulizia e sporcizia, così come elaborate dalla cultura europea nel corso degli ultimi due secoli, rappresentano con forte pregnanza simbolica i confini interni ed esterni dello stato-nazione, e definiscono come «materia fuori posto», second o un’espressione di Mary Douglas a cui Maher fa più volte riferimento nel corso delle sue riflessioni, individui e gruppi non pienamente integrati, o non appartenenti alla comunità nazionale. Il concetto di “cittadino” appare sempre più associato a una rapprese ntazione di pulizia, che si esprime nella cultura dell’igiene, nelle misure di sanità pubblica, nei servizi sociali; mentre nei paesi colonizzati, durante il Novecento, le politiche sanitarie di ispirazione europea costruiscono il “corpo colonizzato”. Rappresentazioni e tniche, nozioni di ordine e di disordine, e costruzioni di genere si intrecciano così nel corpo e a partire dal corpo. Se infatti nel simbolismo di pulizia e sporcizia sono riassunti emblematicamente i rapporti tra colonizzati e colonizzatori, e più in generali tra gruppi sociali caratterizzati da ineguaglianza e relazioni di dominio e subalternità, queste immagini assumono valenze diverse quando sono riferite ai generi; nelle donne, pulizia e sporcizia e i rituali ad esse connessi (rituali spesso gestiti da donne) alludono alla sfera della sessualità e della capacità di generare, e ancora una volta indicano nel corpo femminile uno dei luoghi più significativi nella tessitura delle relazioni di genere, e nelle pratiche di rafforzamento o di rottura della coesione di una comunità. Nella guerra recente dei Balcani, lo stupro di massa su donne e ragazze, nel soggiogarne i corpi mediante la violenza sessuale, le rendeva “sporche” e oggetto d i rifiuto. L’intento rispondeva a quella strategia di umiliazione e di annientamento di un popolo, che già Lucia Beltrami evocava nel suo saggio sulla iniuria muliebris: significativamente, il termine che venne usato nei Balcani per indicare questa pratica è quello di “pulizia etnica”, a indicare i risvolti distruttivi di un’immag ine tutt’altro che neutra e dominante nella cultura europea contemporanea.

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A conclusione di queste pagine, vogliamo ringraziare per la preziosa collaborazione in occasione del congresso di Venezia del febbraio 2000, le curatrici dei workshop da cui provengono i saggi contenuti in questo volume: Giorgia Alessi, Anna Beltrametti, Gisela Bock, Michela De Giorgio, Maria Clara Donato, Marina D’Amelia, Anna Rossi-Doria, Giovanna Fiume, Claudia Pancino, Margherita Pelaja. Nadia Maria Filippini, Tiziana Plebani, Anna Scattigno

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Note 1. G. Fiume, Introduzione a G. Fiume (a cura di), Madri. Storia di un ruolo sociale, Venezia, Marsilio, 1995, p. 9. 2. Si vedano in particolare: D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano, Feltrinelli, 1995 (ed. or. London, 1991); R. Braidotti, Madri, mostri, macchine, a cura di A.M. Crispino, Roma, Manifestolibri, 1996; M.L. Boccia, L’eclissi della madre. Fecondazione artificiale. Tecniche, fantasie e norme, Milano, Nuova pratiche Editrice, 1998. 3. A.M. Crispino, Introduzione, in Braidotti, Madri, p. 9. 4. Si ricordano in particolare i testi di A. Rich, Nato di donna. Cosa significhi per gli uomini essere nati da un corpo di donna, Milano, Garzanti, 1977 (ed. or. New York, 1976); L. Accati, V. Maher, G. Pomata (a cura di), Parto e maternità. Momenti della biografia femminile, in «Quaderni Storici», 44 (1980); S. Kitzinger, Donne come Madri. Gravidanza, parto, cure materne in un confronto tra culture diverse, Milano, Bompiani, 1980 (ed. or. London, 1978); F. Pizzini, Sulla scena del parto: luoghi, figure, pratiche, Milano, Franco Angeli, 1981; C. Pancino, Il bambino e l’acqua sporca. Storia dell’assistenza al parto da lle mammane alle ostetriche, Milano, Franco Angeli, 1984. 5. Come nei volumi di G. Bock, G. Nobili (a cura di), Il corpo delle donne, Ancona, Transeuropa, 1988, e di E. Shorter, Storia del corpo femminile, Milano, Feltrinelli, 1984 (ed. or. New York, 1982). 6. Si vedano i recenti studi sul corpo maschile e la sua differenza in H. Brod (a cura di), The Making of Masculinities, Boston, Allen & Unwin, 1987, i lavori di M. Roper e J. Tosh, Manful Assertion: Masculinities in Britain since 1800, London-New York, Routledge, 1991 (di John Tosh si può leggere in italiano Come dovrebbero affrontare la mascolinità gli storici, in S. Piccone Stella e C. Saraceno [a cura di], Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile, Bologna, Il Mulino, 1996), mentre già un numero di «Memoria», 27 (1989), intitolato per l’appunto, Uomini, iniziava a interrogarsi su quanto la diversità del corpo influenzasse la virilità e le idee di mascolinità. 7. Su questi aspetti T. Laqueur, L’identità sessuale dai Greci a Freud. Saggio sul corpo e il genere in Occidente, Roma-Bari, Laterza, 1992 (ed. or. Harvard, 1990); L. Schiebinger, The Mind as no Sex? Women in the Origin of Moderne Science, Harvard, Harvard University Press, 1989; Ead., Nature’s Body: Gender in the Making of Moderne Science, Boston, Beacon Press, 1993; M. Bettini (a cura di), Maschile/femminile. Genere e ruoli nelle culture antiche, Roma-Bari, Laterza, 1993. 8. M. Graziosi, Infirmitas sexus. La donna nell’immaginario penalistico, in «Democrazia e Diritto», 2 (1993), pp. 99-143. 9. Si veda su questo il recente volume di A. Arru (a cura di), Pater familias, Roma, Biblink editori, 2002. 10. Sulle appartenenze femminili in età moderna e contemporanea si vedano le considerazioni di M. Palazzi, R. Sarti e S. Soldani nell’Introduzione a Patrie e appartenenze, in «Genesis», I/1 (2002), pp. 9-22, con ampi riferimenti bibl iogra-

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fici. Si veda anche M. Palazzi, Donne sole. Storia dell’altra faccia dell’Italia fra antico regime e società contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, 1997. 11. Sul processo di disciplinamento e civilizzazione della prima età moderna, P. Prodi (a cura di), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 1994; sul versante femminile G. Zarri (a cura di), Donna, disciplina, creanza cristiana dal XV al XVII secolo. Studi e testi a stampa, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1996. Si veda inoltre di G. Alessi, Discipline. I nuovi orizzonti del disciplinamento sociale, in «Storica», 4 (1996), pp. 6-37, ma anche L’uso del diritto nei recenti percorsi della gender history, in «Storica», V/15 (1999), pp. 105-121. 12. A. Contini, La città regolata: polizia e amministrazione nella Firenze leopoldina (1777-1782), in Istituzioni e società in Toscana nell’età moderna. Atti delle giornate di studio dedicate a Giuseppe Pansini, Firenze, 4-5 dicembre 1992, Roma, Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali, 1994, vol. I, pp. 426-450. 13. G. Cazzetta, Praesumitur seducta. Onestà e consenso femminile nella cultura giuridica moderna, Milano, Giuffrè, 1999. 14. Sul matrimonio tridentino G. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2000; si veda inoltre D. Lombardi, Fidanzamenti e matrimoni dal concilio di Trento alle riforme settecentesche, in M. De Giorgio e C. Klapisch-Zuber (a cura di), Storia del matrimonio, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 215-250; T. Dean e K.J.P. Lowe (a cura di), Marriage in Italy 1300-1650, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1998. 15. G. Alessi, Processo per seduzione. Piacere e castigo nella Toscana Leopoldina, Catania, PME, 1988; L. Ferrante, Il matrimonio disciplinato: processi matrimoniali a Bologna nel Cinquecento, in Prodi, Disciplina dell’anima, pp. 901-927. S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), Coniugi nemici. La separazione in Italia dal XII al XVIII secolo, Bologna, il Mulino, 2000; D. Lombardi, Matrimoni di antico regime, Bologna, Il Mulino, 2001; S. Seidel Menchi e D. Quaglioni (a cura di), Matrimoni in dubbio: unioni controverse e nozze clandestine in Italia dal XIV al XVIII secolo, Bologna, Il Mulino, 2001. 16. Su questo G. Calvi, Il contratto morale. Madri e figli nella Toscana moderna, Roma-Bari, Laterza, 1994; M. Pelaja, Matrimonio e sessualità a Roma nell’Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1994, e Ead., Scandali. Sessualità e violenza nella Roma dell’Ottocento, Roma, Biblink, 2001; G. Alessi, L’uso del diritto nei recenti percorsi della gender history, in «Storica», 15 (1999), pp. 105-121. 17. G. Bock, Zwangssterilisation im Nationalsozialismus: Studien zur Rassenpolitik und Frauenpolitik, Opladen, Westdeutscher Verlag, 1986; Il nazionalsocialismo: politiche di genere e vita delle donne, in G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne. Il Novecento, a cura di F. Thébaud, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 176-212. 18. Laqueur, L’identità sessuale. 19. F. Héritier-Augé, La costruzione dell’essere sessuato, la costruzione sociale del genere e le ambiguità dell’identità sessuale, in Bettini (a cura di), Maschile/femminile, p. 138. 20. Cfr. J. Gélis, L’arbre et le fruit. La naissance dans l’Occident moderne, XVIe-XIXe siècle, Paris, Fayard, 1984, e Id., La sage-femme ou le médecin. Une

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nouvelle conception de la vie, Paris, Fayard, 1988; M. Laget, Naissance. L’accouchement avant l’âge de la clinique, Paris, Seuil, 1982; Le culture del parto, Milano, Feltrinelli, 1985; M. D’Amelia (a cura di), Storia della maternità, Roma-Bari, Laterza, 1997; M. Bettini, Nascere. Storie di donne, donnole, madri ed eroi, Torino, Einaudi, 1998; J. Schlumbohm, B. Duden, J. Gélis, P. Veit (a cura di), Rituale der Geburt. Eine Kulturgeschichte, München, Verlag C.H. Beck, 1998; P. Ariès, Storia della morte in Occidente dal Medioevo ai nostri giorni, Milano, Rizzoli, 1978, (ed. or. Paris, 1975), e Id., L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, BariRoma, Laterza, 1985 (ed. or. Paris, 1977); M. Vovelle, La morte e l’Occidente. Dal 1300 ai giorni nostri, Roma-Bari, Laterza, 1986 (ed. or. Paris, 1983); C. Pancino (a cura di), Corpi. Storia, metafore, rappresentazioni fra Medioevo ed età contemporanea, Venezia, Marsilio, 2000. 21. Laqueur, L’identità sessuale. 22. Laqueur, L’identità sessuale; Schiebinger, The Mind, e Nature’s Body. 23. C. Merchant, La morte della natura. Donne, ideologia e Rivoluzione scientifica: Dalla Natura come organismo alla Natura come macchina, Milano, Garzanti, 1988 (ed. or. S. Francisco, 1980). 24. Si vedano ad esempio le analisi di A. Cavarero, Dire la nascita, in Diotima. Mettere al mondo il mondo. Oggetto e oggettività alla luce della differenza sessuale, Milano, La Tartaruga, 1990, 1995; J. Rothschild (a cura di), Donne, tecnologia, scienza. Un percorso al femminile attraverso mito, storia, antropologia, Torino, Rosenberg, 1986; E. Fox Keller, Sul genere e la scienza, Milano, Garzanti, 1987 (ed. or. New Haven, 1985), Boccia, Zuffa, L’eclissi; E. Donini, La nube e il limite. donne, scienza, percorsi nel tempo, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990; B. Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita, Torino, Bollati-Boringhieri, 1994 (ed. or. Hamburg-Zürigh, 1991). 25. Indispensabile riferimento sono i lavori di C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, Milano, Il Saggiatore, 1966 (ed. or. Paris, 1964), e Le origini delle buone maniere a tavola, Milano, Il Saggiatore, 1966 (ed. or. Paris, 1964); per l’Italia si ricordano gli originali studi di P. Camporesi, Le officine dei sensi, Milano, Bollati Boringhieri, 1985; un’ampia panoramica dei vari approcci in J.-L. Flandrin e M. Montanari (a cura di), Storia dell’alimentazione, Roma-Bari, Laterza, 1996. 26. Studi inaugurati da G. Vigarello, Lo sporco e il pulito, Venezia, Marsilio 1987 (ed. or. Paris, 1985). 27. Sul complesso rapporto del corpo con gli odori e la loro percezione nella storia si veda A. Corbin, Storia sociale degli odori. XVIII-XIX secolo, Milano, Mondadori, 1983 (ed. or. Paris, 1982). 28. Sui diversi significati, le simbologie e le connotazioni sociali e di genere implicati nella moda e nell’abbigliamento D. Roche, I Linguaggi della moda, Torino, Einaudi, 1991 (ed. or. Paris, 1989). 29. Insostituibile opera di riferimento, che ha aperto un ricco filone di studi, è C. Schmitt, Il gesto nel Medioevo, Roma-Bari, 1990 (ed. or. Paris, 1990). 30. Sulle implicazioni di disciplina e controllo del corpo G. Bonetta, Corpo e nazione: l’educazione ginnastica, igienica e sessuale nell’Ital ia liberale, Milano, Franco Angeli, 1990.

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31. Della vasta opera dell’autore si segnala in particolare M. Foucault, L’uso dei piaceri, Milano, Feltrinelli, 1984 (ed. or. Paris, 1984). 32. In particolare si vedano M. Douglas, Purezza e pericolo: un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, Bologna, Il Mulino, 1975 (ed. or. London-New York, 1966), Ead., I simboli naturali. Esplorazioni in cosmologia, Torino, Einaudi, 1979 (ed. or. London, 1970). 33. La capacità di scardinare le gerarchie materia/spirito, colto/popolare è al centro del lavoro di M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, 1979 (ed. or. 1967). 34. L’opera in questo ambito più rilevante è L. Irigaray, L’etica della differenza sessuale, Milano, Feltrinelli, 1985 (ed. or. Paris, 1985). 35. Fondamentale riferimento è lo studio di P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani, Torino, Einaudi, 1992 (ed. or. New York, 1988); rilevante di J. Boswell, Cristianesimo, tolleranza, omossessualità. La chiesa e gli omosessuali dalle origini al XIV secolo, Milano, Leonardo, 1989 (ed. or. Chicago, 1980). 36. Campo di studi inaugurato dalla pioneristica opera di M. Mead, Maschio e femmina, Milano, Il Saggiatore, 1962 (ed. or. New York, 1949), per giungere poi ai recenti contributi di N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, Roma-Bari, 1991 (ed. or. Paris, 1990), e P. DuBois, Il corpo come metafora: rappresentazioni della donna nella Grecia antica, Roma-Bari, Laterza, 1990 (ed. or. LondonChicago, 1988); G. Sissa, La verginità in Grecia, Roma-Bari, Laterza, 1992, (ed. or. Paris, 1987) e Bettini (a cura di), Maschile/femminile. 37. Sui rituali civici e i cerimoniali cfr. E. Muir, Ritual in early modern Europe, Cambridge, Cambridge Press, 1997. 38. R.W. Henshaw, Female and Male. The Cultic Personnel, the Bible and the Rest of Ancient Near East, Allison Park, PA, Picwick, 1994. 39. H.J. Kraus, Worship in Israel, Oxford, Basic Blackwell, 1966 (ed. or. München, 1962). 40. R. Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1980 (ed. or. Paris, 1972). 41. J. Bremmer, Scapegoat Rituals in Ancient Greece, in «Harvard Studies in Classical Philology», 87 (1983), pp. 299-320; L. Gernet, Antropologia della Grecia antica, Milano, Mondadori, 1983 (ed. or. Paris, 1968). 42. L. Beltrami, Il sangue degli antenati. Stirpe, adulterio e figli senza padre nella cultura romana, Bari, Edipuglia, 1998. 43. E. Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea della regalità nella teologia politica medievale, Torino, Einaudi, 1989 (ed. or. Princeton, 1957). 44. K. Millet, La politica del sesso, Milano, Rizzoli, 1971 (ed. or. New York, 1970). 45. L. Irigaray, Questo sesso che non è un sesso, Milano, Feltrinelli, 1990 (ed. or. Paris, 1977). 46. Si rinvia al noto lavoro di N. Elias, La civiltà delle buone maniere, Bologna, Il Mulino, 1983 (ed. or. Frankfurt am Main, 1980). 47. Oltre al già ricordato volume curato da Prodi, Disciplina dell’anima, si

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vedano il saggio di G. Pozzi, Occhi bassi, in Thematologie des Kleinen. Petits thèmes littéraires, Fribourg, Editions Universitaires, 1986; per la discussione sulle origini del processo di civilizzazione, D. Knox, Disciplina. The Monastic and Clerical Origins of the European Civility, in J. Monfasani e R.G. Musto (a cura di), Renaissance Society and Culture. Essays in Honor of Eugene F. Rice Jr., New York, Itacha Press, 1991, pp. 107-135 (tr. it. “Disciplina”. Le origini monastiche e clericali della civiltà delle buone maniere in Europa, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», XVIII (1992), pp. 335-370); P. Schiera, Disciplina, disciplinamento, ibidem, pp. 315-334; D. Romagnoli (a cura di), La città e la corte. Buone e cattive maniere tra Medioevo ed Età Moderna, Milano, Guerini, 1991; per i modelli comportamentali proposti o imposti alle donne nella prima età moderna, si rimanda al già citato volume curato da Zarri, Donna, disciplina, creanza cristiana. 48. Sul rapporto tra posture corporee, rappresentazioni e lettura T. Plebani, Il “genere” dei libri. Storie e rappresentazioni della lettura al femminile e al maschile tra Medioevo ed età moderna, Milano, Franco Angeli, 2001. 49. M. De Certeau, Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 85 (ed. or. Paris, 1982). 50. C. Walker Bynum, Sacro convivio, sacro digiuno: il significato religioso del cibo per le donne del Medioevo, Milano, Feltrinelli, 2001 (ed. or. Berkeley, 1987); Ead., Fragmentation and Redemption: Essays on Gender and the Human Body in medieval Religion, New York, Zone Books, 1991. Sul “femminile” di Dio si veda anche M. Daly, Al di là di Dio Padre. Verso una filosofia della liberazione delle donne, Roma, Editori riuniti, 1990 (ed. or. London, 1986). 51. M. Bloch, I re taumaturghi, Torino, Einaudi, 1973 (ed. or. Paris, 1953); Kantorowicz, I due corpi; S. Bertelli, Il corpo del re. Sacralità del potere nell’Europa medievale e moderna, Firenze, Ponte alle Grazie, 1990; A. Paravicini Bagliani, Il corpo del papa, Torino, Einaudi, 1994; Bynum, Fragmentation and redemption; A. Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, Milano, Feltrinelli, 1995; Zarri, Recinti. 52. L. Accati, Il mostro e la bella. Padre e madre nell’educazione cattolica dei sentimenti, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1998. 53. J.R. Gillis, I giovani e la storia, Milano, Mondadori, 1981 (ed. or. Weinheim, 1983); M. Mitterauer, I giovani in Europa dal Medioevo ad oggi, RomaBari, Laterza, 1991 (ed. or. Frankfurt am Main, 1986); G. Levi e J.C. Schmitt (a cura di), Storia dei giovani, Roma-Bari, Laterza, 1994. 54. S. Piccone Stella, La prima generazione. Ragazze e ragazzi nel miracolo italiano, Milano, Franco Angeli, 1993.

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In quanto strumento della riproduzione, il corpo delle donne è al centro dei sistemi di parentela e dei poteri. È nel diritto la posta in gioco. Di qui il senso della parola d’ordine delle donne americane ed europee nelle lotte degli anni Settanta: «our body, ourselves» (“il nostro corpo, noi stesse”). La definizione della donna come persona autonoma, come individuo libero, passa attraverso la libera disponibilità del proprio corpo e, in particolare, attraverso la libertà di contraccezione che scardina il matrimonio, la famiglia e lo Stato. Libertà acquisita a caro prezzo, resa possibile dai progressi scientifici e, probabilmente, anche dalle prospettive demografiche favorevoli alla regolamentazione delle nascite. Libertà che, conquistata in modo quanto mai disuguale nel mondo, suscita sempre resistenze e violenze a causa delle implicazioni simboliche che presuppone. Per un certo predominio maschile questa libertà delle donne è intollerabile. È una forma di rivoluzione. Rivoluzione dei costumi, ma anche rivoluzione del diritto. Affronterò tre punti in successione: 1. Il corpo dominato, nella famiglia, nello Stato e dal diritto. 2. Il corpo protetto, dalla giustizia, che raramente criminalizza le donne ed evita di incarcerarle; nel mondo del lavoro, mediante la protezione concessa alle madri e alle future madri. Vorrei indicare le ambiguità di questa protezione molto selettiva, che si arresta sulle soglie del privato ed esita a punire lo stupro. 3. Il corpo liberato? La conquista della libertà di contraccezione e dell’interruzione volontaria di gravidanza, poi del riconoscimento dello stupro e delle molestie sessuali come offese alla dignità e al-

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l’integrità del corpo, è al centro delle lotte delle donne negli ultimi trent’anni. La conquista di un habeas corpus è la posta in gioco della loro libertà e della loro modernità. Tenterò, utilizzando prevalentemente l’esperienza occidentale e più specificamente francese, di cogliere la funzione del diritto. Il diritto come sistema di predominio, del quale il codice civile napoleonico, imitato in tutta Europa, è un esempio compiuto. Il diritto come strumento di regolamentazione per gli stati che, per incentivare la natalità, tutelano eventualmente la madre (con i congedi di maternità, il divieto di certi lavori o l’attribuzione di assegni familiari), ma le vietano, per un lunghissimo periodo, qualunque ricorso alla contraccezione. Il diritto che, in quanto affermazione simbolica del patriarcato, è stato così a lungo precluso alle donne. In Francia, la prima donna a diventare avvocata sarà Jeanne Chauvin, solo nel 1895. E l’accesso delle donne alla magistratura risale al 1946, dopo la Liberazione. Per questo mi sembra così importante la riflessione femminista sul diritto. Il corpo dominato ed espropriato Il corpo delle donne è anzitutto strumento di riproduzione e, a questo titolo, ambito e dominato. Per suo tramite si trasmette la vita. Di qui l’importanza di organizzarne la circolazione. Claude LéviStrauss ha dimostrato come le strutture elementari della parentela si fondino sullo “scambio dei beni, scambio delle donne”, regolato da pratiche consuetudinarie delle quali ha descritto tutta la sottigliezza. Il diritto romano – grande fonte giuridica occidentale – è il primo ad elevare a norma giuridica la differenza dei sessi, stabilendo con ciò una radicale differenza di statuto tra uomini e donne e, soprattutto, tra padri e madri. Il personaggio centrale è il pater familias, che diviene tale solo alla morte del proprio padre. La trasmissione avviene unicamente per linea paterna. Le donne sono completamente estranee all’ordine successorio, la madre non trasmette nulla, non ha patria potestas, non ha discendenti, né diritto di adozione, né tutela sui figli minori. «La donna è l’inizio e la fine della propria famiglia», afferma un giurista romano. La donna è solo un corpo che riceve il seme e fabbrica figli che non le appartengono. È giuridicamente incapace. Da ciò consegue la sua necessità di essere protetta. A mag-

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gior ragione essa è incapace di rappresentare altri. Nel diritto pubblico come nel diritto privato cittadinanza e maschilità si confondono. Ora, il diritto romano è una delle fonti del nostro diritto. I rivoluzionari francesi, come i redattori del codice civile, si riferiscono al pater familias, garante della famiglia e dell’ordine pubblico.1 Il sistema feudale fa del matrimonio una preoccupazione centrale per i nobili e per la Chiesa, che si sforza di controllarlo facendone un sacramento che richiede mutuo consenso, compreso quello delle donne: riconoscimento non trascurabile della loro individualità. Ma nei fatti questo consenso è ampiamente presupposto o estorto, come ha dimostrato Georges Duby.2 Frutto di calcoli e patteggiamenti, il matrimonio è un’alleanza per mezzo della quale circolano il sangue, il rango, il nome e i beni. Solo il primogenito assicura la continuità del lignaggio. Le figlie sono moneta di scambio nelle mani del padre o dei fratelli. La Rivoluzione francese, che nega alle donne qualsiasi diritto politico, riconosce loro tuttavia alcuni diritti civili: l’uguaglianza nell’eredità, il diritto al divorzio, compreso quello per mutuo consenso, giacché il matrimonio è ormai un semplice contratto civile. D’altronde, migliaia di donne, appartenenti in prevalenza all’artigianato e al commercio, si affrettano a richiederlo. Ma il codice napoleonico (1801) ristabilisce un ordine familiare molto patriarcale, fondato sul potere assoluto del padre sulla moglie e i figli. Egli trasmette il nome, amministra a piacer suo il patrimonio familiare in assenza di un contratto matrimoniale (regime cosiddetto di comunione dei beni, il caso più frequente nella Francia dell’Ottocento), decide in merito al domicilio coniugale, all’educazione e al matrimonio dei figli, e soprattutto delle figlie. L’adulterio del marito è tollerato purché non sia ostentato tra le pareti domestiche; quello della donna è passibile di tribunale e carcere. Il marito ha diritto di sorveglianza sulle frequentazioni della moglie e sulla sua corrispondenza, che può aprire e leggere qualora nutra dei sospetti. Ha anche il diritto di correggerla, ossia di picchiarla, e i vicini chiudono gli occhi sulla violenza del padre, intervenendo solo in casi estremi.3 Perciò, con il matrimonio, chiave di volta del sistema, la donna cessa di essere un soggetto di diritto (come può essere la figlia maggiorenne, la nubile non sposata), per diventare membro di una famiglia che le detta il suo destino. Essa perde il nome, i beni, l’autonomia. Perde la proprietà del proprio corpo, che appartiene al marito, al quale nel giorno

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del matrimonio giura obbedienza e fedeltà in cambio della sua protezione. Questi prende possesso del suo corpo, in una notte nuziale durante la quale deve dare prova della propria virilità: “prendere” la moglie, come una fortezza, “possederla” come una terra, inseminarla, se lo vuole. Con il coitus interruptus, quel peccato di Onan riprovato dalla Chiesa, è eventualmente autorizzato a controllare la propria discendenza (e la demografia attesta che in Francia fu pratica corrente fin dal Seicento). Può pretendere dalla moglie il “dovere coniugale” e prenderla con la forza se si sottrae. Lo “stupro coniugale” è stato riconosciuto in Francia solo da una legge del 1980. Se lei lo tradisce, è per lui quasi un dovere vendicare il proprio onore. La società rurale lo approva. Anche nell’Ottocento, allorché un tale delitto viene perseguito, i tribunali danno prova della massima indulgenza per i mariti omicidi nel caso di delitti cosiddetti “passionali”. L’accertamento della passione equivale all’assoluzione.4 La donna ha anche il dovere di procreare. Vergogna per le donne sterili, che un sovrano può ripudiare (come Napoleone con Joséphine) e un marito abbandonare per mettere alla prova altrove la propria fertilità. Fino alla metà del Novecento, è infatti ammesso che la sterilità possa dipendere solamente dalle donne.5 Onore delle donne, la maternità è anche il loro dovere, sempre più ossessivo in quanto sorvegliato dai medici e, ben presto, dallo Stato e dalla Chiesa. I medici diventano, dal Settecento in poi, i protettori e gli istruttori del corpo delle donne. Gli ostetrici sostituiscono le levatrici e i progressi dell’ostetricia salvano molte madri e molti figli, ma instaurano al tempo stesso un diritto di controllo sul seno e sul ventre delle donne. Esse devono nutrire; il latte materno, salvezza dei neonati decimati dal ricorso alle balie mercenarie, diventa l’elisir della nazione e l’allattamento un compito metodico e patriottico. Esse devono procreare e i medici sono i primi a denunciare le levatrici “fabbricanti di angeli”, complici delle donne desiderose di abortire. Il dottor Jacques Bertillon vede nella generalizzazione dell’aborto la principale causa de Lo spopolamento della Francia (titolo di un suo libro del 1911) ed esorta lo Stato a perseguire i neomalthusiani, propagandisti di una moderna contraccezione: «Donna, impara a essere madre solo se lo vuoi», dicono i volantini che costoro distribuiscono all’uscita delle fabbriche. E vengono arrestati e condannati per aver lottato in favore di questa intollerabile libertà.6

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I medici e i demografi sono perciò all’origine dell’irrigidimento dello Stato e delle leggi repressive del 1920 e 1923, che proibiscono qualunque propaganda contraccettiva, perfino qualunque educazione sessuale e rafforzano la repressione dell’aborto classificandolo come reato correzionale (i giudici sono infatti più severi delle giurie troppo indulgenti delle corti d’assise).7 La diminuzione della natalità fa della nascita un affare dello Stato. Esso elabora una legislazione repressiva e una forte politica d’incoraggiamento mediante gli assegni familiari, che ha tra i suoi risultati il baby boom. Queste politiche favoriscono costantemente la madre a scapito della donna attiva. Fino a tempi recentissimi, il lavoro salariato delle donne è sempre stato considerato secondario e complementare. I regimi totalitari del Novecento – fascismo, nazismo, regime di Vichy – radicalizzano, in vario grado, questa strumentalizzazione del corpo delle donne, che nei lebensraum nazisti è posto al servizio della selezione razziale.8 Il corpo della donna non appartiene solo alla famiglia, ma alla nazione, addirittura alla razza, e il biopotere9 si esercita sul corpo dominato della madre. L’atteggiamento della Chiesa è diverso. Essa può anche opporsi allo Stato poiché è ostile a qualunque intervento umano sulla generazione. Essa si oppone, per esempio, alla selezione nazista, ma anche a qualunque pratica anticoncezionale cosiddetta non naturale. A questo titolo, essa è stata e rimane in Europa la principale forza di opposizione all’aborto (si veda il caso dell’odierna Germania).10 Lo Stato e la Chiesa possono differire, la legge e la fede possono essere in contrapposizione, nondimeno entrambi difendono prioritariamente la subordinazione della donna ai propri doveri di madre, sua principale funzione a questo mondo e coronamento di quello “stato di sposa” che le garantisce sicurezza, rispettabilità e legittimità e che soltanto il matrimonio può tradizionalmente dischiuderle.11 Infatti la donna, al di fuori del matrimonio, non per questo è libera; è anzi in pericolo. Di qui il rifugio che alcune cercano nei conventi. In nome di una sessualità sedicente irreprimibile, gli uomini rivendicano una specie di diritto di libero accesso al sesso delle donne. Certo, lo ius primae noctis, secondo il quale il signore avrebbe avuto diritto alla deflorazione delle giovani spose del proprio feudo, sembra essere una costruzione mitica posteriore. Probabilmente non è mai esistito in

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quanto diritto realmente riconosciuto. L’espressione tradisce nondimeno la convinzione, condivisa da un gran numero di uomini, circa la legittimità di soddisfare i propri desideri sulle ragazze non tutelate.12 Guai alle nubili, alle ragazze reputate “leggere”, a quelle che osano circolare di sera, sfidando l’ordine virile della notte. Esse rischiano di venire molestate, immobilizzate, addirittura stuprate. “Farsi una ragazza” è una forma d’iniziazione collettiva delle bande giovanili, nel Medioevo e oltre. Le più minacciate sono le ragazze più socialmente vulnerabili: le domestiche delle campagne, così esposte nella promiscuità delle camere comuni; le serve di città, quelle “servette” collocate dalle famiglie, che il padrone e i suoi figli considerano un normale prodotto di consumo. Ne risultano numerose nascite indesiderate, delle quali le ragazze sedotte si sbarazzano con l’infanticidio, reato che nel corso dell’Ottocento la legge punisce sempre più severamente, pur chiudendo le ruote (congegni girevoli installati alla porta di certi conventi per consentire di deporvi i neonati) che rendono possibile l’abbandono. Poiché il codice civile ha abolito il diritto di ricerca di paternità esistente sotto l’ancien régime, il quale imponeva al seduttore di sposare la propria conquista, le ragazze sole sono sempre più esposte alla violenza sessuale.13 Per quanto riguarda le prostitute, il loro corpo non è protetto, ma controllato per ragioni di salute pubblica (diffusione delle malattie sessualmente trasmissibili, in particolare la sifilide; oggi l’AIDS). Nell’Ottocento la prostituzione non è un reato: è regolamentata secondo i princìpi stabiliti dal dottor Parent-Duchâtelet e imitati in tutta Europa.14 Le prostitute dipendono dai bordelli autorizzati: le case chiuse. Vengono registrate, schedate e sottoposte a regolari visite mediche. La buoncostume dà la caccia alle clandestine sprovviste di documenti; le arresta e le costringe a controlli sanitari in appositi ospedali prigione come, a Parigi, il carcere Saint-Lazare, roccaforte di una protesta femminile che denuncia l’impunità dei clienti e soprattutto dei protettori, che fanno commercio del corpo delle donne. Le femministe sono in maggioranza abolizioniste e guidano azioni contro i bordelli. In Francia, con il favore della Liberazione, Marthe Richard ne ottiene la chiusura nel 1946; altrettanto fa in Italia Angela Merlin nel 1958. Prevale allora il libero mercato. Per questo oggi, adducendo il ruolo della prostituzione nella diffusione dell’AIDS, certi paesi (Olanda, Germania) propongono un ritorno alla regolamenta-

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zione. Sono in gioco importanti interessi finanziari, poiché la prostituzione, fonte di rilevanti guadagni, serve anche a riciclare molto “denaro sporco”. Quali che ne siano le manifestazioni, la prostituzione rappresenta una forma estrema di espropriazione del corpo e del sesso delle donne, con un quasi tacito accordo tra clienti, protettori e Stato; talvolta anche in nome della libertà, da parte delle donne, di vendere il proprio corpo. Si dimentica o si omette così di dire quali ingranaggi di violenza e potere sottintenda questa presunta libertà. Questo il cupo scenario del diritto. Per fortuna gli anelli della catena erano deboli; la realtà quotidiana poteva essere più mite e le donne sapevano sfruttarne le incrinature per sviluppare il proprio contropotere e insinuarvi la propria libertà, per affermare un giorno i diritti del loro corpo. Il corpo protetto Le donne hanno con il diritto, come con la giustizia incaricata di farlo applicare, un rapporto molto esterno. Non partecipano alla sua elaborazione, che è compito del legislatore maschio. Ora, questi ha una politica molto selettiva per quanto riguarda la tutela del corpo delle donne. Queste non possono innanzitutto ricorrere alla giustizia. In Francia una donna sposata non può presentarsi in giudizio (presentare una denuncia, avviare un’azione giudiziaria) senza l’autorizzazione del marito prima del 1942, data strana, che s’inserisce tuttavia nel paternalismo del regime di Vichy e nell’assenza dei mariti prigionieri. Questa situazione di profonda disuguaglianza interferisce in vario modo con il corpo delle donne: – nell’asimmetria che caratterizza il trattamento penale e penitenziario dei due sessi; – nella difficoltà di far riconoscere come reati e delitti gli abusi sessuali concernenti le donne, in particolare lo stupro; – nel fatto che è appunto in nome della maternità che viene abbozzata una protezione della donna che lavora, protezione che le femministe hanno contestato, in quanto rafforza la disuguaglianza professionale delle donne. Tratterò brevemente questi tre punti, che meriterebbero di essere maggiormente sviluppati per il loro carattere problematico.

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Statisticamente, la giustizia sembra punire gli uomini e risparmiare le donne. Questa disparità di trattamento è generale e antica, ma si è accentuata nell’Ottocento e nel Novecento. Secondo un recente rapporto, in Francia le donne rappresentano, nel periodo 19931995, il 14% degli individui indiziati, il 13% degli imputati, 1’11% dei condannati e il 4% degli incarcerati. I filtri successivi eliminano le donne come se vi fosse una certa ripugnanza a trattenerle. Perciò polizia, giustizia e carcere amministrano le illegalità maschili. La ragioni di questa misteriosa “indulgenza” sono molteplici. Ne possiamo menzionare alcune: in primo luogo, la minore presenza e la minore violenza delle donne in ambito pubblico, l’unico che le autorità intendono gestire; lo statuto stesso delle donne, considerate, perlomeno nell’Ottocento, irresponsabili e pertanto non punibili (come dice Michelet); l’esitazione dei giudici a perseguire, condannare e incarcerare una donna in virtù del suo ruolo materno e domestico, addirittura la loro angoscia all’idea di condannare a morte una donna che potrebbe essere incinta. Nel 1901 una legge proibisce una tale pena per le donne infanticide, quelle prese più spesso di mira. Nessuna donna è stata ghigliottinata tra il 1903 e il 1943. Ciò non impedisce un discorso fantasmatico sulla donna criminale, nella quale Lombroso e Ferrero riconoscerebbero volentieri una donna isterica.15 Assassine e soprattutto cattive madri occupavano le cronache della grande stampa. Globalmente però le donne sono sottratte alla legge, in nome della loro stessa femminilità: al di fuori del diritto, in un certo modo. Di conseguenza, viene a essere rafforzato e giustificato il ruolo di giustiziere del padre, all’interno di un privato familiare segreto e sottratto all’intervento pubblico. Tra il Giudice e il Padre esiste insomma una divisione dei compiti e degli ambiti, e una complementarità delle funzioni. La donna non è soggetto di diritto. È soggetto di famiglia.16 Gli abusi sessuali sono oggetto di una protezione molto selettiva. La famiglia rimane una fortezza nella quale difficilmente la giustizia penetra. Il pubblico oltraggio al pudore viene perseguito; molto meno la violenza intrafamiliare. Tuttavia, in virtù di leggi più precise (legge del 1832 che riconosce il reato di pedofilia, legge del 1863 che criminalizza l’incesto), vengono repressi più energicamente gli abusi sessuali sui minori, che risultano essere in mag-

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gioranza bambine.17 La deflorazione delle ragazze viene presa sul serio, in proporzione alla crescente importanza assegnata alla loro verginità. Spinto dalla madre, più spesso confidente e testimone, il padre presenta più facilmente denuncia. Viceversa, lo stupro di una donna adulta rimane difficile da dimostrare. Ha la possibilità di venire riconosciuto solamente in due casi: nel caso di penetrazione attestata dalla rottura dell’imene, accertata da perizie di medici legali che, sempre più, scrutano la vagina delle donne; nel caso di stupro di gruppo. Si ritiene infatti che sia impossibile per un uomo solo violentare una donna, se davvero questa oppone resistenza. Spetta alla donna fornire, con le sue ferite, la prova della propria resistenza e della mancanza di quel consenso che si è sempre pronti a sospettare.18 Pertanto è la donna adulta quella meno protetta dalla legge. La nubile è sospetta per definizione: non potrebbe essere stata lei a cercare di sedurre? La donna sposata è presunta essere difesa dal suo “stato di sposa”, che la metterebbe fuori dal gioco del desiderio. La sua parola non viene ascoltata e di conseguenza essa si astiene dal presentare denuncia per paura della riprovazione e del disonore. Oltre al fatto di dover parlare della propria intimità, essa è costretta a consegnare il proprio corpo a una perizia ginecologica così umiliante. Meglio tacere. Il silenzio avvolge il corpo delle donne così come ricopre la loro storia. Quanto alla protezione della donna, numerosi lavori recenti (Gisela Bock, Pat Thane, Anne Cova ecc.19) hanno dimostrato come, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, lo Stato paternalista abbia esteso la propria sollecitudine al corpo delle donne lavoratrici, in nome della loro femminilità. Certi lavori o ambienti vengono loro vietati, non senza inconvenienti che sollevano proteste. Così il divieto del lavoro sotterraneo le fa scomparire dal fondo della miniera per relegarle alla cernita di superficie, meno remunerativa. Quello del lavoro notturno preclude loro gli stabilimenti a ciclo continuo della grande industria. La limitazione della giornata lavorativa delle donne (in Francia, legge del 1892) porta alla loro eliminazione da numerose fabbriche: contro questa legge, al Nord esse scendono in sciopero. Nello stesso periodo nulla si oppone alle veglie nei laboratori di cucito o alle interminabili giornate di lavoro a domicilio, che in modo ben più certo distruggono la loro salute. Infine, presto o tardi a seconda dei paesi, lo Stato e quindi il padronato introducono i con-

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gedi di maternità a protezione delle donne partorienti. Misure certamente necessarie ma volte più alla salute dei figli che all’attività della madre, non sempre ne favoriscono il ritorno al posto di lavoro. Allo stesso modo, le successive politiche di assegni familiari mireranno, per molto tempo, a rimandare a casa le donne. Simili misure, che ancorano le donne al loro specifico, non ne favoriscono l’uguaglianza professionale e salariale. Per questo le femministe ne denunciano fin da quegli anni il carattere conservatore. Il corpo liberato? Per molto tempo, e soprattutto nell’Ottocento, il corpo delle donne è rimasto al di fuori del diritto poiché erano state abolite le antiche forme di protezione, come il diritto di ricerca di paternità. Esse non sono considerate come degli individui. Tuttavia, la proprietà di sé comincia da quella del corpo. Essa è il fondamento dell’autonomia e della libertà. Sarà questa proprietà – questo habeas corpus – che le donne e le femministe si sforzeranno di ottenere e conquistare effettivamente.20 Quando e come? Fino a che punto? È quanto ci rimane da esaminare. La protesta delle donne contro le iniquità del codice civile è stata precoce e appassionata. Essa è centrale in particolare nelle saintsimoniane come Claire Démar, che in Ma loi d’avenir (1832) esalta il libero amore.21 Esse reclamano anzitutto la reintroduzione del divorzio, soppresso nel 1816 dalla Restaurazione cattolica. Presentano petizioni su questo tema. George Sand, nei suoi primi romanzi femministi – Indiana, Lélia – che sono dei best-seller, denuncia la schiavitù delle donne, suggellata dal matrimonio. Per lei, i diritti civili sono l’indispensabile preliminare dei diritti politici, poiché sono alla base dell’individualità necessaria alla cittadinanza. Per questo nel 1848 George Sand non si assocerà alla rivendicazione del diritto di voto per le donne auspicata dalle femministe.22 Il diritto di divorzio, ottenuto in Inghilterra nel 1857 (caso Caroline Norton), sarà conquistato in Francia nel 1884 grazie ai radicali, favorevoli alla laicità dello Stato (legge Naquet).23 Nonostante un femminismo molto attento ai diritti civili, del quale si fanno paladine nuove figure di avvocate (Jeanne Chauvin, Maria Vérone,

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Yvonne Netter ecc.24) le riforme sono lentissime: 1907, diritto delle donne sposate di percepire il proprio salario; 1912, timido riconoscimento della ricerca di paternità; 1938, diritto delle donne di presentarsi in giudizio. Il codice civile è una roccaforte che resiste. Del corpo in sé, tuttavia, le femministe parlano poco.25 Esso rimane un argomento tabù. Mentre le donne praticano una limitazione nelle nascite che passa attraverso il coito interrotto, ma anche attraverso il ricorso sempre più frequente all’aborto, le femministe rimangono reticenti di fronte alla propaganda contraccettiva e ostili all’aborto per scrupolo di rispettabilità. Le neomalthusiane, molto attive in Inghilterra, in Olanda e anche in Germania, sono in Francia una minoranza, anche se battagliera (Jeanne Humbert, Nelly Roussel, Gabrielle Petit e altre). La più degna di nota è la dottoressa Madeleine Pelletier, che già prima del 1914 auspica l’educazione sessuale delle ragazze e quindi L’emancipazione sessuale delle donne (1926). Processata per aver praticato aborti, viene dichiarata pazza e internata in un ospedale psichiatrico, dove muore, dimenticata da tutti, nel dicembre 1939.26 Ma le femministe francesi, nel loro complesso, rimangono timide, perfino pudibonde, poco favorevoli al birth control auspicato dall’americana Sangers e dall’inglese Mary Stopes e sostenuto in Francia da Bertie Albrecht e dal dottor Lucien Dalsace. La riprovazione morale è ufficialmente fortissima e la repressione severissima, ulteriormente aggravata dall’occupazione e dal regime di Vichy, il primo dal 1903 a ghigliottinare, nel 1943, una donna per aborto. Dopo la guerra, nella Francia della ricostruzione e del baby boom, l’accento viene posto sulla natalità e la maternità è la sola figura identitaria della donna. Di qui lo scandalo che suscita nel 1949 Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, che osa affermare il contrario e parlare, per di più, di sessualità femminile. Il suo successo è indicativo, comunque, di aspettative diverse, in particolare da parte di una gioventù che sempre più a fatica sopporta l’arcaicità dei metodi contraccettivi. Il Planning familiare, ideato nel 1956 (Evelyne Sullerot, la dottoressa Marie-Andrée Lagroua Weill-Hallé), moltiplica con successo i consultori per la contraccezione, nei quali si praticano anche aborti. Esso è la propedeutica del Mouvement de Libération des femmes (MLF), che esplode letteralmente, sulla scia degli eventi del 1968, peraltro poco attento alle donne.27 Questa volta il corpo è al

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centro di un’azione collettiva sempre più massiccia, pubblica e popolare, che non spetta a noi raccontare qui, benché sia ricca di episodi – Manifeste des 343 salopes (“puttane”), aprile 1971; processo di Bobigny, novembre 1971 – e di personaggi, come Gisèle Halimi. Nostro compito è valutarne la portata giuridica e gli effetti. Dal 1967 ai giorni nostri tutta una serie di leggi, in Francia e nella maggior parte dei paesi europei, riconosce la libertà di contraccezione e di aborto e sanziona le aggressioni di cui sono vittime le donne. Ecco, per la Francia, le principali: – Nel 1967 la legge Neuwirth legalizza l’accesso ai mezzi di contraccezione, compresa la pillola, messa a punto nel 1961 dal medico americano Pincus, anche se con restrizioni per le minorenni, che saranno abolite nel 1974. – Nel 1975 la legge Veil (il ruolo di Simone Veil, ministro della Sanità, è stato decisivo) autorizza in determinati casi l’interruzione volontaria di gravidanza, per la quale la ministra del Diritto delle donne, Yvette Roudy, otterrà nel 1982 il rimborso da parte del servizio sanitario. – La legge del 23 dicembre 1980 fa dello stupro, meglio definito, un’aggressione sessuale di particolare gravità, un reato passibile di corte d’assise e di quindici anni di reclusione. Le donne osano ormai presentare denuncia: 2823 denunce nel 1985, 7069 nel 1995 (un aumento del 150% in dieci anni). – Nel 1992 le molestie sessuali vengono inserite come reato nel codice del lavoro. E alla fine del 1999 il Ministero dell’Educazione nazionale ha dato disposizioni affinché la “pillola del giorno dopo” (RU 486) sia distribuita dalle infermiere degli istituti scolastici alle ragazze che ne facciano richiesta (pur tra le proteste di certe associazioni familiari di tendenza cattolica). Queste Leggi dell’amore (Janine Mossuz-Lavau, 1991) costituiscono una mutazione senza precedenti. Riconoscono il diritto delle donne alla libera procreazione, ad «avere un figlio se voglio, quando voglio, come voglio», secondo lo slogan degli anni Settanta. Ma riconoscono anche il loro diritto alla dignità e all’integrità del corpo divenuto autonomo.28 Una rivoluzione, insomma. Molti fattori hanno reso possibile questa conquista da parte delle donne: fattori scientifici come la scoperta della pillola; fattori politici, che implicano la modernizzazione dei rapporti sociali e sessuali; fattori anche demografici (la vertigi-

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nosa crescita della popolazione rende i governi più sensibili alla regolamentazione delle nascite, della quale le donne sarebbero anzi, almeno nei paesi in via di sviluppo, gli agenti privilegiati, come si è visto alla conferenza internazionale del Cairo). Insomma, la libertà delle donne rimane sempre, più o meno, sotto sorveglianza. Senza contare che le leggi prevedono numerose clausole restrittive, frutto di reticenze che è necessario superare. Certe acquisizioni rimangono fragili, contestate, soggette a continue ridiscussioni da parte dei tutori dell’ordine morale, che mal sopportano questa liberazione delle donne. L’applicazione delle leggi avviene lentamente; incontra oscure resistenze. Perciò il numero di aborti rimane in Francia elevato in modo abnorme (220mila l’anno), in particolare tra le adolescenti e le donne immigrate, ma non solo.29 Infine, la legge ha effetti imprevisti o perversi. Liberate dalle pastoie del diritto, le donne hanno trovato altri padroni, anche se più comprensivi: i medici, diventati i loro principali interlocutori. Questa medicalizzazione del corpo delle donne, ulteriormente accresciuta nel caso di procreazione medicalmente assistita, non è priva di conseguenze sulla percezione di sé e dell’altro nella coppia e nel rapporto con il figlio. Questo capovolgimento del diritto costituisce nondimeno una tappa e un episodio decisivi nel riconoscimento del corpo delle donne come fondamento della loro identità. Portando la loro battaglia su questo terreno, le donne hanno compiuto un atto di cittadinanza che rende manifesta la loro volontà e capacità democratica. (Traduzione di Franca Trentin Baratto)

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Note 1. Cfr. Y. Thomas, La division des sexes en droit romain, in P. Schmitt-Pantel (a cura di), Histoire des femmes en Occident, vol. 1, L’Antiquité, Paris, Plon, 1991, pp. 103-156 (ed. or. Roma-Bari, 1990). 2. Cfr. G. Duby, Le chevalier, la femme et le prêtre. Le mariage dans la France féodale, Paris, Hachette, 1981 (ed. it. Roma-Bari, 1982). Per la storia della famiglia in generale, si veda la recente messa a punto di J. Goody, La famille en Europe, prefazione di J. Le Goff, Paris, Seuil, 2001 (ed. it. Roma-Bari, 2001). Si veda anche M. De Giorgio, Storia del matrimonio, Roma-Bari, Laterza, 1996. 3. Cfr. N. Arnaud-Duc, Les contradictions du Droit, in G. Fraisse, M. Perrot (a cura di), Histoire des femmes en Occident, vol. 4, Le XIX e siècle, Paris, Plon, 1992, pp. 87-112 (ed. or. Roma-Bari, 1991). Si veda anche l’importante studio di M. Graziosi, Infirmitas sexus. La donna nell’immaginario penalistico, in «Democrazia e Diritto», 2 (1993), pp. 99-143. 4. Cfr. J. Guillais, La chair de l’autre. Le crime passionnel au 19 e siècle, Paris, Orban, 1986; A.-M. Sohn, Chrysalides. Femmes dans la vie privée XIX e-XX e siècles, Paris, Publications de la Sorbonne, 1996 (il testo è basato sullo spoglio di varie migliaia di fascicoli giudiziari del periodo 1880-1930). 5. Cfr. Y. Knibiehier, C. Fouquet, Histoire des mères, du Moyen Âge à nos jours, Paris, Montalba, 1980, (ristampa Hachette Pluriel, 1982); La Révolution maternelle depuis 1945. Femmes, maternité, citoyenneté, Paris, Perrin, 1997; M. D’Amelia (a cura di), Storia della Maternità, Roma-Bari, Laterza, 1997. 6. Cfr. F. Ronsin, La grève des ventres. Propagande néo-malthusienne et baisse de la natalité française (XIX e-XX e siècles), Paris, Aubier, 1980; A. McLaren, Histoire de la contraception de l’Antiquité à nos jours (tr. dall’inglese), Paris, Noêsis, 1996. 7. J. Mossuz-Lavau, Les lois de l’amour. Les politiques de la sexualité en France (1950-1990), Paris, Payot, 1991. 8. Cfr. G. Bock, Le nazisme. Politiques sexuées et vies des femmes en Allemagne, in F. Thébaud (a cura di), Histoire des femmes en Occident, vol. 5, Le XX e siècle, Paris, Plon, 1992, pp. 143-167 (ed. or. Roma-Bari, 1992); F. Muel-Dreyfus, Vichy et l’éternel féminin. Contribution à une sociologie politique de l’ordre des corps, Paris, Seuil, 1996. 9. Cfr. M. Foucault, La volonté de savoir, vol. 1 (e unico) di Histoire de la sexualité, Paris, Gallimard, 1976. 10. Cfr. M. Sèvegrand, Les Enfants du Bon Dieu. Les catholiques français et la procréation au XX e siècle, Paris, Albin Michel, 1995; L’amour en toutes lettres. Questions à l’abbé Viollet sur la sexualité (1924-1943), Paris, Albin Michel, 1996. 11. Cfr. N. Heinich, Etats de femme. L’identité féminine dans la fiction occidentale, Paris, Gallimard, 1996. 12. Cfr. L. Bruit Zaidman, G. Houbre, C. Klapisch-Zuber, P. Schmitt Pantel, Le corps des jeunes filles de l’Antiquité à nos jours, Paris, Perrin, 2001; M.-V. Louis, Le droit de cuissage, France, 1860-1930, Paris, L’Atelier, 1994; A. Boureau, Le droit de cuissage. La fabrication d’un mythe (XII e-XX e siècle), Paris, Albin Michel, 1994; e la nota critica di G. Fraisse, Droit de cuissage et devoir de l’historien, in «Clio», 3 (1996), pp. 251-261.

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13. Cfr. A. Martin-Fugier, La place des bonnes. La condition domestique en 1900, Paris, Grassel, 1979; R. G. Fuchs, Poor and Pregnant in Paris. Strategies for Survival in the Nineteenth Century, New Jersey, Rutgers University Press, 1992. 14. Cfr. A. Corbin, Les filles de noce. Misère sexuelle et prostitution aux XIX e et XX e siècles, Paris, Aubier, 1978. 15. Cfr. C. Lombroso, G. Ferrero, La donna delinquente. La prostituta e la donna normale, Torino, 1892. 16. Cfr. Justice pénale et différence des sexes, XIX e-XX e siècles. Actes du Colloque d’Angers, 17-19 maggio 2001 (in stampa), Paris, Fayard, 2002. 17. Cfr. A.-M. Sohn, Les attentats à la pudeur sur les fillettes et la sexualité quotidienne en France (1870-1939), in «Mentalités», 3 (1989), numero speciale: Violences sexuelles. 18. Cfr. G. Vigarello, Histoire du Viol, XVI e-XX e siècle, Paris, Seuil, 1998. 19. Cfr. G. Bock, P. Thane (a cura di), Maternity and Gender Policies: Women and the Rise of the European Welfare States, 1880-1950, London-New York, Routledge, 1991. 20. Cfr. G. Fraisse, Les deux gouvernements: la famille et la Cité, Paris, FolioEssais, 2001. 21. Cfr. C. Démar, Appel au peuple sur l’affranchissement de la femme. Aux origines de la pensée féministe, a cura di V. Pelosse, Payot, 1976; nuova ed. Paris, Albin Michel, 2001. 22. G. Sand, Politique et Polémiques (1843-1850), a cura di M. Perrot, Paris, Imprimerie Nationale, 1996. 23. F. Ronsin, Les divorciaires. Affrontements politiques et conceptions du mariage dans la France du XIX e siècle, Paris, Aubier, 1992. 24. Circa il ruolo degli avvocati nelle lotte femministe, cfr. A. Catinai, La féminisation du barreau parisien entre les deux guerres, in Justice pénale et différence des sexes. 25. Cfr. L. Klejman, F. Rochefort, L’égalité en marche. Le féminisme sous la Troisième République, Paris, Sciences Politiques/des femmes, 1989; C. Bard, Les filles de Marianne. Histoire des féminismes, 1914-1940, Paris, Fayard, 1995. 26. Su Madeleine Pelletier, cfr. C. Sowerwine, C. Maignien, Madeleine Pelletier. Une féministe dans l’arène politique, Paris, Editions Ouvrières, 1992; C. Bard (a cura di), Madeleine Pelletier (1874-1939). Logique et infortunes d’un combat pour l’égalité, Paris, Côté-femmes, 1992. 27. Cfr. F. Picq, Libération des femmes. Les années-mouvement, Paris, Seuil, 1993. 28. Cfr. Y. Knibiehier (cura di), Maternité, affaire privée, affaire publique, Paris, Bayard, 2001. 29. Cfr. S. Treiner, C. Valabrègue, La pilule, et après? Deux générations face à la contraception, Paris, Stock, 1996.

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MARINA GRAZIOSI “Fragilitas sexus”. Alle origini della costruzione giuridica dell’inferiorità delle donne*

Fragilitas sexus Numerose ambiguità sembrano aver sostenuto nel tempo, anche di fronte a grandi mutamenti storici, il punto di vista del diritto sulle donne. Diversamente dalle molte altre disuguaglianze giuridiche che hanno caratterizzato il diritto dell’ancien régime, quella fra uomini e donne sembra essere stata talmente evidente, ovvia e naturale da giustificare qualsiasi tipo di discriminazione e da persistere al di là di ogni ragionevolezza. Ma la costruzione della disuguaglianza femminile – per l’assenza di un’organica fondazione teorica, o anche di una semplice tematizzazione – può essere rintracciata solamente tra le pieghe del discorso giuridico, seguendo strade apparentemente secondarie nei territori più diversi e lontani del diritto. Talora i giuristi, consapevoli dei limiti quantitativi e qualitativi dei crimini commessi da donne, da sempre assai meno numerosi rispetto a quelli dei maschi, hanno considerato inopportuno il controllo pubblico di alcuni comportamenti femminili devianti, negandone la pericolosità.1 Altre volte al contrario – si pensi solo al reato di adulterio, figura emblematica della persistenza della disuguaglianza fino a tempi recenti – hanno giustificato pene assai severe e lasciato spazio alla discrezionalità dei giudici, per atti considerati gravissimi solo se compiuti da donne. Entro universi teorici in cui le categorie civilistiche venivano utilizzate anche nel campo del diritto pubblico e del diritto penale, i giuristi hanno inoltre costruito barriere, più o meno alte a seconda

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dei tempi, all’esercizio della libertà femminile. La figura del pater familias infatti, padre o marito che fosse, ha avuto lungamente il ruolo non solo di tutore ma anche di severo guardiano, alla cui giustizia domestica era di fatto affidato il compito della punizione di comportamenti che, ove fossero stati resi pubblici, avrebbero potuto pesare sull’onore dell’intera famiglia.2 È la scienza penalistica tardo cinquecentesca che sembra voler dare corpo e fondamento teorico a costruzioni dottrinarie precedentemente poco articolate, e soprattutto porre l’accento sia sull’opportunità di differenziare la pena, sia sulla necessità di escludere o attenuare in alcuni casi l’imputabilità delle donne. L’argomento è quello della inferiorità naturale: le donne sono – devono essere considerate – giuridicamente incapaci, a causa della debolezza complessiva del loro corpo e della loro mente. Soccorre a tal fine una figura vaga e onnicomprensiva, buona per tutti gli usi, mutuata dalla tradizione giuridica romanistica: il concetto di fragilitas sexus o infirmitas sexus o imbecillitas sexus. Ciò che è costante, nella storia di questa categoria, è da un lato la sua genericità e ambiguità, dall’altro la duttilità e molteplicità delle sue possibili applicazioni. Essa poteva essere invocata, infatti, per sostenere le più svariate limitazioni in campo sia civile che penale ed essere utilizzata indifferentemente per le più diverse fattispecie. L’autore cui soprattutto si deve questa costruzione dottrinaria dell’inferiorità naturale delle donne quale fondamento della loro minorata imputabilità giuridica, è Prospero Farinaccio (1544-1618), che nella sua monumentale Praxis et theorica criminalis3 “scopre” la figura della fragilitas sexus, utilizzata sporadicamente dai giuristi romani e, elevandola a categoria teorica, la consegna alla dottrina giuridica successiva che ne farà uso ancora per secoli.4 La fortuna dell’operazione si deve naturalmente alla grande influenza esercitata dalla Praxis, come fondamentale punto di riferimento nel sistema del tardo diritto comune.5 Secondo le intenzioni dell’autore, il suo ponderoso trattato doveva essere utile soprattutto agli avvocati e ai magistrati: il suo scopo, come egli stesso aveva affermato, era quello di scrivere un’opera così completa nel campo del diritto criminale, che chi avesse dovuto giudicare o difendere non avrebbe avuto bisogno di altri libri. La Praxis, pubblicata a partire dal 1589, ebbe un grandissimo successo forse proprio per quei difetti

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che le furono in seguito rimproverati: eccesso di citazioni, farraginosità degli argomenti, possibilità di ricavare dallo stesso frammento normativo, per la grande quantità delle eccezioni e degli argomenti a contrario proposti, regole e soluzioni opposte. Abbondanti indici analitici e sommari dei temi trattati, ridotti a sintetiche massime, offrivano inoltre la possibilità di una lettura rapida di un testo così imponente, e un’altrettanto rapida possibilità di citazione.6 Ma è chiaro che, al di là dell’autorevolezza di Farinaccio, la ragione principale della fortuna delle formule dell’infirmitas e della fragilitas sexus è nel fatto che esse venivano ad accreditare sul piano teorico ogni tacito pregiudizio nei confronti delle donne. Dobbiamo allora interrogarci sul significato di queste espressioni nei diversi contesti e momenti storici nei quali sono state usate. Che cosa intendevano i giureconsulti romani nei pochi luoghi in cui le hanno impiegate? E cosa intesero invece Farinaccio e gli altri giuristi che le divulgarono, ampliandone, enfatizzandone e generalizzandone il valore normativo? E, ancora, come è stata possibile la ricorrente evocazione di queste figure ancora fino all’inizio del secolo ventesimo? I luoghi nei quali Farinaccio si richiama a fonti romane sono naturalmente moltissimi: egli sostenne una minore punibilità delle donne sulla base della loro minore razionalità, secondo princìpi che sarebbero già stati formulati e consolidati. E questa tesi, per il prestigio e l’autorità da lui acquisiti come avvocato e procuratore fiscale oltre che come insigne giureconsulto, costituirà gran parte del successivo “senso comune” sulla complessiva condizione femminile.7 Ma se si risale direttamente alle fonti, e si analizzano i principali punti in cui è presente il concetto di infirmitas, fragilitas e/o imbecillitas sexus, la portata normativa che si è voluta a esso attribuire appare assai amplificata se non addirittura arbitraria. E, come è stato ipotizzato, la sua stessa formulazione potrebbe essere stata in alcuni casi frutto di interpolazioni.8 Sembra infatti che nel corso dei secoli il concetto sia stato utilizzato e trasformato per costruire delle esclusioni e delle interdizioni per le donne dove invece la ratio della legge romana era rivolta – se si esclude la più seria esclusione, quella dai virilia officia non giustificata peraltro con l’argomento della infirmitas sexus – a una semplice protezione delle donne in alcuni limitatissimi casi.

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Ulpiano, infatti, nel libro I ad Edictum. De verborum significatione, aveva scritto: «Quando si dice “si quis”, ossia “se alcuno”, con quell’ “alcuno”, si intende designare tanto i maschi quanto le femmine».9 Sembrerebbe – e tale sembrò a molti commentatori – una generale esclusione della differenza tra i due sessi almeno nelle massime non esplicitamente discriminatorie: cioè nessuna differenza per i due sessi di fronte alla legge. Vi sono certamente dei luoghi romanistici, tutti enfatizzati da Farinaccio e ripetuti all’infinito fino alle soglie del nostro secolo, in cui si allude a una generica debolezza delle donne. La legge romana tuttavia, in questi casi, non sembra affatto raccomandare in modo esplicito la non punibilità delle donne, né tanto meno metterne in evidenza la minore razionalità o addirittura l’inferiorità mentale,10 quanto piuttosto offrire loro una sorta di protezione giustificata dal ruolo concreto che esse rivestivano nei rapporti sociali. Ciò vale, ad esempio, per il Senatusconsultum Velleianum,11 che richiamando l’esclusione delle donne dai pubblici uffici, stabilisce la proibizione per esse a essere garanti di debiti altrui o mallevadrici anche per i loro mariti e di contrarre mutui.12 Si tratta di una misura puramente protettiva del patrimonio agnatizio, tesa a impedire che le donne, impegnandosi per terzi, potessero essere raggirate o costrette a offrire in garanzia i loro beni e a operare fidejussioni anche a favore di un familiare. Tuttavia è proprio questa legge che sarà richiamata dai maggiori civilisti e criminalisti come principale fondamento delle restrizioni della capacità d’agire femminile e di un’ipotetica e generica non punibilità delle donne.13 E questo benché un rescritto di Severo citato da Ulpiano nel medesimo luogo del Digesto, dica esplicitamente che il Senatoconsulto non è di aiuto alle donne ingannatrici: perché la debolezza, non la scaltrezza delle donne, merita soccorso. Un severo richiamo quindi alla responsabilità di quelle donne che volessero approfittare della protezione loro accordata in questi casi per mettere in atto truffe e raggiri.14 Una minore responsabilità femminile? Il primo luogo citato da Farinaccio – nella Quaestio 98, dedicata esclusivamente alle donne15 – per dimostrare come il diritto romano

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intendesse differenziare le donne dagli uomini anche in campo penale, è una legge di Arcadio e Onorio contro i delitti di lesa maestà. Una norma richiamava l’infirmitas sexus come causa di riduzione della pena per le figlie dei colpevoli di tali delitti. La pena infatti – infamia e confisca dei beni – era comminata alle figlie in misura minore che ai figli perché si confidava che le prime, per l’infermità del sesso, non avrebbero osato ripetere le colpe dei padri.16 Si trattava in questo caso di una piccola differenza: essa prevedeva infatti per le figlie femmine del colpevole di questo grave reato la riserva di una quota minima, falcidia, da ricavarsi dal patrimonio materno. Insomma una mitigazione della pena dovuta più che altro alla volontà del legislatore di salvaguardare una parte del patrimonio dalle conseguenze economiche delle lotte politiche, che viene invece utilizzata come fondamento della idea di una minore imputabilità delle donne sulla base dell’infirmitas sexus. Ancora un altro passo del Digesto è citato da Farinaccio per sottolineare un riguardo che la legge romana avrebbe usato alle donne. In una parte della Lex Julia peculatus si puniva chi avesse preso o stornato del denaro pubblico o appartenente al culto. E ancora chi avesse in modo sacrilego rubato qualcosa in un tempio pubblico. Essendo la pena per il sacrilegio piuttosto severa, il legislatore si era preoccupato di chiarire innanzitutto cosa si intendesse per bene religioso pubblico escludendo intanto dalla tutela i tempietti privati. E inoltre aveva voluto chiarire bene che, ove fossero state rubate cose private depositate in un tempio pubblico, si sarebbe configurata l’azione di furto e non di sacrilegio.17 La stessa legge aveva imposto un atteggiamento cauto al proconsole che, nel caso di sacrilegio, avrebbe dovuto tenere conto della condizione del reo, del tempo, dell’età e del sesso dell’imputato per punire più o meno severamente. Ciò per il fatto che la pena poteva essere terribile: molti infatti, secondo quanto riporta Ulpiano, erano stati condannati ad bestias oppure al rogo, o alla forca.18 Anche questo brano, apparentemente così marginale, viene opportunamente evidenziato da Farinaccio per accreditare l’idea che nella compilazione giustinianea vi fosse un’esplicita presunzione di minor dolo nelle donne e perciò una vera e propria minorazione della loro imputabilità. Alcuni vi basarono invece l’idea che il sesso femminile, per il diritto romano, fosse ragione di una semplice attenuazione delle pene. E molto si dibatté in seguito su questa distinzione.

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Ciò che qui interessa però non è tanto la ricostruzione del senso originario dell’infirmitas sexus nel pensiero dei giureconsulti romani, né la realtà storica della sua implementazione, quanto l’uso che di questo concetto venne fatto per fondare, nel corso dei secoli, la soggezione delle donne. D’altra parte, come è ovvio, furono previste numerosissime eccezioni alla regola; in primo luogo per reati considerati talmente gravi da sconsigliare qualsiasi benevolenza: l’adulterio, il parricidio, e tutti i reati la cui commissione avrebbe potuto mettere in un qualche pericolo la sicurezza dello Stato o della collettività come i reati annonari ma anche l’eresia, la stregoneria, l’esercizio di pratiche magiche. In secondo luogo, nei casi in cui le donne imputate avessero dimostrato una particolare abilità e astuzia, poteva applicarsi, per analogia, il principio valido per la punizione dei minorenni per i quali la usuale mitigazione della pena poteva essere attenuata e quindi la pena risultare più severa quando malitia supplet aetatem. La stessa cosa poteva valere anche per le donne: quando l’astuzia compensava e suppliva, così come la maggiore età, anche la fragilità del sesso.19 Per mettere in luce entrambi gli aspetti qui ricordati, valga l’esempio del reato di adulterio; da semplice fatto privato moralmente riprovevole da risolversi all’interno della famiglia, esso era diventato in età augustea, con la Lex Julia de adulteriis, un crimen, un reato pubblicamente rilevante. Sopravvissuto fino ai nostri giorni, esso era stato solidamente costruito con il solo ed esplicito fine di tutelare l’onorabilità di mariti e padri. Adulterio infatti era commesso da e con una donna sposata: essa è l’adultera, l’uomo con cui ha rapporti è l’adultero. La violazione della fedeltà coniugale da parte del marito invece, nel diritto romano non fu mai adulterio, o meglio non ebbe le conseguenze giuridiche del tradimento consumato dalla moglie. Il marito e il padre della donna avevano perfino il potere di ucciderla insieme al suo amante in un impeto d’ira.20 La pena per gli adulteri, tuttavia, era fondamentalmente pecuniaria. La donna si vedeva confiscata la metà della dote e un terzo dei beni, l’uomo metà del patrimonio. Non è qui il caso di ricostruire la complicata e secolare storia di questo crimine. Basti ricordare tuttavia – a riprova di quanto detto sopra – le lapidarie parole di Farinaccio che sembrano voler togliere alla moglie presunta adul-

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tera, anche la possibilità di discolparsi. «Una donna accusata di adulterio se afferma che il marito ne è stato il lenone, è solo per ciò da condannare per adulterio».21 Testimoniare e accusare C’è un altro aspetto, strettamente connesso al precedente – alla tematica della particolare astuzia delle donne – che i giuristi come Farinaccio hanno preso in considerazione con speciale interesse e che riguarda più in generale il rapporto tra femminilità e ragione. Sono dotate le donne di una razionalità paragonabile a quella maschile? O sono inferiori anche dal punto di vista mentale? È giustificata per esse, a causa di questa inferiorità, l’ignoranza del diritto? Sono stati innumerevoli, fin dall’antichità, gli esercizi letterari e filosofici di denigrazione della razionalità femminile in cui si sono prodotti molti sapienti, parallelamente impegnati nell’esaltazione dell’astuzia, dell’intuito, e della capacità di mentire delle donne. E anche i giuristi più accreditati non vollero sottrarsi a questo coro illustre e futile negando, spesso in ironiche dissertazioni, l’appartenenza di esse al genere umano.22 Il nesso tra ignoranza, astuzia, e inferiorità mentale sarà più volte evocato per affermare le teorie più disparate. Colpisce in modo particolare la capziosità di alcuni ragionamenti e di alcune teorizzazioni. Conoscendo la propensione delle donne per la bugia, il nostro Farinaccio da una parte – come si è visto a proposito dell’adulterio – sostiene la necessità di reprimere severamente questa tendenza femminile, dall’altra la utilizza e la riafferma pesantemente al fine di sottrarre credibilità alla donna. Da un lato scusa e solleva le donne dal reato di falso e di calunnia, e perfino di spergiuro, dall’altro inficia e svaluta contemporaneamente la loro capacità e possibilità di testimoniare.23 Dopo aver sostenuto che la donna, in generale, può essere ammessa a testimoniare nelle cause civili, egli afferma che la testimonianza di un maschio è più credibile di quella di una femmina, quella di una vergine più di quella di una vedova. Si può credere invece alla donna quando, nel caso di una testimonianza contrastante con quella di un uomo, il maschio sia di cattiva fama e la donna no.

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Parallelamente egli illustra tutti i limiti e le interdizioni a testimoniare nei testamenti e nelle cause criminali, richiamando ancora una volta l’autorità e la sapienza della legge romana, e mettendo in evidenza la chiara intenzione degli antichi legislatori di sancire la non affidabilità femminile.24 Altrettanta sfiducia nella razionalità delle donne è espressa nella principale opera del giurista francese André Tiraqueau (1480-1558) noto in Italia con il nome di Tiraquello: un ampio saggio di diritto familiare e matrimoniale, la cui indiscussa autorità orientò i più importanti studiosi di diritto almeno nei due secoli seguenti e che influenzò lo stesso Farinaccio. Invocando l’autorità degli antichi filosofi Tiraquello si chiede se la donna appartenga agli animali razionali o ai bruti: argomento su cui si era interrogato anche il «divino Platone».25 E sostiene comunque la minore punibilità delle donne rispetto ai maschi a causa della loro debolezza dell’animo, dell’intelligenza, della razionalità. D’altra parte poiché è nota la propensione delle donne alla menzogna, è altresì opportuno che esse non compaiano in giudizio come testimoni,26 anche perché ovviamente si crede loro meno che ai maschi.27 Anche solo dal ricco indice analitico della sua opera ci si rende conto che la minore punibilità che egli prevede per le donne non è che un elemento del grande quadro in cui realizza, con la costruzione di un organico ius maritale, la completa soggezione della donna. Le donne per Tiraquello non sono solo fragiles, infirmae, imbecilles, masculis miserabiliores e perciò meno punibili ma è anche bene che non si parli di loro e che se proprio debbono ragionare di filosofia lo facciano standosene a casa. Anche una donna casta infatti, quando se ne va in giro, si trasforma in una meretrice.28 Particolarmente versati nell’arte di contrastare la libertà femminile non sono stati tuttavia solamente gli scrittori e i giuristi apertamente misogini, o che abbiano dubitato delle capacità intellettuali femminili, ma anche gli autori di retoriche e ambigue “difese” del “bel sesso”.29 Una di queste “difese”, dedicata a Eleonora de’ Medici duchessa di Toscana, si segnala per l’originalità e la chiarezza con cui espone e riassume le leggi civili che riguardano le donne.30 L’autore, Domenico Bruni, un oscuro sacerdote pistoiese, vicario del vescovo e poi pretore di Cesena sotto Paolo III, dopo aver dedicato una gran parte del libro alle calunnie più comuni nei confronti delle don-

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ne – contrapponendovi esempi di grandezza al femminile riferiti a una remotissima antichità e a personaggi letterari – elenca puntigliosamente e con sapienza giuridica tutte le venticinque «prohibitioni della civil legge» che ne limitano la libertà e la capacità d’agire. Egli cerca di dimostrare che la ratio che ha guidato da sempre il legislatore è solo quella di proteggere il sesso femminile e non di sancirne l’inferiorità. Le buone intenzioni di Bruni si risolvono così in una celebrazione dello status quo che a suo giudizio è il migliore per il sesso femminile. Si guardino perciò le donne dal respingere la tutela che offre loro la legge. Anche Bruni si sofferma sulla impossibilità per le donne di essere testimoni. L’ottava proibizione della civil legge che egli illustra è, infatti, «di non poter le donne ne testamenti e nelle cause capitali come testimonij intervenire». Osserva Bruni che se i poco amici delle donne volessero da questa legge inferire che le donne siano «di natura facili a’ esser corrotte»,31 ciò non appare verosimile. È vero invece che in entrambi i casi il testimone si trova nella scomoda posizione di dover frequentare i tribunali.32 Inoltre, verso chi testimonia sia nei testamenti che nelle cause capitali c’è «odio, inimicizia, e malevolentia» e ancora «tedio, fastidio, e disturbo, e che per tal rispetto la legge l’habbia alle donne vietate, le quali spesso da gravidezze, e debolezze di parto, e dalle cure d’allevar’ i figliuoli sendo occupate non possono a’ simili cure fastidiose e dannose attendere, né dalle importanti e necessarie lor faccende rimuoversi, ne anco pareva conveniente ai pesi, che naturalmente alle donne si son dati, aggiugnere anchora quest’altri».33 Un buon esempio della lungimiranza del legislatore è ancora, secondo Bruni, l’interdizione a ricoprire pubblici uffici. Essa risponde, a suo parere, a esigenze di salvaguardia della morale femminile e non a una pretesa inidoneità delle donne a rivestire cariche pubbliche. Ciò è dimostrato dal fatto, prosegue Bruni, che molte donne hanno esercitato onorevolmente la sovranità politica quando l’hanno ricevuta in eredità, e hanno governato saggiamente. Nel libro quarto, sempre enumerando ciò che è stato disposto dalla legge civile in favore delle donne, cita anche il fatto che esse non possono essere carcerate per debiti e che inoltre «la donna, oltra le cause civili sopradette, anchora nelle chriminali, pur che non siano concernenti enormissimi delitti, ha prerogativa di non poter esser per quelle carcerata, [...] la qual prerogativa agli uomini non si concede».34

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Il divieto per le donne di testimoniare nel diritto romano era stato invece assai più un’eccezione che una regola. Se è vero, argomentava già Paolo, che la Lex Julia de adulteriis aveva interdetto la testimonianza alla donna condannata per adulterio, ne consegue che di regola anche le donne possono deporre in giudizio.35 Analogamente si era espresso Ulpiano.36 Di fatto, poi, siccome anche i maschi erano esclusi per infamia dalla testimonianza in caso di precedente condanna o in pendenza di giudizio, i casi di esclusione dalla testimonianza delle donne e degli uomini erano molto simili.37 Diversa e particolare invece era la disciplina della testimonianza nei testamenti, che prevedeva l’esclusione delle donne; essi infatti avevano valore di legge e, almeno anticamente, venivano fatti nei Comizi da dove le donne erano escluse in quanto lo erano da tutti i virilia officia. Quanto alla possibilità delle donne di accusare, la regola era l’incapacità, ma molteplici erano le eccezioni nelle quali era ammessa un’accusa sostenuta da una donna: per le ingiurie fatte a loro stesse o per la morte di parenti, per i delitti annonari, e in generale per tutti quelli contro la sicurezza dello Stato. Il fondamento della incapacità, poiché l’accusa era sostenuta da un privato, era assai più politico che non legato all’idea dell’inferiorità della donna. Dipendeva, soprattutto, dall’esclusione della donna dalla piena cittadinanza richiesta per l’esercizio dell’accusa nell’antico processo romano dell’età repubblicana. Chi non è cittadino infatti, ha scritto lucidamente Giuseppe Giuliani, «non rappresenta la Sovranità, e quindi non ha un interesse diretto a reprimere i delitti, ne discende la conseguenza che i servi, le donne, i pupilli ed i figli di famiglia almeno fino a una certa età non devono avere il diritto di accusare».38 Durante il Medioevo gli irrinunciabili requisiti di chi poteva testimoniare furono: un’età matura, una buona fama, un buon patrimonio e soprattutto l’appartenenza al sesso maschile.39 E si mantenne naturalmente anche la preclusione alle donne del diritto di accusa, che fu sancita perfino in quella che è stata la prima solenne dichiarazione dei diritti. L’articolo 54 della Magna Charta libertatum stabilì infatti: «Nullus capiatur nec imprisonetur propter appellum femine de morte alterius quam viri sui».40

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Dell’ignoranza del diritto È universalmente nota la regola generale che l’ignoranza del diritto non scusa: un cittadino che viola la legge non può invocare la sua ignoranza per discolparsi. Eppure Farinaccio ipotizzò strumentalmente che talvolta ciò fosse consentito alle donne. Fondamento della sua argomentazione sono ancora le leggi romane. L’ignoranza, dice limpidamente il legislatore romano, è di fatto o di diritto: l’ignoranza di diritto consiste nel non conoscere ciò che è prescritto dalle leggi o dalla consuetudine. L’ignoranza di fatto consiste nel non conoscere che una cosa sia avvenuta o come sia avvenuta. I minori di venticinque anni possono ignorare il diritto. Talvolta, in considerazione della infirmitas sexus, ciò è concesso anche alle donne, ma solo ed esclusivamente quando non c’è delitto, ma semplice ignoranza di diritto.41 Farinaccio prospetta invece, nell’Argumentum che precede la Quaestio 98, che sono molte le cause diminuenti la pena per i delinquenti, e in primo luogo quelle che riguardano le donne: promettendo di illustrare in seguito «il se, il come, il quando esse siano scusate nei delitti». Ma che non si tratti di veri e propri delitti è chiarito poi nel testo, ove, citando la legge romana, mette in evidenza soprattutto la distinzione tra diritto positivo e diritto naturale come fondamento della liceità dell’ignoranza del diritto.42 Di una supposta ignoranza del diritto valsa a scusare le donne, fa cenno infatti anche la Lex Julia de adulteriis. Il trattamento di favore era giustificato dalla presunzione dell’ignoranza del diritto civile da parte di esse sulla base della distinzione propria del diritto romano tra delicta juris gentium e delicta juris civilis. La legge stabiliva infatti che la donna fosse scusata nei casi in cui il delitto d’incesto si fosse verificato nel grado di parentela (cognazione o affinità) per il quale solo il diritto civile proibisce le nozze.43 Si supponeva quindi che le donne potessero ignorare i complicati meccanismi che regolavano la parentela giuridica, ma non i vincoli reali della parentela “naturale”. Questo e altri luoghi erano stati più volte utilizzati per riaffermare la particolare minorità del sesso femminile che tanto sarebbe stata a cuore ai giuristi antichi. Caratteristica di Farinaccio e dei suoi seguaci nell’uso delle fonti antiche, sembra essere spesso quella di sorvolare su alcune cose o di

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non voler approfondire il vero senso della legge che si cita, ma di volerla semplicemente usare per sostenere le proprie ragioni e perseguire i propri fini. D’altra parte è forse proprio a questo genere di impostazione che Farinaccio dovette la sua grande fama di eccezionale avvocato, ultima speranza anche nelle “cause perse”. Ed è certamente così che si alimentò la sua leggenda di uomo astutissimo, capace di contrastare chiunque, perfino il papa in persona. È con questo spirito che si dice accettasse di difendere in ultima istanza i casi di Beatrice Cenci e dei suoi familiari malgrado l’esplicita contrarietà di papa Clemente VIII.44 E tuttavia nella difesa che egli fa della povera Beatrice, giudicata da molti commentatori troppo debole e poco convincente, egli curiosamente non fa cenno alla tanto cara tematica della fragilitas sexus. Il delitto compiuto, evidentemente – il parricidio premeditato – non consentiva questa scusante. È piuttosto nella difesa di Bernardo, l’unico dei fratelli che si salverà dalla pena di morte, che Farinaccio fa cenno alla minore età di quest’ultimo per implorarne la grazia.45 È difficile valutare quanto delle teorie di Farinaccio sia stato poi concretamente applicato nei processi che furono ovunque celebrati con donne imputate, malgrado la loro asserita fragilitas. I giudici, a quanto è dato sapere, si limitarono prudentemente a tener conto di una generica debolezza femminile e a valutare sempre caso per caso. Furono tuttavia frequentemente osservate particolari forme, spesso dettate dalla cautela, talvolta tese alla più rigida esemplarità, nell’applicazione della pena a un condannato di sesso femminile. Se si deve giudicare dall’ampiezza del dibattito che da tempi immemorabili si era sviluppato sui modi corretti per giustiziare una donna – se per esempio fosse più opportuna e preferibile l’impiccagione, la vivisepoltura o il rogo – si può credere che il problema non sia mai stato considerato secondario.46 Anche se, malgrado le costanti e dichiarate cautele e interdizioni nell’infliggere la pena di morte a un corpo femminile i casi di donne orribilmente giustiziate perché accusate di qualche crimine furono certamente numerosi. Giustiziare una donna incinta fu però sempre sconsigliato. Già Andrea da Isernia raccomandava di giustiziare una donna solo quaranta giorni dopo il parto.47 E altri specificarono poi che sarebbe stato opportuno giustiziarla dopo lo svezzamento del bambino, per non incidere anche sulla di lui crescita e sopravvivenza.

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C’è da chiedersi comunque perché sia stata avvertita da molti la necessità di affermare, al di là dei casi concreti, un’astratta differenza femminile che giustificherebbe una diversa punibilità. Non mancò anche chi segnalò incoerenze e contraddizioni: valgano per tutte quelle messe in luce da Wier che contestò vivamente la legittimità dei processi alle streghe, criticando nel suo De lamiis i supplizi inflitti alle donne accusate di stregoneria come un’assurda eccezione alla regola generale secondo cui, a causa dell’infirmitas sexus, le donne dovevano essere punite meno severamente degli uomini.48 Lo stesso Tiraquello ci offre involontariamente una possibile chiave di lettura delle cautele qui ricordate, citando un verso dell’Eneide: «Nullum memorabile nomen, feminea in poena est».49 Sono parole pronunciate da Enea quando l’eroe trovandosi di fronte Elena – origine prima della guerra – che si nasconde nei recessi del tempio tra i bagliori di Troia in fiamme, malgrado il desiderio di vendetta resiste al fortissimo impulso di ucciderla: non può esserci infatti né gloria né vanto nel punire una donna. Certo è che le cautele nell’infliggere pene alle donne, tanto insistentemente affermate, trovarono raramente nella realtà una seria applicazione. La punizione e l’imputazione di una donna furono sempre possibili con il sistema dell’eccezione alla legge generale. Ancora tutto da spiegare, però, è questo bisogno di proclamare la protezione ufficiale del sesso debole e di praticarne la legale sopraffazione attraverso una costante attribuzione di minorità a tutto il genere adottata dai giuristi anche in età moderna.

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Note * Questo saggio riprende e sviluppa il mio Women and Criminal Law: the notion of diminished responsibility in Prospero Farinaccio (1544-1618) and other Renaissance jurists, in L. Panizza (a cura di), Women in Italian Renaissance Culture and Society, Oxford, Legenda, European Humanities Research Centre of the University of Oxford, 2000, pp. 166 ss. 1. È il caso, per esempio, della violenza fra donne che, se non particolarmente cruenta, a lungo non fu considerata pienamente un reato, cfr. A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, vol. V, Storia del diritto penale, Torino, Utet, 1882, pp. 150-151. E anche della calunnia, scusata da alcuni – con l’ausilio di amplissime citazioni di testi classici, sia letterari che filosofici, sulla menzogna femminile – in nome della nota propensione delle donne alla bugia. Scrive sulla questione Prospero Farinaccio: «Mulier accusando et in accusatione succumbens excusatur in calumniae poena» (Praxis et theorica criminalis, apud Variscum, Venetiis, 1603, I, I, Quaestio 16, n. 58, f. 134v.). E ancora: «Mulier non praesumitur falsum committere» (ivi, apud Iuntas, Venetiis, 1604, II, I, Quaestio 89, n. 53, p. 167). Sul falso e lo spergiuro, cfr., inoltre, ivi, Quaestio 98, n. 2, 9, p. 309. Si veda anche De legibus connubialibus et iure maritali, apud Rovillium, Lugduni, 1554, di A. Tiraqueau, comunemente italianizzato in Tiraquello, ove sono moltissimi gli esempi letterari citati a proposito della menzogna femminile: vi si trovano tra gli altri Ovidio, Plauto, Euripide, Aristofane, Esiodo, Tibullo, Menandro, e ancora Properzio e Catullo, che compaiono in paragrafi con titoli come: «Mulieres fraudolentae, fallaces, dolosae» (ivi, L. 9, n. 47 et seq.), «Mulieribus non fidendum» (ivi, n. 50), «Mulieres mendaces» (ivi, n. 52). 2. Che per l’adulterio fosse preferibile non rendere di dominio pubblico il fatto, è illustrato, per la società fiorentina del Rinascimento, da J.K. Brackett, Criminal Justice and Crime in late Renaissance Florence, 1537-1609, Cambridge, Cambridge University Press, 1992, pp. 115-116. Il marito poteva far rinchiudere la moglie adultera nel carcere delle Stinche, ma era tenuto a pagarne il mantenimento. E farla imprigionare equivaleva comunque ad ammettere di non saperla controllare e guidare. Cfr. Trevor Dean, K.J.P. Lowe (a cura di), Crime, society and the law in Renaissance Italy, Cambridge, Cambridge University Press, 1994. In particolare sull’adulterio si veda N. Davidson, Theology, nature and the law: sexual sin and sexual crime in Italy from the fourteenth to the seventeenth century, in Dean, Lowe, Crime, pp. 74-98; sul sistema giudiziario a Firenze cfr. A. Zorzi, The judicial system in Florence in the fourteenth and fifteenth centuries, ivi, pp. 40-58. C’è da dire inoltre che, mentre la detenzione di una persona da parte di un privato fu sempre punita con pene elevatissime in quanto crimen lesae majestatis, ciò fu invece consentito in alcuni casi. Secondo Lorenzo Priori «È permesso solamente al marito di tenere la moglie serrata in qualche luogo, al padrone il servo ed al padre il figliuolo, non per tenerli come prigioni, ma per castigo e per poco tempo» (Pratica criminale secondo il rito delle leggi della Serenissima Repubblica di Venezia, Venezia, Zattoni, 1678); si vedano, oltre a questo, anche altri riferimenti in C. Castori, Carcere privato, in Il Digesto Italiano, Torino, Utet, 1891, vol. VI, pp. 22-24. 3. La Praxis et theorica criminalis, che impegnò il giureconsulto romano Prospero Farinaccio per trentacinque anni della sua vita – il primo titolo, De

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inquisitione, si chiude con la data del 1581, l’ultimo nel 1614 – è un’opera vastissima, divisa in ben diciotto titoli che costituiscono un vero e proprio repertorio sia dottrinario che pratico. Si veda, su di essa, N. Del Re, Prospero Farinacci, giureconsulto romano (1544-1618), in «Archivio della Società romana di storia patria», 98 (1975), pp. 135-220. 4. Rinvio, sulla straordinaria persistenza nel pensiero giuridico della figura dell’inferiorità naturale della donna, al mio Infirmitas sexus. La donna nell’immaginario penalistico, in «Democrazia e diritto», 2 (1993), pp. 99-143. 5. Cfr. G. Alessi, Processo penale. (Diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, XXXVI, Milano, Giuffrè, 1987, pp. 360-401 e inoltre, Eadem, Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno, Napoli, Jovene, 1979. Un giudizio positivo su Farinaccio viene espresso da A. Solmi, Storia del diritto italiano, Milano, Società Editrice Libraria, 1918, che gli riconosce il merito di non essersi limitato a una casistica ma di aver tentato la costruzione di vero e proprio sistema di diritto penale. Anche P. Fiorelli ne loda l’impegno scientifico; cfr. P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, Milano, Giuffrè, 1953, vol. I, p. 164. Cfr. anche I. Mereu, Storia del diritto penale nel ’500. Studi e ricerche, Napoli, Morano, vol. I, 1964. Duramente critico è invece il giudizio di F. Cordero, Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 339 e passim. 6. L’opera di Farinaccio ha suscitato nel tempo vasti consensi ma anche aspre critiche. Eccessive, secondo Del Re (cfr. Del Re, Prospero Farinacci, p. 180), quelle mosse da Cesare Beccaria. Filippo Maria Renazzi (1747-1808), che pure pone il sesso tra le varie cause intrinseche di attenuazione della pena e ne condivide dunque le opinioni sul sesso femminile (Elementa juris criminalis (1773), Bologna, 1826, pp. 119-120) lo definì esponente di quella «putidissima corruptio quae scientiam criminalem pervasit» (ivi, pp. X-XI). Del Re, dopo aver ricordato l’apprezzamento sia di Giovanni Carmignani che di Carlo Calisse, segnala come meriti scientifici di Farinaccio l’aver arricchito la scienza penalistica dell’importante istituto del reato continuato, ignoto sia al diritto romano che al germanico e al canonico, e l’aver proposto per primo una più logica classificazione dei reati in base al criterio sostanziale della colpevolezza, anzichè a quello formale della gravità della pena, com’era nella pratica del tempo (Elementa, p. 176). 7. Scrive egli infatti: «Decima causa minuendi poenam erit ea, quae sexus fragilitatem respicit: Regula enim est, mulieres non sic graviter puniendas, quam mares, ac in poenis infligendis sexus rationem habendam […] Tiraquellus qui hanc conclusionem, et causam bene comprobat […] ea potissimum ratione ductus, quia in foemina minus est rationis quam in viro […] ergo minus puniri debet» (Praxis et theorica criminalis, II, I, Quaestio 98, n. 1, p. 309). 8. Cfr. S. Solazzi, «Infirmitas aetatis» e «infirmitas sexus», (1930), in Scritti di diritto romano, Napoli, Jovene, 1960, vol. III, pp. 357-367. 9. «Verbum hoc, “si quis” tam masculos, quam feminas complectitur» (D., 50, 16, 1). In accordo con questa massima il dotto valenciano Lorenzo Matheu y Sanz (1618-1680), nel suo Tractatus de re criminali (1676), Venetiis, ex Typographia Balleoniana, 1750, p. 105, sostenne, contro il parere di altri studiosi, che i romani nelle sanzioni penali non facevano differenza alcuna tra i due sessi e che la donna è scusata solo nelle fattispecie non dolose.

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10. Per Gaio, che scriveva nel II secolo d.C., non esiste un fondamento razionale al mantenimento di leggi e consuetudini che limitino l’attività femminile. Egli considera infatti la ragione della levitas animi, attribuita alle donne, più speciosa che vera: «Feminas vero perfectae aetatis in tutela esse fere nulla pretiosa ratio suasisse videtur; nam quae vulgo creditur, quia levitate animi plerumque decipiuntur et aequum erat eas tutorum auctoritate regi, magis speciosa videtur quam vera», Institutiones, 190. Cfr. M. Bellomo, La condizione giuridica della donna in Italia. Vicende antiche e moderne, Torino, ERI, 1970, p. 20. 11. Cfr. D., 16, 1, 1. 12. Cfr. D., 50, 17, 2. 13. Cfr. T. Kuehn, Law, family, & women: toward a legal anthropology of Renaissance, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1991, p. 217 e p. 355. 14. «Infirmitas enim foeminarum, non calliditas, auxilium demit» (D., 16, 1, 2). 15. Praxis et theorica criminalis, apud Iuntas, Venetiis, 1604, II, I, p. 309. 16. «Mitior enim circa eas debet esse sententia, quas pro infirmitate sexus minus ausuras esse confidimus» (C., 9, 8, 5). 17. «Res privatorum, si in aedem sacram depositae, subreptae fuerint: furti actionem, non sacrilegii esse» (D., 48, 13, 5). 18. «Sacrilegii poenam debebit proconsul pro qualitate personae, proque rei conditione, et temporis, et aetatis, et sexus, vel severius, vel clementius statuere: et scio multos ad bestias damnasse sacrilegos, nonnullos etiam vivos exussisse, alios vero in furca suspendisse» (D., 48, 13, 7 (6)). 19. Cfr. C. Calisse, Storia del diritto penale italiano, Firenze, Barbera, 1895, p. 195, che cita a tale proposito anche Farinaccio. 20. Cfr. G. Branca, Adulterio. (Diritto romano), in Enciclopedia del diritto, 1958, vol. I, pp. 620-622. Era inoltre consentito al marito, a prova del tradimento, di tener rinchiuso l’adultero sorpreso in flagranti, ma per non più di venti ore. 21. «Mulier accusata de adulterio, dicens maritum fuisse lenonem, sufficit ad ipsam condemnandam de adulterio» (Praxis, Quaestio 81, II, I, n. 257; contra, ivi, n. 258, p. 48). 22. Il grande Jacques Cujas (1522-1590) – considerato il massimo giureconsulto francese del XVI secolo per aver ricostruito le dottrine romanistiche secondo i differenti periodi di formazione attraverso un’analisi critica dei testi – aveva sostenuto nel suo Observationum et emendationum, Libri XXVIII, Prato, Giachetti, 1836-1844, VI, c. 21, «foeminas non esse homines», cioè che le donne non sono esseri umani, anche se si suppone, come scrisse Carmignani, «che trattasse questo bizzarro argomento per ricrearsi dai suoi più seri lavori» (G. Carmignani, Teoria delle leggi della sicurezza sociale, Napoli, Ariosto, 1843, vol. II, p. 97). L’idea che “il femminile” sia di per sé un argomento leggero e giocoso perfino per i giuristi è attestata da altre interminabili dispute sul tema: cfr. per es. E.P.J. Spangenbergper, Del sesso femminile, considerato relativamente al diritto e alla legislazione criminale, in F.A. Mori (a cura di), Scritti germanici di diritto criminale, Livorno, Nanni, 1846-1847, p. 164, dove l’autore cita seriamente, in proposito, anche la famosa satira di Acidalius, ripubblicata nel 1644 insieme alla risposta del dottore in teologia Simon Gedik con il titolo Disputatio perjucunda, qua anonymus probare nititur, mulieres homines non esse: cui apposita est Simonis Gedicci defensio sexus muliebris, Hagae Comitis, 1644.

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La versione più nota di questa, Disputatio nova contra mulieres, qua probatur eas homines non esse, uscì a Francoforte nel 1595 e già nello stesso anno comparve la risposta del teologo protestante Gedik. I due scritti furono ristampati nel 1638, nel 1641 e ancora nel 1644. La versione italiana, stampata a Venezia nel 1647, fu confutata finalmente da una donna, Arcangela Tarabotti, nel 1651. Cfr. A. Tarabotti, Che le donne siano della spezie degli uomini, edizione critica a cura di L. Panizza, Institute of Romance Studies, London, University of London, 1994. Sulla figura della Tarabotti si veda F. Medioli, L’“Inferno monacale” di Arcangela Tarabotti, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990. 23. «Mulier non praesumitur falsum committere» (Praxis, II, I, Quaestio 89, n. 53, p. 167); «Mulieres mitius puniuntur in crimine falsae monetae fabricatae in earum domo» (ivi, Quaestio 98, n. 2, p. 309); «Mulier excusatur a poena falsi propter lacerationem scripturarum» (ivi, n. 7, p. 309); «Mulier excusatur a periurio» (ivi, n. 9, p. 309); «In muliere, quam ob sexus fragilitatem a praesumpta calumnia excusari, et ob id ex hoc solum quod accusationem non probavit, minime puniri posse» (Praxis, 1603, I, I, Quaestio 16, n. 58, f. 134v.) 24. Cfr. P. Farinacii, Tractatus de Testibus, apud Variscum, Venetiis, 1603, f. 71r. 25. «Nam divinus ille Plato dubitare videtur utro in genere mulierem, rationalium animalium, an Brutorum» (A. Tiraquelli, De legibus connubialibus et iure maritali, apud Rovillium, Lugduni, 1554, L. 1, n. 69). Infatti le donne sono da punire meno degli uomini: «mulieres in eodem genere delicti minus peccare, minusque puniendas esse quam viros. ob imbecillitatem animi, mentis, et ingenii» (ivi, L. 1, n. 85). 26. «Mulieres ferendi testimonii causa non tenentur venire in iudicium» (ivi, L. 10, n. 33). 27. «Mulieri testi minus creditur quam viro» (ivi, L. 9, n. 73). 28. «Foemina optima, de cuius nomine sermo non habetur» (ivi, L. 10 n. 10); «foeminae domi se continere debent, non foras evagari» (ivi, L. 10, n. 12); «mulieris est domi philosophari» (ivi, L. 10, n. 14); «mulieres lanam, linum, telam, fusum, domi exerceant» (ivi, L. 9, n. 37 et seq.); e per concludere: «Mulier casta vagando facta est meretrix» (ivi, L. 10, n. 34). Sul tema della “leggerezza” femminile si esercita anche G. Passi, I donneschi difetti, Venetia, Antonio Somascho, 1599, che elenca i principali vizi delle donne con esempi tratti dagli antichi scrittori. Passi – che è anche autore di un saggio di diritto maritale (De statu maritali. Tractatus Josephi Passi ravennatis accademici… opus non minus utile quam jucundum, Ambergae, Michael Forsterius, 1612) – raccomanda agli uomini e particolarmente ai mariti che «debbono essere ben circospetti nell’appalesare i suoi secreti importanti alle lor donne. Che non si deve accettare conseglio di donna e che il suo conseglio è instabile, invalido, fragile e infermo». Le donne infatti sono «volubili, incostanti, leggiere credule sciocche e scempie» (Passi, I donneschi difetti, p. 2). Passi disquisisce anche sulla differenza fra la parola mulier e la parola femina. Per i latini, sostiene, esse avevano il medesimo significato. Nell’uso, però, si distinguerebbe così: si usa femina se la parola è accompagnata da un aggettivo che denota qualcosa di negativo. «Hora è chiaro che questa femina è sempre con qualche tristo aggiunto accompagnata» (ivi, p. 3). Mulier, invece, significherebbe donna che non è più vergine. Curiosa l’etimologia di mulier proposta da Passi: mulier verrebbe da mollitia, debolezza. Passi riferisce anche che «il dottissimo Rabino David Kimehi

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dice che l’etymologia della parola Femina, presso a gli Hebrei viene da una radice che significa inclinazione al male; per questo cred’io dicesse S. Girolamo, che la femina nelle sacre lettere (quanto all’intelligenza spirituale) significa ogni peccato et ogni iniquità» (ivi, p. 5). 29. Sull’ambiguità e gli artifici retorici di tali difese cfr. P.J. Benson, The Invention of the Renaissance Women. The Challenge of Female Independence in the Literature and Thought of Italy and England, University Park, The Pennsylvania State University Press, 1992. 30. Opera di M.D. Bruni da Pistoia intitolata Difese delle donne nella quale si contengono le difese loro, dalle calunnie datele per gli scrittori, et insieme le lodi di quelle, nuovamente posta in luce, in Milano appresso di Giovann’Antonio de gli Antonij, 1559. L’opera fu pubblicata a Milano nel 1549, a Firenze nel 1552 e poi ancora a Milano nel 1559. Ringrazio Letizia Panizza per avermi segnalato questo testo. Su Bruni cfr. V. Capponi, Biografia pistoiese, o notizia della vita e delle opere dei pistoiesi, Pistoia, Rossetti, 1878, pp. 66-67. 31. Bruni, Difese delle donne, f. 62r. 32. Cfr. ivi, f. 62v.: «Perché communemente dette due cause per importar assai sempre per chi ci ha interesse per le corti si litigano, e così occorre che quelli, che testimoni à simili atti si son trovati, quasi sempre per luoghi giudiciarij per essaminarsi son tratti, di sorte che per levar, come si è detto di sopra, tali fastidij alle donne, per publica honestà anchora questi duoi atti la civil legge alle donne hà prohibiti». 33. Ivi, ff. 62v. - 63r. 34. Ivi, f. 69v. 35. Cfr. D.22.5.1.2. 36. Cfr. D., 28, 1, 28. 37. Cfr.D., 22, 5, 4; D., 22, 5, 8.; D., 28, 1, 29. 38. G. Giuliani, Istituzioni di diritto criminale col commento della legislazione gregoriana, Macerata, Viarchi, 1840, tomo I, p. 473. Giuliani distingue peraltro tra accusa e denuncia, sostenendo che alle donne sarebbe stato possibile denunciare ma non sostenere l’accusa; e ricorda che la congiura di Catilina fu denunciata da Giulia (altri leggono Fulvia), mentre Cicerone ne sostenne l’accusa (ibidem, nota). L’eccezione a questa limitazione in caso di omicidio di parenti sembra dovuta al valore che allora veniva ancora associato alla vendetta del sangue: cfr. E. Cantarella, La vendetta: lo Stato nasce per controllarla, in «Reset», 3 (1994), p. 9. Cantarella richiama la famosa epigrafe Laudatio quae dicitur Turiae (1, 11) nella quale il marito ricorda, fra gli altri meriti della moglie, una matrona morta nel 2 a.C., la pubblica accusa da lei intentata contro gli assassini dei suoi genitori. 39. Secondo un noto brocardo medioevale, «conditio, sexus, aetas, discretio, fama et fortuna, fides: in testibus ista requires» (Tancredi da Bologna, Ordo iudiciarius 3, 6 in Pillii, Tancredi, Gratiae libri de iudiciorum ordine, (1216), a cura di F.C. Bergmann, Gottingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1842, rist. anast., Scientia, Aalen, 1965, p. 225). Sulla capacità processuale della donna nel diritto canonico, cfr. G. Minnucci, La capacità processuale della donna nel pensiero canonistico classico. Da Graziano ad Uguccione da Pisa, Milano, Giuffrè, 1989. Cfr. inoltre la recensione a questo testo di M.T. Guerra Medici, in «Studi senesi», CIII, 1 (1991), pp. 170-174.

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40. Oppure, secondo la traduzione inglese, «No one shall be taken or imprisoned upon the appeal of a woman for the death of anyone except her husband», in J.C. Holt, Magna Carta, Cambridge, Cambridge University Press, 1965, pp. 466-467. 41. Cfr. D., 22, 6, 8 e D., 22, 6, 9. 42. «Argumentum. De pluribus, ac diversis causis, quibus de iure poena delinquentibus minuitur, ac in primis, de mulieribus. An, quomodo, et quando excusentur in delictis» (Praxis, 1604, II, I, p. 308). «Ut mulier excusetur in iis, quae ad iure positivo prohibita sunt, non autem in iis, quae ad iure divino, naturali, vel gentium sunt prohibita» (ivi, p. 310). 43. «Nel Diritto Romano il sesso femminile viene annoverato sotto la categoria della presunta ignorantia juris, quando trattasi non di delicta juris gentium ma di delicta juris civilis. Così per certi reati come l’incestus jure civili, il falso testamento e, in generale, il crimen falsi la donna era coperta dalla presunzione dell’ignoranza del Diritto». Cfr. E. Pessina, Elementi di diritto penale, (1865), Napoli, Stamperia della Regia Università, 1870, p. 217. 44. Secondo quanto scrive Ferdinando Ranalli, il papa Clemente VIII, il cui fine ultimo sarebbe stata la confisca dei beni degli stessi Cenci, avrebbe diffidato i migliori avvocati dall’accettare la difesa con queste parole: «E che? Vedremo pure in Roma dai figli assassinati i padri, e uomini temerarii sorgere in loro difesa per sottrarli al rigore delle leggi?». Di fronte alle quali nessuno aveva osato replicare. Solamente Farinaccio avrebbe avuto il coraggio di rispondere al papa con espressioni garantiste: «Noi non siamo qui raccolti per iscusare un delitto e molto meno farlo parere virtù, ma per difendere e sostenere l’innocenza» (cfr. F. Ranalli, Vite di romani illustri, Roma, 1890, vol. III, p. 152). Su Farinaccio e la sua figura di avventuriero si raccontano numerosi aneddoti ai confini tra storia e leggenda. Alcuni lo dipingono come giudice implacabile, avido e corrotto, altri come uomo dotato di prodigiosa memoria, e di grande spregiudicatezza, abilissimo nel districarsi nei maneggi della Curia romana. Di certo si sa che aveva conosciuto il carcere per porto abusivo di arma proibita e che aveva perso un occhio in un’imboscata tesagli da persone che si ritenevano da lui truffate. Si racconta poi che mentre ricopriva la carica di procuratore fiscale, un certo Labia – in carcere perché accusato di omicidio – conoscendo la sua avidità, gli avesse fatto mandare per ottenere la scarcerazione 300 doppie d’oro coperte di verdura in un grande piatto d’argento. Alcuni raccontano anche che avesse fatto incarcerare un suo conoscente al solo scopo di recuperare i denari che aveva perso con lui al gioco. È noto il ritratto che, giocando sul suo nome, avrebbe fatto di Farinaccio il papa Clemente VIII, che pure lo volle sempre al suo servizio, malgrado i dubbi sulla sua moralità: «La farina è buona, ma assai sporco è il sacco che la contiene» (Del Re, Prospero Farinacci, p. 143 e passim). 45. La difesa dei Cenci si trova in Responsorum criminalium liber primus, apud Variscum, Venetiis, 1606, Cons LXVI. Cfr. anche G. Bowyer, A dissertation on the Statutes of the cities of Italy; and a translation of the pleading of Prospero Farinacio in defence of Beatrice Cenci and her relatives, London, Richards and Co., 1838, pp. 73-115. Sul processo ai Cenci, oltre al noto lavoro di Stendhal (Les Cenci in Chroniques italiennes, Paris, Gallimard, 1952), si veda anche, tra i critici della difesa di Farinaccio, C. Ricci, Beatrice Cenci, Milano, Treves, 1923. 46. Sul carattere simbolico dell’attenuazione della pena per le donne rimando al mio Infirmitas sexus. Cfr. inoltre, A. Zorzi, Rituali e cerimoniali penali nelle città

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italiane (secc. XIII-XVI), in J. Chiffoleau e L. Martines, A. Paravicini Bagliani (a cura di), Riti e rituali nelle società medievali, Spoleto, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, 1994, pp. 141-157. 47. «Mulier si est pregnans, et est damnanda propter delictum, differtur iudicium post 40 dies postquam peperit» (citato in V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano, Torino, Utet, 1931, vol. I, p. 37). 48. «Huc accedit, quod mulieres minus puniendas esse viris in eodem delicti genere, ceteris tamen per omnia paribus, universus legum consensus velit, nimirum ob animi, mentis et ingenij imbecillitatem, et sexus infirmitatem» (J. Wieri, De lamiis liber: item de commentitiis ieiuniis, Basileae, ex Officina Oporiniana, 1582, col. 90). 49. A. Tiraquelli, De legibus connubialibus, p. 18v. I versi dell’Eneide sono i seguenti: «[...]Namque etsi nullum memorabile nomen / feminea in poena est nec habet victoria laudem[...]» (P. Vergili Maronis, Aeneidos, lib. II, vv. 583-584).

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Qualche considerazione iniziale L’intento del mio contributo è di verificare, al suo punto di contatto, il rapporto che si venne a creare fra le donne fiorentine e la nuova polizia di Buongoverno, istituita in Toscana dal sovrano “illuminato” Pietro Leopoldo, fra il 1777 e il 1784. Si tratta di indagare nella pratica quotidiana dell’amministrazione, nell’uso che si fece anche dell’immagine delle donne nelle aule dei commissariati e nelle carte di polizia, come e quanto le nuove reti istituzionali di fine Settecento abbiano costituito una nuova modalità laica di disciplinamento sui grandi temi del controllo della morale, dei costumi, dell’uso del corpo, della sessualità; di interrogarsi su quale risposta – e diversa – abbia dato la polizia rispetto alla giurisdizione ordinaria e al tradizionale controllo religioso sui comportamenti morali. Ma si tratta anche di capire quanto e come le donne del popolo fiorentino abbiano usato la nuova rete istituzionale, abbiano reagito alla macchina intrusiva piegandola, in taluni casi, alle proprie strategie.1 Se, in termini più generali, a livello della punibilità femminile, il passaggio dalla sfera del controllo morale religioso, tipico della lunga fase del disciplinamento controriformista,2 a quello sempre più laico e civile della polizia/amministrazione, tipico del secondo Settecento, abbia indotto trasformazioni, e di che segno, nel rapporto fra donne e istituzioni.3 Il lavoro è stato condotto cercando di intrecciare l’indagine complessiva sulle forme assunte dalla nuova polizia4 con la schedatura analitica per un intero anno dei materiali prodotti dal presidente del-

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la polizia, ovvero il presidente del Buongoverno. L’anno prescelto è stato il 1785, periodo in cui, dopo la riforma dell’anno precedente che aveva definitivamente fissato il sistema di polizia, iniziano a funzionare a tutto regime le nuove reti amministrative e giurisdizionali. Nel 1784 era stato infatti creato il potente dicastero del Buongoverno, con uno spettro amplissimo di attribuzioni nel campo del controllo sociale e del disciplinamento dei comportamenti morali, della mediazione della microconflittualità, della tenuta dei nuovi compiti amministrativi già attribuiti ai commissari di quartiere di Firenze e ai vicari foranei dello Stato (dall’igiene alla sanità, dalla pulizia alla illuminazione delle città). Una riforma del vertice dell’esecutivo che giungeva a conclusione di un generale progetto di rifondazione degli equilibri costituzionali fiorentini, con il quale si era progressivamente affermato, non senza opposizioni politiche, un disegno nuovo delle stesse legittimazioni alla rappresentanza; si ricordi al proposito la riforma del maggio 1777 che aveva creato una distinzione netta fra giustizia e polizia e sottratto alle magistrature cittadine il primato nella rappresentanza politica. Furono istituiti a Firenze quattro commissari di polizia cui fu agganciato anche l’esecutivo di giustizia e il controllo sull’opinione pubblica, attraverso la creazione di una rete di informatori e spie che faceva capo ad un ispettore di polizia. I compiti dei commissari di quartiere, figure assolutamente nuove nel panorama istituzionale cittadino, furono amplissimi. Essi vennero investiti della messa in osservazione di tutti i comportamenti degli abitanti ed ebbero anche il compito di occuparsi della giustizia minore sia in ambito civile che penale. In particolare furono loro addossati delicati compiti di mediazione e ricomposizione dei microconflitti sociali, che prima erano regolati dai tradizionali magistrati della città, e anche una larga serie di compiti di amministrazione, quali il controllo sulle condizioni sanitarie del quartiere, il controllo sulle partorienti, il controllo della mendicità, la regolare ispezione sulla prostituzione, la continua attenzione e correzione dei comportamenti ritenuti immorali o pericolosi, la tenuta in osservazione dei vagabondi, accattoni, giovani riottosi; e inoltre la salvaguardia e gli interventi per evitare gli incendi, l’illuminazione della zona e la pulizia delle strade, più in genere il rispetto dell’igiene, ma anche, dal 1779, la tenuta, nell’edificio del commissariato, di nuove scuole di quartiere, che vennero allora istituite.5

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La città venne controllata e contemporaneamente svelata, messa sotto osservazione, spiata, amministrata. Questa ampia valenza sociale e di controllo delle nuove reti porta ad una immediata crescita ipertrofica delle funzioni di questi organismi, certificata dall’abnorme crescita della documentazione informativa.6 E questo avvenne in un momento in cui, come ci ricordano ora Brambilla e Lombardi,7 la polizia prendeva in carico tutta una serie di materie che prima spettavano alle autorità religiose, nel campo del controllo sulla morale e sui costumi. Anche in Toscana, come altrove in questa fase, si ha infatti una progressiva riduzione della giurisdizione ecclesiastica, che culmina nell’abolizione del tribunale del Sant’Uffizio e dei relativi vicariati foranei nel 1782. Passa così alla nuova polizia dello Stato tutta quella casistica di reati morali e sessuali che prima apparteneva alla categoria dei casi riservati o di foro misto dei tribunali vescovili e inquisitoriali.8 Nel 1784 è abolito anche il foro contenzioso ecclesiastico in materia matrimoniale: le cause per gli sponsali, ovvero le rotture di promesse matrimoniali, passano alle autorità laiche e in parte viene loro addossato anche il regime delle separazioni.9 Si tratta dunque di una rete istituzionale che cresce sugli spazi di un’operazione pilotata di laicizzazione del controllo sulla società e sulla morale, e che tende a porsi in concorrenza con i tribunali ordinari. Nel solo anno 1785 passano sotto la supervisione del capo del Buongoverno, che li informa e li trasmette agli ufficiali e commissari dipendenti, ben 1598 affari. Sedici grossi volumi10 aprono una vera voragine di informazione. La vicenda delle donne, delle relazioni fra i sessi (controllo della prostituzione e dei comportamenti licenziosi) occupa uno spazio assai rilevante nella documentazione, ma anche le controversie matrimoniali (separazioni, richieste di protezione per promesse di matrimonio disattese, richieste di mediazione per difficili riconciliazioni in seguito ad accuse di adulterio, bigamia). Nell’insieme questioni di tal genere occupano intorno al 30% degli affari da me schedati. Se le donne e i loro comportamenti sociali e familiari risultano centrali, quale è l’immagine di donna che filtra attraverso le carte di polizia? Quali i linguaggi e le strategie usate per regolare lo spazio delle donne in una città come Firenze, dove la presenza femminile negli ambienti di lavoro delle manifatture era rilevantissima? Si av-

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verte una svolta nel modo di leggere la disobbedienza femminile? Aumenta o diminuisce il tasso di tolleranza nelle infrazioni del codice di comportamento morale e nell’uso del corpo rispetto al passato? O al contrario, questa promozione della responsabilità femminile e questa laicizzazione, interrompendo in parte una vecchia considerazione della donna come minore da tutelare, sono strumento di un più ampio approccio punitivo? Intanto la prima cosa da dire è che la Firenze descritta nelle carte di polizia, come già la Parigi di Arlette Farge e di Michel Foucault,11 scopre brandelli straordinari di quotidianità, fa uscire dal ritmo dei giorni le voci, le scene sociali, e soprattutto dà parole all’inquietudine del presente, rende voce alle donne, ne svela la natura di individui spesso liberi, poco disciplinati, ma anche accorti nel muoversi all’interno dei percorsi giuridici e istituzionali. In questo senso le carte di polizia, nella frequente spregiudicatezza dei comportamenti e nella difficoltà del disciplinamento che testimoniano, danno forse il segno di una società poco legata a quelle forme di interiorizzazione dei comportamenti morali che la diffusione della Controriforma dell’età barocca aveva favorito. Esse consentono uno sguardo nella società e all’interno dei suoi percorsi di “irregolarità” che certamente ci fa meglio comprendere da dove muovesse la spinta potentemente misogina contro l’intemperanza delle donne e delle spose del Settecento, come sappiamo largamente presente in gran parte della letteratura coeva.12 Se queste sono le immagini che ricorrono nelle fonti c’è comunque da dire che, come nel caso dei tribunali ecclesiastici e laici, i documenti pervenutici descrivono e colgono per loro natura i comportamenti irregolari, individuando “l’individuo nel conflitto”.13 Donne vive, di solito del popolo artigiano fiorentino, operanti e circolanti nelle città, lavoratrici povere e giovani sensuali, donne sole,14 o maritate, giovani o meno, si pongono sempre, nelle carte di polizia, in certo modo, in rapporto con l’altro sesso. La polizia apre così la scena delle testimonianze e dà voce alle lagnanze e alla larga e composita vicenda della conflittualità fra i sessi. Note secche di smistamento della corrispondenza informativa verso i commissari, si alternano a quadri vivissimi che emergono dagli interrogatori; e ancora si aprono squarci di sincera passione giovanile nelle lettere d’amore infilate nel dossier,15 dove giovani

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ragazze chiedono giustizia per stupri con promessa di matrimonio. E ancora queste carte si alternano a secche note di precettati e controllati dei due sessi, o a note di donne sole mandate a partorire all’ospedale fiorentino di Orbatello. Al centro della nuova disciplina paterna – questo paternalismo eudemonistico del Buongoverno, che è significativamente traduzione alla lettera del Polizeistaat di area cameralistica16 – è il presidente del Buongoverno, padre autoritario che domina al di sopra delle città e dei suoi quartieri, degli uomini e delle donne che li popolano. Questa figura è quasi un alter ego del principe, ma anche ormai qualcosa di autonomo: una sorta di nuovo gigante dell’amministrazione ancora fortemente personalizzata, tipica della fase di passaggio espressa dal riformismo settecentesco. Eppure se l’osservatorio inquisitorio, panoptico, è certamente un dato centrale, mi pare un errore leggere questo nuovo grande bacino amministrativo del Buongoverno in senso solo persecutorio per i singoli, e tanto più per le donne. La vivezza delle tranches de vie, che gli attori delle singole vicende discoprono, in questo senso riporta al centro quella che è stata, ritengo, una felicissima intuizione storiografica recente:17 la necessità di studiare l’uso privato e sociale che le donne seppero fare delle nuove istituzioni per veicolare e rafforzare le proprie aspirazioni e la volontà di affermare propri diritti. L’analisi della prassi della polizia è stata poi, per quanto possibile, messa in relazione, per così dire verificata, in rapporto alle risposte che vennero formulate su questi temi, nel dibattito teorico che si aprì ai più alti vertici del governo fra i funzionari del settore giudiziario tradizionale, interpreti di una lunga tradizione giurisprudenziale, e i nuovi esponenti della polizia. Dibattito che ebbe, com’è noto, il momento più alto in coincidenza con una verifica a fondo dei temi del diritto del punire che preparò, fra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, la grande riforma del codice leopoldino del 1786.18 Un dibattito che chiamò in campo anche l’immagine della responsabilità della donna di fronte al delitto e la sua punibilità.19 Ho cercato di analizzare queste tematiche, giocando a cavallo fra due modelli: quello magistratuale e tutorio tradizionale, e quello nuovo, amministrativo pregiudiziale e di polizia. In questo senso mi pare emerga dalla ricerca come la polizia sia stata in Toscana, negli anni del riformismo, una nuova leva non

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solo della repressione femminile, ma anche delle voci e delle spinte di legittimazione che dal mondo delle donne arrivavano al vertice politico. Sintetizzando al massimo si tratta di domandarsi quali furono i campi nei quali le donne agirono; quali chances di successo ebbero le loro istanze; e, se è possibile, a quali donne veniva concessa fortuna, a quali no. E forse, ancora più a fondo si tratta di chiedersi quale immagine della donna le carte di polizia veicolino e dovettero veicolare per gli operatori del settore: per il presidente del Buongoverno, per i commissari, per gli esecutori dei quartieri. Esiste cioè una spinta che proviene dal basso, che si addensa nelle carte e nei dossier, che legittima, e tende a configurare come tale, quell’immagine di parità nella punibilità della donna e dell’uomo che era presente, a livello teorico concettuale, nelle posizioni contrapposte dei due ministri Giusti, presidente del Buongoverno, e Iacopo Biondi al vertice del tribunale criminale ordinario?20 La risposta è in parte retorica. Sì, le donne cercarono, in molti casi, di usare (grande analogia con il caso studiato da Foucault e Farge) la polizia, ne fecero un ulteriore strumento di pressione. Fuori da paradigmi vittimistici che le vogliono esterne e giocate dal potere, l’analisi diretta dell’azione delle donne verso la polizia, e spesso in modo incrociato verso il Supremo Tribunale di Giustizia, le svela, a tratti, accorte costruttrici delle proprie reti referenziali e testimoniali; di nuovo capaci, pur all’interno di orizzonti giuridicamente condizionati e stretti, di muoversi nel mondo delle istituzioni e di difendere i propri diritti, e questo in primo luogo proprio nell’uso delle strategie di difesa della propria rispettabilità. Le donne e la loro onorabilità, l’uso del corpo e della sensualità sono al centro di una accanita partita di concorrenza, dai toni spesso assai accesi, fra due modelli di controllo21 e di disciplinamento sociale;22 una lotta che mi pare in qualche modo corrisponda anche – come in parte già Giorgia Alessi aveva segnalato nel suo bel volume Il processo per seduzione23 – allo scontro per il primato e l’egemonia politica e istituzionale in questa fase di intensa progettazione riformistica.24 I tre paragrafi che seguono vogliono costituire la prima tappa di un lavoro sulle pratiche della polizia del Settecento che, dopo un largo approccio istituzionale, intende ora recuperare uno sguardo diverso, sociale e attento alle strategie individuali.

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Matrimoni cercati e matrimoni rifiutati: la polizia e la protezione delle donne Sul tema del matrimonio in età moderna si sono aperti importanti cantieri di ricerca in anni recenti.25 In particolare sul caso toscano, ma con impianto complessivo, è uscito, in tempi recentissimi il bel volume di Daniela Lombardi che dedica al Settecento e ai nuovi spazi disciplinanti delle polizie pagine di grande interesse.26 Il secolo dei Lumi è infatti il secolo in cui la laicizzazione del controllo sulla morale si fa sempre più marcata, in cui i comportamenti delle donne e lo stesso regolamento del matrimonio, da istanza ecclesiastico/ sacramentale tendono sempre più a secolarizzarsi, a farsi spazio regolato dai tribunali e soprattutto dalle polizie. Vorremmo qui descrivere molto rapidamente, con esempi concreti e facendo parlare le storie, come le donne si mossero all’interno dei percorsi delle nuove istituzioni di polizia, chiedendo protezione. Il largo contesto delle controversie matrimoniali è infatti un ambito nel quale risultano ancora assai vive le strategie delle donne sia nella direzione del riconoscimento del proprio diritto ad essere sposate, sia in ambito inverso, nello sforzo di ottenere appoggi per l’interruzione di matrimoni difficili. In questo senso, come vedremo, la polizia senza marcare un distacco dal passato, operò in modo molto diverso dai tribunali tradizionali sia ecclesiastici che laici. Da una parte infatti le donne sembrano ancora ricorrere alle vecchie procedure e ai vecchi stereotipi che puntavano sulla fragilitas per giustificare una “volontà debole” nella seduzione prematrimoniale, o stupro non violento, e quindi chiedere un loro diritto alla riparazione secondo le leggi vigenti.27 Dall’altra parte il poter ricorrere a un nuovo interlocutore politico, ovvero la polizia, presenta il vantaggio di disporre di una procedura assai più rapida (la “procedura economica”) per arrivare ad accordi pregiudiziali,28 rendendo più facile e rapido il ricorso all’appoggio testimoniale e alle reti di solidarietà dei vicini e degli abitanti del quartiere. La prima cosa da sottolineare è che il ricorso alle strutture di polizia per iniziare una causa per “rottura di promessa”, per cercare cioè di “forzare” un matrimonio, risulta, negli anni Ottanta del Settecento, ancora molto largo, anzi forse più largo che in passato. In questo senso le nuove strutture di polizia sembrano ereditare,

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senza troppe cesure, i compiti delle appena abolite giurisdizioni ecclesiastiche che avevano visto un’“ascesa irresistibile” delle cause per rottura di promessa, proprio negli ultimi decenni prima della loro cessazione (1784).29 Ma se questa sostanziale continuità fra tribunali ecclesiastici e polizia laica è di per sé assai significativa, è forse più significativo che la polizia operi in modo solidale anche con il Supremo Tribunale di Giustizia, cui spettava di giudicare in fase risolutiva della materia. Proprio mentre a livello teorico sono in molti, negli ambienti della nuova polizia, a sostenere con vigore la necessità di non proteggere le donne “sedotte”, con argomentazioni che puntano sull’immagine di una donna libera di consentire e corresponsabile della seduzione (socia criminis),30 sembra in sostanza che dalle aule di polizia e dai tribunali fiorentini continui ad allargarsi, in modo solidale, quella protezione tutoria che puntava sull’immagine di una donna che si presumeva sempre sedotta, anche se consenziente (praesumitur seducta).31 Di solito le donne che si rivolgono alla polizia per ottenere una riparazione alla rottura di promessa di matrimonio riescono infatti ad ottenere o il matrimonio o la condanna a pagare la dote da parte dello sposo recalcitrante, anzi le nuove reti di polizia servono spesso ad articolare meglio le loro strategie personali e familiari. I casi analizzati confermano cioè come le strutture di polizia costituiscano una sorta di prolungamento del sistema tradizionale e come la presenza di una rete di giurisdizioni più ampia (la rete giudiziaria penale ordinaria e la nuova rete di polizia) sembri lasciare maggior margine all’iniziativa femminile, quantomeno, e costituire un’alternativa valida alla protezione dei tribunali ecclesiastici che su questa materia ormai tacevano. C’è un caso significativo, che si può qui solo citare: quello di una fanciulla di San Frediano, Marianna Scartabelli, orfana «che fa le trine e cucitrice di bianco». Questa giovane lavorante, esponente di un mondo di donne del popolo fiorentino nella quasi totalità impiegato nelle manifatture o nelle sartorie, sedotta e abbandonata da un ricco giovane della provincia, sa farsi artefice in prima persona di una rivendicazione matrimoniale che riesce a mettere in moto tutti i canali della protezione e a giocare su tutti i tasti dello stereotipo donna debole/da difendere contro il seduttore, riuscendo ad orchestrare una straordinaria macchina di testimonianze a suo favore. Prima da

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sola e poi con l’aiuto di un procuratore, muove tutte le carte della protezione giurisdizionale: la carta della domanda di grazia al principe che avvia la giustizia, delle reti di polizia e alla fine della giustizia del tribunale, l’appello ormai tardivo all’autorità ecclesiastica, ottenendo alla fine il pieno riconoscimento dei propri diritti.32 Il caso è solo uno fra molti altri33 di strategie che risultano spesso vincenti da parte di donne laboriose e intelligenti, che si dimostrano in grado di orchestrare accorte reti testimoniali, per farsi garantire fra i percorsi vecchi e nuovi del diritto. Ma se il ricorso alla polizia può essere utilizzato per forzare i matrimoni, non sono infrequenti neppure casi che indicano come le donne si rivolgano alla nuova polizia e ai suoi canali, anche per rifiutare matrimoni promessi ma non più voluti, esprimendo, tramite le loro voci indirette impresse nei verbali della polizia, una precisa volontà di scegliere il proprio destino. Così una giovane “oblata”, mantenuta in attesa di matrimonio presso il conservatorio delle Paolotte dal fidanzato promesso, un praticante alla scuola di Chirurgia di Santa Maria Nuova, dopo le provate disattenzioni del promesso sposo, esprime al commissario di quartiere, con molta determinazione, la propria delusione e la propria volontà di liberarsi dagli sponsali: Io infrascritta Elisabeta Bartolini dichiaro essere mia precisa volontà che resti sciolto ogni e qualunque contratto di sponsali celebrato fra me infrascritta e Luigi Buscagni […] volendo che ambedue rimaghiamo nella nostra primitiva libertà, non solo perché non state da detto Buscagli mantenute le condizioni in essi fissate, ma ancora per altre ragioni per le quali non conviene che da me si contragga il matrimonio col medesimo.

Anche in questo caso il commissario di quartiere appoggia le pretese dell’oratrice.34 Il rapporto fra donne e polizia sembra creare cioè nuove e, forse, maggiori opportunità anche nell’ambito delle procedure e dei diritti all’interruzione della convivenza matrimoniale, della separazione fra coniugi. Le separazioni erano state regolate a lungo, come sappiamo, nell’ambito dei tribunali ecclesiastici, dando alimento ad una conflittualità molto studiata oggi per scoprire dal vivo le modalità concrete della “definizione dei ruoli sessuali”.35 Regolata in materia di dottrina e di legislazione canonica, nei secoli XII e XIII, e fissata con il Concilio di Trento che aveva sancito la indissolubilità e la sacramentalità matrimoniale,36 la separazione era una delle materie

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che spettavano al foro ecclesiastico, ad eccezione delle conseguenze civili che spettavano al tribunale ordinario. Le alternative erano due: la separazione di fatto (separatio quoad thorum), ovvero la conservazione del vincolo, con la dispensa dall’obbligo di coabitazione; e l’annullamento vero e proprio per causa di un impedimento iniziale. Con il drastico ridimensionamento delle competenze giudiziarie dei tribunali ecclesiastici, decretato in Toscana il 30 ottobre 1784, le liti relative agli sponsali e alle separazioni spettarono ai soli tribunali civili, divenendo così, per le fasi pregiudiziali, di competenza della polizia leopoldina e per le cause vere e proprie, di spettanza del Supremo Tribunale di Giustizia.37 Di solito mossi dalle donne,38 questi procedimenti di separazione divennero così una delle materie più trattate dai commissari di quartiere. Risultano in questo contesto molto frequenti i casi in cui la polizia viene interpellata dalle donne contro la violenza dei mariti. Sembra cioè crearsi un filo donne-polizia che tende a garantirle al di fuori del modulo magistratuale e tutorio, creando una sorta di nuovo spazio franco nelle relazioni fra i sessi. In questo senso forse la polizia occupa ora gli spazi di un altro interlocutore giudiziario fondamentale che cessava di esistere, ovvero il tribunale ecclesiastico. Proprio perché calato a fondo nella vita del quartiere, e a conoscenza dei problemi e dei comportamenti dei suoi componenti, uomini e donne, il commissario sembra riuscire rapidamente a farsi un’idea precisa delle unioni e delle responsabilità della cattiva riuscita di un legame. In questo senso la polizia sembra (ma ovviamente la ricerca va ancora approfondita) pronunciarsi in modo coerente per interrompere unioni nelle quali venga sacrificata non solo l’onorabilità ma anche la sicurezza economica del nucleo familiare. Qualche esempio può aprire la vivezza di quadri di vita e illustrare questo rapporto fra donne e nuova polizia sul tema della separazione. Sono molto frequenti infatti i casi in cui le reti di polizia, e i commissari in particolare, servono a giustificare e a dar credito alle istanze delle donne contro i mariti. Se questi sono violenti, rissosi e incapaci di mantenere le famiglie, se la donna dimostra di essere lei a mandare avanti le cose con il suo lavoro, in questi casi sembra crearsi un asse di protezione e di legittimazione della separazione da parte delle autorità di Buongoverno: un asse che si affianca e poi si sostituisce, dal 1784, a quello del ricorso per le separazioni ai tribunali ecclesiastici.39

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È il caso ben documentato di due sposi: Regina e Giovanni Tombelli del Bagno alla Porretta.40 L’azione viene mossa, nel 1785, dal marito che si rivolge alla giustizia chiedendo che la moglie rientri sotto il tetto coniugale. L’accusa è pesante: Regina sembra essersene andata portando con sé i beni di famiglia «e mi lasciò in piena terra quando la presi e la sposai ed era scalza e ignuda». Giovanni gioca su tutti gli stereotipi rovesciati dell’uomo ingenuo, abbandonato, ma si appiglia in particolare al tema della dubbia onorabilità della moglie fuggita. Dichiara di essere andato più volte a Firenze, dove la moglie ormai viveva, per cercare di riprendersela, «ma non mi ha vorsuto accettare, neppure farmi vedere la mia figliola» e subito dopo insinua «onde credo che stia in peccato una parte, e l’altra vorrei tornare insieme». Ben presto si scopre come la donna si trovi al centro di una composita alleanza maschile contro il suo stato di donna “separata”. Non è solo il marito che la cinge d’assedio, ma anche il patrigno che ne mette in dubbio pubblicamente l’onore. La risposta a questi attacchi è appunto un ricorso al commissario che, in qualità di fulcro del controllo del corpo sociale del quartiere a lui affidato, è in grado di obiettare alle generiche accuse sulla moralità di Regina rivolte dal patrigno e dal marito, «con le più certe informazioni del carattere di detta donna»: persona dichiarata da tutti onesta, e in particolare appoggiata dal parroco. Le indagini svelano allora, in modo assai significativo, che è soprattutto l’intraprendenza economica della donna ad aver acceso la gelosia del patrigno e ad averlo portato all’alleanza con il genero, dato che Regina esercitava, sembra con successo, «il mestiere della rivendita simile al suo». Le testimonianze della donna al commissario rafforzano le informazioni e la “solidarietà” dell’uomo della polizia, ma anche la volontà di saperne di più dell’intera vicenda. Le prove delle due parti si accumulano: Regina produce le «permissioni» che le avevano consentito di separarsi (un attestato dell’arciprete, del governatore e di suo zio concordi nel testimoniare il «pessimo carattere di detto suo marito»), ma presenta anche un lungo memoriale di parte, che è presumibile fosse stato steso dal suo procuratore. In esso marito e moglie vengono visti nella loro intera vicenda matrimoniale. Sembra che l’uomo, già facoltoso possessore della zona, avesse dilapidato il patrimonio lasciando la famiglia in difficoltà. La prima separazione di Regina era stata conseguente all’ennesima

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richiesta di danaro da andare a sperperare a Bologna. Esasperata, come aveva tante volte minacciato, la donna se ne era andata con le figlie a Firenze, dove aveva aperto bottega. Alla richiesta di tornare nella casa del marito da parte delle autorità locali, aveva obiettato che l’avrebbe fatto solo se il marito si fosse piegato ad «una vita da uomo onesto e cristiano». Ma al di là delle scarse doti morali e dei suoi tradimenti, era soprattutto l’inaffidabilità dell’uomo nel garantire il mantenimento alla famiglia che risultava per Regina inaccettabile e che il suo procuratore poneva in prima linea nel domandare un appoggio alle forze di polizia: «poiché detto Tombelli vorrebbe vivere in ozio profittando del guadagno della moglie, quale tenendo una bottega e avendo trovato chi li fida, attesa la sua puntualità, procura a sé stessa e alle figlie il necessario giornaliero sostentamento». Alla fine della controversia viene concessa a Regina l’autorizzazione a star lontana dal marito, credendosi «coerente alla buona giustizia che debbasi permettere alla medesima di potere continuare a star separata dal marito, e così somministrare alla sue povere figlie quel sostentamento che non si potrebbero esse procurare».41 In tema di separazioni, si danno anche casi in cui si ricorre alla polizia per forzare le decisioni già prese dal magistrato secolare che regolava gli effetti civili della separazione e che a Firenze era, nel 1785, il Magistrato Supremo. È interessante sottolineare come non siano rare le situazioni nelle quali la giustizia ordinaria e la nuova giustizia sommaria di polizia entravano in contrasto. Fu così, ad esempio, nel caso di Maddalena Rinieri,42 che aveva ottenuto dal commissario e dal presidente del Buongoverno di potersi separare «per le sevizie che suo marito gli praticava», con l’obbligo per quest’ultimo di passare alla moglie una cifra stabilita per l’imminente parto. Rivoltasi, per ottenere il decreto di separazione, al Magistrato Supremo, questo non ratificò la decisione economica del commissario, levando a Maddalena il diritto agli alimenti non senza aver sottolineato, per conto dell’assessore, il valore subordinato delle procedure “stragiudiziali”, rispetto a quelle ordinarie della magistratura. Segno che la competizione fra le procedure dei tribunali ordinali e quelle di polizia, che si espresse in modo evidente negli scontri che si ebbero al vertice degli apparati,43 si riverberava anche su tali minute questioni di procedura e di concorrenza istituzionale.

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Se la procedure per separazioni erano state frequenti anche in passato, si ha l’impressione che ora la polizia diventi, soprattutto per le donne lavoratrici e in grado di sostentarsi con onore, uno strumento importante per legittimare la propria volontà di essere rispettate e riconosciute. Ne esce l’immagine composita e articolata di donne che lavorano, come dicevamo, che spesso si addossano l’onere dell’intera famiglia, molto frequentemente costrette a lasciare i figlioli all’Ospedale degli illegittimi. Ma emerge a tratti anche, aprendo straordinari brani di vita, il linguaggio franco e schietto della loro indipendenza, della loro fierezza, a volte della loro ostentata volgarità. Come nel caso di una donna che non voleva più stare con il marito «il quale vorrebbe contar molto sul di lei lavoro e tenerla corta nel vitto», che, alla richiesta del marito di tornare a casa e alla promessa di non bestemmiare più, sembra avesse risposto «che pensi alla sua anima che detta moglie pensa alla sua».44 Ma la polizia era anche spesso al fianco delle donne sposate, trascurate o tradite dai mariti, in molti casi non per dividere ma per ricucire unioni; magari con azioni decisamente intrusive, come ricorrere all’uso di precetti dei commissari o alla reclusione dei mariti nei correttori. Se infatti questi provvedimenti e luoghi di repressione e di correzione, istituiti in questi anni, furono strumenti di una forzata moralizzazione e vennero spesso vissuti, da una gran parte della pubblica opinione, come espressione di un paternalismo disciplinatorio e oppressivo,45 essi furono anche molto rapidamente conosciuti ed “usati” da uomini e donne di Firenze. La città spiata dalla polizia, divenne una città in cui i soggetti potevano a loro volta farsi attori di delazione e di spionaggio familiare. Così una donna, nel 1785, si rivolge al presidente della polizia perché le faccia «la carità di levarne d’insieme la Caterina Albani con il mio consorte Boni».46 La tresca conosciuta da tutti era infatti inaccettabile non solo per lei, ma per le quattro figlie «sicché questo scompiglio è causa di una grandissima perdita di verginelle». La richiesta di protezione al commissario di quartiere era ancora più scoperta e cattiva: la Boni domandava che la rivale fosse rinserrata nella neoistituita (nel 1783) Casa di correzione per le donne: «La prego almeno a rinserrarmela come hanno fatto d’altre». La donna non venne rinchiusa ma fu precettata, con ordinanza scritta, a non frequentare il Boni. Gli esempi potrebbero moltiplicar-

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si e illustrare l’uso assai largo, diverso sulla base del genere, e del ruolo familiare, che gli uomini e le donne dei quartieri fiorentini cercarono di fare di questi strumenti del “sorvegliare”, per correggere i comportanti di figli, mogli e mariti. Più in generale, come accennato, non è infrequente che i commissari si facciano protettori di istanze delle donne lavoratrici e che in quanto tali le riconoscano, quali veramente esse sono a fine Settecento, indispensabili produttrici del reddito familiare.47 I casi sono molti e il tema meriterà di essere ripreso: si citi solo l’intercessione di un commissario di quartiere che, nell’aprile 1785, si fa sollecito difensore di una donna fiorentina che, dopo avere ricevuto una somma di danaro per vendere il proprio telaio, era ricorsa alla protezione della polizia per ottenere di tenersi il telaio, indispensabile al suo lavoro, in cambio di una restituzione a rate di quanto le era stato anticipato per la vendita.48 Insomma entrando nella vita del quartiere, vivendo ad unisono con i suoi abitanti, constatando anche quanto le donne lavorino e garantiscano la stessa sopravvivenza delle famiglie, i commissari diventano mediatori e parte attiva nella loro difesa.49 Appare cioè confermato nel caso della tarda polizia toscana quanto è già emerso in altre aree europee, come sia in questo linguaggio più diretto e meno mediato dalla giustizia che si esprime a pieno uno spazio franco di pressione, subito utilizzato dalle donne, a volte a proprio favore.50 Le donne disonorate e sole Tuttavia se le donne che erano riuscite a dimostrare la propria affidabilità ed onestà potevano essere “protette” dalle nuove forme delle procedure economiche di polizia, le “disoneste”, o semplicemente le donne di cattiva fama, erano oggetto di un vero e sistematico attacco disciplinatorio. Anche la ricerca di matrimoni ineguali da parte di fanciulle di rango più basso finiva spesso per impigliarsi fra le maglie del sospetto di disonestà. La forza delle famiglie per impedire matrimoni ineguali, anche in presenza di “stupro” con promessa di matrimonio, è infatti, come dimostrano le carte di polizia e del Supremo Tribunale di Giustizia,

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molto grande e affonda le radici in una lunga e consolidata tradizione per cui le istituzioni e il principe stesso si erano posti, qui come altrove, quali garanti di scelte matrimoniali rispettose «delle gerarchie sociali e del controllo delle famiglie sui matrimoni dei figli».51 Il gioco era, in questi casi, sempre difficile per le promesse-spose povere, che si trovano spesso isolate, senza adeguati mezzi di difesa, a combattere la battaglia del proprio onore e del proprio futuro contro le forze organizzate della famiglia dell’uomo, che usava frequentemente i più agguerriti mezzi di difesa giudiziaria, non disdegnando di forzare, e spesso di comprare le prove testimoniali contro la supposta onestà della fanciulla. La partita si gioca infatti, come sappiamo, sul terreno della dimostrazione dell’onore.52 La provata disonestà della fanciulla al momento del coito con promessa di matrimonio, liberava, ipso facto, l’uomo compromesso dal matrimonio ineguale, senza dote adeguata e con una donna dallo status sconveniente. Come si è potuto largamente documentare, le famiglie in questo caso muovono la propria azione su due fronti concentrici per isolare il rischio dell’aspirante sposa povera, supposta disonesta. Il primo fronte in cui si impegnano è quello pubblico, dell’uso cioè del canale istituzionale giurisdizione/polizia; si mettono in opera in questa direzione tutti i mezzi per dimostrare la cattiva fede della donna, e soprattutto per raccogliere le prove testimoniali della sua precedente disonestà di donna già frequentata da uomini e deflorata. Emerge nelle allegazioni delle difese maschili, e viene spesa giudizialmente, quella casistica di donne argute e sagaci, ammaliatrici e impudiche a caccia di un marito da abbindolare, di donne forti e della loro capacità di seduzione, che popolava i moduli retorici della trattatistica del XVIII secolo.53 Il secondo fronte sul quale si impegnavano attivamente le famiglie per evitare matrimoni ineguali o in alternativa riparazioni dotali onerose era quello di disciplinare dall’interno i figli. La segregazione era a questo proposito il mezzo più comune. Saputo di un rapporto ineguale la prima misura era quella di allontanare il giovane, spesso sinceramente appassionato dall’oggetto del suo desiderio, operando su di lui tramite una spesso snervante e quasi ossessiva operazione di discredito della amata. C’è un caso molto bello, emblematico di quanto dicevamo, che ho studiato da vicino: quello di due giovani che vivono intensamente

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una vicenda di passione nella Firenze degli anni Ottanta. Lei è una giovanissima attricetta di una compagnia di comici, lui, un ragazzo di famiglia benestante. La ragazza rimane incinta, dopo che lui ha promesso di sposarla davanti a testimoni. L’opposizione del padre di lui li divide, ma all’inizio il giovane appassionato non se ne dà per vinto e scrive una serie di bellissime lettere d’amore alla promessa sposa, che si “incistano”, come accadeva spesso, nel dossier del Presidente del Buongoverno come prova del suo impegno.54 Ma poco alla volta il giovane, sotto la pressione di tutte le autorità costituite – dal padre al vicario, al presidente del Buongoverno, al presidente del Supremo Tribunale di Giustizia – inizierà prima a tentennare e poi negherà decisamente la passione iniziale. Sotto una tutela paterna pesante, insinuati, anche per le dichiarazioni compromettenti della ragazza sul proprio passato, dubbi pesanti sulla sua condotta precedente, il giovane alla fine la abbandona, arrivando a sottoscrivere una dichiarazione autografa davanti al notaio (5 febbraio 1785), che esprime la vittoria del fronte familiare/istituzionale, ma anche la sua profonda e gelosa delusione di amante: [...] col presente mi dichiaro espressamente di non voler in conto alcuno devenire alla effettuazione delli sponsali per verba de presenti e questa mia dichiarazione viene da me fatta fuori da ogni soggezione del ciglio paterno[...] e in stato di riflettere a me stesso e alla propria coscienza, e la promessa che feci alla suddetta Gattolini procedè da una violenta passione risvegliatami dalla medesima colle sue teatrali maniere, essendo io poi in credulità che essa Gattolini fosse una giovane che non avesse avuto con altri che fare, onde dal momento che io restai inteso di ciò che aveva essa confessato mi stomacai a segno che non posso più sentirne discorrere[...]

La ragazza non ottiene, come detto, nessun compenso: il suo caso, essendo stata giudicata già deflorata prima di conoscere “carnalmente” Pietro Frati, non cade sotto la categoria dello stupro, né semplice, né con promessa.55 Il matrimonio ovviamente non avviene: la ragazza, giovanissima (aveva 18 anni), viene riconsegnata al suo destino di donna compromessa, attrice sola e malfamata. In termini più generali è possibile affermare che di contro ad una larga vulgata, usata strumentalmente, che voleva l’abile donna corrotta accaparrarsi il marito ricco, con i mezzi della giustizia, sembrano davvero rari i casi in cui questi matrimoni ineguali con una donna

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di cui si erano provati trascorsi non trasparenti, potevano passare dalla strettoia combinata polizia/giustizia ordinaria. In questo senso appare lunga e ininterrotta la continuità documentata con il passato e certo la presenza della polizia non costituisce alcuna garanzia in più. Si scopre un mondo di donne abbandonate e sole a battersi per difendere la propria onorabilità. Un disciplinamento difficile: donne lavoratrici, prostituzione e pratiche libertine Più complesso è capire come la polizia agisse nei confronti di quelle donne che trasgredivano le regole dei comportamenti morali e sessuali. Certamente, come si è già visto, un dato di fatto è l’uso straordinariamente largo dei “comandamenti” e dei “precetti”, che sembrano sostituire questa pratica visibile e conclamata alle forme più tradizionali di controllo che erano passate soprattutto attraverso il disciplinamento religioso.56 Una volta segnalato un comportamento morale che necessitava di correzione, si procedeva ad una rapida inchiesta, corredata da interrogatori, e si passava poi alla punizione. Tali punizioni si esprimevano in pubblici avvertimenti, pronunciati dal commissario, a non più ripetere cattivi comportamenti, e nei casi di recidiva o di più grave minaccia della pubblica morale, in precetti di non uscir di casa, di non frequentar luoghi pubblici. Spesso il precetto veniva emesso ad personam, e si esprimeva nell’ingiunzione a non frequentare un amante la cui identità era dichiarata nel precetto. Nel 1779 furono ad esempio impartiti, nel quartiere di Santo Spirito,57 un totale di 148 precetti: 16 relativi all’ingiunzione a gravide, non maritate, di ben conservare il feto; 56 per correggere una condotta familiare o rapporti interpersonali; 21 precetti erano relativi all’ingiunzione di applicarsi a lavori stabili, combinata con l’obbligo di non frequentare luoghi pubblici; 18 precetti era indirizzati a giocatori d’azzardo di non più giocare; 25 precetti vietavano a giovani dei due sessi di uscire di casa la sera; i restanti riguardavano precetti relativi alla sanità, al divieto di questua per i poveri, al meretricio.58 Per i discoli e libertini impenitenti si praticava, per intervento dell’auditore fiscale, la condanna alla milizia per gli uomini; mentre per le donne, a partire dal

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1783, la gran parte delle punizioni, in caso di recidiva, veniva convertita in periodi di reclusione obbligatoria nella neoistituita Casa di correzione.59 In termini più generali è tutta l’area dei reati sessuali che tende a slittare di fatto sotto il controllo della polizia e a passare ai tribunali ordinari solo dopo il dimostrato insuccesso delle vie sommarie della stessa polizia. Anche l’adulterio, punito molto severamente dalla legge criminale del 1786,60 viene in realtà in moltissimi casi regolato e disciplinato dall’azione correzionale della polizia. Come scriveva Giusti, presidente della polizia: «I delitti di sensualità», che «affliggono generalmente l’uman genere», non dovevano esser puniti «con il rigore delle leggi dei romani», bensì «con pene economiche, più o meno gravi secondo le circostanze, non esclusa la frusta, il cibo a pane e acqua».61 Il controllo sui comportamenti morali e sulle abitudini sessuali, come si è già accennato, era spesso messo in moto dalle stesse famiglie che si garantivano contro le intemperanze incontrollate di un proprio membro, fossero essi giovani riottosi o donne che imbastivano rapporti “pericolosi”. Altre volte il sospetto di cattivi comportamenti veniva a pesare su donne intraprendenti e attive nel campo del lavoro. È il caso di una certa Maria Agata Galli che per comportamenti non morali viene precettata a restare a casa di giorno e di notte, con un ordine del 1784. In questo caso la donna, con indubbia intraprendenza, fa pressione sui canali di polizia per ottenere, dopo aver comprovato un comportamento ormai “corretto” dalla punizione, di essere libera dal precetto, per poter svolgere la sua attività e potersi muovere liberamente per smerciare i veli prodotti dai telai di casa sua. Una pressione e una difesa della propria attività di operosa piccola “imprenditrice” che anche il commissario appoggia – e la cosa era, come visto, non infrequente – presso il presidente della polizia: È vero che questa donna tiene diverse telaja nella propria casa per tessere dei veli, quali parimenti smercia a chiunque se li presenta: e il precetto di non ricevere non v’è dubbio che gli sia di qualche nocumento per potersi industriare.62

Ma molto spesso il nuovo interventismo panoptico della polizia bloccava e irretiva i comportamenti delle donne di dubbia morale. Si può citare una significativa richiesta di protezione rivolta alla polizia

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dalle balie dell’Ospedale degli Innocenti, per tramite dello stesso commissario dell’Ospedale. Sembra infatti che l’uso di convivere insieme in comunità femminili, secondo comportamenti considerati dalle autorità leopoldine troppo liberi, senza protezione di figure maschili, venisse ora stigmatizzato e represso dalla giustizia. L’invio di ispezioni degli uomini del tribunale e della polizia negli alloggi delle balie provocava (a detta del commissario dello stesso Ospedale degli Abbandonati) «in tutte una somma tristezza, alterazione nel loro individuo e confusione di spirito». Fra i comportamenti moralizzanti delle nuove autorità e l’utilità sociale delle prestazioni professionali delle balie – in questo caso dare il latte ai bambini abbandonati – si creava un contrasto difficile da sanare. Le donne controllate potevano forse “guadagnare” in moralità ma perdevano il latte per i bambini esposti che erano così soggetti a malattie e morte.63 Se le donne pericolanti erano tenute sotto il controllo vigile del commissario di quartiere e dei suoi uomini, tutta nuova e di loro pertinenza fu la normativa per il controllo della prostituzione. In questo campo furono particolarmente rilevanti le trasformazioni indotte dalle nuove reti di polizia. Con un provvedimento del 1779 il controllo della prostituzione passava infatti tutto sotto la loro giurisdizione. Le meretrici non potevano muoversi senza licenza ed era compito del capo squadra del quartiere, dipendente dal commissario, di compilare un rapporto mensile sul loro comportamento. Tali compiti andavano dai commissari “religiosamente” rispettati.64 Le carte di polizia si gonfiano così dei fascicoli relativi a questi temi: grandi inchieste su reti di lenocinio lasciano traccia vistosa di sé. Un aspetto questo significativo delle nuove procedure di polizia, anche se ancora da indagare a fondo e al quale si può qui solo accennare.65 Basti citare il caso, ancora nel 1785,66 di una gruppo di donne fiorentine, sposate quasi tutte e lavoratici, che si stringono in una rete per organizzare un giro fisso di prestazioni per un esigente e facoltoso signore inglese. Colte una dopo l’altra dal controllo dei commissari e del presidente del Buongoverno, queste donne si scoprono ai nostri occhi quasi tutte sposate, già precettate per analoghi comportamenti, alcune già recluse in passato nella Casa di correzione. Era questo il caso di Flavia Severini, già adultera richiamata al rispetto

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del marito attraverso la reclusione correzionale, che viene ora accusata di essersi prostituita all’inglese, portandosi dietro la figlioletta di 13 anni. Il procacciatore delle donne era un lucchese, ma le concrete operazioni di “reclutamento” nel quartiere erano affidate ad una donna, Ancilla Landi. Anche la Severini era stata trovata da lei, come affermò il lucchese: «aveva trovato roba per quel signore che sapevo e io le domandai chi era costei che aveva trovato e lei disse che era una che stava in via maggio e che aveva avuto un precetto di non trattare il suo ganzo». La raccolta delle donne si faceva in crocchietti dal vinaio, «e si bevve un fiasco in cinque». La promiscuità dei comportamenti era tale che il sacro si confondeva con il profano: Flavia era stata addirittura avvicinata la mattina di Pasqua, alla sua Compagnia di Sant’Antonino dove era andata a confessarsi. Ma al di là delle protagoniste attive, la rete delle donne sporadicamente coinvolte nella tresca è assai più ampia. Sono spesso incannatrici di seta, uno dei mestieri più poveri e femminilizzati della città, o sarte o tessitrici di lino.67 Molte sposate, alcune vedove. Nessuna è prostituta di professione. L’immagine che emerge è quella di una città in cui il lavoro delle donne è larghissimo ma insufficiente, in cui ci si frequenta per le strade, in cui non è certo insolita la pratica dell’adulterio, o addirittura quella di fornire saltuariamente “servizi” sessuali, sotto compenso. Eppure anche nel campo della prostituzione questo mondo di donne popolane, lavoratrici, spesso senza occupazioni stabili, saltuariamente meretrici, risulta nelle carte di polizia di una straordinaria vivezza. Fuori dai cliché giuridici che imbalsamano il giudizio coevo negli stereotipi della donna corrotta, libertina e punibile fuori da ogni tutela giuridica del passato, si impongono le donne e gli uomini reali: non sempre e non solo devianti, ma a tratti devianti, in bilico fra attività diverse, alla ricerca di integrazioni, anche illecite, dei propri introiti. Insomma il dialogo fra donne e polizia, fra repressione e riconoscimento delle spinte verso la propria legittimazione da parte di soggetti utili ed operosi, svela inaspettati scenari. I commissari sono gli uomini della repressione ma anche i più fini conoscitori della realtà dei quartieri che amministrano, controllano, disciplinano. Si viene a creare un rapporto complesso, interlocutorio fra gli uomini del controllo e i/le controllati/e. Un paternalismo che se esprime il livello del nuovo controllo non più giudiziale e tutorio, ma preventivo e intensivamente panoptico, pone anche in campo una considerazione,

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destinata a proiettarsi anche sull’Ottocento, di un nuovo contatto fra devianza sessuale e polizia.68 Ci sarà da domandarsi se la spinta a considerare le donne pari agli uomini nella punibilità che si espresse con determinazione nei dibattiti di preparazione alla Leopoldina del 1786 e poi più tardi, non nasca anche da questa frequentazione quotidiana degli uomini della polizia con le donne dei quartieri: laddove le loro voci uscivano, allora come oggi, con una vivezza consapevole straordinaria. «La esperienza che non inganna assicura essere stato sempre simile od uguale a quello degli uomini il carattere delle donne, il loro costume, il loro spirito».69 Era il presidente della polizia Giuseppe Giusti che scriveva questo passaggio nel 1790, auspicando una sempre più ampia tutela dei costumi affidata alla polizia e la parità nella punibilità delle donne rispetto agli uomini. Misoginia ed egualitarismo, primato delle procedure sommarie e del disciplinamento di polizia fra dottrina giuridica e pratica amministrativa: sono consapevolezze, vischiosità e ambiguità ancora tutte da indagare.

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Note 1. Sulle nuove sensibilità storiografiche che dominano gli indirizzi attuali della storia delle donne, attenti ai paradigmi dell’intraprendenza, della mediazione e della negoziazione delle donne, piuttosto che non ai precedenti schemi che puntavano tutto sull’oppressione, si vedano le considerazioni e gli ampi rimandi bibliografici in S. Seidel Menchi, A titolo di introduzione, in A. Seidel Menchi, J. Schutte, T. Kuehn (a cura di), Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 1997; G. Alessi, L’uso del diritto nei recenti percorsi della gender history, in «Storica», V, 15 (1999), pp. 105-121. 2. Cfr. P. Prodi (a cura di), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra Medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 1994; G. Alessi, Discipline. I nuovi orizzonti del disciplinamento sociale, in «Storica», 4 (1996), pp. 6-37; E. Brambilla, Libertà filosofica e giuseppinismo. Tramonto delle corporazioni e ascesa degli studi scientifici in Lombardia, 1780-1796, in G. Barsanti, V. Becagli, R. Pasta (a cura di), La politica della scienza. Toscana e Stati italiani nel tardo Settecento, Firenze, Olschki, 1996, pp. 393-433; Eadem, Giuristi, teologi e giustizia ecclesiastica dal ’500 alla fine del ’700, in M.L. Betri, A. Pastore (a cura di), Avvocati, medici, ingegneri. Alle origini delle professioni moderne, Bologna, Clueb. 1997. 3. Tengo a precisare che quella presentata non è che una prima tappa di una ricerca ben più ampia sul tema della polizia e delle donne nel Settecento cui sto lavorando; ma è già possibile, ritengo, iniziare a discutere sul tema corpo e punibilità nella sua coniugazione di genere e in rapporto alle trasformazioni settecentesche. 4. Sulla polizia toscana in termini generali, cfr. A. Mangio, La polizia toscana, organizzazione e criteri di intervento (1765-1808), Milano, Giuffré, 1988; A. Contini, La città regolata: polizia e amministrazione nella Firenze leopoldina (1777-1782), in Istituzioni e società in Toscana nell’età moderna. Atti delle giornate di studio dedicate a Giuseppe Pansini, Firenze 4-5 dicembre 1992, Roma, Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali, 1994, vol. I, pp. 426-450; G. Alessi, Questione giustizia e nuovi modelli processuali tra ’700 e ’800. Il caso leopoldino, in Atti del convegno “La ‘Leopoldina’ nel diritto e nella giustizia in Toscana”, Milano, Giuffré, 1989, vol. 5, pp. 151-187. 5. Cfr. A. Contini, La città regolata: polizia e amministrazione nella Firenze leopoldina, passim. 6. Gli affari si conservano, fino alla riforma del 1784 presso il foro dell’Auditore fiscale (in Archivio di Stato di Firenze, d’ora in poi ASF), vertice del sistema giurisdizionale e di polizia ereditato dal passato sistema mediceo, e dal 1784 presso la Presidenza del Buongoverno, istituito quale vertice della polizia toscana il 22 aprile 1784. La crescita degli affari è in coincidenza con la riforma del maggio 1777, con la quale si crearono le nuovi reti di polizia a Firenze (commissari di quartiere e ispettore, con relative squadre di sottoposti). Cfr. “Negozi di Polizia” dal 1748 al 1798: decennio 1748/5: filze 29; decennio 1758/66: filze 29; decennio 1767/76: filze 59; decennio 1777/86: filze 179; decennio 1787/1796: filze 138. 7. Cfr. Brambilla, Libertà filosofica e giuseppinismo; D. Lombardi, Matrimonio di antico regime, Bologna, Il Mulino, 2001.

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8. Osserva Elena Brambilla come le riforme illuminate, «avviano la laicizzazione della giustizia ‘spirituale’ in disciplina dei costumi, trasferita da vescovi, vicari foranei e parroci a nuovi uffici di polizia». Brambilla, Giuristi, teologi e giustizia, p. 187; cfr. anche Eadem, Libertà filosofica e giuseppinismo. 9. Cfr. Lombardi, Matrimoni di antico regime, pp. 167 ss. 10. Cfr. ASF, Presidenza del Buongoverno, ff. 12-27. 11. Cfr. A. Farge, M. Foucault, Les desordres des familles. Lettres de cachet des Archives de la Bastille, Paris, Gallimard, 1982; A. Farge, Il piacere dell’archivio, Verona, Essedue, 1991. E sulla polizia parigina del Sei-Settecento, grande modello a livello europeo, si veda P. Piasenza, Polizia e città, strategie d’ordine, conflitti e rivolte a Parigi fra Sei e Settecento, Bologna, Il Mulino, 1990. 12. Cfr. L. Guerci, La sposa obbediente: donna e matrimonio nella discussione dell’Italia del Settecento, Torino, Tirrenia Stampatori, 1988; Lombardi, Matrimoni di antico regime. 13. Cfr. S. Seidel Menchi, I processi matrimoniali come fonte storica, in S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), Coniugi nemici. La separazione in Italia dal XII al XVIII secolo, Bologna, il Mulino, 2000, pp.15-94, in particolare p. 17. 14. Sul tema cfr. M. Palazzi, Donne sole: storie dell’altra faccia dell’Italia tra antico regime e società contemporanea, Milano, B. Mondadori, 1997. 15. Sulla larga presenza di lettere d’amore nei processi del Settecento, come prova più che di un mutare del sentimento amoroso di una più larga alfabetizzazione, cfr. Lombardi, Matrimoni di antico regime, pp. 152-153. Di solito le lettere presenti nei dossiers dei commissariati sono quelli degli uomini, perché sono le donne che le usano come prova testimoniale a proprio vantaggio; ma ovviamente questi problemi mettono anche in campo il tema del diverso livello di alfabetizzazione in rapporto al genere, oltre che (appare scontato) alla provenienza sociale. Per una riflessione importante sulla scrittura epistolare, e in particolare sulle lettere delle donne, cfr. G. Zarri (a cura di), Per lettera. La scrittura epistolare femminile tra archivio e tipografia, secoli XV-XVIII, Roma, Viella, 1999. 16. Cfr. J. von Sonnenfels, Grunsätze der Polizey, Handlung und Finanz, Vienna, 1765-1776, 3 voll., in particolare vol. 1; su Sonnenfels, come noto esponente di spicco dell’illuminismo giuridico di area asburginca tedesca, e sui suoi Grundsätze, che ebbero una larga utilizzazione e circolazione, manuale del maturo cameralismo, ma anche espressione del suo punto di rottura, si veda il contributo di P. Schiera, La concezione amministrativa dello stato in Germania (1550-1750), in Storia delle idee politiche economiche e sociali, diretta da L. Firpo, vol. IV, L’età moderna, tomo I, UTET, 1980, pp. 363-442, in particolare pp. 422 ss. e, in appendice, la nota bibliografica a p. 441. Con Sonnenfels il fine dello stato continua a essere, come nella tradizione cameralistica, la ricerca del Wohlfahrt, dell’equilibrio fra “bene” dell’insieme e “bene” delle parti ma, come osserva Schiera, per lui il Wohlfahrt si articola in due condizioni: la “sicurezza” e la “comodità”. Mentre quest’ultima attiene alla sfera degli interessi privati e commerciali, la sicurezza pubblica (die innere offentliche sicherheit) «è quella condizione di cose in cui lo Stato non ha nulla a temere dall’interno cioè dai suoi propri cittadini» (Sonnenfels, Grundsätze, vol. I, Vienna, ed. 1770). Si vedano anche le considerazioni di E. Bussi, I principi di governo nello stato di polizia, Cagliari, Edward, 1955. Del primo volume dei Grundsätze fu, come noto, fatta nel 1784 una traduzione italiana

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prima a Milano e nel 1785 a Venezia (La scienza del buongoverno del signor di Sonnenfels, Venezia, Giovanni Vitto con pubblica approvazione, 1785); sul tema della sicurezza, si vedano in particolare pp. 12 ss. di questa edizione. 17. Cfr. G. Calvi, Il contratto morale: madri e figli nella Toscana moderna, Roma-Bari, Laterza, 1994. 18. Sulla leopoldina e la sua preparazione, cfr. M. da Passano, Dalla “mitigazione delle pene” alla “protezione che esige l’ordine pubblico”. Il diritto penale toscano dai Lorena ai Borbone (1786-1807), in Atti del convegno “La ‘Leopoldina’, Criminalità e giustizia nelle riforme del’700 europeo” (ricerche coordinate da Luigi Berlinguer), 1988, vol. 3. Cfr. anche, importante, Alessi, Questione giustizia e nuovi modelli processuali tra ’700 e ’800. Per molti utili materiali sul dibattito preparatorio, si veda in edizione critica D. Zuliani (a cura di), La riforma penale di Pietro Leopoldo, in Atti del Convegno “La ‘Leopoldina’ nel diritto e nella giustizia in Toscana”, 1995, vol. 2. 19. Sul lungo percorso giuridico dell’immagine dell’inferiorità della donna nel pensiero dei penalisti, cfr. M. Graziosi, Infirmitas sexus. La donna nell’immaginario penalistico, in «Democrazia e Diritto», 2 (1993), pp. 99-143 20. Cfr. Contini, La città regolata: polizia e amministrazione nella Firenze leopoldina. In merito alla sostanziale condizione di parità fra uomo e donna nei reati sessuali, e per un’interruzione del tradizionale gioco delle tutele delle donne, si pronunciò il fronte di coloro che sostenevano la necessità di passare i reati sessuali sotto il controllo della polizia. 21. Cfr. A.M. Hespanha, Storia delle istituzioni politiche, Milano, Jaca Book, 1993; L. Mannori, B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Roma-Bari, GLF Editori Laterza, 2001. 22. Cfr. M. Focault, Sorvegliare e punire: nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1993. 23. Cfr. su questo G. Alessi, Processo per seduzione. Piacere e castigo nella Toscana leopodina, Catania, PME, 1988. 24. Cfr. G. Cazzetta, Præsumitur seducta: onestà e consenso femminile nella cultura giuridica moderna, Milano, Giuffré, 1999. 25. Si vedano i lavori dei seminari organizzati da S. Seidel Menchi, D. Quaglioni, “I processi matrimoniali degli archivi ecclesiastici italiani”: oltre al citato primo volume (Coniugi nemici); S. Seidel Menchi, D. Quaglioni (a cura di), Matrimoni in dubbio: promesse disattese, unioni controverse e nozze clandestine, Bologna, Il Mulino, 2001, ed è in preparazione il volume S. Seidel Menchi, D. Quaglioni, Trasgressioni coniugali. La separazione in Italia dal XII al XVIII secolo. 26. Cfr. Lombardi, Matrimoni di antico regime, pp. 359 ss. 27. In Toscana, con una legge del 24 gennaio 1754 il reato di stupro semplice (seduzione), in quanto giudicato consensuale, era stato considerato un delitto solo punito per gli uomini con una pena pecuniaria a favore di strutture pubbliche, e, nel caso di gravidanza, con le spese del parto. Era restato invece nel suo vigore il reato di stupro con promessa di matrimonio, che era reato di misto foro (ecclesiastico e laico) fino al 1784, quando il tribunale ecclesiastico in queste materie venne abolito. Dopo un intenso dibattito, fra sostenitori della più ampia derubricazione del reato di seduzione e il fronte tradizionale a favore della protezione tutoria della donna, la legge

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leopoldina del novembre 1784 ricalcò la legge del 1754 prevedendo, all’articolo XCVIII, una condanna per lo stupro semplice al solo risarcimento delle spese del parto, ma contemplando la possibilità di dotare la sposa se il giudice avesse giudicato che la seduzione fosse stata condotta con cattiva fede da parte del seduttore; per lo stupro qualificato da promessa di matrimonio si continuava a garantire la donna di essere o sposata o dotata, e in caso di opposizione, si condannava lo stupratore a cinque anni di confine a Volterra. Cfr. Zuliani, La riforma penale di Pietro Leopoldo, vol. II, pp. 504-567. Sulla protezione dell’onore e della verginità nella trattatistica presettecentesca, attraverso l’ampia figura dello stupro che aveva contemplato, come reato ascrivibile all’uomo, anche la seduzione consensuale, detta stupro semplice, si veda G. Alessi, Il gioco degli scambi: seduzione e risarcimento nella casistica cattolica del XVI e XVIII secolo, in «Quaderni storici», 75 (1990), pp. 805-831. Sull’offensiva settecentesca, e poi ottocentesca, contro il reato di seduzione a favore dei nuovi principi della pari responsabilità degli uomini e delle donne nella seduzione, cfr. Cazzetta, Præsumitur seducta; Lombardi, Matrimoni di antico regime. 28. Sulle procedure “economiche”, come strumenti di una giustizia più rapida, ma non sempre garantista, cfr. Mangio, La polizia toscana, passim. 29. Cfr. Lombardi, Matrimoni di antico regime, p. 175. 30. Così scriveva nel 1786 Giuseppe Giusti, presidente della Polizia, pronunciandosi contro la protezione della donna nello stupro: «L’istessa esperienza ha fatto conoscere, e toccar con mano, che le donne, che ricorrono ai tribunali con le loro querele sono per lo più femmine volgari […] Non possono ugualmente ignorare [i difensori delle vecchie tutele a favore delle donne] che le frequenti querele delle stuprate portate nei pubblici giudizi arrechino un pubblico scandalo, e servano di mal’esempio […] Ho detto che l’esperienza ha fatto conoscere in tante, e tante occasioni, e ripeto in oltre, che col premiare le donne, che si sottopongono alla stupro volontariamente si promuove e protegge la disonestà. Non vi è poi la cosa la più giusta, che di parificare nella pena gli stupri semplici ai qualificato con promessa: la promessa di matrimonio, ugualmente che qualunque altra seduzione non fanno mutare specie al delitto, né la promessa per se stessa è cosa delittuosa; onde è anche cosa ingiusta, che un patto fra le parti in cosa turpe debba essere dedotto in giudizio, e produrre un grosso premio ad una delle parti stesse, che hanno delinquito». Parere di Giusti, del 2 agosto 1786, in preparazione della Leopoldina, pubblicato integralmente in Zuliani, La riforma penale di Pietro Leopoldo, vol. II; pp. 527-532. Dal vertice del Supremo Tribunale di Giustizia la proposta che arriva è speculare e opposta rispetto alla posizione degli uomini della polizia. Cfr. Parere di Jacopo Biondi, presidente del Supremo Tribunale di Giustizia, 1786, ivi, pp. 551-554. 31. Vedi di nuovo diffusamente Cazzetta, Præsumitur seducta. 32. Cfr. A. Contini, Verso nuove forme di regolazione dei conflitti. Mariana Scartabelli “che fa le trine e cucitrice di bianco”, relazione presentata al VIII seminario Processi matrimoniali degli archivi ecclesiastici, Venezia, Archivio storico del Patriarcato, 5-7 luglio 2001, l’edizione degli atti, a cura di S. Seidel Menchi e D. Quaglioni, è in preparazione. 33. Cfr. anche in questo stesso volume G. Arrivo, Il reato di stupro tra dottrina e prassi giudiziaria nella Toscana leopoldina. 34. Cfr. ASF, Presidenza del Buongoverno, f. 16, affare 466.

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35. Cfr. Seidel Menchi, I processi matrimoniali come fonte storica, in Coniugi nemici, pp. 15-94; per una ampia disamina delle dottrine sul tema, si veda D. Quaglioni, “Divortium a diversitate mentium”. La separazione personale dei coniugi nelle dottrine del diritto comune (appunti per una discussione), ibidem, pp. 95-118. 36. Sul tema del matrimonio tridentino vedi ora la fondamentale prospettiva interpretativa, di G. Zarri, Il Matrimonio tridentino, in P. Prodi, W. Reinhart (a cura di), Il concilio di Trento e il moderno, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 437-483 riedito in Eadem, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2000. 37. Pietro Leopoldo non abolì del tutto il foro contenzioso ecclesiastico, ma ne ridimensionò drasticamente le competenze, prima con deleghe volontarie da parte dei tribunali ecclesiastici a quelli laici: e poi fissando l’obbligo della delega. «Finché, il 30 ottobre 1784, si giunse a dichiarare che i tribunali ecclesiastici solo nelle cause “meramente spirituali ed ecclesiastiche” […] diventavano di competenza dei tribunali secolari le liti relative a sponsali, impedimenti e separazioni». Lombardi, Matrimoni di antico regime, pp. 456 ss. 38. Per l’ampia componente femminile nella messa in moto delle cause di separazione dal passato, cfr. D. Lombardi, L’odio capitale, ovvero l’incompatibilità di carattere. Maria Falcini e Andrea Lotti (Firenze 1773-1777), in Coniugi nemici, pp. 335-367. 39. Cfr. Lombardi, Matrimoni di antico regime, pp. 171 ss., dove si parla della crescita assai rilevante dei ricorsi al tribunale delle cause per separazione prima dell’abolizione di queste competenze al tribunale ecclesiastico nel 1784. 40. Cfr. ASF, Presidenza del Buongoverno, f. 12, ins. 78. 41. Ibidem. 42. Ivi, f. 15, ins. 233. 43. Su questa concorrenza fra procedure ordinarie dei tribunali e procedure sommarie e di polizia, anche nel dibattito di preparazione alla leopoldina, cfr. Contini, La città regolata: polizia e amministrazione nella Firenze leopoldina; Alessi, Questione giustizia e nuovi modelli processuali. 44. ASF, Presidenza del Buongoverno, f. 15, affare 277. Anche in questo caso la volgarità e le bestemmie, se vi furono, erano il frutto di esasperazione. La donna, infatti, dopo numerosi maltrattamenti e dopo aver lasciato due creature all’Ospedale degli Innocenti, ottenne l’appoggio del curato del quartiere. Il presidente del Buongoverno concedette la separazione temporanea, che andava poi fatta ratificare con il decreto del Magistrato Supremo. 45. Cfr. Contini, La città regolata: polizia e amministrazione nella Firenze leopoldina. 46. ASF, Presidenza del Buongoverno, f. 14, ins. 224. 47. Sulla centralità del lavoro femminile nella Toscana del Settecento, cfr. A. Contini, F. Martelli, Il censimento del 1767: una fonte per lo studio della struttura professionale della popolazione di Firenze, in Fonti archivistiche e ricerca demografica, Roma, Ministero per i Beni Culturali, 1996, vol. I, pp. 344-393; A. Contini, F. Martelli, L’arte dei lanaioli nello stato regionale Toscano, in Le regole dei mestieri, e delle professioni. Secoli XV-XIX, Milano, Franco Angeli, 2000, pp.

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176-224. Più in generale, sul ruolo del lavoro delle donne nella società italiana di antico regime è importante il volume collettaneo A. Groppi (a cura di), Il lavoro delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1996; si veda anche S. Cavaciocchi (a cura di), La donna nell’economia, sec. XIII-XVIII, in Atti del Convegno dell’Istituto Datini di Prato, Firenze, 1990. 48. ASF, Presidenza del Buongoverno (1785-1808), 16, affare 405. 49. Cfr. ibidem. Si veda anche l’intercessione del commissario di Santo Spirito a favore di una vedova, per ottenere un sussidio caritativo (ivi, 414). 50. Cfr. O. Hufton, Destini femminili: storia delle donne in Europa 1550-1800, Milano, A. Mondadori, 1996, pp. 242 ss. 51. D. Lombardi, Fidanzamenti e matrimoni dal Concilio di Trento alle riforme settecentesche, in M. De Giorgio, C. Klapisch-Zuber (a cura di), Storia del matrimonio, Bari-Roma, Laterza, 1996, p. 235, in generale pp. 215-250. Sui temi della libertà di scelta in tema di matrimonio nel dettato del Concilio di Trento, e in genere della disciplina della chiesa, ma anche sulle forme del controllo matrimoniale da parte delle famiglie, cfr. Zarri, Recinti. Donne, clausura e matrimonio nella prima età moderna. 52. Cfr. G. Alessi, L’onore riparato. Il riformismo del Settecento e le “ridicole leggi” contro lo stupro, in G. Fiume (a cura di), Onore e storia nelle società mediterranee, Palermo, La Luna, 1984, pp. 129-142. 53. Cfr. Guerci, La sposa obbediente; Idem, La discussione sulla donna nell’Italia del Settecento, Torino, 1988. 54. Vale leggere una di queste lettere scritte da Pietro Frati. L’attrice fiorentina assume nella corrispondenza il titolo civettuolo di Madmoiselle Amalia Gattolini, una signorina pare amatissima, dal suo promesso sposo. «8 dicembre 1784. Sposa mia carissima, io non posso esprimerti bastantemente il dispiacere grandissimo che io provai l’altra sera nel doverti lasciare e poi nel partire senza poterti rivedere; chi sa come la penserai di me e quali pensieri ti passeranno per la testa? Ah piaccia al cielo che questi non ti guastino la mente. Siccome io sono pieno di gente che mi tengono gli occhi addosso e siccome sto con l’animo agitato, anche nello scriverti questa mia, col sospetto di non essere trovato a scriverla, perciò io passo sotto silenzio tutto ciò che mi è accaduto dopo la mia partenza da te. Ti dirò solo che i miei tentano tutti i mezzi perché non succeda. Ma faccia pure qualunque tentativo mio padre, si ostinino pure i parenti, si interpongano pure gli amici, minacci ancora il vicario, io solo coraggioso mi opporrò a tutti questi, e mi basterà l’animo, te lo assicuro, di resisterci e questo perché ti amo e perché in questo modo non desidero che di esser tuo. I medesimi passi, anima mia, forse li useranno anche con te. Se tu mi ami sempre, anima mia, con ugual coraggio resisti, sii cauta nel rispondere e sii sempre “che io voglio te e che tu vuoi me” e non pensare al resto. So anche che i miei per riguardo a te cercano di accomodare questo affare a forza di denaro: Io mi lusingo che tu non ti lascerai abbagliare neppure da questo, giacché più e più volte me lo hai detto [...] Amalia o sposa, amami che io lo merito il tuo amore, e amami sempre. Io ti amo e ti amerò finché avrò vita. […] Addio moglie mia, voglimi bene e credimi pure, che io sono tuo affezionatissimo marito Pietro Frati». Seguono altre lettere dello stesso tenore (ASF, Presidenza del Buongoverno, f. 12, ins. 105).

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55. Per la decisione finale sul caso della Gattolini, cfr. ASF, Supremo Tribunale di Giustizia, 2446, affare 106. Si vedano molti casi segnalati nel recente inventario analitico, G.P. Iaccino (a cura di), Straordinarie del Supremo Tribunale di Giustizia, nella sala di consultazione dell’Archivio di Stato di Firenze. 56. Cfr. i materiali del fondo ASF, Commissariati di quartiere di Firenze, parte I (1777-1792), ff. 1-64, da cui è possibile ricostruire nel dettaglio le modalità di intervento dei neo istituiti commissari di quartiere. Si tratta di materiali giustificativi, nonché di istruzioni e regolamenti, relativi ai compiti via via crescenti attribuiti loro, e di una continua corrispondenza con l’Auditore fiscale e, dal 1784, con il neo istituito presidente del Buongoverno. La documentazione va a incrociare con i materiali dei “Negozi di polizia” del fondo Camera e Auditore fiscale, fino al 1784 e poi con gli stessi “Negozi di polizia” del fondo Presidenza del Buongoverno. 57. Per i precetti, utilizzati per punizioni a scopo correttivo o preventivo di comportamenti personali giudicati socialmente pericolosi si vedano, ad esempio, i registri dei precetti del quartiere di Santo Spirito, Anni 1779-1781 ASF, Camera di commercio. Dipartimento esecutivo, ff. 942, 943, 944. 58. Ivi, f. 942. 59. Per i decreti e precetti impartiti nel caso delle piccole infrazioni civili e criminali, per via economica, si vedano: ASF, Camera di Commercio dipartimento esecutivo, ff. 920bis-1021, Decreti, precetti, suppliche ai Commissari di quartiere (1777-1792). 60. Nell’articolo XCVI del codice penale leopoldino del 1786, l’adulterio, la bigamia, la sodomia, la bestialità si punivano con “l’ultimo supplizio” (ovvero i lavori forzati) per gli uomini e nell’ergastolo per vent’anni per le donne. Per l’adulterio, l’articolo III prevedeva che fosse perseguibile solo ad istanza del marito: in realtà la massima parte di questi reati venivano passati alle procedure sommarie di polizia. Tema questo che sarà da indagare a fondo. Cfr. per il codice: Zuliani, La riforma penale di Pietro Leopoldo, vol. II, pp. 490 ss. 61. Ibidem, parere di Giusti in preparazione della legge, p. 496. 62. ASF, Presidenza del Buongoverno, 16, affare 416, lettera del commissario di quartiere di Santo Spirito Giovan Battista Cangini, del 13 aprile 1785. 63. ASF, Presidenza del Buongoverno, 16, affare 431. 64. ASF, Commissariati di quartiere, f. 515, aprile 1779, cc. 113-114: lettera dell’auditore fiscale ai commissari di quartiere. 65. Sul tema in termini generali vedi: K. Millet, La politica del sesso, Torino, Einaudi, 1971; Eadem, Prostituzione: quartetto per voci femminili, Torino, Einaudi, 1975; su un altro contesto cronologico (postunitario) ma importante per le prospettive aperte: M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, Milano, Il Saggiatore, 1995. 66. Cfr. ASF, Presidenza del Buongoverno, 17, affare 507. 67. Contini, Martelli, Il censimento del 1767: una fonte per lo studio della struttura professionale della popolazione di Firenze, tabelle in appendice. 68. Si veda la bella tesi di laurea di Michela Turno, Il “malo esempio”: Donne scostumate e prostituzione nella Firenze dell’Ottocento, relatrice Simonetta Soldani, Firenze, a.a. 1999/2000. 69. E proseguiva il Giusti, nelle sue argomentazioni a favore della parificazione delle donne agli uomini, la sua arringa per la pari punibilità: «Dalché siccome resulta

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che le facoltà e le forze dell’animo negli uomini e nelle donne sono pari, così a me sembra rendersi ancora indubitato che pari si debba nelle une e negli altri giudicar la malizia con la quale si portano al delitto e che la maggiore o minore sensibilità rispettiva dei loro organi, quanto può aversi giustamente in considerazione nel determinar talvolta una diversa qualità, altrettanto trascurar si debba allorché portar si volesse a stabilire minori gradi, minore intensità rispettiva, minor intensità nella pena». Haus- Hof- und Staatsarchiv di Vienna, Familien Akten, Sammelbände, K. 12, “Fogli sugli Stati”, parere di Giuseppe Giusti contro la posizione di Iacopo Biondi, “Osservazioni sul motuproprio proposto dal Presidente Biondi”, 1790 gennaio, cc. 840 e ss., cit. c. 851.

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GEORGIA ARRIVO Raccontare lo stupro. Strategie narrative e modelli giudiziari nei processi fiorentini di fine Settecento*

La donna onesta in tribunale: cosa e come raccontare? Nel giugno del 1781 l’avvocato Martellini, procuratore del contadino Giovacchino Befani, presentava al Supremo Tribunale di Giustizia di Firenze1 una memoria difensiva con cui chiedeva che il suo cliente fosse assolto da un’accusa di stupro con promessa di matrimonio avanzata da Maria Anna Maruccelli, tessitrice e figlia di un povero bracciante. Più precisamente l’avvocato Martellini chiedeva la «circondazione» degli atti, vale a dire l’archiviazione del caso per non luogo a procedere in quanto, sosteneva, mancava in quella causa il corpo del reato, cioè il requisito della verginità della querelante al momento del presunto stupro. Lo stupro era infatti generalmente definito dalla dottrina come quel coito illecito con una vergine o una vedova onesta.2 Ma le due fattispecie non erano sempre messe sullo stesso piano in quanto a gravità perché, nel caso della fanciulla, la violazione del claustro virginale poteva essere considerato un elemento che rendeva più grave il delitto.3 Nell’ambito di questa definizione, che poneva dunque come beni tutelati l’onestà e la verginità in quanto valori di interesse non solamente individuale ma anche familiare e sociale, si distingueva poi tra stupro consensuale e non, classificando la violenza, intesa come forza fisica, e la seduzione, intesa come forza della persuasione e dell’inganno, come aggravanti di un delitto che si individuava in base alla definizione preliminare del soggetto tutelato.4 Mancando dunque il requisito dell’onestà non si poteva parlare di stupro e la donna

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non avrebbe potuto avanzare davanti alla giustizia alcuna rivendicazione di diritti riservata appunto dalla legge alla tutela dell’onestà. Ma se nel caso della vedova, sosteneva Iacopo Maria Paoletti nelle sue Istituziones theorico-praticae criminales, frutto della sua lunga esperienza di giudice maturata proprio all’interno del Supremo Tribunale di Giustizia di Firenze, occorreva accertare preliminarmente il requisito dell’onestà genericamente intesa come buona fama, nel caso della fanciulla, l’unico che a suo avviso potesse essere definito propriamente stupro, era necessario il requisito della verginità precedente poiché, in quel caso, l’atto delittuoso non andava riferito solo alla corruzione dell’animo della donna, ma piuttosto andava individuato in quell’atto fisico che distruggeva il “fiore della verginità”.5 Una verginità, intesa da Paoletti sostanzialmente in senso materiale, la cui assenza andava indagata attraverso l’ispezione del corpo della querelante affidata a due esperte ostetriche. Si trattava di una prassi che, sebbene non condivisa universalmente dalla dottrina, anzi sottoposta ad aspre critiche da parte di chi, sulla scorta di molti pareri medico-legali dubitava dell’esistenza dei suoi segni materiali, era largamente praticata nei tribunali, compreso quello a cui si era rivolta Maria Anna.6 La ragazza quindi, come richiesto dalla procedura, era stata sottoposta alla visita di due ostetriche nominate dal tribunale che ne avevano dichiarato la condizione di deflorata, ne avevano constatato lo stato di gravidanza e avevano attestato che si trattava della prima gravidanza. Ma certo la constatazione dell’avvenuta deflorazione non poteva fornire, assieme alla sola dichiarazione della querelante, una prova sufficiente della colpevolezza dell’accusato. Se la donna era deflorata, come essere sicuri che non lo fosse stata già da prima o che non si fosse astutamente procurata da sé questa condizione al fine di conquistare un marito per via di giustizia?7 Insomma come mettersi al riparo dagli inganni delle donne? A questo punto occorreva ricorrere all’universo delle presunzioni che tanta parte aveva nella costruzione giuridica dell’età moderna. La verginità era condizione connaturata e quindi presunta nella donna onesta. Quindi era necessario che la querelante provasse, con testimoni validi, di aver tenuto una condotta di vita onesta prima del presunto stupro.8 Così Maria Anna, come tutte le donne che si presentavano a chiedere giustizia per l’onore perduto davanti al tribunale fiorentino, aveva avuto cura di procurarsi i testimoni necessari a sostenere la sua buona fama. Erano

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soprattutto i vicini di casa che tessevano l’immagine della fanciulla onesta che “badava ai fatti propri” e non faceva parlare di sé, gettando così le fondamenta della credibilità di un’accusa che era per forza di cose basata sulla parola di una parte contro l’altra. Come faceva dunque l’avvocato Martellini a sostenere che le accuse di Maria Anna non erano da considerare valide perché la ragazza non poteva essere definita vergine al momento del presunto stupro? Tanto più che il tentativo di mettere in dubbio la fama di onestà della querelante attraverso la testimonianza di un amico dell’imputato aveva avuto scarso successo e anzi aveva destato nel cancelliere processante il sospetto di una subornazione. L’indizio più rilevante della mancanza del corpo del reato, argomentava l’avvocato, stava nelle parole stesse della querelante: «[...] la maniera con cui si esprime non è propria di una vergine, e vergine onesta, ma di una donna, che sappia che cosa siino amori».9 Ma cosa aveva detto Maria Anna nella sua denuncia di tanto scandaloso da far ipotizzare una sua sicura dimestichezza con la sfera del sesso? Sollecitata come di prassi dal cancelliere a raccontare cosa fosse accaduto tra lei e l’imputato la ragazza aveva affermato: [...] alzatimi i panni, e la camicia d’avanti, e sbottonatisi per sé i calzoni d’innanzi venne sopra di me a viso a viso, e mi chiavò, cioè mi messe il suo cazzo, vale a dire quel pezzo di carne dura che hanno gli uomini in fondo al corpo per dove orinano dentro la mia sporta, cioè nelle mie parti basse, e precisamente in quella fessura in dove noi altre donne oriniamo.10

Con le sue sottolineature l’avvocato metteva in evidenza per i giudici i termini osceni usati dalla ragazza per descrivere l’atto sessuale, termini a suo avviso non consoni al modo di esprimersi di una vergine quindi già di per se stessi rivelatori della vera natura della donna. Inoltre, rilevava sempre Martellini, più avanti la ragazza aveva detto: Ed avendo tastato con una mano sentii che mi usciva dalla sporta [il sangue], perché detto Giovacchino Befani, nel mettermi dentro il suo cazzo da primo mi fece male, e se bene io mi ritirasse egli seguitò a pigiare, e nel mettermi dentro il cazzo nella sporta, mi fece uscire il sangue, perché quella era la prima volta che io avessi fatto con gli uomini certe cose.11

Un simile modo di esprimersi, con tanta disinvoltura e «senza verun atto di ammirazione di rossore, di renitenza» tale da «far cono-

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scere il suo virginale pudore» – concludeva l’avvocato – non faceva che rendere «manifestissima la sua facilità, propria di una donna, che altre volte aveva gustato i piaceri di Amore e che ad arte, e con malizia tendeva a rendere complice dei suoi delitti il povero inquisito».12 Insomma secondo il procuratore si era di fronte a una donna corrotta travestita da vergine grazie all’appoggio di testimoni compiacenti, la quale però non era riuscita a dissimulare nel suo modo di esprimersi la sua vera natura messa a nudo non solo dall’uso di termini volgari usati con la massima disinvoltura, ma dalla stessa conoscenza della dinamica del rapporto sessuale dimostrata «col dar la ragione del dolore, del sangue, e delle conseguenze venute nell’atto della supposta prima copula».13 Con buona pace dell’avvocato, e per fortuna di Maria Anna, l’assessore Ferrati, chiamato a decidere del caso,14 non aveva ritenuto sufficientemente convincenti queste argomentazioni di fronte a una fama di onestà comprovata da più testimonianze. Certo le espressioni utilizzate dalla querelante erano «poco pulite» e «disoneste»,15 ma ciononostante non potevano «far amarezza» riguardo all’onestà della ragazza sia «perché non consistono in altro che nell’aver chiamato con i propri, e volgari nomi le parti inservienti agl’atti suddetti», sia perché potevano attribuirsi alla «universal corruttela de’ tempi presenti» in cui si sentivano così facilmente «le voci più oscene» che non ci si poteva stupire se anche le fanciulle più oneste le avevano imparate senza che necessariamente questa conoscenza fosse da attribuire «alla pratica e alla cognizione acquistatane, per aver esercitati tali atti disonesti». E poi, si chiedeva l’assessore, quei termini non poteva averli appresi dallo stesso imputato responsabile della sua corruzione? Infine, concludeva, «la pratica mi ha fatto conoscere, che molte, e molte stuprate, si sono espresse con somiglianti termini, e specialmente se sono state di bassa condizione, senza che mai per questo solo sia stata data eccezione alla loro onestà».16 Insomma l’assessore Ferrati, insieme agli altri giudici chiamati a giudicare il caso, non era disposto a farsi convincere da argomentazioni troppo astratte di fronte alla realtà di una buona fama comprovata dalle testimonianze e soprattutto dall’evidenza di una relazione che non poneva alcun particolare ostacolo dal punto di vista sociale e quindi non richiedeva alcuna particolare considerazione della condizione dell’imputato che alla fine era stato condannato a

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sposare o dotare la querelante. Eppure, considerando l’insieme delle querele per stupro presentate al Supremo Tribunale di Giustizia tra il 1777 e il 1790, occorre constatare che, diversamente da quanto sostenuto da Ferrati, la terminologia utilizzata da Maria Anna rappresenta piuttosto l’eccezione che la regola, nonostante l’estrazione sociale quasi esclusivamente popolare delle querelanti. Nel bagaglio delle conoscenze necessarie per affrontare un procedimento per stupro in tribunale, le informazioni relative al modo di raccontare le vicende, nonché l’uso di una terminologia più neutra per descrizioni scabrose e imbarazzanti poco confacenti al “naturale pudore” della donna onesta ma comunque necessarie in un contesto che poneva al centro la verginità, assumeva un ruolo importante, insieme alla mobilitazione delle reti di relazione parentali e di vicinato, per mettere in piedi l’immagine della donna onesta e ingannata, soggetto esclusivo della tutela della legge. L’importanza di raccontare “buone storie” nel contesto giudiziario è stata sottolineata da Natalie Zemon Davis nel suo studio sulle domande di grazia per i casi di omicidio nella Francia del Cinquecento.17 Storie “buone” in quanto funzionanti, tali cioè da inserire una vicenda personale all’interno di un quadro giuridicamente rilevante e ben riconoscibile da parte dei giudici. I racconti dello stupro non sfuggivano a questa logica. Anzi, proprio per la natura stessa del delitto, per definizione «di difficile prova»18 e la cui costruzione dottrinaria era particolarmente ricca di argomentazioni presuntive cioè basate sull’opinio comunis riguardo ai ruoli maschile e femminile nelle relazioni amorose e sessuali, un buon racconto rappresentava uno dei mattoni alla base della efficacia delle tesi accusatorie o difensive. Il modello giudiziario L’analisi degli atti giudiziari, e in particolare delle deposizioni che le querelanti rilasciavano al cancelliere che chiedeva loro di raccontare come fosse andata la vicenda, mette in luce una precisa trama, una sorta di canovaccio del racconto. Esso era composto generalmente da tre nuclei narrativi cronologicamente disposti e variamente sviluppati dalle donne: gli “amoreggiamenti”, cioè la fase dei primi contatti e del corteggiamento, la deflorazione, vero nucleo cen-

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trale della narrazione, la crisi, cioè il momento della rottura della relazione, degli eventuali tentativi di riconciliazione fino alla decisione del ricorso in tribunale. L’intera strategia narrativa era tesa a tenere ben salda l’immagine della donna onesta, ingannata dalla malafede dell’imputato o dei suoi parenti, costretta dalle circostanze a ricorrere alla giustizia per far valere i suoi diritti. Un’immagine minacciata dal sospetto che su di essa si allungava a causa della «disgrazia» capitata. Infatti, se «il giurista ricerca la sua “vittima ideale” aiutandola ad esistere»19 tratteggiando i contorni della donna tutelata secondo modelli di comportamento e valori generalmente condivisi, si può dire anche che la “vittima reale” costruisce più o meno consapevolmente la sua storia cercando di seguire le linee di questo modello ideale. In particolare in questo scorcio del Settecento in cui il tema degli abusi delle donne e la diffidenza verso la reale possibilità di accertare l’onestà cominciavano a minare l’edificio dottrinario e legislativo tradizionale in materia di stupro consensuale. L’interrogativo di fondo che animava la discussione dottrinaria sullo stupro e agitava i dibattiti dei legislatori di fine Settecento riguardava appunto la difficoltà di conciliare l’immagine della donna onesta con il consenso al rapporto sessuale. Come poteva definirsi onesta la donna che acconsentiva a perdere il bene più prezioso, l’onore? La risposta tradizionalmente elaborata dalla dottrina si basava su un’analisi presuntiva della volontà della donna: «l’oneste fanciulle si presumono allettate alla copula dalla speranza di un futuro matrimonio e non altrimenti».20 La vergine si concede solo in vista del matrimonio che è lo scopo ultimo della volontà femminile, per cui l’onestà porta con sé la presunzione di seduzione. Ma questo principio del praesumitur seducta nel corso del Settecento cominciò a vacillare sotto i colpi di un’analisi non più aprioristica della volontà della donna e la figura inquietante della seduttrice astuta e corrotta in caccia di marito attraverso le tutele offerte dalla legge all’onestà, si fece sempre più insistente di pari passo con la richiesta di limitare o addirittura abolire del tutto la tradizionale pena dello sposare o dotare riservata allo stupro consensuale.21 Non era forse assurdo, si chiedeva ad esempio il presidente del Buongoverno toscano, Giuseppe Giusti, perorando nel 1786 la causa dell’abolizione del delitto di stupro non violento, che «un Delitto, che si commette da due persone, in una debba essere punito, e nell’altra premiato?».22 Tanto più se si

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considerava che la donna che acconsentiva a «far copia di sé illegittimamente» lo faceva sicuramente «in veduta di un vantaggio, senza del quale se ne asterrebbe».23 E poi, si domandava ancora Giusti e con lui i sostenitori dell’abolizione di quel particolare tipo di delitto, che differenza c’era tra lo stupro consensuale e la fornicazione?24 Perché attribuire tanta importanza alla verginità, un elemento così sfuggente e così soggetto agli inganni e alle manipolazioni delle donne esperte nei segreti del corpo? E se la fornicazione non era punita nel foro esterno se non quando avesse dato pubblico scandalo, perché riservare una speciale legislazione per lo stupro? Infine non era forse già indizio sufficiente di disonestà il mettere in piazza il proprio disonore varcando le soglie del tribunale? «Quale più assurda contraddizione di supporre onorata ed onesta colei che cerca di provarvelo con maniere vergognose e disoneste», si indignava Giuseppe Maria Galanti nelle sue Osservazioni sopra la nuova legge abolitiva dei delitti di stupro dedicate alla nuova legge napoletana del 1779.25 Ma se questo tipo di dubbi sulla natura del reato e sui possibili abusi delle donne aveva condotto il governo napoletano, primo in Italia, ad abolire la legislazione protettiva dell’onestà femminile, lasciando in piedi il solo reato di stupro violento, non bastarono a convincere il legislatore toscano che manterrà viva nei codici ancora per quasi tutto il secolo successivo, pur tra progressive restrizioni e specificazioni, l’idea di una tutela speciale da parte dello stato per l’onestà e la verginità delle donne.26 Alla fine del Settecento in Toscana, e nonostante il vivace dibattito sull’opportunità o meno di riformare la legislazione vigente in senso abolizionista, nelle aule del tribunale le donne continuarono a essere sottoposte all’accertamento medico della loro condizione di fanciulle non più vergini, a fornire la prova testimoniale della buona fama e a riproporre il racconto della seduzione e della verginità rapita. Il racconto: «Fare all’amore» Il racconto, sollecitato da una domanda generale del cancelliere, si dispiegava, come dicevamo, su tre blocchi narrativi. Il primo, quello che possiamo definire, la fase del “fare all’amore” cioè del corteggiamento, contribuiva a collocare il racconto della “caduta” in una

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prospettiva giustificatoria tesa a scaricare sull’imputato ogni responsabilità e ad allontanare dalla donna lo spettro di essere considerata socia criminis. Questa parte del racconto occupava tanto più spazio quanto più pubblica e formalizzata era stata la relazione. Si poteva andare dalla descrizione di vere e proprie trattative matrimoniali che avevano coinvolto familiari, vicini e intermediari con la possibilità di nominare testimoni per provare l’esistenza di una promessa di matrimonio, al succinto racconto degli incontri e dello scambio informale della promessa. Affermava una contadina nel 1782 raccontando brevemente la storia della sua “caduta”: Sappia che questo Gaspero Pavoli circa quindici mesi fa cominciò a far meco all’amore, e venire costì in casa mia a veglia. Per tre o quattro mesi il Pavoli si portò sempre da giovane di garbo, ed onorato, ma poi cominciò a dirmi che ne voleva un poca, e continuamente quando eravamo soli mi tormentava, e cercava di sedurmi. Io sul principio stiedi sempre salda, e non volli mai acconsentire alle sue richieste ma finalmente avendomi assicurata di volermi sposare a forza di ciarle e di promesse che mi faceva tutto giorno, mi lasciai persuadere.27

Ben poche erano le querelanti che rinunciavano ad inquadrare la propria storia in una prospettiva matrimoniale anche quando, come in questo caso, non avevano nessuna possibilità di provare testimonialmente l’esistenza della promessa. Anche quando il quadro descritto sembra sconfinare piuttosto in una vera e propria violenza, come nel caso ad esempio di Teresa Tarchi che raccontava come un giorno fosse stata avvicinata per la strada, mentre tornava dal pozzo, da un contadino suo vicino di casa con cui non aveva avuto prima alcuna relazione amorosa, il quale l’aveva aggredita gettandola a terra. Lei aveva cominciato a gridare chiedendogli di lasciarla stare perché non voleva «che seguisse qualche cosa», ma lui le aveva risposto «se segue qualche cosa sono qua io»28 assicurandola così della sua volontà di sposarla se fosse seguita una gravidanza, impegno che poi non aveva mantenuto costringendola a ricorrere alla giustizia. In alternativa alla promessa qualcuna invocava la forza irresistibile dell’amore cercando così di sgomberare il campo dal sospetto di un consenso conquistato col denaro. «Ma queste promesse [di matrimonio] antecedentemente non me l’aveva mai fatte» – sosteneva una tessitrice fiorentina nella sua querela – «e solamente ero condiscesa alle di lui voglie, perché gli volevo bene».29 Ma si tratta di casi alquanto

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rari. Delle querele per stupro non violento presentate al Supremo Tribunale di Giustizia tra il 1777 e il 1790, solo nel 13% dei casi viene esclusa da parte della querelante l’esistenza di una promessa di matrimonio prima del primo rapporto sessuale. Ma questo non esclude necessariamente l’assenza di una rivendicazione, da parte della querelante, di un diritto al matrimonio in base, ad esempio, a un impegno successivo legato alla responsabilità della gravidanza. Si trattava però di una rivendicazione che, essendo più in sintonia con un sentire diffuso che con le leggi vigenti, non poteva assumere un valore legale e risultava quindi del tutto velleitaria.

Il racconto: la deflorazione Maria Rosa Benvenuti, dopo aver raccontato degli amoreggiamenti con un contadino che tutte le sere andava “a veglia” a casa sua e che le aveva promesso il matrimonio, proseguiva la sua querela passando a quello che rappresentava il nodo centrale del racconto, l’unica parte veramente indispensabile, quella in cui si stabiliva l’esistenza del delitto: [...] andato che fu a letto mio padre e mia madre, io aprii l’uscio di casa ed il Cacioli rientrò, essendo stato fuori ad aspettarmi, e addirittura principiò a richiedermi di negoziarmi, ma siccome io non volevo a nessun patto, così egli mi disse, che lo lasciassi fare, che nonostante dovevo essere sua, e di nuovo mi promesse di sposarmi; sicché io condescesi alle sue voglie, e siccome in casa non vi era comodo, mi fece escire di casa, ed entrati sotto il portico di mia casa, dove vi era una botte da vino, mi fece stendere a diacere sopra la medesima, ed avendomi alzati i panni d’avanti, egli si slacciò i calzoni, e gettatosi sopra di me, mi messe nella mia natura, per dove orino, quel pezzo di carne duro, per cui orinano gli uomini, ed essendosi principiato ad agitare sopra di me, principiai a sentire un gran dolore, e gli dicevo che mi lasciasse stare; ma egli seguitando ad agitarsi per lo spazio di poco più di mezzo quarto d’ora, dopo si fermò, ed io mi sentii colare in corpo della roba calduccia, ed essendosi di poi alzato, io mi sentii tutta bagnata, e veddi che mi era escito del sangue dalla natura; e per quella volta non sentii altro, che dolore.30

La descrizione del primo rapporto sessuale con l’accusato rappresenta in qualche modo il vertice della tensione narrativa e, nello stesso tempo, è la sequenza in cui si nota la massima standardizza-

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zione del linguaggio che permette alle querelanti di passare indenni attraverso una descrizione tanto necessaria quanto insidiosa e imbarazzante. Questa contadina raccontava esattamente le stesse cose che abbiamo sentito raccontare da Maria Anna Maruccelli ma utilizzando un linguaggio più appropriato, quello che ritroviamo nella maggioranza delle testimonianze, preciso tanto da non poter lasciare spazio a fraintendimenti, ma nello stesso tempo in qualche modo neutrale, in cui gli organi genitali, in particolare quello maschile, non sono nominati direttamente come organi sessuali. Maria Rosa, come la maggior parte delle querelanti, evita inoltre di stabilire in maniera esplicita un nesso causale tra il rapporto sessuale e la perdita di sangue, rivelatore di un’inopportuna conoscenza della dinamica della deflorazione. Questo linguaggio metteva senz’altro al riparo dalle eventuali critiche sull’onestà e permetteva di parlare di quello di cui in realtà una fanciulla onesta non avrebbe mai dovuto parlare. In altri contesti, laddove la verginità intesa in senso materiale non era al centro dell’attenzione, il racconto poteva omettere quei particolari scabrosi. Ad esempio le donne piemontesi che, tra Seicento e Settecento, si rivolgevano al tribunale ecclesiastico per il rispetto di una promessa di matrimonio, si limitavano a dire di aver avuto «commercio carnale» con il promesso sposo.31 Ma nei tribunali secolari laddove, come in Toscana, l’essenza del crimine era individuata proprio nella deflorazione, la querelante doveva necessariamente entrare nel particolare per fornire quegli elementi comunemente ritenuti indizi della perdita della verginità.32 E si trattava in primo luogo di elementi fisici. Nonostante le innumerevoli discussioni mediche e medico-legali sulla possibilità di reperire nel corpo femminile i segni tangibili della verginità, resisteva nelle stanze dei tribunali una precisa fisiologia della deflorazione con i suoi specifici ingredienti. Il dolore e il sangue erano sicuramente i protagonisti della scena. La loro mancanza destava da parte del processante sistematiche richieste di chiarimento. A Stella Gensini, filatrice di Fiesole, il cancelliere aveva domandato se in occasione delle copule avute con l’imputato si fosse mai accorta «d’aver fatto umido dalla propria natura, e precisamente sangue»,33 ricevendone una risposta negativa che attesta la scarsa conoscenza dei modelli giudiziari da parte di questa donna che infatti chiedeva di essere sposata dall’imputato che l’aveva resa gravida, pur negando di aver avuto da parte sua una promessa di matrimo-

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nio.34 Nella grandissima parte dei casi il sangue, così come la promessa di matrimonio, non mancava fin dalle prime dichiarazioni. C’era poi un altro “umido” che non mancava quasi mai nei racconti delle querelanti e la cui eventuale assenza non mancava di attirare l’attenzione del cancelliere di turno. Quello del liquido seminale che assicurava sulla completezza del rapporto sessuale e soprattutto sulla responsabilità dell’eventuale gravidanza. «Io non mi sono mai trovata bagnata nella mia passera tutte le volte che il Billocci ha avuto che far meco, né posso comprendere come abbia fatto ad ingravidarmi» rispondeva una cappellaia anch’essa poco informata su ciò che fosse corretto dire in tribunale.35 Gli stessi elementi, necessari per definire la deflorazione, potevano essere ribaltati dall’imputato per sostenere la tesi della mancanza di verginità e portare avanti una storia alternativa. Infatti proporre una buona storia era altrettanto importante per l’imputato che volesse costruire una linea difensiva.36 Così come la prova dell’onestà costituiva il punto cardine per l’accusa, la decostruzione dell’immagine della fanciulla onesta rappresentava in molti casi il nodo centrale della difesa. In questi casi la storia raccontata dall’imputato poteva essere quella dell’uomo ingenuo caduto nella trappola di una donna in cerca di un allocco da accusare e al quale magari affibbiare anche un figlio frutto di una scellerata vita amorosa precedente. «Gli giuro che non sapevo nemmeno che cosa volessero dir donne»,37 affermava un imputato che raccontava come, uomo devoto e pio, fosse stato sedotto dalla querelante di cui aveva in precedenza incautamente frequentato la casa attirato ad arte dalla madre della donna. Oppure gli imputati sottolineavano la natura mercenaria del rapporto che esentava da ogni possibile responsabilità. Raccontava un macellaio nel 1777: Circa nove, o dieci mesi fa, lei deve sapere che trovai questa ragazza in una strada che si domanda villa, che era sola, e siccome è una puttana, come è noto a tutto il popolo di S. Donnino, così principiò a venirmi intorno, a stuzzicarmi, a prendermi per il viso, e domandarmi se io la volevo chiavare, al che avendo io aderito, s’andò assieme sotto un muro, dove la conobbi carnalmente una sol volta, di poi la pagai con dargli due paoli, e me ne andai per il mio viaggio.38

La buona reputazione si smontava anche attraverso un racconto del rapporto sessuale tutto volto a mettere in luce l’assenza del corpo

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del reato, vale a dire della verginità. La terminologia usata dagli imputati è simile a quella utilizzata dalle querelanti ma viene sottolineata la facilità nella penetrazione nonché l’assenza del sangue e del dolore. «Mi sbottonai i calzoni» affermava un imputato descrivendo il primo rapporto sessuale avuto con la donna che lo accusava , «cavai fuori il mio membro, e glie lo messi dentro la natura con una facilità grandissima, e da ciò conobbi che la Nunziata Merciai non era vergine».39 «Se questa ragazza mi venisse a faccia» dichiarava un altro imputato sollecitando il confronto con la sua accusatrice, «non credo, che mi potrebbe negare, che quando la chiavai la prima volta, sangue non se ne vedde».40 Oltre che nella mancanza dei segni della verginità nel corpo stesso della donna, la disonestà si concretizza anche nell’assenza di uno specifico tratto del comportamento della fanciulla vergine: la ritrosia. Non solo l’invito esplicito, ma anche l’eccessiva passività, sono considerati comportamenti non confacenti alla natura della vergine. Lo stesso imputato che chiedeva il confronto per contestare alla sua accusatrice la mancanza del sangue, sosteneva che quando aveva cominciato a «toccarla per la vita» lei non aveva detto nulla e questo gli era servito da stimolo a proseguire.41 La disonestà della querelante, in un caso del 1778, si palesava, a parere dell’uditore Biondi, dal modo in cui aveva raccontato «d’essersi indotta [al rapporto sessuale] anche senza quei contrasti, e quelle repulse, che sono connaturali alle vergini, e troppo analoghe al pudore e all’onestà».42 Molte delle querelanti, dal canto loro, tendevano a sottolineare la componente di violenza insita nel primo rapporto sessuale utilizzando spesso quelli che, per il loro ripetersi, appaiono a volte come dei luoghi comuni. La mano alla bocca per impedire di gridare, la stretta del braccio o della vita, la spinta per terra o sul letto. «[...] senza dirmi cosa alcuna» raccontava una querelante a proposito del primo rapporto avuto con l’imputato, «mi prese per le braccia di dietro, e turandomi la bocca con la mano a forza mi gettò in terra».43 È quanto mai difficile stabilire se si trattava solo di una strategia processuale o se una certa dose di violenza fosse comunque insita nelle dinamiche dei rapporti sessuali e tanto meno se questa eventuale componente violenta fosse o meno percepita dalle donne come fisiologica oppure avvertita come problematica.44 Certo non era problematica per i giudici che si basavano su precisi riscontri oggettivi per classificare uno stupro come

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violento, e quindi soggetto alla procedura ex officio e passibile di una punizione ben più grave. Urla, vesti stracciate, segni fisici di violenza erano gli indizi principali con cui la dottrina aveva stabilito che si dovesse avere a che fare nel caso di violenza. Non bastava l’assenza del consenso. Occorreva un dissenso continuato e clamoroso. E inoltre era auspicabile l’assenza dello scenario della familiarità con l’imputato e soprattutto della relazione amorosa. Lo stupratore violento giuridicamente più verosimile era soprattutto uno sconosciuto che colpiva all’improvviso, mentre la violenza descritta dalle querelanti da parte dei loro corteggiatori rientrava senz’altro, agli occhi dei giudici, nell’ambito della normale dinamica dei rapporti tra i sessi e non meritava di essere presa in considerazione come specifica aggravante.45 Il racconto: la rottura Dopo aver generalmente liquidato in poche parole la storia, spesso anche molto lunga, dei rapporti con l’imputato successivi alla deflorazione, le querelanti passavano generalmente alla terza parte del racconto, quella che definiamo della crisi. Questa si apriva in quasi il 90% dei casi con la scoperta della gravidanza che, al di là del modello giudiziario che faceva della deflorazione il punto di svolta della vita della donna, rappresentava nella realtà delle vicende raccontate il vero momento critico della storia, il momento della verifica delle responsabilità e soprattutto il momento della pubblicizzazione della vera natura dei rapporti tra imputato e querelante. E proprio la pubblicità legata alla gravidanza, la cui divulgazione è spesso presentata dalle querelanti come il risultato non voluto della sorveglianza occhiuta di familiari e soprattutto vicini sul corpo e sul comportamento, poteva rappresentare nell’economia del corretto comportamento della donna onesta la chiave di volta per portare avanti, con tutti i mezzi disponibili, compreso il ricorso in tribunale, la giusta battaglia per il recupero di un onore perduto proprio malgrado. Il ricorso in tribunale non poteva essere considerato come un atto di incuranza verso il proprio onore quando la gravidanza, e i conseguenti legittimi tentativi di sistemare informalmente le cose, magari con l’intervento di qualche intermediario di fiducia come ad esempio il proprio parroco, avevano reso il disonore di dominio pubblico. Nello

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stesso tempo proprio la pubblicità legata a questa fase della vicenda era anche un elemento decisivo nella costruzione dell’impianto probatorio dell’accusa. Era questa una fase cruciale in cui spesso, nel concitato intrecciarsi dei tentativi di risoluzione del problema da parte di mediatori di vario genere potevano gettarsi le fondamenta di una futura accusa in tribunale. Un silenzio colpevole di fronte alle accuse, una mezza parola o addirittura un impegno poi rimangiato da parte dell’imputato potevano supplire alla mancanza di prove della promessa precedente. Era anche la fase in cui si costruiva la voce pubblica che rappresentava nel processo un vero e proprio elemento di prova. La diffusione della propria versione dei fatti, attraverso la mobilitazione delle proprie reti di conoscenze, risultava dunque spesso decisiva. Anche dal punto di vista del racconto questa era la parte che, sebbene possa apparire più libera dai condizionamenti giudiziari, era forse di più difficile gestione in quanto occorreva non varcare mai, mostrando un eccessivo zelo e protagonismo personale, quel sottile confine che separava la giusta lotta per la riconquista dell’onore perduto e l’uso astuto e spregiudicato delle tutele offerte all’onestà. Un confine che separava la donna onesta dalla “donna di cabala” disposta a tutto pur di ottenere il risultato. Così spesso il racconto dettagliato di questa fase importantissima della vicenda non era fatto direttamente dalla querelante, ma era affidato ad altre voci, quelle dei testimoni. In conclusione occorre dire che, se querelanti e imputati utilizzavano in maniera più o meno consistente linguaggi e strategie narrative modellate sugli stereotipi giudiziari più comuni, ciò nonostante gli atti processuali sono spesso in grado di restituirci una realtà dei ceti subalterni, veri protagonisti di queste cause, che è molte volte lontana da quei modelli. La realtà di una vita femminile tutt’altro che segregata; la realtà di una sociabilità giovanile promiscua; la realtà di percorsi di formazione del matrimonio lunghi, articolati, e non necessariamente formalizzati e per questo ricchi di potenziali elementi di conflittualità. Una conflittualità che, al di là della retorica della verginità e dell’onore, costituisce la vera base di molte delle vicende presentate al Supremo Tribunale di Giustizia.

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Note * Questo saggio si basa su un più ampio studio da me condotto nell’ambito del dottorato di ricerca in Storia dell’Università di Torino, raccolto nella tesi dal titolo Il sesso in tribunale. Dottrina, prassi giudiziaria e pratiche sociali nei processi per stupro nella Toscana del Settecento, Università di Torino, a.a. 2000-2001. 1. Si trattava del massimo tribunale criminale secolare del Granducato istituito nel 1777 con la soppressione dell’antica magistratura degli Otto di Guardia e Balia. Esercitava giurisdizione diretta sulla città di Firenze e il suo distretto e aveva competenza ad esaminare e risolvere tutte le cause trasmesse dai giusdicenti del Dominio, cioè del Granducato con esclusione dello stato senese. 2. «[...] propter distinctionem delictorum stupri nomen peculiariter quoque adhibetur ad impermissam criminosamque corruptionis significandam virginis vel viduae honeste viventi [...] Nequae aliter stuprum habet locum, quam si agatur de mulieribus, quae honestam vitam traducant». Filippo Maria Renazzi, Elementa iuris criminalis, II, Siena, 1794 (1ª ed. 1773-1775), p. 83. Molti autori includevano nella definizione di stupro anche la violazione del fanciullo ma poi trattavano questo delitto tra quelli di sodomia. 3. «Significa questo delitto quell’atto di carnalità, che si commetta con le donzelle vergini, o veramente con le vedove per la prima volta dopo morto il marito. Bensicché questo secondo caso viene stimato men grave, e di minore ingiuria del primo, attesocché non importa la rottura, ovvero la deflorazione, come nel primo». Giovan Battista De Luca, Il dottor volgare, IV, Firenze, 1839-1843 (1ª ed. 1673), p. 441. 4. Il caso della violenza alla donna disonesta, fino al caso estremo della violenza contro la meretrice, suscitava particolari discussioni riguardo alla punibilità e alla classificazione di un tale delitto. «[...] le meretrici ed ogni altra disonesta e prostituta donna avendo fatto prodigo gitto della loro onestà e violato il deposito del proprio pudore ed onore, non possono godere il favore di quella speciale provvidenza con cui le leggi proteggere deggiono l’onestà e l’onore delle donne, e in conseguenza il delitto in tal caso ridurrebbesi a una semplice privata ingiuria recata loro colla violenza». Alberto De Simoni, Dei delitti considerati nel solo affetto, Milano, 1830 (1ª ed. 1783), p. 96. Sulla costruzione giuridica riguardo alla violenza cfr. I. Rosoni, voce Violenza (diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, XLVI, Milano, Giuffrè, 1993, pp. 843-858. 5. «[...] stuprum in virgine, quod proprie defloratio est, ab eo, quod in vidua sit, cui sola corruptio convenit, distinguamus; tum quia facilius intelligatur, cum de virgine agatur, non ad animum dumtaxtat, sed ad corpus precipue crimen hoc referri, atque in eo physico actu positum esse, quo virginitatis flos, nitorque destruitur, hinc proprium, et verum in virgine, improprium in vidua committitur stuprum. Praecedentem itaque virginitatem requirimus in puella, quae stuprum actionem cupiat experiri, et honestate in vidua». Iacopo Maria Paoletti, Istitutiones theorico-praticae criminales, II, Firenze, 1791, p. 167. 6. Sulla pratica della visita ostetrica nei casi di stupro cfr. A. Pastore, Il medico in tribunale. La perizia medica nella procedura penale d’Antico Regime (secoli XVIXVIII), Bellinzona, Edizioni Casagrande, 1998. Sul dibattito in ambito giuridico e medico-legale sulla prova della verginità cfr. A. Coluccia, Indagine tecnico scientifi-

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ca e valenza etica nell’attività peritale sul reato di stupro nella trattatistica settecentesca, in L. Berlinguer, F. Colao (a cura di), Criminalità e società in età moderna, Milano, Giuffré, 1991, pp. 147-166. Più in generale, sul valore attribuito alla verginità materiale nella cultura occidentale, si veda. G. Sissa, La verginità materiale. Evanescenza di un oggetto, in «Quaderni storici», 75 (1990), pp. 739-756. 7. «[...] può occorrere, che le fanciulle poco continenti da per loro, e fra di loro si rompano questi segni virginali, e così potrebbono queste esser giudicate corrotte in pregiudizio del querelato, potendo la fanciulla falsamente asserire d’essere stata stuprata da alcuno con disegno di farsi sposare o dotare: facendone alcune fanciulle, e più le madri di esse mercanzia». Antonio Maria Cospi, Il giudice criminalista, Firenze, 1643, p. 521. 8. «Verum quia materialis haec inspectio nihil statuit, cum aliunde quam per coitum fieri possit, ut puellae, si foetura absit, rupta habeat pudenda; et si pregnans sit, pluribus se prostituerit, moribus est, ut ipsa honestam vitae rationem ante stuprum per testes omni exceptione maiores demonstret, comprobetque». Paoletti, Istitutiones, p. 168. 9. Archivio di Stato di Firenze (d’ora in poi ASF), Supremo Tribunale di Giustizia, 118, fasc. 189, c. non numerata. 10. Ibidem. Le sottolineature sono dell’avvocato Martellini. 11. Ibidem. Le sottolineature sono sempre dell’avvocato Martellini. 12. Ibidem. 13. Ibidem. 14. La compilazione degli atti dei processi era affidata a un cancelliere, mentre la fase decisionale spettava a uno dei tre assessori del tribunale, all’auditore e all’Auditore Fiscale che prendeva la decisione definitiva. A partire dal 1784 l’Auditore Fiscale fu sostituito dal Presidente del Supremo Tribunale di Giustizia. 15. ASF, Supremo Tribunale di Giustizia, 118, fasc. 189, c. 75r. 16. Ibidem. 17. Cfr. N. Zemon Davis, Storie d’archivio. racconti d’omicidio e domande di grazia nella Francia del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1992. Per un’analisi dei linguaggi e delle rappresentazioni nei crimini sessuali, cfr. G. Ruggiero, The Boundaries of Eros. Sex, Crime and Sexuality in Renaissance Venice, New York, Oxford University Press, 1985, che si incentra sul linguaggio delle istituzioni espressione del patriziato veneziano; E. Storr Cohen, La verginità perduta: autorappresentazione di giovani donne nella Roma Barocca, in «Quaderni storici», 67 (1988), pp. 169-191, che ipotizza, negli spiragli di una comunicazione codificata, un’autorappresentazione delle donne come protagoniste e non solo come vittime nella costruzione del proprio destino; A. Clark, Women’s Silence, Men’s Violence: Sexual Assault in England (17701845), London, 1987; L. Roper, Will and Honour: Sex, Words, and Power in Augsburg Criminal Trials, in Oedipus and the Devil, London-New York, 1994; S. Butghartz, Tales of Seduction, Tales of Violence: Argumentative Strategies Before the Basel Marriage Court, in «German History», 17 (1999), pp. 41-56, che si pongono in un’ottica di genere e dei rapporti di potere nell’analisi del linguaggio sul sesso. 18. Lo stupro, sosteneva Marc’Antonio Savelli, è un delitto grave, soprattutto nella sua forma violenta, ma «facile a commettersi per il gusto che se ne riceve, onde da molti si dice dolce e soave». Per questa sua caratteristica e per la sua natura occulta, si trattava di un delitto cosiddetto «di prova difficile», cioè tale da non permettere

Raccontare lo stupro

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agevolmente il raggiungimento della prova legale e da ammettere invece «le prove arbitrarie al giudice secondo le qualità e circostanze de’casi». Marc’Antonio Savelli, Pratica universale, Firenze, 1696, p. 398. 19. G. Cazzetta, Praesumitur seducta. Onestà e consenso femminile nella cultura giuridica moderna, Milano, Giuffrè, 1999, p. 59. 20. ASF, Supremo Tribunale di Giustizia, 168, fasc. 172, c. 98r. Si tratta di un disegno di sentenza redatto da Iacopo Maria Paoletti in veste di auditore del Supremo Tribunale di Giustizia in un caso del 1783-1784. Paoletti riprendeva una famosa argomentazione di Benedict Carpzov, giurista della seconda metà del Cinquecento: «Ita multo minus censetur virgo stupratori concessisse flores virginitatis decerpere, nisi fidem ipsi del matrimonio dedisset; adeoque stuprator spe matrimonii ad hoc facinus committendum ipsam videtur induxisse, et sic virgo in dubio semper decepta, et seducta praesumitur», ibidem. Sulla storia della presunzione di seduzione cfr. Cazzetta, Praesumitur. 21. In Toscana una legge del 1754 aveva ristretto il campo di applicazione di questo tipo di pena riservandola solo al cosiddetto stupro qualificato, cioè aggravato da una promessa di matrimonio comprovata «in valida forma» e stabilendo invece una pena pecuniaria per il cosiddetto stupro semplice, cioè consensuale ma privo di promessa di matrimonio. Il testo della legge si può leggere in Codice di legislazione moderna del Granducato di Toscana, I, Siena, Francesco Rossi, 1775, p. 390. Un excursus sulle riforme legislative in materia negli stati italiani si trova in D. Lombardi, Fidanzamenti e matrimoni dal Concilio di Trento alle riforme settecentesche, in M. De Giorgio, C. Klapisch Zuber, Storia del matrimonio, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 215-250. 22. D. Zuliani, La riforma penale di Pietro Leopoldo. Edizione critica della legge toscana del 30 novembre 1786 con un indice lessicale, un prospetto delle riforme successive e i testi delle traduzioni coeve in lingue, Milano, Giuffrè, 1995, p. 529. 23. Ivi, p. 524. 24. «Mi conferma poi stabilmente nella mia opinione il sentimento di molti teologi, i quali con valide ragioni, sostengono che lo stupro non differisca in minima parte dalla semplice fornicazione, e che in conseguenza lo stupratore non sia tenuto né anche in foro di Coscienza, né alla Dote, né ad alcun Danno a favore della stuprata, che volontariamente acconsentì allo stupro, sostenendo che lo stupro non contiene alcuna differente specie di Lussuria dalla semplice fornicazione». Ivi, p. 530. Giusti riprendeva qui le argomentazioni elaborate da alcuni teologi della seconda scolastica come Soto, Sanchez e Molina, che avevano teso a smontare la costruzione teologico-giuridica tradizionale risalente a S. Tommaso che poneva al centro il concetto della verginità femminile come bene indisponibile. Su questa corrente di pensiero cfr. G. Alessi, Il gioco degli scambi: seduzione e risarcimento nella casistica cattolica del XVI e XVII secolo, in «Quaderni storici», 75 (1990), pp. 805-831; Cazzetta, Praesumitur. 25. Passo citato da G. Alessi, Processo per seduzione. Piacere e castigo nella Toscana leopoldina, Catania, PME, 1988, pp. 178-179. 26. Il Codice Penale del 1786 conserva sia il reato di stupro semplice che quello di stupro qualificato pur richiedendo prove più stringenti della promessa di matrimonio per la condanna a sposare o dotare. Il Codice del 1853, rimasto in vigore an-

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che dopo l’Unità d’Italia fino al 1889, conserva il reato di stupro con promessa di matrimonio, abolendo quello di stupro semplice. 27. ASF, Supremo Tribunale di Giustizia, 133, fasc. 110, c. 1v. 28. ASF, Supremo Tribunale di Giustizia, 172, fasc. 194, c. 4r. 29. Ivi, 72, fasc. 272, c. non numerata. 30. Ivi, 61, fasc. 58, c. non numerata. 31. Cfr. S. Cavallo, S. Cerutti, Onore femminile e controllo sociale della riproduzione in Piemonte tra Sei e Settecento, in «Quaderni storici», 44 (1980), pp. 346-383. Le parigine di fine Settecento che si presentavano al commissario di polizia per rendere conto di una gravidanza illegittima si presentavano come sedotte e raccontavano di aver subito il rapporto sessuale come un’aggressione improvvisa che le aveva sottoposte a svenimento e choc da cui si erano risvegliate ormai troppo tardi. Cfr. A. Farge, La vie fragile. Violence, pouvoirs et solidarités à Paris au XVIIIe siècle, Paris, Hachette, 1986. 32. Lo stesso stesso tipo di racconti che facevano le querelanti toscane si ritrova, più o meno con l’uso degli stessi termini, nei casi romani della metà dell’Ottocento esaminati da M. Pelaja, Matrimonio e sessualità a Roma nell’Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1994. 33. ASF, Supremo Tribunale di Giustizia, 137, fasc. 156, c. 7r. 34. «Non signore» aveva affermato, «la prima volta che mi promesse sposarmi fu cinque mesi fa, cioè quando ebbe che far meco l’ultima volta. Io veramente gli volevo bene, e credevo che lui ne volesse a me, e per questo lo lasciavo fare anche l’altre volte, e anche a non lo lasciar fare sarebbe stata tutt’una, perché è tanto il gran tremoto, che non v’era da liberarsene». Ivi, c. 6r. 35. Ivi, 117, fasc. 150, cc. 3v.-4r. Anche questa donna chiedeva di essere sposata pur negando di aver ricevuto la promessa di matrimonio. 36. Occorre infatti precisare che circa la metà degli imputati chiamati in causa nei processi esaminati tra il 1777 e il 1790 non si presenta in tribunale, e che tra quelli che si presentano circa un terzo confessa senza quasi tentare una difesa. 37. ASF, Supremo Tribunale di Giustizia, 56, fasc. 96, c. non numerata. 38. Ivi, 58, fasc. 154, c. non numerata. 39. Ivi, 122, fasc. 269, cc. 32v.-33r. 40. Ivi, 143, fasc. 10, c. 27v. 41. Ivi, c. 18v. 42. Ivi, c. non numerata. 43. Ivi, 108, fasc. 304, c. 4v. 44. Per una discussione su questo punto cfr. Butghartz, Tales. 45. Poco meno del 15% delle querele per stupro presentate al Supremo Tribunale di Giustizia tra il 1777 e il 1790 sono trattate come stupri violenti. Di queste quasi tutte riguardano casi in cui le vittime sono bambine al di sotto dei 12 anni.

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ANNA BELLAVITIS Donne, cittadinanza e corporazioni tra Medioevo ed età moderna: ricerche in corso*

Storia di un’assenza/assenza di una storia Corpi femminili e corpi sociali sono realtà che paiono escludersi reciprocamente. Una delle rappresentazioni più frequenti dell’identità urbana in epoca medievale e moderna si articola sulla complementarietà tra corpo cittadino e corpi di mestiere; 1 nell’uno come negli altri, la componente femminile è caratterizzata da una situazione di subalternità, se non di assenza, che sembra si vada progressivamente aggravando nel passaggio tra Medioevo ed età moderna. Le ricerche sulla cittadinanza delle donne prima dell’epoca contemporanea non sono molto numerose, in parte perché, come vedremo in seguito, si tratta di uno statuto abbastanza raro e quasi sempre difficile da definire. Ritengo però, e cercherò di dimostrarlo, che si tratti di un tema di grande interesse, soprattutto in relazione a un ambito di ricerche più ampio, e molto frequentato negli ultimi anni, sui diritti delle donne e sulle loro possibilità di trasmetterli, nelle società del passato. Il rapporto donne-corporazioni è invece stato molto più studiato, e non solo negli ultimi anni, rientrando nella più generale tematica del rapporto donne-lavoro, già oggetto di studi e ricerche ben prima che la storiografia femminista lo riconsiderasse secondo nuove ottiche e nuovi approcci interpretativi. Il quadro generale tracciato dalla storiografia è quello di una progressiva esclusione della componente femminile dalle corporazioni di mestiere, nel corso del Medioevo2 e in particolare nel passaggio tra Medioevo ed età moderna.3 In effetti,

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sin dalla fine del Quattrocento, la presenza femminile nelle corporazioni risulta sempre più dipendente dai legami familiari ovvero progressivamente limitata alle vedove e alle figlie dei maestri,4 ma l’involuzione non si limita a questo; infatti, sempre più spesso, a partire dal Cinquecento, le corporazioni arrivano ad abolire o a limitare fortemente gli antichi diritti delle vedove a subentrate al marito nella corporazione e nella gestione della bottega, provocando anche delle violente e risentite reazioni da parte delle lavoratrici.5 Molte ragioni sono state addotte per spiegare quello che sembra un fenomeno ricorrente nelle città europee. Tra queste, possiamo citare: l’evoluzione della produzione industriale in senso capitalistico,6 e la progressiva separazione tra lavoro familiare e lavoro extrafamiliare in ambito urbano,7 ma anche la crescita demografica che caratterizza il Cinquecento, e la concorrenza che ne sarebbe derivata per il lavoro artigiano nelle città,8 o ancora un mutamento in senso patriarcale delle mentalità, con una nuova enfasi sulla centralità della famiglia e del ruolo femminile al suo interno, fenomeno tipico dell’età della Riforma e della Controriforma.9 Corporazioni e lavoro femminile: una storia da rivisitare Le corporazioni non rappresentavano però che una minima parte delle attività lavorative nelle città medievali e della prima età moderna e, dato lo scarto salariale, il lavoro femminile restò sempre competitivo rispetto a quello maschile. 10 Nel modello della protoindustria, il lavoro femminile rurale è anzi visto come un’alternativa assai efficace agli alti costi dell’artigianato organizzato urbano.11 La tendenza all’esclusione della componente femminile dalle corporazioni non va dunque confusa con un’esclusione delle donne dal mondo del lavoro, anche se contribuì probabilmente ad accentuare la contrapposizione tra mestieri femminili, meno qualificati, e mestieri maschili, più prestigiosi e “visibili”, e una separazione fra spazi privati femminili e spazi pubblici maschili.12 D’altra parte, si possono anche sottolineare taluni elementi di continuità, per esempio nel settore tessile, o meglio, come è stato scritto, «propendere per un andamento ciclico dell’esclusione e della marginalizzazione femminili», anche al fine di evitare ogni idea-

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lizzazione di una presunta “età dell’oro”, spesso difficile da verificare, per scarsità di fonti.13 Per esempio, a Bologna, dove l’esclusione delle donne dalle corporazioni era stata piuttosto precoce e contemporanea all’affermazione politica della componente popolare (e dunque delle corporazioni),14 ritroviamo, tra Seicento e Settecento, in un contesto politico ed economico completamente cambiato, una prevalenza di “maestre” nell’Arte dei tessitori di seta.15 A Firenze, nell’Arte della lana e nell’Arte della seta, si trova un’importante percentuale di “maestre” tessitrici, nel Trecento e, dopo un lungo periodo di marginalizzazione, se ne ritrovano nuovamente a partire dal Seicento.16 A Venezia, dove le corporazioni non ebbero mai alcun potere politico e furono precocemente sottoposte al controllo dello Stato patrizio, i fenomeni di esclusione sei-settecenteschi sono legati alla crisi più generale della manifattura tessile urbana.17 I contratti di apprendistato erano registrati presso la magistratura della Giustizia Vecchia, che controllava le corporazioni. Alla fine del Cinquecento, si trovano all’incirca una putta ogni 8-10 garzoni, ma anche qualche “maestra”, soprattutto nel settore tessile. Sembra meno ovvio, e forse dovrebbe indurci a riconsiderare il ruolo di questa magistratura, che vi siano anche, di tanto in tanto, dei contratti di assunzione di domestiche, anche da parte di famiglie apparentemente del tutto estranee al mondo artigiano, come l’avvocato Dionigi di Muschi che, nel 1576, assume Orsola, una ragazza «de bona età» proveniente dal Feltrino, per «star et servir in Venetia et in villa et dove sarà bisogno».18 L’Arte dei merciai, dove si trovano maestri e maestre sino al Settecento, sembra un caso interessante, anche perché, nonostante la presenza femminile nel commercio al dettaglio sia documentata in tutta Europa, non sempre questo tipo di attività era organizzato in corporazioni.19 Quella di merciaio è infatti una qualifica assai vaga, che può comprendere il grande mercante di merci pregiate, come il piccolo dettagliante che non dispone nemmeno di una bottega, ma solo di un banco di vendita. È allora significativo che, in una lista di “fratelli” del 1692, compaiano solo due donne nell’Arte maggior: «Caterina Gerardini marcera da romane e merli d’oro» e «Lucrecia Muccio marcera da biancaria» e dieci nell’Arte minor, cinque delle quali sono definite «marcerette» e una «vende in casa».20 E proprio la concorrenza di merciaie ambulanti, le quali «con la libertà del pro-

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prio sesso s’introducono nelle case di nobili, privati e monasterii, et in occasione de noviciati vendono talli merzi tollendo a poveri marzeri quell’utile ch’a loro s’è dovuto», viene addotta come giustificazione della richiesta, formulata il primo luglio 1704 dai «fratelli di sede e romanete», di non ammettere più donne «per cappi maestre della presente scola, né con botteghe né senza, né per arte maggior, né per minor, né per membri».21 Le donne in questione, che andavano «vendendo per la città cordelami di rillevante consideratione, ormesinate larghe e strette e in opera et anco con oro in molta quantità et capitali considerabili»,22 erano apparentemente dei “fratelli” della corporazione che non rispettavano la consegna di vendere solo nella propria bottega o banco del mercato. La richiesta dei merciai è assai interessante. Forse si fonda su argomenti pretestuosi, e allora è significativa di una rappresentazione delle donne al lavoro come sregolate e troppo “libere”, ma se invece rispecchia la realtà, allora ci dà una testimonianza della capacità di queste lavoratrici, che comunque non appartengono all’élite della corporazione, di sfruttare tutti gli spazi di manovra disponibili e anche quelli illeciti. Le regole della corporazione potevano infatti essere assai restrittive e lo scambio tra protezione e controllo forse non sempre favorevole.23 La maggior parte delle ricerche sul rapporto fra donne e corporazioni riguardano però l’Europa settentrionale. Di fronte a una bibliografia estremamente vasta e che continua ad arricchirsi, possiamo citare taluni esempi, che possano proporre taluni elementi di riflessione anche sul tema della cittadinanza. La realtà inglese, in epoca tardo medievale, è teoricamente di grande apertura: le donne potevano partecipare alle corporazioni insieme agli uomini e, se non esistevano, in quest’epoca, corporazioni esclusivamente femminili, le donne erano formalmente escluse solo da cinque, su cinquecento, corporazioni. Prendevano parte alla vita associativa, avevano il titolo di sisters, ed erano soggette alle stesse norme relative all’apprendistato, ma non potevano essere elette alle cariche.24 I diritti delle donne dipendevano dalla loro situazione familiare: una donna non sposata, femme sole, poteva acquisire proprietà e disporne, contrarre debiti, fare testamento e impegnarsi direttamente in attività economiche, tutti diritti che una donna sposata, femme coverte, non aveva. Faceva eccezione Londra, dove anche le donne sposate disponevano di diritti analoghi e, in particolare, pote-

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vano iscriversi alle corporazioni ed esercitare delle attività economiche indipendenti da quelle del marito.25 Le lavoratrici della seta, un’attività in espansione nella Londra del Quattrocento, agivano come femme sole, anche nel caso in cui fossero sposate, e mantennero fino alla fine del secolo il monopolio su tutte le fasi della lavorazione, forse proprio grazie al fatto che un’arte della seta non esisteva ancora.26 Questa, in parte teorica, situazione di apertura delle corporazioni inglesi cominciò a cambiare nella prima metà del XVI secolo, in un’epoca di crisi economica e religiosa. Gli studi sulle corporazioni londinesi nel XVI secolo hanno dimostrato che la percentuale di donne iscritte come apprendiste era molto bassa e che in realtà «despite the charters and precedents to the contrary, single women had no place in a gild».27 Spesso, e ciò grazie alla particolare condizione delle londinesi, le donne che agiscono come femme sole sono in realtà mogli di membri della corporazione e, ancor più frequentemente, vedove. A partire dal 1540, le donne vennero escluse da alcuni mestieri organizzati, come i tessitori e i panettieri, mentre in altri casi fu proibito ai maestri di far lavorare «openly» le loro mogli e figlie nella bottega. Il diritto ad accedere alle corporazioni divenne sempre una prerogativa esclusiva delle vedove.28 In Inghilterra, l’accesso all’apprendistato era il primo passo per l’acquisizione della cittadinanza, ovvero del titolo di freemen, che era la condizione indispensabile all’esercizio di attività economiche in città e dei diritti politici. Non esisteva, in epoca medievale e moderna, alcun ostacolo legale o teorico all’accesso delle donne alla cittadinanza e, molto tempo dopo, questo permise alle suffragette inglesi, «saccheggiando a tal fine gli archivi di città e tribunali», di rivendicare il diritto di voto anche richiamandosi all’esistenza, nelle città che votavano per eleggere i membri del Parlamento, di donne con il titolo di freemen.29 In realtà, era comunque raro, anche in epoca medievale, che una donna accedesse al titolo di freemen attraverso l’apprendistato, mentre accadeva che vi accedesse da vedova, subentrando al marito nella corporazione.30 Il diritto per una vedova di accedere alle corporazioni, e in tal modo alla cittadinanza, era ancora in vigore nel XVIII secolo, ma sembra che fossero in poche a esercitarlo.31 Londra, con una popolazione di circa 70.000 abitanti nel XVI secolo, non era comparabile, come capitale, a Parigi, con i suoi 200.000

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abitanti alla fine del Medioevo. Parigi, dove le corporazioni furono precocemente sottoposte al controllo della monarchia, e dove l’accesso alla corporazione non consentiva, di per sé, l’accesso alla cittadinanza,32 era anche la capitale in cui alcuni mestieri organizzati, e non dei meno importanti, erano interamente composti da donne. In epoca medievale, la filatura e la tessitura della seta erano monopolizzate da corporazioni esclusivamente femminili, il cui governo era però condiviso con dei “maestri giurati” nominati dal sovrano: per le filatrici si trattava di due maestri e per le tessitrici di tre maestre e tre maestri. Gli statuti medievali dei mestieri parigini fanno riferimento a manodopera femminile e maschile e l’ordinamento reale del 1350, successivo alla peste, apre l’accesso alle corporazioni a chiunque venga a stabilirsi in città, uomini e donne, regnicoli e forestieri. Se per alcuni mestieri, come i fabbricanti di cinture e corregge e i cristallai, si registra, nelle fonti normative, una certa “diffidenza” nei confronti delle lavoratrici, la situazione parigina appare, almeno nei testi normativi, di grande apertura.33 Alla fine dell’epoca moderna troviamo ancora delle corporazioni interamente femminili, alcune di poca importanza, come le bouquetières-chapelières en fleurs o le filassières, e altre che sono invece fra le più importanti nei mestieri tessili e della moda, come le lingères (all’origine, tessitura e vendita di tele di lino e cotone, e poi sempre più confezione di indumenti e biancheria per donne) e le couturières (sarte per donna),34 attività in grande espansione nella nascente “società dei consumi” della capitale nel Settecento.35 Diversamente dall’epoca medievale, nel governo dei mestieri interamente femminili, né padri né mariti potevano intervenire e le donne non sposate, cosiddette filles majeures, arrivavano a circa il 40% degli effettivi tra le lingères e le couturières. Alcune corporazioni ammettevano un certo numero di donne come maestre, escludendole però dalle cariche di governo. Si trattava soprattutto di mogli e vedove di maestri, tranne per le “maestre pittrici” e per i negozianti di sementi, nella cui corporazione le donne oltre a poter essere maestre, potevano lasciare la maîtrise non solo alle loro figlie, il che era permesso anche nelle altre corporazioni miste oltre che in quelle femminili, ma anche ai loro figli maschi. Il governo di questo mestiere (grainiers-grainières) era affidato a due maestri e due maestre, che potevano essere nubili, sposate o vedove. A Parigi, negli anni Sessanta del XVIII secolo, vi erano circa duemila

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maestre appartenenti alle corporazioni: tra 1.700 e 1.800 nella sola corporazione delle lingères e tra 700 e 800 in quella delle couturières. Come è stato scritto, la maîtrise di un mestiere (ovvero il titolo di maestra artigiana) era al tempo stesso la maîtrise (ovvero possesso) di un’identità, che fu intaccata e messa in crisi quando, nel 1776, tutte le corporazioni divennero miste.36 Lasciando per un attimo le capitali, veniamo adesso alle città, piccole ma economicamente assai importanti, dell’Europa del Nord, dove le ricerche su questi temi sono ormai assai numerose. Molti studi hanno messo in rilievo l’importante ruolo giocato dalle donne nella crescita economica di queste città, spesso in maniera indipendente, come imprenditrici, o in collaborazione con il marito o con la famiglia di origine. Le donne della grande borghesia mercantile, in particolare, raggiunsero un ruolo di particolare rilievo nelle città tedesche della fine del Medioevo, arrivando anche a ricoprire incarichi “civili”, anche se non a partecipare al governo della città.37 Il caso di Colonia, città di circa 40.000 abitanti alla fine del Medioevo, è particolarmente interessante, poiché la lavorazione della seta, nel Quattrocento, era monopolio di una corporazione interamente femminile. Si trattava di un’industria in grande espansione, la cui corporazione, creata nel 1437, fu aperta ad apprendiste immigrate, senza restrizioni, sino al 1506. Al governo erano preposti due donne e due uomini, che dovevano essere mariti delle maestre. In effetti, la corporazione, e non solo la lavorazione, della seta era organizzata su base interamente familiare: le maestre erano quasi tutte sposate con dei mercanti di seta, che partecipavano alle cariche della corporazione e che controllavano la commercializzazione dei prodotti delle loro mogli. Il felice connubio, è il caso di dirlo, tra produzione e commercializzazione è una delle ragioni del grande sviluppo dell’industria della seta a Colonia nel Quattrocento e va notato che ci troviamo per l’appunto in quella borghesia emergente di cui s’è parlato: circa un terzo delle maestre setaiole provenivano da famiglie dell’oligarchia urbana.38 Il contesto familiare nel quale si svolge il lavoro femminile emerge dunque ancora una volta come uno degli elementi maggiormente determinanti, anche in riferimento alla sua organizzazione corporativa. Più in generale, è stato affermato che le corporazioni sarebbero aperte alle donne solo laddove la produzione, anche per i mestieri organizzati, sarebbe basata sulla famiglia. Se la corporazio-

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ne si oppone alla famiglia naturale, la visibilità del lavoro femminile sarebbe quindi penalizzata, mentre laddove la corporazione integra la famiglia naturale, come nel caso delle tessitrici e dei mercanti di seta di Colonia, anche la manodopera femminile è riconosciuta all’interno dell’organizzazione.39 All’inizio del XVI secolo, in coincidenza con un irrigidimento delle gerarchie tra le corporazioni, e soprattutto nel momento in cui le corporazioni di mestiere assumono un ruolo molto più centrale nel governo della città, anche la corporazione della seta si modifica per divenire una corporazione prevalentemente maschile.40 Il legame tra ruolo femminile nelle corporazioni e ruolo delle corporazioni nella vita pubblica è stato in effetti messo in evidenza dalle ricerche più recenti come elemento di spiegazione dei processi di esclusione delle donne dalle corporazioni.41 Generalizzare, in questo ambito, è però assai difficile, e comunque bisogna distinguere fra vero ruolo di governo, semplice ruolo pubblico di rappresentanza della comunità urbana, per esempio nelle processioni, o, ancora, legame tra appartenenza alle corporazioni e acquisizione della cittadinanza. Donne e cittadinanza: una storia da costruire Il tema della cittadinanza femminile apre diversi tipi di problematiche: da una parte, il titolo di cittadino, in una città medievale, può avere un peso politico determinante se consente di eleggere e di essere eletti alle cariche; d’altra parte, può trattarsi più semplicemente della possibilità, offerta agli immigrati, dopo un certo tempo di residenza, di partecipare alla vita economica della città e di beneficiare della protezione e dell’assistenza.42 Il fatto che in talune città dell’Europa del Nord, come Francoforte e Colonia, il titolo di cittadino prendesse progressivamente, tra XIV e XV secolo, un significato più esclusivo e politico, è stato messo in relazione con una progressivo calo delle ammissioni delle donne alla cittadinanza.43 Forse non è necessario scomodare ancora una volta Platone e Aristotele per spiegare l’esclusione delle donne dalla politica e dunque dalla cittadinanza: è un dato di fatto, che si ritrova, seppur in forme diverse, nel mondo greco, come in quello romano, come nella civiltà comunale e nello Stato della prima epoca moderna.44 Oltre al più generale

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pregiudizio dell’imbecillitas sexus, una possibile lettura giuridica di tale esclusione è il fatto che la comunità urbana, ma anche nazionale, basti pensare a Jean Bodin, si compone di famiglie e che la cittadinanza è ciò che compete al paterfamilias.45 Le storiche e gli storici che hanno affrontato il problema parlano in genere per le donne di “cittadinanza passiva”, che consente l’accesso all’assistenza, alla protezione ma anche, eventualmente, alle attività economiche e al mercato,46 senza mai tradursi, con buona pace delle suffragette inglesi già citate, in diritto a eleggere ed essere elette alle cariche. Il fatto che le vedove avessero più facilmente accesso alla cittadinanza, come si è visto per il caso inglese, attraverso la mediazione della loro iscrizione alle corporazioni, rientrerebbe in questo modello, così come il fatto che l’accesso delle donne nubili alle corporazioni, e dunque alla cittadinanza, creasse di fatto dei problemi. Anche dal punto di vista delle attività, com’è noto, lo status di cittadino poteva avere dei significati assai diversi nelle città medievali e moderne e secondo che si trattasse di cittadinanza acquisita con la nascita o concessa a degli immigrati. In maniera generale, va ricordato che non tutti gli immigrati avevano la necessità di diventare cittadini, ma che tale titolo poteva essere utile, e talvolta indispensabile, per esercitare delle attività economiche indipendenti. In talune città d’Europa settentrionale si nota una percentuale, assai variabile, di immigrate che acquisiscono la cittadinanza in maniera indipendente. Nel caso di Bruges, una città in cui l’accesso alla cittadinanza era piuttosto facile, le donne erano circa il 10% dei nuovi cittadini tra 1331 e 1460 e circa il 20% tra il 1379 e il 1455; a Leida, tra 1400 e 1532, le donne erano circa il 10% dei nuovi cittadini; a Francoforte tale percentuale passa da circa il 7%, ma con punte tra il 14 e il 20% in taluni anni, tra 1350 e 1370, a circa il 2-3% negli anni 1380. Nel caso di immigrazione di coppie sposate, le donne talvolta dovevano fornire separatamente le prove della legittimità della loro nascita o del tempo di residenza.47 Non si dispone ancora di ricerche comparabili per le città dell’Europa mediterranea e non si può che auspicare che tale lacuna venga colmata al più presto, sempre che le fonti lo permettano.48 In una ricerca sui privilegi di cittadinanza veneziana concessi ad immigrati tra Cinquecento e Seicento, su un totale di oltre trecento nuovi cittadini, ho trovato solo una donna, Lucina Zocchia, vedova di Zuan

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Battista Terrani, carter. Dopo aver dimostrato che aveva abitato a Venezia per quindici anni, Lucina ottiene la cittadinanza de intus, ovvero quella di grado inferiore, che permetteva di esercitare attività mercantili in città (mercari Venetiis).49 Possiamo immaginare che volesse riprendere l’attività del marito, ma va notato che le autorità veneziane le accordarono la cittadinanza non in quanto vedova, ma causa habitationis. Gli unici altri due casi che ho trovato sinora sono concessioni di cittadinanza de intus et extra (che permetteva di commerciare con i paesi del Levante con le stesse esenzioni daziarie che spettavano ai cittadini originari) a due native: Franceschina di Marco Antonio da Venezia che, nel 1548, prova ai Provveditori di Comun la sua età, 24 anni, e la sua nascita legittima e Giacomina de Bernardo, casaruol, cioè venditore di formaggi, che la ottiene nel 1592, all’età di 36 anni.50 Anche i nativi, infatti, per godere di completi diritti mercantili, dovevano ricevere l’approvazione dei Provveditori di Comun. È evidente che il privilegio di cittadinanza veneziana, almeno in quest’epoca, non era una specialità femminile, il che ci dice qualcosa non certo sui diritti “politici” delle Veneziane, dato che la cittadinanza veneziana dava esclusivamente dei privilegi economici, ma sulle (scarse, apparentemente) attività mercantili delle donne del ceto medio nella Venezia del Cinque-Seicento.51 Fra le numerose leggi sulla cittadinanza veneziana, una sola utilizza il termine Venetus al femminile. Si tratta della legge del 1407 che, per risolvere una situazione di crisi demografica dovuta alle ricorrenti epidemie, concede automaticamente il privilegio di cittadinanza de intus tantum, che in tempi normali si poteva richiedere solo dopo 15 anni di residenza a chi sposasse una Venetam habitatricem Venetiarum.52 Per attirare uomini si possono anche rendere più interessanti i matrimoni con le donne della città, a patto che, ovviamente, marito e moglie vi restino ad abitare. Mai abrogata ufficialmente, questa legge è ripresa in una norma della legge sulla cittadinanza del 1552, che prevede la riduzione da 15 a 8 anni della residenza richiesta per la cittadinanza de intus, per coloro che avessero sposato una donna veneziana.53 Nel XVI secolo praticamente tutti i candidati al privilegio di cittadinanza dichiaravano di aver sposato una «Veneziana», o di aver «preso moglie in Venezia», o di aver «moglie nata in questa città» e talvolta anche di aver sposato una «cittadina». Non è ben chiara la definizione della “cittadina veneziana”, a meno che non si limiti tale qualifica

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alle figlie di cittadini, il che ci porterebbe a concludere che, per le donne, la cittadinanza si considera acquisita solo alla generazione successiva. Queste famiglie di immigrati sono in genere molto prolifiche: otto, dieci, sedici, sino ai diciassette figli, di cui otto viventi, dell’editore in odor di calvinismo Vincenzo Valgrisi, di origine francese, libraio nelle Mercerie «all’insegna di Erasmo». L’emigrazione è un’attività maschile e gli aspiranti cittadini che si sono trasferiti «in fraterna», fratelli, zii e nipoti o padri e figli, associati nei commerci, parlano delle loro mogli solo quando sono Veneziane. Vi saranno certamente stati anche dei casi di trasferimenti di famiglie intere, padre, madre e figli, ma le mogli, o madri, “forestiere” non sono mai nominate. Invece sposare una Veneziana era assai utile, il radicamento in città attraverso il matrimonio e la numerosa prole costituiva la migliore prova della volontà di rimanere in città.54 La trasmissione della cittadinanza per matrimonio è in realtà una questione assai complessa. Secondo Martha C. Howell, «legitimate children born to female citizens were presumed citizens»;55 forse questo è vero per l’epoca tardo-medievale e per le città anseatiche o germaniche, ma non lo si può affermare, ad esempio, per Amsterdam nel XVII secolo, dove le donne che potevano accedere indipendentemente alla cittadinanza potevano trasmetterla solo ai loro mariti ma non ai loro figli.56 In generale, le mogli acquisivano automaticamente la cittadinanza dei loro mariti57 ma, in taluni casi, in epoca medievale, potevano anche mantenere una doppia cittadinanza se questo permetteva loro di conservare dei diritti ereditari nella loro città di origine.58 Gli uomini che sposavano una cittadina acquisivano assai spesso automaticamente la cittadinanza,59 oppure avevano delle facilitazioni nell’acquisirla.60 Per ritornare alla metafora del “corpo”, da cui siamo partiti, si può dire che l’accesso al “corpo” (in senso fisico) femminile dava dunque accesso al “corpo” (in senso traslato) dei cittadini. Nemmeno questa, però, era una regola generale, poiché, ad esempio, a Lille, in epoca tardo-medievale, questa possibilità non esisteva.61 La difficoltà o l’impossibilità per le donne di trasmettere beni, diritti e statuti è un tema cruciale affrontato da molte ricerche recenti che hanno permesso di aggiungere molte precisioni, e talvolta anche di attenuare l’impressione del tutto negativa che si può avere quando ci si limita alle sole fonti normative.62 Il fatto che le donne potessero,

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in molti casi, trasmettere la cittadinanza per matrimonio senza perderla non mi sembra sia stato considerato con la dovuta attenzione. Tuttavia appare in contraddizione con una situazione generale in cui i diritti delle donne, soprattutto se sposate, sono assai limitati: col matrimonio, una donna nobile perdeva il suo statuto e una donna ricca rischiava di disperdere le sue ricchezze con la dote. La trasmissione dalla moglie al marito poteva riguardare, nell’ambito del sistema corporativo, le vedove dei maestri e, come è stato scritto, contribuire così alla creazione di legami orizzontali tra i lignaggi che potevano entrare in contraddizione con il sistema patrilineare.63 Il titolo però, una volta trasmesso, era perduto dalla moglie, il che, a quanto sembra, non accadeva invece per la cittadinanza. Le norme sulla trasmissione della cittadinanza da moglie a marito si possono mettere in relazione con quelle leggi che negli Statuti urbani tendevano a proteggere, attraverso le donne, le ricchezze della città, ovvero le cosiddette leggi suntuarie che, al fine di evitare la dispersione dei patrimoni, si concentravano di fatto sulla sua parte femminile, per esempio limitando le doti delle fanciulle che sposavano uno straniero,64 lo spreco di ricchezze attraverso gli abiti65 e la rovina delle famiglie attraverso le doti eccessive.66 È vero che il fatto che una donna potesse trasmettere la cittadinanza rischia di prendere, al nostro sguardo di eredi della Rivoluzione francese, un significato più forte di quel che doveva avere per gli abitanti delle città dell’Europa medievale e moderna; ma è anche vero che contribuisce a ridare valore e visibilità alla parte femminile della società urbana e forse a spingerci a ricercare le donne e i loro “diritti” anche in nuovi contesti e in nuove fonti.67

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Note * Desidero ringraziare Linda Guzzetti per i suoi consigli e per l’attenta lettura di una prima versione del testo. 1. Sui limiti, però, di questa immagine, cfr. S. Cerutti, Mestieri e privilegi. Nascita delle corporazioni a Torino, secoli XVII-XVIII, Torino, Einaudi, 1992; sul possibile conflitto fra i “corpi” come rappresentanti dell’identità urbana, cfr. l’esempio di Parigi, in R. Descimon, Corpo cittadino, corpi di mestiere e borghesia a Parigi nel XVI e XVII secolo. Le libertà dei borghesi, in «Quaderni Storici», 2 (1995), pp. 417-444. 2. Cfr. D. Herlihy, Women’s Work in the Towns of Traditional Europe, in S. Cavaciocchi (a cura di), La donna nell’economia. Secc. XIII-XVIII, Prato, Istituto Internazionale di Storia Economica F. Datini, 1990, pp. 103-130. 3. Per una sintesi cfr. M. Berengo, L’Europa delle città. Il volto della società urbana europea tra Medioevo ed Età moderna, Torino, Einaudi, 1999, in particolare pp. 427-431. 4. Cfr. per es. M. Wiesner, Spinsters and Seamstresses: Women in Cloth and Clothing Production, in M.W. Ferguson, M. Quilligan, N.J. Vickers, Rewriting the Renaissance. The Discourse of Sexual Difference in Early Modern Europe, ChicagoLondon, The University of Chicago Press, 1986, pp. 191-205. 5. Cfr. K. Honeyman, J. Goodman, Women’s work, gender conflict, and labour markets in Europe, 1500-1900, in «Economic History Review», XLIV/4 (1991), pp. 608-628; Berengo, L’Europa delle città. 6. Cfr. A. Clark, Working Life of Women in the Seventeenth Century, London, Routledge, 1919. 7. Cfr. M. Wiesner, Women’s Work in the Changing City Economy, 1500-1650, in M.J. Boxer, J.H. Quataert, Connecting Spheres. Women in the Western World, 1500 to present, New York-Oxford, Oxford University Press, 1987, pp. 64-74; Eadem, Women and Gender in Early Modern Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, in particolare pp. 82-114. 8. Cfr. per es., L. Mottu-Weber, L’évolution des activités professionnelles des femmes à Genève du XVIe au XVIIIe siècle, in Cavaciocchi, La donna nell’economia, pp. 345-357. 9. Cfr. N. Zemon Davis, Women in the Crafts in Sixteenth-Century Lyon, in B. Hanawalt (a cura di), Women and Work in Preindustrial Europe, Bloomington, Indiana University Press, 1986, pp. 167-197; L. Roper, The holy household: Women and Morals in Reformation Augsbourg, Oxford, Clarendon Press, 1991. 10. Cfr. per es., C.C. Simon-Muscheid, La lutte des maîtres tisserands contre les tisserandes à Bâle. La condition féminine au XVe siècle, in Cavaciocchi, La donna nell’economia, pp. 383-389. 11. Per una critica a questo modello, cfr. Sheilagh C. Ogilvie, Women and protoindustrialisation in a corporate society: Württemberg wollen weaving, 1590-1760, in P. Hudson, W.R. Lee (a cura di), Women’s work and the family economy in historical perspective, Manchester-New York, Manchester University Press, 1990, pp. 76-103. 12. Cfr. J.H. Quataert, The Shaping of Women’s Work in Manufacturing: Guilds, Households, and the State in Central Europe, 1648-1870, in «The American Historical Review», 90, 5 (1985), pp. 1122-1148.

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13. Cfr. A. Groppi, Il lavoro delle donne: un questionario da arricchire, in Cavaciocchi, La donna nell’economia, pp. 143-154. 14. R. Greci, Donne e corporazioni: la fluidità di un rapporto, in A. Groppi (a cura di), Il lavoro delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 71-91. 15. Cfr. A. Guenzi, La tessitura femminile tra città e campagna. Bologna, secoli XVII-XVIII, in Cavaciocchi, La donna nell’economia, pp. 247-259; M. Palazzi, «Tessitrici, serve, treccole». Donne, lavoro e famiglia a Bologna nel Settecento, ivi, pp. 359-376. 16. Cfr. I. Chabot, La reconnaissance du travail des femmes dans la Florence du bas Moyen Âge: contexte idéologique et réalité, ivi, pp. 562-576; F. Franceschi, Oltre il «Tumulto». I lavoratori fiorentini dell’Arte della Lana fra Tre e Quattrocento, Firenze, Olschki, 1993, pp. 117-121; J. Goodman, Cloth, Gender and Industrial Organization Towards an Anthropology of Silkworkers in Early Modern Europe, in S. Cavaciocchi (a cura di), La seta in Europa, secc. XIII-XX, Prato, Istituto Internazionale di Storia Economica F. Datini, 1993, pp. 229-245 e, più in generale sulla situazione italiana, S. Laudani, Mestieri di donne, mestieri di uomini: le corporazioni in età moderna, in Groppi (a cura di), Il lavoro delle donne, pp. 183-205. 17. Sulle donne nelle corporazioni veneziane in epoca medievale, cfr. Greci, Donne e corporazioni, pp. 78-81; sulle attività delle donne veneziane alla fine del Medioevo, cfr. L. Guzzetti, Le donne a Venezia nel XIV secolo: uno studio sulla loro presenza nella società e nella famiglia, in «Studi Veneziani», n.s., XXXV (1981), pp. 15-88; sulle corporazioni veneziane tra Medioevo ed Epoca moderna, cfr. R. Mackenney, Tradesmen and Traders. The World of the Guilds in Venice and Europe, c. 1250 - c. 1650, London-Sidney, Croom Helm, 1987; sulle corporazioni veneziane in epoca moderna e sull’esclusione delle donne tra XVI e XVII secolo, cfr. W. Panciera, Emarginazione femminile tra politica salariale e modelli di organizzazione del lavoro nell’industria tessile veneta nel XVIII secolo, in Cavaciocchi, La donna nell’economia, pp. 585-596; Idem, L’economia: imprenditoria, corporazioni, lavoro, in P. Preto, P. Del Negro (a cura di), Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Serenissima, vol. VIII, L’ultima fase della Serenissima, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1998, pp. 479-553; sul lavoro femminile esterno, ma indispensabile ad alcune tra le principali corporazioni veneziane in Epoca moderna, cfr. L. Molà, Le donne nell’industria serica veneziana del Rinascimento, in L. Molà, R.C. Mueller, C. Zanier, La seta in Italia dal Medioevo al Seicento. Dal baco al drappo, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 423-459; F. Trivellato, Fondamenta dei Vetrai. Lavoro, tecnologia e mercato a Venezia tra Sei e Settecento, Roma, Donzelli, 2000, in particolare pp. 171-187. 18. Archivio di Stato di Venezia (d’ora in poi ASV), Giustizia Vecchia, b. 112, reg. 151, c. 156. Faccio qui rapidamente riferimento alla ricerca che ho in corso sui registri di garzonato, tra XVI e XVIII secolo e più in generale sul lavoro femminile a Venezia in epoca moderna. Queste considerazioni sono tratte dallo spoglio degli atti relativi agli anni 1575-1576, 1582-1583, 1591 (b. 112-113, reg. 151-154). 19. Cfr. Berengo, L’europa delle città, p. 430; M. Wiesner, Paltry Peddlers or Essential Merchants? Women in the Distributive trades in early Modern Nuremberg, in «Sixteenth Century Journal», vol. XII, n. 2 (1981), pp. 3-13.

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20. ASV, Arti, b. 397, reg. 28. Sull’Arte dei marzeri, cfr. Mackenney, Tradesmen and Traders, pp. 88-111. 21. ASV, Arti, b. 12, Mariegola, cap. 347, c. 179. 22. Ibidem. 23. Cfr. A. Groppi, Jews, Soldiers and Neophytes: The practice of trades under Exclusions and Privileges (Rome from Seventeenth to the Early Nineteenth Centuries), in A. Guenzi, P. Massa, F. Piola Caselli (a cura di), Guilds, Markets and Work Regulations in Italy, 16th-19th Centuries, Singapore-Sidney, Ashgate, AldershotBrookfield, 1998, pp. 373-392. 24. Cfr. K.E. Lacey, Women and Work in Fourteenth and Fifteenth Century London, in L. Charles, L. Duffin, Women and Work in Preindustrial England, London, Croom Helm, 1985, pp. 24-82. 25. Cfr. Ibidem. Si veda anche S. Rappaport, Worlds within Worlds: Structures of Life in Sixteenth-Century London, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1989. 26. Cfr. Lacey, Women and Work, pp. 54-56; M. Kowaleski, J.M. Bennett, Crafts, Guilds and Women in the Middle Ages: Fifty Years after Marian K. Dale, in «Signs: Journal of Women in Culture and Society», vol. 14, n. 2 (1989), pp. 474-488; M.K. Dale, The London silkwomen in the Fifteenth Century, ivi, pp. 476-488. 27. Rappaport, Worlds within Worlds, p. 38, che riferisce le conclusioni di N. Adamson. 28. Cfr. ivi, pp. 36-39. 29. Cfr. M. Prior, Women and the urban economy: Oxford 1500-1800, in Eadem (a cura di), Women in English Society, 1500-1800, London-New York, Methuen, 1985, pp. 93-117, p. 93. 30. Cfr. Lacey, Women and Work, p. 46. 31. Cfr. Prior, Women and the urban economy. 32. Cfr. J. Di Corcia, “Bourg, Bourgeois, Bourgeois de Paris” from the Eleventh to the Eighteenth Century, in «Journal of Modern History», 50 (1978), pp. 207-233. 33. Cfr. S. Roux, Les femmes dans les métiers parisiens: XIIIe-XVe siècle, in «Clio. Histoire, Femmes et Sociétés», 3 (1996), pp. 13-30. Per un confronto tra testi normativi e fonti notarili, cfr., per la città di Montpellier, C. Beghin, Donneuses d’ouvrages, apprenties et salariées aux XIVe et XVe siècles dans les sociétés urbaines languedociennes, ivi, pp. 31-54. 34. Cfr. gli Statuti delle corporazioni in René de Lespinasse, François Bonnardot, Les Métiers et corporations de la ville de Paris. Recueil, statuts règlements depuis le XIVe siècle jusqu’à la fin du XVIIIe siècle, 3 voll., Paris, Histoire générale de Paris, Imprimerie nationale, 1886-1987. 35. Cfr. D. Roche, La Culture des apparences: une histoire du vêtement, XVIIeXVIIIe siècles, Paris, Fayard, 1989. 36. Cfr. C. Truant, La maîtrise d’une identité? Corporations féminines à Paris aux XVIIe et XVIIIe siècles, in «Clio», 3 (1996), pp. 55-69. 37. Cfr. D. Angers, Le rôle de la famille et la place de la femme dans l’organisation du travail en Allemagne à la fin du Moyen Âge: bilan historiographique, in C. Dolan (a cura di), Travail et travailleurs en Europe au Moyen Âge et au début

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des temps modernes, Papers in Mediaeval Studies, 13, Toronto, Pontifical Institute of Mediaeval Studies, 1991, pp. 63-78. 38. Su Colonia, cfr. M. Wensky, Women’s Guilds in Cologne in the Later Middle Ages, in «The Journal of European Economic History», vol. 11, n. 3 (1982), pp. 631650; M.C. Howell, Women, Production and Patriarchy in Late Medieval Cities, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1986, in particolare pp. 95-158. 39. Cfr. ibidem; si veda anche Eadem, Women, the Family Economy, and the Structures of Market Production in Cities of Northern Europe during the Late Middle Ages, in Hanawalt (a cura di), Women and work, pp. 199-222. 40. Cfr. Howell, Women, Production and Patriarchy. 41. Cfr. Laudani, Mestieri di donne, mestieri di uomini. 42. Per le città italiane in epoca medievale, cfr. D. Bizzarri, Ricerche sul diritto di cittadinanza nella costituzione comunale, in Eadem, Studi di storia del diritto italiano, Torino, 1937, pp. 63-158. 43. Faccio qui riferimento al saggio di M.C. Howell, Citizenship and Gender: Women’s Political Status in Northern Medieval Cities, in M. Erler, M. Kowaleski (a cura di), Women and Power in the Middle Ages, Athens (Ga.) - London, University of Georgia Press, 1988, pp. 37-60. 44. Per delle sintesi recenti sull’evoluzione storica del problema della cittadinanza, cfr. P. Riesenberg, Citizenship in Western tradition. Plato to Rousseau, Chapel Hill-London, The University of North Carolina Press, 1992; P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 1. Dalla civiltà comunale al Settecento, Roma-Bari, Laterza, 1999; Sul tema donne e cittadinanza, nel mondo greco, cfr. N. Loraux, Les enfants d’Athéna. Idées athéniennes sur la citoyenneté et la division des sexes, Paris, François Maspéro, 1981; per l’epoca contemporanea, cfr. G. Bonacchi, A. Groppi (a cura di), Il dilemma della cittadinanza. Diritti e doveri delle donne, Roma-Bari, Laterza, 1993; per una sintesi, M.T. Guerra Medici, Donne, città e cittadinanza, Università di Perugia, 1999. 45. Cfr. Costa, Civitas, pp. 36-48. 46. I diritti economici delle donne in quanto cittadine sono ammessi dai giuristi medievali: cfr. C.C. Wells, Law and citizenship in Early Modern France, BaltimoreLondon, Johns Hopkins University Press, 1995. Per l’analisi di un caso specifico, cfr. S. Clementi, M. Verdorfer, Storie di cittadine, Bolzano-Bozen, dal Medioevo ad oggi, Bolzano-Vienna, Folio, 2000. 47. Cfr. Howell, Citizenship and Gender, in particolare pp. 41 ss. 48. Le fonti veneziane permettono certamente di affrontare l’argomento. Per l’epoca medievale, va segnalata l’importante iniziativa del gruppo di lavoro diretto da Reinhold Mueller che ha schedato tutti i privilegi di cittadinanza del XIV e del XV secolo, “mettendo in rete” i dati, che sono ormai consultabili via internet. 49. Cfr. ASV, Provveditori di Comun, b. 50, f. 14v. 50. Ivi, b. 5, reg. 1, f. 48; b. 6, reg. 1, f. 28. 51. Sui privilegi di cittadinanza veneziana nel Medioevo, cfr. R.C. Mueller, ‘Veneti facti privilegio’: stranieri naturalizzati a Venezia tra XIV e XVI secolo, in D. Calabi, P. Lanaro (a cura di), La città italiana e i luoghi degli stranieri, RomaBari, Laterza, 1998, pp. 41-51; sui problemi di identificazione e definizione dei cittadini veneziani nel Cinquecento, cfr. A. Bellavitis, “Per cittadini metterete…”

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La classificazione della società veneziana cinquecentesca tra norma giuridica e riconoscimento sociale, in «Quaderni Storici», 89 (1995), pp. 359-384. 52. Cfr. ASV, Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 20, c. 169v. 53. Cfr. ivi, reg. 28, c. 4r-5v. 54. Cfr. A. Bellavitis, Identité, mariage, mobilité sociale. Citoyennes et citoyens à Venise au XVI e siècle, Paris-Rome, École Française de Rome, 2001. 55. Howell, Citizenship and Gender, p. 41. 56. Cfr. M. Prak, Cittadini, abitanti e forestieri. Una classificazione della popolazione di Amsterdam nella prima età moderna, in «Quaderni Storici», 89 (1995), pp. 331-357. 57. Cfr. J. Kirshner, Donne maritate altrove. Genere e cittadinanza in Italia, in Annali dell’Istituto Italo-germanico, Trento, 1999, pp. 377-429. 58. Cfr. Idem, Between Nature and Culture: an Opinion of Baldus of Perugia on Venetian Citizenship as Second Nature, in «The Journal of Medieval and Renaissance Studies», 9 (1979), pp. 179-199. 59. È quanto accadeva per es. a Bruges e Leida alla fine del Medioevo, cfr. Howell, Citizenship and Gender, p. 41; ma anche ad Augusta, ad Amsterdam, a Napoli e in talune città inglesi in epoca moderna, si vedano rispettivamente, Roper, The holy household, pp. 32 ss.; Prak, Cittadini, abitanti e forestieri; P. Ventura, Le ambiguità di un privilegio: la cittadinanza napoletana tra Cinque e Seicento, in «Quaderni Storici», 89 (1995), pp. 386-416; J. Barry, I significati della libertà: la libertà urbana nell’Inghilterra del XVII e XVIII secolo, ivi, pp. 487-513. 60. È il caso, per es., di Francoforte in epoca medievale: cfr. Howell, Citizenship and Gender, p. 41. 61. Cfr. ibidem. 62. Per delle ricerche recenti, soprattutto su Francia e Italia, cfr. i saggi raccolti in G. Houbre, A. Groppi (a cura di), Femmes, dots et patrimoines, in «Clio» (numero monografico), 7 (1998); G. Calvi, I. Chabot (a cura di), Le ricchezze delle donne. Diritti patrimoniali e poteri familiari in Italia (XII-XIX sec.), Torino, Rosenberg & Sellier, 1998; A. Arru (a cura di), Gestione dei patrimoni e diritti delle donne, in «Quaderni Storici» (numero monografico), 98 (1998). 63. Cfr. B.A. Hanawalt, La debolezza del lignaggio. Vedove, orfani e corporazioni nella Londra tardo medievale, in «Quaderni Storici», 86 (1994), pp. 463-485. 64. Si veda il caso di Vicenza, dove le donne che sposavano un “forestiero” dovevano pagare una specie di ammenda: una parte della loro dote restava al Consiglio della città; cfr. Statuti di Vicenza, Monumenti storici della Deputazione Veneta di Storia Patria, vol. 1, Venezia, 1886 e, più in generale, Bizzarri, Ricerche. 65. Cfr. D. Owen Hughes, Le mode femminili e il loro controllo, in G. Duby, M. Perrot (a cura di), Storia delle donne, Il Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 166-193; sulla legislazione suntuaria italiana nel Medioevo, cfr. M.G. Muzzarelli, Gli inganni delle apparenze. Disciplina di vesti e ornamenti alla fine del Medioevo, Bologna, Scriptorium, 1996. 66. Su Venezia, in epoca moderna, cfr. Bellavitis, Identité, mariage, mobilité sociale. 67. Sulle donne come “gruppo sociale” in una città di Antico Regime, cfr. N. Zemon Davis, Le culture del popolo. Sapere, rituali e resistenze nella Francia del

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Cinquecento, Torino, Einaudi, 1980; su donne e giovani come categorie a parte negli Statuti urbani, cfr. E. Grendi, Ideologia della carità e società indisciplinata: la costruzione del sistema assistenziale genovese (1470-1670), in G. Politi, M. Rosa, F. Della Peruta (a cura di), Timore e carità. I poveri nell’Italia moderna, Cremona, 1982, pp. 59-75.

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ANNA BRAVO Corpi senza diritti. L’invasione del potere totalitario

Nella sentenza di condanna al processo del 1946-1947 contro i medici nazisti responsabili delle “sperimentazioni scientifiche” su deportati e deportate, compare un testo poi conosciuto come Codice di Norimberga, in cui si fissano i criteri etico-giuridici per qualsiasi tipo di intervento: consenso volontario del soggetto e sua capacità legale di fornirlo, assenza di ogni forma di costrizione o inganno, informazione su natura, fini, metodi, rischi, effetti degli esperimenti. È in primo luogo attraverso il rapporto con il potere medico che il corpo entra come soggetto e parte lesa nel dibattito sul nazismo, la stessa via per cui, a partire da inizio Novecento, ha trovato posto nella discussione scientifica e nella legislazione di molti paesi.1 Di fronte alle immagini e ai racconti dei sopravvissuti, i giudici si sentono chiamati a formalizzare in un documento internazionale quel primato del diritto all’integrità del corpo che si è affermato, in linea teorica, nei decenni precedenti, e che nei Lager è stato, prima ancora che disconosciuto, svuotato di ogni senso. Dei prigionieri, il Terzo Reich ha usato a discrezione, come oggetti di sua esclusiva pertinenza. Il giudizio non vale solo per i Lager, né solo per il nazismo. Con i due totalitarismi, e per certi aspetti con “il totalitarismo imperfetto” fascista, la storia tortuosa e complicata del rapporto fra libertà personale e potere statale si semplifica; è la storia di un dominio che si annette via via l’intera gamma delle prerogative e delle potenzialità umane, fino a dividere gli individui fra degni e indegni di vivere. Di qui il termine “biopolitica”, entrato in uso da tempo.

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Cercherò di descrivere alcuni aspetti di questo dominio, che parte dal controllo della fecondità e dei modelli di genere e arriva all’applicazione di logiche contabili e del sistema delle quote alle popolazioni e ai singoli corpi – una cifra quest’ultima che sembra riemergere come modello e tentazione nelle guerre “etniche” degli ultimi anni. Cercherò anche di mostrare come, in particolari situazioni e in particolari esperienze, si realizzi l’“imprevisto” per cui il corpo oppresso e vulnerabile è nello stesso tempo un terreno di resistenza e una risorsa. Su quest’ultimo punto, devo molto alle deportate per motivi sia politici sia “razziali”. Dai loro racconti e dalle loro analisi si impara a riconoscere la forza che può venire dal corpo, e nello stesso tempo si è messe in guardia dal considerarlo uno spartiacque o una causa della sopravvivenza. Negli ultimi anni stanno moltiplicandosi le visioni consolatorie del Lager come luogo in cui lo spirito o la “poesia” avrebbero sconfitto il male;2 non c’è nessuna ragione, dicono ancora questi racconti, per sostituire alla spiritualità il corpo in una nuova apoteosi del bene. La vita e l’arte: i corpi possibili Dopo aver usato l’umiliazione del corpo come arma contro gli avversari politici, il fascismo si affretta a sancire il rafforzamento del potere statale sui corpi dei cittadini, innanzitutto sulla loro fecondità. L’obiettivo è ritenuto così importante che la costruzione del regime dei corpi e del regime politico procedono in parallelo. Già nel 1926 si vara la tassa sul celibato, che monetizza l’inadempienza al dovere nazionale di procreare. Lo stesso anno, le norme che già proibivano l’informazione contraccettiva non solo sono rese più rigide, ma vengono fatte rientrare nei crimini contro lo Stato, e assimilate alla pornografia con un decreto emesso nel quadro delle leggi di pubblica sicurezza, che proibisce l’esposizione, vendita e produzione di materiale pornografico. Su suggerimento di Mussolini, un intero titolo del codice penale del 1931 è dedicato ai «delitti contro l’integrità e la sanità della stirpe», fra i quali viene inserito in primo luogo l’aborto, che nel codice Zanardelli compariva invece come delitto contro la persona e contro il pudore; si aumentano le pene sia per chi lo procu-

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ra sia per chi lo pratica da sola, nel 1935 si ordina ai medici di denunciare i casi sospetti; viene criminalizzata addirittura l’intenzione non seguita da fatti. Si crea un reato nuovo, l’incitamento all’uso di sistemi contraccettivi o abortivi, che non ha corrispondenti né nella legislazione italiana liberale né in quella di nessun altro paese. Per i giuristi di regime, il nuovo assetto chiude definitivamente con il «diritto individualistico di disporre della propria persona fisica». Vale soprattutto per il corpo femminile. Nel codice di famiglia le donne vengono totalmente subordinate alla potestà maritale. Nel codice Rocco si formalizza il concetto di “delitto d’onore”, che concede enormi sconti di pena a chi uccide il coniuge, ma anche la figlia o la sorella, «nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa all’onore suo o della famiglia».3 Per non essere minacciato nel suo diritto alla vita, il corpo deve essere virtuoso, o averne l’apparenza. Dovrebbe anche, se è di donna, corrispondere allo stereotipo materno/mediterraneo/rurale, che troneggia in doverosa contrapposizione al corpo impuro e seducente della ribelle, dell’amante, della prostituta. Altrettanto elementare e tradizionale l’immagine di regime del corpo maschile, fatta eccezione per il culto spinto della virilità di matrice futurista e la sbandierata fobia dell’omosessualità. Sono per molti aspetti modelli contraddittori, in particolare per quanto riguarda le donne: il corpo flessibile e atletico cui il fascismo offre visibilità nella sfera pubblica degli eventi sportivi e dei raduni di massa, convive con il corpo materno, e non è detto che la trasformazione dell’uno nell’altro lungo il ciclo di vita sia indolore; socialmente è più apprezzata la silhouette delle star americane e delle dive dei telefoni bianchi che l’opulenza della massaia rurale. Sono anche modelli di successo limitato: a dispetto dell’Onmi con i suoi corsi di puericultura e la sua assistenza alle madri, a dispetto della ginnastica e delle esercitazioni premilitari, i giovani maschi rimangono di bassa statura, mentre le ragazze tendono a assomigliare alle loro coetanee di tutta Europa, più esili e meno feconde delle madri.4 Ma in Italia, come in Germania, convivono da decenni modelli e figure diverse, e i regimi non possono permettersi un urto frontale con le aspirazioni di status e il desiderio di modernità delle classi medie – è totalitaria la volontà di controllo, non la sua messa in atto. Resta la semplificazione propagandistica sovrapposta ai corpi concreti, che spinge ver-

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so una polarizzazione delle immagini maschili e femminili in urto con la tendenza d’epoca a una loro minore specializzazione. Resta la trasformazione della libertà di scelta in concessione revocabile. Anche in Urss, le prime leggi postrivoluzionarie sanciscono l’interesse dello Stato alle relazioni fra i sessi e al corpo come terreni decisivi per la costruzione della nuova umanità. Si abroga la vecchia normativa, cancellando la patria potestà e la potestà maritale, equiparando matrimonio e convivenza, istituendo il divorzio per via amministrativa. In positivo, si progettano una serie di strutture statali – consultori per chi vuole abortire, asili nido e di infanzia per incoraggiare chi vuole figli e per promuovere una educazione socializzata e comunista, e cucine, lavanderie, mense collettive. Liberato dal confino casalingo, il corpo femminile deve entrare nella produzione senza per questo sottrarsi alla riproduzione, che in questa prima fase viene presentata in termini nuovi: all’enfasi sulla maternità si accompagnano la condanna del lavoro domestico e una singolare cecità sui valori oggettivi e soggettivi della cura, assimilata a manualità residuale. Per gli ugualitaristi fanatici che sognano un mondo di gemelli semiidentici, le donne dovranno infatti avvicinarsi sempre di più all’uomo sotto il profilo psicologico e fisiologico; per Alexandra Kollontaj, maternità significa allargare il proprio cuore «per abbracciare tutti i figli della grande famiglia del proletariato». L’impostazione “libertaria” e iperparitaria comincia presto a vacillare: troppo temibile il “disordine sessuale”, poche e scadenti le strutture pubbliche, del resto mal accolte dalle donne, troppo gravi le ripercussioni sulla vita dei bambini, troppo forte il calo delle nascite; e troppo poco incisive le campagne per l’abbandono del velo condotte nei territori abitati da popoli musulmani, dove si passerà dalla persuasione alla repressione. Lungo gli anni Venti, modelli e immagini scivolano sempre più verso la polarizzazione di genere. Con lo stalinismo, mentre si teorizza che l’uguaglianza di diritti con l’uomo non esenta dal “grande e nobile dovere di procreare”, la “nuova donna sovietica” torna a essere l’eterna madre dai fianchi spaziosi,5 il vero uomo sovietico si incarna in Aleksej Stakhanov,6 modello politico per la sua vocazione all’autosfruttamento, modello fisico per la forza che gli consente spaventosi exploit lavorativi. Un corpo femminile ruralizzato trionfa negli stessi anni in cui si distruggono i contadini; un corpo maschile circonfuso di gloria produttivista convive

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con il disciplinamento militaresco dei corpi al lavoro. Nel frattempo, nel 1934 si ristabilisce la criminalizzazione dell’omosessualità, fra il 1935 e il 1936 il diritto all’aborto è sostanzialmente soppresso, il divorzio enormemente complicato nelle procedure e nei costi. Una volta identificati maternità e famiglia coniugale, nel 1935 viene ristabilita l’autorità maritale e paterna sulla moglie e sui figli. Con la guerra, la politica demografica ha un’altra stretta: aboliti il matrimonio di fatto e il diritto alla ricerca della paternità, il divorzio è reso praticamente impossibile e tornano in vigore le vecchie discriminazioni contro i figli illegittimi. Mentre si tassano i celibi e le coppie senza figli, si aumentano gli assegni familiari e si istituiscono premi per la prolificità e speciali onorificenze per le madri con più di dieci figli.7 In sintonia con fascismo e nazismo, lo Stato entra nelle stanze da letto per distribuire premi e penalizzazioni. Ma qui finiscono le analogie. Lontanissimo dalla demografia estensiva dell’Urss, il Terzo Reich piega i corpi a un progetto di rimodellamento che dalla società si estende allo stesso patrimonio genetico nazionale. Per i gerarchi nazisti, ossessionati dal problema delle malattie ereditarie, il popolo tedesco non è ancora all’altezza del suo destino di stirpe padrona; bisogna dunque troncare le genealogie sospette. All’indomani stesso della presa del potere, nel giugno del 1933, si vara la prima legge demografica per la sterilizzazione “eugenetica” forzata. Fra le vittime, zingari, ebrei, neri, stranieri, ma soprattutto le “persone inferiori”, vale a dire quelle classificate come deficienti mentali – schizofrenici, epilettici, maniaco-depressivi – e in qualche caso come asociali – vagabondi, ladruncoli, prostitute, mendicanti, accusati di inadempienze sul lavoro. Nel 1935, la legge sull’“igiene matrimoniale” vieta le unioni fra persone sane e “malati ereditari” – manovra demografica preventiva e tappa della strategia per isolare dal resto della società i portatori di “sostanza biologicamente inferiore”.8 Lo scarto rispetto al fascismo, che pure ha fatto da modello a Hitler, è netto; in Italia il razzismo resta latente fino alla guerra d’Etiopia e all’avvicinamento alla Germania, quando si comincia a parlare degli italiani come di una razza pura, a individuare un “tipo italico”, e cresce l’allarme per i matrimoni con gli ebrei e per il “meticciato” delle unioni con donne africane. Ma, per quanto con il codice Rocco la tutela della stirpe sia diventata una funzione di

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diritto pubblico, non si arriva a pratiche di sterilizzazione e a interruzioni di gravidanza: pesa l’orientamento cattolico, ostile, oltre che alla contraccezione e all’aborto, a ogni tipo di intervento statale sul corpo;9 pesano le teorie degli eugenisti italiani, in maggioranza convinti che la “mescolanza delle razze” sia positiva, conta l’assenza di minoranze etniche abbastanza consistenti da prospettare un rimescolamento su larga scala. Nel Terzo Reich si arriva invece nel 1940-1941 all’eccidio di massa con la cosiddetta Operazione Eutanasia, in cui sono assassinati per soffocamento da monossido di carbonio circa 80 mila cittadini e cittadine tedeschi giudicati irrecuperabili per infermità mentale, handicap fisici, malformazioni neonatali, condanne al manicomio criminale. Nella società tedesca, i corpi “inferiori” sono prodotti di scarto da espellere; nei campi della morte, sono massa da eliminare a grandi ondate successive; nei Lager sono forza lavoro, ma anche riserva di materia viva da sottoporre a esperimenti spesso mortali sull’apparato riproduttivo, sui metodi di castrazione, sulle caratteristiche dei gemelli – e sulla resistenza al congelamento, all’altitudine, alla fatica e all’esposizione ai raggi X, sull’inoculazione di tifo e malaria, sugli effetti di nuovi farmaci. La possibilità di disporre illimitatamente di corpi-cavia spinge a pratiche altrimenti impensabili, in cui convivono interessi medici, militari, farmaceutici, e private curiosità e fissazioni.10 È la faccia nascosta, a volte la precondizione, di nuovi metodi di diagnosi e cura da applicare alla popolazione “ariana”. Essere sani è un dovere nazionale. I medici nazisti studiano la nocività dei luoghi di lavoro scoprendo nuovi rischi professionali, primeggiano nell’identificazione dei tumori da radon e da asbestosi, lanciano campagne contro il fumo, inaugurano controlli sofisticati per individuare precocemente il cancro alla pelle, si sforzano di proteggere le donne dai pericoli per la riproduzione, si occupano della genuinità dei cibi.11 In quanto serbatoio eugenetico i corpi di pregio vanno protetti. E vanno incrementati. Si incoraggia la natalità delle classi medie e dei contadini; la persecuzione degli omosessuali diventa una priorità dello Stato, tanto che nel 1937 Himmler arriva a minacciare la pena di morte per i membri delle SS ritenuti tali; si avvia l’Operazione Lebensborn, una rete di cliniche-asili-prigione aperte in Germania per far partorire le “ariane” nubili. La rispetta-

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bilità passa in secondo ordine di fronte all’“eugenetica” e alla “razza”: i corpi di pregio – sani, presumibilmente fertili, con occhi azzurri e capelli biondi – non vanno sprecati. Rientrare o meno nel “tipo nordico” è anche uno spartiacque sociale e politico. Gertrud Scholtz-Klink, mediocre militante di base, ottiene la nomina a Reichsführerin grazie ai suoi maneggi e alla sua vocazione all’obbedienza, ma anche perché ha il valore aggiunto di capelli biondi, occhi azzurri, fisico slanciato.12 È lo stesso criterio che segue Himmler per la prima scrematura fra i candidati a entrare nelle SS. Lo stesso che ispira a Mengele, medico capo di Auschwitz, l’idea di iniettare coloranti negli occhi dei prigionieri per vedere se si trasformano da castani a azzurri. Lo stesso che contribuisce a dilazionare la repressione contro la Danimarca, agli occhi di Hitler fucina del “tipo nordico”. Che i gerarchi nazisti ne siano per lo più lontanissimi è una anomalia cui rimedia l’immaginazione: al loro Führer molti tedeschi attribuiscono occhi azzurri, perché l’unico corpo sacro del Reich non può non esserne dotato. L’appropriazione totalitaria non nasce dal nulla, se è vero che un aspetto della modernità consiste appunto nel crescente controllo sul corpo, la sessualità e la natalità da parte degli stati e delle istituzioni medico-scientifiche. Gli anni Venti e Trenta ereditano le ansie di fine e inizio secolo sulla qualità e quantità della popolazione. Accolgono la pretesa di migliorarla con forme di politica eugenetica positiva e negativa. Proseguono nella tendenza che vede le scienze mediche avviarsi al monopolio diagnostico e terapeutico sul corpo fecondo. Sviluppano in termini più o meno spinti una concezione della complessità e della diversificazione sociale come minacce destabilizzanti cui gli stati hanno il diritto/dovere di porre rimedio. Ad accentuare le inquietudini contribuiscono le trasformazioni di genere: la Donna Nuova nata nel primo Novecento con il suo seguito di antifemminismo e misoginia, ha continuato la sua strada; la crisi del maschile innescata dalla nascente società di massa e esasperata dalla grande guerra, precipita con la crisi del 1929, che attenta al ruolo del maschio capofamiglia e percettore di reddito. Al generalizzato divieto di aborto e alle pressioni per una maggiore fecondità delle classi medie si accompagnano in alcuni paesi a ordinamento democratico leggi per la sterilizzazione di soggetti “degenerati” o “inadatti”, vale a dire classificati come malati di mente

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o criminali. È così negli Stati Uniti, in Svizzera e in Danimarca già a partire dal primo decennio del Novecento. Sulla necessità di una “bonifica” della popolazione convergono, con motivazioni diverse, molti medici e scienziati sociali, uomini e donne, settori della destra e della sinistra. Nel 1934 il parlamento della democratica Svezia governata dai socialisti vota a grandissima maggioranza una legge che prevede la sterilizzazione di “infermi mentali, idioti o affetti da altri disturbi della psiche”. Eppure anche su questo terreno i totalitarismi non sono la verità nascosta delle democrazie. Non solo gli interventi sono incomparabili per modalità e estensione con quelli del Terzo Reich, non solo i criteri eugenetici non diventano mai una categoria politica, ma la maggiore ingerenza dello Stato sul corpo, la fecondità e la vita delle famiglie si accompagna all’ampliamento dei diritti legati alla cittadinanza, al suffragio femminile, spesso al potenziamento dell’informazione sugli anticoncezionali, a una nuova politica sociale verso le donne, che vedono crescere il loro ruolo come fulcro dei consumi e come fruitrici/intermediarie dei nuovi servizi sociali. Il punto è che nel mondo democratico è vivo il patrimonio di pensiero e di azione bandito dai totalitarismi – dalla tradizione giuridico-filosofica sui diritti umani alle conquiste di libertà raggiunte nel corso di secoli, ai dibattiti sul rapporto fra autorità di varia natura e facoltà individuale di disporre del proprio corpo e di vietare le azioni dirette a eliminarla o a menomarla. Appunto sulla preminenza di questa facoltà si fonda il rifiuto opposto alle pratiche eugenetiche in Olanda e Gran Bretagna. Che i principi ammettano eccezioni è vero, e avviene attraverso il grimaldello dell’ordine e della salute pubblica; basta pensare, oltre che alle sperimentazioni mediche su persone ignare o legalmente incapaci, alla vivisezione non solo simbolica del corpo femminile omosessuale, scrutato, classificato, sottoposto a pratiche cruente e mutilanti.13 Ma il riconoscimento politico e teorico dei diritti individuali fa da leva al cambiamento. Nei totalitarismi c’è silenzio, negazione, eufemismi; c’è un’invasione del privato che azzera in linea teorica la distinzione fra le due sfere classica dello Stato liberale e che sprofonda il corpo individuale nel corpo sociale. In una società libera, il privato mantiene una sua autonomia, l’intromissione sui corpi e sul rapporto fra i corpi è oggetto di confronto pubblico, conflitti, procedimenti penali.

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Per quanto forti, i timori per la presenza di relazioni fuori norma non hanno bloccato il loro proliferare; proprio negli anni Venti a Parigi e a Berlino si contano le più vivaci sperimentazioni esistenziali, dalle relazioni libere alle unioni omosessuali al travestitismo, dal vagabondaggio sessuale al cameratismo uomo/donna alle unioni estemporanee: aumentano le vite possibili. L’ansia sulle identità sessuali ha dovuto convivere con il loro rifrangersi in una molteplicità di interpretazioni/visioni del corpo. Anche in Unione Sovietica, durante la parentesi della Nep si incontrano ancora una pluralità di figure sia maschili – artista, bohémien, operaio d’assalto, militante duro e puro – sia femminili, dalla madre contadina col fazzoletto ripiegato sugli occhi alla danzatrice a piedi scalzi libera dai lacci del corpetto, dalla ragazza del Komsomol alla stenodattilografa in camicetta bianca alla musulmana con il velo. A occidente, aumentano gli spazi per contrattare la propria adesione ai modelli. Mentre la moda stimola e asseconda una nuova percezione del corpo femminile, mentre cresce la presenza di donne nella sfera pubblica, nascono figure inedite, spesso riluttanti alla maternità e alla domesticità: la flapper, la garçonne, la maschietta – gonne al ginocchio, niente busto, capelli corti, silhouette efebica o androgina – che già nel nome simboleggiano la tendenza a una nuova mobilità di genere e una visione non naturalista e non dogmatica del corpo; con la grande crisi, si affacciano in America le disoccupate e declassate di ogni ceto che, persa la casa, si trasformano in hobos e girano il paese sui vagoni merci, vivendo alla giornata in una precarietà che rimodella l’immagine fisica e il senso di sé.14 Sotto la spinta ora del benessere ora del disagio, le frontiere fra la corporeità rispettabile e quella eterodossa si fanno più confuse. Aumentano i corpi possibili. Un cambiamento radicale è già avvenuto nella loro rappresentazione. A partire dallo snodo del Novecento, le avanguardie rompono definitivamente con il paradigma realista, e si aprono a tradizioni figurative altre da quelle classiche – così il cubismo, la secessione viennese, il surrealismo, l’espressionismo. Non c’è bisogno di uno sguardo esperto per cogliere l’abisso che separa la nuova arte dalla produzione pittorica o fotografica di regime. Da un lato, corpi in mutazione, dolorosamente o felicemente difformi – penso ai visi scomposti del cubismo, alle figure in volo di Chagall e alla sua donna dal ventre trasparente che svela il feto; penso ai

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corpi di Schiele, angolosi, esausti, troppo o troppo poco connotati per età e sesso eppure erotici, colti nell’immobilità e nell’abbandono, corpi che esistono senza fare, nella letteralità del loro esserci. Dall’altro lato, corpi/manifesto semplificati nei pochi modelli consentiti dal realismo astratto: il lavoratore, il soldato, la madre, l’atleta, la colcosiana, la giovane militante in divisa – e i manifestanti come corpo collettivo essenziale nell’autorappresentazione dei regimi. Corpi per così dire operativi, raffigurati al lavoro, a scuola, in marcia, nello sport, nei riti di massa. Ben connotati per età, classe, geografia di provenienza. Doverosamente sessuati ma casti, tanto che i nudi maschili classicheggianti usati nella prima iconografia nazista per simboleggiare lo splendore della virilità e della razza, vengono riconvertiti in mero prodotto estetico.15 Corpi ricalcati su stereotipi diversi (la romanità per il fascismo, la cultura greca e il mito nordico per il nazismo, il modello proletario per l’Urss), e sempre lontani dai mutevoli corpi concreti. Insieme allo statuto del corpo raffigurato, regredisce lo statuto del corpo raffigurante. Il primato della percezione soggettiva nato sull’onda della reazione antipositivista aveva imposto la legge del corpo fino a abbracciare le sue patologie, dai topoi “maledetti” della follia e del delirio alcolico alle espressioni più ordinarie – il difetto visivo, l’emicrania. Nella produzione cubista si scopre a volte una somiglianza impressionante con le figure spezzate e le saette luminescenti che invadono il campo visivo durante gli accessi di un particolare tipo di emicrania – la stessa che a un certo punto del decorso produce visioni straordinariamente simili ai dipinti puntinisti:16 il modello dell’arte africana e l’obiettivo di scomporre il reale hanno incontrato il sintomo, o viceversa. Nell’universo totalitario non c’è posto per questo materialismo sensoriale e per i suoi corpi imprevisti. Agli occhi del nazismo è “arte degenerata”, per il comunismo sovietico è arte “borghese”. È vero che non tutta la produzione è di regime, e che non tutta la produzione di regime mostra la stessa voluttà conformistica; un adeguamento totale sarebbe impensabile in un mondo ormai fitto di scambi, e su questo terreno i totalitarismi non mancano di contraddizioni interne – in Italia, aperture e compromessi preservano a lungo uno spazio di autonomia. Ma in Germania e in Urss, a respingere le pressioni sono pochi e lo pagheranno a caro prezzo. In

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compenso, fuori dei confini c’è chi, come il surrealista Aragon, si converte all’arte ideologizzata e contribuisce a stroncare le loro voci. Le quote Sebbene fra le due guerre l’intervento statale nell’economia e nella società sia la norma, Urss e Terzo Reich fanno storia a sé per il progetto di metamorfosi radicale che coltivano e per l’intreccio fra scientismo, mania di grandezza e ossessione contabile con cui lo perseguono. Censire, misurare, controllare, adeguare agli standard, diventano pratiche-base del sistema di comando; separati dalla politica e consegnati all’ideologia, i corpi sono ridotti a materia da riplasmare e da colpire nelle sue componenti temute o riottose, da spostare in massa nelle deportazioni o da vincolare al luogo d’origine. Il mondo nuovo dei totalitarismi ha il volto dello Stato ragioniere e ingegnere, che non riconosce più alcun vincolo alla propria volontà. Nell’Urss di Stalin, dove i piani quinquennali sono gabbie ferree e dettagliate fino all’ultima unità lavorativa, le quote produttive governano l’intero mondo del lavoro. In fabbrica, non raggiungerle porta a detrazioni di salario, denunce, arresti. Nelle campagne, la parte di raccolto da consegnare allo Stato è decisa senza tenere alcun conto delle situazioni concrete – e elevare le quote non è solo una misura economica, è la tappa iniziale della guerra ai contadini. La convergenza degli obiettivi economici e della repressione si coglie allo stato puro nel Gulag; in molti campi vige il sistema della “scala del pane” e della “scala del cibo caldo”, per cui si riceve da mangiare in rapporto a quanto si rende: meno produzione, più fame – e divieto di ricevere pacchi dall’esterno, così che il solo modo di procurarsi cibo sia l’autosfruttamento. È una spirale: per lavorare di più bisognerebbe mangiare di più, per mangiare di più bisognerebbe lavorare di più – e lavoro significa negli anni Trenta costruire strade, ferrovie, centrali elettriche, i canali fra il Mar Bianco e il Baltico e fra la Moscova e il Volga, disboscare foreste, estrarre carbone e nichel, all’estremo nord di Kolyma passare 16 ore al giorno con carriola e piccone a scavare le vene d’oro. C’è chi si sottopone a sforzi sovrumani pur di avere la razione di pane, e ne muore; gran parte dei prigionieri cerca di sopravvivere lavorando meno, avendo sperimentato che il conteg-

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gio delle calorie ingerite e consumate finisce comunque in negativo;17 nessuno può impedire che il proprio corpo diventi teatro di una guerra tra fame e fatica, tra dolore dei visceri e dolore delle membra. Anche nei Lager nazisti possono esistere quote produttive da osservare, pena gravi punizioni per i Kapo. È così alla cava di pietra di Buchenwald e in alcuni settori di Ravensbrück. Imprigionata prima da Stalin poi da Hitler, Margarete Buber-Neumann ricorda che in Siberia si cercava di costringere le deportate a raggiungere la norma con la minaccia di ridurre le razioni di pane, a Ravensbrück si usavano le percosse, le consegne punitive e gli annunci di sanzioni future.18 Nell’insieme, nei campi nazisti le quote produttive sono un fatto sporadico e deciso a livello locale, senza particolari calcoli di percentuali: la regola è far lavorare fino al totale esaurimento. In tutti e due gli universi concentrazionari19 è previsto un computo minuzioso dei vivi e dei morti, degli uomini e delle donne, delle diverse etnie, che nel Gulag si alterna a un caos spesso salvifico per i prigionieri e nel sistema nazista si vale della tecnologia d’avanguardia delle schede perforate. Ma le quote si estendono anche alla popolazione, a conferma che per i totalitarismi l’individualità è non solo intollerabile, ma inconcepibile, che i corpi, luogo della singolarità di ciascuno, sono ridotti a pedine intercambiabili e in prospettiva tutte ugualmente superflue.20 Con lo stalinismo, diventano bersaglio enormi aree sociali, politiche e geografiche, dove le dinamiche di ristrutturazione sociale e di repressione si fondono. In alcune province, se ne è avuto un esperimento nel 1920 durante la “decosacchizzazione”: a Pjatigorsk, per esempio, gli uomini della Ceka stabiliscono quote di persone da eliminare per la città e per ogni borgo dei dintorni, e ordinano alle organizzazioni di partito di stilare le liste dei condannati. Principio della responsabilità collettiva e predeterminazione del numero degli incolpati prefigurano i metodi della dekulakizzazione e delle campagne contro i “nemici del popolo”. Dalla fine degli anni Venti, ogni regione deve arrestare deportare o fucilare una certa percentuale – a volte proposta localmente, per lo più fissata in anticipo dal potere centrale – di kulak e di persone delle “classi estranee o nemiche”. Non conta ciò che il singolo ha fatto, conta la sua appartenenza a un dato gruppo, e contano l’obbligo degli esecutori di arrivare alle cifre prefissate e spesso

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l’impegno a oltrepassarle per paura o come attestazione di zelo. Nel 1930, quando la Gpu applica la direttiva n. 44/21 di Jagoda per la “liquidazione” di 60.000 kulak di prima categoria, in pochi giorni l’obbiettivo è raggiunto e superato. Soltanto una parte delle persone “tolte di mezzo” sono kulak; gli agenti locali della Gpu hanno approfittato dell’occasione per chiudere la partita con gli “elementi estranei alla società” – artigiani, membri dell’intellighenzia rurale, ex commercianti, religiosi e religiose, ufficiali bianchi e “altri”. Alla precisione delle quote corrisponde in questo caso una tale confusione operativa da costringere lo stesso Jagoda a ribadire che la priorità va assegnata ai kulak; degli altri ci si sbarazzerà in seguito.21 L’8 maggio 1933, lo stesso Comitato Centrale del partito comunista riconosce in una circolare confidenziale la necessità di regolamentare gli arresti «da chiunque effettuati». Ma nella primavera-estate dello stesso anno, quando si fissano contingenti di persone da impiegare nelle regioni spopolate e devastate dalla grande carestia, si ricorre ampiamente alle retate, pratica estensiva che esemplifica al peggio il criterio per cui un corpo vale l’altro. È la stessa logica che presiede alle razzie e alle rappresaglie naziste nell’Europa occupata, ma anche, capovolta da estensiva a selettiva, alle decimazioni di soldati durante la grande guerra. Nel 1937, nel pieno del Grande Terrore, Stalin assegna a ciascuna regione nuove quote di “criminali” – a loro volta suddivise nelle percentuali da fucilare, esiliare o deportare – e dichiara che le loro famiglie possono essere arrestate “in eccedenza”. Seguiranno altri aumenti o “aggiunte” dell’ordine di decine di migliaia. Dal 1937, sia nelle campagne sia nelle città ci si può trovare nella lista dei proscritti semplicemente per far tornare i conti: così in Turkmenistan la polizia politica, faticando a completare le quote dei “sabotatori”, approfitta di un incendio in una fabbrica per arrestare tutti quelli che si trovano sul posto. Contabilità e caos anche nelle deportazioni “etniche” di questi anni, decise per liquidare, una nazionalità dopo l’altra, i gruppi sospetti di spionaggio o separatismo, e nelle deportazioni del tempo di guerra, che puntano a “correggere” la fisionomia delle zone multietniche, per renderle più sicure russificandole. Dati statistici e sociologici e fobie di Stalin concorrono nel programmare la consistenza di ciascuna componente della popolazione e la sua sopravvivenza o meno.22

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L’ironia è che in Unione Sovietica il primo esperimento di quote ha un fine progressivo: all’indomani della rivoluzione, per promuovere la presenza femminile in politica e nel lavoro si stabiliscono percentuali obbligatorie di donne nelle assunzioni e nei soviet, e per evitare che restino sulla carta si assegna alla Sezione femminile del Comitato Centrale il compito di verificarle. Dieci anni dopo, i vertici decidono improvvisamente che la cosiddetta questione femminile è superata, le quote decadono, la Sezione femminile viene sciolta. Se le quote di Stalin guardano al dissenso e alla fisionomia sociale, nella contabilità di Hitler il primato dei criteri “eugenetici” e “razziali” divide e riassembla i corpi a partire dal loro statuto demografico positivo o negativo. Stimata al 20% (11 milioni di cittadini/e), la parte “scadente” della popolazione, si calcola che per ottenere risultati soddisfacenti una quota di un milione e mezzo di questi non deve riprodursi; ai restanti non si concederà alcun sussidio o assegno per la natalità. Lungo il decennio sono 400.000 le persone sterilizzate, 30.000 le donne costrette a abortire, e qualcuna inizierà deliberatamente la sua ultima gravidanza, temuta e definita “di protesta” dalle autorità naziste. Dopo che nel 1930 il futuro ministro dell’agricoltura Darré ha suddiviso le donne in quattro categorie a seconda del loro “valore”, si stabilisce che la percentuale di tedeschi sani va incrementata del 30%, e i demografi di regime auspicano una quota di almeno quattro figli per le madri “pregiate”23 – inutilmente, visto che la categoria diminuisce dal 25% del 1933 al 21% del 1939. Poco fruttuosi anche gli inviti rivolti alle SS perché si sposino e procreino e il decreto emanato da Himmler nell’ottobre 1939, che li sollecita a concepire un figlio come proprio sostituto prima di partire per il fronte. Con la guerra, diventa operativo il progetto di germanizzare i cittadini “idonei” dei territori invasi, per depauperare quei popoli, compensare le perdite e infoltire i ranghi dell’umanità “pregiata”. Fra i “lavoratori stranieri” dell’est occupati nel Reich, quelli che stringono relazioni con donne tedesche possono essere uccisi se non hanno un aspetto germanico, possono essere naturalizzati se lo hanno; qui capelli biondi e occhi azzurri non pesano sullo status sociale o la carriera politica, decidono sulla vita e sulla morte. Con l’estensione all’Europa occupata dell’Operazione Lebensborn, il Reich millenario assume il volto del ladro di bambini rastrellando strade, scuole,

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orfanatrofi, gli stessi Lager, in cerca di piccoli germanizzabili, che vengono affidati a coppie tedesche o all’organizzazione stessa. Nel giugno 1944 un documento segreto del ministero dei territori occupati all’est lancia in Ucraina la Heuaktion, (“Operazione Fieno”) con la quale il gruppo delle armate del Centro intende catturare da 40.000 a 50.000 ragazzi fra i 10 e i 14 anni per trasferirli nel Reich e assegnarli come apprendisti a imprese tedesche. L’iniziativa, che – si legge – sarebbe bene accolta dagli industriali, «mira non soltanto a prevenire un diretto rinvigorimento delle forze del nemico, ma anche a ridurne le potenzialità biologiche». Per alcuni autori, l’Heuaktion sarebbe essenzialmente un reclutamento forzato di lavoratori, in cui l’obbiettivo della germanizzazione è secondario e non esiste rapporto con il Progetto Lebensborn.24 Spesso è effettivamente difficile individuare i confini tra logica demografica, repressione e ricerca di forza lavoro schiava, tanto più che la documentazione può riflettere le diverse posizioni interne al partito e allo stato sulla priorità da assegnare all’uno o all’altro aspetto. E tuttavia non si può dimenticare che i gerarchi nazisti sono ipnotizzati dai resoconti sulle curve di natalità e sul potenziale biologico dei popoli slavi: decapitare i gruppi etnici “inferiori” sia culturalmente, come avviene in Polonia, sia geneticamente, fa parte dei piani, e solo la sconfitta impedisce di realizzarli su vasta scala. Nei Lager in territorio tedesco e austriaco, e in parte anche ad Auschwitz, lo sfruttamento economico diventa prioritario a partire dal 1942, quando le avvisaglie di un’inversione di tendenza sul piano militare spingono i vertici nazisti a destinare alla produzione tutti i prigionieri, compresi gli ebrei giudicati utili, secondo il principio dell’annientamento attraverso il lavoro. Inizia così in tutta Europa la caccia agli schiavi di Hitler, condannati a lavorare 16 ore al giorno per sette giorni la settimana nelle fabbriche di armi e munizioni, nelle campagne, a riparare ferrovie e strade, rimuovere macerie, disinnescare bombe. Sono membri della resistenza, ebrei occidentali, renitenti alle leve dei governi collaborazionisti, operai e operaie che hanno scioperato, ma di cui si vogliono anche sfruttare le competenze, persone incappate nei rastrellamenti e trattenute a caso, o perché si segnalano per l’età giovane e l’aspetto vigoroso. O perché bisogna completare le quote di manodopera richieste per la produzione di guerra. Nel febbraio 1942 il governo tedesco sollecita

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per via diplomatica a quello slovacco l’invio di 20.000 lavoratori ebrei «giovani e robusti»;25 a più riprese, la Gestapo fissa quote di decine di migliaia di persone «abili al lavoro». Arrivate all’esaurimento, saranno sostituite da altri Stücke, altri pezzi della catena di montaggio umana. Nella persecuzione contro gli ebrei, il sistema delle quote e delle eccezioni ha varie applicazioni – dal 1933 i bambini sono ammessi a scuola solo nella percentuale dell’1,5% degli allievi, dalla cacciata dei funzionari pubblici nel 1933 sono esclusi gli ex combattenti, si fissano quantità e qualità dei beni consentiti e di quelli proibiti. Ma preventivamente bisogna arrivare alla definizione dell’ebraicità. Anche se Göring si compiaceva di dire «Chi è ebreo lo decido io», le discussioni sono lunghe e accese, soprattutto fra il 1941 e il 1942, quando inizia la deportazione totale degli ebrei tedeschi. Se nello stereotipo dell’ebreo spariscono tutte le differenze individuali, nella realtà distinguere gli ebrei dagli altri cittadini non è facile. Per accertare il tasso individuale di ebraismo si ricorre a “perizie scientifiche”, in cui medici e antropologi misurano i corpi registrando l’angolo e la forma dei crani, la posizione delle orecchie, la forma della bocca, i capelli, la statura, valutando i comportamenti e l’espressione degli occhi. Eccone un esempio stilato a Parigi: «Sangue AB. Piedi leggermente arcuati. Setto nasale un po’ abbassato all’estremità. Labbra spesse e prominenti. Mimica non tipicamente giudaica. Circoncisione: guaina mucosa molto corta, ma frenulo intatto. Presenta dunque piuttosto il carattere dell’operazione musulmana che non quella del rito ebraico. Giudizio: ebreo per più del’80%».26 Si è mandati a morire per la forma dei piedi, per la curvatura del naso, per un modo di gesticolare. Il vaglio esterno non esclude, quando sia possibile, quello per così dire interno: è la pratica delle quote che entra nei corpi uno per uno, alla ricerca della percentuale genealogica di ebraismo. Si è collocati o meno fra i “sottouomini” attraverso una contabilità del sangue che assomiglia a quella prevista, anche se non sempre attuata, per l’ingresso fra i “superuomini” SS. Chi si candida a membro dell’élite nazista deve esibire un certificato sanitario relativo a tutti i membri della famiglia, per attestare che non compaiono «qualche infermità o qualche vizio», deve risalire nell’albero genealogico fino al 1850 nel 1929, fino al 1750 nel 1930, per arrivare in tre anni alla

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data ottimale del 1650; in caso di matrimonio, a partire dal 1931 deve ottenere da Himmler un certificato che dimostri l’appartenenza degli sposi alla «pura razza nordica». Al polo opposto della gerarchia razziale, gli ebrei per intero, condannati senza appello. Poi i «mezzi ebrei», dotati di una metà di sangue tedesco che per alcuni esponenti ministeriali sarebbe un peccato sprecare; si decide, in linea di principio, di esentarli dalla deportazione se chiedono «spontaneamente» di essere sterilizzati. Infine i «quarti di ebrei», ritenuti assimilabili ai tedeschi, purché non rispondano al «tipo ebreo» e non mostrino sentimenti e comportamenti «tipicamente ebraici», caso in cui sono classificati come integralmente ebrei.27 Indagini genealogiche anche in Italia, dove il censimento degli ebrei del 1938 è realizzato con un puntiglio che smentisce gli stereotipi nazionali sul lassismo e la tolleranza dell’amministrazione statale. Il dottor E. S., esperto della Magistratura del lavoro per il ramo passamaneria, chiede a fine 1938 la dichiarazione di non appartenenza alla razza ebraica, senza dare indicazioni sulla religione della madre. Ma il prefetto della sua città, Novara, è un impiegato zelante, che non si arrende alla mancanza di documentazione e arriva a far controllare le lapidi dei cimiteri; può così comunicare che «la salma della madre è tumulata nel reparto israelitico del cimitero di Milano, itinerario parete II b, cella 303; il padre è stato cremato a Milano il 20 marzo 1919, e le sue ceneri sono raccolte nella celletta cineraria 18, parete I, senza alcun segno di rito religioso», mentre «il suo essere ritenuto comunemente di religione cattolica non costituisce prova sufficiente per dedurne che abbia ricevuto il battesimo». Ad E. S. viene negata la dichiarazione.28 Con un altro funzionario avrebbe forse potuto salvarsi. Ma la parola d’ordine del Reich è «quanti più possibile, quanto prima e dovunque possibile», i termini ricorrenti sono «in massa, definitivo, completo, totale». In Germania e nell’Europa occupata, sono tutte e tutti gli ebrei a essere schedati per sesso, età, censo, posizione sociale e professionale, a vedersi vietare matrimoni e relazioni sessuali con «ariani», a non poter usare mezzi pubblici, frequentare cinema, teatri, circhi, biblioteche, giardini, comprare certi prodotti, esercitare certe professioni e mestieri, a dover portare la stella gialla, a subire il progressivo isolamento dal resto della popolazione. Sono tutti e tutte a essere ricompresi nel progetto di

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sterilizzazione di massa caldeggiato da Himmler nel 1941,29 a essere destinati alla cosiddetta «soluzione finale». Ancora qualche tempo, e Hitler realizzerebbe il sogno dei nazionalismi di mettere ciascuno al suo posto: uomini al lavoro o in guerra, donne espulse dalla politica ma integrate nello stato, avversari e “devianti” in carcere. E lo completerebbe: gli ebrei in nessun posto. Il corpo risorsa C’è una presenza creativa del corpo che attraversa la guerra misurandosi con la pressione totalitaria. Ne ha dato conto soprattutto, e soprattutto per il nazismo, la storia delle donne, raccontando i molti modi in cui il corpo femminile viene giocato nel faccia a faccia con il nemico, le molte maschere sociali che può assumere per sfuggirgli, manipolarlo, mitigarne l’aggressività;30 in molti racconti di donne, il tedesco “buono” è un tedesco rabbonito. Anche del corpo maschile si può fare in quegli anni un uso non guerresco: passeggiare in abbigliamento e atteggiamento da dandy sotto lo sguardo dei nazisti, come fanno gruppi di giovani nella Parigi del 1941-1942, è un atto di irrisione e di sfida aperta; sfilare indossando i colori nazionali, come avviene in occasione di feste e anniversari in quasi tutta Europa, è un segnale di spirito antinazista e una testimonianza di identità collettiva. Libero dalla protesi rappresentata dall’arma e trasformato spesso in arma psicologica, nelle azioni di resistenza civile31 il corpo sta in primo piano, a volte nel suo moltiplicarsi in massa d’urto, in molti casi come figura individuale. Per averne notizia, più che a una storiografia lungamente cieca, bisogna rivolgersi alla memorialistica. Ma nessun filone narrativo ha probabilmente dato tanto spazio al corpo come il racconto, orale o scritto, della prigionia nei campi nazisti e sovietici. Persone, in particolare uomini, che non avrebbero mai indugiato sulla fisicità, descrivono il corpo divorato dalla fame, battuto, torturato, irriconoscibile. La crescente legittimazione nel dopoguerra della parola sul corpo passa anche attraverso questa sua centralità nella letteratura del Lager. «Nella vita», scrive Amery, «ci sono situazioni in cui il nostro corpo è tutto il nostro io e tutto il nostro destino. Ero il mio corpo e null’altro: nella fame, nel colpo che

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subii, nel colpo che diedi. Il mio corpo sfinito e incrostato di sporcizia, rappresentava la mia miseria. Il mio corpo, nel momento in cui si tendeva per sferrare il colpo, era la mia dignità fisica e metafisica».32 Ne nasce inevitabilmente un conflitto. Gran parte dei primi testimoni/interpreti dei Lager sono, come Amery, intellettuali o dirigenti politici di classe media, abituati a vedere nell’intelletto e nello spirito il terreno elettivo della libertà e della resistenza alla coazione, e altrettanto propensi a guardare al corpo, ai corpi, come a una materia opaca, luogo della vulnerabilità o della forza bruta. Corpi governati dallo stomaco, che masticano a vuoto nel sonno. Corpi che governano la mente, costringendo i prigionieri a un fantasticare continuo intorno a pranzi, cene, tavolate di cibo, riducendoli a implorare per un mestolo di zuppa in più o a rubare ai compagni. Corpi affastellati senza uno spiraglio di privatezza, testa/piedi sui tavolacci, gomito a gomito nelle latrine. Del corpo si diffida, e con ragione: è sulla sua riduzione alla condizione animale, alla dipendenza infantile, a materiale, a cosa, che fa leva il sistema concentrazionario per ottenere un controllo totale dei comportamenti e per scoraggiare nella popolazione eventuali impulsi di solidarietà verso i prigionieri. Ma si diffida anche perché il corpo massificato del Lager è l’antitesi del modello di protagonismo individuale e di controllo intellettuale tipico delle classi medie colte; e perché il corpo della tradizione occidentale è per definizione una finitezza che deve superarsi in una dimensione trascendente. Succede allora che il corpo sia vissuto e narrato in termini di lotta per non cedere ai suoi imperativi, che la vicinanza fisica sia ricordata come l’incubo di veder svanire la propria identità in una massa indifferenziata; che dei dialoghi e fantasie sul cibo si parli spesso con fastidio, arrivando addirittura a liquidarli come “masturbazione dello stomaco”. Eppure quei discorsi non sono necessariamente un automatismo ossessivo, possono essere un veicolo di comunicazione fra gruppi diversi, uno strumento che aiuta a prefigurare il futuro: il cibo di cui si parla è quello di casa, la tavola imbandita è lo scenario del ritorno, e il legame simbolico fra pane e libertà vive da secoli nella cultura popolare. Ma pochi di quei grandi testimoni sembrano in grado di mettere in gioco le proprie categorie per cercare i significati che un comportamento può avere per persone diverse da loro.

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Nei racconti di altri protagonisti, soprattutto quei giovani di classe popolare che parleranno o scriveranno nei decenni successivi, il corpo ha uno statuto meno univocamente negativo. Compare nella sua ambivalenza, ora forza ora debolezza, e il punto della resistenza o del cedimento può appartenere sia alla fisicità sia allo spirito. Forse per questo, lasciarsi andare al corpo, alle sue risorse e sensazioni, non fa esplodere grandi ansie e conflitti. Anzi, la vicinanza fisica è vista spesso come un terreno di solidarietà e di fusione, in qualche caso come il solo modo per salvarsi; molti ricordano una pratica ereditata dai soldati della grande guerra, la “stufetta”, che soccorre quando le disinfestazioni costringono i prigionieri a restare nudi al freddo per ore: allora ci si stringe in una massa mobile, alcuni al centro riparati dai corpi degli altri, gli altri che si muovono ininterrottamente in cerchio così da produrre calore con l’attrito – finché le parti si invertono per dare a tutti un po’ di tepore. Viene spontaneo risalire non solo a abitudini di vita diverse, ma a una soggettività meno disincarnata e meno astratta dalle relazioni, quale si incontrava più facilmente nelle classi popolari e fra le donne;33 viene spontaneo pensare a quel rapporto più confidente con il proprio corpo che è diffuso fra i giovanissimi, fra quanti hanno fatto sport, fra quanti hanno lavorato con le mani. Angelo Andreo, torinese di famiglia operaia, giornalaio, deportato a Dachau, ricorda: «Dicevo: ‘Io correvo, giocavo al pallone, correvo in bicicletta, facevo di tutti gli sport… e non sono più capace di stare in piedi!’. Mi attaccavo alle baracche, facevo due passi, e poi, puff, per terra. Se non fosse stata la mia buona stella, e per il gran sport che ho fatto, che il corpo era […] grezzo!».34 Lo sgomento e l’umiliazione che assalgono quando ci si accorge di essere fisicamente allo stremo, non nascono tanto dal timore che lo sfinimento travolga i principi morali; è piuttosto la consapevolezza che il corpo ha smesso di essere un amico, che gioventù e vigore non salvano dal trasformarsi in morti viventi. Il corpo femminile ha uno statuto ancora più complesso. Ad Auschwitz una gravidanza palese destina al gruppo che verrà immediatamente mandato a morire; corpi abituati dal costume di allora a un pudore rigoroso sono esposti a sguardi di aguzzini, e a volte è il corpo della propria madre. In ogni momento si può essere selezionate come cavie per gli interventi sugli organi della fecondità. Capelli rasati, magrezza, viso scavato o gonfio, pelle prosciugata, scompar-

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sa delle mestruazioni, stravolgono l’immagine fisica spogliandola degli elementi visibili e invisibili della femminilità; ma non eliminano il terrore di essere molestate e violate. È un terreno delicatissimo. Se il sospetto dello stupro colpisce ogni forma di prigionia femminile, la deportazione delle donne nei campi nazisti ha innescato nell’immaginario occidentale un tale repertorio di fantasie sadomasochiste che il racconto è rimasto a lungo un tabù. Sebbene il contatto con le donne ebree fosse punito come “peccato di razza”, sebbene lo sfruttamento fosse piuttosto praticato istituzionalmente nei bordelli istituiti in alcuni campi, c’è notizia di casi isolati di stupro, e soprattutto di una pratica diffusa di umiliazione dei corpi femminili. Rare testimonianze su queste e altre violenze mostrano quanto fosse forte la consapevolezza della propria vulnerabilità. Eppure il corpo è allo stesso tempo una risorsa di cui avere cura. Sforzarsi di mantenere un minimo di dignità esteriore – tutti i prigionieri lo sanno – aiuta a non perdersi, e può guadagnare un trattamento meno crudele. Un’apparenza giovane e sana può contribuire alla salvezza; nel ghetto di Varsavia, alla vigilia delle grandi deportazioni molti operai anziani si tingevano di nero i capelli nella speranza di rientrare fra i lavoratori trattenuti in città.35 Ma per le donne la cura di sé ha una qualità specifica, perché conservare un barlume di femminilità è la prima condizione per tenere vivo un legame sia pure labile con quel che si è state e si spera di tornare a essere. Un prigioniero sa di avere/essere un corpo, una prigioniera sa di avere/essere un corpo di donna. Nel campo di lavoro coatto di Skarzysko, le deportate introducono di nascosto aghi e filo, ferri da calza, forbici, specchi, vestiti, si fanno cinture e colletti intrecciando i fili degli stracci, creano un mercato di “cosmetici” mischiando gesso e olio da macchina in una sorta di crema-rossetto: forse il “trucco” servirà a dare l’apparenza di salute necessaria per superare la selezione, certo serve a contrastare la perdita del senso di sé.36 A Ravensbrück, alcune “organizzano” bigodini con il filo di ferro per farsi una rudimentale messa in piega.37 Persino ad Auschwitz, c’è chi si ingegna dal primo giorno a adattare alle proprie misure gli indumenti assegnati a casaccio, usando aghi fatti con schegge di legno e fili ricavati dalle coperte, chi strappa pezzi di stoffa dagli abiti lunghi per accomodarseli in testa e apparire più aggraziata, chi rinuncia a mangiare un briciolo di margarina per ammorbidire la pelle e le labbra bruciate dal freddo38 – in

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Lager quel che sembra frivolo può essere eroico, quel che sembra incongruo può essere lungimirante. Sembra incongruo che si ceda la razione giornaliera di pane in cambio di un foulard stracciato, ma, scrive Lucia Schmidt-Fels, «Noi donne siamo strane creature: basta una piccolezza a salvarci dalla follia. Persino dall’inferno. Sì, persino dall’inferno».39 Sembra incongruo che una prigioniera ad Auschwitz abbia il coraggio di rivolgersi a una guardia del deposito di merci “Canada” per chiedere in dono un rossetto; ma per Margareta GlasLarsson, viennese, ebrea, famiglia di commercianti, quel rossetto non è una frivolezza né una piccolezza; è – come spiega 35 anni dopo – un simbolo della libertà. E lo sono i suoi capelli biondi: mentre si trova in prigione in attesa del trasferimento a Theresienstadt e poi ad Auschwitz, si azzarda a rubare un po’ alla volta abbastanza ossido di idrogeno per schiarirli. Anche se avesse saputo di dover andare a morire – dirà – si sarebbe truccata ugualmente.40 Sa farlo, perché durante l’occupazione ha seguito clandestinamente un corso di cosmetica, sa quanto conta anche per le altre donne; cerca di curare le compagne, fa maschere di bellezza e massaggi alle prominenti del campo, trova il coraggio di farsi avanti con una guardiana dicendole che le gioverebbe un trattamento estetico. Ottiene una certa considerazione e qualche privilegio, ne fa sistematicamente partecipi le altre. Per Bruno Bettelheim,41 si poteva sopportare a lungo l’esperienza del Lager solo preservando in una certa misura l’autostima grazie a un’attitudine rigorosa di fronte ai guardiani e alla solidarietà verso i compagni; si poteva propiziare la sopravvivenza mantenendo la chiarezza di analisi e la speranza nella rivincita e in un mondo migliore, saperi e valori etici da esprimere in comportamenti esemplari. Fatta eccezione per la solidarietà, l’autostima di Margareta GlasLarsson poggia su risorse ben diverse: tutti i suoi saperi sono legati al corpo e hanno a che fare con il mantenimento della forma fisica e con la salute, o con la sua simulazione. Dignità è conservarsi donna in un mondo che nega la sua femminilità, è restare gradevole a dispetto della devastazione sistematica dei corpi. Tra i fattori utili alla sua sopravvivenza, spiccano il “mestiere sociale” tipico delle donne di classe media, e la capacità di decodificare le situazioni e di cogliere ogni occasione favorevole: in tutti e due i casi, occorre una pron-

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tezza sensoriale impensabile senza un minimo di energia fisica. Si torna così alla crucialità del corpo e dei saperi del e sul corpo. Anche per Amery «la questione dell’efficacia dello spirito non può essere posta quando il soggetto, alle soglie della morte per inedia e sfinimento, è non solo despiritualizzato, ma letteralmente disumanizzato». È una posizione inconsueta. Sebbene tutti i grandi testimoni del Lager e del Gulag riconoscano la precarietà della ragione e dello spirito, moltissimi descrivono l’effetto rigenerante che poteva nascere da una reminiscenza letteraria e artistica, dal riaffiorare improvviso di una formula matematica o di una sequenza analitica – basta pensare al Canto di Ulisse per Primo Levi, alle “notti ateniesi” a Kolyma di cui, pur nel suo aspro disincanto, parla Salamov. Amery dichiara invece la disfatta dello spirito. Un giorno, ricorda, si trova a ripetere ad alta voce alcuni versi di Hölderlin, «e non accadde nulla. La poesia non trascendeva più la realtà»; scopre nelle memorie di un deportato olandese, significativamente intitolate Goethe in Dachau, dichiarazioni programmatiche come «Leggere ancora di più, studiare ancora di più […] la letteratura classica come surrogato ai pacchi della Croce Rossa», e spiega che avrebbe respinto quelle parole più con disperazione che con sarcasmo. Creando uno sconcerto doloroso fra i compagni e amici, nella sua opera più nota rifiuta ogni spiritualizzazione e ogni finalizzazione della prigionia: dal Lager gli intellettuali non sono usciti più benevoli, né più profondi o saggi; semplicemente più accorti, consapevoli «che lo spirito è in gran parte effettivamente un ludus», «spogliati di parecchia boria metafisica», ma anche «di gran parte della loro ingenua gioia spirituale». È straordinario che questo pensatore raffinato, questo grande protagonista del dibattito sul Lager e sull’ebraismo, definisca ingenua quella gioia, apparentandola all’illusione e alla credenza; che scelga di spalancare il racconto al primato di una corporeità che ha patito e temuto. Per questo è lacerante registrare la divaricazione fra la sua esperienza del corpo affamato e quella di Margareta GlasLarsson. Amery ricorda l’euforia spirituale, la commozione, il desiderio di spiritualità che lo assalgono nel momento in cui divora un piatto di semolino dolce ricevuto in dono da un guardiano; ma ai suoi occhi è un’esaltazione ingannevole, un vero e proprio stato di ebbrezza che lascia dietro di sé «un desolante sentimento di vuoto e di vergogna».42 Margareta racconta che quando ricevevano la

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razione di pane, le sue compagne lo conservavano per sbocconcellarlo a poco a poco, ma lei preferiva mangiarlo tutto immediatamente: voleva provare, anche solo per qualche istante, «il sentimento di non avere fame» – una piccolissima scorta di benessere che la aiutava a sopravvivere.

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Note 1. Cfr. A. Santosuosso, Corpo e libertà. Una storia fra diritto e scienza, Milano, Raffaello Cortina, 2001. 2. È un aspetto dell’“americanizzazione” della Shoah, di cui parla A. Wieviorka, L’era del testimone, Milano, Raffaello Cortina, 1999. 3. Per una analisi della legislazione cfr. V. de Grazia, Le donne nel regime fascista, Venezia, Marsilio, 1993, capp. II e III. 4. Sulle contraddizioni delle politiche di regime e su alcune reazioni femminili, cfr. de Grazia, Le donne nel regime fascista, capp. III e IV. 5. Cfr. l’analisi di F. Navailh, Il modello sovietico, in F. Thébaud (a cura di), Storia delle donne in Occidente. Il Novecento, Roma-Bari, Laterza,1992. 6. Sulla società staliniana, cfr. fra gli altri M. Ferretti, La memoria mutilata. La Russia ricorda, Milano, Corbaccio, 1993. 7. Cfr. Navailh, Il modello sovietico. 8. Vedi l’analisi dell’antinatalismo nazista in G. Bock, Il nazionalsocialismo, in Duby, Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente. Il Novecento. 9. Sulle contraddizioni della Chiesa cattolica a proposito dell’ingerenza sul corpo, cfr. Santosuosso, Corpo e libertà. 10. Sulle sperimentazioni, cfr. R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Torino, Einaudi, 1995, cap. IX. 11. Cfr. R.N. Proctor, La guerra di Hitler al cancro, Milano, Raffaello Cortina, 2000. 12. Cfr. C. Koonz, Donne del Terzo Reich, Firenze, Giunti, 1996, che esamina ampiamente l’esperienza delle donne e comprende una lunga intervista con ScholtzKlink. 13. Cfr. N. Milletti, Analoghe sconcezze. Tribadi, saffiste, invertite e omosessuali: categorie e sistemi sesso/genere nella rivista di antropologia criminale fondata da Cesare Lombroso (1880-1949), in «DWF», 4 (1994). 14. Cfr. B. Thompson, Box-car Bertha. Autobiografia di una vagabonda americana, Firenze, Giunti, 1987. 15. Cfr. G.L. Mosse, Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Roma-Bari, Laterza, 1982. 16. Cfr. O. Sacks, Emicrania, Milano, Adelphi, 1992, in cui si confrontano dipinti eseguiti da emicranici e opere delle due correnti. 17. Cfr. A. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 a oggi. Storia funzioni tipologia, Torino, Bollati Boringhieri, 1997, a tutt’oggi l’unica storia comparativa di ampio respiro; si veda anche V. Salamov, I racconti di Kolyma, Torino, Einaudi, 1999. 18. Cfr. M. Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e di Hitler, Bologna, Il Mulino, 1994, cap. VIII. 19. T. Todorov, Di fronte all’estremo, Milano, Garzanti,1992, offre una comparazione fra l’esperienza dei prigionieri nei Lager nazisti (ma non nei campi della morte) e nel Gulag. A proposito dei due totalitarismi, cfr. M. Flores (a cura di), Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto, Milano, Bruno Mondadori, 1998.

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20. «Finché tutti gli uomini non sono resi egualmente superflui – il che finora è avvenuto solo nei campi di concentramento – l’ideale del dominio totale non è raggiunto», scrive Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano, Ed. di Comunità, 1996, p. 626. 21. Sulla dekulakizzazione, cfr. A. Graziosi, La grande guerra contadina in URSS. Bolscevichi e contadini (1918-1993), Napoli, Esi, 1998; N. Werth, Uno stato contro il suo popolo. Violenze, repressioni, terrori nell’Unione Sovietica, in S. Courtois (a cura di), Il libro nero del comunismo, Milano, Mondadori, 1998. 22. Cfr. Werth, Uno stato contro il suo popolo; R. Conquest, Il grande terrore. Le “purghe” di Stalin negli anni Trenta, Milano, Mondadori, 1970. Per un’analisi complessiva del regime, V. Zaslavski, Storia del sistema sovietico. L’ascesa, la stabilità, il crollo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995. 23. Cfr. G. Bock, Le donne nella storia d’Europa, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 350 ss. 24. Cfr. L. Beccaria Rolfi, B. Maida, Il futuro spezzato. I nazisti contro i bambini, Firenze, La Giuntina, 1997, pp. 147 ss., in cui, nel quadro di un’analisi del Lebensborn, sono citate sia la Heuaktion sia le valutazioni di cui sopra. 25. Cfr. L. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, Torino, Einaudi, 1955, p. 219. Il governo slovacco aderisce «con ardore». 26. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, p. 237. 27. Per una analisi dettagliata della divisione in classi e sottoclassi e dei suoi criteri (numero dei nonni ebrei, religione, data di nascita, appartenenza alla Comunità ebraica e data dell’iscrizione, coniuge ebreo o non ebreo e altri dati, che vengono tutti incrociati gli uni con gli altri) nelle diverse fasi e nei diversi paesi occupati o satelliti, cfr. Hilberg, La distruzione degli ebrei, capp. VI, VIII. 28. Cfr. F. Levi (a cura di), L’ebreo in oggetto. L’applicazione della normativa antiebraica a Torino. 1938-1945, Torino, Zamorani, 1991, pp. 87-89. 29. Cfr. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, pp. 336 ss. 30. Mi permetto di rimandare, fra gli altri, ad A. Bravo, A.M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne 1940-1945, Roma-Bari, Laterza, 2000. Sul dibattito fra storiche su questi punti e sul rapporto fra resistenza civile e resistenza delle donne, cfr. «Storia e problemi contemporanei», 24 (1999), dedicato a Donne tra fascismo, guerra e resistenza; si veda anche D. Gagliani, E. Guerra, L. Mariani, F. Tarozzi (a cura di), Donne guerra politica, Bologna, Clueb, 2000. 31. Per una preziosa concettualizzazione e una ricostruzione storica, cfr. J. Sémelin, Senz’armi di fronte a Hitler. La resistenza civile in Europa 1939-1943, Milano-Torino, Edizioni Sonda, 1993, da cui traggo le notizie sulle manifestazioni patriottiche. 32. J. Amery, Intellettuale a Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1987, p. 148. 33. G. Tedeschi scrive: «La vita delle prigioniere è come una maglia i cui punti sono solidi se intrecciati l’uno all’altro; ma se il filo si recide, quel punto invisibile sfugge fra gli altri e si perde». G. Tedeschi, C’è un punto della terra...Una donna nel Lager di Birkenau, Firenze, La Giuntina, 1988, p. 98. 34. A. Bravo, D. Jalla (a cura di), La vita offesa: storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano, Angeli, 2001, p. 249. 35. Cfr. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, p. 144.

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36. Cfr. F. Karay, Le donne nei campi per il lavoro obbligatorio, in D. Ofer, L. Weitzmann, Donne nell’Olocausto, Firenze, Le Lettere, 2001. 37. Cfr. L. Beccaria Rolfi, A.M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiane, Torino, Einaudi, 1978, p. 189. 38. Cfr. M. Goldenberg, Le memorie dei sopravvissuti di Auschwitz. Il peso del genere, e L. Rosenfeld Vago, Un anno nel buco nero del nostro pianeta terra. Un racconto personale, in Ofer, Weitzmann, Donne nell’Olocausto. 39. L. Schmidt-Fels, Deportiert nach Ravensbrück, citato in Bock, Le donne nella storia d’Europa, p. 389. 40. Survivre dans un camp de concentration. Entretien avec Margareta GlasLarsson, commenté par G. Botz e M. Pollak, in «Actes de la recherche en sciences sociales», 41 (1982). «Le donne si truccano, si pettinano bene, per dispetto»; così scrive Angela Putino, ricordando un film di Vasna Ljubic girato a Sarajevo durante la guerra nei Balcani, in cui una signora curata e elegante spinge un carrello con taniche d’acqua. Cfr. A. Putino, La “normalità” e i corpi, in «Democrazia e diritto», 1 (1996). 41. Cfr. B. Bettelheim, Sopravvivere, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 56-85 e 197-231. 42. Amery, Intellettuale a Auschwitz, rispettivamente pp. 39, 37, 35, 54-55, 40.

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Introduzione Linguaggi, significati, forme di conoscenza e d’autorità, la natura stessa dei metodi storici e della ricerca in scienze sociali sono stati messi in discussione dagli studi d’area e in specifico in ambito africanistico.1 La storia dell’Africa a lungo negata si afferma oggi come un campo di ricerca problematico e complesso, innovativo e originale, proprio perché ha dovuto affermarsi contro l’egemonia culturale e concettuale “imperiale”, che negava la storicità dell’Africa relegandola a un “primitivo”, altro e lontano da sé. Chi ha familiarità con i documenti coloniali sa che, con rare eccezioni, mentre i bianchi hanno tutti dei nomi, i neri sono di solito anonimi. Analogamente ancora oggi molti rifiutano di ammettere che l’arte in Africa possa essere anche prodotto d’artisti individuali e non invece solo espressione collettiva di società esotiche, chiuse nei loro mondi misteriosi, “primitivi” o “tribali”.2 La storia delle donne ha subito la stessa sorte: le africane erano prese in considerazione nella storiografia, così come del resto nelle ricerche che sempre più negli anni recenti indagano i problemi di sviluppo e in particolare il fenomeno della “femminilizzazione della povertà”, quasi esclusivamente come corpo collettivo e come tale anonimo. Le eccezioni nella letteratura sono rare figure di mitiche regine, donne di piacere, concubine, intrepide esploratrici, missionarie, figure eccezionali prese ad esempio per suscitare meraviglia o scandalo.

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La novità metodologica nella nuova ricerca storica nell’Africa subsahariana sta nell’affermarsi, sia pure faticoso e sempre controverso, di una ricerca accademicamente “alta”, che affonda le sue radici nell’interagire fra diverse discipline e competenze che concorrono a raccogliere le fonti scritte e orali e ad analizzarle contestualizzandole.3 La ricerca di storia orale valorizza non solo la tradizione orale, i miti d’origine, le cronologie dinastiche, ma anche la raccolta e contestualizzazione sistematica di testimonianze e narrazioni, quali le storie di vita o d’eventi così come vissuti o percepiti da gente comune, dunque in Africa provenienti dal mondo rurale e dell’urbanizzazione informale, e finalmente anche donne, rimaste fino ad ora senza voce o visibilità. La storia orale dà posizione centrale ai protagonisti e alle protagoniste che con parole proprie ci portano a esplorare la conflittualità delle storie familiari, dei rapporti di potere domestici, le miriadi di forme ibride di culture popolari, la dinamica di gruppi sociali informali prima sottovalutati e negletti. La ricerca per quanto si riferisce alla storia delle donne è ancora ai suoi inizi, anche a causa della difficoltà di raccogliere e analizzare fonti primarie che permettano un’analisi più introspettiva, quella dello sguardo che le donne portano su se stesse e sul loro rapporto col mondo o sulla razionalità delle loro scelte e infine sul loro modo di capire i rapporti di potere. Le fonti orali – peraltro nella ricerca storica in Africa anche le scritte – presentano, fra gli altri, due problemi principali. In primo luogo se sottratte al contesto di potere da cui emergono possono dar luogo a lavori che si limitano a esercizi d’esotismo. Molti lavori biografici o narrazioni di storie di vita non fanno altro che proporci una poetica dell’identità, cioè raccolgono storie di vita variamente riadattate e prodotte e offerte al pubblico fuori della complessità del loro contesto. E se è vero che i documenti sono prevalentemente la visione del potere coloniale, mentre la memoria degli oppressi, di coloro che sono poi la maggioranza, è stata negata, si deve anche aver chiaro che l’oralità è deformazione, evasione, repressione della memoria, proiezione di desideri, trauma, invidia, rabbia, piacere. Il passaggio dall’oralità alla storia scritta presenta poi molte trappole concettuali, nella misura in cui i molteplici autori della narrazione possono essere soffocati dall’autorità della scrittura e dell’organizzazione dello storico professionista.

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I problemi e i dibattiti sollevati dalla ricerca e dalla contestualizzazione delle fonti orali hanno comunque notevolmente contribuito a mettere in evidenza la necessità di guardare non solo alla storia del potere e del potere maschile in particolare, ma di ricostruire i modi in cui uomini, donne, giovani e vecchi hanno vissuto e rappresentato la propria storia, rivisitando gli spazi dell’esperienza, valutandone la diversità e complessità, questo anche per mezzo della riappropiazione degli strumenti della ricerca che la generazione precedente aveva lasciato al monopolio di etnomusicologi, linguisti, etnologi, antropologi.4 Quando gli storici hanno cominciato ad ascoltare il “terreno” di ricerca – e questo è accaduto solo dopo la decolonizzazione dell’Africa – ecco emergere stratificazioni e intrecci ricchi e profondi d’esperienze, di spiegazioni e rappresentazioni altre, molto più complesse e diversificate di quelle che la sola lettura delle fonti scritte aveva permesso. La ricerca di terreno ha rivelato i limiti ideologici ed empirici di fonti, metodi e concetti, che hanno dovuto essere riformulati per cogliere la specificità delle dinamiche di individui, popolazioni e generi, che prima si consideravano silenti, senza voce né parola.5 Gli storici che vogliono far parlare il passato dei senza voce, che si pongono cioè come obbiettivo di conoscere coloro di cui gli archivi nulla o poco ci dicono, hanno sviluppato tutta una serie di metodi e di approcci spesso creativi, sovente considerati sovversivi. Hanno dovuto imparare a rileggere le fonti d’archivio e la letteratura, acquisendo una più profonda conoscenza del contesto ambientale e culturale specifico, imparando a essere più attenti al linguaggio, alla localizzazione, ai significati, alle forme d’autorità e potere, alle diverse modalità di conoscenza e naturalmente alla natura delle fonti storiche. Questo sforzo ha notevolmente contribuito ad arricchire la ricerca storica ponendo nuove domande e sviluppando tutta una serie di prospettive multiple nella stessa sequenza, evento, o rete di rapporti, in breve cercando di svelare i processi d’interazione di vari livelli di mutamento. La rilettura per mezzo di una radicale critica concettuale delle fonti amministrative coloniali e poi degli scritti e delle relazioni di esploratori, missionari, commercianti, avventurieri, giornalisti, “cooperanti” nel loro “incontro” con le popolazioni africane in diverse

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epoche storiche, ha prima permesso di abbandonare analisi schierate con lo schematismo della polarizzazione fra dominazione-oppressione e resistenza-riscatto, e poi di ammettere quanto e come l’incontro con l’Africa sia stato e sia complesso, e si possa coglierlo solo se se ne ammette l’essenziale ambiguità.6 La vera natura dei rapporti fra colonizzatore e colonizzato, oggi fra ricchi e poveri, o Nord e Sud, è costantemente celata dietro maschere volte vuoi a privilegiare la rappresentazione positiva della “missione civilizzatrice” della colonizzazione, o al contrario a valorizzare le strategie di sopravvivenza delle popolazioni sottoposte a dominio. Dunque dal lato del colonizzatore abbondano rappresentazioni eroiche o etiche – l’opera civilizzatrice, la cristianizzazione emancipatrice, l’altruismo della “cooperazione allo sviluppo” – e da parte africana prevale il silenzio, l’enigma che può significare rassegnazione, paura, ma anche l’unico modo di resistere a rapporti di potere infinitamente asimmetrici. Storie di vita narrate da donne, poemi e canzoni, opere d’arte che narrano a loro volta storie,7 oltre a provocare un acceso dibattito di metodologia ed etica, hanno messo in evidenza come la storia delle donne in Africa, intesa come storia di persone reali e non di strutture sociali, sia storia “sovversiva”, perché più d’ogni altra critica implicitamente il concetto che la modernizzazione sia razionale, quindi come tale si possa intendere come “neutrale” rispetto al contesto storico.8 Nangombe figlia fedele, madre assassina Rarissimi sono i documenti scritti su vicende che si riferiscono a personaggi femminili che non siano donne di potere. Per questo mi ha colpito un saggio di Meredith McKrittrick che ricostruisce, per mezzo di documenti giudiziari, il primo processo per infanticidio a una donna “indigena” della Namibia (allora South West Africa sotto amministrazione sudafricana)9 in una corte formale. Il lavoro illustra l’ambiguità dei rapporti di potere in una situazione coloniale, di cui fa le spese il soggetto esemplarmente più debole, una giovane donna di nome Nangombe, cui non sarà consentito di rimanere fedele alla propria identità nel tentativo di difendere le proprie scelte e cioè di riscrivere i significati e gli aspetti chiave della vita associata con la

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riproduzione. Il saggio è tutto rivolto a indagare la trasgressione di una figlia, Nangombe, che continua a mantenersi leale verso la propria origine e cultura e tuttavia pretende di scegliere la propria sessualità e maternità anche se questo significa ribellarsi all’autorità tribale e coloniale. Contestualizzare la vicenda di Nangombe, così come raccontata dai documenti giudiziari, permette di avanzare alcune ipotesi per riflettere in maniera più ampia sull’intreccio fra controllo della sessualità, violenza e potere, in una situazione coloniale caratterizzata da un’accelerata transizione.10 Siamo infatti alla fine degli anni Trenta in una regione del Nord dell’attuale Namibia: la ragazza di nome Nangombe, appartenente a una famiglia di un clan dell’Ovamboland, non è una marginale, né la società in cui vive è isolata dall’amministrazione e dai processi di mutamento provocati da emigrazione e azione missionaria. Rimane incinta senza aver ottemperato ai riti d’iniziazione e senza essere quindi sposata. Le gravidanze senza iniziazione sono tabù nella sua società e dunque dovrebbe abortire per non far ricadere la maledizione sulla sua famiglia e il suo clan. La ragazza rifiuta l’aborto e viene quindi cacciata dalla famiglia e disertata dal padre del figlio che porta in grembo. Fugge in un altro villaggio ove viene accolta, ma senza essere aiutata. Qui dà alla luce una bambina, ma poiché non ce la fa a mantenere se stessa e la figlia invece di rifugiarsi presso i missionari luterani finlandesi, che operavano nella regione e che già accoglievano numerose ragazze madri, decide nel 1941 di ritornare presso la madre. La sua famiglia intanto a causa della disobbedienza di Nangombe è stata messa al bando e vive nell’indigenza. Messa sotto pressione dalla madre, che si erge a interprete della “tradizione”, uccide la bambina che ha già due anni. Il capo del clan cui appartiene Nangombe e che pure aveva rappresentato in tutta la vicenda la versione più conservatrice dell’osservanza del tabù denuncia l’infanticidio alle autorità coloniali: è la prima volta che accade in una regione in cui la piaga dell’uccisione di bambini non desiderati era tanto diffusa da aver indotto le autorità a emanare severe leggi di repressione. La denuncia provoca, ed è il primo caso di una donna indigena, l’arresto di Nangombe e della madre e l’avvio di un processo formale con l’accusa di infanticidio e istigazione a delinquere. Durante il processo che si

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svolge presso la Corte Suprema di Windhoek la natura del caso muta: la madre viene prosciolta e la figlia viene sottoposta a un’indagine psichiatrica che si conclude con la diagnosi di epilessia equiparata a pazzia. Dunque la ragazza non verrà processata per infanticidio, ma giudicata pazza; sarà per qualche anno relegata in un manicomio in Sud Africa, da cui uscirà nel 1946 per ritornare al villaggio ove vivrà appartata fino alla morte. La nozione che la gravidanza prima dei riti d’iniziazione provocasse una maledizione sul clan e dovesse quindi essere repressa s’inscrive nella ritualità del controllo della sessualità, delle capacità riproduttive e produttive della donna in una società matrilineare, in cui in assenza dell’osservanza dei riti, la famiglia della sposa perdeva il diritto a ottenere che il marito contribuisse alla produzione col suo lavoro nei campi. Quasi sempre in Africa il matrimonio è un atto processuale che si compone di varie fasi ritualizzate: in questa società matrilineare il momento centrale e rilevante era dunque l’iniziazione, non il matrimonio in sé, iniziazione che sanciva il distacco della figlia dagli obblighi con la famiglia d’origine e la definizione degli obblighi dello sposo. Una gravidanza prima dei riti d’iniziazione era considerata portatrice di distruzione sul clan, poiché violava tutte le regole di sopravvivenza. Nangombe ribellandosi aveva messo in discussione il controllo della società patriarcale, qui rappresentato dalla madre: la filiazione matrilineare, caratteristica di questa società, fonda l’armatura dei gruppi d’appartenenza per cui sono le donne i canali di trasmissione dell’identità, della continuità e della fecondità dei lignaggi. Negli anni Trenta la norma tradizionale che considerava tabù le gravidanze prima dei riti d’iniziazione era già contestata all’interno delle stesse società tradizionali e soprattutto avversata dalla presenza influente, risalente a circa il 1870, di missioni cristiane, in questo caso di missionari luterani finlandesi. L’amministrazione coloniale aveva inoltre emesso leggi contro l’aborto e l’infanticidio, segno che queste pratiche erano tanto diffuse da esigere un intervento diretto del potere politico, oltre che del potere religioso. Contro queste pratiche tuttavia si era fino allora intervenuti in maniera non formale, mai per mezzo legale e con l’intervento di un tribunale coloniale. L’autrice del saggio ci informa che a quanto pare le autorità tradizionali della regione da tempo avevano assunto un atteggiamento

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più flessibile sulla questione delle gravidanze senza iniziazione, soprattutto perché temevano la reazione dell’amministrazione coloniale e la riprovazione dei missionari. Perché allora l’autorità tradizionale e la famiglia di Nangombe insistono per un’applicazione così rigida della norma rituale? Perché la madre stessa di Nangombe, quando questa ritorna con una bambina di un anno, fa di tutto per convincerla che debba essere uccisa perché la sua nascita avrebbe provocato l’esilio, la miseria e minaccerebbe la sopravvivenza stessa di tutto il clan? Perché infine membri del clan, fra cui un fratello e la cognata che sono cristiani e non credono alla maledizione, non si oppongono, né portano aiuto alla ragazza e alla sua bambina? Ambiguità della tradizione e dominazione coloniale I documenti non ci consentono di dare risposte certe, ma il contesto in cui avviene il fatto permette alcune ipotesi. In primo luogo dovremmo sapere di più sulla situazione del clan di Nangombe. L’applicazione così rigida della norma rituale fa intravedere la possibilità che quel gruppo più di altri fosse e si ritenesse particolarmente minacciato in senso materiale e spirituale. Il controllo sulle donne era ovunque essenziale alla difesa dell’autonomia fisica e culturale delle società rurali africane. La ricerca antropologica in Africa australe ha dimostrato come i sistemi di norme e riti processuali che regolano la fecondità della donna e il possesso delle sue capacità produttive e riproduttive ha reagito vuoi in maniera difensiva, vuoi adattandosi alla “scomparsa” degli uomini, causata dall’aumentare dei flussi migratori mano a mano che s’espandeva la richiesta di forza lavoro nelle aziende agricole e nei settori minerari sudafricani. Studi antropologici e storici su varie società dell’Africa australe hanno messo in evidenza la tensione provocata in diverse società tribali dalla crescente importanza dei movimenti migratori, veri crocevia di contatto e conflitto, oltre che d’integrazione e trasformazione del mondo rurale tradizionale e delle forme moderne di lavoro e di residenza.11 È ipotizzabile che la regione in cui avvengono i fatti stia conoscendo alla vigilia degli anni Quaranta un crescente flusso di emigranti verso le miniere e le piantagioni dell’Africa del Sud, flusso

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che accompagnato da altri fenomeni di “modernizzazione” – non dimentichiamo che si calcolava la percentuale dei convertiti al cristianesimo al 50% – crea insicurezza e irrigidisce su posizioni conservatrici le leadership tribali. Se questa emigrazione, in una prima fase, pare essere stata in larga parte favorita anche dalle autorità tribali, essa diventerà, con l’aumentare dei numeri degli emigranti, con le fughe di giovani e quindi con la messa in discussione delle capacità di controllo delle autorità tradizionali, fonte di sempre maggiore tensione e conflitto all’interno della comunità. Il rispetto della ritualità matrimoniale diventa quindi strumento ancor più centrale al mantenimento del controllo sui giovani e sulle donne in particolare. Questo sembrerebbe essere ancor più importante per società matrilineari, generalmente più povere e marginali, quindi più vulnerabili. Fra gli anni Trenta e gli anni Quaranta si ha un’enorme crescita del lavoro migratorio verso le regioni minerarie e agricole del Sud Africa, causata da un accelerato sviluppo. È questo il periodo in cui entra in crisi il patto coloniale, incentrato sul sistema di indirect rule, che si era fino ad allora retto per mezzo di un sistema di legge e ordine delegato alle autorità indigene che dovevano continuare a mantenere potere e autorità sulle coltivazioni di sussistenza e sulla propria gente, controllandone anche i flussi migratori. Sono proprio queste autorità indigene a trovarsi al crocevia delle tensioni e conflitti provocati dall’aumentata mobilità e stratificazione sociale e culturale. Sappiamo anche che numerosi erano i giovani del clan di Nangombe che si erano convertiti e vivevano nelle missioni, altro fattore che contribuisce a definire una crisi di legittimità per le società tradizionali che vedono minate le basi stesse dell’identità e della sopravvivenza materiale e culturale. L’inflessibilità della posizione del capo del clan e conseguentemente degli anziani, fra cui in primo luogo la madre di Nangombe, sulla gravidanza irrituale della ragazza si spiega in una congiuntura di grave crisi del tessuto sociale. I sistemi consuetudinari sono caratterizzati da tutte una serie di regole con cui negoziare coesione e conflitti. Nel caso di Nangombe quei meccanismi non sono stati messi in atto e certamente questo irrigidirsi della consuetudine illustra come, con l’intensificarsi dei flussi emigratori e con l’azione sempre più ingombrante di altre autorità, quella società tradizionale abbia percepito di essere sempre più di-

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pendente dalla stabilità femminile per garantire e difendere la sopravvivenza dell’integrità – la definizione stessa di “tradizione”. La vicenda di Nangombe, la scelta di applicare al suo caso regole rigide e non negoziabili, il processo per la prima volta per una donna indigena in una corte coloniale, la scelta di perseguirla non per infanticidio, ma di dichiararla pazza e di considerare la madre non complice o istigatrice, ma solo testimone della salute mentale della figlia, la sentenza di epilessia e debolezza mentale, sono tutti fatti problematici che ci permettono di avanzare alcune riflessioni sulla natura della dominazione coloniale e sugli spazi permessi all’individualità, in altre parole alla capacità di decidere e agire di una donna del tutto inserita nel mondo tribale patriarcale. Nangombe infatti non è un’emigrante, né una marginale, appartiene a una famiglia con buona posizione nel clan; nemmeno è totalmente ignara della predicazione missionaria, di cui tuttavia non cerca la protezione. Nangombe fa alcune scelte totalmente al di fuori degli schemi: di far nascere sua figlia, di fuggire per salvarla, di non chiedere la protezione dei missionari, di tornare e infine di uccidere la bambina cui pare, secondo tutte le testimonianze, fosse molto legata. La prima scelta, il rifiuto di abortire e la fuga, può essere stata dettata dalla convinzione che la sua fosse una situazione negoziabile all’interno della propria famiglia e clan, così come doveva essere accaduto precedentemente. Questo confermerebbe che la percezione della tradizione, quale poteva avere una giovane donna qualunque, non era di legge inflessibile ma di una processo negoziabile. Può darsi invece che Nangombe sperasse che le mutate condizioni del potere nella sua regione e cioè la presenza di autorità coloniali e dei missionari contrari all’aborto avrebbero indotto il potere patriarcale a condonare la sua ribellione. Nangombe comunque sceglie la maternità e subisce la violenza dell’esilio, la fame, l’emarginazione. Sceglie poi, certo costretta dalle ristrettezze, di tornare al villaggio paterno con la bambina “maledetta”. Il ritorno ci appare come una rivendicazione di identità di membro della propria comunità clanica da cui vuole essere accettata anche come madre. Nangombe avrebbe potuto rifugiarsi dai missionari, invece sceglie di tornare nel suo mondo. I convertiti al cristianesimo, fra cui anche membri della sua famiglia, pubblicamente riprovano il tabù,

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ma nulla hanno fatto o faranno per aiutarla e d’altronde la ribelle non chiede la loro protezione. Perché? Tutte le scelte di Nangombe sembrano essere guidate dalla volontà di affermare la propria scelta di maternità, mantenendosi allo stesso tempo leale alla propria cultura, alla famiglia, alla madre. Una figlia “fedele”, appunto. Rifugiarsi dai missionari avrebbe significato rinunciare alla propria identità accettando le regole non solo spirituali, ma anche mondane della conversione a un’altra cultura che avrebbe chiesto l’osservanza di regole altrettanto, anche se diversamente, rigide sul controllo della sua sessualità e fertilità. L’autorità religiosa infatti poneva al centro della sua predicazione la conversione, il pentimento e quindi la moralità monogamica. Il processo nel suo svolgimento e risultato svela pienamente la natura ambigua del rapporto di dipendenza e interdipendenza fra autorità coloniali e autorità indigene. Il sistema coloniale applicato dai sudafricani in questa regione era una delle forme di indirect rule ovvero, per prendere in prestito la formulazione di Mahmoud Mamdani,12 una forma di decentralizzazione del dispotismo in cui il potere coloniale legittimava la sua egemonia facendo riferimento a sistemi di potere “tradizionali”, definiti territorialmente, e a “tradizioni” fissate in norme, quindi sottratte alla loro storica conflittualità e pluralità e ridotte a versioni univoche, conservatrici, monarchiche, autoritarie, patriarcali, incarnate nel potere dei capi e dei pater familias. Il potere consuetudinario, così definito, aveva tre tratti distintivi: tradizionale era considerato sinonimo di tribale, ciascuna tribù quindi era definita come un gruppo culturale con la sua legge consuetudinaria non negoziabile, fissa ed eguale nel tempo; la cultura tradizionale così rigidamente fissata diventava la norma a tutti impedendo ogni definizione individuale del sé; la tradizione era definita da autorità del tutto dipendenti dallo stato coloniale. La tradizione dunque viene organizzata, razionalizzata e gestita per mezzo dell’alleanza fra poteri, coloniale e dei capi o autorità indigene riconosciute. La mediazione dei conflitti avveniva fra queste due entità e si esprimeva col linguaggio della forza. L’ambiguità nella vicenda di Nangombe sta nella contraddizione fra legislazione coloniale che punisce aborto e infanticidio e la consuetudine che considera la nascita fuori dal matrimonio un tabù che

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non si può violare, pena la distruzione della società. Qui il conflitto fra morale cristiana ed etica della sopravvivenza della società tradizionale verrà messo in sottordine e la scelta sarà di ricomporre l’alleanza e la reciproca legittimazione fra potere coloniale e tradizionale. La rigidità della norma, presentata come tradizione non più negoziabile, può capirsi dunque se si considera il contesto dell’interdipendenza fra potere coloniale e potere patriarcale e delle tensioni causate al compromesso dell’indirect rule dalla crescente e ormai sempre meno controllabile emigrazione verso le aree minerarie, che sottrae forza lavoro alle campagne. La difesa dei riti d’iniziazione e del sistema matrimoniale riflette il conflitto che oppone la difesa del sistema agrario – inteso come organizzazione sociale e produttiva garanzia della sopravvivenza delle società tradizionali – alle nuove autorità. Queste sono le missioni che predicano la conversione, basata sulla scelta individuale, e offrono protezione contro i riti d’iniziazione, e anche le amministrazioni coloniali, per cui la modernizzazione si limita all’esigenza primaria di estrarre a basso prezzo più forza lavoro possibile dalle società indigene. L’accusa di infanticidio rischia di mettere in crisi l’alleanza fra conservazione tribale e amministrazione della subordinazione senza diritti, su cui si era retta fino ad allora la law and order coloniale. Infatti l’amministrazione coloniale non poteva permettersi di sconfessare apertamente, tramite una condanna, quella che era considerata una norma fondante la stabilità di una società tradizionale, e tuttavia non poteva neppure rinunciare a far valere la legge coloniale che quelle pratiche voleva reprimere, né poteva sfidare l’etica religiosa missionaria. I missionari, molto influenti nella regione, erano fieri avversari dei riti d’iniziazione, ma nello stesso tempo predicavano contro promiscuità sessuale e poligamia. Nangombe doveva tuttavia essere punita e la sua punizione doveva essere d’esempio in ambito tradizionale per frenare la disobbedienza dei giovani, e in particolare delle donne. Questo processo afferma che il controllo sulle donne deve continuare a essere della società patriarcale: la modernizzazione sia pure nei limiti del sistema coloniale non riguarda le donne che potranno godere solo di diritti secondari dipendenti dalla tradizione. La trasgressione femminile era considerata particolarmente pericolosa e da reprimere proprio per la centralità del corpo, della fecondità e del lavoro femmini-

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le, nella perpetuazione non solo della specie, ma di una consuetudine ora irrigidita in un conservatorismo funzionale al potere patriarcale e al compromesso coloniale. Quale crimine ha commesso Nangombe? L’accusa di infanticidio deve cadere perché metterebbe in questione il ruolo della società tribale, qui rappresentata dalla madre di Nangombe, “anziano” autorevole che difende la tradizione e con questo la sua concezione della sopravvivenza della famiglia. La madre quindi nel processo, così come vuole la “tradizione”, non potrà né dovrà essere giudicata colpevole d’istigazione, anche se con ogni evidenza è lei che ha costretto la figlia all’infanticidio. Né si riterranno colpevoli coloro che hanno assistito senza intervenire: oltre il 50% della popolazione può considerarsi all’epoca dei fatti cristiana; questi non considerano tabù la gravidanza senza iniziazione, ma considerano immorale la maternità senza matrimonio; sono contrari all’infanticidio rituale, ma nello stesso tempo non osano protestare e tanto meno dimostrare una qualche solidarietà verso Nangombe. Da parte missionaria non si riconosce l’essenza della conflittualità e si individualizza la colpa su Nangombe, madre “assassina”, doppiamente peccatrice contro la morale tribale e la morale cristiana in quanto fornicatrice fuori dal matrimonio e infanticida. Nangombe sarà la sola a essere punita, ma non come infanticida, bensì come pazza, quindi nessuno oserà mettere in discussione o sotto processo la “tradizione”. In questo processo non sono in discussione dunque nozioni vittoriane o cristiane di giusto e sbagliato, di bene e male, né s’intende con queste giudicare o misurare il crimine: la consuetudine, costruzione o “invenzione” coloniale, irrigidita in potere e autorità non negoziabile, non può essere messa alla sbarra. Perché Nangombe viene portata davanti a un tribunale coloniale? La soppressione della sua bambina di due anni, già diventata persona, ha sfidato sia l’autorità tradizionale perché è avvenuta irritualmente, sia l’autorità coloniale e la morale cristiana. Dunque si configurava come un crimine contro il governo coloniale, contro i princìpi cristiani e contro la comunità. Sulla definizione di crimine e sulla punizione è necessario un compromesso che salvaguardi la legittimità dei poteri e delle autorità che controllano il territorio e definiscono i criteri di interazione e alleanza. La ribellione di Nangombe

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è a tutto campo contro ogni tipo d’autorità e viene letta come un segnale particolarmente allarmante, perché ha come protagonista una donna che decide autonomamente della propria sessualità e maternità. Meno sovversivo sarebbe stato se Nangombe avesse seguito i percorsi già segnati della detribalizzazione: fuga verso la protezione missionaria, o rifugio in aree urbane, ove avrebbe potuto sopravvivere nella marginalità delle persone senza protezioni. Ma Nangombe insiste nel volersi mantenere “fedele” alla propria società, non diventa una vagabonda, o una prostituta, non rientra nella casistica severamente punita dalla legge coloniale che riguarda le donne classificate come “oziose”. A Nangombe, prima donna indigena a essere portata davanti a un tribunale formale, non vengono riconosciuti diritti. Per lei parla solo l’abito tribale sul quale è costretta, probabilmente per “decenza”, a indossare l’abito missionario. Il processo, così come descritto nel saggio, appare come un atto di “purificazione” che dovrà consentire, con la sentenza di pazzia, a ribadire quella alleanza di poteri e autorità su cui si regge il sistema coloniale. La vittima sacrificale muta, Nangombe, non sarà condannata al rogo, ma alla follia. Il processo dimostra che la tradizione o il “diritto” consuetudinario non è, come alcuni ritengono, una specie di residuato culturale difeso da gruppi che si oppongono alla modernizzazione, ma è riprodotto per mezzo di una serie di conflitti fra membri dello stesso gruppo con una storia comune, ma con diverse interpretazioni della stessa. Nangombe rappresenta una versione della consuetudine perdente, senza diritto d’ascolto nella situazione di alleanza fra potere coloniale e potere patriarcale. Questo processo dimostra che l’autorità coloniale non può, data l’enormità del caso, abdicare ai suoi compiti di sanzione, ma nello stesso tempo non può sconfessare la società tradizionale apertamente, perché sulla nozione conservatrice di tradizione s’incentra la capacità di mantenimento della legge e dell’ordine nella totale subordinazione della popolazione. Le autorità coloniali non possono permettersi di sfidare fino in fondo e apertamente la concezione tradizionale sulla legittimità dell’infanticidio ma nemmeno di condonarlo, e allora ripiegano sull’insanità mentale. L’episodio illustra insieme l’ambiguità della dominazione coloniale e la violenza della negazione, della repressione e del rifiuto che

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va a colpire l’essenza femminile: prima la sessualità e poi la maternità di una giovane donna, quando questa tenta di sottrarsi al potere di una consuetudine che non ha il potere di negoziare. Nangombe ha valicato e rotto i confini eretti fra tradizionale e moderno; ha sfidato e si è fatta protagonista del conflitto fra anziani e giovani sul controllo della sessualità e quindi della sua forza lavoro e riproduttiva; non ha riconosciuto l’autorità morale della chiesa chiedendo a questa perdono attraverso la conversione; ha infine ucciso l’essere che le era più caro. La condanna riflette questa ambiguità: Nangombe viene giudicata affetta da epilessia, folle eppure consapevole, colpevole e non colpevole. Un ibrido da togliere dalla società e relegare in un manicomio perché fuori dei canali e dai limiti delle categorie accettate e accettabili di autorità tradizionale, missionaria e coloniale. Al processo, forse inconsapevolmente, il suo modo di vestire rivela questa ambiguità: forse l’hanno costretta a coprirsi per “decenza”, o forse il vestire indica come la sfera del consuetudinario e quella della modernità coloniale e missionaria non sono separate ma interdipendenti e alleate, e la possibilità di iniziativa autonoma della donna è all’interno di ben precisi limiti che comunque ne ribadiscono e ne rafforzano la subordinazione. L’amministrazione coloniale e i missionari agiscono secondo interessi definiti da una bilancia del potere; le donne e i giovani, le persone cioè non in posizione di autorità, subiscono la subordinazione e le decisioni definite da categorie che essi non sono in grado di negoziare, perché non hanno potere, neppure di rappresentazione di sé. L’esempio illustra inoltre non solo il tentativo dei gruppi dominanti di controllare il potenziale riproduttivo e produttivo delle donne, le alleanze fra potere tradizionale e coloniale oltre che spirituale, ma anche i modi in cui una ragazza pur priva degli strumenti della modernità, senza istruzione, aveva nozione di sé e del mondo che la circondava e aveva tentato, in questa ambiguità di attori e di interessi, di riformulare gli aspetti chiave della sua vita e cioè il suo diritto alla sessualità, alla maternità, a quella maternità. Nangombe, così come molte altre storie di donne ricostruite attraverso atti giudiziari, testimonianze e interviste, rivela che lo spazio di resistenza e negoziato creato dalle contraddizioni fra tradizione e modernità, così come espressa dall’amministrazione e dalle missioni, cioè in sistemi coloniali di subordinazione materia-

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le e spirituale, è uno spazio in cui le relazioni sociali – così come il conflitto interno a ciascun gruppo sociale – sono continuamente ridefinite. In queste contraddizioni la possibilità delle donne di affermare una loro visione, una loro autonomia di decisione e di percorso, deve sempre confrontarsi coi precisi e potenti limiti e in primo luogo con l’alleanza fra tradizioni (inventate nella misura in cui se ne selezionano e privilegiano gli aspetti conservatori rappresentati da capi, padri, padroni, e se ne elimina la conflittualità intrinseca togliendole ogni spazio di espressione e di negoziato) e versioni conservatrici della modernità. In questo senso le storiche femministe affermano che il colonialismo ha “peggiorato” la subordinazione femminile, poiché ha introdotto la modernità per mezzo della nozione di differenza intesa come inferiorità, relegando la situazione femminile alla dicotomia natura contro cultura, e valorizzando le autorità maschili e le loro versioni del potere. Il colonialismo ha selezionato le forme più conservatrici di potere patriarcale nello stesso tempo in cui, a causa della sempre maggiore penetrazione dell’economia di mercato, le donne diventavano più importanti per garantire la sopravvivenza delle società rurali. Nella rappresentazione di questo conflitto se nella società tradizionale la donna ribelle è una strega in quella moderna è immatura, irrazionale e debole di mente. Comunque non le sarà concessa personalità giuridica e anche quando la legislazione gliela riconoscerà – questo il caso di tutti i paesi indipendenti dell’Africa subsahariana – il problema resta poiché la stragrande maggioranza delle donne non avrà accesso a usufruirne per mancanza di strumenti (istruzione, denaro) e perché comunque la “tradizione” rappresenta, anche per le moderne élite nazionali delle indipendenze, un potente strumento di controllo. Conclusioni La ricerca storica sulle donne non può limitarsi a prendere atto della serie di norme o leggi che regolano i rapporti all’interno della famiglia e dei gruppi di discendenza – o di come questi si collegano alla coesione in società più larghe fino alla “nazione” moderna – e

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definirle, come sono, ingiuste. Né può limitarsi ad auspicare o combattere per un dover essere di parità giuridico-formale, né solo fermarsi all’esegesi dei conflitti fra interessi maschili e femminili. Deve piuttosto leggere realisticamente, attraverso le trasformazioni del contesto economico, politico e sociale, lo spazio di manovra e di scelta di donne concrete che vivono sul proprio corpo le contraddizioni e i conflitti. Il maggiore conflitto nella famiglia africana rurale è per esempio il fatto che le donne producono figli e beni di sussistenza, e tuttavia la trasmissione sociale di proprietà e di posizione avviene in larga parte da uomo a uomo. I diritti su una donna sono detenuti da uomini: diritti produttivi e riproduttivi che possono entrare in contrasto, da cui l’importanza della sessualità non solo come gestione dei rapporti di parentela e rivendicazione di diritti oltre che di doveri, ma come, e sempre di più oggi, merce di scambio per ottenere mezzi di sopravvivenza e di promozione economica e sociale. Gli accelerati e spesso traumatici mutamenti dei modi di vita e delle economie delle società africane hanno significato sconvolgimenti profondi nell’accesso e nell’uso delle risorse, anche di quelle culturali e ideologiche. Il ritorno in voga della “tradizione”, se appare come segno di rivendicazione di originalità culturale, permette a chi detiene il potere di dare legittimità a una gerarchia di diritti sull’accesso alle risorse che relega le donne comunque ai gradini più bassi. Tradizioni e consuetudini vengono nel discorso politico e ideologico sempre più difese come fossero norme immutabili nel tempo, norme peraltro codificate dal potere e di cui si tende a negare la processualità, cioè la natura storica negoziabile, flessibile e congiunturale. La vicenda di Nangombe esemplifica come il linguaggio della tradizione sia stato in epoca coloniale uno dei principali strumenti di dominazione e subordinazione. La valorizzazione del discorso tradizionale oggi può avere significati diversi, ma è certo che, nell’attuale fase di crisi della modernità statuale dei paesi africani, appare sempre più strumento per promuovere un sistema di legalità autoritario. Quest’ultimo espunge dalla tradizione tutta la parte di pratica flessibile e negoziabile, al fine di difendere posizioni conservatrici. Le donne, che hanno un minore accesso alle risorse anche intellettuali delle rappresentazioni, e quindi maggiori difficoltà a far valere il proprio punto di vista, sono le vittime principali.13

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Note 1. Cfr. R.H. Bates, V.Y Mudimbe, J. Barr (a cura di), Africa and the Disciplines – Contributions of Research in Africa to the Social Sciences and Humanities, Chicago, University of Chicago Press, 1993, si veda poi F. Cooper, R. Packard (a cura di), International Development and the Social Sciences: Essays on the History and Politics of Knowledge, Berkeley, University of California, 1997 e anche F. Cooper, Conflict and Connection: Rethinking Colonial African History, in «American Historical Review», 99 (5 dicembre 1994), pp. 1475-1545; I. Berger, E. Frances White, Women in Sub-Saharan Africa, Bloomington, Indiana University Press, 1988 (in Restoring Women to History, serie a cura di Ch. Johnson-Odinm, M. Strobel); F. Cooper, A.L. Stoler, Tensions of Empire, Colonial Cultures in a Burgeois World, Berkeley, University of California Press, 1997. 2. A Bruxelles una mostra – Main de maitres, Espace Culturel de la Banque Bruxelles-Lambert, 6 place Royale Bruxelles 1000, catalogo sotto la direzione di Bernard de Grunne, p. 272 – di un centinaio di opere africane vuole valorizzare appunto l’individuazione dei singoli artisti. Già nel 1935 un ricercatore tedesco Hans Himmelheber in un saggio dal titolo Negerkunstler (Artisti neri), consacrato alle sculture ritrovate presso le popolazioni Atutu e Gouro, in Costa D’Avorio, aveva individuato il nome di 19 artisti. Erano poi seguiti i lavori del belga Frans Olbrechts, dell’inglese William Fagg e di numerosi altri volti alla valorizzazione dell’individuazione degli artisti e degli stili. Infine l’esposizione al Metropolitan Museum of Arts di New York del 1997 aveva identificato un notevole numero di artisti. Esperti e studiosi hanno dunque da tempo sottratto l’arte africana dalla sua marginalizzazione etnografica; non è stato così per la divulgazione. 3. Cfr. J. Vansina, Oral Tradition as History, Madison, University of Wisconsin, 1985. 4. Cfr. B. Bernardi, C. Poni, A. Triulzi (a cura di), Fonti orali, Antropologia e Storia, Milano, Franco Angeli, 1978. 5. Si noti come canti e poesia fossero vere e proprie “mappe di esperienze di vita”, forme di linguaggio che davano voce a persone, uomini, donne, giovani, che altrimenti non avrebbero avuto spazio nel contesto ritualizzato dei sistemi politici e sociali di potere. Si tratta di canti di lavoro, di possessione degli spiriti, di ritualità familiari, di divinazione. Essi veicolavano significati per chi li inventava, li modificava e li eseguiva, ma anche per chi li ascoltava. Le liriche, i movimenti del corpo, gli ornamenti e il rapporto che si viene a instaurare fra i singoli interpreti o i cori e chi ascolta o guarda in maniera partecipativa è fra le fonti storiche, di una storia popolare, fra le più promettenti. Cfr. L. Vail, L. White, Power and Praise Poem; Southern African Voices in History, Charlottesville, University of Virginia, 1991. 6. Shula Marks, in una serie di biografie di leader sudafricani, definisce l’ambiguità del rapporto fra colonizzati e colonizzatori usando efficacemente la maschera come metafora. Cfr. S. Marks, The Ambiguities of Dependence in South Africa. Class Nationalism and the State in Twentieth-Century Natal, Johannesburg, Ravan Press, 1986. 7. Cfr. J. Fabian, Remembering the Present. Painting and Popular History in Zaire, Narrative and Paintings by Tshibumba Kanda Matulu, Berkeley, University of California Press, 1996.

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8. Problemi importanti in tutta la storiografia africana e africanista, ma soprattutto in Sud Africa ove gli storici di professione continuano a essere in prevalenza diversi razzialmente e culturalmente dalla stragrande maggioranza della popolazione. Cfr. C. Clayton (a cura di), Women and Writing in Southern Africa: A Critical Anthology, Marshalltown, South Africa, Heinemann, 1989; D. Lashgari (a cura di), Violence, Silence and Anger: Women’s Writing and Transgression, Charlottesville, University of Virginia Press, 1995; C. Walker, Women and Gender in Southern Africa to 1945, London, James Currey, 1990; J.D. Miller, D.S. Newbury, M.D. Wagner (a cura di), Paths towards the Past: African Historical Essays in Honor of Jan Vansina, Atlanta, African Studies Association Press, 1994. Susan Geiger ha notato come lo scetticismo contro le narrative storiche in prima persona è stato diretto principalmente alla ricerca sulle storie di vita di donne. Cfr. S. Geiger, Women and Gender in African Studies, in «African Studies Review», 42 (dicembre 1999). 9. Il territorio oggi conosciuto come Namibia divenne possedimento coloniale tedesco nel 1883, ma nel 1915, dopo una breve campagna militare, venne invaso dalle truppe sudafricane guidate dai generali Smuts e Botha. L’unione sudafricana, terminata la guerra, avrebbe voluto annettere il territorio, ma la Conferenza di pace di Versailles nel 1919 decise altrimenti. Il South West Africa divenne un mandato della classe C affidato al Sud Africa sotto la supervisione della Società delle Nazioni. Il Sud Africa amministrò il territorio come fosse una propria dipendenza, resistendo alle richieste di autonomia e di indipendenza provenienti sia dalle Nazioni Unite sia dal movimento nazionalista. Solo con l’approssimarsi della fine della guerra fredda fu trovato un accordo che portò nel 1989-1990 prima ad elezioni democratiche, poi all’indipendenza del paese col nome di Namibia. L’Ovamboland è il territorio settentrionale, quello più fittamente popolato, tradizionalmente serbatoio di forza lavoro per le aree minerarie e di agricoltura industriale della regione australe. 10. Cfr. M. Mckittrick, Faithful Daughters, Murdering Mother: Transgression and Social Control in Colonial Namibia, in «Journal of African History», 40 (1999), pp. 265-283. 11. Cfr. W. Beinart, C. Bundy, Hidden Struggles in Rural South Africa, London, James Currey, 1987; si veda poi B. Bozzoli, M. Nkotsoe, Women of Phokeng, Consciousness, Life Strategies and Migrancy in South Africa, London, James Currey, 1991 e anche J. Comaroff, Body of Power, Spirit of Resistance. The Culture and History of a South African People, Chicago, Chicago University Press, 1985; J. Comaroff, J.L. Comaroff, Modernity and its Malcontents: Ritual and Power in Postcolonial Africa, Chicago, Chicago University Press, 1993; Idem, Of Revelation and Revolution, vol. I, Christianity, Colonialism and Consciousness in South Africa, Chicago, Chicago University Press, 1997. 12. Cfr. M. Mamdani, Citizen and Subject. Contemporary Africa and the Legacy of Late Colonialism, in Princeton Studies in Culture, Power and History, Kampala, Fountain Publishers; Capetown, D. Philips; London, James Currey, 1996. 13. Cfr. A. Whitehead, Policy Discourses on Women’s Land Rights in Subsaharan Africa: The Return to “Customary law” and the Prospects for Achieving Gender Justice, ASA Conference on Anthropological Perspectives on Rights, Claims and Entitlements, University of Sussex, 3 marzo - 2 aprile 2001.

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II.

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GIAMPIERA RAINA L’opposizione maschile/femminile nella trattatistica fisiognomica greca e latina

Misoginia e fisiognomica nel mondo antico La misoginia delle culture classiche, che esclude la donna dalla vita politica e sociale relegandola in una sfera privata e comunque a parte rispetto a quella maschile, è ormai divenuta topica. A prescindere dal fatto che le generalizzazioni rischiano sempre di essere superficiali e che molte situazioni andrebbero riconsiderate, è innegabile che le affermazioni della superiorità maschile si sprecano nei testi letterari, che per lo più sottolineano la debolezza della donna sul piano fisico e sentimentale, marcando negativamente come assenza di equilibrio e quindi come sfrenatezza qualunque azione fuoriesca dagli schemi comportamentali pensati per lei. L’opposizione tra i generi, intesa come opposizione polare tra positività e negatività, che si intravede in filigrana in tutto il mondo greco e latino, non manca di emergere anche nei trattati di fisiognomica, una disciplina parascientifica che, contrariamente a quanto i più credono, non nasce con Lavater nel Settecento e nemmeno con Cardano nel Cinquecento, ma ha origini ben più remote, risalenti forse al secondo millennio a.C. in area mesopotamica.1 In Grecia la fisiognomica è un’arte, un mestiere, una techne che ha i suoi cultori, i suoi technitai, che, al pari dei medici o degli indovini, esercitano una specifica professione, ricavando dai tratti fisici degli individui notazioni sul loro carattere. Ecco quindi il nascere di tutta una manualistica in merito, rivolta ora agli addetti ai lavori ora ai più, mirante volta a volta a dare indicazioni tecnico-pratiche o a

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giustificare teoricamente un sapere. All’interno di questi trattati, pervenutici sia pur in maniera incompleta o di seconda mano – a nome di Aristotele, Polemone, Adamanzio ecc., per il mondo greco e rielaborati poi in ambito romano – confluiscono molteplici ed eterogenee convinzioni, che di fatto danno voce alla communis opinio, riconducendola però entro le coordinate ambiziose di una disciplina che vanta la pretesa del rigore scientifico-metodologico. È in questo contesto che si inserisce anche l’opposizione maschile/femminile, analiticamente proposta, studiata, scandagliata in tutte le accezioni possibili ed enfatizzata nelle sue polarità sino a farla diventare a sua volta uno strumento interpretativo, trasformando, si vedrà, una questione di gender in una lente attraverso cui guardare la realtà stessa. Per la definizione del problema nulla è più eloquente delle affermazioni che trovano posto nei capitoli iniziali del De physiognomonia liber, un trattatello di un Anonimo latino, risalente forse al IV secolo d.C., che si presenta come la traduzione, o comunque un tentativo di interpretazione, di antichi e autorevoli scritti sull’argomento: del medico Losso, del filosofo Aristotele e del retore Polemone. § 2 – In primo luogo bisogna definire che cosa si propone la fisiognomica. Orbene essa si propone, sulla base delle qualità fisiche, di scrutare e discernere le qualità morali. Losso ha asserito che il sangue è la sede dell’anima e che il corpo, nel suo insieme, e tutte le sue parti, che danno segno, danno segni differenti a seconda che il sangue sia vivace o lento, fluido o denso, con percorsi sgombri e diritti o, al contrario, tortuosi e stretti. Invece tutti gli altri pensano che, come l’animo dà forma al corpo per sympatheia, così, a sua volta, l’animo si conformi alle qualità del corpo, proprio come il liquido contenuto in un vaso che prende la forma del vaso o come il soffio d’aria immesso in una zampogna o in un flauto o in una tromba, perché, anche se l’aria è sempre la stessa, tuttavia risuona in maniera differente nella tromba, nella zampogna e nel flauto. § 3 – La prima effettiva distinzione da delineare in questo studio è tra il genere maschile e quello femminile. Ma questo non deve essere inteso nel senso di una naturale distinzione di generi e sesso, ma nel senso che spesso si ritrova anche nel femminile un tipo maschile e nel maschile uno femminile. Quello che noi diciamo maschile, i fisiognomi lo dicono arsenikon, quello che diciamo femminile invece thelytikon. In primo luogo occorre definire il carattere del tipo maschile e all’opposto quello del femminile, quindi si devono delineare le caratteristiche fisiche dei due tipi, se non tutte, almeno quelle che consentono di dare il via a questo studio […].

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§ 4 – Il carattere maschile è veemente, impetuoso, incapace di portar rancore, generoso, aperto, non si lascia fiaccare o ingannare da astuzia o artificio, desideroso di vincere per i suoi meriti, magnanimo. Il carattere femminile è scaltro, irascibile, ostinato nel portar rancore, spietato e invidioso, incapace di sopportare la fatica, cedevole, subdolo, scontroso, precipitoso, pauroso. § 5 – Veniamo ai segni del corpo maschile. Testa grande, capelli abbastanza grossi […]. § 6 – Veniamo ai segni del corpo femminile. Testa piccola, capelli […].2

L’elenco degli indicia è lungo e particolareggiato. Testa grande, capelli duri e poco mossi, occhi infossati, spalle larghe, muscolosità, vigore e non pinguedine, voce forte, risonante come da una cavità, al pari del ruggito di un leone, passi lunghi, andatura lenta, parte inferiore del corpo (dall’ombelico in giù) di proporzioni minori rispetto alla parte superiore ecc., sono i segni che connotano il corpo del maschio, cui si contrappongono invece i segni del corpo femminile: testa piccola, capelli meno folti ma più morbidi rispetto al maschio, collo più esile, piacevolezza nel volto, corpo più minuto nella parte superiore rispetto a quella inferiore, voce esile e dolce, andatura armoniosa con passi corti e studiati (parr. 5 e 6). Dal contesto emergono molteplici osservazioni di non poco conto. Innanzitutto, però, una considerazione preliminare. Il trattato, si è detto, è tardo, anche se alcuni amano, ma forse erroneamente (il lessico infatti manda in tutt’altra direzione), ascriverlo a una personalità eclettica come quella di Apuleio. In ogni caso, proprio in quanto si propone come una messa a punto di una trattatistica precedente, può a buon diritto essere considerato come un compendio di nozioni e cognizioni di carattere fisiognomico che affondano le loro radici in un sapere di tutti che ha origini molto remote. Non siamo in grado di controllare i rapporti dell’Anonimo con tutte le sue fonti (di Losso non abbiamo che notizie fumose, avvolte nella più assoluta incertezza cronologica, mentre di Polemone, retore vissuto a cavallo tra il I e il II secolo d.C. possediamo soltanto una tarda versione araba), ma soltanto con alcune. Mi riferisco ai Physiognomonica che gli antichi attribuivano ad Aristotele e che l’Anonimo latino conosce bene, anche se forse in una versione non proprio uguale, ma più ricca in alcune parti, meno ampia in altre, rispetto a quella che leggiamo noi. Si tratta di un testo che ha avuto notevole fortuna e indubbia importan-

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za nel mondo antico, ma che già si presenta a un’accorta analisi come la giustapposizione di due sezioni molto distinte, ciascuna anche con un proprio preambolo introduttivo, elaborate sicuramente in ambito peripatetico, ma abbastanza differenti tra loro, nel lessico, nell’impostazione teorica di fondo e negli scopi. La prima parte infatti è più teorica, preoccupata di fondare la fisiognomica come scienza, la seconda invece è più pratica, ricca di notazioni di carattere manualistico ed è sicuramente più vicina agli ambienti medico-ippocratici. Questo non per un excursus filologico erudito, ma per evidenziare come già il testo che la tradizione ci ha consegnato come aristotelico è di fatto un corpus in cui confluiscono varie teorie fisiognomiche, eterogenee per provenienza, evidentemente diffuse al tempo e rispondenti alle esigenze del pubblico. A maggior ragione quindi siamo autorizzati a considerare il Liber de physiognomonia latino come collettore di un sapere fisiognomico diffuso nel mondo antico, sia greco sia romano, ricordando che incongruenze teoriche o sbavature, laddove emergono, non dipendono dall’ignoranza dell’autore, che si perita a fatica di far collimare le sue fonti, ma sono già nelle fonti, almeno in quelle che possiamo controllare, in quanto già queste rispondono all’esigenza di dare sistematicità e rigore metodologico a nozioni di fatto più ascrivibili all’osservazione del quotidiano, alla credenza popolare, alla superstizione. Il corpo come un sistema di segni Il presupposto teorico su cui si regge questa “quasi scienza”, che si colloca a mezzo tra mantica e medicina, tra ars divinatoria e sapere razionale fondato su dati empirici, è la relazione di stretta interdipendenza che lega l’anima al corpo. Poco importa se questa è giustificata da considerazioni più “tecniche”, quali la maggior o minor fluidità e rapidità del sangue, animae habitaculum, come presume il medico Losso, o da notazioni più “filosofiche”, come invece pensano i più, postulando una relazione di sympatheia, per cui l’animo dà forma al corpo, ma a sua volta si conforma alle qualità di questo: quel che conta è l’affermazione della presenza nel fisico di evidenti segni che meritano di essere indagati in quanto danno indicazioni precise sull’ethos di un individuo.

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Il corpo diventa così una forma di espressione che fornisce indizi sicuri, unici, inequivocabili, sicché si stabilisce una corrispondenza biunivoca tra segno sensibile e affezione interna. Sarà quindi un processo di inferenza semiotica, quello stesso che in campo medico permette di arrivare al momento diagnostico, che consentirà di interpretare il linguaggio del corpo. A differenza della medicina, però, la fisiognomica si occupa di caratteristiche fisiche o comportamentali stabili, le uniche che possano dare indicazioni caratteriali, mentre considera ininfluenti quelle legate a sensazioni momentanee che non comportano modificazioni permanenti. Sono quindi le varie parti del corpo a portare i segni (semeia, indicia) oggetto di indagine, esaminabili sia singolarmente, sia nelle loro molteplici combinazioni possibili, anche se, a onor del vero, alcune parti sono più significative di altre: penso agli occhi, cui sono dedicate pagine e pagine, e certo non a caso, vista anche la fortuna che ha avuto in tutta la speculazione, filosofica e non, il motivo degli occhi “specchio dell’anima”. Ma sono anche alcune caratteristiche quali la statura, il colorito e soprattutto il modo di muoversi e di incedere, nonché la voce che fungono da selettore in una classificazione che in genere vede contrapposte due polarità: coraggio vs. pusillanimità, generosità vs. meschinità, irascibilità vs. mitezza ecc. A supporto delle argomentazioni c’è spesso il richiamo, a volte anche un po’ ingenuo, a un dato dell’esperienza condiviso dall’autore e dal suo pubblico, per esempio: «I capelli crespi rivelano un uomo oltremodo astuto, avaro, timido, bramoso di guadagno: rimandano agli Etiopi, che sono timidi e ai Siri che sono avari» (An. lat., par. 14); oppure il ricorso a un paragone tratto dal mondo animale, come nell’espressione: «I capelli folti che scendono fin sulla fronte indicano uno spirito selvaggio, perché rimandano al tipo dell’orso» (ibidem). L’accostamento è reso possibile dalla convinzione, ben teorizzata già in quella sorta di enciclopedia zoologica che è l’Historia animalium di Aristotele (588a ss. e 608b14), per cui esistono sostanziali differenze di temperamento tra gli animali, che questi esibiscono in maniera più immediata e più distinta rispetto all’uomo, perché la loro indole è meno complessa. Si costruisce così tutta una trattatistica, organizzata in modo abbastanza disomogeneo, ora a partire dagli indizi, con affermazioni appunto del tipo, già citato, «I capelli crespi […] sono indice di […]»

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(par. 14), ora in una maniera più manualistico-espositiva, con notazioni del tipo: «Gli avari sono così: hanno membra piccole, occhi piccoli, volto piccolo, andatura veloce […]» (par. 102), ora infine attraverso la costruzione di un lungo elenco di animali che presentano analogie con altrettanti comportamenti umani. Leggiamo così, ad esempio, «L’asino è un animale pigro, inetto, indocile, lento, insolente, dalla voce sgraziata ed è giocoforza che gli uomini che rispondono al tipo di questo animale abbiano gambe grosse, testa lunga, orecchie lunghe […] voce sgraziata […]» (par. 119). C’è però un motivo costantemente ribadito, che i trattati di fisiognomica condividono con le opere biologiche antiche: l’opposizione maschile/femminile, intesa come antitesi tra un polo positivo e uno negativo. Nella Historia animalium di Aristotele è spesso insistito il motivo della superiorità del maschio rispetto alla femmina, sia tra gli animali che tra gli uomini. Ad esempio: «La femmina è meno dotata di tendini, ha articolazioni meno robuste […] le carni della femmina sono più umide di quelle del maschio […] le gambe più sottili, i piedi più delicati, la voce più sottile […]» (538b2). Oppure: «Tutte le femmine sono più timorose dei maschi […] più deboli, più maligne, meno sincere, più impulsive, i maschi più audaci, fieri, sinceri, meno furbi […] la femmina è più impudente, bugiarda […] il maschio è più valoroso e più pronto a recare aiuto […]» (608a21 ss.). Si tratta di passi in cui le affermazioni sono accostate tramite un procedimento di accumulo, senza una giustificazione che non sia il semplice accenno alla maggiore umidità delle carni femminili, di indubbia eredità medico-ippocratica.3 Un tentativo di spiegazione della dichiarata e manifesta inferiorità fisica della donna rispetto all’uomo ricorre invece nel De generatione animalium, dove le cause di quella che è presentata come una vera e propria menomazione (775a15) sono attribuite alla maggior freddezza della femmina che non consente la cozione dell’alimento sanguigno (766b). Questo determina una serie di conseguenze sul piano sia dell’aspetto esteriore, come carnagione più chiara, vene meno evidenti, volto glabro ecc. (727a), sia della funzionalità genetico-riproduttiva: il flusso mestruale infatti è considerato emissione di residuo incompiuto e impuro (728a), di contro al liquido seminale che è invece il residuo compiuto che svolge una parte attiva nella generazione.4

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I testi antichi di fisiognomica, però, eccezion fatta per un unico passo del trattato pseudo-aristotelico5 in cui si accenna alla maggior debolezza della donna in conseguenza di carni più umide (809b13), non evidenziano attenzione alcuna al momento eziologico-esplicativo. Il loro intento è fornire dettagliate descrizioni delle differenze esteriori fisiche e comportamentali, cui corrispondono inequivocabilmente, proprio in nome del postulato teorico di fondo di una sostanziale unità psico-fisica, differenze di carattere tra i due sessi, tutte riconducibili all’opposizione diairetica positività vs. negatività o, nella migliore delle ipotesi, assenza di positività. All’interno di questa dicotomia, a convalida delle affermazioni fatte, c’è il ricorso all’esemplificazione tratta dal mondo animale, in nome di una pretesa affinità tra gli esseri umani e gli animali, accettata aprioristicamente e mai messa in discussione, con notazioni suffragate non da considerazioni “scientifiche”, ma da intuizioni empiriche, se non persino da credenze popolari. Si viene perciò a dire che «tra tutti gli animali il leone impersona perfettamente il tipo del maschio» (Ps. Arist., 809b15). A questo si attribuiscono le migliori qualità fisiche, bellezza, forza, muscolosità, vigore ecc., espresse attraverso l’impiego di una serie di termini composti con il prefisso eu- a indicarne la positività, nonché le migliori virtù, tutte riconducibili a un ideale di mesotes, di giusto mezzo. E non è casuale che al leone siano attribuite anche doti di generosità, bontà e mitezza, per cui noi potremmo sorridere, ma che evidentemente nell’immaginario antico non potevano mancare al re degli animali. Viceversa a riprodurre il tipo del femminile è il leopardo, connotato come l’esatto contrappunto del leone (Ps. Arist., 810a), con molteplici difetti, genericamente rapportabili a un’idea di sproporzione, (ad esempio occhi piccoli, collo lungo, cosce carnose, insieme disarticolato e sproporzionato, animo piccino, meschino e scaltro ecc.), spesso evidenziata, a livello verbale, dalla presenza di vocaboli composti con a- privativo. Scaturisce l’impressione che il femminile non interessi tanto di per sé, quanto come il contrario speculare del maschile, il polo negativo che funziona come termine di confronto e che non merita un’indagine particolareggiata.

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Maschile vs femminile: un’opposizione non solo di sesso C’è ancora una considerazione importante, presupposta nel testo pseudo-aristotelico, ma ben evidenziata nei capitoli iniziali dall’Anonimo latino (par. 3): maschile e femminile, in fisiognomica, possono essere anche categorie indipendenti dal sesso anatomico,6 nel senso che in un individuo di sesso maschile possono trovarsi caratteristiche solitamente ascrivibili al sesso femminile e viceversa. Ovviamente, siccome il maschile rappresenta in natura il grado più elevato della classificazione, il massimo della positività sarà trovare in un uomo una prevalenza di note maschili. La mascolinità quindi si presenta come un sistema di segni che si deve imparare ad esibire attraverso il corpo. È evidente che questo aspetto prescrittivo relativo all’apprendimento di come migliorare le potenzialità maschili è secondario, se non assente, nei testi fisiognomici, che, proprio per il loro carattere descrittivo, mostrano direttamente gli indicia in atto, inquadrando una norma comportamentale maschile e le eventuali devianze da questa. Sono invece gli scritti di medicina che ci informano come fosse, ad esempio, compito delle nutrici assistere e quasi forzare lo sviluppo fisico del bambino, secondo linee a lui naturalmente proprie. Da Sorano, medico contemporaneo di Galeno, vissuto quindi nel II secolo d.C., apprendiamo che esisteva una tecnica di massaggi, manipolazioni e trazioni per modellare il corpo del bambino (Gyn., 2, 32), notizia che ricorre anche in Plutarco (Mor., 3e), ma è già presente in Platone (Resp., 377c), che ricorda come le nutrici con le favole plasmino l’animo dei piccoli e con le mani i loro corpi. Galeno poi (in Oribasio, Incerta, 17) raccomanda l’esercizio (askesis), una disciplina che è garante della salute del corpo e della mente e Clemente Alessandrino, che si colloca approssimativamente nello stesso arco cronologico, dà una serie di norme comportamentali (Paidagogos, 3, 11, 74) sull’atteggiamento che un giovane deve tenere (ad esempio, occhi non spalancati e non languidi, collo non reclinato), improntato a un ideale di moderatezza, per non destare insane aspettative. Tutte queste cure, in un certo senso, possono essere concepite come pratiche di iniziazione all’età adulta, in quanto portano allo sviluppo armonico di quei tratti anatomici e di quegli habitus psico-fisici che caratterizzano la sessualità matura.

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La presenza in un individuo di caratteristiche del sesso opposto è ovviamente un fattore negativo, in quanto turba la chiarezza del linguaggio del corpo e diventa segno di un temperamento menzognero (An. Lat., par. 7). Nel maschio poi la negatività è ancor più evidente, in quanto rappresenta un allontanamento dal paradigma ottimale, costituito dalla somma dei tratti mascolini, id est positivi. Il massimo della devianza, in campo maschile, è rappresentato dai tipi che si collocano a metà strada tra l’uomo e la donna: l’androgino (An. Lat., par. 98) e l’effeminato (An. Lat., par. 115; Ps. Arist., 808a12), diversi su un piano anatomico, ma perfettamente sovrapponibili in fisiognomica, laddove la definizione del sesso implica anche caratteristiche non anatomiche. La normativa allora si evince in controluce: occorre evitare il comportamento del cinedo, che ha un’andatura dinoccolata, ancheggia, sbatte le palpebre e soprattutto ha una voce sottile e garrula. La voce infatti nei trattati di fisiognomica ha un’importanza notevole, in quanto funge da selettore tra il maschile e il femminile e, all’interno del maschile, è uno dei parametri su cui si misura lo scarto rispetto al modello ideale. Numerosissimi sono i passi di autori greci e latini che affrontano la questione. Penso, ad esempio ad Aristotele che individua nei toni gravi un indice di nobiltà (Gen. An., 787a3) o ad Aristofane che, nel lodare l’antica educazione, ricorda come in passato nessun giovane modulasse languidamente la voce (Nub., 979 ss.), o a Plutarco (Mor., 780a) che parla con disprezzo di chi ostenta una voce artificiosa, per non parlare poi di Cicerone, Seneca e Quintiliano che a più riprese deplorano l’affettazione e il manierismo. Quintiliano in particolare (Inst., 11, 3) insiste sul fatto che i giovani debbano imparare a declamare in un certo modo, virile e grave e inoltre sottolinea l’importanza della cura della voce, che passa anche attraverso molteplici pratiche corporali (passeggiate, unzioni, continenza e frugalità), per evitare che questa diventi sottile ed esile, come quella degli eunuchi, delle donne e degli infermi. È chiaro che Quintiliano ha di mira la formazione di un retore, ma le sue considerazioni sottintendono un’idea di fondo, onnipresente nel mondo antico: la virilità passa attraverso la parola. Non è quindi un caso che Plutarco, per indicare la parlata degli uomini solitamente usi il verbo legein (dire, parlare), mentre per quella delle donne ricorra (Mor., 142d) al termine lalein (chiacchierare).

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La donna infatti, quand’anche rechi in sé tratti maschili, è sempre connotata da una negatività che è l’espressione non soltanto di una differenza valutata come inferiorità, ma di una privazione di qualcosa che nell’uomo è presente, di una vera e propria menomazione (cfr. Arist., Gen. An., 775a15). Essa si colloca agli antipodi nella scala dei valori, in quanto non ha tutto ciò che l’uomo ha, anzi in lei le caratteristiche positive dell’uomo si riducono al grado zero sino a sconfinare nel segno meno e a convertirsi nel loro contrario (assenza di coraggio → viltà). È questa la ragione per cui, in genere, i testi di fisiognomica concentrano l’analisi quasi esclusivamente sui tratti maschili. Se, infatti, come si è visto, preliminarmente concedono spazio alla descrizione dei segni del corpo femminile, nel prosieguo della trattazione, laddove instaurano una corrispondenza tra tipi etici e precise caratteristiche fisiche e viceversa, pensano a un modello maschile, forse anche perché il destinatario privilegiato di questa trattatistica è l’uomo. In quest’ottica il femminile interviene soltanto qua e là, in seconda battuta e come voce di rimando istituzionalmente e indiscutibilmente carica di connotazioni negative. È emblematica, a questo proposito, un’affermazione dello Pseudo-Aristotele: «Quelli troppo neri sono codardi: si vedano gli Egizi e gli Etiopi. Quelli troppo bianchi, codardi: si vedano le donne. Il colore che concorre al coraggio deve essere quello intermedio tra questi» (812a13 ss.). Sono così associati in un comune giudizio di negatività la donna e il barbaro, i due antipodi rispetto ai quali si definisce la positività della medietas del maschio greco coraggioso.

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Note 1. Per una più ampia discussione sulla fisiognomica nel mondo antico rimando alle pagine introduttive del volume curato da Giampiera Raina, Pseudo-Aristotele, Fisiognomica. Anonimo Latino, Il trattato di Fisiognomica, Milano, Rizzoli, 1993. 2. Così recita il testo latino: § 2 – Primo igitur constituendum est quid physiognomonia profiteatur. itaque ex qualitate corporis qualitatem se animi considerare atque perspicere. Et Loxus quidem sanguinem animae habitaculum esse constituit, corpus autem omne et partes eius quae signa dant, pro vivacitate vel inertia sanguinis et prout tenuis seu crassus magis fuerit vel cum liberos habuerit ac directos meatus vel cum perversos et angustos, dare signa diversa. Ceteri autem tam figuratricem corporis animam esse arbitrantur quam ex qualitate corporis animam speciem mutuari, sicuti humor constitutus in vasculo qui speciem ex vasculo mutuatur et sicut spiritus infusus in fistulam vel in tibiam vel in tubam; nam cum uniformis sit spiritus, diversum tamen sonat tuba, fistula, tibia. § 3 – Prima igitur divisio observationis huius atque discretio ea est ut alterum masculinum genus sit, alterum femininum. Quod non ea ratione accipiendum est qua naturaliter sexus et genera discreta sunt, sed ut plerumque etiam in feminino masculinum genus et in masculino femininum deprehendatur. Denique quod masculinum nos dicimus, , quod femininum, physiognomones dicunt. Primo igitur constituendus est animus masculini et econtra feminini, deinde corporis utriusque designanda indicia sunt et, si non omnia, ea tamen quae viam dare considerationis huiusce possint […]. § 4 – Masculinus animus est vehemens, ad impetum facilis, odii immemor, liberalis, apertus, qui hebetari et circumveniri ingenio arte non possit, vincendi per virtutem studiosus, magnanimus. Femininus animus est sollers, ad iracundiam pronus, tenax odii, idem immisericors atque invidus, laboris impatiens, docilis, subdolus, amarus, praeceps, timidus. § 5 – Veniamus ad indicia corporis masculini. Caput grande, capillus crassior [...]. § 6 – Veniamus ad indicia corporis feminini. Caput breve, capillus […] (Anonimo Latino, parr. 2-6). 3. Cfr., per es., Peri diaites, I, 28: «Nel maschio predomina il fuoco, nella femmina l’acqua». 4. Per una più ampia trattazione sull’argomento cfr. M.M. Sassi, La scienza dell’uomo nella Grecia antica, Torino, Bollati Boringhieri, 1988, pp. 90 ss. 5. Il passo appartiene a quella sezione del trattato in cui più evidente è la matrice ippocratica. 6. Su questo problema cfr. M. Gleason, Making Man. Sophists and SelfPresentation in Ancient Rome, Princeton, Princeton University Press, 1994, pp. 58 ss.

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1. Oltre vent’anni fa un libro di Carolyn Merchant, The Death of Nature, estendeva alla Rivoluzione Scientifica quel che Joan Kelly aveva proposto per il Rinascimento: riesaminare criticamente dal punto di vista delle donne una categoria storica ereditata dalla tradizione storiografica.1 Partendo da una prospettiva femminista ed ecologista, la ricerca di Merchant – come già quella di Kelly nel caso del Rinascimento – approdava a un giudizio fortemente critico sulla Rivoluzione Scientifica: alle origini della scienza moderna Merchant vedeva una nuova concezione della natura, il meccanicismo, che avrebbe sancito simultaneamente, dal Seicento ad oggi, lo sfruttamento della natura, l’espansione colonialistica dell’Occidente e la subordinazione delle donne. Secondo Merchant l’effetto più duraturo e profondo del meccanicismo secentesco – da lei visto in lineare continuità con i presupposti epistemologici della scienza odierna – fu la ridefinizione della natura come materia corpuscolare, passiva e inerte, e perciò manipolabile. Tra XVI e XVII secolo l’immagine di un cosmo organico con al centro una terra intesa come organismo femminile e vivente lasciava posto a una immagine del mondo meccanicista in cui la natura viene ridefinita come passiva, sottoposta al dominio e controllo degli esseri umani.2 Merchant dedicava buona parte del libro a ricostruire concezioni alternative della natura (da John Ray e Evelyn ai due van Helmont, padre e figlio, fino al vitalismo di Leibniz) che già nel Seicento avrebbero prefigurato, a suo dire, una visione “ecologista” ante litteram

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dei rapporti fra esseri umani e mondo naturale. In questo ambito Merchant collocava anche l’opera di alcune donne che partecipano al dibattito seicentesco sulla filosofia naturale: Anne Conway (16311679), la cui originale reinterpretazione del neoplatonismo avrebbe influenzato Leibniz, 3 e la controversa duchessa di Newcastle, Margaret Cavendish, che si allontanò dopo un’iniziale adesione dagli ambienti cartesiani sostenendo che la materia non è passiva ma dotata di intelligenza e che ci ha lasciato, in appendice alle sue Observations upon Experimental Philosophy, anche un’utopia scientifica: la descrizione di un mondo ideale (Description of a New World, called the Blazing World, 1666) in cui, a differenza che nella Nuova Atlantide di Bacone, non c’è “difference of the sexes” e anche le donne hanno un ruolo di guida nella filosofia naturale.4 La tesi di Merchant esprimeva in forma radicalizzata un giudizio negativo sulla Rivoluzione Scientifica che è stato tipico, specialmente negli anni Ottanta, della storiografia femminista. Così per esempio anche Londa Schiebinger, in The Mind has no sex? Women in the Origins of Modern Science (1989), partiva appunto dal proposito di «esplorare il conflitto di lungo termine fra la scienza e quel che la cultura occidentale ha definito come “femminilità”».5 Schiebinger prendeva in esame due aspetti di questo conflitto: la marginalità delle donne rispetto all’attività scientifica e i contenuti del discorso scientifico su donne e gender. Rispetto al primo punto, Schiebinger, assai più che Merchant, ricostruiva un ricco quadro della presenza delle donne in ambito scientifico nel Sei-Settecento, mettendone a fuoco la tipologia. Sembrano esserci state, tipicamente, due vie d’accesso delle donne al mondo culturale della Rivoluzione Scientifica. Le aristocratiche (come Anne Conway e Margaret Cavendish nel Seicento, o nel Settecento Mme du Châtelet, che traduce e commenta i Principia di Newton) partecipano alla discussione teorica di filosofia naturale grazie al fatto che i circoli esclusivamente maschili delle nuove accademie (come la Royal Society e l’Académie des Sciences) erano però in comunicazione col mondo dei salons, in cui le donne svolgevano un ruolo essenziale.6 L’altra via di penetrazione delle donne in ambito scientifico, che Schiebinger documenta soprattutto attraverso esempi tedeschi, è la bottega artigianale: in questo caso le donne partecipano a pratiche d’osservazione in campi che vanno dall’astronomia alla storia naturale e all’illustrazione naturalistica, pra-

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tiche d’osservazione che venivano svolte collaborativamente in famiglia, donne appunto incluse. È il caso di Maria Sibylla Merian, che si occupa di entomologia e botanica preparando ella stessa le illustrazioni per i suoi testi, a cui Natalie Davis ha dedicato di recente un bel saggio, e a cui si potrebbe accostare il caso dell’italiana Giovanna Garzoni.7 A tradizioni artigiane sono legate anche le donne che raggiungono un notevole grado di expertise anatomica attraverso la ceroplastica, come la francese Marie-Catherine Biheron e la bolognese Anna Morandi Manzolini.8 Schiebinger si sofferma soprattutto sul caso dell’astronomia: le tedesche Maria Cunitz, Maria Eimmart, Elisabetha Hevelius, Maria Winkelmann si dedicano all’osservazione astronomica in famiglia, combinando l’attività scientifica col ruolo di figlia, sorella, moglie, nel caso di Winkelmann persino madre (dopo la morte del marito, astronomo all’Accademia delle Scienze di Berlino, Maria cerca di ottenerne il posto senza successo; viene dato a suo figlio).9 Nella misura in cui l’attività scientifica si professionalizza, staccandosi dal mondo dei salons e da quello della bottega artigianale,10 le donne vengono escluse o diventano “assistenti invisibili” – anche se non sempre del tutto invisibili, come nel caso di Caroline Herschel, che lavora all’ombra del fratello William, ma che pubblica sulle Philosophical Transactions e viene eletta membro onorario della Royal Astronomical Society nel 1835.11 Ma tanto Merchant che Schiebinger (nel citato The mind has no sex? come pure nel successivo Nature’s Body. Gender in the Making of Modern Science del 1993) affrontano il rapporto fra donne e Rivoluzione Scientifica soprattutto da un altro angolo, che è proprio quello che riguarda il tema di questo convegno: corpi e scienza. E qui la domanda è: quali sono le conseguenze della Rivoluzione Scientifica sulla visione del corpo e della differenza sessuale? Schiebinger risponde: Ci aspetteremmo mutamenti importanti nella comprensione del ruolo delle donne nella società e nella natura durante la Rivoluzione Scientifica […] Quel che troviamo invece è che la scienza di età moderna – nonostante la sua conclamata pretesa di innovazione – è stata curiosamente silenziosa sul problema del gender. Solo ben oltre l’inizio del XVIII secolo gli scienziati (specialmente gli anatomisti) intrapresero una riforma sistematica delle definizioni della sessualità.12

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La Rivoluzione Scientifica, sostiene Schiebinger, non intaccò il dogma della superiorità maschile né portò nuova luce sul problema della differenza sessuale. Similmente Merchant aveva scritto: «Per le donne questo aspetto della Rivoluzione Scientifica non comportò innovazione intellettuale e la liberazione da antichi pregiudizi».13 È un giudizio che troviamo, anche se in misura più sfumata, in altri testi usciti in questi anni, per esempio nel saggio di Evelyne Berriot-Salvatore, Il discorso della medicina e della scienza.14 Ed è su un esame critico di questo giudizio che vorrei soffermarmi in questo intervento. 2. Il punto è che questo giudizio non regge, a mio parere, né a un confronto con le fonti né con quanto la storia della scienza tradizionale aveva già messo in luce indiscutibilmente. È un fatto incontrovertibile che nella medicina e storia naturale della seconda metà del Seicento si siano verificate due innovazioni (se non vogliamo chiamarle scoperte) fondamentali, già agli occhi dei contemporanei, non solo ai nostri: a) l’ipotesi ovista, l’ipotesi cioè che anche negli animali vivipari la riproduzione avvenga per ovulazione, ipotesi che conduce rapidamente gli anatomisti a riconcettualizzare i cosiddetti “testicoli femminili” e a ribattezzarli come ovaie, cosa che avviene alla fine degli anni Sessanta del Seicento soprattutto per iniziativa di alcuni anatomisti danesi e olandesi;15 b) l’osservazione di “animalcoli” nel seme maschile, che risale agli stessi anni (1677) e che è dovuta anch’essa a un naturalista olandese, Antoni van Leeuwenhoek.16 Ora, è verissimo che queste nuove ipotesi ed osservazioni non condussero immediatamente a una nuova teoria della generazione. Quel che i contemporanei non videro fu proprio quel che sembra così ovvio ai nostri occhi: la loro complementarietà. Apparentemente le due scoperte sembrano strettamente connesse: avvengono in paesi vicini, a distanza di un decennio l’una dall’altra e in un campo scientifico – quello della generazione – che sembra, almeno ai nostri occhi, unitario. Ma in realtà – come ha fatto osservare oltre vent’anni fa Jacques Roger, il grande storico delle “scienze della vita” del Seicento e Settecento – le due scoperte, per quanto simultanee, erano solo casualmente collegate: non furono fatte nello stesso

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settore di ricerca, ma in due “campi epistemici” assai diversi.17 Per noi, ovulo e spermatozoo sono rispettivamente il gamete femminile e maschile la cui unione forma la cellula primigenia di un nuovo essere vivente. L’esistenza, la produzione, la struttura anatomica dell’uno e dell’altro sono rilevanti per lo stesso problema scientifico: la fisiologia della riproduzione. Ma non era così in età moderna. La ridefinizione dei “testicoli femminili” come ovaie avvenne nel campo della ricerca anatomica; la scoperta degli spermatozoi invece in quello della micrografia, che era allora interamente separata dall’anatomia e fondamentalmente dedicata alla ricerca del meraviglioso e dell’inaspettato.18 Ma anche se queste “scoperte” non portarono immediatamente a una nuova teoria della generazione, non c’è dubbio però che entrambe sconvolgessero profondamente il modo tradizionale di vedere corpi femminili e maschili. I “testicoli femminili” erano stati descritti dagli anatomisti, da Galeno al Rinascimento, come una versione inferiore del corrispondente organo maschile: più piccoli, più freddi, e conseguentemente meno efficienti nella produzione di seme. Riconcettualizzarli come ovaie implicava attribuire loro natura e funzione specifiche, senza un corrispettivo nel maschio. Questo andava contro una tradizione medico/filosofica millenaria che (tanto nella più rigida versione aristotelica come nella più sfumata versione galenica) aveva sistematicamente visto il corpo della donna come una variante inferiore di quello dell’uomo, e che quindi di per sé ostacolava la messa a fuoco della specificità anatomica femminile.19 Ma forse un effetto ancor più dirompente rispetto alla tradizione dotta aveva la seconda innovazione: l’osservazione di “animalcoli” nel seme. Accettarne primo l’esistenza, e soprattutto la possibilità che avessero una funzione generativa era ancora più difficile, perché implicava abbandonare un presupposto fondamentale: la credenza nella natura esclusivamente spirituale del contributo maschile alla generazione – una credenza che è comune, nel Cinquecento e ancora nel Seicento, tanto a tradizionalisti aristotelici che a innovatori paracelsiani.20 La storia delle reazioni alle due “scoperte”, come l’ha ricostruita già molti anni fa Jacques Roger, è istruttiva a questo proposito. L’ipotesi ovista ebbe un enorme (anche se non totalmente incontrastato) successo: nel Settecento solo pochi anatomisti e naturalisti

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credono ancora che le ovaie siano testicoli, ossia producano un seme femminile. Viceversa, l’ipotesi di Leeuwenhoek che gli animalcoli spermatici costituissero il primo nucleo dell’embrione incontra prevalentemente scetticismo, e la stessa esistenza degli animalcoli viene spesso negata. A metà Settecento, tutti credevano nell’esistenza delle “uova” dei vivipari, anche se nessuno le aveva effettivamente mai viste (c’era chi, come De Graaf e Malpighi, aveva creduto di averle viste); mentre non si sapeva che fare degli animaletti spermatici che chiunque poteva osservare al microscopio. In altre parole, per gli anatomisti e i naturalisti di età moderna fu relativamente facile accettare l’evidenza che suggeriva che le donne, come molti animali, contribuissero con un “uovo” alla generazione. Assai più resistenza fu opposta invece all’ipotesi che il contributo maschile alla generazione fosse non un elemento spirituale e nobilissimo, analogo alla natura degli astri, come voleva la tradizione aristotelica, ma un piccolo animale dotato di coda, come vengono descritti gli spermatozoi.21 Su tutto questo è stata fatta sinora assai poca luce. Il problema è che gli storici della scienza, come appunto Roger, hanno letto queste vicende esclusivamente in chiave di storia dell’embriologia (in relazione cioè al dibattito su epigenesi e preformismo)22 e hanno ignorato invece quel che tutto questo comportava per la concezione della differenza sessuale (del resto non si ponevano proprio il problema di indagare la storia delle idee sulla differenza sessuale). D’altro canto, la storiografia femminista di Merchant e Schiebinger ha sorvolato frettolosamente su questi episodi sostenendo che non comportavano novità decisive per quel che riguarda la concezione della differenza sessuale. Merchant fa solo un brevissimo cenno a Leeuwenhoek e prende in considerazione solo il primo proponitore dell’ipotesi ovista – William Harvey – per ribadire come Harvey, nel solco della tradizione aristotelica, avrebbe continuato ad attribuire un ruolo passivo alla femmina nella generazione.23 Pur ammettendo il contrario di questo (e cioè che Harvey si distacca da Aristotele nel vedere anche la madre, non solo il padre, come causa efficiente dell’embrione), Merchant sostiene che «lungi dal sostenere l’eguaglianza di principio maschile e femminile nella riproduzione, le teorie di Harvey restano nel solco della tradizionale credenza nella superiorità maschile».24

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Anche Schiebinger sorvola frettolosamente su quel che succede nella seconda metà del Seicento sostenendo che, se ci fu un mutamento per quel che riguarda gli organi della riproduzione, non ci fu in questo periodo innovazione nel modo di vedere i caratteri sessuali secondari (e quindi il gender). A suo dire, anatomisti e filosofi del Seicento e primo Settecento continuano a vedere il corpo maschile come la norma da cui la donna si differenzia solo negli organi riproduttivi, e non si pongono quindi il problema di mettere fuoco la specificità femminile in quelli che noi chiamiamo “caratteri sessuali secondari”. La vera svolta sarebbe avvenuta, secondo Schiebinger, solo a metà Settecento, come indicato dal fatto che in questo periodo compaiono, nei testi di anatomia, le prime rappresentazioni dello scheletro femminile, in cui vengono sottolineati tratti – quali le dimensioni del teschio e del bacino – che fungono da indicatori della specificità, ma anche, ancora una volta, dell’inferiorità femminile.25 Perché questa disattenzione sistematica per il Seicento e questa insistenza sulla seconda metà del Settecento? Perché fondamentalmente Schiebinger vede le innovazioni in anatomia come riflesso di trasformazioni politiche, e vuole far coincidere quella che chiama «la rivoluzione nelle concezioni della differenza sessuale» con le rivoluzioni politiche del tardo illuminismo. In questo Schiebinger segue le tesi di Tom Laqueur, che, in Making Sex. Body and Gender from the Greeks to Freud (1990) ha sostenuto che la categoria di differenza sessuale compare nella cultura medica europea per la prima volta a fine Settecento: prima, a suo dire, esisteva per gli anatomisti un solo sesso, quello maschile. Secondo Laqueur, la specificità femminile sarebbe stata messa a fuoco e anatomizzata solo quando, nel clima rivoluzionario del tardo Illuminismo, le donne avanzano pretese di diritti nella sfera politica, e si risponde loro con una scienza che sottolinea la loro differenza, ma per confinarle in una “sfera separata” dalla politica. Anche Laqueur, come Schiebinger, salta a piè pari la medicina dell’età della Rivoluzione Scientifica, negando che vi sia in essa un vero interesse per il problema della differenza sessuale.26 3. Ma questo non sembra corrispondere a quanto troviamo nelle fonti. Al contrario le fonti indicano, come un dato macroscopicamente evidente, che la distinzione tra i sessi diventa un oggetto di vivo inte-

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resse per filosofi, medici e naturalisti già nel tardo Rinascimento, ancor prima che nel Seicento (e ciò in notevole contrasto con la medicina scolastica medievale).27 Questo nuovo interesse fu in parte conseguenza della crisi delle strutture mentali scolastiche, al cui interno la differenza sessuale era stata categorizzata, seguendo Aristotele, come un aspetto “accidentale” (non essenziale) della natura di uomini e animali. La differenza sessuale era qualcosa di “accidentale” per Aristotele perché ineriva alla materia, non alla forma. Come leggiamo nella Metafisica (X, 1058b, 5-7 e 21-24): «Maschio e femmina sono attributi peculiari dell’animale, ma non in virtù della sua essenza; essi sono materiali o fisici» e «la materia non crea differenza». Per Aristotele, l’essenza, ovvero la forma, umana è quella maschile, trasmessa solo dal padre e che in parte si perde ogni volta che il frutto della generazione è una femmina, cioè un maschio imperfetto.28 Tutto questo aveva importanti conseguenze intellettuali: in quanto componente inessenziale della definizione della specie, la differenza sessuale non era, da un punto di vista aristotelico, una categoria centrale dell’indagine filosofica sulla natura. A fine Cinquecento, i testi anatomici partono ancora, in genere, da questa definizione aristotelica della differenza sessuale, ma ne mettono in discussione vari aspetti. La influente Historia anatomica humani corporis (1593) del medico di Montpellier André du Laurens, in una sezione dedicata a questioni anatomiche controverse fra cui appunto la sexuum diversitas, esordisce richiamando la dottrina aristotelica: Queste differenze fra i sessi non determinano differenze essenziali dell’animale […] poiché differenze essenziali corrispondono a nature di specie diverse, e maschio e femmina sono sempre nella stessa specie […]. I due sessi differiscono solo in taluni accidenti.29

Ma qualche riga dopo aver citato questa tradizionale definizione scolastica, du Laurens rigetta nel modo più esplicito e deciso un suo fondamentale corollario, il luogo comune aristotelico della donna come «primum monstrum in natura» e «animal mutilum, occasionatum»: «Non approviamo questa opinione di Galeno ed Aristotele. Riteniamo infatti che la Natura intenda tanto la generazione della femmina che del maschio: dire che la donna sia un errore o un passo falso della Natura è indegno di un filosofo». Anzi, soggiunge du Laurens, è un’opinione «da barbari».30

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Affermazioni come questa, che implicano il rigetto della tradizionale definizione aristotelica della donna come “errore della natura”, si trovano sorprendentemente spesso nei testi anatomici e medici fra Cinquecento e Seicento. Sono prominenti in particolare nelle opere mediche dedicate alle malattie femminili, un genere ippocratico che conosce nuova fortuna a fine Cinquecento.31 Così per esempio il medico spagnolo Luiz de Mercato scrive nel 1579: Non penso che la femmina sia più imperfetta del maschio. Infatti la perfezione di tutte le cose naturali va investigata senza dubbio in relazione al fine perseguito dalla natura […]. E considerando il fine [per cui la donna è stata creata] sono indotto a credere senza dubbio che la femmina sia, rispetto all’uomo, parimenti perfetta.32

Gli fa eco negli stessi anni Girolamo Mercuriale, nelle sue lezioni romane sulle malattie femminili: Non so stupirmi abbastanza di Aristotele, che disse che le donne e le femmine tutte sono dei mostri: infatti sia che guardiamo alla forza delle femmine nella propagazione della specie (cosa pertinente alla natura) sia che consideriamo l’utilità delle donne per una vita buona e felice, vediamo chiaramente che la femmina non è affatto un mostro, come diceva Aristotele, ma piuttosto un obiettivo primario dell’intenzione della natura.33

Come si vede, Mercuriale rigetta la definizione aristotelica della femmina per ragioni tanto naturali che sociali; un’indicazione importante di una nuova sensibilità rispetto al valore sociale delle donne. Voci come queste fanno parte di quel trend intellettuale che Ian Maclean ha chiamato «femminismo galenista», un intrigante aspetto della cultura medica di fine Rinascimento che non è stato finora pienamente ricostruito dagli storici.34 In The Renaissance Notion of Woman Maclean ha descritto «la curiosa combinazione di medici che si proclamano galenisti e femministi», suggerendo che «è possibile sostenere l’esistenza di un movimento femminista negli ambienti medici» della prima età moderna; un fenomeno che colpisce particolarmente se confrontato con il forte conservatorismo che troviamo, in contrasto, nell’ambito della teologia.35 A fine Cinquecento la visione aristotelico-scolastica della donna come “maschio imperfetto” è rigettata da un largo numero di autori e sostituita con la tesi che entrambi i sessi sono necessari alla riproduzione e che ciascuno di

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essi è “perfetto” in relazione alla propria funzione. Molti autori medici abbandonano il parallelismo galenico dei genitali maschili e femminili, che enfatizzava l’inferiorità femminile.36 I genitali dei due sessi, sostiene du Laurens, non differiscono solo per sito (all’esterno quelli maschili, all’interno quelli femminili, come credevano gli antichi) «ma per numero, forma e struttura». Coloro che vogliono attribuire alla cervice dell’utero la forma rovesciata di un pene virile, dicono delle grandissime assurdità. Infatti la cervice dell’utero ha un’unica cavità, ed è un canale oblungo a mo’ di vagina atto a ricevere il pene virile; mentre il pene virile invece è formato da due nervi cavi e dal canale comune al seme e all’urina […] e in esso non si osserva una cavità così grande come nella cervice dell’utero… In qualunque modo quindi tu possa rovesciare [all’esterno] la cervice dell’utero, mai da essa potrai formare un pene: infatti da un unico corpo non se ne possono formare tre, e il pene è formato da tre corpi cavi […] mentre la cervice dell’utero è un’unica cavità.37

Né, prosegue du Laurens, «vi è vera similitudine fra il pene e la tentigo degli antichi, detta clitoride da Falloppio; come non ve n’è del resto fra il fondo dell’utero e lo scroto»; non solo, ma «testicoli virili e muliebri differiscono nel modo in cui sono collegati ai vasi spermatici, nonché per figura, dimensione, sostanza e struttura».38 Nell’anatomia di fine Cinquecento c’è un nuovo interesse, come si vede, per la specificità e peculiarità del corpo muliebre: vi è un nuovo senso che l’anatomia femminile non può semplicemente essere desunta da quella maschile ma richiede, come scrive du Laurens, «una peculiare descrizione».39 Lo prova il nuovo interesse per l’utero, che lungi dall’essere descritto come un organo inferiore, è fatto oggetto dagli anatomisti di ammirato elogio.40 Lo prova ancora la “riscoperta” del clitoride, che si associa a una nuova, intensa attenzione per i fenomeni di ermafroditismo e per l’omosessualità femminile. 41 «Alla fine del Cinquecento», conclude Maclean, «molti medici sono convinti che la concezione della donna sia mutata, e che essa abbia raggiunto una nuova dignità grazie alla cancellazione dello stigma di imperfezione».42 Non era peraltro la prima volta che tesi come queste venivano avanzate nella cultura filosofica europea. In realtà, la visione aristotelica della donna viene messa in discussione per la prima volta non dai “galenisti femministi” di fine Cinquecento, come du

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Laurens, ma già ai primi del Cinquecento nei testi della Querelle des femmes, una discussione vista di solito come limitata all’ambito letterario, ma che ebbe un’importante componente medico-filosofica. Si potrebbe dire in effetti che vi fu una Querelle des femmes anche nella medicina rinascimentale.43 Argomenti medici contro il tradizionale assunto dell’inferiorità femminile sono presenti nelle opere della Querelle sin dal libro che ne può essere considerato il vero e proprio Urtext: il De nobilitate & praecellentia foeminei sexus, (1509, pubbl. 1529) di Cornelio Agrippa.44 Usando Galeno e Avicenna contro Aristotele, Agrippa ribalta le tradizionali tesi scolastiche sull’imperfezione del corpo femminile. Innanzi tutto egli nega che il contributo della donna alla generazione sia inferiore a quello maschile. In realtà, sostiene Agrippa, la natura ha dato alle donne un ruolo superiore a quello degli uomini nella procreazione, come possiamo vedere chiaramente dal fatto che solo il seme femminile, come attestato da Galeno e Avicenna, è materia e nutrimento del feto, mentre il seme maschile lo è solo in minima parte, in quanto entra [nella composizione del feto] solo come un accidente della sostanza.45

Per Aristotele, il fatto che la donna fornisse la materia passiva dell’embrione e che di converso il seme maschile non contribuisse neanche un briciolo di materia ma solo la forma, cioè l’elemento spirituale e attivo, era naturalmente un argomento decisivo per sostenere l’inferiorità del contributo femminile alla generazione. Agrippa usa lo stesso argomento, con premesse rovesciate, per sostenere il contrario: è la materia che conta nella generazione, e dunque è il contributo maschile ad essere inferiore. In generale, Agrippa oppone all’immagine aristotelica della donna come errore della natura una nuova enfasi sugli aspetti mirabili del corpo femminile come «miraculum naturae», capolavoro di una natura infinitamente virtuosa. 46 Varrebbe la pena di esplorare più a fondo la presenza di argomenti medico-filosofici nei testi della Querelle della prima metà del Cinquecento, alcuni dei quali, come per esempio i Triumphes de la noble & amoureuse dame di Jean Bouchet (1530), contengono anche una sezione sulle malattie femminili,47 e sembrano quindi aver anticipato la ripresa del genere ippocratico dei trattati sui morbi muliebri della seconda metà del Cinquecento. È interessante inoltre che alcuni testi della Querelle siano scritti da medici, in particolare

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nell’ambito del genere cinquecentesco dei Paradoxa medica, per esempio il Paradoxe pour les femmes (1553) del medico ed anatomista parigino Charles Estienne,48 indebitato ai celebri Paradossi del misterioso medico (e assai probabilmente eretico) italiano Ortensio Lando.49 Una strategia di argomentazione basata sul paradosso (nel senso rinascimentale di veicolo per introdurre la novità intellettuale, l’inaudito, quel che va contro i canoni della tradizione e della dottrina) è caratteristica della Querelle nel Cinquecento.50 Nei Paradossi di Lando (1544) alla tesi «Che la donna è di maggior eccellentia che l’huomo» si affiancano argomentazioni mediche contro la teoria aristotelica della generazione e il ruolo limitato che essa attribuiva alla femmina. Per esempio nel “paradosso” volto ad argomentare «Che Aristotele fusse non solo un’ignorante, ma anche lo più malvagio huomo di quella età», Lando sostiene che quel «buffallaccio, ignorantone» di Aristotele «errò bruttamente dicendo che lo seme dava solamente lo principio motivo al sangue mestruale, si che egli avesse ragion solo di opifice e non che di quello si componesse l’animale».51 L’anti-aristotelismo è una caratteristica di tempo lungo della Querelle des femmes: da Agrippa ai primi del Cinquecento a Pollain de la Barre a fine Seicento, le argomentazioni medico-filosofiche in favore delle donne sono contrassegnate da una forte polemica contro l’aristotelismo scolastico. Come confesserà candidamente l’ex-gesuita Poullain de la Barre nel 1674: «Quando ero uno scolastico, vedevo le donne scolasticamente, e cioè come mostri, o come esseri inferiori all’uomo, perché Aristotele ed alcuni teologi che avevo letto, le definivano così».52 Anche il femminismo cartesiano di Poullain è parte di questa lunga ondata di reazione contro lo scolasticismo. Se nei testi della Querelle l’aristotelismo era stato attaccato con l’arma sommaria del paradosso, nei trattati medici della fine del Cinquecento si profila un vero e proprio programma di ricerca alternativo alla nozione tradizionale della donna. Si nota soprattutto una nuova centralità della differenza sessuale come categoria chiave nell’indagine sulla natura. Gli stessi autori che rigettano la visione della donna come monstrum o mas occasionatus mettono in discussione anche la tesi aristotelica che la differenza sessuale sia limitata agli animali superiori (quelli dotati di sangue, come aveva ribadito Alberto Magno nel Trecento)53 e non esista nel mondo delle piante. Così per esempio Luiz de Mercado richiama, contro Aristotele, le autorità

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antiche, come Teofrasto, Dioscoride e Plinio, che avevano attribuito ad alcune piante carattere maschile o femminile, spingendosi fino a generalizzare che «la causa di ogni fecondità sta nella distinzione dei sessi».54 Aprendo il suo trattato sui morbi muliebri Rodrigo da Castro sottolinea la centralità della differenza sessuale nell’intera natura, incluse non solo le piante ma perfino i minerali e gli astri: I filosofi attribuiscono a due elementi forza attiva e quasi maschia, ad altri due, forza passiva e femminea; così gli astrologi individuano fra i segni (zodiacali) alcuni maschili altri femminili; e gli alchimisti riconoscono entrambi i sessi nel genere dei metalli; l’opinione di Aristotele, che aveva scritto che nelle piante non c’è distinzione di maschio e femmina, è confutata da Dioscoride, Teofrasto, Plinio e da altri scrittori di botanica (res herbaria) e zelanti osservatori della natura.55

Già nel tardo Rinascimento quindi si profila la tesi che la distinctio sexus pertenga anche al mondo delle piante, una tesi che avrà rinnovata fortuna presso i naturalisti della seconda metà del Seicento. 4. Il “femminismo galenista” del tardo Rinascimento non è che il prodromo di una più ampia sfida al modello tradizionale della differenza sessuale, che acquista sempre maggiore intensità nel corso del Seicento. Nell’arco del secolo infatti la definizione della differenza sessuale muta profondamente. Possiamo misurare questa trasformazione confrontando la voce sexus nei dizionari filosofici. Ai primi del Seicento, nel Lexicon philosophicum di Goclenius (1613) leggiamo ancora: «Differt mas a foemina accidentaliter» («il maschio differisce dalla femmina in ragione di un accidente»): siamo ancora, come si vede, nell’ambito della definizione aristotelica.56 Ma a quasi un secolo di distanza, nel Lexicon philosophicum di Etienne Chauvin (1692), che tiene conto delle innovazioni apportate dalla ricerca anatomica (contiene per esempio la nuova voce ovarium) la definizione è molto diversa: «Il sesso perviene alla considerazione del corpo dell’animale, in qualità, come si suol dire, di sua intrinseca essenza (adjunctum intrinsecum)».57 Nell’arco di un secolo, come si vede, la definizione filosofica del sesso passa dal contrassegnare un tratto accidentale del corpo animale a definirne invece un carattere essenziale.

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A differenza di quanto hanno sostenuto Schiebinger e Laqueur, dunque, il modello antico della differenza sessuale viene messo in discussione nel corso del Seicento in alcuni aspetti essenziali. Viene abbandonata innanzi tutto la definizione metafisica della differenza sessuale come “accidente”, col suo corollario per cui la femmina è solo una variante inferiore del tipo maschile. Solo il rigetto di queste premesse avrebbe potuto consentire l’intenso lavoro di ricerca sul contributo femminile alla generazione che condusse alla formulazione dell’ipotesi che rivoluzionò la ricerca sulla generazione nella seconda metà del Seicento: l’ipotesi ovista. E in effetti, come abbiamo visto, la “riscoperta” delle ovaie – in altre parole, la loro ridefinizione come un organo specificamente e peculiarmente femminile – fu preceduta da una intensa stagione di scritti medici che argomentavano, contro la tradizionale visione scolastica, che la donna non è una versione inferiore dell’uomo e che uomini e donne sono opere della natura parimenti perfette e parimenti necessarie alla generazione. Altri importanti aspetti della dottrina antica sulla differenza sessuale (tanto aristotelica che galenica) vengono abbandonati nel corso del Seicento. Per esempio non si crede più, come si era creduto dall’antichità al Rinascimento, che i fluidi sessuali, seme e latte, derivino dal sangue per maggiore o minore “cozione”. E viene a mancare quindi un corollario importante della visione tradizionale della differenza fra i sessi, l’idea cioè che il corpo femminile sia inferiore al maschile perché non è in grado di cuocere o trasformare il sangue in seme perfetto. Molta ricerca anatomica viene indirizzata nel Seicento a trovare una nuova spiegazione dell’origine dei fluidi sessuali. In particolare la scoperta dei vasi lattei suggerì che il fluido biancastro in essi osservato potesse essere la sostanza da cui si forma il latte. Quanto al seme, viene avanzata invece l’ipotesi che esso derivi da un fluido che scorre nei nervi, il cosiddetto succus nerveus.58 In conseguenza di tutto questo, nella medicina del Seicento, la credenza nel corpo maschile come paradigma della fisiologia umana attraversò una crisi prolungata. Un segno rivelatore di questa crisi fu l’improvvisa crescita e diffusione di osservazioni su casi di uomini «mestruanti» o «lactiferi».59 La possibilità di mestruazione vicaria o di vera e propria lattazione nei maschi era già stata descritta nella medicina antica, ma nel Cinquecento e ancor più nel Seicento vi è una straordinaria voga per l’osservazione di tali casi, minuziosamente

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descritti e catalogati nei repertori medici sotto le voci di menstrua marium e lac virorum.60 I periodici delle società dotte del Seicento contengono un ampio corpus di queste storie. Lungi dall’essere mere curiosità, queste “osservazioni” erano collegate al problema aperto dalla crisi secentesca dell’antico modello della differenza sessuale. Il problema di fondo era il carattere paradigmatico del corpo maschile come prototipo della fisiologia umana in genere. È stato sostenuto (da Schiebinger e da Laqueur) che questa visione del corpo centrata sul maschio restò indiscussa e incontestata nella medicina europea fino all’Illuminismo.61 Ma la diffusione di storie di uomini mestruanti o lactiferi nella letteratura medica del Seicento confuta questa tesi, indicando invece, almeno in alcuni autori, un certo scetticismo circa l’assioma della superiorità maschile e un nuovo interesse a esplorare la fisiologia umana anche attraverso la lente del corpo femminile. Come fu possibile un mutamento intellettuale così radicale? Un fattore cruciale di questo sviluppo fu certamente la nuova centralità dei fenomeni straordinari o “mostruosi” nell’osservazione medica e naturalistica. Studi recenti sulla storia intellettuale della prima età moderna hanno mostrato come un nuovo interesse per il “preternaturale”, l’insolito, il meraviglioso giocò un ruolo decisivo nella filosofia naturale del Seicento.62 L’acuto interesse per questo tipo di fenomeni derivava dal rigetto della filosofia naturale scolastica che, occupandosi solo di universali e regolarità, aveva escluso dall’ambito di indagine ogni evento strano o singolare. Per i naturalisti del Seicento, in contrasto, i fenomeni strani e sorprendenti assunsero una importante funzione epistemologica. Erano quel che non trovava posto o spiegazione nei sistemi filosofici esistenti e apparivano quindi, per così dire, come noccioli di pura esperienza, incontaminata dalla teoria, quindi come un punto di osservazione privilegiato per una ricerca veramente innovativa sulla natura. Questo atteggiamento trionfa nella medicina del Seicento e mostra ancora non poca vitalità nel secolo successivo, quando le discussioni delle accademie, le dissertazioni dottorali presso le facoltà mediche e i trattati di anatomia continuano a dare ampio spazio al tema delle insolitae viae della natura, cioè a quei fenomeni che appaiono come una deviazione della natura dal suo corso abituale (come si vede, con buona pace di Merchant, la natura è tutt’altro che “morta” nella medicina secentesca: non è affatto passiva e inerte, ma continua ad avere “intenzioni” e “abitudi-

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ni”). «Insolitae viae» è una voce standard nei repertori e bibliografie mediche di questo periodo. Così, per esempio, troviamo lunghe liste di testi sulle “insolite vie” di mestruo, latte, parto, perfino del seme.63 L’assunto degli autori che raccolsero questi casi era che gli intenti nascosti della natura possono meglio essere colti rilevando il suo operato in circostanze straordinarie. Questo spiega perché gli autori medici d’età moderna prendessero sul serio fenomeni aberranti come i casi di lattazione o perfino di “mestruazione vicaria” negli uomini quando cercavano di spiegare la natura della differenza sessuale. Fenomeni che noi considereremmo anomali e quindi marginali erano visti spesso invece come il punto di partenza del nuovo sforzo di riconcettualizzazione ed osservazione. L’empirismo radicale degli osservatori della prima età moderna cercò di mettere da parte il quadro teoretico ereditato dagli antichi col concentrare l’attenzione sulle “vie insolite” della natura. Più insolite queste vie, più improbabile era, ai loro occhi, che l’osservazione venisse sviata da dottrine preconcette o da sistemi speculativi. Solo un empirismo così radicale poteva far breccia negli strati pluricentenari della credenza nella superiorità maschile, aprendo la strada a una nuova capacità di vedere positivamente il corpo femminile. Nella medicina del Seicento la differenza sessuale non era più una dottrina saldamente ancorata all’assunto della superiorità maschile; era divenuta – forse per la prima volta nella storia intellettuale europea – un problema aperto. È significativo che la relazione tra i sessi, tradizionalmente centrata sulla somiglianza (ovvero sulla omologazione del femminile al maschile) venisse ora denominata invece attraverso l’ossimoro similitudo dissimilis: «a most resembling unlikeness, and most unlike resemblance», come traduce Milton:64 un’evidente somiglianza mista a un’inquietante, ancora inspiegata, differenza. Due cose sembrano andare insieme, nella medicina e storia naturale di questo periodo. La nuova, positiva percezione del corpo femminile come prodotto dell’intenzione della natura si accompagnò ad un nuovo interesse per la differenza sessuale come chiave di classificazione per l’intero mondo organico. Potremmo dire che per i naturalisti europei della prima età moderna la differenza sessuale, un tempo concettualizzata dalla scolastica aristotelica come aspetto accidentale della natura, divenne invece un tratto essenziale del mondo naturale e un campo fondamentale di indagine. Certamente i natura-

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listi del Sei e Settecento non possono essere accusati di aver prestato scarsa attenzione al problema della differenza sessuale: al contrario, essi tesero piuttosto a sovrastimarne l’ubiquità in natura, universalizzando la riproduzione sessuata e conseguentemente il dimorfismo sessuale.65 Una espressione di questo atteggiamento fu la decisione di Linneo, a metà Settecento, di fondare la tassonomia botanica sulla sessualità delle piante,66 anche questa una novità lentamente preparata sin dal Rinascimento, come abbiamo visto, a partire dalla messa in dubbio della negazione aristotelica di una differenza per sesso nel regno vegetale.67 5. È in questo contesto che vorrei discutere, in conclusione, un episodio interessante nella storia della cultura scientifica europea, su cui Schiebinger ha portato l’attenzione in Nature’s Body: la classificazione dell’uomo come mammifero, introdotta anch’essa da Linneo a metà Settecento.68 L’espressione mammalia fu coniata dal naturalista svedese per sostituire la categoria aristotelica di quadrupedia, entro cui era stata tradizionalmente collocata la specie umana nel quadro del mondo animale. Linneo definisce mammalia la prima classe del regno animale, quella appunto che comprende gli animali più simili all’uomo per struttura, visceri ed organi: solo questi animali, come l’uomo, hanno le mammelle. E la maggior parte, ma non tutti, sono quadrupedi: creando questa nuova classe, infatti, Linneo riuniva in un’unica categoria i vivipari terrestri e marini (i cetacei), che fino ad allora erano stati classificati separatamente dagli altri vivipari.69 Perché Linneo scelse un attributo femminile, la mammella, come tratto distintivo della classe di animali cui appartiene l’uomo? C’è chiaramente una frattura profonda tra questa nuova tassonomia animale e la tradizione filosofica per cui il prototipo della specie era definito invariabilmente dal corpo maschile. Come si spiega questa innovazione? Londa Schiebinger ha offerto una spiegazione legata all’atteggiamento di Linneo verso la maternità e l’allattamento. Secondo Schiebinger, la creazione da parte di Linneo del termine mammalia per la classe di animali che include l’uomo fu dovuta alla forza sociale che aveva in quel momento l’immagine della madre che allatta, un’immagine che aveva forte presa simbolica non solo su Linneo ma su molti dei suoi contemporanei. Linneo, ella sostiene «si unì alla

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campagna dei suoi contemporanei per abolire l’antico costume del baliatico mercenario perché riteneva, come scienziato, che l’allattamento non materno violasse le leggi di natura». Evidenziando come fosse naturale per le femmine della specie umana allattare e allevare i loro piccoli, la tassonomia di Linneo – conclude Schiebinger – avrebbe contribuito a legittimare una nuova visione della maternità rivestendola dell’autorità morale della natura. Col termine mammalia, in altre parole, Linneo avrebbe proiettato nella descrizione scientifica della natura un’immagine sociale della maternità.70 Ma è facile vedere quale è il punto debole della argomentazione di Schiebinger: è vero che Linneo fu un convinto sostenitore dell’allattamento materno71 ma egli non fu certo il primo medico europeo a disapprovare il baliatico e ad aderire a una campagna di opinione medica a favore dell’allattamento materno.72 Nessuno dei suoi predecessori peraltro suggerì mai neppure lontanamente che il seno fosse il tratto distintivo della classe di animali cui appartiene la specie umana. La vera e più significativa novità, nell’atteggiamento di Linneo, non era il suo essere a favore dell’allattamento materno, ma la sensibilità intellettuale che lo indusse a attribuire carattere paradigmatico al corpo femminile. Quando l’uomo diventa un mammifero, infatti, il corpo maschile non è più il prototipo della specie, il paradigma che la definisce nei suoi tratti essenziali. Questo distacco dalla tradizione fu percepito dai contemporanei di Linneo: e infatti, nonostante il neologismo mammalia si diffonda rapidamente fra Sette e Ottocento non solo nel latino dei dotti ma anche nelle varie lingue europee, il termine incontrò anche difficoltà e rifiuti. Le ragioni di questo sono indicate con chiarezza da un passo del naturalista Jacob Theodor Klein, che nel giustificare la sua scelta di mantenere il termine quadrupedia contro il mammalia di Linneo scrive: «Il dottissimo Linneo desunse gli ordini dei quadrupedi dai denti, i generi dalle mammelle; ma non vorrei con questo […] che tu [lettore] pensassi che i maschi siano così trasformati nel sesso inferiore». La categoria mammalia, argomenta Klein, rischia di confondere le gerarchie sessuali del senso comune. Adottando questo termine, egli teme, potrebbe accadere che «un incompetente (rerum imperitus) avendo a che fare con una leonessa, dirà che si tratta di un leone con le mammelle e senza criniera, ignorando che il genere maschile negli animali come pure nell’uomo, principe di tutti gli es-

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seri animati, supera per forma, facoltà e molte altre prerogative il sesso femminile».73 Quel che turbava i contemporanei di Linneo era proprio la sfida che il termine mammalia rappresentava rispetto al principio convenzionale della superiorità ed esemplarità maschile. E dunque come si spiega questa innovazione di Linneo? Non si tratta, io credo, di un episodio isolato. La riclassificazione dell’uomo come mammifero fa parte di quel complesso processo di mutamento culturale che erose l’assioma della superiorità maschile nella medicina e nell’osservazione naturalistica di età moderna. Parte di questo processo, come ho cercato di mostrare, fu innanzi tutto la crisi delle strutture di pensiero scolastiche, di cui la visione aristotelica della differenza sessuale era parte integrante. Ma vi è molto di più in questa storia che non semplicemente il declino dell’aristotelismo: ci furono cambiamenti nella percezione sociale dei sessi, come indicato dalla diffusione della Querelle des femmes; ci fu soprattutto un mutamento nella definizione delle priorità di ricerca – il passaggio di interesse dalle viae solitae a quelle insolitae della natura, dalle regolarità ai fenomeni bizzarri e inspiegati. Questa nuova centralità del “mostruoso” – così tipica dell’osservazione naturalistica in età moderna – fu un colpo di fortuna per le donne. Non era forse la donna considerata da tempo immemorabile come un monstrum, il prodotto della deviazione della natura dal suo intento primario? Il corpo femminile passò dalla periferia al centro dell’indagine quando i dotti europei, insoddisfatti del quadro teoretico ereditato dal passato, distolsero lo sguardo da universali e regolarità per concentrarlo invece su quei particolari curiosi che le antiche dottrine avevano sprezzantemente ignorato. Solo un profondo riorientamento degli obiettivi e priorità di ricerca poteva dischiudere la possibilità di vedere un attributo femminile come carattere che contraddistingue la specie umana. Questo non significa naturalmente che l’assioma della superiorità maschile non venisse per altri versi mantenuto e riaffermato, come Schiebinger mostra in Nature’s Body.74 Ma nello stesso tempo credo si debba ammettere che il bilancio dell’età della Rivoluzione Scientifica per quel che riguarda l’innovazione nell’indagine della differenza sessuale è meno negativo di quel che è stato sostenuto dalle prime incursioni femministe in questo campo. Quel che è veramente interessante nella cultura medica secentesca non è la sopravvivenza

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del principio tradizionale della superiorità maschile quanto la presenza di netto dissenso rispetto a questo principio. O almeno anche questo dissenso dovrebbe essere messo a fuoco e spiegato. Mentre il quadro delle nostre conoscenze sulla partecipazione delle donne alla vita intellettuale del Seicento e Settecento va allargandosi sempre più,75 è urgente ripensare anche quegli aspetti della cultura filosofica e medica dell’età della Rivoluzione Scientifica che non collimano con lo stereotipo di “un conflitto di lungo termine” fra donne e scienza. Per alcuni aspetti, l’insieme di pratiche di ricerca che va sotto il nome di Rivoluzione Scientifica ha effettivamente intaccato il dogma della superiorità maschile.

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Note 1. Cfr. C. Merchant, The Death of Nature. Women, Ecology and the Scientific Revolution, San Francisco, Harper Collins, 1980 (citerò qui dall’ed. 1990). Per la ricezione di questo libro in Italia si veda la recensione di Marta Cavazza in «Intersezioni», 2 (1983), pp. 448-455. Su Joan Kelly e l’influenza del suo saggio Did Women Have a Renaissance? (1976) sugli studi sul Rinascimento negli ultimi vent’anni si veda G. Pomata, Knowledge-freshening Wind: Gender and the Renewal of Renaissance Studies, in A. Grieco, M. Rocke (a cura di), The Italian Renaissance in the Twentieth Century, Firenze, Olschki, 2002 (in stampa). 2. Merchant, Preface, in Death of Nature, s.p. 3. Cfr. Anne Conway, The Principles of the Most Ancient and Modern Philosophy (1690) curato e tradotto da A.P. Coudert e T. Corse, Cambridge, Cambridge University Press, 1996. Si vedano inoltre S. Hutton, s.v. “Anne Conway”, in The Cambridge Dictionary of Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press, 1999; J. Duran, Anne Viscountess Conway: A Seventeenth-Century Rationalist, in «Hypatia: A Journal of Feminist Philosophy», 4 (1989), pp. 64-79. Sulla sua influenza su Leibniz si veda soprattutto A.P. Coudert, Leibniz and the Kabbalah, Dordrecht-Boston, Kluwer, 1995, cap. 2. 4. Su Margaret Cavendish cfr. L. Sarasohn, A Science Turned Upside Down: Feminism and the Natural Philosophy of Margaret Cavendish, in «Huntington Library Quarterly», 47 (1984), pp. 289-307, e A. Battigelli, Margaret Cavendish and the Exiles of the Mind, Lexington, University of Kentucky Press, 1998. 5. L. Schiebinger, The Mind has no Sex? Women in the Origins of Modern Science, Cambridge, Harvard University Press, 1989, p. 2. 6. Ivi, pp. 37-65. 7. Su Maria Sibylla Merian cfr. N. Zemon Davis, Women on the Margins: Three Seventeenth-Century Lives, London-Cambridge, MA, Harvard University Press, 1995, pp. 140-202 (tr. it. Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 145-209); K. Wettengl (a cura di), Maria Sibylla Merian (1647-1717). Künstlerin und Naturforscherin. Ausstellungskatalog des Historischen Museums Frankfurt am Main, Frankfurt a.M., Verlag Gerd Hatje, 1997. Su Giovanna Garzoni si vedano G. Casale, Giovanna Garzoni “Insigne miniatrice” 1600-1670, MilanoRoma, 1991 e G. Olmi, Natura morta e illustrazione scientifica, in Idem, L’inventario del mondo. Catalogazione della natura e luoghi del sapere nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 136-137. 8. Su Marie-Catherine Biheron cfr. Schiebinger, The Mind has no Sex?, pp. 2729 (Biheron era stata allieva di Madeleine Basseporte). Su Anna Morandi Manzolini si vedano V. Ottani, G. Giuliani-Piccari, L’opera di Anna Morandi Manzolini nella ceroplastica anatomica bolognese, in Alma Mater Studiorum. La presenza femminile dal XVIII al XX secolo, Bologna, CLUEB, 1988, pp. 81-104; R. Messbarger, Waxing Poetic: Anna Morandi Manzolini’s Anatomical Sculptures, in «Configurations», 9, 1 (2001), pp. 65-97. 9. Cfr. Schiebinger, The Mind has no Sex?, pp. 79-98. 10. Sulle trasformazioni del rapporto fra accademie e salons nel Settecento cfr. E. Harth, Cartesian Women. Versions and Subversions of Rational Discourse in the

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Old Regime, Ithaca-London, Cornell University Press, 1992, pp. 133-150. Sulla chiusura del mondo dei savants nei confronti di artigiani ed artisti (uomini e donne) verso la fine del Settecento si veda E. Spary, Forging Nature at the Republican Museum, in L. Daston, G. Pomata (a cura di), The Faces of Nature in Eighteenth-Century Europe, Berlin, Berlin Verlag, 2002 (in stampa). 11. Cfr. Schiebinger, The Mind has no Sex?, p. 252. Sugli invisible technicians nella ricerca scientifica dell’età moderna, cfr. S. Shapin, Social History of Truth. Civility and Science in Seventeenth-Century England, Chicago-London, University of Chicago Press, 1994, pp. 355-407. 12. Schiebinger, The Mind has no Sex?, p. 8 e cap. 7, pp. 189-211. 13. Merchant, Death of Nature, p. 163. 14. Cfr. E. Berriot-Salvatore, Il discorso della medicina e della scienza, in Storia delle Donne in Occidente, vol. III, Dal Rinascimento all’età moderna, a cura di N. Zemon Davis, A. Farge, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 351-395. 15. Le origini intellettuali dell’ovismo non sono chiare. L’ipotesi dell’ovulazione negli animali vivipari – incluso l’uomo – fu avanzata per la prima volta da William Harvey nelle Exercitationes de generatione animalium (1651). Harvey peraltro riteneva, in linea con la tradizione aristotelica, che i “testicoli femminili” non avessero alcun ruolo nella generazione: l’uovo deriverebbe unicamente dalla forza inseminatrice del seme maschile. La riconcettualizzazione dei “testicoli femminili” come ovaie fu proposta per la prima volta dall’anatomista danese Niels Stensen. Negli ultimi decenni del Seicento parecchi anatomisti lavorano sulle ovaie. Nel 1672 l’anatomista olandese Regnier de Graaf pubblica le sue osservazioni anatomiche sui follicoli ovarici. Per un’introduzione a tutto questo è ancora utile C. Castellani, La storia della generazione, Milano, Longanesi, 1965. La sintesi più ricca resta il grande libro di J. Roger, Les sciences de la vie dans la pensée française du XVIII e siècle: la génération des animaux de Descartes à l’Encyclopédie, Paris, Colin, 1971 (in particolare, sullo sviluppo dell’ovismo, pp. 256293). Per un recente riesame che non getta però nuova luce sul problema delle origini intellettuali dell’ovismo, cfr. C. Pinto-Correia, The Ovary of Eve. Egg and Sperm and Preformation, Chicago-London, University of Chicago Press, 1997. 16. Dell’ampia letteratura su Leeuwenhoek, si veda in particolare E.G. Ruestow, Microscope in the Dutch Republic: the shaping of discovery, Cambridge, Cambridge University Press, 1996. 17. Cfr. J. Roger, Two scientific discoveries: Their Genesis and Destiny, in M. Grmek, R.S. Cohen, G. Cimino (a cura di), On Scientific Discovery. The Erice Lectures 1977, Dordrecht, 1981, pp. 229-237. 18. Cfr. C. Wilson, The Invisible World: Early Modern Philosophy and the Invention of the Microscope, Princeton, Princeton University Press, 1995. 19. Su questa tradizione cfr. T. Laqueur, Making Sex. Body and Gender from the Greeks to Freud, Cambridge MA., Harvard University Press, 1990, che va letto però insieme alle dettagliate e persuasive critiche di K. Park, R. Nye, Destiny is Anatomy, in «New Republic», 18 (febbraio 1991), pp. 53-57. 20. Cfr. G. Pomata, Vollkommen oder verdorben? Der männliche Samen in frühneuzeitlichen Europa, in «L’Homme. Zeitschrift für feministische Geschichtswissenschaft», 6, 2 (1995), pp. 59-85, in particolare pp. 76-81. 21. Ivi, pp. 81-85; Roger, Sciences de la vie, pp. 307-321.

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22. Così pure fa Pinto-Correia, Ovary of Eve. 23. Merchant, Death of Nature, p. 162 (per l’accenno a Leeuwenhoek) e pp. 156-158 (su Harvey); si vedano anche pp. 150-151, dove Merchant sostiene che nel Seicento «the female’s passive role in biological generation was being reasserted by physicians and natural philosophers». 24. Cfr. Merchant, Death of Nature, p. 158. Si veda anche l’assai diverso giudizio di W. Pagel, New Light on William Harvey, Basel, Karger, 1978, p. 27; Idem, William Harvey’s Biological Ideas, Basel, Karger, 1967, p. 44. Per un giudizio simile a quello di Pagel cfr. anche E.B. Gasking, Investigations into generation, 1651-1828, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1967, pp. 16-36. 25. Cfr. Schiebinger, The Mind has no Sex?, pp. 188-189 e pp. 191-213: si sottolinea per esempio che il bacino è più ampio nelle donne per via della loro funzione materna (specificità); o che il loro teschio è, in proporzione al resto dell’ossatura, più grosso che negli uomini, come è anche il caso del bambino: ma questo viene visto come indice che la donna rappresenta uno stadio di sviluppo inferiore rispetto al maschio adulto, ribadendo così l’inferiorità femminile. 26. Cfr. Laqueur, Making Sex, pp. 142-148. 27. J. Cadden, Meanings of Sex Difference in the Middle Ages. Medicine, science, culture, Cambridge, Cambridge University Press, Press, 1993, pp. 105-130, mostra come buona parte della discussione nella medicina scolastica sia volta a negare la possibilità di un ruolo attivo della femmina nella generazione, ma sottolinea anche però come la complessità delle idee tardo-medievali sulla differenza sessuale non possa essere ridotta alla sola medicina scolastica e vada ricostruita anche in altri campi del sapere, come la fisiognomica e l’alchimia (pp. 207-209). 28. Cfr. G. Sissa, Filosofie del genere: Platone, Aristotele e la differenza dei sessi, in P. Schmitt Pantel (a cura di), Storia delle donne in Occidente. L’antichità, RomaBari, Laterza, 1990, pp. 77-80. Riprendendo questa impostazione aristotelica del problema, la logica scolastica medievale vedrà l’opposizione binaria di maschio/femmina come un caso di species privata, definito cioè da un termine positivo e uno privativo (come, per esempio visione/cecità): si veda I. Maclean, The Renaissance Notion of Woman. A Study in the Fortunes of Scholasticism and Medical Science in European Intellectual Life, Cambridge, Cambridge University Press, 1980, p. 3. 29. André du Laurens, Anatomica humani corporis historia, 2a ed., Francoforte, 1595, p. 281. 30. Ivi, p. 280: «Est foeminae non minus quam maris sexus, perfectio quaedam speciei, neque animal occasionatum ac accessorium (ut loquuntur Barbari) dici debet foemina; sed ens necessarium, primo & per se à Natura institutum». Cfr. p. 281: «Verum haec Aristotelis & Galeni opinio nobis non probatur. Naturam enim in foeminae, non minus quam maris generationem intendere existimamus, & foeminam naturae erratum ac prolapsionem dicere, indignum est Philosopho». Questa tesi è ripresa alla lettera in un popolare manuale di anatomia inglese del primo Seicento (Helkiah Crooke, Microcosmographia: A Description of the Body of Man, London, 1616 (cito dalla 2a ed. del 1631), p. 271). 31. Cfr. i testi raccolti in Gynaecea, a cura di Israel Spach, Strasburgo, 1597. La raccolta Gynaecea apparve una prima volta nel 1577 e fu ripubblicata con addizioni nel 1586 e 1597. Sulla profonda differenza della concezione ippocratica del

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corpo femminile rispetto alla visione aristotelica cfr. H. King, Hippocrates’ Woman: Reading the Female Body in Ancient Greece, London, Routledge, 1998. 32. Ludovicus Mercatus, De mulierum Affectionibus, 2a ed., Venetiis, 1587, p. 7. 33. Hieronymus Mercurialis, De Morbis Muliebribus Praelectiones, 3a ed., Venetiis 1591, pp. 1-2 (1a ed., 1582). Mercuriale fece ristampare a Venezia nel 1587 il De mulierum affectionibus di Mercado. Per simili affermazioni si veda per esempio Martinus Akakia, De morbis muliebribus, in Gyneciorum sive de mulierum tum communibus, tum gravidarum, parientium, et puerperarum affectionibus & morbis, Argentinae, 1587, p. 745; Rodericus a Castro, De universa muliebrium morborum medicina, Venetiis, 1603, pp. 126-131; Johannes Varandeus, De morbis et affectibus mulierum, Lugduni, 1619, p. 2. 34. Cfr. Maclean, Renaissance Notion of Woman, pp. 28-46. Si veda anche A.L. Thomasen, Historia animalium contra Gynaecia in der Literatur des Mittelalters, in «Clio Medica», 15 (1980), pp. 5-23. 35. Maclean, Renaissance Notion of Woman, pp. 29-33. 36. Ivi, p. 33. Nel De usu partium (XIV, 6), Galeno aveva affermato che tutte le parti che si trovano nell’uomo si trovano anche nella donna, ma collocate all’interno anziché all’esterno del corpo: il prepuzio corrisponderebbe alla vagina, il pene al collo dell’utero, lo scroto al fondo dell’utero, i testicoli alle ovaie (che Galeno considerava organi produttori di seme e chiamava “testicoli femminili”). 37. Du Laurens, Historia, p. 274. Per un esempio di tradizionalismo galenico a questo proposito, cfr. invece A. Piccolomini, Anatomicae praelectiones explicantes mirificam corporis humani fabricam, Romae, 1586, p. 184, che ripete pedissequamente le tesi del De usu partium. 38. Du Laurens, Historia, p. 274. 39. Ivi, p. 269. 40. Cfr. Maclean, Renaissance Notion of Woman, p. 33. 41. Cfr. K. Park, The Rediscovery of the Clitoris: French Medicine and the Tribade, 1570-1620, in D. Hillmann, C. Mazzio (a cura di), The Body in Parts: Fantasies of Corporeality in Early Modern Europe, New York-London, Routledge, 1997, pp. 171-193, in particolare pp. 177-178. Sull’ermafroditismo in età moderna si veda la recente e ampia ricerca di V. Marchetti, L’invenzione della bisessualità. Discussioni tra teologi, medici e giuristi del XVII secolo sull’ambiguità dei corpi e delle anime, Milano, Mondatori, 2001 (in particolare, sulla “riscoperta” del clitoride, pp. 199-201). 42. Maclean, Renaissance Notion of Woman, p. 44. 43. Cfr. G. Pomata, Was There a Querelle des Femmes in Early Modern Medicine?, in C. Opitz, E. Stebler (a cura di), Körperkonzepte, atti del convegno organizzato dalla Schweizerische Gesellschaft für Frauen- und Geschlechterforschung presso lo Historisches Seminar dell’Università di Basilea, 16-17 Marzo 2001, di prossima pubblicazione. Sulla Querelle des Femmes, cfr. M. Augenot, Les champions des femmes. Examen du discours de la supériorité des femmes, 1400-1800, Québec, Presses de l’Université du Québec, 1977; C. Jordan, Renaissance Feminism: Literary Texts and Political Models, Ithaca, Cornell University Press, 1990; G. Bock, M. Zimmermann (a cura di), Die europäische Querelle des femmes. Geschlechterdebatten seit dem 15. Jahrhundert, Stuttgart-Weimar, Metzler, 1997.

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44. Cfr. Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim, De nobilitate et praecellentia foeminei sexus, a cura di R. Antonioli, Genève, Librairie Droz, 1990. Su Agrippa e la Querelle des femmes cfr. l’introduzione di A. Rabil, Jr. alla recente edizione inglese: Declamation on the Nobility and Preeminence of the Female Sex, Chicago, University of Chicago Press, 1996. 45. Agrippa, De nobilitate, p. 61: «Galeno et Avicenna testibus, solum muliebre semen est material & nutrimentum foetus, viri autem minime quod illi quodammodo ut accidens substantiae ingrediatur». 46. Agrippa, De Praecellentia, p. 63. 47. Per una rassegna degli argomenti medici della Querelle (limitata a testi francesi) cfr. Augenot, Les champions des femmes, pp. 108-117. 48. Cfr. Charles Estienne, Pour les Femmes, Déclamation XXIII, in Paradoxes: ce sont propos contre la commune opinion…, Paris, 1553, pp. 148-158 (cfr. Augenot, Champions des femmes, p. 19). 49. Ortensio Lando, Paradossi cioe, sententie fuori del comun parere, novellamente venute in luce, Venezia 1544. A Lando è attribuito anche un classico della Querelle italiana: Lettere di molte e valorose donne, nelle quali chiaramente appare non esser ne di eloquentia ne di dottrina alli huomini inferiori, Venezia, 1549 (sull’attribuzione a Lando cfr. N. Bellucci, Lettere di molte valorose donne… e di alcune petegolette, ovvero: di un libro di lettere di Ortensio Lando, in A. Quondam (a cura di), Le “carte messaggere”. Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, Roma, 1981, pp. 255-276. Sulla ancora misteriosa identità di Lando, cfr. S. Seidel Menchi, Chi fu Ortensio Lando?, in «Rivista storica italiana», 106 (1994), pp. 501-564. 50. Sull’uso rinascimentale del paradosso come veicolo di innovazione intellettuale, cfr. R. Colie, The Resources of Kind: Genre-Theory in the Renaissance, a cura di B.K. Lewalski, Berkeley, University of California Press, pp. 308 e ss.; e sull’importanza del paradosso nella Querelle des femmes, si veda Eadem, Paradoxia epidemica. The Renaissance Tradition of Paradox, Princeton, Princeton University Press, 1966, pp. 102 ss. 51. Lando, Paradossi cioe, sententie fuori del comun parere, pp. 94r.-95r. e 78v.-85v. (sulla «eccellentia» della donna). 52. Poullain de la Barre, De l’education des dames, Paris, 1674, pp. 327, 331334. Ai tempi di Poullain, peraltro, l’idea della donna come opera perfetta della natura era penetrata anche nel mondo delle Scuole: nel 1675, per esempio, presso la conservatrice Faculté de Médecine di Parigi viene accettata una tesi che risponde positivamente alla domanda: «Intendit-ne natura foeminam productionem?». Una tesi simile («Est-ne foemina opus naturae imperfectum?» con risposta ovviamente in questo caso negativa) era stata discussa nel 1647. Cfr. V.H.T. Baron, Quaestionum medicarum quae circa medicinae theoriam et praxim, ante duo secula, in Scholis medicinae Parisiensis agitatae sunt et discussae, serie cronologica, Paris, Hérissant, 1752. 53. Cfr. Albertus Magnus, De animalibus libri XXVI, 15, 1 (a cura di H. Stadler, Münster, Verlag der Aschendorffschen Verlagsbuchhandlung, 1920, vol. 2, pp. 990993 (che segue Aristotele, Generazione degli animali, I, 1). 54. Mercado, De mulierum affectionibus, pp. 2-4. 55. Rodericus a Castro, De universa muliebrium morborum medicina, p. 2.

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56. Cfr. Rudolf Goclenius, Lexicon philosophicum, Francoforti ad Moenum, 1613, p. 1029, s.v. “sexus”. 57. Etienne Chauvin, Lexicon philosophicum, Leovardiae, 1713, s.v. “sexus”, p. 597. 58. Sulla crisi della teoria emogenetica di seme e latte nel Seicento cfr. G. Pomata, La meravigliosa armonia: il rapporto fra seni ed utero dall’anatomia vascolare all’endocrinologia, in G. Fiume (a cura di), Madri. Storia di un ruolo sociale, Venezia, Marsilio, 1995, pp. 45-82. 59. Cfr. G. Pomata, Uomini mestruanti. Somiglianza e differenza fra i sessi in Europa in età moderna, in «Quaderni storici», XXVII, 1 (aprile 1992), pp. 51-103; Eadem, Meravigliosa armonia, pp. 60-61. Sulla letteratura medica sulla lattazione maschile, cfr. R. Lionetti, Le lait du père, Paris, 1988, pp. 43-51. 60. Cfr. per esempio J.D. Reuss, Repertorium Commentationum a societatibus litterariis editarum, Gottingae, 1801-1821, vol. 14, p. 151; vol. 7, p. 250. 61. Cfr. Laqueur, Making Sex, pp. 149-192; Schiebinger, The Mind has no Sex?, pp. 189-211. 62. Cfr. in particolare il bel libro di L. Daston, K. Park, Wonders and the Order of Nature, New York, 1998, pp. 215-254 (tr. it. Le meraviglie del mondo. Mostri, prodigi e fatti strani dal Medioevo all’Illuminismo, Roma, Carocci, 2000); si veda anche L. Daston, Preternatural Philosophy, in Eadem, Biographies of Scientific Objects, Chicago, Chicago University Press, 2000, pp. 15-41. 63. Reuss, Repertorium, vol. 14, pp. 143, 94, 428; vol. 16, p. 46. 64. J. Milton, The Complete Prose Works, a cura di D.M. Wolfe et alii, New Haven, 1953-1982, vol. II, 596-597 (cit. in J.G. Turner, One Flesh. Paradisal Marriage and Sexual Relations in the Age of Milton, Oxford, Clarendon, 1987, p. 207). 65. Cfr. F.B. Churchill, Sex and the Single Organism: Biological Theories of Sexuality in Mid-Nineteenth Century, in W. Coleman, C. Limoges (a cura di), Studies in the History of Biology, Baltimore, 1979, pp. 139-142. 66. Sul “metodo sessuale” introdotto da Linneo nella tassonomia botanica con l’opera Sponsalia plantarum (1746), cfr. L. Schiebinger, Nature’s Body. Gender in the Making of Modern Science, Boston, Beacon Press, 1993, cap. 1. 67. Sull’osservazione e discussione naturalistica sul sesso delle piante a partire dalla fine del Seicento cfr. Georges Cuvier, Histoire des sciences naturelles, Paris, 1843, t. IV, pp. 63-68. 68. Riprendo qui un argomento trattato più ampiamente in Perché l’uomo è un mammifero: crisi del paradigma maschile nella medicina di età moderna, in S. Bellassai, M. Malatesta (a cura di), Genere e mascolinità: uno sguardo storico, Roma, Bulzoni, 2000, pp. 133-152. 69. Carolus Linnaeus, Systema naturae per regna tria naturae, secundum classes, ordines, genera, species, Halae Magdeburgicae, 1760, p. 14. Linneo pubblicò la prima edizione del Systema Naturae nel 1735 e continuò a rivedere e innovare la sua terminologia tassonomica nelle numerose edizioni successive. I mutamenti più notevoli furono apportati alla decima edizione (1758), in cui Linneo introdusse appunto la nuova categoria di mammalia (oltre a quelle di primates e di homo sapiens). Cfr. G. Broberg, Homo sapiens: Linnaeus’s Classification of Man, in T. Frängsmir (a cura di), Linnaeus: The Man and His Work, Berkeley-Los Angeles, 1983, p. 175.

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70. L. Schiebinger, Nature’s Body, cap. 2: Why Mammals are called Mammals; cit., p. 74. 71. Come mostra la dissertazione Nutrix noverca, resp. F. Lindberg (1752) in Carolus Linnaeus, Amoenitates academicae, Erlangen, 1787, vol. 3, pp. 256-270. 72. Opinioni mediche contro il baliatico e in favore dell’allattamento materno sono già presenti nel Cinquecento e Seicento, e ad esse si richiamano le tesi mediche settecentesche su questo tema: cfr. bibliografia in Michael Alberti, Dissertatio inauguralis medica de Jure Lactantium Medico: Wie Weit die Mütter verbunden sind, ihre Kinder zu säugen, resp. Franciscus Fridericus Flaction, Halae Magdeburgicae, 1739, pp. 13-16. 73. Jacopus Theodorus Klein, Summa dubiorum circa classes quadrupedum et amphibiorum in celebris domini Caroli Linnaei Systema Naturae, Gedani, 1743, p. 7-8. La critica di Klein è del 1743, quindi di molto antecedente alla introduzione della categoria mammalia nel Systema naturae: Klein reagiva probabilmente a una serie di passi nelle opere di Linneo (a cominciare dall’Iter Lapponicum del 1732) in cui Linneo aveva dato crescente importanza alle mammelle nella tassonomia degli animali superiori (cfr. Linnaeus, Iter Lapponicum, a cura di T. Fries, Stockholm, 1913, pp. 121-122). E in effetti il termine mammalia viene usato da Linneo anche prima della 10a ed. del Systema Naturae, per esempio nella dissertazione Natura Pelagi, Upsaliae, 1757, pp. 13-14. Su Klein e il suo contributo alla tassonomia animale cfr. C. Coulston Gillispie (a cura di), Dictionary of Scientific Biography, New York, 1973, vol. VII, p. 401. 74. Il principio della superiorità maschile sarebbe stato riaffermato in vari modi nella scienza dell’Ottocento. Cfr. O. Moscucci, Hermaphroditism and Sex Difference: The Construction of Gender in Victorian England, in M. Benjamin (a cura di), Science and Sensibility: Gender and Scientific Enquiry 1780-1945, Oxford, Blackwell, 1991, in particolare pp. 180-182. 75. È impossibile qui elencare i molti e importanti studi recenti su questo tema: per l’Italia cfr. per esempio P. Totano (a cura di), Donne, filosofia e cultura nel Seicento, Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 1999; la biografia di Laura Bassi scritta da B. Ceransky, Und sie fürchtet sich vor niemanden: die Physikerin Laura Bassi, Frankfurt, Campus Verlag, 1996; gli studi di Marta Cavazza (in particolare M. Cavazza, Les femmes à l’académie: le cas de Bologne, in D. Odon Hurel, G. Laudin (a cura di), Académies et Sociétés savantes en Europe (1650-1800), Paris, Champion, 2000, pp. 161-175; Eadem, Laura Bassi «maestra» di Spallanzani, in W. Bernardi, P. Mancini (a cura di), Il cerchio della vita. Materiali di ricerca del Centro Studi Lazzaro Spallanzani di Scandiano sulla storia della scienza nel Settecento, Firenze, Olschki, 2000, pp. 185202; Eadem, ‘Dottrici’ e lettrici dell’Università di Bologna nel Settecento, in «Annali di storia delle università italiane», I (1997), pp. 109-126; Eadem, Laura Bassi e il suo gabinetto di fisica sperimentale: realtà e mito, in «Nuncius. Annali di storia della scienza», X, 2 (1995), pp. 715-753) e di Paula Findlen, fra cui Science as a Career in Enlightenment Italy: the Strategies of Laura Bassi, in «Isis», 84 (1993), pp. 441-469, e The Scientist’s Body: The Nature of a Woman Philosopher in Enlightenment Italy, in Daston, Pomata (a cura di), Faces of Nature.

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LONDA SCHIEBINGER La sperimentazione umana. Sesso e razza nel XVIII secolo1

Nel 1768, di fronte a un’ennesima epidemia di vaiolo, John Quier, un medico formatosi in Inghilterra e in Olanda, diede inizio a una serie di esperimenti di inoculazione che durarono sei anni e coinvolsero almeno 850 (e forse quasi mille) schiavi della piantagione sotto la sua tutela in Giamaica.2 La vaiolizzazione era stata introdotta in Europa da Turchia e Cina, e in Nord America da Europa e Africa, all’inizio del XVIII secolo, ma tra i medici il dibattito sull’efficacia e la sicurezza di questo metodo era ancora molto acceso. Ci si chiedeva, per esempio, se fosse sicuro inoculare donne mestruate, o persone già affette da un’altra malattia. Allo scopo di rispondere a questi interrogativi, Quier annotò di avere «ripetutamente inoculato lo stesso paziente» (a volte a proprie spese) – una pratica riscontrabile raramente nella madre patria come nelle colonie.3 Inoculò inoltre gruppi di soggetti normalmente non trattati dai medici europei, ovvero neonati e donne incinte. La sperimentazione settecentesca è divenuta oggetto di ricerche storiche molto approfondite. Gli esperimenti canonici sono noti: lo studio condotto nel 1747 da James Lind su dodici marinai dimostrò l’utilità di arance e limoni nella cura e nella prevenzione dello scorbuto; l’autoinoculazione di pus della gonorrea, effettuato nel 1767 da John Hunter, dimostrò la trasmissibilità del morbo; gli esperimenti compiuti da Edward Jenner nel 1798 sancirono la validità della vaccinazione contro il vaiolo.4 Lo storico Rolf Winau ha ampliato questo campo, studiando fino a che punto le pratiche sperimentali settecentesche fossero controllate e ripetibili.5 Andreas-Holger Maehle, nel suo Drugs on Trial, pubblicato nel 1999, ha esaminato la struttu-

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ra sociale della farmacologia sperimentale, sostenendo che essa ebbe origine dal lavoro della “manovalanza” medica e non, come a volte affermato, dall’opera di professori universitari e membri delle società scientifiche erudite.6 Ciò che non è stato ancora sufficientemente approfondito è il modo in cui la dinamica cultura sperimentale dell’Europa settecentesca si estese al resto del mondo. La botanica fu la “scienza regina” del Settecento.7 Per oltre un secolo, i dipendenti delle Compagnie Olandesi delle Indie Orientali e Occidentali inviarono ai giardini botanici e ai laboratori di Leida e Amsterdam carichi regolari di piante e semi. I francesi inviavano esemplari provenienti dai giardini delle colonie antillane ai botanici del rinomato Jardin du Roi parigino. Gli inglesi rifornivano il Chelsea Physics Garden e, successivamente, i Kew Gardens di esemplari essiccati e viventi di semi esotici. Come venivano testati i trofei di questi viaggi, ovvero le nuove droghe e terapie? Come si convincevano medici e pazienti dell’efficacia di intrugli o procedure messe a punto da un nativo americano, da uno schiavo delle colonie o da una curatrice locale, esperta nella cura con le erbe? Le medicine messe a punto per persone abitanti ai tropici funzionavano anche per gli abitanti delle zone temperate? Se i rimedi agivano in maniera differente su persone diverse, era questione di ambiente (temperatura più rigida o più calda) oppure di razza (differenze fisiologiche tra i corpi umani)? Il presente saggio affronta la sperimentazione umana nel XVIII secolo, dedicando particolare attenzione a due gruppi usati per la sperimentazione in quel periodo: gli schiavi delle Indie Occidentali (nelle colonie francesi e britanniche) e le donne (in Europa e nelle sue colonie).8 Cercherò di fare luce su una strana e finora poco notata circostanza: nel Settecento le donne erano un soggetto richiesto in tutta la sperimentazione medica che definiremmo di mainstream. Al contrario di quanto avviene oggi, quando i soggetti femminili sono per lo più relegati agli studi inerenti alla salute riproduttiva, nel XVIII secolo i rappresentanti della professione medica erano attenti alle differenze sessuali nella sperimentazione, sia in Europa, sia nelle colonie delle Indie occidentali, tra gli schiavi e tra le persone libere. Più avanti vedremo che il “femminile”, in quanto categoria biologica unitaria, fu messo in discussione a partire dall’inizio della sperimentazione sulle schiave.

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Approfondirò inoltre la presenza di gruppi di schiavi negli esperimenti compiuti nelle colonie europee ai Caraibi. I codici novecenteschi riguardanti lo sviluppo di nuove droghe, come il Belmont Report (statunitense) del 1978, si preoccupano di distribuire equamente i rischi della ricerca tra coloro che ne possono trarre benefici.9 Il Belmont Report riporta che, tradizionalmente, la scelta dei soggetti per la sperimentazione dei farmaci negli Stati Uniti avveniva «in maniera preponderante» tra le popolazioni più deboli, quali detenuti, malati di mente, studenti, minoranze etniche, poveri e intestatari di sussidi. Come vedremo, anche gli schiavi furono sottoposti per secoli alla sperimentazione. Quali furono i metodi usati per verificare le nuove pratiche sugli schiavi? Quale etica soggiaceva a tali pratiche, e chi beneficiava dalla ricerca così compiuta? Esperimenti sull’ “altro sesso”: il controllo della differenza sessuale Una cosa i medici capirono con chiarezza fin dalla prima età moderna: ciò che è curativo se somministrato in una certa dose, può trasformarsi in un veleno mortale in altri dosaggi. Nella formula di Paracelso: è la dose a fare il veleno. Il problema di calcolare i dosaggi corretti implicava una sperimentazione massiccia su un’ampia gamma di corpi umani. Chi erano i soggetti di questi esperimenti? Nel periodo a cui ci riferiamo non erano rari gli esperimenti sui pazienti degli ospedali. In molti casi, i pazienti erano malati «con poche speranze di guarigione»; nella maggior parte dei casi, le procedure sperimentali avevano come scopo dei benefici terapeutici.10 Gli esperimenti compiuti da un certo dott. Fabritius all’ospedale di Danzica nel 1660 sono un tipico esempio, anche se è difficile immaginare i possibili effetti terapeutici delle sue iniezioni endovenose di sostanze lassative. Il primo soggetto di Fabritius fu un «robusto ed energico soldato», pericolosamente affetto da una malattia venerea. Le Transactions of the Royal Society of London riportarono l’enorme successo dell’esperimento: «senza alcun ulteriore rimedio» l’uomo guarì completamente dalla sifilide.11 Lo stesso lassativo fu somministrato ad altre due pazienti, significativamente “dell’altro sesso”, questa volta come cura contro gli attacchi epilettici. Una era sposata e aveva trentacinque anni, mentre

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l’altra era una ventenne che lavorava come domestica. La donna sposata «evacuò moderatamente» poco dopo l’iniezione; il giorno seguente i suoi attacchi erano già molto più deboli e «completamente svaniti» il giorno in cui il medico stese il referto. Per quel che riguarda la domestica, anche lei «evacuò quattro volte» il giorno dell’iniezione e numerose altre volte quello successivo, ma si dimostrò una paziente indisciplinata. «Esponendosi all’aria e prendendo freddo, e non osservando alcuna dieta», si legge sul referto, «[la ragazza] si lasciò andare».12 La morte fu imputata alla sua disobbedienza, non alla cura del medico. In questo periodo era tipico incolpare il paziente oppure “un incidente” del fallimento della sperimentazione. Gli esperimenti erano performance pubbliche di pratica medica ed era importante, per la reputazione del medico e della cura, che tutto funzionasse agli occhi del pubblico. Le inoculazioni letali di vaiolo, per esempio, venivano spiegate come il risultato di una malattia precedente e non dell’innesto in sé: un gentiluomo sarebbe stato fuori pericolo se non avesse avuto il sangue acceso «da ogni sorta di eccessi»; una ragazza non sarebbe morta se gli “incidenti” di una gravidanza difficile non ne avessero esaurito le forze; un bambino malato si sarebbe salvato se una febbre maligna aggravata da peste suina non avesse aggravato la sua situazione.13 Si cercava, inoltre, di scegliere pazienti il più possibile adatti alla riuscita degli esperimenti e capitava spesso che i medici rifiutassero le cure (persino banali medicazioni di conforto) ai pazienti considerati “più di là che di qua”. Il chirurgo londinese Richard Guy negò la propria assistenza alla moglie del signor Megus, trafilatore a Barnaby Street, la quale era affetta da un terribile cancro. Pur rifiutandole le cure, Guy si mostrò «sollecito» nel voler scoprire la «qualità» esatta dell’«umore canceroso».14 La sperimentazione sui condannati a morte (o per malattia, nel caso di pazienti degli ospedali, o per condanna nel caso di criminali detenuti) era pienamente consentita nel XVIII secolo.15 Persino la sperimentazione sugli orfani era razionalmente giustificata come un modo per permettere a tali soggetti di ripagare il proprio debito nei confronti dell’umanità. I prescelti per la sperimentazione nel Settecento erano generalmente soggetti posti sotto la tutela dello Stato, come condannati e orfani, dipendenti statali quali soldati e marinai e, come vedremo, individui privati dello status di persone, come gli schiavi.

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Gli storici hanno messo in rilievo l’impiego di poveri e sfollati negli esperimenti medici, ma era tipico di questo periodo utilizzare soggetti di buona famiglia per divulgare i nuovi rimedi. Certo, panacee e procedimenti chirurgici erano ben collaudati su persone di status “inferiore”, prima di esporre al rischio personaggi di lignaggio ma, come dimostra l’introduzione della vaiolizzazione in Inghilterra, la disponibilità dei nobili nel sottoporsi al trattamento ebbe un ruolo importante nella diffusione di questa pratica. All’origine dei famosi esperimenti nel carcere di Newgate ci fu proprio il desiderio di inoculare i bambini della famiglia reale inglese, negli anni Venti del Settecento. Sulla diffusione dell’inoculazione antivaiolo in Europa sono stati scritti interi volumi.16 In alcuni di questi resoconti il merito di avere introdotto in Europa tale innovazione è attribuito alla londinese Lady Mary Wortley Montagu. Lady Mary conobbe l’inoculazione, assai diffusa in Turchia, durante il periodo da lei trascorso ad Adrianopoli (Edirne) come moglie dell’ambasciatore britannico e riportò con sé in Inghilterra questa conoscenza agendo come una sorta di agente internazionale della conoscenza.17 Altri studi attribuiscono il merito di aver introdotto questa preziosa innovazione al chirurgo di Lady Montagu, Charles Maitland, il quale aveva inoculato il figlio della nobildonna.18 Fino ad oggi, nessuna descrizione si è soffermata sulla «anziana donna greca» da cui Lady Mary e Maitland appresero il procedimento.19 È curioso, ma nessuno dei molti storici che si sono occupati della storia del vaiolo ha sottolineato il fatto che nell’esperimento di Newgate furono utilizzati un uguale numero di soggetti maschili e femminili. Circostanza ancora più notevole, due delle coppie maschio/ femmina furono scelte di età uguale. Non rimangono documenti che spieghino come venivano scelti i soggetti, ma l’intento è troppo conforme all’insegnamento ippocratico-galenico per essere casuale. L’indagine degli esperimenti compiuti nel corso del XVIII secolo rivela che le donne erano un elemento necessario nell’ambito della sperimentazione medica in generale. Vorrei qui presentare in maggiore dettaglio l’esperimento del carcere di Newgate. Dopo il rientro in Inghilterra di Montagu e Maitland, la sperimentazione subì un notevole slancio. I medici volevano sapere se il clima (freddo in Inghilterra e caldo in Turchia) avrebbe influenzato i risultati, qual era la parte del corpo in cui l’inoculazione sorti-

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va maggiore effetto (il braccio destro o sinistro, la coscia o altro), se i benefici dell’operazione sarebbero stati permanenti, in che modo bisognava preparare il paziente (se salassi o purghe preparatori avrebbero influito positivamente sul risultato) e così via.20 Nel 1721 Maitland inoculò la figlia di Lady Mary, su richiesta di quest’ultima. Poco tempo dopo la principessa Anne, membro della famiglia reale, contrasse la fatale infezione. Non è tuttora chiaro chi diede il via all’esperimento di Newgate ma, secondo il resoconto di Sir Hans Sloane, la regina Caroline «chiese la vita di sei criminali condannati» da sottoporre all’esperimento dell’inoculazione «per preservare la vita dei suoi altri figli, e per il bene comune».21 Maitland, divenuto nel frattempo medico di corte, fu incaricato di portare a termine l’esperimento con la consulenza degli altri due medici reali, Johann Steigerthal e Sloane, che stava per essere eletto presidente della Royal Society. Furono scelti sei prigionieri – tre donne e tre uomini, in coppie di età il più possibile simili – poiché si desiderava sapere in che modo l’operazione avrebbe agito su persone «di tutte le Età, i Sessi e i diversi Temperamenti».22 Gli esperimenti ebbero inizio alle ore 9 del 9 agosto 1721. Un visitatore tedesco riportò, forse al solo scopo di sottolineare la drammaticità dell’evento, che i criminali si misero a tremare quando Maitland estrasse il bisturi, in preda al timore di essere dissanguati a morte.23 Maitland registrò gli avvenimenti con la precisione e immediatezza che caratterizzano le anamnesi sperimentali di quel periodo, in prima persona: «Praticai un’incisione su entrambe le braccia e sulla gamba destra di tutti e sei».24 Due settimane circa dopo l’intervento, Maitland purgò due degli uomini, Alcock e Cawthery, e li dichiarò pronti ad essere dimessi. Era intenzionato a purgare anche le tre donne, ma questo gli fu impedito dalle loro «purghe mensili» che, come fu sorpreso di apprendere, «le avevano colte tutte e tre pressappoco simultaneamente».25 È possibile che Maitland attribuisse questa coincidenza all’esperimento, non sapendo che le donne che vivono in stretta vicinanza hanno spesso le mestruazioni negli stessi giorni. Il 6 settembre, tutti i partecipanti ricevettero la grazia dal re e dal Consiglio e furono dimessi dal carcere di Newgate.26 Su questo esperimento ci sarebbero molte cose da dire, ma mi limiterò a due osservazioni, entrambe legate al ruolo avuto dalle donne negli esperimenti. Primo, le donne erano un elemento necessario per

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la sperimentazione. Gli storici odierni vedono l’inclusione di un numero rappresentativo di femmine nei tracciati medici come una battaglia vinta solo nel 1993, quando una legge federale degli Stati Uniti costrinse finalmente gli Istituti Nazionali di Sanità a includere soggetti femminili nella sperimentazione medica convenzionale.27 Come dimostrano i test sui prigionieri di Newgate e altri esperimenti, le donne erano deliberatamente incluse in almeno alcuni piani di sperimentazione settecenteschi. La medicina ippocratica e galenica insegnava che malattie e rimedi seguono spesso decorsi diversi in base ad età, sesso, temperamento e ambiente sociale e psichico del paziente. Entro la metà del XVIII secolo le categorie di analisi per le malattie diffuse nelle colonie comprendevano la razza, “bianca” o “negra,” ma anche il luogo di nascita, “europeo” o “creolo”, il sesso, le abitudini o il temperamento e l’età, considerata per ciascuna categoria.28 Nel 1722, durante una discussione sulla necessità di effettuare sperimentazioni mediche, William Wagstaffe, membro del Royal College of Physicians e della Royal Society, medico presso l’ospedale St. Bartholomew e testimone oculare degli esperimenti di Newgate, avanzò numerose riserve nei confronti dell’inoculazione e degli esperimenti di Newgate in particolare. Tali esperimenti erano stati, a suo parere, «iniqui» (a quanto pare, non tutte le incisioni effettuate su braccia e gambe dei prigionieri di Newgate erano della stessa lunghezza).29 Dando voce a un sentimento moderno, Wagstaffe affermò che gli esperimenti «dovrebbero sempre essere il più possibile uniformi per essere utili».30 Obiettò inoltre che gli inoculatori successivi non avevano preso in considerazione fattori importanti, per esempio ciò che egli chiamava «il sangue nazionale» inglese. Convinto che il vaiolo attaccasse il corpo con più o meno ferocia secondo lo stato del sangue al momento dell’infezione, Wagstaffe sosteneva che sarebbe stato impossibile «trapiantare da noi [gli inglesi] con successo, o naturalizzare a nostro vantaggio» una prassi medica derivante da un popolo [i turchi] la cui dieta era scarsa e i modi infimi. Il sangue «nazionale» inglese, persino tra «la gente più misera», era un sangue ricco, prodotto dalla dieta più calorica del mondo, un sangue che «abbonda di particelle più suscettibili alle infiammazioni».31 In ultimo, Wagstaffe era esterrefatto che «un esperimento praticato solo da alcune donne ignoranti, in una popolazione analfabeta e sconsiderata [dovesse], ad un tratto e sulla base di una ben

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magra esperienza, conquistare a tal punto una delle nazioni più civili del mondo da essere accolto fin dentro il Palazzo Reale».32 Wagstaffe, tuttavia, non obiettò all’equilibrio tra i sessi adottato nel piano dell’esperimento. Osservò che, tra le altre cose, è necessario eseguire «numerose prove su persone di età, sesso e costituzione diversi, in diverse stagioni dell’anno e in diversi climi».33 Gli esperimenti in questo periodo erano progettati in modo da tenere quanto più possibile in considerazione tutti questi fattori. Gli esperimenti che Thomas Fowler compì negli anni Ottanta del Settecento con il tabacco su 150 persone, offrono un altro esempio di test progettati per includere un’equa varietà di maschi e femmine. Fowler, medico dell’ospedale di Stafford, in Inghilterra, scoprì che gli effetti diuretici degli alcaloidi del tabacco somministrati per via interna, potevano essere efficaci contro l’idropisia. La cura, tuttavia, dipendeva dal dosaggio corretto: una dose esagerata poteva provocare vertigini, nausea o un effetto purgativo eccessivo. Nel corso dei suoi esperimenti Fowler scoprì che, a parità di età, il sesso diventava la variabile più importante e calibrò conseguentemente i dosaggi del suo diuretico a base di nicotina. Fowler sperimentò il suo preparato anche sui bambini, ma non sotto i cinque anni, non perché ritenesse l’esperimento poco sicuro ma perché, scrisse, «non sanno descrivere molto bene gli effetti di una medicina tanto attiva».34 La medicina umorale richiedeva esplicitamente al medico di considerare età, sesso, temperamento, dieta, abitudini, rango e circostanze individuali durante la preparazione delle medicine e la cura delle malattie. È impossibile quantificare la percentuale di donne tra tutti coloro che furono soggetti ad esperimenti. La maggior parte dei test medici erano registrati sotto forma di anamnesi attestanti malattia e trattamento di pazienti individuali. Sempre più simili nello stile, le anamnesi comprendevano una descrizione del o della paziente, un resoconto dei suoi ritmi di sonno, dieta ed esercizio, la descrizione delle terapie, del loro decorso e dell’effetto sortito: per esempio «guarigione completa», sollievo o decesso.35 I libri di medicina del periodo abbondano di anamnesi apparentemente pubblicate per circolare tra i medici, ma sufficientemente romanzesche da attirare un più vasto pubblico di lettori. Come nel caso delle iniezioni lassative a scopo terapeutico, anche quando venivano riportati casi individuali c’era il desiderio di sottoporre alla sperimentazione anche «l’altro sesso».36

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Venne sperimentato sulle donne persino un «Royal Styptick Liquor» inglese (liquore emostatico), che era stato messo a punto per fermare le emorragie sul campo di battaglia. Il sergente Richard Wiseman, il quale acquistò il segreto dell’emostatico in Francia, cominciò immediatamente gli esperimenti. Una delle sue prime pazienti fu una ragazza soggetta a violente perdite di sangue in seguito alla rimozione di un tumore al seno. Qualche tempo dopo si diede una dimostrazione dell’efficacia di tale «essenza francese» alla Royal Society: furono praticate delle incisioni nelle zampe di tre vitelli e a queste fu applicato l’emostatico, «con grande ammirazione di tutti gli spettatori». Ulteriori prove furono eseguite su due pazienti del St. Thomas’s Hospital: ad entrambi – una donna e un marinaio – fu amputata una gamba. Invece della comune e atroce cauterizzazione del moncherino venne utilizzato l’emostatico francese, il quale lasciò i pazienti «liberi dal dolore» (così, almeno, recita il verbale dei medici e dei chirurghi inviati dal re ad assistere alle operazioni, i quali aggiunsero che «tutti poterono osservare» che i pazienti non avrebbero potuto essere «più sereni e rubizzi»).37 Oltre ad essere impiegate nella sperimentazione di droghe e preparati “neutri”, ovvero adatti ad entrambi i sessi, in questo periodo si iniziarono a tenere sotto osservazione le donne per le patologie specificatamente femminili, come ad esempio il tumore al seno. Fanny Burney ci ha lasciato una descrizione molto nota della sua straziante mastectomia, avvenuta nel 1811 – una tremenda “tortura” che durò venti minuti senza anestesia (fatto salvo un bicchiere di vino) né antisettico.38 La sua operazione andò a buon fine, ma nella maggior parte dei casi non era così. Negli anni Cinquanta del Settecento, a Vienna, Anton von Störck iniziò l’impiego sperimentale del suo estratto di cicuta (dopo averlo testato sul suo cane e su se stesso). Se ne servì in numerosi casi, tra cui cinque donne affette da tumore al seno. La nuova cura di Störck riscosse inizialmente un grandissimo successo, come nel caso di una florida ragazza ventiquattrenne che si presentò da lui nell’ottobre del 1758 mostrando un rigonfiamento della misura di un uovo d’oca al seno destro. A questa particolare paziente Störck raccomandò, «ogni mattina e ogni sera, tre pillole, del peso di due grani ciascuna». Entro il gennaio successivo, la donna era guarita e «da quel momento», scrisse Störck, «non la vidi mai più».39

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La cura antitumore alla cicuta usata da Störck divenne tanto celebre da spingere altri medici a tentare di replicarla. In Irlanda un certo dott. Sherratt utilizzò in trecento casi le pillole alla cicuta di Störck, preparate secondo le istruzioni fornite da quest’ultimo, ma non ottenne alcun risultato positivo. Anche il medico parigino Jean Astruc provò le pillole di Störck, ancora una volta senza successo. Richard Guy, a Londra, annotò che la cura di Störck «[era] stata provata dai praticanti più avveduti, nella maggior parte degli ospedali della Gran Bretagna e negli ambulatori privati, sfruttandone al massimo le possibilità, senza un solo caso di esito positivo».40 In seguito a ripetuti insuccessi, egli decretò che il celebre elisir di Störck (e altri preparati simili a base di belladonna) era nocivo ai più, in quanto causa di vertigini, coma, sudori e languore, malessere allo stomaco e paralisi. Azzardò persino che alcune persone fossero state «sacrificate all’Esperimento». «Sarebbe», disse, «altamente colpevole rimanere in silenzio».41 Non è chiaro in che momento le donne vennero escluse dalle principali sperimentazioni mediche. La crescente propensione ottocentesca ad utilizzare gli studenti di medicina per la sperimentazione privilegiò i gruppi interamente maschili. Anche i soldati erano utilizzati come soggetti degli esperimenti medici e, naturalmente, erano tutti uomini, così come la popolazione carceraria divenne più marcatamente maschile nel corso del XIX e XX secolo. Eppure l’utilizzo di pazienti maschi sembra altresì il frutto di una preferenza voluta; infatti erano disponibili altrettanti gruppi concentrati di donne – nelle molte cliniche ostetriche fondate nel Settecento, nelle scuole per infermiere sorte nell’Ottocento e nei conventi dei paesi cattolici. Del resto, anche il declino della medicina ippocratica e galenica sul finire del Settecento minò le basi teoriche per l’inclusione delle donne. Queste ultime, è vero, continuarono ad essere utilizzate negli esperimenti per lo sviluppo di procedure ginecologiche e ostetriche per tutto il XIX e XX secolo. Gli storici hanno messo in evidenza, per esempio, i dolorosi interventi ginecologici per sanare le fistole vescico-vaginali (lacerazioni nei tessuti tra vescica e vagina causate dal parto) operati da James Marion Sims negli anni Quaranta dell’Ottocento su schiave dell’Alabama e indigenti donne irlandesi a New York, compiuti allo scopo di perfezionare tecniche successivamente impiegate sulle pazienti bianche paganti.42

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Per comprendere in pieno il ruolo femminile nella sperimentazione dei farmaci in Europa e Stati Uniti nel XIX e XX secolo sarà necessario, naturalmente, compiere ulteriori ricerche. Gli storici hanno indicato che, se da un alto le donne hanno tendenzialmente sofferto per una scarsità di cure in molte aree della medicina novecentesca, in altri campi esse sono state a lungo esposte al rischio di un eccesso di interventi legati alle funzioni riproduttive, per esempio tagli cesarei e isterectomie non necessari.43 Nella sperimentazione di farmaci utili per la medicina generale (non destinata a un sesso particolare) nel tardo Novecento, il corpo maschile è stato scelto come oggetto principale della ricerca.44 I responsabili delle indagini mediche hanno difeso la propria scelta dei maschi come soggetti della ricerca asserendo che gli uomini costano meno e sono più semplici da studiare. I normali cicli ormonali femminili sono visti come problemi metodologici, che complicano l’analisi e incrementano i costi della ricerca. Il timore dei ricercatori era inoltre quello di mettere a rischio potenziali feti includendo nella sperimentazione donne in età feconda (i criteri restrittivi imposti nel 1977 dalla Federal Drug Administration in seguito alle malformazioni causate dall’assunzione di talidomide e dietilstilbestrolo – DES – durante la gravidanza furono rimossi solo nel 1993). Il corpo femminile è stato tradizionalmente considerato come una deviazione dalla norma maschile e studiato principalmente in relazione alla sua specificità riproduttiva. I risultati degli studi compiuti sugli uomini, le successive diagnosi, le misure preventive e le cure sono stati generalmente estrapolati per le donne senza ulteriori studi.45 La sperimentazione nelle colonie europee delle Indie Occidentali I modelli di sperimentazione nelle colonie furono simili a quelli europei, o almeno così dimostrano i dati superstiti a nostra conoscenza. Se esistettero tradizioni sperimentali indipendenti nelle Indie Occidentali, tra le popolazioni indigene o di schiavi, di queste non si sono conservate tracce. Si sono preservati, invece, i resoconti sulle nuove sostanze che i medici formatisi in Europa ma operanti nelle colonie inviavano ai loro colleghi nel Vecchio Continente. In molti casi i medici europei nelle colonie non conducevano i loro esperimenti – come invece si sarebbe potuto supporre –

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prioritariamente sugli schiavi. Gli schiavi erano una proprietà preziosa dei padroni delle piantagioni per i quali i dottori lavoravano e questi ultimi curavano gli schiavi sotto la loro tutela così come si occupavano di africani liberi, di amerindi, di persone di razza mista e della loro clientela bianca (marinai, soldati, muratori, piantatori, prostitute o gestori di locande) e in ogni caso registravano gli effetti dei farmaci usati. Ma si verificavano anche degli abusi. Nei Caraibi furono effettuati esperimenti su popolazioni ampie e omogenee, composte da schiavi delle piantagioni, non conformi alle pratiche europee. Tali esperimenti furono condotti da John Quier e, ancora una volta, riguardavano l’inoculazione antivaiolo. L’inoculazione era una scelta mai presa alla leggera nelle colonie: i proprietari di schiavi erano favorevoli a prassi dotate di «grandi possibilità di proteggere la loro proprietà» e, considerato l’investimento per l’acquisto e il trasporto degli schiavi, la sicurezza era certamente nel loro interesse.46 Di fonte al rischio delle epidemie, Quier e altri furono persuasi a tentare l’inoculazione, anche sulla base degli «incredibili resoconti dei suoi successi» provenienti dall’Inghilterra.47 È bene sottolineare che gli esperimenti di Quier ebbero luogo dopo l’approvazione della prassi da parte del Collegio dei Medici di Londra, avvenuta nel 1755, ma dopo che il Parlement parigino l’aveva bandita perché troppo pericolosa (1763). Quier era al servizio degli amministratori delle piantagioni ed è ovvio che avrebbe inoculato gli schiavi a prescindere dal suo studio, ma dai suoi resoconti si vede come egli riconobbe (e non volle perdere) l’opportunità di rispondere ai quesiti riguardanti l’inoculazione che erano rimasti insoluti negli ambienti medici europei.48 Uno di tali quesiti riguardava l’inoculazione durante la gravidanza. In contrasto con il parere medico corrente, Quier scrisse nella sua prima lettera a Londra del 1770 che «la gravidanza non è di alcun ostacolo […] durante i primi sei o sette mesi di gestazione; in seguito credo esista il pericolo di aborto; non tanto per la violenza del morbo, quanto per il necessario metodo di preparazione».49 Le scoperte di Quier suscitarono perplessità tra i colleghi londinesi, i quali si chiesero immediatamente se le sue conclusioni, derivate da donne di origini africane, fossero valide anche per le europee, più fragili e di «costituzione più delicata» delle schiave.50 Questo tipo di interrogativo – riguardante le differenza razziali – era una novità nel

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tardo Settecento. All’inizio del secolo, i naturalisti impegnati nello studio delle cure per gli schiavi utilizzate dai nativi americani erano generalmente preoccupati dal fatto che le differenze di clima tra Indie Occidentali e Inghilterra rendessero inefficaci i farmaci. Il problema delle differenze fisiologiche tra razze divampò solo dopo la nascita del razzismo scientifico, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.51 Vediamo James Thomson, un collega più giovane di Quier in Giamaica, muoversi in questa direzione con i suoi numerosi «esperimenti riguardanti le differenze di strutture anatomiche, osservabili nell’Europeo e nel Negro, ma particolarmente quelle dell’epidermide».52 Per Quier le differenze tra neri e bianchi erano ancora principalmente una questione di abitudini e classe: per lui, i risultati degli esperimenti condotti sulle schiave avrebbero potuto non essere validi per le europee non a causa di intrinseche differenze fisiologiche, ma perché i corpi delle schiave erano stati irrobustiti e induriti dalla fatica massacrante del lavoro.53 Quando Quier scrisse la sua seconda lettera, nel 1773, da Londra erano stati posti ulteriori interrogativi circa la rilevanza, per le donne europee, degli esperimenti compiuti sulle schiave. In questa lettera Quier respinse seccamente le deduzioni dei colleghi londinesi circa la robustezza delle schiave, osservando che le donne di quella categoria venivano esonerate da qualsiasi lavoro fisico per le tre o quattro settimane precedenti il parto e in generale erano trattate con grande considerazione. Giudicava validi gli esperimenti sulle donne in schiavitù, se non per le europee di alto rango, almeno per le donne di «provenienza rustica».54 Le schiave e “le rustiche” d’Europa (contadine e chiunque fondasse il proprio sostentamento sul lavoro fisico) avevano, a suo parere, esperienze simili durante la gravidanza. Nella sua seconda lettera, Quier ribadì che l’inoculazione praticata su donne incinte non aveva causato «un singolo caso di aborto».55 Nella terza lettera, datata 1774, Quier tornò sull’argomento dopo gli ulteriori solleciti dei colleghi di Londra e decise di analizzare approfonditamente il problema. Così facendo, scoprì che due schiave avevano subito aborti spontanei poco tempo dopo l’inoculazione: poiché normalmente parti, aborti spontanei e altre questioni femminili erano seguiti da altre schiave, lui non era stato chiamato ad assisterle o, fatto ancor più strano, non era stato nemmeno informato del verificarsi degli aborti spontanei.56 Scrivendo questa ultima lettera, Quier dovette

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ammettere che l’inoculazione aveva causato gli aborti,57 ma dimostrò altresì, nonostante le ipotesi dei colleghi di Londra, che né le differenze razziali né quelle di classe influenzavano la reazione delle donne alla vaiolizzazione. L’inoculazione era, infatti, un pericolo per la gestazione a prescindere dalla razza. È interessante notare come il divario sociale – la sua posizione di medico europeo rispetto alle donne in schiavitù – l’avesse indotto a trascurare dati cruciali per i suoi esperimenti. Non era al corrente degli aborti spontanei tra le schiave. Corpus di ignoranza, ignoranza sui corpi La ricerca storica si è, a ragione, soffermata sull’esplosione di conoscenza associata alla rivoluzione scientifica e all’espansione europea in tutto il mondo, così come sul frenetico trasferimento di saperi e di piante attraverso intricate reti di giardini tra l’Europa e le colonie. Negli ultimi decenni è fiorito un enorme interesse per la produzione culturale nelle “zone di contatto” interne ed esterne all’Europa – tra viaggiatori e indigeni, naturalisti europei e medici degli schiavi, padroni e schiavi, missionari e agenti delle compagnie di commercio, donne e gerarchie scientifiche.58 È importante comprendere il modo in cui prendono corpo nuovi saperi, ma è forse ancora più cruciale scandagliare come nasce l’ignoranza. Robert Proctor ha parlato, in questo senso, di agnatology – lo studio della produzione culturale di ignoranza – da lui proposta come un contrappeso alla tradizionale importanza data all’epistemologia. L’agnatology fornisce un nuovo punto di osservazione per riflettere su “come avviene la conoscenza”, ponendo domande su ciò che non sappiamo e perché. L’ignoranza, spesso, non si riduce a semplice assenza di conoscenza, ma è il progetto di lotte culturali e politiche che circondano la politica nazionale e globale, gli schemi di mecenatismo e commercio, le logiche che definiscono le gerarchie tra le discipline, l’interesse personale, gli imperativi professionali e molto altro ancora.59 Il ruolo di razza e genere nella sperimentazione umana è interessante da questo punto di vista. Come abbiamo visto, le verifiche mediche settecentesche tenevano conto di svariate divisioni fisiche e culturali da tempo accettate, poiché i medici cercavano di capire in che modo malattie e rimedi variavano in rapporto al triangolo galenico

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di età, sesso e temperamento. Da un punto di vista moderno, è interessante notare come coloro che praticavano la medicina nel Settecento fossero consapevoli del diverso modo maschile e femminile di metabolizzare i farmaci. Abbiamo visto, inoltre, che la categoria “sesso” era ulteriormente suddivisa in base alla razza, nel tentativo di comprendere se le procedure mediche (in questo caso, l’inoculazione contro il vaiolo) sortivano effetti differenti in donne di origini etniche, geografiche e razziali diverse. Mentre la sperimentazione medica è spesso pericolosa, la verifica di nuovi farmaci e procedure su popolazioni differenti può essere importante per preservare benessere e salute delle popolazioni stesse. Le donne (schiave o libere, africane o europee) non erano, nel complesso, sperimentatrici mediche, anche se in molti casi era da loro che i medici venivano a conoscenza di nuovi farmaci e procedure. Lady Mary Wortley Montagu e il suo chirurgo Charles Maitland, come abbiamo visto, scoprirono l’esistenza dell’innesto del vaiolo da un’anziana greca di cui non si conosce il nome. Charles de l’Ecluse in Francia lodava le «taglia radici» di campagna (rhizotomae mulierculae) che erano per lui una fonte di informazioni sulle proprietà mediche delle piante e sui nomi delle varietà indigene.60 L’olandese Herman Busschof scoprì la moxa, che poi utilizzò per curarsi la fastidiosissima gotta, grazie a una «dottoressa indiana» di Batavia (Djakarta).61 Il medico di Birmingham William Withering mise a punto una cura per l’idropisia ricavata dalla Digitalis, dopo averne sentito parlare da «una vecchia dello Shropshire», la quale aveva preservato a lungo quel segreto riuscendo a somministrare cura efficaci là dove i normali medici avevano fallito.62 Ma furono i medici europei, non queste donne, a pubblicare i test riguardanti tali cure. L’esperienza delle donne nella sperimentazione rimane assente dai resoconti pubblicati. Ricostruire la formazione di questo sapere nel Settecento può servire a rivelare i modi in cui i modelli culturali ed epistemici diedero forma a significativi corpus di ignoranza. Se pure la sperimentazione medica settecentesca incluse spesso le donne, possiamo identificare comuni prassi mediche che non furono sviluppate in questo periodo o raffinate per mezzo di una sperimentazione sistematica. Una di queste è l’aborto. Gli aborti terapeutici si rendevano spesso necessari nel Settecento e, solitamente, medici e levatrici che li praticavano con mezzi meccanici o erboristici davano priorità alla

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vita della madre.63 In Europa, inoltre, cominciavano a diffondersi notizie su vari abortivi esotici. Uno di questi, utilizzato da molti amerindi e dalle schiave nei Caraibi, era la Poinciana pulcherrima, e fu scoperto autonomamente da naturalisti olandesi (Maria Sibylla Merian), inglesi (Hans Sloane) e francesi (Michel Descourtilz).64 Il giallo e il rosso fiammeggiante di questa graziosa pianta, nota anche come fiore del pavone o uccello rosso del paradiso, la resero una delle decorazioni preferite nei giardini europei. Cominciò ad arrivare regolarmente in Europa prima dalle Indie Orientali e successivamente da quelle Occidentali e, dal 1666 circa in poi, fu coltivata nei più importanti giardini botanici di tutta Europa. Dopo un’ampia ricerca ho scoperto che, nonostante i frequenti esperimenti per verificare le qualità emmenagoghe di questa pianta e di altre ad essa simili, le qualità abortive di tali specie non erano invece oggetto di sperimentazione medica (o, se lo erano, di questo non è rimasta traccia). Nemmeno la savina (Juniperus sabina), abortivo vegetale indigeno ampiamente utilizzato in Europa, fu oggetto di verifiche che ne determinassero dosi adeguate e precauzioni d’uso. I naturalisti raccoglievano con assiduità i saperi locali legati alle varie piante, per ricavarne farmaci e potenziali profitti, ma non compirono alcun tentativo sistematico di introdurre in Europa gli abortivi raccolti dalle culture di tutto il mondo. Nelle colonie, dove l’aborto rappresentava per le schiave un atto di sfida politica ed economica, era spesso visto dagli amministratori coloniali come una minaccia contro la proprietà della piantagione. In Europa, l’espansione mercantilista esigeva politiche di promozione della natalità, celebrando i bambini come «la ricchezza delle nazioni, la gloria dei regni, il nerbo e la buona sorte degli imperi».65 In un simile clima, né gli agenti dell’esplorazione botanica, le compagnie commerciali e le accademie scientifiche, né i governi erano interessati ad ampliare la circolazione in Europa di una farmacopea antifecondativa. Nonostante il corpo femminile fosse visto come un elemento necessario per la sperimentazione medica generale, si vanno delineando corpus di ignoranza familiare, in questo caso attorno alla mancata introduzione di abortivi esotici in Europa. La politica di genere in questo periodo aiuta a disegnare un corpus di conoscenze con contorni ben riconoscibili, delineando allo stesso tempo un preciso e durevole corpus di ignoranza. (traduzione di Barbara Del Mercato)

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Note 1. Ringrazio il Publication Grant Program della National Library of Medicine per il sostegno ricevuto in questa ricerca, la Alexander-von-Humboldt Foundation e Lorraine Daston per avermi ospitato durante l’anno di studio presso il Max-PlanckInstitut für Wissenschaftsgeschichte di Berlino nel 1999/2000. Sono grata ai molti colleghi che hanno condiviso con me lavoro e idee: Hal Cook, Susan Lederer, Rolf Winau, Claudia Swan, Roberta Bivins, James E. McClellan III, Roy Porter e Mary Lindemann. Come sempre, un ringraziamento speciale va a Robert Proctor. 2. Cfr. Donald Monro (a cura di), Letters and Essays on Small-Pox and Inoculation, the Measles, the Dry Belly-Ache, the Yellow, and Remitting, and Intermitting Fevers of the West Indies … by Different Practitioners, London, 1778. Quier inoculò 700 persone nel 1768 e 146 nel 1774. Inoculò anche nel 1773, ma senza registrare il numero dei casi. Si veda Monro, Letters, pp. 8, 64. 3. Monro, Letters, pp. 43, 56. 4. Cfr. James Lind, A Treatise on the Scurvy, Edinburgh, 1753; John Hunter, A Treatise on the Venereal Disease, London, 1791; Edward Jenner, An Inquiry into the Causes and Effects of the Variolæ Vaccinæ, London, 1798. 5. Cfr. R. Winau, Experimentelle Pharmakologie und Toxikologie im 18. Jahrhundert, Mainz, Habilitation Schrift, 1971. 6. Cfr. A.-H. Maehle, Drugs on Trial: Experimental Pharmacology and Therapeutic Innovation in the Eighteenth Century, Amsterdam, Rodopi, 1999. 7. Cfr. N. Jardine, J.A. Secord, E.C. Spary (a cura di), Cultures of Natural History: From Curiosity to Crisis, Cambridge, Cambridge University Press, 1995; D. Miller, P. Reill (a cura di), Visions of Empire: Voyages, Botany, and Representations of Nature, Cambridge, Cambridge University Press, 1996. 8. Sul rapporto tra gender e colonialismo sono stati compiuti studi importanti, ma non in rapporto alla storia naturale o alla sperimentazione medica. Cfr. J. Douthwaite, Exotic Women: Literary Heroines and Cultural Strategies in Ancien Régime France, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1992; L. Brown, Ends of Empire: Women and Ideology in Early Eighteenth-Century English Literature, Ithaca, Cornell University Press, 1993; F. Nussbaum, Torrid Zones: Maternity, Sexuality, and Empire in Eighteenth-Century English Narratives, Baltimore, John Hopkins University Press, 1995. 9. Cfr. United States Commission for the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioral Research, The Belmont Report: Ethical Principles and Guidelines for the Protection of Human Subjects of Research, Bethesda, U.S. Government Printing Office, 1978. 10. Cfr. John Lowthrop, The Philosophical Transactions and Collections, 3 voll., London, 1722, vol. 3, p. 234. 11. Ibidem. 12. Ibidem. 13. Cfr. Charles-Marie de La Condamine, The History of Inoculation, New Haven, 1773, pp. 15-16, 28. 14. Cfr. Richard Guy, Practical Observations on Cancers and Disorders of the Breast, London, 1762, p. 6.

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15. Cfr. Denis Dodart, Mémoires pour servir à l’histoire des plantes, Paris, 1676; P.-L. Moreau de Maupertuis, Lettre sur le progrès des sciences, 1752; Oeuvres, vol. 2, sez. 11, Utilités du supplice des criminels, Hildesheim, Georg Olms Verlag, 1965. 16. Il più esauriente è G. Miller, The Adoption of Inoculation for Smallpox in England and France, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1957. 17. Cfr. I. Grundy, Lady Mary Wortley Montagu, Oxford, Oxford University Press, 1999. Si veda anche G. Miller, Putting Lady Mary in Her Place, in «Bulletin of the History of Medicine», 54 (1981), pp. 3-16. 18. Hans Sloane, An Account of Inoculation, in «Philosophical Transactions», 49 (1756), pp. 516-520. 19. Cfr. Lady Mary Wortley Montagu, The Turkish Embassy Letters, a cura di M. Jack, London, Virago, 1994, Lettera 32, 1 Aprile 1717; Charles Maitland, Mr. Maitland’s Account of Inoculation the Small Pox, London, 1722, pp. 7, 12. 20. Cfr. Maitland, Account. 21. Sloane, An Account, p. 517. 22. Emanuel Timonius, An Account, or History, of Procuring the Small Pox by Incision, or Inoculation, in «Philosophical Transactions of the Royal Society of London», 29 (1714), pp. 72-82, in part. p. 72. A quanto pare, gli sperimentatori erano particolarmente interessati alle differenze sessuali nello stadio riproduttivo dell’esistenza, infatti non furono esaminati soggetti prepubescenti né senescenti. 23. Cfr. Matthias Ernestus Boretius, Special-Nachricht von der neuen Invention der Inoculationis variolarum, in «Sammlung von Natur- und Medicin-Geschichten», 17 (1723), p. 206. 24. Maitland, Account, pp. 21-22. 25. Ivi, p. 24. 26. Ivi, p. 25. 27. Cfr. L. Schiebinger, Has Feminism Changed Science?, Cambridge, Harvard University Press, 1999, cap. 6. 28. Cfr. Monro, Letters, pp. 237-238. 29. Cfr. William Wagstaffe, A Letter to Dr. Freind, London, 1722, p. 25. 30. Ivi, p. 36. 31. Ivi, p. 7. 32. Ivi, pp. 5-6. 33. Ivi, p. 3. 34. Thomas Fowler, Medical Reports of the Effects of Tobacco, London 1785, pp. 72-79. 35. Cfr. Guy, Practical Observations, p. xii. 36. Cfr. Lowthrop, Philosophical Transactions, vol. 3, p. 234. 37. Cfr. Ivi, pp. 252-255. 38. Cfr. Fanny Burney, The Journals and Letters of Fanny Burney, 12 voll., a cura di J. Hemlow, Oxford, Clarendon Press, 1975, vol. 6, pp. 596-616. Si veda anche J. Epstein, Writing the Unspeakable: Fanny Burney’s Mastectomy and the Fictive Body, in «Representations», 16 (1986), pp. 131-166. 39. Anton Störck, An Essay on the Medicinal Nature of Hemlock, Dublin, 1760, caso III. 40. Guy, Practical Observations, pp. 36-37.

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41. Ivi, pp. xiii, 36-39. 42. Cfr. V. Gamble, B. Blustein, Racial Diffentials in Medical Care, in A. Mastroianni, R. Faden, D. Federman (a cura di), Women and Health Research, 2 voll., Washington D.C., National Academy Press, 1994, vol. 2, pp. 174-191. 43. Cfr. J. Norsigian, Women and National Health Care Reform, in «Journal of Women’s Health», 2 (1993), p. 91. 44. Cfr. S. Rosser, Women’s Health: Missing from U.S. Medicine, Bloomington, Indiana University Press, 1994. 45. Cfr. T. Ruiz, L. Verbrugge, A Two Way View of Gender Bias in Medicine, in «Journal of Epidemiological Community Health», 51 (1997), pp. 106-109. 46. Cfr. Monro, Letters, pp. 6-7. 47. Ivi, p. 6. 48. Le informazioni da lui raccolte furono spedite in tre dettagliate missive al dott. Donald Monro (secondogenito di Alexander Monro, primus, medico del St. George’s Hospital di London e membro della Royal Society), lette al Royal College of Physicians e successivamente pubblicate in volume (Monro, Letters). 49. Monro, Letters, p. 11. 50. Ivi, pp. 11-12. 51. Sulla nascita del razzismo scientifico e delle differenze sessuali, cfr. L. Schiebinger, Nature’s Body: Gender in the Making of Modern Science, Boston, Beacon Press, capp. 4-6. 52. James Thomson, A Treatise on the Diseases of Negroes, as They Occur in the Island of Giamaica; with Observations on the Country Remedies, Giamaica, 1820, p. 3. 53. Cfr. Monro, Letters, pp. 11-12. 54. Ivi, pp. 54-56. 55. Ivi, p. 56. 56. Cfr. ivi, pp. 67-69. 57. Ivi, p. 69. 58. Cfr. M.L. Pratt, Imperial Eyes: Travel Writing and Transculturation, London, Routledge, 1992, pp. 6-7. 59. Cfr. R. Proctor, Cancer Wars: How Politics Shapes What We Know and Don’t Know About Cancer, New York, Basic Books, 1995, p. 8. Gayatri Chakrovorty Spivak ha discusso la nozione di «ignoranza sancita»: cfr. G. Chakrovorty Spivak, Can the Subaltern Speak?, in C. Nelson, L. Grossberg (a cura di), Marxism and the Interpretation of Culture, Urbana-Chicago, University of Illinois Press, 1988, pp. 271-313, in part. p. 291. Si veda anche L. Schiebinger, Lost Knowledge, Bodies of Ignorance, and the Poverty of Taxonomy as Illustrated by the Curious Fate of Flos Pavonis, an Abortifacient, in C. Jones, P. Galison (a cura di), Picturing Science, Producing Art, New York, Routledge, 1998, pp. 125-144; L. Schiebinger, Exotic Abortifacients: The Global Politics of Plants in the 18th Century, in «Endeavour», 24 (2000), pp. 117-121. 60. Cfr. Charles de l’Escluse, Rariorum aliquot Stirpium, per Pannoniam, Austriam, et vicinas ... Historia, Anversa 1583, p. 345. 61. Cfr. Herman Busschof, Two Treatises, London, 1676, Prefazione. 62. Cfr. William Withering, An Account of the Foxglove and Some of its Medical Uses, London, 1785, p. 2.

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63. Cfr. Robert James, A Medicinal Dictionary, 3 voll., London, 1743, s.v. Abortus. 64. Cfr. Maria Sibylla Merian, Metamorphosis Insectorum Surinamensium (1705) a cura di H. Deckert, Lipsia, Insel Verlag, 1975, commento alla tavola 45; Hans Sloane, A Voyage to the Islands Madera, Barbadoes, Nieves, St Christophers, and Jamaica, 2 voll., London, 1707, vol. 1, p. lvii; vol. 2, p. 50; Michel-Étienne Descourtilz, Flore pittoresque et médicale des Antilles, 8 voll., Paris, 1833, vol. 1, pp. 27-30. 65. Cfr. Joseph Raulin, De la Conservation des enfans, vol. 1, Epitre au roi, Paris, 1768.

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EMMANUEL BETTA La donna, il feto e l’anima nei decreti del Sant’Uffizio alla fine dell'Ottocento

Tuto doceri non posse, non si può insegnare con sicurezza. Con questa risposta il Sant’Uffizio assunse per la prima volta nella sua storia una posizione formalmente definita in relazione alle pratiche ostetriche abortive. Era il 28 maggio del 1884 e con questa sentenza iniziava un percorso di normazione dell’ostetricia che si sarebbe poi concluso nel 1902, con l’ultimo intervento inquisitoriale relativo alla gravidanza extrauterina. Questi decreti del Sant’Uffizio intesero mettere forma e ordine nell’area di pratiche ostetriche relative alla gravidanza a rischio (vale a dire le opzioni terapeutiche previste per le situazioni in cui la vita della donna incinta e quella del feto erano messe in pericolo dallo stesso stato di gravidanza), definire la legittimità e circoscrivere l’uso di alcune specifiche operazioni chirurgico-ostetriche: embriotomia, craniotomia, aborto procurato, parto prematuro artificiale e operazione cesarea.1 Al fondo dell’intero percorso di normazione si situava un problema che è efficacemente sintetizzato da una delle metafore più frequentemente usate da coloro che nel corso dell’Ottocento si occuparono di questi temi: decidere se “far pendere la bilancia” e, nel caso affermativo, a favore di chi e per quale motivo.2 Il principio ordinante che scaturì da questa serie di sentenze fu l’assunzione della vita del feto come valore assoluto in base al quale doveva essere impostato ogni intervento terapeutico su una donna incinta. Tutti gli interventi, di qualsiasi natura, in qualsiasi periodo della gravidanza e per qualsiasi patologia, che non fossero in grado di garantire a priori e in maniera certa la salvezza della vita del feto erano da

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ritenersi contrari alla morale e alla dottrina della chiesa e, come tali, proibiti a ogni persona di fede cattolica. In questa sede presenterò alcuni dei caratteri più interessanti di questa serie di sentenze, che costituiscono l’oggetto di una ricerca ancora in corso. In particolare presterò attenzione al contesto nel quale questi interventi normativi emersero e per agire nel quale furono concepiti. Il lungo silenzio Nel corso della sua storia, infatti, la “Suprema” congregazione della chiesa cattolica, vale a dire quel Sant’Uffizio che era custode dell’ortodossia dell’essere cattolico, aveva spesso sfiorato i temi della nascita e dell’ostetricia, ma, prima del 1884, non si era mai espressa in maniera così esplicita e diretta, anche perché, con tutta probabilità, non le erano arrivati quesiti così dettagliati e specialistici a riguardo. Quest’osservazione assume maggiore rilevanza in considerazione del fatto che l’oggetto della normazione, appunto l’interruzione terapeutica della gravidanza e le operazioni a essa finalizzate, non era certo una peculiarità dell’Ottocento inoltrato. Per rimanere in ambito teologico, già Tertulliano nel II secolo d.C. si era occupato di embriotomia. E, dopo di lui, generazioni di teologi cattolici, da Cordoba a De Lugo a Cangiamila, avevano cercato di definire dal punto di vista teologico che cosa si doveva fare in situazione di questo tipo e se era lecito interrompere la gravidanza per salvare la vita della donna e/o del feto.5 Discussioni che si erano approfondite e ampliate con il Settecento, che aveva visto l’inizio della medicalizzazione del parto, primo canale attraverso il quale si esplicava quell’investimento biopolitico sulla nascita che avrebbe inciso profondamente sulle dinamiche e gli equilibri interni alla scena del parto, costituendo un dispositivo di governo e gestione nel quale la medicina e i medici avrebbero poi assunto un ruolo centrale, a spese di levatrici e preti. Limiti e scopi della terapeutica in ostetricia in relazione alla donna, al feto e al rapporto tra gravidanza e religione furono ampiamente discussi sia dalla medicina che dalla teologia cattolica. Per quanto riguarda il punto di vista cattolico, è tuttavia possibile affermare che fino agli interventi inquisitoriali di fine Ottocento l’au-

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torità di questi e altri teologi, insieme ad alcuni argomenti esegetici, fu considerata punto di riferimento sufficiente per formare la disciplina cattolica della pratica ostetrica e del parto.6 Alle numerose richieste precedenti il 1884 il Sant’Uffizio, infatti, aveva risposto rinviando ai testi di Cangiamila e Roncaglia, oppure ai manuali di Liguori, Gury e Ballerini. La prudenza e la cautela avevano prevalso e il silenzio tradizionale era stato mantenuto. Anche se in un caso il Sant’Uffizio era andato molto vicino a una presa di posizione. Nel 1852 un professore di Louvain aveva presentato agli inquisitori un caso di gravidanza complicata da ristrettezza del bacino e aveva chiesto lumi e precisazioni su come e quando dovesse esser applicata l’operazione cesarea. Ma, soprattutto, aveva chiesto se fosse lecito di fronte ad alcuni patologie della donna, precisamente accertate, provocare un aborto per salvarle la vita. Previa, naturalmente, l’amministrazione del battesimo al feto. In quell’occasione gli inquisitori avevano attivato l’iter di giudizio. Un consultore era stato incaricato di redigere un parere scritto sulla questione, poi votato dalla feria dei cardinali. Il consultore, il domenicano Giacinto De Ferrari, nonostante si fosse espresso a favore dell’aborto procurato per motivi terapeutici, aveva concluso nihil esse respondendum. Anche se non sussistevano argomenti ultimi per dichiarare illeciti questi interventi abortivi, il contesto medico-scientifico non presentava coordinate concettuali e informazioni sufficientemente precise e condivise per poter fondare un giudizio morale. Le posizioni all’interno del Sant’Uffizio erano molto articolate, ma mancava una base solida su cui poggiarle e fu quindi ritenuta più opportuna la strada della dilazione della risposta, fino al momento in cui il discorso della medicina non avesse presentato elementi più certi.7 Questo caso, al di là del risultato, testimonia come già attorno alla metà del secolo l’Inquisizione avesse presenti sostanzialmente tutti gli elementi e le linee di fondo che avrebbero poi originato la normazione di fine secolo: formare, nel doppio senso identificato da Bourdieu, la scena del parto, definire gli spazi di decisione che competevano al medico, identificare l’esistenza e la gerarchia di priorità nella scelta, quando questa appariva ineludibile. Il silenzio storico della Chiesa fu, non a caso, uno dei nodi più discussi sia in Sant’Uffizio, sia nell’ampio dibattito che si aprì nel secondo Ottocento su questi temi. Interpretarlo come un implicito

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assenso all’impiego di specifiche operazioni abortive per alcune patologie fu il principale argomento di quei non pochi teologi e inquisitori che si espressero a favore dell’interruzione terapeutica di gravidanza. Se la Chiesa non aveva ritenuto necessario esprimersi su operazioni e problemi che esistevano da secoli, ne derivava che essa implicitamente accettava, o quantomeno tollerava, tali opzioni, oppure riteneva queste situazioni rare, risolvibili quindi con la dottrina esistente, senza necessità di nuovi princìpi o specificazioni ad hoc. D’altra parte se sempre più persone si rivolgevano al Sant’Uffizio alla ricerca di chiarimenti per orientarsi in queste situazioni, questo faceva emergere un problema di ricezione e interpretazione della dottrina, a diversi livelli. A molti teologi e inquisitori questi dubbi apparivano come il risultato del dominio del materialismo e del positivismo, dominio che, peraltro, suggeriva loro ulteriore cautela e prudenza. Le riviste della scienza “nemica” apparivano loro pronte a sfruttare ogni presa di posizione della Chiesa cattolica per attaccarla. Risultava molto più opportuno e prudente rimanere nel solco silenzioso della tradizione, piuttosto che correre questo rischio. Tanto più che la materia stessa del contendere era di per sé mobile e sfuggente, sottoposta com’era ai continui cambiamenti e aggiornamenti indotti dagli sviluppi della ricerca medico-scientifica e della pratica terapeutica. Una mobilità che riguardava in qualche misura anche il discorso cattolico, poiché alcuni dei concetti filosofico-teologici che fondavano l’analisi e la valutazione morale della gravidanza e dell’intervento terapeutico, continuavano a rimanere sostanzialmente aperti e discussi, anche all’interno del mondo cattolico. Primo tra tutti il tempo dell’animazione del feto.8 Il silenzio giocava un ruolo retorico importante anche per quanto riguardava la stessa medicina. Un esempio rilevante è quello fornito dal lemma avortement del Dictionnaire encyclopédique des sciences médicales, vero e proprio monumento alla scienza ottocentesca, dove Jacquemier affermava che l’aborto procurato, dopo una discussione pubblica, sulla stampa, nelle accademie e nelle monografie scientifiche, era divenuto ormai cosa accettata, passata dalla teoria al fatto, nei paesi protestanti come in quelli cattolici. E aggiungeva che «les autorités judiciaires, religieuses averties, provoquées sont restées silencieuses, reconnaissant implicitement le

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droit du médecin agissant dans les limites de son art».9 Questo passaggio fu importante, non tanto per l’autorevolezza e l’importanza della fonte, quanto perché fu precisamente citato dal cardinale di Lione in una lettera al Sant’Uffizio, come segno del mutato atteggiamento dell’arte medica verso l’aborto e le istanze cattoliche. Le norme e le forme Tracce di questa difficoltà nel definire l’opportunità d’una risposta e i caratteri della risposta stessa sono percepibili anche nell’espressione che fu impiegata per la prima sentenza del 1884. Tra le formule retoriche disponibili, infatti, ne fu scelta una che assumeva implicitamente l’impossibilità di definire con nettezza e sicurezza una posizione morale. In questo primo caso si trattava dell’embriotomia.10 L’arcivescovo di Lione, il cardinale Louis-Marie Caverot, aveva chiesto agli inquisitori se nelle università cattoliche di medicina poteva essere insegnato che in determinate situazioni patologiche l’embriotomia poteva essere considerata operazione moralmente lecita e conforme ai valori cattolici. Un problema interno al rapporto tra università, medicina e fede cattolica che giocò un ruolo importante nell’economia delle sentenze. La maggior parte di esse, infatti, furono originate da quesiti provenienti da ambienti universitari d’area francofona: Lione, Louvain, Lille, quest’ultima l’unica università cattolica francese ad aver attivato una facoltà di medicina. Una prospettiva complessa, quindi, appare all’origine di queste sentenze. Nella Francia della Terza Repubblica, infatti, le università cattoliche che erano state costituite sul finire degli anni Settanta, stavano cercando di definire una propria specificità sul terreno scientifico e accademico, per differenziarsi nettamente dalle corrispettive università di stato. Una necessità di ordine materiale, dato che le limitazioni fiscali imposte dalla legge Ferry erano abbastanza rigide e definire il proprio profilo accademico sul mercato serviva anche a sopravvivere, ma anche un problema di ordine diverso, che atteneva alle forme e ai motivi del reclutamento dei docenti. La maggior parte dei professori delle università cattoliche s’erano formati in quei laboratori e in quelle facoltà della scienza positivista e materialista, cui una buona parte del mondo cattolico imputava le peggiori malefatte. La co-

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struzione d’una scienza cattolica, declinata nei singoli suoi rami – medicina, biologia, chimica, fisica o quant’altro – era ritenuta da questi ambienti come una necessità, e tale prospettiva ricevette poi un ulteriore impulso e appoggio da parte del più ampio movimento neotomista, che si sviluppò a partire dai primi anni del pontificato di Leone XIII. Dei segni di frizioni tra le assunzioni aprioristiche di principio prettamente ideologiche, verrebbe da dire, e i caratteri specifici della conoscenza e dell’indagine scientifica ottocentesca dei laboratori e delle cliniche, possono essere intravisti nel secondo quesito che fu inviato in Sant’Uffizio, nel 1886. Una domanda che si riallacciava strettamente alla precedente, quella di Lione, di cui in sostanza chiedeva la traduzione pratica nella casistica ostetrica. Questa volta la domanda proveniva dall’università di Lille. I clinici della facoltà di medicina inviarono agli inquisitori romani una lista di 12 casi ostetrici, nei quali la gravidanza era suddivisa in tipologie, distinte secondo due parametri: lo stato di gravità della donna, misurato sul grado di rischio di morte o menomazione, e la vitalità o meno del feto, vale a dire la sua capacità di sopravvivere una volta estratto dall’utero materno. Un limite che in questo periodo storico era considerato oscillante tra il sesto e il settimo mese della gravidanza. Agli inquisitori i clinici francesi chiesero di declinare l’assunzione di principio della sentenza del 1884 nella specifica casistica clinica. E per questa risposta il Sant’Uffizio abbandonò quelle cautele intrinseche alla sentenza del 1884 e impiegò formule più categoriche e definite: il negative, o il positive. Nel 1889 la sentenza con la quale il Sant’Uffizio riassunse la risposta a Lille affermava che non poteva esser insegnato con sicurezza che fosse lecita qualsiasi operazione chirurgica direttamente occisiva del feto o della donna. Questa sentenza fu appunto interpretata come la traduzione pratica della precedente e su questa base si giustificò un nuovo intervento normativo su uno stesso tema. Un fatto, come abbiamo già detto, non usuale nella prassi inquisitoriale e che fu costruito, in questa come nelle successive sentenze, su una specificazione dettagliata che distingueva elementi nuovi nei diversi quesiti. Infatti, il ritorno del Sant’Uffizio su un medesimo tema fu qualcosa che si ripeté anche in seguito. I 12 casi presentati dai clinici di Lille coprivano in maniera sostanzialmente completa la casistica delle gravidanze complicate e delle relative opzioni chirur-

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gico-ostetriche. Erano presenti in questa lista anche quelle operazioni che sarebbero poi state oggetto delle ultime tre sentenze: aborto procurato, laparotomia e aborto provocato in gravidanza extrauterina. Un dato, questo, sul quale è necessario soffermarsi. L’ignoranza dei decreti precedenti era indubbiamente parte di questo ritorno degli inquisitori sulle stesse questioni. Occorre tenere conto che il dispositivo delle sentenze riprendeva semplicemente parte del quesito che le aveva originate e aggiungeva formule stringate, come quelle che abbiamo visto. Non era presentata un’argomentazione della risposta, che era demandata all’interpretazione di teologi e manualisti. Era infatti attraverso i manuali e i testi di teologia, nonché attraverso le riviste per il clero, che le sentenze avevano principalmente la loro diffusione. Se questo è certamente uno degli elementi, il fatto che l’ambiente medico-teologico, specialmente quello universitario francese, abbia insistito nel chiedere precisazioni sul problema dell’ostetricia abortiva, può essere interpretato come segno di una certa resistenza ad accettare tale codificazione da parte del mondo medico, ma anche dello stesso mondo teologico. L’ultima sentenza, quella del 1902, in questo senso è esemplificativa. Fu originata da un quesito proposto nel 1900 da un decano della facoltà di Teologia di Sherbrooke, a Montreal, che riferendosi al caso di gravidanza extrauterina chiedeva quale fosse la relazione tra il grado di maturità del feto e il tempo dell’estrazione. Una distinzione sulla quale si fondava la differenza tra parto prematuro artificiale e aborto provocato. Il Sant’Uffizio rispose rimandando semplicemente al decreto del 1898, che dichiarava illeciti tutti gli interventi ostetrici che non assicuravano la viabilità del feto. Questa sentenza fu interpretata dalla pubblicistica cattolica come un’implicita presa di posizione contro due teologi gesuiti di rilievo nel panorama cattolico ottocentesco: Antonio Ballerini e Augustin Lehmkuhl. Entrambi nei loro manuali si erano fatti sostenitori della liceità di interventi abortivi per motivi terapeutici, di fronte a specifiche situazioni patologiche. Dopo che le prime sentenze avevano chiuso gli spazi di applicazione di tali concetti, questi due teologi avevano spostato il terreno di applicazione dell’intervento abortivo al caso di gravidanza extrauterina. La sentenza del 1902 chiuse anche questa possibilità, e Gioachino Ferrini, il consultore che redasse il parere scritto, attaccò esplicitamente Ballerini e Lehmkuhl, che non accettavano di sottomettersi

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alle decisioni inquisitoriali e affermò a chiare lettere che per la Chiesa il feto aveva un diritto alla vita che doveva esser difeso. Gli argomenti Le fonti del Sant’Uffizio permettono di entrare nelle argomentazioni inquisitoriali e nella dinamica delle decisioni, da cui emerge come anche all’interno della “Suprema” le posizioni fossero divergenti. Il quesito proposto da Lione, quello della rottura del silenzio, fu il più discusso ed ebbe un iter lungo e complesso. Passarono due anni tra l’invio del quesito e la risposta inquisitoriale; tre furono i consultori incaricati di redigere un esame scritto. Di questa complessità si ebbe eco anche sulle pagine degli Acta Apostolicae Sedis, dove nel dicembre del 1883 i numerosi lettori in attesa venivano invitati a pazientare, in quanto la discussione era ancora aperta e difficile.11 Dei tre consultori incaricati, due espressero parere favorevole, Agostino Sepiacci e Giuseppe D’Annibale; quest’ultimo, insieme a Ballerini e Lehmkuhl, tra i più importanti teologi ottocenteschi, mentre il solo gesuita Ugo Molza espresse parere contrario. La prospettiva di quest’ultimo, come abbiamo visto, fu quella assunta poi dall’Inquisizione. Entrando nello specifico delle argomentazioni, è possibile notare come le valutazioni ruotassero attorno a tre ipotesi interpretative tradizionali: la tesi del feto come aggressore, per la quale lo stato di pericolo per la vita della donna era imputabile all’aggressione da parte del feto e in quanto aggredita la donna poteva avvalersi del diritto di legittima difesa, anche mediato attraverso un terzo, in questo caso il medico-ostetrico; l’ipotesi della collisione dei diritti, secondo la quale nella gravidanza a rischio si scontravano due diritti alla vita, a priori equiparati, che si distinguevano in base a una ponderazione funzionalistica, per la quale la vita della donna risultava più utile e importante, in quanto già relazionata socialmente e affettivamente; infine l’ipotesi del male minore, che sosteneva si dovesse operare per ridurre i mali al minimo. In quest’ultima ipotesi giocava un ruolo molto importante, in relazione al battesimo, il concetto di animazione, vale a dire il momento in cui l’anima razionale veniva infusa da

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Dio nell’embrione, attribuendogli lo specifico ontologico dell’essere umano.12 L’ipotesi che appariva prevalente nell’Ottocento teologico affermava che il feto era animato fin dal primo momento del concepimento e, come tale, era capace di ricevere il battesimo e d’aver quindi salva la vita eterna. Con tale prospettiva la donna doveva sacrificarsi, poiché il bene della sua vita terrena era inferiore al bene della vita eterna del feto. Ma su questo punto le discussioni furono ampie, poiché, al contrario di quanto affermava la pubblicistica coeva, e anche parte della storiografia che oggi se ne occupa, il concetto di animazione ritardata era ancora diffuso e sostenuto in parte del dibattito teologico ottocentesco.13 Ma, soprattutto, contro tale argomento fu usato il motivo che il battesimo in utero era ormai tecnicamente possibile e teologicamente corretto: si trattava quindi di decidere tra due diritti alla vita terrena, equiparati e uguali. Nell’analisi teologica e inquisitoriale le operazioni abortive erano inquadrate nelle azioni relative al quinto comandamento in quanto erano considerate implicare un’uccisione. Per sfuggire alla prospettiva del non occides l’esame delle operazioni chirurgico-ostetriche si giocava, infatti, per i fautori della loro legittimità, nel definire il grado di occisività delle singole operazioni. Da questo punto di vista esse venivano divise in due gruppi: da una parte quelle direttamente occisive, nelle quali l’intervento determinava direttamente la morte del feto, dall’altra quelle non occisive, nelle quali la morte del feto era la conseguenza indiretta di una azione intrapresa per altri fini, nel caso specifico la salute della donna. Classificare nell’una o nell’altra categoria i singoli interventi terapeutici significava determinarne in maniera diretta la moralità e conformità ai valori cattolici. Si trattava di uno schema interpretativo analogo a quello che sostanziava le analisi teologiche della contraccezione.14 Nella prima categoria generalmente venivano inserite l’embriotomia e la craniotomia, mentre nella seconda rientravano l’aborto provocato e il parto prematuro. È da sottolineare il fatto che in alcuni testi inquisitoriali l’operazione cesarea era inserita nell’ambito delle operazioni occisive. Il suo grado di occisività veniva letto attraverso i dati statistici, che testimoniavano come, quantomeno fino a Semmelweiss15 e soprattutto Pasteur, tale operazione fosse quasi sempre mortale per la donna. E infatti veniva interpretata come un’operazione favorevole al feto, nonostante i tassi di mortalità dei feti in queste situazioni fosse-

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ro altrettanto elevati. In questo quadro l’aborto provocato era configurato come un intervento tecnicamente in tutto simile al parto prematuro, distinto da quest’ultimo soltanto perché veniva operato prima del sesto mese, cioè prima che il feto fosse in grado di sopravvivere. In questo senso, gli veniva attribuito un effetto occisivo indiretto. Tra medico e prete Dal quadro complessivo delle fonti inquisitoriali emerge come l’Inquisizione assumesse come interlocutore sostanziale e ultimo la medicina. La voce della donna era completamente assente dalla prospettiva argomentativa degli inquisitori e sostanzialmente non aveva motivo di esistere. Infatti, nella prospettiva inquisitoriale la donna, in quanto madre – segnato con maiuscola – non esisteva come soggetto di volontà: essa era semplicemente la sua funzione procreatrice e, come tale, non poteva che opporsi a ogni intervento abortivo e accettare, al contrario, qualsiasi intervento medico, per quanto pericoloso per la sua salute, pur di adempiere al compito che la natura le aveva attribuito, sacrificando la propria per la vita del feto. Il confronto era appunto con la medicina, con le sue strutture interpretative, eziologiche, con le cause, i princìpi e i fini in base ai quali essa operava. In questo senso l’intervento normativo dell’Inquisizione si configura come un tentativo di definire gli spazi d’azione e di decisione, circoscrivendo quello del medico a semplice applicazione pratica di valori e princìpi forniti dalla Chiesa. La contestazione di fondo che veniva mossa ai medici, ostetrici in questo caso, era quella di aver assunto un potere di vita e di morte, che era esclusiva divina. Assumendosi tale potere i medici avevano violato una gerarchia intrinseca all’ordine delle cose, e, soprattutto, avevano fortemente limitato il potere di intervento e di controllo della Chiesa cattolica sulla scena e la dinamica del parto. Un controllo che, come ci ha insegnato la storiografia, dai classici lavori di Gélis, a quelli di Pancino, Filippini e altri, era già stato messo in forte discussione a partire dal processo di medicalizzazione del parto, originato dagli interessi biopolitici dei nascenti stati nazionali europei, ma che nel XIX secolo ebbe un salto di qualità. Il nuovo tipo di ostetricia, con un impianto

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epistemologico fortemente determinato dalla statistica, aveva cambiato radicalmente il rapporto tra medico e paziente. Al tempo stesso la centralità del medico all’interno del dispositivo biopolitico ne faceva un attore sempre più condizionante della scena del parto. Se, seguendo l’ipotesi di Jacques Gélis, il parto complicato fu il punto attraverso il quale la medicina del Settecento iniziò a prendere il controllo della scena del parto, con il XIX secolo è possibile dire che questo percorso di presa in carico del governo della nascita e del parto sia arrivato a una conclusione, quantomeno dal punto di vista discorsivo, con l’assunzione di un potere di decidere interventi abortivi per motivi terapeutici. La medicina ottocentesca, infatti, aveva assunto l’interruzione della gravidanza per motivi terapeutici come una possibilità tecnica di successo, ma soprattutto come un dovere etico e professionale. Le Accademie di medicina europee, di Poznam, Marsiglia, Nantes, Bruxelles e soprattutto di Parigi, nei due decenni a cavallo della metà del secolo avevano formalmente riconosciuto l’aborto provocato e le operazioni embriotomiche come interventi legittimi dal punto di vista professionale e deontologico. Esempio emblematico e più autorevole fu la discussione all’Accademia di Medicina di Parigi, cui appartenevano quelli che George Weisz definiva i “mandarini della medicina”.16 Qui nel 1851 ebbe luogo una vivace discussione su una memoria che presentava un caso di aborto procurato. In questione c’era non tanto il fatto che tale pratica fosse ormai comune e ampiamente diffusa, quanto se essa dovesse avere un riconoscimento formale e autorevole da parte dell’Accademia, la stessa che era parte integrante di quel forte investimento biopolitico sull’infanzia che caratterizzò la Francia di quel periodo, come hanno chiaramente mostrato gli studi di Catherine Rollet-Echalier.17 L’Accademia di medicina approvò l’aborto procurato per fini terapeutici e questa discussione sarebbe divenuta poi l’esempio più celebre e citato nella pubblicistica medica e in quella teologica di affermazione autorevole ex professo della liceità degli interventi abortivi a scopo terapeutico. D’altra parte, i progressi della chirurgia e i perfezionamenti tecnici degli strumenti avevano ormai reso l’embriotomia e l’aborto procurato operazioni sicure, mentre l’operazione cesarea continuava ad avere tassi di mortalità estremamente elevata. Da questo punto di vista le riviste di medicina discutevano casi di aborto

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provocato nell’unica prospettiva della correttezza scientifica di diagnosi e terapia, non più della legittimità etica. Queste discussioni accademiche, in particolare quella parigina, e numerosi articoli e saggi medici comparivano anche negli esami degli inquisitori, portati ad esempio del mutato clima e della mutata prospettiva nella quale veniva governata la gravidanza, ma soprattutto furono citati per spingere la Chiesa a far fronte a questi cambiamenti, che investivano ambiti strategici per la dottrina cattolica, basti pensare appunto alle università cattoliche francesi, dove appariva una difficoltà a definire la cattolicità delle pratiche ostetriche. Conclusione Per concludere questo breve rapido sguardo alle sentenze inquisitoriali, mi sembra si possa affermare che una prima risposta al quesito principale, vale a dire perché la Chiesa cattolica abbia deciso di intervenire in una materia che era discussa da molto tempo e che soprattutto nel Settecento aveva visto i suoi momenti fondanti, può essere cercata al livello discorsivo. Il confronto, come abbiamo visto fu tra due tipi di discorsi, due modi di pensare, impostare e giudicare il parto, la gravidanza e il rapporto tra la donna e il feto. Il XIX secolo da questo punto di vista presentava un forte cambiamento, che se non era completamente realizzato dal punto di vista delle pratiche, lo era sicuramente dal punto di vista dei discorsi. I modi in cui la nascita e il parto venivano pensati e gestiti riflettevano fortemente l’impianto eziologico e concettuale della medicina, e anche se i parti ottocenteschi continuavano per lo più a esser gestiti a casa, dalle levatrici, il peso della parola o della presenza del medico era crescente e sempre più incisivo. Da questo punto di vista, quindi, le sentenze inquisitoriali appaiono come un tentativo cattolico di recuperare un potere di parola e di influenza su quella scena del parto nella quale il ruolo del cattolicesimo appariva limitato, non tanto dal punto di vista delle credenze, quanto dal punto di vista della struttura e dinamica delle decisioni che in essa venivano prese. Questo tentativo di recupero di una parola pesante fu cercato attraverso la difesa del feto, che venne assunto come un valore prioritario e assoluto sul quale impostare la dinamica decisionale della scena del parto. Cosa che,

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come appare dal dibattito ottocentesco, avvenne al di là di una base condivisa di valori e princìpi che potessero sostenere tale scelta. In tal modo, assumendo la difesa del feto e facendosi rappresentante in qualche misura del suo diritto alla vita, la Chiesa cattolica ha recuperato un ruolo forte e spesso condizionante in ogni dinamica, discorsiva e non, che riguardasse la nascita, il parto, la gravidanza.

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Note 1. In relazione alla codificazione mi sembra molto utile l’interpretazione che Pierre Bourdieu ha definito per la ricerca etnografica. Bourdieu riteneva legge generale che quanto più una pratica era pericolosa, tanto maggiore ne era la codificazione. Ma soprattutto leggeva nella codificazione un doppio obiettivo, mettere in forma e dare delle forme (mettre en forme et mettre des formes), secondo il principio della scolastica principium importans ordinem in actu. Nel caso delle sentenze inquisitoriali, mi sembra che compaia una doppia funzione analoga. Cfr. P. Bourdieu, La codification, in Idem, Choses dites, Paris, Editions du Minuit, 1987, pp. 94-105. 2. Un’immagine che veniva impiegata anche dai medici. Giuseppe Berruti, per esempio, nella sua monografia in difesa dell’embriotomia, scriveva: «La regola che deve tenere il pratico si è quella che a condizioni eguali deve far traboccare la bilancia in favore della madre». Cfr. G. Berruti, La craniotomia nella pratica ostetrica, Torino, Paravia, 18762, p. 76. 3. J. Delmaille, s.v. Avortement, in R. Naz (dir.), Dictionnaire de droit canonique, Paris, Letouzey et Ané, 1935, coll.1536-1561, col. 1544. 4. Ibidem. La categoria di aborto indiretto, infatti, giocava un ruolo fondamentale in tutti le analisi teologiche della liceità dell’aborto. Se l’aborto diretto, inteso come intervento intenzionale, consapevole e finalizzate esplicitamente alla morte del feto, era stato sempre condannato dalla morale cattolica in quanto omicidio, le posizioni riguardo l’aborto indiretto erano sempre state molto più articolate e differenziate. L’esistenza di un diverso rapporto mezzi-fini differenziava dal punto di vista teologico e morale questo tipo di aborto dal precedente. In questo caso, infatti, si trattava d’un intervento intrapreso per un altro motivo, sostanzialmente la salute della donna, che aveva come effetto secondario la morte del feto, che non era da considerare quindi il diretto effetto dell’azione, ma una conseguenza dilazionata nel tempo. In questo modo molti teologi affermavano che questo tipo di intervento abortivo era lecito e persino doveroso di fronte a determinate patologie, ad esempio il cancro all’utero o la gravidanza extrauterina. Per motivi di spazio non è possibile dar conto qui dei numerosi testi cattolici che nel secondo Ottocento sostennero posizioni filoabortiste e filoembriotomiste. Per un quadro dettagliato del dibattito cattolico rimando al lavoro di J. Connery, Abortion: the Development of the Roman Catholic Perspective, Loyola University Press, 1977, in particolare agli ultimi quattro capitoli (XI-XIV), dove sono esaminate nel dettaglio molte tra queste pubblicazioni. 5. I caratteri della medicalizzazione della nascita e del parto in epoca moderna sono stati indagati da un’ampia storiografia. Hanno dedicato particolare attenzione al rapporto tra religione e nascita alcuni testi, che hanno ricostruito il peso e il ruolo che la chiesa cattolica e la teologia giocarono in questo percorso. Cfr. J. Gélis, L’arbre et le fruit. La naissance dans l’Occident moderne, XVIe-XIXe siècle, Paris, Fayard, 1984; Idem, La sage femme ou le médecin. Une nouvelle conception de la vie, Paris, Fayard, 1988. Per quanto riguarda l’Italia cfr. C. Pancino, Il bambino e l’acqua sporca. Storia dell’assistenza al parto dalle mammane alle ostetriche, (secoli XVI-XX), Milano, Franco Angeli, 1984; N.M. Filippini, La nascita straordinaria. Tra madre e figlio la rivoluzione del taglio cesareo (sec. XVIII-XIX), Milano, Franco Angeli, 1995.

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6. Il tema del silenzio storico della Chiesa va precisato. Con questo termine le fonti archivistiche e a stampa che riguardano questi temi identificano il fatto che la Chiesa cattolica non abbia prodotto ex cathedra una normazione precisa e definita dei temi dell’ostetricia abortiva. Questo non implica che la Chiesa attraverso l’Inquisizione o altra congregazione non abbia affrontato o sfiorato temi attinenti quest’area di problemi. Significa che questi temi non ricevettero, prima del 1884, una normazione esplicita e ad hoc. Peraltro, infatti, lo stesso Sant’Uffizio aveva incrociato alcune volte questi problemi, e in alcune occasioni aveva pure risposto alle questioni. Come per esempio nel caso del decreto inquisitoriale del 2 marzo 1679, con il quale Innocenzo XI, dopo aver istituito due commissioni, di teologi e cardinali, condannò un centinaio di presunte proposizioni lassiste di un gruppo di teologi di Louvain. Tra queste proposizioni due riguardavano l’aborto; la n. 34 affermava fosse lecito procurare l’aborto prima dell’animazione e la n. 35 che affermava fosse probabile che il feto avesse l’anima solo dopo la nascita, e non nell’utero, per cui l’aborto non poteva esser considerato omicidio. Cfr. P. Sardi, L’aborto ieri e oggi, Brescia, Paideia, 1975, pp. 191-192. Per una sintetica storia delle posizioni ecclesiastiche sull’aborto, con i testi delle principali decisioni, cfr. Delmaille, Avortement. 7. Probabilmente è questo il caso menzionato dalla «Revue théologique» nel 1857, cui fa cenno Connery. Cfr. Connery, Abortion, p. 215. 8. Nel XIX secolo l’ipotesi dell’animazione ritardata, per la quale l’anima era infusa da Dio soltanto nel momento in cui esisteva la forma di un corpo umano capace di svilupparne le potenzialità intrinseche, cede sostanzialmente il passo all’altra idea, che fino ad allora era rimasta minoritaria, quella per la quale l’anima è presente dal momento del concepimento. Ogni intervento dal momento del concepimento in poi diveniva un potenziale aborto, in quanto impedimento di una vita potenziale. Contro i sostenitori dell’animazione ritardata si levarono accuse anche di darwinismo, poiché ipotizzavano uno sviluppo graduale dell’essere umano, che in una primissima fase non era distinto né distinguibile da altra forma vivente. 9. Citato in L. Guiol, Lettera al cardinale Bilio, 5 maggio 1883, Archivio Congregazione per la Dottrina della fede, Dubia Varia, 1884, n. 20, parte II. 10. L’embriotomia è operazione abortiva che consiste nell’estrarre il feto a brani. 11. Nel numero di dicembre fu pubblicata la risposta a Caverot, che aveva aggiunto altre domande, in relazione a quella relativa all’embriotomia era scritto: «Siquidem tertium cum sit obiectum plurium petitionem, quae ab aliis quoque Ordinariis transmissae sunt, adhuc penes Supremum hunc ordinem in studiis est». Cfr. Acta Sanctae Sedis, vol. XVII, 1884, p. 555. 12. Sul tema del battesimo, cfr. J. Bossy, Sangue e battesimo: parentela, comunità e cristianesimo in Europa occidentale dal XIV al XVII secolo, in Idem, Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa moderna, Torino, Einaudi, 1998, pp. 37-58; si veda poi J. Gélis, De la mort à la vie. Les Sanctuaires à répit, in «Ethnologie française», XI, 3 (1981), pp. 221-224; e anche S. Cavazza, La doppia morte: resurrezione e battesimo in un rito del Seicento, in «Quaderni Storici», 50, 2 (1982), pp. 551-582; P. Stella, G. De Molin, Offensiva rigorista e comportamento demografico in Italia (1660-1860), in «Salesianum», 40 (1978), pp. 3-55.

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13. Molti testi furono pubblicati nel secondo Ottocento a sostegno dell’idea di animazione ritardata, di cui Tommaso d’Aquino era il principale teorico, in particolare dopo l’assunzione del tomismo come teologia ufficiale della chiesa cattolica. Anche all’interno dello stesso Sant’Uffizio in un caso precedente a quelli qui in esame, fu sostenuta l’idea dell’animazione ritardata, o, quantomeno l’idea dell’animazione immediata non fu ritenuta egemone e indiscussa. Per un esame dettagliato di questo caso cfr. E. Betta, Anime salve e feti abortivi. L’Irlanda ottocentesca terreno di missione, in «Quaderni Storici», 105, 3 (2000), pp. 767-801. Il consenso sull’animazione immediata non pare esser stato così definito e compatto come appare dalle ricerche di Jacques Gélis e Nadia Filippini, e anche se indubbiamente con il Settecento l’ipotesi dell’animazione immediata può esser considerata quella prevalente all’interno del mondo cattolico, continuarono a esistere numerosi e significativi sostenitori dell’animazione ritardata nell’Ottocento come nel Novecento, ad esempio Arthur Veermersch, oppure l’ambiente gesuita americano. Forse l’unico lavoro storico sull’animazione fu scritto peraltro a sostegno dell’ipotesi dell’animazione ritardata. Cfr. A. Lanza, La questione del momento in cui l’anima razionale è infusa nel corpo, Roma, Pontificio Ateneo Lateranense, 1939. 14. In questo senso cfr. J.T. Noonan, The Morality of Abortion. Legal and Historical Perspectives, Cambridge, Harvard University Press, 1977, in particolare il capitolo An Almost Absolute Value in History, pp. 1-59, di cui esiste anche una traduzione italiana: J.T. Noonan, La chiesa cattolica e l’aborto, in AA.vv., L’aborto nel mondo, Milano, Mondadori, 1970, pp. 117-176. 15. Una splendida agiografia laica fu dedicata a Semmelweiss, medico ungherese tra i primissimi a ipotizzare misure di antisepsi nella pratica ostetrica, da Louis Ferdinand Céline, che fece della figura di Semmelweiss l’oggetto della sua tesi di laurea in medicina. Cfr. L.F. Céline, Il dottor Semmelweiss, Milano, Adelphi, 1974. 16. Cfr. G. Weisz, The Medical Mandarins: the French Academy of Medicine in Nineteenth and Early Twentieth Centuries, New York, Oxford University Press, 1995. 17. Cfr. in particolare C. Rollet-Echalier, La politique à l’égard de la petite enfance sous la IIIe République, Paris, Institut National d’Études Démographiques, Presse Universitaire de France, 1990.

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Metodi contraccettivi (1976), aborto (1975), dono di organi (1976), dono di sperma (1978), dono di embrioni (1984), esperimenti sull’uomo (1988), eutanasia (dal 1978 al 1999): da trent’anni, in Francia, come nel resto d’Europa, lo Stato si è messo a intervenire massicciamente nel rapporto tra l’individuo e il suo destino biologico. Continuando a penalizzare oggi non il suicidio ma l’incitazione al suicidio, non la prostituzione ma il suo sfruttamento economico, lo Stato dimostra di essersi sempre occupato assai meticolosamente di queste questioni. Tuttavia, i recenti interventi giuridici sono il sintomo di un’intrusione che non ha precedenti. Organi, sangue, sperma, cellule, geni sono ormai sotto l’occhio del Leviatano. Si tratta di oggetti ancora relativamente “ignobili” per le scienze sociali “serie”: a causa della minaccia assai presente del senso comune e della norma dominante (la letteratura bioetica ne costituisce spesso un buon esempio), ma anche di una certa ripugnanza a considerare la dimensione biologica del mondo sociale, che differenzia i sociologi e politologi francesi dagli storici e dagli autori anglosassoni e tedeschi.1 Tale ripugnanza è assimilabile al «disgusto» di cui parla Alain Corbin a proposito della dimensione fisica dei massacri in politica.2 Ci proponiamo qui di superare provvisoriamente questa resistenza, per cercare di trarre, da quest’evoluzione, alcuni insegnamenti sulla storia dello Stato e sull’azione pubblica. Il controllo di questi oggetti ignobili è infatti all’origine di procedure assai interessanti che permettono di studiare quel che accade alle frontiere dell’azione pubblica, laddove essa tocca i comportamenti apparente-

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mente più privati, e soprattutto le pratiche corporali. Queste procedure di intervento si sono del resto modificate profondamente negli ultimi trent’anni: accanto ai metodi abituali del governo – diretti, visibili, etichettati come “pubblici” e “politici” – vediamo comparire o moltiplicarsi dei metodi di controllo originali, indiretti, nascosti, e la cui natura politica o statale è facilmente negata. Prime interpretazioni disponibili Come caratterizzare rapidamente l’evoluzione di cui ci stiamo occupando? Essa deriva da tre trasformazioni solo in apparenza indipendenti: la messa a punto di tecniche di intervento sulla riproduzione umana, il riequilibrio dei poteri tra uomini e donne nella sfera domestica, la messa a punto di pratiche che permettono la circolazione di parti del corpo umano. Una storia che, in Francia, si svolge in quattro fasi: primi sussulti all’inizio degli anni Cinquanta; cristallizzazione nel diritto e nelle pratiche nel corso del decennio 1965-1975; decollo delle pratiche e dei dispositivi dopo questo periodo. Ci limiteremo a riassumere queste evoluzioni facendo rilevare che esse traducono soprattutto il riconoscimento politico, da parte del diritto e dello Stato, di una relazione specifica dell’individuo con il proprio corpo. Dimostrano, a prima vista, l’idea che il corpo e le funzioni biologiche (la gestazione, la riproduzione, l’organo, i corpi morti, l’identità sessuale) sono a disposizione dell’individuo, e le nuove pratiche bio-mediche rappresentano solo l’evoluzione più recente di questa tendenza. Accentuano, inoltre, l’idea di una relativa malleabilità degli stati e dei destini corporali, contro gli imperativi della natura, aggravati da quelli della società. Da un’analisi dei discorsi su queste pratiche emergono due posizioni. Contro tutti coloro che fanno della vita, della biologia, della natura, un dato incontestabile, il soggetto si ritiene sempre più degno di giudicare della sua qualità e dei suoi attributi: può pronunciarsi sulla sua “qualità”, “dignità”, “nobiltà”,3 può qualificarla come “buona “o “cattiva”, come wrongful,4 ed è l’unico giudice della “necessità estrema” che eventualmente l’accompagna (per legittimare il ricorso all’aborto, nella legge del 1975, o all’eutanasia nella proposta di legge del 1997).

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Questo movimento di fondo merita evidentemente, data la sua ampiezza, di essere fatto oggetto di analisi, ma può anche preoccupare l’osservatore, tanto la sua storia è recente e rischia di essere soffocata dal senso comune. Di fatto, le analisi sulla questione sono state soprattutto delle interpretazioni normative, date sul momento e talvolta anche in tempi recenti: quello che a taluni è sembrato una liberazione del corpo e della sessualità, è invece parso ad altri come una nuova alienazione mascherata. Ancor oggi, la libertà, esaltata dagli uni, è condannata dagli altri come individualismo, o persino come “individualismo possessivo”5 e la deriva del corpo verso l’appropriazione individuale costituisce il leitmotiv di questi discorsi.6 Una parte del movimento femminista si sforza, per esempio, di rifiutare oggi ogni interpretazione in tal senso di parole d’ordine storiche come «il nostro corpo ci appartiene».7 Interpretazioni a caldo, punti di vista sempre militanti, terrore della deriva proprietaria: tutto ciò ha certamente impedito di pensare questa evoluzione in modo sintetico e distanziato e di utilizzare a questo scopo i quadri teorici di cui oggi disponiamo. Spostare lo sguardo da questa fastidiosa libertà verso i dispositivi di controllo che la contengono è il modo più sicuro di riuscirci. La sorveglianza contemporanea dei corpi Il nostro sguardo si rivolgerà a due oggetti: la libertà di cui ciascuno dispone di controllare la sua procreazione e la sua morte. Perché occuparci di queste due pratiche? Perché la nascita e la morte rappresentano due importanti cambiamenti di stato, segnati da una possibile dissociazione tra soggetto di diritto e dimensione biologica, in cui il controllo del primo sulla seconda rischia di fallire. Perché il primo tema è stato al centro dei dibattiti di questi ultimi quindici anni nel Comité national d’éthique e il secondo, per lungo tempo impossibile da affrontare nel Comité, rischia di prendere il posto del primo, in seguito a degli avvenimenti recenti.8 Perché, inoltre, nascita e morte, due passaggi essenziali (nel senso di Van Gennep) in una vita umana, in passato fortemente socializzati, pongono il problema della definizione sociale del soggetto umano al di là e al di qua dei limiti temporali della vita, sollecitando un’elaborazione sim-

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bolica considerevole, i cui rimaneggiamenti attuali sono degni di analisi. Perché infine, e soprattutto, questi due temi della nascita e della morte permettono di prendere meglio in considerazione le trasformazioni del biopotere di cui parla Michel Foucault, che consistono soprattutto in una ridefinizione del “far vivere” e del “lasciar morire”. La depenalizzazione rappresenta il tratto comune più evidente di questi due ordini di pratiche che riguardano il rapporto dell’individuo con il suo corpo. Depenalizzazione del ricorso ai metodi contraccettivi nel 1967, dell’aborto nel 1975, del cambiamento di sesso nel 1976, dell’omosessualità nel 1982,9 e depenalizzazione richiesta oggi con insistenza dell’eutanasia. Il venir meno dell’autorità in queste materie si fa attraverso un venir meno della sanzione e non con una proclamazione di diritti formali. «La legge Veil, come la legge Neuwirth, si limita a autorizzare delle pratiche prima proibite. Queste furono considerate come diritti di cui la donna era titolare solo dal giudice incaricato di interpretare questo dispositivo giuridico», si è potuto affermare, per attirare l’attenzione sulla timidezza (e la fragilità giuridica) delle autorizzazioni accordate.10 È come se lo Stato non si permettesse più di venire in soccorso di istituzioni come la famiglia, sanzionando eventuali trasgressioni nei riguardi dei loro obiettivi (la riproduzione legittima); in fondo, in questa parte del diritto civile o del diritto della sanità pubblica, come del diritto penale già analizzato da Michel Foucault, si tratterebbe oggi più di “sorvegliare” che di “punire”. Ma di che tipo di sorveglianza si tratta? Lo spostamento del controllo statale dalla punizione alla sorveglianza conduce a un dispiegamento delle forme di controllo dello Stato verso un controllo “disciplinare”? Conduce a quell’ordinamento e sistemazione dei corpi, dei gesti, delle posture che Michel Foucault ci ha lungamente descritto a proposito dell’ordine penale, ma anche scolastico? Evidentemente no: l’80% dei morenti si trova oggi in ospedale, ma in servizi diversi e le donne che chiedono mezzi contraccettivi o quelle destinate ad abortire, per esempio, sono catturate dai servizi ospedalieri solo di sfuggita. Il controllo sull’uso che faranno del loro corpo si attua evidentemente attraverso altre procedure. Se questo controllo appare ben caratterizzato da un ritrarsi esplicito dell’autorità giuridica, è in effetti accompagnato da quello che definirei una “sorveglianza attraverso l’economia” e un “controllo

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attraverso la conformità biografica”. La prima ci interessa meno del secondo, che contribuisce tuttavia a rendere possibile. Bisogna dunque spendervi qualche parola. L’avvallo dato alle nuove pratiche corporali si concretizza in effetti nella copertura assicurativa che è loro offerta: per la contraccezione (femminile) dal 1974, per l’IVG dal 1982, per la pillola RU 486, per l’inseminazione artificiale e per la fecondazione in vitro dal 1978. Questa presa in carico economica tende a tradurre oggi il pieno effetto del riconoscimento sociale. Si è dimenticata la durezza dei dibattiti cui ha dato luogo e la lentezza della sua accettazione: sette anni tra la legalizzazione della pratica e la sua copertura assicurativa per la contraccezione, dal 1975 al 1982. Allo stesso modo, la condanna dei “prestiti d’utero” che caratterizzano la maternità sostitutiva (“madri portatrici”), espressa dal Comité sin dal 1984, si traduce nella proposta di rifiutare ogni riconoscimento giuridico (e ogni copertura assicurativa? ) a una pratica costosa. Altro esempio di questo regime di sorveglianza economica senza punizione, è quello della sterilizzazione, sino al 1994, poiché questa pratica, pur non essendo mai stata perseguita giuridicamente nell’ambito del vecchio Codice Penale, non godeva però di alcuna protezione sociale.11 Al contrario, la copertura totale delle cure palliative (per definizione “non indispensabili”), la creazione di “ferie di accompagnamento” dei morenti, che permettono di assistere per un periodo di tre mesi agli ultimi istanti dei propri cari,12 dimostrano abbastanza chiaramente che le cure palliative rappresentano oggi il solo modo di trattamento alternativo della morte ufficialmente tollerato in Francia. L’impegno finanziario dello Stato in questi ambiti è manifestazione della crescente gestione statale dei rischi biologici o, in altre parole, tradisce la definizione del rischio biologico come preoccupazione sociale e politica. Questa presa in carico crescente di quel che è progressivamente costruito come un rischio o una disgrazia biologica inaccettabili è precisamente quello che, per Michel Foucault, definisce l’avvento della biopolitica (rispetto all’inquadramento disciplinare), che si accanisce a “far moltiplicare” la vita contro le minacce e i rischi che la circondano. Rischio di generare degli esseri non desiderati (contraccezione, sterilizzazione, diagnosi prenatale, IVG), rischio, al contrario, di dover far fronte agli ostacoli della sterilità, dell’ipofertilità, dell’età (procreazione medicalmente assistita). Rientrando ormai nelle preoccupazioni legittime della società, il

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rischio biologico in materia di riproduzione e di morte appare assimilabile a una disgrazia, certo “naturale”, ma che merita di essere presa in considerazione dal sistema assicurativo, allo stesso modo di altri impedimenti fisici, come la malattia, l’incidente, l’invecchiamento. Il rischio biologico in seno al processo procreativo richiede una prestazione medico-sociale, accordata in funzione del principio dell’eguaglianza di accesso al servizio pubblico, che prova come la gestione sempre più perfetta del rischio biologico sia davvero una delle caratteristiche della biopolitica oggi.13 Uno dei modi privilegiati di esercizio della biopolitica per quanto riguarda la gestione della riproduzione della vita risiederebbe dunque nel controllo assicurato attraverso la possibilità di concedere, o di non concedere, un’assistenza economica, e negli andirivieni di quel che si chiama, per comune convenzione, lo Stato provvidenza o lo Stato sociale. Provvidenza non è una parola vana, quando si pensa che il costo di un IVG, per esempio, era, all’inizio degli anni Novanta, di 902 franchi, con un costo massimo di 1230 franchi in caso di anestesia generale, o che quello della pillola RU 486 era allora di 1407 franchi. Molta strada è stata fatta, dalle pene previste e applicate dal regime di Vichy per le donne che avevano abortito14 alla nostra biopolitica, dalla “punizione” alla “sorveglianza” finanziaria.15 Un’inquisizione biografica Il venir meno della penalizzazione e l’aiuto finanziario, il sostegno economico e l’autorizzazione giuridica non sono concessi senza contropartite. Per beneficiare dell’uno e dell’altra, bisogna passare attraverso i poteri dello Stato e di quelli che ne sono divenuti i rappresentanti in questi campi: i medici. L’autorizzazione data a queste pratiche esige il rispetto di una quantità di procedure di controllo, dalla cui necessità deriva, ad esempio, il permanere della penalizzazione dell’auto-aborto.16 Consultazione e prescrizione medica o, eventualmente, ricorso a un centro di pianificazione familiare per la contraccezione (legge del 1967), consultazione di un medico e poi di un centro autorizzato, con dei margini di tempo molto rigidi per l’aborto (legge del 1982), inserzione in un “contratto medico”, con esami preliminari obbligatori per l’inseminazione artificiale (testo del

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1978), frequentazione di centri ospedalieri autorizzati e margini di tempo ancora più rigidi per la pillola RU 486. Come si svolge la sorveglianza all’interno di queste istanze? Essenzialmente grazie a un controllo della “conformità biografica”, grazie a una procedura che taluni definiscono già il counseling. Fornito da individui assurti al ruolo di esperti (medici, assistenti sociali), tale “consiglio” rappresenterebbe un controllo poco autoritario. Ciò è particolarmente chiaro riguardo all’IVG per ragioni di necessità estrema, poiché la valutazione di tali ragioni è di stretta pertinenza della donna e non devono essere verificate dal medico, che la donna deve consultare, né da quello che incontra per motivi sociali, né dall’istituzione ospedaliera nella quale l’aborto deve essere praticato.17 In queste occasioni, la donna si vede imporre, da individui “illuminati”, solo delle informazioni (sui suoi futuri diritti di madre), dei consigli, un dialogo. E gli altri obblighi appaiono coerenti con questi: si tratta del rispetto delle scadenze, ritenute adatte ai tempi di latenza e di riflessione di quest’individuo solitario,18 debitamente “illuminato” da questi dialoghi ripetuti con dei professionisti. Il controllo avviene dunque di fatto attraverso la mediazione, non dell’esibizione di criteri espliciti di accettabilità delle domande (il motivo di “estrema necessità” non contiene sempre una definizione precisa), ma dell’esibizione, nel corso di un dialogo, di un “racconto biografico”, misurato secondo i parametri del racconto legittimo atteso dagli esperti. Come minimo, passaggi obbligati perché l’atto rimanga sotto controllo medico o, tutt’al più, occasioni di produzione di discorsi legittimi sul rapporto tra sé e il proprio corpo, questi confronti e questi consigli potrebbero ben rappresentare un’altra caratteristica della biopolitica attuale: si tratta di enunciare, a richiesta, le buone ragioni della pratica. Lo stesso fenomeno comincia a realizzarsi intorno al morente. Le proposte dei difensori delle cure palliative e dei militanti dell’eutanasia attiva hanno qualche cosa in comune: la preoccupazione di porsi non più all’ascolto del potere medico, ma all’ascolto del paziente per raccogliere il racconto che darà della sua morte. Certo, il protocollo della ricezione del racconto varia. Avviene al capezzale del paziente, in maniera continuativa, progressiva e orale, nelle “unità di cure palliative” (SP = soins palliatifs). Avviene in modo puntuale, discontinuo, ma regolarmente ripetuto, e per iscritto (tramite espressa dichiarazione di «volontà di morire nella dignità») per gli espo-

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nenti dell’Associazione del Diritto a Morire nella Dignità (ADMD). Ancora una volta, il racconto legittimo non è lo stesso per tutti. Per gli uni, si tratta di assicurarsi della certezza della determinazione del paziente a morire, al fine di fornirgli i mezzi per realizzare la sua decisione, conforme a un tipo di racconto della morte legittima: la morte nella “dignità” vuol essere una vita non fisicamente diminuita, rifiuto coerente con gli sforzi della biopolitica di eliminare le disgrazie imposte dalla biologia. Destinate sin dalla loro origine a opporsi a questo racconto della buona morte, le cure palliative si propongono, al contrario, di condurre i pazienti a percorrere le tappe ritenute necessarie per arrivare a un “buon” rapporto con la morte. Dopo la “negazione”, la “collera”, il “mercanteggiamento”, la “depressione”, infine l’“accettazione”: questo racconto della buona morte, sostenuto da sapienti argomentazioni (formalizzate da E. Kübler-Ross) rimane il riferimento dominante in questi servizi. Nei due casi, infine, è previsto un periodo di latenza per permettere la maturazione sovrana degli individui: il rinnovo ogni cinque anni della domanda scritta di eutanasia, del resto revocabile in ogni momento, corrisponde alla lenta rivoluzione interiore che ci si augura avvenga con le cure palliative. Ma l’essenziale è che il buon racconto sia riconosciuto come proprio dagli individui destinati a morire. La “dichiarazione” dell’ADMD non è che una versione applicata alle forme della morte delle ultime volontà del morente (di qui la definizione di “testamento di vita”). Per quanto riguarda i destinatari delle cure palliative, essi beneficiano certo di un “accompagnamento”, ma sono loro che “continuano la strada”, che percorrono le “tappe” di questo augurabile “cammino”: tali sono i termini che si incontrano costantemente in questo universo. Gli accompagnatori delle cure palliative si trovano dunque rispetto al destinatario nella stessa posizione funzionale di coloro davanti ai quali sfilano le donne che chiedono di abortire: si tratta essenzialmente di far parlare e far emergere la posizione finale che deve, ragionevolmente, prevalere. La lotta contro il dolore, che contribuisce a fare la forza delle cure palliative, può allora apparire come una controparte necessaria di questa esigenza di conformità biologica, poiché è «impossibile parlare serenamente a una persona che soffre» e, ancor più, farla parlare: «I legami si stabiliranno quando la persona non soffrirà più». Nel complesso, l’imposizione di una nuova immagine della morte non è così scontata: «Essi (gli specialisti di queste questioni) ci ri-

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spondevano sempre le stesse cose: i testi sacri dell’elaborazione del lutto, gli stadi, la maturazione… E ognuno di noi poteva sentirsi un po’ colpevole di non elaborare correttamente il proprio lutto».19 Gli uni (ADMD) si sforzano dunque di «riconoscere» ai morenti un inusuale «diritto alla parola» permettendo loro di «esprimere espressamente per iscritto le loro volontà»;20 gli altri (SP) vogliono costantemente far «parlare la morte»21 il morente, «parlare per capire meglio»22 e insegnare a «saper morire».23 Per farla breve, la forma di controllo sociale privilegiato del rapporto dell’individuo con la propria morte si fa sollecitando e seguendo il racconto prodotto dall’individuo stesso per farlo rientrare in una gamma di racconti edificanti e conflittuali tra loro (eroismo dell’istante per i sostenitori dell’ADMD, eroismo nella durata per quelli dei SP), simili a quelli che si riscontrano assai spesso non appena la morte si trova ad essere evocata in testi semi-scientifici.24 Possiamo generalizzare la nostra analisi ad altre modalità di rapporto dell’individuo al suo corpo? La riteniamo valida, ad esempio, per le procedure di cambiamento di sesso. Il recente mutamento di indirizzo della Corte di Cassazione in favore di questa pratica (1992) risulta dalla preoccupazione di riconoscere, almeno in parte, «al transessuale uno statuto sociale conforme al sesso che desidera avere». I giudici chiamati a giudicare nel merito, hanno però accettato ben prima (1976) il cambiamento di stato civile, «in nome di una prevalenza del sesso psicologico riconosciuta dalla diagnosi di un esperto».25 Si avvalora in tal modo il solo fondamento attuale della domanda fatta al medico, e poi al giudice, che risiede nella soggettività sovrana del transessuale, nella sua certezza di appartenere all’altro sesso, nonostante tutte le apparenze biologiche. Come attestare l’autenticità di un dato talmente soggettivo, che è impossibile deciderne razionalmente? Chi rende i «transessuali sufficientemente convincenti»?26 Agli occhi del giudice, sono ormai in buona parte i medici. E i medici, posti, ancora una volta, al centro del dispositivo di sorveglianza, decidono e si organizzano: così, ad esempio, il dottor Cordier, all’ospedale Foch, prima di procedere alle operazioni richieste, esige un tempo di maturazione di due anni, durante i quali il soggetto deve mantenersi saldo nella sua certezza interiore. Ancora una volta, si tratta di una domanda di produzione discorsiva legittima, rivolta al paziente per iniziativa del medico.

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Non stupirà constatare che in questo campo la normalizzazione tende a esercitarsi spesso attraverso una svalorizzazione discorsiva di certe pratiche, rigettate ai margini di un modello più o meno esplicito. Per riprendere il tema della procreazione, la svalorizzazione si opera tramite un’esclusione discorsiva e tassonomica: è il caso della sterilizzazione, che spesso i demografi francesi non considerano come metodo contraccettivo, contrariamente a quanto accade negli U.S.A.27 È l’aborto che tende ad apparire in Francia come una contraccezione fallita. La svalorizzazione (o la valorizzazione) si opera anche grazie a dei virtuosismi lessicali: così, per la pratica più contestata, ovvero la generazione di un figlio per conto d’altri, si parlerà tanto di “prestito d’utero”, di “madri portatrici”, di “madri accoglienti”, di “madri sostitutive”, di “madri supplenti”, di “affitto d’utero”, o di “maternità per conto altrui”. La riesumazione del termine “etico”, nobile e valorizzante, e l’enorme produzione di discorsi che l’accompagna sono chiari esempi di questa impresa di normalizzazione discorsiva. Ripiegamento della biopolitica e/o processo di individualizzazione? L’approccio foucaultiano “vecchia maniera” (le “discipline”) si rivela dunque inadeguato per comprendere l’evoluzione successiva al decennio 1965-1975. Questo controllo discorsivo intorno a pratiche autorizzate assomiglia evidentemente, più che a un controllo disciplinare, al controllo attraverso l’ammissione e la confessione che analizza successivamente Michel Foucault nella sua Storia della sessualità,28 o, piuttosto, all’avvento di una “cura di sé” generalizzata, di un controllo equilibrato dell’ “uso dei piaceri” del corpo (per riprendere il titolo delle due ultime opere di Michel Foucault, nove anni dopo Sorvegliare e punire, del 1984).29 Ma si tratta di un approccio che Michel Foucault ha curiosamente riservato all’analisi della filosofia antica. Allo stesso modo, l’evoluzione storica che ci interessa non sembra integrarsi facilmente nella storia delle trasformazioni del “biopotere” che propone Michel Foucault (salvo per quel che abbiamo detto della gestione dei rischi biologici). Insieme di meccanismi regolatori assicurati dallo Stato e apparsi soprattutto nella seconda metà del XVIII secolo, la biopolitica, che «non esclude la tecnica di-

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sciplinare ma che la comprende, la integra, la modifica parzialmente e che soprattutto l’utilizzerà», si caratterizza per il fatto che l’antico potere di sovranità, consistente nel far morire o nel lasciar vivere, cede il posto a un’azione politica che punta essenzialmente a “far vivere” e a “lasciar morire”. Ma Michel Foucault si concentra piuttosto sulla descrizione della preoccupazione di moltiplicare la “vita”, di eliminare, combattere, o compensare ciò che la ostacola, e non ci dice granché dei modi di controllo degli usi dei corpi che possono accompagnare tale sforzo.30 Tocca dunque a noi interpretare un altro ordine di fenomeni, senza dubbio meno facile da percepire all’epoca di Foucault: una delega apparente al cittadino del diritto di vivere o di non vivere, di “far vivere” e di “lasciar vivere” (o no = aborto), e di “lasciarsi morire”, oppure di “farsi morire” (o no = eutanasia). È dunque da un altro autore, Norbert Elias, che bisogna riprendere un quadro interpretativo per capire ciò che sta accadendo da una trentina d’anni in questo ambito. Quello che ormai accomuna l’evoluzione contemporanea del rapporto con la nascita e di quello con la morte è una sorta di ideale di controllo. «Avere un figlio se voglio, quando voglio», affermare il diritto di morire alla propria ora (o di decidere il proprio sesso contro le apparenze biologiche), è accettare l’idea di un controllo del soggetto sul proprio destino corporale. “Controllo delle nascite”, “programmazione delle nascite”, “pianificazione familiare”: l’odierna banalizzazione di questi termini fa dimenticare la forza dell’ideale di controllo che introducono nel campo della procreazione. La svalorizzazione dell’aborto e, ancor di più, l’argomentazione che generalmente l’accompagna, costituiscono un indizio supplementare dell’evoluzione in corso: l’aborto, soprattutto a ripetizione, è il fallimento della contraccezione, del controllo ragionevole del desiderio di maternità, è un desiderio di maternità “mal controllato”, “mal programmato”. Se l’avvento delle tecniche procreative segnala dunque senza dubbio il crescente trionfo della ratio dell’uomo di scienza sulla natura, quel che ci interessa qui, è che tale processo accompagna anche una delega di questa ratio, nella sua forma ragionante e ragionevole, al cittadino qualunque. Ma soprattutto, più ancora che l’avvento di questo ideale di controllo delle pratiche, quel che vediamo affermarsi ormai è il suo riconoscimento istituzionale e statale. L’autocontrollo procreativo, introdottosi spontaneamente nel segreto delle alcove e dei consigli fami-

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liari, assicura il lento trionfo del maltusianesimo sin dalla fine del XVIII secolo. Tra le due guerre non esisteva né pillola né spirale, ma i tassi di fecondità in Europa erano cosi bassi che, se fossero rimasti tali, la crescita demografica sarebbe stata negativa (0,9 per la Francia, 0,8 per la Gran Bretagna, ad esempio). Da qui derivano, ad esempio, le preoccupazioni di un Beveridge, che, in uno studio del 1925, dimostrava che i metodi contraccettivi spontanei erano migliorati dalla fine del XIX secolo.31 Ma a quest’evoluzione succede il riconoscimento pubblico della legittimità di queste pratiche (e la messa a punto di nuovi metodi contraccettivi) nel nome di un diritto a controllare la propria procreazione. Una cifra eloquente: si è potuto stimare che nel 1952, l’1% degli Stati praticava ufficialmente la pianificazione familiare, contro il 55% nel 1974 e il 96% nel 1991; e un’analisi delle grandi conferenze internazionali dedicate a questi temi32 sembra confermarlo: quel che si faceva allora, piuttosto in nome della regolamentazione della demografia nazionale, tende ormai a essere sempre più giustificato in nome del controllo della riproduzione da parte degli individui.33 Aspetto poco considerato dall’analisi foucaultiana, l’autocontrollo della procreazione, legittimato dallo Stato, sembra caratterizzare fortemente la biopolitica contemporanea. Allo stesso modo, colpiscono la progressione del desiderio di controllare la propria morte e le condizioni del suo svolgimento. Questa forma di eutanasia è del resto, con formula eloquente, definita “attiva” dai suoi difensori, in contrapposizione all’eutanasia “passiva”, decisione, lasciata alla sola discrezione dei medici, di por fine all’accanimento terapeutico. Le proposte di regolamentazione in favore dell’eutanasia presentate sino ad oggi traducono molto chiaramente questo ideale di autocontrollo. Vi si ritrova un soggetto ritenuto superiore al suo destino biologico («l’uomo è prima di tutto un essere dotato d’intelligenza e non un essere di carne [...] e capace pertanto di considerare nel suo animo e nella sua coscienza il proprio destino»),34 atto a decidere in piena sovranità della qualità degli attributi vitali («sono io e io solo, che sono giudice della qualità della mia esistenza»),35 la superiorità di tale individuo si fonda sulla sua coscienza: «Considerando che il funzionamento cerebrale determina il livello di coscienza e che il livello di coscienza definisce l’essere umano [...]».36 Altro indice suscettibile di tradire la stessa evoluzione: si tratta della progressione assai sensibile delle percentuali di cremazione (che

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registra un aumento medio del 18% dall’inizio degli anni Ottanta), ma anche la dispersione delle ceneri nella natura, o in questa natura appena umanizzata che sono i “Giardini del ricordo”. Al di là della preoccupazione di non costringere i propri cari, post mortem, a degli obblighi sociali (visite al cimitero), le motivazioni addotte per la cremazione sembrano rinviare alla preoccupazione di controllare il processo biologico di annientamento, impedendo la lenta degradazione della materia che l’accompagna;37 il che sarebbe coerente con la progressione simultanea delle cure di “tanatoprassi”, apparse anch’esse in Francia (1963) e istituzionalizzate (1976) nel decennio più sopra considerato.38 Costruzione rapida di crematori dalla fine degli anni Settanta, riconoscimento delle cure di “tanatoprassi” nel 1976: sono altrettante evoluzioni che, ancora una volta, hanno ricevuto l’avvallo dello Stato. Impresa di autocontrollo sulla morte, dunque, che può talvolta prendere, al di fuori del territorio francese, delle forme particolarmente eloquenti: in Gran Bretagna è stato creato un centro per imparare, grazie a delle infermiere-levatrici per morenti, a “esplorare la propria morte”, ad “allargare la propria visione” guardandola in faccia. Questo “Centro della morte naturale” propone anche delle guide pratiche alla sepoltura con tombe “fai da te” al costo di circa 850 franchi francesi.39 Un mutamento nell’ordine delle rappresentazioni Piuttosto che parlare di individualismo, come si è fatto sinora, parleremo allora più volentieri, con Norbert Elias, di un processo di “individualizzazione”, accompagnato da una modificazione delle forme di controllo degli usi del corpo. Piuttosto che magnificare, o deplorare, la crescente libertà dell’individuo e la prudente riserva dello Stato, si tratta allora di esaminare con un po’ più di precisione la nuova configurazione che ne organizza i rapporti e che si traduce, di fatto, nel delegare agli agenti sociali, tramite un processo di autocontrollo debitamente inquadrato, il controllo degli eccessi in questo campo. Il massiccio accrescimento, nel corso del XX secolo, del potere sociale delle donne sulla riproduzione sotto sorveglianza medica fu una conquista del femminismo che può allora essere reinterpretata in rapporto a un nuovo contesto: quello di un autocontrollo corporale, eti-

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camente organizzato, che delega all’individuo più direttamente coinvolto il compito di usare ragionevolmente del proprio corpo. Nell’insieme, quel che si vede apparire qui è la coesistenza di tre fenomeni che sono solo apparentemente contraddittori: la crescita dell’autocontrollo come ideale, il suo incoraggiamento ma anche il suo inquadramento da parte delle istanze che rappresentano lo Stato e infine l’avvento di un soggetto trionfante, curiosamente incoraggiato dagli stessi dispositivi di controllo. L’individuo che si delinea appare infatti riccamente dotato. Atto a decidere del suo destino corporale, tale soggetto si vede attribuire una soggettività che merita tutta l’attenzione possibile, poiché è capace di generare (dopo matura deliberazione!) delle certezze legittime. È provvisto di una ragione, non sapiente, ma ragionante e ragionevole, deliberatrice, atta alla valutazione (per produrre gli attributi della vita, “buona” o “cattiva”, wrongful o “degna”) e anche al calcolo (per quanto riguarda i costi e benefici di generare, di lasciar vivere, di morire, o anche di essere nato con un qualche handicap o con un sesso biologico). La sua forza risiede in un luogo del suo essere, il cervello, e in uno dei suoi attributi, la coscienza, debitamente sollecitata nelle domande di aborto e, in un prossimo futuro, di eutanasia: si presume infatti che sia capace di essere illuminata dalle informazioni e dai consigli ritenuti utili alla sua solitaria deliberazione. Il sospetto di un ruolo dell’inconscio, dell’irrazionale, ovvero di quanto sfugge all’autocontrollo, è scartato da questo dispositivo. La tappa contemporanea del processo di individualizzazione appare allora come un prodotto dello Stato moderno: è un processo attraverso il quale gli attori sociali interiorizzano i discorsi dello Stato piuttosto che subirli sotto forma di sanzioni giuridiche imposte a delle pratiche devianti. Possono del resto accontentarsi di un’adesione minimale, puramente discorsiva, che permetta loro di essere capaci di produrli al momento voluto (basta assistere a una domanda di aborto o a una procedura di conciliazione di divorzio per convincersene). Il solo controllo che conti è allora quello che inquadra i discorsi che gli “io” producono su se stessi. La regola esplicita, accompagnata da sanzioni, tende a lasciare il posto ad una autoregolazione, ma accompagnata da argomentazioni attese. Il disciplinamento dei corpi diviene un disciplinamento dei racconti. Lo spostamento è coerente con un’evoluzione più generale e duplice, che comincia alla fine degli

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anni Sessanta: quel che viene definito il ritorno del racconto, della storia, della biografia e dell’autobiografia (e del soggetto)40 e la costruzione, alla fine del periodo che ci interessa, in un certo numero di luoghi disciplinati, e in particolare nella scuola, di procedure al tempo stesso di autodisciplina e di autocontrollo del proprio rendimento. La tendenza al controllo sul proprio corpo, nella sua totalità o solo per parti, non sarebbe dunque che una fra le tante manifestazioni, una sorta di luogo di cristallizzazione, di questo processo di individualizzazione accompagnato da una progressione dell’autocontrollo individuale che – contrappunto dell’analisi di Norbert Elias – prenderebbe qui soprattutto la forma di capacità simboliche particolari: quelle che permettono di riprodurre delle argomentazioni ragionevoli e attese. È cosi che l’analisi foucaultiana “ultima maniera” (quella che scruta il controllo attraverso la confessione) può essere inglobata in una versione della tesi di Elias che consideri il ruolo cruciale svolto attualmente, nella crescita storica dell’autocontrollo, da procedure di confessione assai particolari: ovvero la richiesta agli attori sociali di aderire ai soli racconti della pratica che potranno essere legittimati dallo Stato. Si può dirlo anche altrimenti. Per capire veramente quel che sta accadendo da una trentina d’anni, bisogna, in realtà, riunire i due lembi del dispositivo interpretativo edificato da Michel Foucault alla fine della sua opera: quello, apparso nel 1976, che si interessa alla confessione e quello, apparso nel 1984, che si concentra sulla delega agli individui, nell’antichità, della “cura di sé” e di un uso “autocontrollato” dei piaceri. Per finire, bisogna relativizzare la nostra proposta di lettura, seguendo in ciò, del resto, Norbert Elias e Michel Foucault. Il primo autore, dopo aver analizzato nei suoi primi lavori l’autocontrollo come una realtà, ha messo in rilievo, come abbiamo detto, l’importanza delle rappresentazioni della sfera dell’io. Il soggetto sovrano, nonché l’autocontrollo, tendono allora ad apparire sia come proprietà divenute ideali, sia come realtà. È necessario, con il secondo autore, non radicalizzare il potere di efficacia o di rottura del dispositivo di controllo che abbiamo appena analizzato: la sua efficacia per la nostra difficoltà di valutare l’effetto prodotto sulle convinzioni e le pratiche dalla recitazione obbligata dei racconti attesi (l’eccessivo credito accordato ai soli discorsi è effettivamente la critica più spesso rivolta all’analisi foucaultiana); i suoi pur innegabili effetti di rottu-

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ra, perché il diritto continua a esercitare il suo magistero su molte pratiche (cfr. le tre leggi “bioetiche” del luglio 1994).41 Abbiamo piuttosto a che fare con una sovrapposizione di dispositivi di controllo (sanzioni giuridiche, svalutazione morale, controllo dei racconti da parte dei professionisti della cura), con un continua produzione di procedure di normalizzazione, sulla quale lo stesso Michel Foucault ha attirato l’attenzione. Una recente conferma: la normalizzazione “bioetica” La normalizzazione etica può sembrare allora una forma particolarmente riuscita di questa modalità di controllo degli usi sociali del corpo umano. La regolazione bioetica conferma innanzitutto la tendenza alla depenalizzazione del rapporto con il corpo. Le sanzioni giuridiche cedono il passo alle sanzioni diffuse, per riprendere una celebre distinzione introdotta da Emile Durkheim: gli imperativi giuridici davanti agli interdetti morali. Così, l’istituzione posta a sorveglianza della bioetica, il “Comitato nazionale di etica”, può produrre solo dei pareri. Si presenta con insistenza, attraverso la voce ufficiale del suo presidente e quella di ciascuno dei suoi membri, come dotata unicamente di autorità morale (dunque: né politica né giuridica).42 Del resto, uno dei tratti costanti della bioetica e del “Comitato nazionale di etica” incaricato di formalizzarla, è l’insistenza con cui le si rifiuta (dall’interno dello stesso “Comitato nazionale” e sotto l’influenza dei suoi stessi membri) ogni carattere autoritario: tanto nei suoi effetti (avrebbe esclusivamente un’autorità morale) che nelle sue modalità di elaborazione (è il prodotto di un “dialogo”, di uno “scambio”, in un “forum”, seguito da un consenso). C’è uno slittamento in questo ambiente tra l’autorità della morale che, come quella della politica, sarebbe da bandire in tali argomenti, perché troppo rigida e troppo imperativa e l’autorità morale che sarebbe desiderabile perché “si coniuga al modo interrogativo”. Corollario di questa resistenza all’autoritarismo giuridico o politico: è costantemente questione di autocontrollo in queste materie scottanti. Lo si richiede ai proprietari dei corpi, come ai professionisti chiamati a manipolarli. È il motivo dominante in questi ambienti

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e soprattutto tra i giuristi: una regolamentazione autoritaria non avrebbe alcun effetto. Da ciò deriva, ad esempio, il rifiuto di richiedere una condanna giuridica delle pratiche delle “madri portatrici”, nel primo parere del CCNE, del 1984. Il parere etico costituisce un imperativo ardente di autocontrollo. L’etica si presenta, contrariamente al diritto, come un modo di regolamentazione costruito tra professionisti, che si impegnano ad autocontrollarsi, grazie a delle regole stabilite collettivamente. In questi ambienti, in cui si opera una costruzione preliminare del diritto, si insiste molto sul fatto che sarebbe non autoritaria tanto nella sua elaborazione (in quanto prodotto di discussioni, di dialogo, di consenso) quanto nei suoi effetti (il suo scopo sarebbe unicamente l’autocontrollo degli individui e degli operatori rispetto al corpo, proprio o altrui). Infine, l’organizzazione di uno spazio di discussione specifico per la bioetica, rigettando ai margini l’opinione (il pubblico) e i suoi rappresentanti (uomini politici, portavoci di associazioni) conferma il predominio del sapere in quest’impresa. Lo Stato sarà semplicemente “illuminato” da un sapere professionale o disciplinare, che non è un sapere di Stato, un sapere sulle scienze del governo. Il counseling, il dialogo “illuminante” con gli uomini del mestiere, è dunque promosso come mezzo di gestione degli affari pubblici, come lo è degli affari privati, in questi usi sociali dei corpi. L’invocazione della saggezza, la rivalorizzazione della prudenza, l’attrazione per una scienza della morale potrebbero essere omologati ai consigli e all’ascolto “illuminato” con cui si accompagnano quelle che abortiscono e quelli che muoiono, accreditati della capacità di autocontrollo.43 I due fenomeni sarebbero dunque sintomi di una stessa cosa: l’interiorizzazione crescente della ratio nella pratica sociale, ragione ragionevole, o ragionante e sapiente, a seconda della istanze di decisione di cui si tratta. L’avvento di un autocontrollo tramite l’interiorizzazione di racconti legittimi, ma debitamente organizzato dallo Stato, e paradossalmente associato al culto di un soggetto rappresentato e vissuto come padrone delle sue determinazioni biologiche, ci sembra dunque rivelare piuttosto bene una modificazione di “configurazione” nel senso che Elias dava a questo termine. Resterebbe da verificare un po’ più sistematicamente se le pratiche della nascita e della morte facciano parte di un’evoluzione dell’amministrazione generale degli usi sociali del corpo.

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Resterebbe anche, in una ricerca più ampia delle possibili cause di questa evoluzione, da considerare il ruolo svolto da profonde trasformazioni quali la scolarizzazione e la secolarizzazione degli ultimi cinquant’anni. La condanna negli ambienti etici della “vecchia” morale, eredità “autoritaria” dell’insegnamento primario, a differenza dell’etica entrata più recentemente a far parte degli insegnamenti della scuola secondaria e dell’università, è il sintomo eclatante della stessa evoluzione: l’avvento di un controllo sociale più sofisticato, che richiede un livello scolastico e culturale superiore, in quanto si fonda sull’interiorizzazione, più o meno riuscita, dei buoni racconti sulla pratica. Il controllo dei corpi attraverso la confessione e la produzione di racconti legittimi, non è però un’idea del tutto nuova: è stato efficacemente praticato dalla Chiesa. Quel che appare significativo, è però la secolarizzazione, a vantaggio di specialisti del corpo e non dell’anima, di medici e non di psicologi.44 Svolgono il ruolo di nuovi chierici, proprio nel momento in cui il discredito di cui sono oggetto i vecchi chierici è aggravato dal loro conservatorismo in questi stessi argomenti. Una delle contropartite della secolarizzazione accelerata, intervenuta da un secolo a questa parte nel controllo dei comportamenti privati, potrebbe davvero essere il recupero, da parte dello Stato, di tecniche ecclesiastiche di governo degli uomini che hanno già dimostrato in passato la loro efficacia. (traduzione di Anna Bellavitis)

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Note *Questo testo è una versione ridotta di un articolo apparso, in francese, in «Revue Française de Science Politique», 1 (febbraio 2000). 1. Cfr. D. Memmi, La dimension corporelle de l’activité sociale, introduzione a Sociétés contemporaines, Le corps protestataire, 31 (luglio 1998), pp. 5-14. 2. Cfr. A. Corbin, I massacri nelle guerre civili in Francia (1789-1871), in G. Ranzato (a cura di), Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, p. 243. 3. Termini ripresi dalle proposte di introduzione dell’eutanasia. 4. Wrongful life, birth, o death: termini ripresi in particolare dalla azioni giuridiche contro i medici che hanno fatto nascere dei bambini portatori di handicap: si vedano i lavori di Marcela Iacub sulla questione, in particolare nel convegno La propriété (décade de Cérisy-la-Salle), 9-19 luglio, 1999 (in corso di stampa). 5. Per un esempio recente di questo dibattito tra esaltazione della libertà corporale e sua critica, si vedano i lavori sul transessualismo. 6. Si vedano gli interventi di E. Balibar, R. Castel, Ch. Colliot-Thelene, B. Ogilvié al convegno La propriété (vedi supra nota 4). 7. Si vedano in tal senso le dichiarazioni di G. Fraisse (al convegno Contraception: contrainte ou liberté?, Collège de France, 8-9 ottobre 1998, e al convegno La propriété) nelle quali si sforza di nobilitare questo passato, assimilandolo, con un significativo anacronismo, all’emergere dell’habeas corpus inglese, poiché questo individualismo starebbe dalla parte della Ragione e della Libertà. Si veda anche R. Pollack Petchevsky, The body as Property: a Feminist Re-vision, in Conceiving the New World Order. The Global Politics of Reproduction, Berkeley, University of California Press, 1995, pp. 387 ss. 8. Denuncia, nel luglio 1998, di episodi di eutanasia attiva, praticata da un’infermiera e, nell’agosto 1998, da un medico; assoluzione a sorpresa di quest’ultimo dal Consiglio dell’Ordine nel settembre 1998, manifesto dei 132 in favore dell’eutanasia attiva, nel gennaio 1999. Oggi, il manifesto di “disobbedienza civile” dei 132 che vorrebbero veder praticare l’eutanasia si richiama a quello firmato, in passato, dai 122 che avevano confessato di aver abortito. 9. Più esattamente, fu allora eliminata la discriminazione penale legata all’omosessualità, su iniziativa di Robert Badinter, allora Guardasigilli. 10. R. Letterton, Le droit de la procréation, Paris, PUF, 1997 (coll. «Que sais-je?»). 11. Le richieste di sterilizzazione femminile continuerebbero a essere 50.000 all’anno; cfr. I. Arnoux, Les droits de l’être humain sur son corps, Bordeaux, Presses universitaires de Bordeaux, 1994. 12. Legge del 19 luglio 1999. 13. Sull’evoluzione della nozione di rischio in materia di aborto terapeutico, cfr. J.F. Mattei, Les droits de la vie, Paris, Odile Jacob, 1996, pp. 64 ss. 14. Cfr. F. Muel-Dreyfus, Vichy et l’éternel féminin, Paris, Le Seuil, 1996. 15. Questa evoluzione vale anche per gli usi “visivi” del corpo: l’ex-“Commissione di controllo” cinematografico è diventata “Commissione di classificazione” dei cosiddetti film “X” (pornografici o violenti), e sono essenzialmente ostacoli finanziari che vengono opposti alla loro programmazione (art. 11 della legge finanziaria del 30 dicembre 1975).

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16. L’auto-aborto era punito con una pena di due mesi, ma «a causa delle circostanze di estrema necessità o della personalità dell’autore, il tribunale può non applicarla» (art. 223-12, al. 2). Oggi, dal 1994, solo l’aiuto all’auto-aborto è perseguito. 17. Consiglio di Stato, 30 ottobre 1980. 18. Poiché il compagno non è indispensabile in questi incontri. 19. Ch. Broqua, F. Loux (a cura di), Fin de vie, deuil et mémoire, Paris, CRIPS, 1996. 20. Ch. Montandon-Binet, Le testament de la vie, in Ch. Montandon-Binet, A. Montandon (a cura di), Savoir mourir, Paris, L’Harmattan, 1993, pp. 277-278. 21. Per riprendere il titolo di un’opera recente, di padre Léon Burdin, gesuita, cappellano dell’Istituto Gustave Roussy a Villejuif. 22. Cfr. Parler pour mieux comprendre o La mort est-elle un sujet dont on parle?, in «Passage», 4 (autunno 1997), pp. 1, 4. 23. Titolo della pubblicazione diretta da Ch. Montandon-Binet e A. Montandon, op. cit. 24. Cfr. M. de Hennezel, La mort intime, Paris, Laffont, 1995; L. Burdin, Parler la mort. Des mots pour la vivre, Paris, Desclée de Brouwer, 1997. Si vedano anche, in raccolte più scientifiche, Ch. Biot, Les transformations du rituel catholique, in «Ethnologie française», 28 (1998), p. 51; D. Silvestre, Qui sont les professionnels de la mort?, in M. Bacqué (a cura di), Mourir aujourd’hui, Paris, Odile Jacob, 1997, pp. 49 ss. 25. D. Salas, Sujet de chair et sujet de droit: la justice face au transsexualisme, Paris, PUF, 1994, pp. 59, 61. 26. Ivi, p. 51. 27. Cfr. invece l’estensione della categoria di aborto «terapeutico» in Mattei, Les droits de la vie. 28. M. Foucault, Histoire de la sexualité, 3 voll., Paris, Gallimard, 1976-1984. 29. La svolta si situa in effetti tra il 1975 a il 1976, ed è attestata, nel 1976, sia dal primo tomo della Histoire de la sexualité, sia dal corso che ne riprende la conclusione, Il faut défendre la société, Collège de France (1975-1976), Paris, Gallimard/ Le Seuil, 1997) 30. Cfr. Foucault, Il faut défendre la société, p. 41. 31. Ibidem. 32. Bucarest, 1982; Città del Messico, 1984; Ginevra, 1993; Il Cairo, 1994. 33. Quali che siano gli inconvenienti che tale ideale rappresenta per le politiche demografiche. 34. Proposta di legge relativa al diritto di vivere la propria morte, presentata al Senato da H. Caillavet, il 6 aprile 1978. 35. Proposta di legge «tendente a rendere lecita la dichiarazione di volontà di morire nella dignità», depositata in Senato e all’Assemblea nazionale, rispettivamente il 18 maggio 1989 e il 26 ottobre 1989. 36. Proposta di risoluzione sull’assistenza ai morenti (Parlamento europeo, 30 aprile 1991). Si capisce meglio, in questa prospettiva, il senso della ridefinizione contemporanea della morte come morte cerebrale. 37. Si tratterebbe, per «un essere pensante, perfettamente cosciente del suo destino finale e sufficientemente lucido per esaminare il divenire della propria mate-

Verso una confessione laica?

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ria» di rifiutare «non tanto la morte in sè, quanto la degradazione, la caduta, il cammino verso l’entropia» (A. Barrau, De la «bonne mort» à la «belle mort»: évolution d’un rituel et d’une socialisation, in Montandon-Binet, Montandon, Savoir mourir, pp. 208-209). Si rinvia a questo testo per tutti i dati citati in precedenza sugli usi del cadavere. Si veda anche J.D. Urbain, Mort traquée, mort tracée. Culte des morts, crémation, sida, in «Ethnologie française», 28 (1998), pp. 43 ss. 38. La progressione di queste “cure” volte a prolungare la conservazione dei cadaveri è tra il 7 e il 10% annuo, e circa il 30% dei defunti ne beneficiavano alla fine degli anni ’90. Cfr. Barrau, De la «bonne mort» à la «belle mort». 39. Cfr. L.V. Thomas, Grandeur et misère des soins palliatifs, in MontandonBinet, Montandon, Savoir mourir, p. 193. 40. Il soggetto «prende la parola», secondo M. De Certeau, nel maggio ’68; cfr. M. De Certeau, La prise de parole, et autres écrits politiques, Paris, Le Seuil, 1994; si veda anche B. Pudal, Du biographique entre «science» et «fiction», in «Politix», 27, 3 (La biographie) (1994), pp. 5 ss. 41. Che dire, ad esempio, della sanzione stabilita in questa legge contro le protagoniste di maternità sostitutive? 42. È la domanda del nostro questionario che ha ricevuto la risposta più omogenea: per tutto quanto segue, cfr. D. Memmi, Les gardiens du corps. Dix ans de magistère bioéthique, Paris, Éditions de l’EHESS, 1996. 43. Allo stesso titolo, ad esempio, di quei pazienti ai quali si affida, in ospedale, la cura di amministrarsi “ragionevolmente” gli analgesici per mezzo di una pompa a morfina. 44. Cfr. G. Vincent et alii, Les nouveaux clercs. Prêtres, pasteurs et spécialistes des relations humaines et de la santé, Ginevra, Labor et Fides, 1985 (postfazione di Pierre Bourdieu).

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III.

Rituali

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MILKA VENTURA AVANZINELLI Tracce di un antico rituale femminile in una variante del primo libro di Samuele

Molti degli studi recenti sulla religione dell’antico Israele hanno messo in discussione l’idea, prima prevalente, che l’affermarsi del monoteismo abbia coinciso, fin dall’inizio, con una pressoché totale esclusione delle donne dal culto. Le posizioni sono oggi molto più modulate e, oltre a rivalutare forme di culto diverse da quella sacerdotale concentrata sul Tempio e sui sacrifici, cercano di collocare l’esclusione delle donne dal servizio più propriamente cultuale in un periodo storico preciso, che da alcuni viene fatto coincidere con la centralizzazione del culto a Gerusalemme (e quindi con il periodo in cui la critica biblica colloca la composizione del Deuteronomio1), da altri viene spostato molto più avanti. La recente rassegna di studi di Henshaw2 arriva alla conclusione, basata soprattutto sugli studi di Segal, Peritz e Vos,3 che nell’Israele antico le donne avessero un rapporto stretto e costante con il Santuario (per esempio con quello di Shilò) e che l’idea della loro esclusione sia in realtà una proiezione retrospettiva4 di una situazione di epoca mishnica (I-II secolo) o, in ogni caso, del periodo del Secondo Tempio (dal V secolo a.E.V. al I secolo E.V.). È probabile che le condizioni per quella esclusione siano da far risalire a un’epoca ancora anteriore, vale a dire alla “riforma” del re Giosia (VII secolo a.E.V.), ma nei testi biblici è sicuramente possibile rintracciare la presenza di un elemento cultuale femminile fin dai tempi del primo Israele del deserto (Numeri, 12)5 e incontrare figure di donne che prestano culto, le quali – secondo l’interpretazione data da Kraus6 all’episodio di Anna nel santuario di Shilò (1 Samuele, 1) – avrebbero avuto accesso anche al Santo. Per il Pri-

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mo Tempio di Gerusalemme (dal X secolo a.E.V. al VI secolo a.E.V.) non si parla ancora di uno spazio separato per le donne; un “cortile per le donne” è previsto invece nel Secondo Tempio, ricostruito dopo la distruzione e l’esilio babilonese; ed è lì che, probabilmente già in epoca ellenistica, viene compiuta la “grande realizzazione” (o “grande preparativo”),7 che sarà interpretata dai successivi commentatori talmudici come la costruzione della galleria per le donne8 – peraltro in circostanze che fanno pensare a un rituale in cui, anche allora, la partecipazione femminile fosse significativa se non prevalente: la libagione dell’acqua e la “grande gioia” per la festa delle capanne. È probabilmente quella “realizzazione” l’evento che segna il momento in cui l’esigenza della separazione si traduce in una totale appropriazione del culto del Tempio da parte maschile. Resta aperto il quesito se quel momento sia da collocare all’epoca dei fatti narrati, a quella della narrazione o addirittura a quella della successiva interpretazione; ma è molto probabile che in ogni caso sia da connettere con la progressiva ellenizzazione del mondo ebraico che inizia con la conquista greca della Palestina nel IV secolo a.E.V. e raggiunge il suo apice in epoca precristiana. Henshaw9 sottolinea in particolare un aspetto che riguarda da vicino la ricerca che sto conducendo su una variante del primo libro di Samuele: sostiene infatti che, se non ci sono testimonianze specifiche, nemmeno in epoca antica, che facciano pensare a una specifica funzione cultuale delle donne “dentro” il Tempio, c’è però una “area speciale”, una sorta di “zona strategica”, immediatamente fuori del tempio, in cui agiscono le donne. Henshaw suggerisce che il loro ruolo specifico nel culto fosse legato ai riti che, già nel deserto, dovevano svolgersi fuori dalla porta o, con una espressione tecnica, «all’ingresso della tenda del convegno» (Esodo 40, 6, 12 ecc.).10 Un’altra ipotesi suggestiva è quella di Menahem Haran, il quale, sulla base di un’analisi storico-critica dei passi che si riferiscono all’ohel mo‘ed (tenda del convegno), sostiene il carattere non sacerdotale di questo “luogo” che, a differenza dell’Arca, era collocato all’esterno del campo ed era connesso con l’invocazione e l’estasi profetica.11 L’ipotesi di Haran, tutta basata sull’assunto che i passi in cui l’ohel mo‘ed viene collocato al centro dell’accampamento e confuso con il mishkan appartengano alla tarda fonte P, è che la tenda del convegno non fosse una istituzione cultuale di tipo sacerdotale, ma

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fosse invece un’antica istituzione yahwista legata alla profezia: un luogo “vuoto” con una funzione protettiva – rispetto all’epifania divina che avverrebbe sempre all’esterno della tenda – equiparabile a quella della caverna di Elia e della roccia di Mosè. In una fase successiva di questa ricerca sarà interessante cercare di sviluppare questi spunti, soprattutto per la rilevanza che questa distinzione fra esterno e interno, vuoto e pieno rivestono in relazione a un possibile culto femminile. L’analisi di una particolare espressione, traducibile con “le donne ministranti”, che nel testo biblico ricorre soltanto due volte, la prima in un passo dell’Esodo e la seconda in uno del primo libro di Samuele, sembra convalidare l’ipotesi di una sorta di “rito di passaggio” – se così si può classificare un rituale di “separazione” fra due dimensioni del sacro – affidato all’elemento femminile e legato all’acqua. Ma entrambi i passi presentano una situazione testuale abbastanza complessa, per cui bisogna procedere a una analisi approfondita. La situazione testuale di 1 Samuele, 2, 22 Il passo da cui questa ricerca ha preso l’avvio è uno dei molti in cui il primo libro di Samuele12 presenta una significativa variante che differenzia il testo ebraico tramandato dai Masoreti13 da altre versioni antiche (in particolare dalla versione greca dei LXX) e dal testo ebraico rinvenuto a Qumran (4QSama): Testo masoretico: Ed Eli (era) molto vecchio e sentì tutto quello che i suoi figli facevano a tutto Israel, e che abusavano delle donne che servivano (ha-tzove’ot) all’ingresso della tenda del convegno (petach ohel mo‘ed).

LXX: Ed Eli (era) molto vecchio e udì quelle cose che i suoi figli facevano ai figli d’Israele.14

4QSama: Ed Eli (era) molto vecchio, (aveva) ottanta[otto] anni, e sentì [ciò] che i suoi figli [face]vano ai figli d’Israele.

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Come si vede, il passo presenta, nel testo masoretico, un consistente plus, rispetto sia al testimone più autorevole della Septuaginta (LXXB) sia al testimone di Qumran. Benché non manchino voci autorevoli a favore dell’originalità del testo più esteso (per es. Geiger, Peters, Fernandez),15 la pubblicazione del testo di Qumran ha fatto prevalere le posizioni di quelli che, seguendo Wellhausen, considerano attendibile il testo dei LXX; essi attribuiscono il plus del testo masoretico a un’aggiunta esegetica che sarebbe stata apportata in ambiente farisaico, probabilmente in epoca contemporanea o successiva a Qumran, in funzione antisacerdotale (Wellhausen)16 o, più verisimilmente, con intenti pietistici di teodicea (Rofé):17 si tratterebbe cioè di una deliberata “integrazione” volta a giustificare la spietatezza dell’azione divina contro quei sacerdoti; il testo di Samuele parla infatti di una pesantissima condanna divina dei figli di Eli e di un trasferimento del sacerdozio in mani diverse. Questa motivazione, però, non convince per vari motivi: primo, perché un altro peccato dei figli di Eli già descritto poche righe prima (1 Samuele, 2, 12-17) – abuso di potere, corruzione, disprezzo delle cose sacre (vedi oltre)18 – è di per sé più che sufficiente, nell’ottica biblica, a giustificare la loro punizione.19 Secondo, perché sembra molto più convincente l’ipotesi opposta: quella cioè di una sorta di censura, da addebitare o a un atteggiamento di deferenza per i sacerdoti (ed è probabile che sia la Vorlage dei LXX sia il testimone di Qumran provenissero dall’ambiente del Tempio),20 o a una precisa ideologia di epoca ellenistica, tendente a escludere ogni testimonianza di riti religiosi femminili;21 o anche semplicemente a un imbarazzo rispetto a un testo di cui non si capiva più il senso e che non si era più in grado di spiegare. Se infatti può essere azzardato parlare di un’ideologia che ispirerebbe deliberati interventi censori, difficilmente dimostrabile data la varietà dei traduttori della Septuaginta, è forse plausibile ipotizzare una prassi di trascrizione che elimina o cambia, per scarsa sensibilità e per incapacità di comprensione o per preoccupazioni “educative”, passi che riguardano il rapporto fra le donne e il sacro.22 A sostegno di questa seconda ipotesi, e quindi della originalità della lezione masoretica, sta anche la testimonianza di altre versioni antiche: il testo sulle donne figura infatti in tutte le traduzioni aramaiche, nella siriaca e nell’araba, e nella Vulgata («dormiebant cum mulieribus qui observabant ad ostium tabernaculi»). Anche la

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tradizione greca conserva il testo più esteso nella Esaplare (mss. A. c. x.), nel testo antiocheno e, con un testo lievemente modificato e spostato, in Giuseppe Flavio.23 Ma la base fondamentale a supporto dell’ipotesi che la lezione masoretica conservi una tradizione antica attestante una funzione cultuale delle donne all’ingresso della tenda del convegno sta soprattutto in un altro passo biblico, anch’esso con una tradizione testuale interessante. Il passo da cui, secondo i sostenitori dell’interpolazione proto-masoretica, sarebbe tratto il brano aggiunto in 1 Samuele.24 Il passo parallelo In Esodo, 38, 8, si descrive la costruzione del Tabernacolo e si dice che la conca di rame per le abluzioni dei sacerdoti, che doveva essere posta «all’ingresso della tenda del convegno», venne costruita con «gli specchi delle ministranti» (mar’ot ha-tzove’ot)25 che prestavano culto26 all’entrata della tenda del convegno. La conca (kiyyor) che sta fuori del Tabernacolo – la stessa che nella costruzione del successivo Primo Tempio sarà chiamata “il mare” – è posta fra la tenda e l’altare degli olocausti e serve a separare, attraverso l’immersione nell’acqua, l’altare esterno, destinato agli olocausti e ai sacrifici di sangue, dall’altare interno, destinato ai “profumi”; serve per la consacrazione dei sacerdoti, che devono immergersi in quell’acqua «perché non muoiano». La situazione testuale di questo passo parallelo sembra meno controversa,27 rispetto all’espressione che ci interessa, ma è estremamente indicativa di come una certa tradizione esegetica di tipo “midrashico” intervenga a modificare il testo della traduzione in greco: LXX (Esodo, 38, 26): Fece la vasca di bronzo e il suo piedistallo di bronzo dagli specchi delle digiunanti, che avevano digiunato alla porta della tenda della testimonianza il giorno in cui Mosè l’aveva eretta.

Non abbiamo lo spazio, in questa sede, per approfondire il carattere di questa esegesi, che è alla base dell’interpretazione di Filone28 e che riaffiora in alcuni commenti rabbinici medioevali29 e

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anche nell’esegesi ebraica contemporanea.30 Né possiamo soffermarci sulla confusione fra la tenda del convegno e la tenda della testimonianza. Quello che qui ci interessa, da un punto di vista testuale, è che, benché non sia lasciato alcuno spazio all’ipotesi di una funzione cultuale femminile, questa volta il testo dei LXX conserva sia l’espressione relativa agli specchi sia la traccia di quelle che nel testo ebraico erano le donne ministranti e che qui diventano le «digiunanti che digiunavano». Una testimonianza preziosa rispetto a un culto “al femminile” viene invece dalle traduzioni aramaiche (targumim)31 palestinesi, che “attualizzano” il testo, secondo il metodo tipico del Targum, descrivendo un rituale femminile connesso al periodo mestruale (o forse al parto) – relativo cioè alle leggi di purità, che prevedevano l’offerta di sacrifici da parte delle donne (cfr. Levitico, 12, 6; 15, 29) – in cui le donne, nel tempo in cui venivano a pregare all’entrata del tabernacolo del convegno (mishkan zemana) presenziavano alla loro offerta di elevazione, lodando (Dio) e ringraziando. Poi, una volta trascorso il tempo della loro purificazione, ritornavano dai loro mariti. È significativo che questi targumim, come poi altre traduzioni da essi dipendenti, sottolineino l’aspetto del tempo, sia ipotizzando un rituale che si compie in un tempo stabilito (o che si ripete a precisi intervalli di tempo), sia mantenendo il sema del tempo che è presente nella parola ebraica mo‘ed, che viene ormai tradotta “convegno” o “radunanza”32 ma che indica un tempo particolare, quello del convegno festivo, la ricorrenza:33 Targum pseudo-Yonatan (Yerushalmi I): E fece la conca di rame, e la sua base di rame, con gli specchi di rame delle donne caste che nel tempo stabilito venivano a pregare alla porta del tabernacolo del convegno (festivo); stavano di fronte alla loro offerta (sacrificale) di elevazione e lodavano e rendevano grazie; poi ritornavano ai loro uomini e partorivano figli giusti, nel tempo in cui si erano purificate dalle impurità del loro sangue.

Targum frammentario (Yerushalmi II): E fece la conca di rame, e la sua base di rame, con gli specchi delle donne caste, che stavano ritirate alla porta del tabernacolo del convegno (festivo).

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Targum Neophiti: E fece la conca di rame, e la sua base di rame, con gli specchi delle donne giuste che pregavano alla porta della tenda del convegno (festivo).

Una variante (M) che cambia “giuste” con “caste” riporta anche il testo del Neophiti alla stessa lezione del Targum frammentario, dove vediamo aggiunta una frase che fa pensare a un preciso spazio per il ritiro delle donne nella zona dell’ingresso al tabernacolo: «con gli specchi delle donne caste che vivevano ritirate alla porta[...]». Il termine che viene tradotto con “caste” (tzeni‘ata) significa esattamente “ritirate”, cioè che osservano il periodo di separazione prescritto per il periodo mestruale o postparto, cioè il periodo del sangue. La porta infatti era uno spazio strutturato, probabilmente con varie stanze, in cui si poteva vivere, lo stesso in cui dovevano stare i sacerdoti nei sette giorni della loro iniziazione (Levitico, 8, 33, 35). I targumim palestinesi testimoniano dunque del permanere di un rituale femminile che si svolge nello spazio dell’ingresso e che è legato a un tempo stabilito, anche se probabilmente questo rituale, di cui si conservano testimonianze anche in altri testi classici del giudaismo,34 riguarda ormai solo le pratiche di purità mestruale e i sacrifici a esse connessi ed è solo una tarda evoluzione di quello di cui il testo biblico porta le tracce nell’espressione «donne ministranti». A questo punto, messa da parte l’improbabile ipotesi che il riferimento alle donne ministranti (in 1 Samuele, 2, 22) sia un’aggiunta esegetica tarda non basata su una solida tradizione orale, diventa forse secondario capire se il brano era ancora nel testo ed è stato eliminato dai LXX, o se era andato perduto precedentemente ed è stato ripristinato dai Farisei; sembra invece più interessante seguire il filone che accomuna il testo dei Masoreti (che possono essere considerati i continuatori dell’opera dei Farisei) e le altre traduzioni antiche e che, letto anche in parallelo al passo dell’Esodo, sembra portare la testimonianza di una precisa funzione cultuale riservata alle donne e di un rituale femminile, sulla cui natura si possono avanzare per ora solo delle ipotesi.

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Il peccato dei figli di Eli (figli di Beliyya‘al) Se contestualizziamo il passo conservato in 1 Samuele, 2, 22 dai Masoreti, possiamo renderci conto che la chiara condanna che esprime nei confronti dei figli di Eli non è solo di carattere morale, ma è la stigmatizzazione di un comportamento pagano ed empio di quei sacerdoti, i quali, non rispettando un rituale religioso femminile legato al corpo – e alla bellezza del corpo femminile, come attestano gli specchi – ma iscritto forse in un’antica concezione di consacrazione rituale del corpo in periodo mestruale, abusano delle donne che prestano culto imponendo un rituale pagano di prostituzione sacra che non riconosce alle donne altra possibilità di culto corporeo che quello del rito orgiastico. È significativo che il testo di Samuele non abbia una sola parola di riprovazione per questo culto delle donne. Quello che la voce del narratore vuole condannare sembra essere proprio l’ottica maschile prevaricante e miope dei figli di Eli che, pochi versetti prima, descrivendo un altro gravissimo peccato di «disprezzo delle cose sacre», il testo chiama «figli di Beliyya‘al» (1 Samuele, 2, 12), un’espressione che oggi viene tradotta semplicemente “uomini corrotti”, ma che ha un preciso parallelo nell’episodio precedente in cui Anna – la madre di quel Samuele destinato a prendere il posto della discendenza di Eli nel sacerdozio – subisce una simile miopia sacerdotale da parte dello stesso padre di quei figli di Beliyya‘al (1 Samuele, 1, 13-16), che la offende, interpretando come ubriachezza profana ed empia la sua intensa preghiera detta a fior di labbra. E Anna si ribella e protesta: «Non trattare la tua serva come se fosse una figlia di Beliyya‘al!»;35 cioè, non trattare come un culto pagano quella preghiera che sarà invece benevolmente accolta da Dio e che sfocerà in uno dei cantici più belli di cui la Bibbia porti testimonianza. L’accusa di Anna, come l’accusa del narratore contro i figli di Eli, è dunque quella di profanazione. Esattamente come nel passo precedente (1 Samuele, 2, 12), viene descritto un peccato per cui quei due «figli di Beliyya‘al» che «non conoscevano» (o non riconoscevano) il Signore profanavano i sacrifici, pretendendo per sé anche quello che era destinato all’altare (1 Samuele, 2, 13-17): peccato gravissimo, perché disprezzavano l’offerta per il Signore, profanavano un sacro di cui le donne erano ministre e servienti all’ingresso della

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porta del convegno e trasformavano in orgia pagana un rito, che era molto probabilmente legato al corpo, all’acqua e al sangue, e che non aveva niente a che vedere con la prostituzione; per cui l’azione dei figli di Eli si qualifica come vero e proprio abuso.36 Per paradosso, la stessa accusa si potrebbe fare ai “purgatori” del testo: le vicende di questa variante testuale si possono infatti leggere attraverso l’ottica di quello che è stato chiamato il mito storiografico della prostituzione sacra.37 L’ipotesi è che, persasi la memoria della vera natura di quel culto, in ambiente ellenistico (Alessandria d’Egitto, ma anche la Palestina dell’epoca asmonaica) e in epoca di forte influenza della cultura greca, tutto ciò che è culto femminile sia concepibile soltanto come prostituzione sacra e rito orgiastico, e che sia quindi imbarazzante lasciare nel testo biblico un passo che non condanna quel rituale ma considera invece grave colpa quella dei sacerdoti che lo profanano. In che cosa consistesse esattamente quel culto è difficile dirlo. Il testo biblico conserva solo la testimonianza di un culto femminile pagano che si svolgeva alla porta del Tempio, il lamento funebre per Tammuz (Ezechiele, 8, 14), che probabilmente non ha nessuna attinenza con il nostro passo; mentre il termine “custode della soglia”– che però non figura mai nel Pentateuco, ma solo nel secondo libro dei Re, in Geremia e nel secondo delle Cronache – è sempre al maschile. Non si può escludere, per esempio, che fosse assegnata alle donne la semplice manutenzione della conca per le abluzioni dei sacerdoti; in fondo molte delle funzioni cultuali degli stessi Leviti si risolvono in un semplice servizio come la custodia del vasellame. Ma si potrebbe anche ipotizzare che fosse affidato alle donne, il cui rapporto con la vita e con la morte è iscritto nel sacro del corpo, un rito di passaggio che aveva il suo “luogo” sulla soglia che divideva il sacro “esterno” dei sacrifici cruenti (il sangue) dal sacro “interno” dell’altare dei profumi e dell’Arca. Un rituale dove la parte fondamentale è svolta dal kiyyor, la conca dell’acqua lustrale, in cui i sacerdoti devono immergersi nel rito che precede la loro consacrazione, «per non morire». La conca, che prefigura sia il “mare” del Tempio salomonico (1 Re, 7, 23-; 2 Cronache, 4, 2-) sia il miqwe38 di epoca rabbinica, era costruita con gli specchi (non si sa se fusi o se usati come lastre per la pavimentazione) delle donne addette al culto – o, se vogliamo, secondo le visioni39 di quelle stesse donne. È posta in

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uno spazio che segna un limite, una zona di passaggio e di trasformazione, e l’acqua che la riempie serve da divisorio fra due stati (entrambi sacri) e quindi da separazione fra la vita e la morte. Sembra esserci una precisa funzione del femminile a protezione della vita, in un rito che prevede il contatto con l’elemento distruttivo del sacro (i sacrifici cruenti). Una funzione che si esplica sia in modo diretto, in un culto delle donne prestato nello spazio interno all’ingresso della tenda (il “santuario del tempo”, che è forse un luogo “diverso” dal tabernacolo sacerdotale),40 sia in modo mediato attraverso gli specchi che pavimentano la conca delle abluzioni. Qualcosa ricorda qui un altro misterioso rituale, ancora tutto da studiare, in cui le ceneri di un animale femmina – una giovenca rossa (parà adummà, Numeri, 19-1 ss.) – mischiate alle acque di aspersione (mé niddà) servono per la purificazione dal contatto con il cadavere. Un rituale in cui l’impurità della vacca rossa purifica dall’impurità della morte. Se non vuole morire, il sacerdote non può passare dall’altare del sangue al Tabernacolo, dove sarà in contatto con la massima potenza del sacro, e viceversa, se non passa prima attraverso l’acqua della conca dove il femminile protegge la vita dalla morte. Considerazioni aggiuntive: le interpretazioni dei rabbini Il campo delle interpretazioni di ambiente ebraico, che vanno dall’epoca post-biblica al Medioevo e oltre, è troppo vasto perché se ne possa dare anche una semplice visione d’insieme.41 Mi sembra però indispensabile fornire almeno qualche indicazione, anche citando alcuni testi per esteso, sulla esegesi rabbinica nel Talmud e nel Midrash, perché, come il Targum, potrebbe conservare le tracce di un significato originario dei passi tramandato attraverso la tradizione orale. Nei commenti a Esodo, 38, 8, l’aspetto che viene messo in maggiore rilievo è quello della purità e santità dei rapporti matrimoniali, e l’osservanza delle norme di purità da parte delle donne viene trattata spesso come una vera e propria forma di culto di cui le donne sono responsabili. La costruzione della vasca con gli specchi delle ministranti è vista come un premio alle donne per l’osservanza delle norme di purità nel lungo periodo della schiavitù in Egitto e per aver

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usato la propria bellezza non a scopi immorali (zonut, che significa prostituzione, ma è anche e soprattutto metafora dell’idolatria), ma per sedurre i propri mariti e spingerli a procreare numerosa progenie42 – un tema midrashico classico, che si trova anche nella Haggadà di Pesach e che evidenzia quale importanza il giudaismo di epoca mishnica e talmudica assegnasse alla sessualità della coppia. Un testo abbastanza significativo per il nostro tema, perché va a toccare proprio il rapporto fra le donne e il sacro, si trova nel Midrash Rabbà al libro dei Numeri, nella sezione che commenta il “rituale della gelosia” (Numeri, 5, 12-31), in cui la donna sospettata dal marito deve affrontare un’“ordalia” di sapore arcaico che, con tutta la sua terribile violenza sulla donna, testimonia però un rituale in cui la donna doveva entrare nel Tempio, presentarsi davanti al Signore vicino all’altare interno dei profumi, e bere l’acqua consacrata in cui era stato disciolto uno scritto con il nome divino. Il commento del Ba-midbar Rabbà (9, 14) sottolinea lo stretto rapporto fra acqua consacrata, conca, specchi delle donne, purità delle donne, e sembra voler richiamare i “meriti delle madri” nel momento in cui le figlie vengono sottoposte alla prova: «E il sacerdote prenderà l’acqua santa» (Numeri, 5, 17). Non esiste acqua santa se non quella che è stata consacrata in un recipiente, e questa è l’acqua della conca. Perché l’acqua viene presa dalla conca? Perché la conca era fatta con gli specchi delle donne, ed è detto: «Ed egli fece la conca di rame [...] [con gli specchi delle donne]» (Esodo, 38, 8), di quelle donne che avevano detto: «Dio ci è testimone che noi siamo uscite dall’Egitto in stato di purità». Quando Mosè si accinse a fare la conca, Dio gli disse: «Falla con quegli specchi, perché essi non furono fatti per scopi immorali».43 E le loro figlie saranno messe alla prova da essi, per vedere se sono pure come le loro madri.

Rispetto al passo di 1 Samuele, 2, 22, nella esegesi rabbinica si possono distinguere fondamentalmente due filoni: il primo, apologetico e maggioritario, è quello che si basa sulle interpretazioni di R. Shemuel e R. Yochanan44 e che legge tutto il brano cercando di sminuire il peccato dei figli di Eli (o interpretandolo come una metafora, attraverso la nota tecnica del “come se”,45 o cambiando la violenza in un semplice “ritardo”46); il secondo – che in questa sede ci interessa maggiormente, perché si inserisce nella stessa linea “laica” che a mio avviso ha mantenuto la versione estesa del testo – si sviluppa da un’interpretazione

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di R. Yochanan ben Torta47 riportata in un passo del Talmud babilonese – bYoma 9a, testo più o meno contemporaneo al Bereshit Rabbà, fra il IV e il VI secolo – e considera estremamente grave il peccato dei figli di Eli sia dal punto di vista morale che religioso, definendolo un gillui ‘arayot (letteralmente “scoprimento delle nudità”), termine che indica tutte le unioni proibite che implicano un abuso o un incesto: R. Yochanan ben Torta diceva: «Perché fu distrutta Shilò? Fu a causa di due cose che presero là il sopravvento: l’immoralità (gillui ‘arayot) e il disprezzo delle cose sante (bizzayon qodashim)». L’immoralità, perché è scritto «Ora Eli era molto vecchio [...] e che abusavano delle donne che ministravano all’ingresso della tenda del convegno». Nonostante quanto dice Rabbi Shemuel bar Nachman: «Diceva R. Yochanan: Chiunque dice che i figli di Eli peccarono, fa soltanto un errore; è perché essi ritardarono a elevare i loro [delle donne] uccelli sacrificali (cfr. Levitico, 12, 8), che la Scrittura lo imputa loro come se avessero giaciuto con esse». E il disprezzo delle cose sante, come è scritto (1 Samuele, 2, 15) «E prima che fosse bruciato tutto il grasso, veniva un garzone [...]» (bYoma 9a).

Chi riporta la posizione di R. Yochanan ben Torta, facendola prevalere sull’altra esegesi che viene registrata per esteso e apertamente contestata, attribuisce quindi la distruzione di Shilò all’abuso di potere da parte dei sacerdoti, sia sul piano dell’immoralità che su quello della corruzione. La stessa linea interpretativa caratterizza anche un passo del Midrash Tehillim che riporta un’esegesi secondo cui «figli di Beliyya‘al» significa proprio “scopritori di nudità”, interpretato qui come dediti a culti pagani. Interpretazione estremamente interessante alla luce di quanto si è detto sul rapporto di questo passo con quello in cui si parla del voto di Anna e dell’incapacità del sacerdote (Eli, in questo caso) di comprendere l’intensità della sua preghiera. Si è visto che anche Anna protesta di non essere una «figlia di Beliyya‘al», di fronte al disprezzo di Eli che la prende per ubriaca. Il Midrash Tehillim sembra dunque suffragare l’ipotesi che le donne ministranti prestassero un culto che i figli empi del sacerdote Eli corrompono, trasformandolo con la violenza in un culto pagano. Il commento prende le mosse dai primi versetti del Salmo 53 e mette in relazione l’espressione «figli di Beliyya‘al» con la «mancanza di conoscenza» o il «rinnegamento» di Dio, la «corruzione» e lo «scoprimento delle nudità» – tutti atti di un culto pagano:

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Nabal disconobbe anche il Santo – che sia benedetto – come è scritto: «Disse Nabal48 in cuor suo, non c’è Dio. [Si sono corrotti e hanno fatto cose abominevoli]» (Salmi, 53, 2). Che cosa significa “in cuor suo”? Pensieri cattivi. Che cosa significa “si sono corrotti”? Come si era corrotta la generazione del Diluvio, di cui è scritto «perché si era corrotta ogni carne» (Genesi, 6, 12). Come quella egli era uno scopritore di nudità, per questo è detto «si sono corrotti». Per questo Abigail disse a David: «[...] riguardo a questo Beliyya‘al» (1 Samuele, 25, 25). Che significa Beliyya‘al? Scopritore di nudità, come è scritto: «E i figli di Eli erano figli di Beliyya‘al [...] che violentavano le donne che prestavano culto» (1 Samuele, 2, 12, 22). Altra interpretazione: che cosa significa “si sono corrotti”? Che meditava in cuor suo il culto pagano. È scritto qui «si sono corrotti» ed è scritto lì «perché non vi corrompiate e non vi facciate un idolo» (Deuteronomio, 4, 16). Per questo Nabal è chiamato Beliyya‘al, perché è scritto «sono usciti degli uomini figli di Beliyya‘al [e hanno fatto sviare gli abitanti delle città, dicendo: ‘Andiamo a servire altri dei’]» (Deuteronomio, 13, 14). (Midrash Tehillim, 53, 1)

Un ulteriore spunto, che sarebbe da approfondire perché ripropone un rapporto fra il cantico di Anna nel Santuario di Shilò e le donne ministranti di cui abusano i sacerdoti empi, nasce dalla particolare affinità che il termine tzove’ot (ministranti) ha con il nome divino A’ Tzeva’ot (il Signore delle schiere) – un’affinità che non poteva sfuggire ai maestri del Midrash, che infatti collegano le tzove’ot (ministranti) dei nostri due passi con le schiere (tzeva’ot) degli israeliti usciti dall’Egitto grazie ai meriti delle donne.49 Non è certo senza significato che quel nome compaia per la prima volta nel testo biblico proprio in questo primo libro di Samuele. Come già faceva rilevare il Talmud Babilonese, Anna – la madre di Samuele – è la prima a utilizzare l’epiteto A’ Tzeva’ot: «Da quando il Santo – che sia benedetto – creò il suo universo, non ci fu un uomo che lo chiamò Tzeva’ot, finché non venne Anna e lo chiamò Tzeva’ot» (bBerakhot, 31b). A ricordarcelo è il già citato Alexander Rofé50 che, in un suo libro sui profeti di qualche anno fa, sosteneva che l’eliminazione del nome Tzeva’ot dei primi libri della Bibbia fosse dovuta a un intervento editoriale tendente a cancellare le tracce di ogni riferimento a culti astrali – con Tzeva’ot si intendono infatti gli eserciti del cielo, le schiere angeliche. Il campo dei nomi divini è ricchissimo e questo spunto merita sicuramente uno studio approfondito, ma è interessante che proprio uno dei sostenitori della interpolazione tarda del passo sulle donne ministranti in 1 Samuele offra suo malgrado un elemento a favore della originalità di questi testi e del loro stato non censurato.

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Note 1. Sulla datazione delle fonti e soprattutto sulla questione della maggiore antichità di D o P il dibattito è ancora aperto. Alcuni critici datano la maggior parte del Deuteronomio al tempo della riforma di Giosia (VII secolo a.E.V.) e quindi ancora all’epoca del Primo Tempio, altri lo considerano opera fondamentalmente esilica (VI sec.), altri spostano in epoca post-esilica la sua redazione finale. Per un primo approccio a queste tematiche, vedi A. Rofé, La composizione del Pentateuco: un’introduzione, Bologna, Dehoniane, 1999. 2. R.W. Henshaw, Female and Male. The Cultic Personnel: The Bible and the Rest of Ancient Near East, Allison Park, PA, Pickwick, 1994. 3. Cfr. C.J. Vos, Women in Old Testament Worship, Deft, 1968; J.B. Segal, Jewish Attitudes toward Women, in «Journal of Jewish Studies», 30 (1979); I.J. Peritz, Women in the Ancient Hebrew Cult, in «Journal of Biblical Studies», 17 (1898). 4. Henshaw, Female and Male, 4, 22, 16. 5. Sulla interpretazione di questo passo come attestazione di una funzione sacerdotale di Miriam, accanto ad Aronne, cfr. Vos, Women in Old Testament Worship, pp. 174-192, e J.P.E. Pedersen, Israel: Its Life and Culture, III/IV, London, Humphrey Milford, 1926, pp. 166 ss. (ed. or. Copenhagen, 1920). 6. H.J. Kraus, Worship in Israel, Oxford, Basic Blackwell, 1966 (ed. or. München, 1962). 7. Mishnà Sukkà 5, 2: «Chi non ha veduto la festa di allegrezza che si faceva in occasione dell’attingimento dell’acqua, non ha veduto allegrezza ai suoi giorni. Uscito il primo giorno di festa, scendevano nell’atrio del Tempio riservato alle donne, e vi facevano un grande preparativo (tiqqun gadol) [...]». 8. bSukkà 51b. 9. Henshaw, Female and Male, 1, 4, 6. 10. L’espressione ricorre molte volte in Esodo, Levitico e Numeri, una volta in Giosuè, 19, 51, e una in 1 Samuele, 2, 22 (in 1 Cronache, 9, 21, figura in una forma leggermente diversa). È significativo che non figuri mai in questa forma nel Deuteronomio. 11. M. Haran, Temples and Temple-Service in Ancient Israel, Oxford, Clarendon Press, 1978, pp. 260-275. 12. Fra i moltissimi studi dedicati alle varianti dei libri di Samuele, si segnala in particolare: S. Pisano S.J., Additions or Omissions in the Books of Samuel: The Significant Pluses and Minuses in the Massoretic, LXX and Qumran Texts, Freiburg, Schweiz, Universitätsverlag; Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1984. 13. Studiosi ebrei responsabili della definizione e vocalizzazione del testo biblico, operanti in scuole in Babilonia e Palestina in epoca alto-medioevale, fra le quali ha alla fine prevalso quella di Tiberiade che ha stabilito la forma definitiva del testo nel X secolo. 14. Così il testo LXXB (Codex Vaticanus). Per le varianti, vedi più avanti e cfr. Pisano, Additions or Omissions. 15. Per i nomi citati, cfr. Pisano, Additions or Omissions. 16. J. Wellhausen, Der Text der Bücher Samuelis untersucht, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1871. A favore di un’aggiunta attribuibile a una revisione

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tardiva di impronta sacerdotale è anche A. Catastini, Su alcune varianti qumraniche nel testo di Samuele, in «Henoch», II, 3 (1980), pp. 277-278. 17. La posizione di Alexander Rofé è stata presentata in una serie di tre lezioni da lui tenute nel 1999 all’Università di Firenze. 18. La testimonianza di Giuseppe Flavio collega espressamente i due peccati; vedi nota 23. 19. Un testo molto più inquietante, in cui la punizione divina si abbatte senza pietà su due figli di Aronne, colpevoli solo di aver offerto sull’altare un fuoco non richiesto, avrebbe dovuto preoccupare molto di più i “redattori” del testo. 20. Per la Vorlage dei LXX, cioè il testo ebraico – o forse aramaico? – inviato a Alessandria per la traduzione in greco richiesta da Tolomeo II, cfr. la Lettera di Aristea, e Filone, De vita Mosis, 2, 29-40. In un periodo in cui il “canone” non è ancora fissato e il testo biblico non ancora stabilito definitivamente, il testo che viene inviato dall’ambiente del Tempio (e quindi sacerdotale) a Alessandria è probabilmente annotato e corretto secondo l’ideologia del tempo e quelle note e correzioni entrano nella traduzione greca insieme al testo vero e proprio. Diverso è invece il testo conservato in ambiente laico in cui si tramanda sia la Legge scritta che la Legge orale, ma si considera il testo scritto sacro e inviolabile (Cfr. D.W. Halivni, Restaurare la rivelazione, Firenze, Giuntina, 2000, ed. or. Boulder, 1997). 21. A supporto di questa ipotesi, per cui il passo sarebbe stato spurgato per un intervento di purificazione del testo in senso antifemminile e sessuofobico, ci sono molti altri esempi di discordanze dello stesso tipo fra la traduzione dei LXX e il testo ebraico. Si possono citare due casi fra i più significativi: la teshuqqà (il “desiderio” o la “brama”) di Genesi, 3, 16, ecc., che diventa teshuvà (conversione, pentimento o ritorno); l’espressione di Sara sul piacere –`ednà – che semplicemente sparisce nella versione greca di Genesi, 18, 12. L’influenza del pensiero ellenistico, con la sua concezione della inferiorità della donna, non investe solo l’ambiente alessandrino, ma gran parte del pensiero ebraico del tempo – come attestano i libri dei Maccabei – soprattutto in ambiente sacerdotale e nei movimenti settari. 22. Ho cercato di sintetizzare la complessa questione del rapporto fra sacro e profano, puro e impuro, a cui ha dedicato numerosi studi Paolo Sacchi, nel mio breve saggio: Note sui concetti di puro e impuro e sul loro rapporto con il Sacro nella Bibbia e nel Giudaismo, in La Sessualità. Aspetti religiosi, culturali, sociologici, sanitari, convegno di studi, Ferrara, 2 aprile 1995, Ferrara, Cassa di Risparmio di Ferrara, 1996, pp. 47-62. 23. Antichità, V, 339: «Eli, il sommo sacerdote, aveva due figli, Ofnie e Finees; costoro crescevano ambedue insolenti verso gli uomini ed empi verso Dio, non si astenevano da alcuna scelleratezza: dai sacrifici prendevano alcune parti come premio per il loro ufficio, altre invece le sottraevano come ladri; disonoravano le donne che andavano per il culto facendo violenza ad alcune e seducendone altre con regali; in breve, il loro comportamento non differiva dalla tirannide». 24. Cfr. D. Barthélemy, Critique textuelle de l’Ancien Testament, vol. 1, Fribourg, Éditions Universitaires; Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1982. 25. Quest’ultima parola è la stessa che troviamo in 1 Samuele, 2, 22 e ricorre, in questa forma, solo in questi due passi, mentre il termine mar’ot, che qui traduciamo “specchi”, in altri contesti significa “visioni” (Ezechiele, 1, 1; 8, 3; 40, 2; 43, 3; Genesi, 46, 2).

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26. In ebraico è usato lo stesso verbo da cui deriva “ministranti”: asher tzavu, che ha il significato di “servizio” sia in ambito cultuale che in ambito militare e designa espressamente la funzione dei Leviti. Cfr. Numeri, 4, 23, litzvo tzava che anche i LXX traducono con liturgeîn. Anche P. Dhorme, che ribadiva, come la maggioranza degli studiosi, il carattere spurio dell’aggiunta masoretica, spiegava il verbo tzava in relazione a una sorta di militia sacra con compiti di vigilanza alla porta del Tabernacolo (P. Dhorme, Les livres de Samuel, Paris, Libraire V. Lecoffre J. Gabalda et C.ie, 1910, p. 38). 27. Per una analisi complessiva dei problemi di questo passo, cfr. J.I. Durham, Word Biblical Commentary, vol. 3, Exodus, Waco, TX, Word Books, 1987, pp. 487 ss. Il testo dei LXX si discosta in modo consistente dal TM in tutto il capitolo: il traduttore greco mette insieme passi diversi, seguendo un’interpretazione midrashica che collegava sia la costruzione della conca che quella dell’altare ai fatti narrati in Esodo, 33, 48, quando dopo il peccato del vitello d’oro il popolo “si spoglia dei suoi ornamenti”, e a quelli narrati in Numeri, 16 (la rivolta di Kore); cfr. ed. critica francese: La Bible d’Alexandrie, Paris, Éd. du Cerf, 1989, vol. 2, pp. 363-369. L’offerta degli specchi da parte delle donne, in quest’ottica, è equiparata all’uso degli incensieri dei ribelli per la costruzione dell’altare (Numeri, 17, 3) e diventa quindi un’offerta “penitenziale”, un sacrificio della vanità peccaminosa – o un’espiazione per aver dato i propri gioielli per la costruzione del vitello d’oro. Per questo le donne “digiunavano”. 28. Cfr. Filone: «E consacreranno l’offerta del digiuno e della costanza che fra tutte è la più santa e la più perfetta» (De Migratione Abrahami, 98). Si veda anche De vita Mosis, II, 136-138; Quaestiones in Exodum, I, 2. 29. Per esempio nel commento del Ba‘al ha-Turim, XIV sec. «Si distoglievano dalle passioni mondane e davano i loro specchi come dono per la Dimora». 30. Benno Jacob, per esempio, The Second Book of the Bible: Exodus, Hoboken, N.J., Ktav, 1992, ripropone il tema dell’offerta “sacrificale” degli specchi, paragonandola al sacrificio della chioma del Nazireo, ma la considera un vero e proprio atto di culto, attestato dall’uso dei termini tzava (che designa il servizio cultuale dei Leviti) e petach ohel mo‘ed (che si riferisce sempre a un atto di culto). Benno Jacob vede proprio in 1 Samuele, 2, 22, la prova che, anche quando c’era già un Santuario, c’era ancora anche una tenda dove le donne prestavano culto. Umberto Cassuto riprende invece il tema filoniano dello “zelo” delle donne che facevano a gara con gli uomini «per non essere vinte da essi nel culto divino» (Filone, De vita Mosis, II, 136-139) e, nel suo citato commento all’Esodo, spiega che le donne stavano “in coda” (cioè «si assiepavano», come traduce anche Rofé) davanti alla porta per offrire il loro dono – dono eccezionale, in più rispetto al contributo obbligatorio. Cassuto fa anche rilevare che in 1 Samuele, 2, 22 la forma grammaticale indica che il rituale di cui si parla si ripeteva di tempo in tempo (A Commentary on the Book of Exodus, Jerusalem, Magnes Press, 1967 [1a ed. or. Yerushalayim, 1951]). 31. Il termine Targum (pl. targumim) indica le parafrasi in lingua aramaica che circolavano oralmente fin dall’epoca del Secondo Tempio, ma di cui si sono conservati testi messi per iscritto molto più tardi (II-VII sec. E.V.), sia in area palestinese che babilonese. Per il Pentateuco se ne hanno più versioni: Targum Onqelos (il più letterale), Targum pseudo-Yonatan (Yerushalmi I), Targum frammentario (Yerushalmi II), Targum Neophiti.

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32. L’espressione aramaica mishkan zemana si potrebbe tradurre “dimora” o “santuario” del “tempo”. 33. Cfr., per es., la traduzione latina della versione Siriaca nella Poliglotta Walton (1659): “in ostio tabernaculi temporis”. 34. A un primo esame della esegesi ebraica antica, che costituisce, insieme a quella medioevale, l’area di sviluppo di questa ricerca, è dedicata l’appendice. 35. Anche in questo caso le traduzioni correnti eliminano questo prezioso parallelo con 1 Samuele, 2, 12, traducendo “mala femmina” o “donna iniqua”. 36. Traduco yishkavun et-ha-nashim con “violentavano le donne” – come fanno correttamente le versioni antiche (Siriaca, Araba), che nella traduzione latina della poliglotta Walton hanno «stuprabant». 37. Cfr. M. D. Arnaud, La prostitution sacrée en Mesopotamie, un mythe historiographique?, in «Revue de l’Histoire des Religions», 183-184 (1973), pp. 111-115, secondo il quale l’unica prova di un rituale di prostituzione sacra è la testimonianza di Erodoto, Hist., 1, 199, che sarebbe viziata dal presupposto della superiorità greca rispetto ai popoli “barbari”; si veda anche Henshaw, Female and Male, pp. 228-236 e note. 38. Miqwe – letteralmente “raccolta d’acqua” con riferimento alla prima separazione delle acque nella Genesi – indica il bagno per le purificazioni rituali prescritto dalla legislazione rabbinica. Nella Bibbia il termine significa anche “speranza”. Per la legislazione rabbinica, cfr. il trattato Mikwa’ot nella Mishnà, nel Talmud e nelle opere di normativa successive. 39. È da verificare se il termine usato alluda anche qui a un tema di “visione”, come farebbero pensare le altre occorrenze bibliche del termine mar’ot in questa forma difettiva (Genesi, 46, 2: nelle visioni della notte) e in scriptio plena (Ezechiele, 8, 3; 40, 2, ecc.). 40 Se consideriamo l’ipotesi di Haran, accennata sopra (vedi nota 11), di due diverse “tende”, risulta ancora più chiara la differenza fra i due tipi di culto. 41. Fra i testi che ancora non ho potuto consultare ci sono due opere cabbalistiche, una medioevale e l’altra rinascimentale, che hanno entrambe nel titolo l’espressione a cui è dedicata questa ricerca: 1) il commento ai Profeti anteriori e posteriori, composto a Safed da Moshé ben Chayyim Alshek (XVI sec.), Sefer mar’ot ha-tzove’ot, Venezia, Di Gara (per conto di Chayyim ben Moshé Alshek), 1603-1607; 2) il testo di R. D. ben Yehudà he-Chasid (1240ca-1320ca), Mar’ot ha-tzove’ot ‘al ha-Torà, basato sullo Zohar (conservato solo in parte), pubblicato con tr. ingl. da D. Chanan Matt, Chico, CA., Scholars Press, 1982. 42. Cfr. Mekhilta, Bo 16, 165; Ba-midbar Rabbà, 9, 14; Tanchuma, Pequdé 9; Zohar II, 4a. Si veda anche Rashi (XI sec.) ad Esodo, 38, 8. 43. In ebraico: le-shem zonut, cioè in nome (o al fine) della prostituzione (o dell’idolatria). 44. Entrambi amoraim di area palestinese: Rabbi Shemuel bar Nachmani appartiene alla terza generazione (inizio IV sec. E.V.), Rabbi Yochanan bar Nappachà alla seconda generazione (fine III sec. E.V.). 45. Cfr., per es., Bereshit Rabbà, 85, 12, uno dei midrashim aggadici considerati fra i più antichi, intorno al V secolo. «Ed è scritto ‘che abusavano delle donne che

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ministravano all’ingresso della tenda del convegno’. È mai possibile che i figli di un tale giusto facessero una simile azione? Il fatto è invece che esse portavano le loro offerte di colombi a Shilò per essere purificate ed essi le costringevano a stare fuori dalle loro case una notte intera. La Scrittura lo imputa loro [ai figli di Eli] come se avessero avuto rapporti sessuali con loro». Lo stesso motivo si trova anche nel trattato Shabbat del Talmud Babilonese (55b) e in altri midrashim più tardi – per es. Midrash Bereshit, 85, 29; Aggadat Bereshit, 41; Midrash Shemuel, 7, 4 – ed è prevalente anche nello Zohar (cfr. I, 176a). 46. Ritardando l’offerta del sacrificio portato dalle donne, i sacerdoti avrebbero, secondo un’interpretazione, costretto quelle donne a passare la notte fuori casa (Bereshit Rabbà, 85, 12) e, secondo un’altra interpretazione, lasciato credere alle donne che la loro purificazione fosse compiuta, inducendole così a unirsi ai loro mariti quando ancora il sacrificio non era stato immolato, e quindi facendo peccare entrambi (Aggadat Bereshit, 41). Per inciso, un’eco della prima interpretazione sembra risuonare nella traduzione della Vulgata di Esodo, 38, 8: «Fecit et labrum aeneum cum basi sua de speculis mulierum, quae excubabant [passavano la notte, vegliavano, vigilavano] in ostio tabernaculi». 47. Tannà palestinese della seconda generazione (II sec. E.V.). 48. Nelle traduzioni correnti Nabal qui è tradotto con “lo stolto” o “il depravato”, secondo il significato di naval in ebraico, ma Nabal è anche il nome del marito di Abigail (1 Samuele, 25) e il Midrash qui lo interpreta in questo senso. 49. Vedi le fonti citate nella nota 40. 50. Cfr. A. Rofé, Introduzione alla letteratura profetica, Brescia, Paideia, 1995, pp. 50-51 (1a ed. Gerusalemme, 1993). Si è già segnalata la posizione di Rofé che considera «rimaneggiato» a fini di teodicea il testo masoretico in 1 Samuele, 2, 22.

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ALESSIA BONADEO Iride, l’arcobaleno e il serpente. Rivisitando alcune storie di iniziazione

Iride: dea dell’arcobaleno, dea del passaggio Come è noto, l’iniziazione, i riti di passaggio e, più in generale, tutte le pratiche che segnano per l’individuo il trapasso da una condizione a un’altra e che schiudono l’accesso a nuove prerogative o poteri prevedono l’eliminazione simbolica delle connotazioni dello status precedente e la conferma della nuova condizione, mediante un segno, temporaneo o duraturo, che spesso coinvolge non soltanto l’esteriorità dell’individuo ma anche il suo corpo e la sua identità fisica. L’antichità classica offre alcuni esempi, che ci si propone di esaminare, di vicende mitologiche segnate da forme di passaggio e da momenti iniziatici forti, in cui l’acquisizione del nuovo stato implica una modifica radicale di quella particolare forma di linguaggio del corpo che è la sessualità. In queste vicende spiccano alcune presenze quali Iride, che si vedrà essere dea del passaggio per eccellenza, l’arcobaleno e il serpente, che rappresentano i nodi di una rete di rapporti e di relazioni simboliche che sembra inglobare anche le forme di devianza e aberrazione sessuale presenti nei miti esaminati. La figura di Iride nel mondo classico gode di un duplice statuto: è antropomorfa messaggera degli dei e anche personificazione del fenomeno naturalistico dell’arcobaleno. La duplicità della sua natura è suggerita dalla stessa nomenclatura greca che con un medesimo sostantivo, iris, designa tanto la dea quanto il fenomeno meteorologico. I rapporti fra la messaggera e il suo doppio naturalistico

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sono piuttosto complessi, in quanto casi di esplicita identificazione (cfr. per es. Enn., Ann., fr. 15 Skutsch, Cic., Nat. deor., 3, 51) coesistono con altri in cui si crea un cortocircuito mito-natura, una sorta di osmosi, per cui termini che avrebbero come referente proprio l’arcobaleno vengono riferiti alla dea. Gli epiteti di Iride e le genealogie mitiche che la coinvolgono, infatti, la collegano al vento, alla tempesta, al mare e all’elemento umido in genere, ossia a quegli agenti che spesso sono presenti al momento della formazione dell’arcobaleno. Omero (cfr. Il., 5, 353; 8, 409), ad esempio, definisce la dea «piede di vento» (podenemos) o «piede di turbine» (aellopos); la Teogonia esiodea (vv. 265-269), invece, la individua come figlia di Taumante, il mare visto nei suoi aspetti prodigiosi, nipote di Oceano e sorella delle Arpie, gli spiriti maligni che sono personificazione della tempesta, mentre una versione del mito, per noi attestata solo da Alceo (fr. Z3 L.P.), la dipinge come sposa del vento Zefiro e madre di Eros. Sicuramente però gli autori in cui il legame mito-natura si fa più evidente, sino al punto di palesarsi nella stessa iconografia letteraria della dea, sono Virgilio (Aen., 5, 609-610; 9, 15) e Ovidio (Met., 14, 829-830) che fanno dell’arcobaleno la rotta su cui Iride incede: la dea, secondo un topos assai diffuso nell’antichità, non può mostrarsi ai mortali nel suo vero sembiante, ma il suo passaggio si rende loro evidente per lo stagliarsi nel cielo del suo arco variopinto. Come fa notare Boyer,1 anche al di fuori delle culture classiche l’arcobaleno è spesso immaginato come rotta o come ponte di collegamento: presso gli Indiani del Nord America, infatti, è considerato come il cammino percorso dalle anime, presso le popolazioni hawaiane e polinesiane è ritenuto la strada per il Paradiso, mentre in Giappone è definito come il ponte aereo del cielo. In sostanza quindi l’arcobaleno si configurerebbe come una forma di passaggio fra cielo, terra e inferi, mondo umano e mondo ultraterreno, celeste o infernale. Questa funzione di tramite viene rispecchiata nel mito dal ruolo assunto da Iride all’interno del pantheon olimpico. La dea, che tanto le testimonianze letterarie quanto quelle iconografiche tendono a rappresentare come giovane e verginale, ora aptera, ora munita di ali sul dorso, ai piedi, o sul dorso e ai piedi, ricopre il ruolo di messaggera degli dei. Questo suo ruolo la vede passare fra l’Olimpo, la terra e l’Ade per recare messaggi che, per lo più, sembrano essere caratterizzati da tratti semantici negativi ed essere forieri di discor-

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dia e di nefaste conseguenze. Mittente privilegiato delle sue ambascerie è la coppia olimpica Zeus/Era (Giove/Giunone), mentre un suo legame particolare con la madre degli dei, sottolineato da una certa critica di fine Ottocento e dei primi del Novecento,2 trova riscontro solo in un esiguo numero di testi (cfr. in particolare Eurip., H.F., 822 ss.), dove Iride sembra emissaria ed esecutrice delle volontà della sola Era. È però degno di nota il fatto che nella tradizione letteraria sussistano anche casi in cui Iride si spoglia della sua funzione araldica per attendere ad altre mansioni. Ne sono esempi alcuni versi dell’Eneide (4, 693-705) dove, pur agendo come emissaria di Era, non reca alcun messaggio, ma scende in terra a strappare il biondo capello della vita a Didone morente, e il passo di Teocrito (Idem, 17, 133-134) dove, ancora vergine (eti parthenos), prepara il talamo nuziale di Zeus ed Era. D’altro canto una presenza di Iride alle nozze sacre sembra trovare riscontro anche nell’iconografia, come dimostrerebbero un affresco pompeiano proveniente dalla casa del Poeta tragico,3 dove la dea incede accanto alla sposa Era e, secondo Kossatz Deissmann,4 il fregio partenonico delle Panatenaiche, dove la coppia olimpica sta in atteggiamento simile a quello della hierogamia e dove Era è affiancata da una figura femminile alata in cui forse si può riconoscere proprio Iride. I due testi di Teocrito e di Virgilio spesso hanno destato l’attenzione della critica, in quanto apparentemente è difficile comprendere perché proprio la dea dell’arcobaleno partecipi alla hierogamia in un caso, e, nell’altro, usurpi un compito che spetterebbe a Proserpina o semmai allo psicopompo e necropompo Hermes. Tuttavia anch’essi possono trovare una spiegazione alla luce dello statuto di Iride come dea del passaggio, e non esclusivamente appellandosi alla verginità della dea, che conferirebbe un’aura di sacralità alla cerimonia, o all’eccezionalità della morte di Didone che si spegne anzitempo, suicidandosi in un empito di follia. La morte, che segna l’annientamento del corpo, qui simboleggiato dalla recisione del biondo capello della vita, e il matrimonio, che attraverso la perdita della verginità apre una nuova fase della sessualità femminile caratterizzata dall’entrata in relazione con l’altro sesso, sono momenti di passaggio fondamentali nell’esistenza di un individuo e dunque sembra logico che “ministra” di questi passaggi sia colei che è dea del passaggio per eccellenza.

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L’isotopia arcobaleno-serpente-sessualità deviata Ma, tornando al doppio naturalistico di Iride, si può osservare che anche l’arcobaleno, proprio in quanto forma di passaggio, è in un certo senso messaggero. Gli antichi lo ritengono infatti un teras, un presagio, da cui l’uomo può cogliere indizi (semeia) su avvenimenti futuri. A differenza però di quanto non avvenga nella nostra cultura che, erede della tradizione biblica (Genesi, 9, 12 ss.), fa dell’arcobaleno il segno dell’alleanza fra Dio e l’uomo dopo il diluvio universale, le culture classiche lo ritengono un segno per lo più negativo, foriero, proprio come Iride, di messaggi nefasti. Le ragioni di questa valutazione sono di ordine meteorologico: l’arcobaleno è visto come il motore del ciclo idrico terrestre che assorbe l’acqua di mari, fiumi e laghi per poi riversarla sotto forma di precipitazioni (cfr. per es. Plaut., Curc., 134, Verg. , Georg., 1, 380-381, Prop., 3, 5, 32); quindi non è portatore di un rasserenamento, ma di pioggia e tempesta, e le conseguenze dannose che precipitazioni di forte intensità possono avere, in una società a base prevalentemente agricola quale quella indoeuropea, sono ragione sufficiente perché, passando da un piano puramente meteorologico a uno simbolico, l’arcobaleno venga considerato un infausto presagio. Accanto a queste però esistono anche ragioni antropologiche che allignano in una fitta trama simbolica che associa l’iride ad altri elementi di segno negativo. In molte culture, antiche e non, è possibile, infatti, riscontrare la presenza di un legame, una sorta di isotopia, che unisce, in modo più o meno esplicito, l’arcobaleno al serpente o al drago o, comunque, a esseri che nella loro natura posseggano una componente ofidica. Studi antropologici5 hanno rilevato che la rappresentazione dell’arcobaleno come serpente è diffusa presso gli Indiani d’America del Nevada e del Brasile, presso alcune popolazioni australiane che ne fanno un rettile bisessuato e non è estranea neppure all’Africa. Gli abitanti della Costa degli Schiavi vedono infatti nell’iride un enorme serpente che vive sui fondali oceanici, gli Zulu un serpente iridescente che dimora in fondo ai laghi, mentre alcune tribù indigene dell’Africa centro-occidentale e occidentale una trasformazione dei serpenti stessi, che con la pioggia salgono al cielo, oppure un rettile che si accoppia con la sua femmina, dando origine a una curva

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perfetta nel momento esatto in cui si realizza l’unione. Per l’Europa invece si possono rilevare, da un lato, la credenza tirolese secondo la quale un cappello deposto all’estremità dell’arcobaleno può riempirsi alternativamente d’oro o di serpenti velenosi a seconda che la sua apertura sia orientata verso il basso o verso l’alto e, dall’altro, alcune credenze che, come accade anche nel mondo antico, considerano l’arcobaleno il motore del ciclo idrico terrestre: in Francia infatti è attestata, a livello popolare, la concezione dell’arcobaleno come di un serpente che scende dal cielo in terra per dissetarsi, mentre in Bosnia quella dell’iride come un drago che succhia acqua e pesci dalla Sava. A questi dati va poi aggiunto il contributo dell’archeologia che, con scavi condotti negli anni Sessanta, ha portato alla luce, nei pressi della cittadina peruviana di Trujillo, un tempio pre-incaico dedicato all’“Arco Iris”, il cui fregio si compone di una serie di arcobaleni sotto la cui curva si situano coppie di figure anguipedi. Nel mondo classico, invece, la prima associazione iride-serpente risale a Omero (Il., 11, 27-28) che, descrivendo la corazza di Agamennone, assimila, apparentemente per la loro forma, i draghi che compongono la decorazione agli arcobaleni che Zeus Cronide salda alle nubi.6 La luminosità cangiante dell’iride, invece, è alla base dell’associazione che, in un frammento (Nauck T.G.F adesp., 541) forse appartenente a una perduta tragedia euripidea incentrata sul mito di Edipo, lega come membri di una comparatio Iride (ma forse, ipotizzando un corto circuito dea-fenomeno naturale, sarebbe meglio leggere “iride”) a una fiera, che da Plutarco (fr. 136 Sandbach in Stob., Flor., 68, 37) sappiamo essere la Sfinge, che assume sfumature differenti a seconda che sia rivolta verso il sole o verso una nube. Sullo stesso piano, sul versante latino, si colloca il passo di Virgilio (Aen., 5, 84-89) dove l’arcobaleno è assimilato a un serpente dalle squame cangianti che sbuca dai recessi nascosti della terra mentre Enea, nel primo anniversario della morte del padre, compie sacrifici sulla sua tomba. Più sottile ma, per certi aspetti, più esplicito, in quanto dietro alla ragione formale lascia trasparire le ragioni simboliche che lo determinano, è il legame che nell’Oedipus senecano (vv. 314-327 e 640-641) si istituisce fra arcobaleno e Sfinge. A Tebe infuria la peste e l’indovino Tiresia consiglia a Edipo di fare un sacrificio agli dei per placarne le ire. Il vate cieco chiede alla figlia Manto di descrivergli come il fuoco si appicchi alla vittima, ma il responso della ragaz-

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za lo lascia sconcertato: l’aspetto della fiamma non è univoco ma, come Iride con il suo arco variopinto si ammanta (implicat) di vari colori tanto che non si potrebbe dire quale colore le manchi né quale possegga, così la fiamma si fa cerulea con macchie rosse per poi divenire color del sangue e scomparire di colore nero; il fuoco poi si divide in due faville discordi, il vino libato si trasforma in sangue e un denso fumo si avvolge attorno al capo e agli occhi del re. Come dimostra Bettini,7 l’arcobaleno entra a far parte di una catena profetica che si snoda attraverso i vari elementi del sacrificio di Edipo. Il fumo intorno al capo del re è simbolo del suo futuro accecamento, il vino mutato in sangue è designazione del fiotto di sangue che sgorgherà quando Edipo si strapperà gli occhi, la fiamma che si divide in due faville è riferimento all’oracolo delfico che profetizzò a Edipo una guerra che avrebbe condotto contro se stesso, la ostinata ricerca dell’assassino di Laio che lo stava portando a rivolgere le mani contro di sé. In questo scandito susseguirsi di eventi, la realtà che si adombra dietro alla fiamma color dell’iride è l’incesto consumato con la madre Giocasta: all’incesto la collega infatti la radice del verbo implicare, che suggerisce l’idea di un garbuglio, di un intreccio (l’intreccio indistinguibile dei colori dell’arcobaleno) e che ritorna anche ai vv. 640-641 dove l’ombra di Laio definisce la colpa di incesto che contamina Tebe, un implicitum malum più perplexum degli enigmi della Sfinge. Questi, infatti, implicano tra loro cose che in apparenza non possono essere legate, proprio come la natura umana e quella ofidica che si uniscono nel corpo della Sfinge o il corpo di un figlio e il corpo della madre che lo ha generato. In definitiva, dunque, il nesso che, attraverso una serie di passaggi, si istituisce fra l’iride e la Sfinge sembra essere nel segno del nodo e dell’intreccio di ciò che deve essere distinto. Un altro nodo è quello che nelle culture classiche, ma non solo in queste, lega fra loro il serpente e l’incesto o altre forme di anomalia sessuale che, intendendo la sessualità come codice linguistico del corpo, possono ritenersi una forma di linguaggio deviata, aberrante. Ne sono esempio i racconti orfici (frr. 58-59 Kern) in cui si narra che Zeus, invaghitosi della propria madre Rea, si diede a inseguirla, mentre quella, per sfuggire all’amplesso, si trasformò in serpente ma senza ottenere risultati. Infatti anche Zeus attuò la medesima metamorfosi, sicché dalla loro unione nacque Persefo-

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ne, figlia e sorella di Zeus stesso, con cui il dio, sempre in forma di serpente, consumò un nuovo incesto da cui trasse origine Dioniso, dio dalla ambigua sessualità. Un legame serpente-incesto è presente anche nella figura di Echidna, la donna anguipede, figlia dell’unione fra due fratelli, che, a sua volta, mediante un rapporto incestuoso generò la Sfinge (Hes., Theog., 295 ss.). Al di fuori del mondo classico, invece, si riscontra nella leggenda del re armeno Pap, accusato al contempo di fornicazione e sodomia e quindi di bisessualità, la cui perversione era manifestamente segnalata dalla comparsa di serpenti che si avvinghiavano intorno al suo letto o alle sue spalle, nel mito del dio azteco Quetzalcoatl, il cui nome significa serpente piumato, che si unisce alla propria sorella Quetzalpetal o nel mito australiano del pitone-arcobaleno che punisce le sorelle Wawilak, due eroine primordiali macchiatesi della colpa di endogamia clanica che, presso le tribù dell’Oceania settentrionale, è ritenuta quasi una forma di incesto.8 Il cerchio però si chiude solamente se, stringendo un ulteriore nodo, si salda l’ultimo anello della catena rappresentato dal legame che, quasi per proprietà transitiva, sembra unire fra loro arcobaleno e incesto o, comunque, manifestazioni anomale della sessualità. Oltre al già citato caso dell’Oedipus senecano, dove l’iride si fa simbolo dell’unione fra Edipo e Giocasta, e al mito delle sorelle Wawilak, si possono ricordare anche la credenza diffusa in Francia, Serbia, Albania, Boemia e persino in Lunigiana, secondo cui chi passa sotto la curva dell’arcobaleno cambia immediatamente sesso, e anche il legame che nel folklore africano unisce l’arcobaleno e i gemelli, i quali peraltro vengono sempre consacrati al serpente e prendono nome dai gemelli ancestrali incestuosi da cui discendono le popolazioni bantu dello Zaire.9 Siccome si ritiene che nei gemelli, nonostante possano essere dello stesso sesso, il primogenito rechi sempre in sé un principio maschile e il secondogenito un principio femminile, quando si verifica il fenomeno del doppio arcobaleno, l’iride superiore è detta maschio e quella inferiore è detta femmina. Così l’uguaglianza dei due arcobaleni, identici ma – mi preme sottolinearlo – con un’inversione nell’ordine dei colori, al pari di quella dei gemelli monozigoti, identici nei tratti somatici ma non sempre nel sesso, viene a intrecciare e dunque a sfumare l’opposizione tra maschile e femminile.

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Il trittico, che vede allineati tra loro arcobaleno, serpente e sessualità anomala o deviante, si regge su di un unico perno che potrebbe essere quello dell’intreccio, della confusione di ciò che invece dovrebbe essere nettamente disgiunto. L’arcobaleno si presenta come un mix di colori che scivolano impercettibilmente l’uno nell’altro sino poi a confondersi con la tinta del cielo e i trapassi sono così poco perspicui che nel mondo antico si è affermata una rappresentazione tricromatica,10 che non distingue cioè i canonici sette colori, ma evidenzia soltanto le tre bande di colore, o per meglio dire, di maggiore o minore luminosità, più facilmente individuabili. A questo si aggiunga il fatto che in tutte le teorie antiche sulla formazione dell’arcobaleno l’iride sembra essere il frutto della fusione o, se si preferisce, della confusione fra due distinti princìpi: il sole e la nube, ovvero il secco e l’umido (categorie che tanta parte hanno avuto nel linguaggio medico del corpo), ovvero la luce e la tenebra che, secondo le teorie cromatiche di scuola peripatetica, con la loro reciproca fusione determinerebbero la formazione di tutti i colori. L’incesto, a sua volta, annulla ruoli e opposizioni parentali e porta confusione all’interno dell’albero genealogico, turbando la linearità della discendenza e collegando verticalmente (incesto genitori-figli) o orizzontalmente (incesto fratello-sorella) rami che dovrebbero rimanere separati, così come separate dovrebbero rimanere le categorie di maschile e femminile che si confondono invece per effetto di altre forme di anomalia o ambiguità sessuale. Il serpente, in ultimo, che la tradizione biblica ci ha consegnato come l’essere infido e doppio per antonomasia, reca in sé parecchie forme di ambiguità fra cui, in particolare, le capacità mimetiche, che lo confondono pericolosamente con l’ambiente circostante, e il suo essere versipellis che, attraverso la muta, lo rende sempre uguale e diverso da se stesso. Ma, come ricorda Samonà11 sulla scorta delle opere zoologiche di Aristotele, le ambiguità sono molto più numerose: il serpente infatti è sanguigno, eppure apode, ma possiede anche tratti dei non sanguigni come la reazione ricompositiva al sezionamento; vive in terra, ma anche in acqua o in aria (sulla presenza di serpenti alati cfr. per es. Hdt., 3, 107), ha un apparato sensoriale simile a quello dei quadrupedi, ma è oviparo o, come nel caso della vipera, ovoviviparo e, soprattutto, al momento dell’accoppiamento il serpente maschio può confondersi con il serpente femmina in quan-

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to, data l’anatomia del maschio che non possiede pene ma solo due organi copulatori retrattili ed estroflettibili, l’accoppiamento si realizza come un intreccio inestricabile fra maschio e femmina che assumono l’aspetto di un unico corpo a due teste. L’origine dello statuto ambiguo del serpente andrebbe forse ricercata nella sua ctonicità, intesa non come un generico legame con la terra, ma come un universo di valori opposto a quello della cultura ufficiale o, più in generale, della cultura umana orientata dal genos. Se il genos incanala i vari soggetti in un sistema di opposizioni e li trasforma in individui distinti, identificandoli linearmente come figli di una determinata madre e di un determinato padre, la terra, che è «nutrice di molti», li rende indistintamente fratelli. Solo così si può comprendere perché Zeus, unendosi a Rea, abbandoni le sembianze antropomorfe per assumere quelle ofidiche: quest’unione che viola il principio lineare della discendenza, lo stesso principio che presiede alla trasmissione della regalità, non segue il modello genetico bensì quello ctonio, sicché gli unici soggetti fra cui si può consumare non sono gli uomini/ dei, sottoposti alle regole del genos, ma gli ctonici serpenti. Alcune storie di iniziazione Alla luce del filo rosso che, nel segno dell’indistinzione, unisce fra loro arcobaleno, serpente e anomalia sessuale si chiarisce anche la vicenda di alcune figure mitologiche (ricordate già, seppure in una prospettiva leggermente diversa, da Ajello e da Borghini)12 che, in qualche modo, sono in relazione con uno di questi elementi. È il caso ad esempio di Tiresia. Il giovane tebano, recatosi su di un monte, forse per pascolare il proprio gregge, si imbatte in due serpenti che si stanno accoppiando, quindi, a seconda delle varianti del mito, li colpisce, li ferisce, li uccide oppure uccide solamente la femmina. In conseguenza di questa azione viene tramutato in donna e mantiene la nuova identità sessuale per alcuni anni, finché, imbattendosi nuovamente in una coppia di serpenti – secondo alcune varianti del mito proprio la stessa che aveva colpito anni prima – recupera la propria mascolinità, ripetendo un’azione identica alla precedente. È chiaro che il gesto di Tiresia ha una valenza simbolica molto forte: segna un momento di passaggio, una svolta fondamentale nella vita

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del giovane e, nella sua ripetizione quasi rituale, si configura come una forma di iniziazione a una nuova fase dell’esistenza caratterizzata da una sessualità e da un’identità fisica opposte alle precedenti. Credo però che, alla luce del nesso che lega il serpente all’ambiguità sessuale, si chiarisca perché l’azione di Tiresia vada a incidere proprio su una coppia di serpenti e non invece di altri animali. Nel momento in cui l’opposizione maschile-femminile si annulla, in quanto le due polarità, seppur diacronicamente, vengono a coincidere e a concentrarsi in un unico individuo, è perfettamente logico che chiave di questo passaggio sia quell’essere ctonio che reca in sé il germe dell’ambiguità, e che quest’ultimo venga colto proprio quando l’ambiguità si rende più evidente, durante l’amplesso che, legandoli inestricabilmente, confonde in un unico corpo maschio e femmina. Altra vicenda esemplare è quella di Edipo che diviene re di Tebe risolvendo gli enigmi della Sfinge e unendosi in matrimonio con la regina Giocasta, che poi si rivelerà essere sua madre. Sconfiggere il mostro che tormenta la città e sposare la regina sono evidentemente prove di iniziazione alla regalità che Edipo deve affrontare per passare dalla condizione di privato cittadino, o meglio di meteco, a quella di re della città. Tuttavia il fatto che antagonista nella prova sia proprio la Sfinge, il mostro, che in una delle varianti del mito è mezzo donna e mezzo serpente, acquista significato, ancora una volta, grazie alla trama di simboli che salda il serpente all’anomalia sessuale, cui, nella colta rielaborazione dell’Oedipus senecano, si unisce anche l’arcobaleno che si fa simbolo dell’anomalia stessa. L’unione di Edipo e Giocasta è destinata a seguire il modello ctonio, non quello genetico, e a turbare il principio di linearità verticale che regola la discendenza e la trasmissione della regalità; è normale, quindi, che la prima prova sia proprio la sfida con un essere ctonio, frutto di un rapporto incestuoso, che con la sua stessa corporalità esprime l’indistinzione e l’intreccio di ciò che è inconciliabile. Un mito per certi aspetti simile a quello di Edipo riguarda la figura di Telefo, figlio di Eracle e Auge, dalla quale è stato separato fin dalla nascita. Il giovane, partecipando alla spedizione argonautica, giunge in Misia alla corte di Teutra, dove, come figlia adottiva del re, vive la stessa Auge. Uno dei compagni di Telefo insidia il potere di Teutra e questi promette a Telefo stesso la eredità al trono e la mano di Auge nel caso in cui riesca a sconfiggere l’eversore. Telefo supera

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con successo la prima prova della sua iniziazione alla regalità ma, proprio mentre sta per consumare l’incesto con la propria madre (incesto cui avrebbe fatto seguito un’ulteriore violazione della linearità della discendenza, in quanto Auge, fedele al proprio marito Eracle, rifiutando l’unione con un altro uomo, avrebbe ucciso il figlio che aveva partorito), la comparsa di un enorme serpente, che divide i due promessi, impedisce il compimento della seconda prova. Ancora una volta, quindi, osservando la struttura profonda del racconto, nella scelta del serpente, che apparentemente risolve la situazione con la meccanicità di un deus ex machina, si vede operare l’isotopia che, nel segno del nodo e della confusione, unisce fra loro natura ofidica e perversione sessuale. Ma, per concludere questa breve carrellata di figure con un richiamo a Iride, si può forse tornare a riflettere sul senso della sua presenza alla hierogamia. Iride partecipa alle nozze di Zeus ed Era e prepara il loro talamo in quanto il suo statuto verginale conferisce maggiore sacralità a questa cerimonia che – già si è detto – segna un momento di passaggio fondamentale nell’esistenza degli sposi, l’iniziazione a una nuova vita e a una nuova identità sessuale. Ma il matrimonio della coppia olimpica, come quello dei gemelli ancestrali dei Bantu dello Zaire, è un’unione tra fratelli13 che, congiungendo orizzontalmente i rami, porta confusione nell’albero genealogico e turba la linearità della discendenza, sicché, forse, non è privo di significato il fatto che ne sia parte attiva quella figura che, oltre a essere vergine e dea del passaggio, è anche personificazione di un fenomeno sotto certi aspetti così “confuso” e simbolicamente legato a una sessualità deviante quale è l’arcobaleno.

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Note 1. C. Boyer, The Rainbow. From Myth to Mathematics, New York, Thomas Yoseloff, 1959, p. 27. 2. Cfr. per es. M. Mayer, s.v. Iris, in W.H. Roscher (a cura di), Ausfürliches Lexicon der griechischen und römischen Mythologie, II, Leipzig, Teubner, 1890-1894, coll. 330-331 e J.A. Hild, s.v. Iris, in C. Daremberg, E. Saglio (a cura di), Dictionnaire des antiquités Grecques et Romaines, III, Paris, Hachette, 1905, p. 574. 3. Napoli, Mus. Naz. 9559. 4. Cfr. A. Kossatz-Deissmann, s.v. Iris I, in Lexicon iconographicum Mythologiae classicae, V, 1, Zürich-München, Artemis, 1990, pp. 741-760. 5. Cfr. per es. C. Renel, L’arc-en-ciel dans la tradition religieuse de l’antiquité, in «Revue de l’histoire des religions», 56 (1902), pp. 58-80, e R. Ajello, A. Borghini, Modelli tipologici di un racconto armeno: re Pap e una “iperbole endogamica”, in «Annali di Ca’ Foscari», 26 (1987), pp. 67-103. 6. Per un’analisi dettagliata del passo omerico, sia pure in una differente prospettiva, cfr. M. Sancassano, Il serpente e le sue immagini. Il motivo del serpente nella poesia greca dall’Iliade all’Orestea, Como, New Press, 1997, pp. 47 ss., che fornisce anche un’ampia bibliografia sulla tematica del serpente. 7. Cfr. M. Bettini, L’arcobaleno, l’incesto e l’enigma. A proposito dell’Oedipus di Seneca, in «Dioniso», 54 (1983), pp. 137-153. 8. Cfr. Ajello, Borghini, Modelli tipologici, pp. 67-74, p. 88, pp. 97-99. 9. Cfr. ivi, pp. 92-94. 10. Cfr. Metrod. Chius., A17b DK, Xenoph., B28 DK, Arist., Meteor., 371b3-72a10. 11. Cfr. G. Samonà, Il sole la terra il serpente. Antichi miti di morte, interpretazioni moderne e problemi di comparazione storico-religiosa, Roma, Bulzoni, 1991, pp. 110 ss. 12. Cfr. Ajello, Borghini, Modelli tipologici, pp. 85-86. 13. Sul motivo, diffuso nel folclore, dell’unione tra fratello e sorella che divengono coppia regnante, senza che questo implichi, nel pensiero arcaico, la percezione di una colpa di fronte a quello che è di fatto un incesto, cfr. V.J. Propp, Edipo alla luce del folclore. Quattro studi di etnografia storico-culturale, tr. it., Torino, Einaudi, 1975, pp. 99-101. Propp precisa che l’unione tra fratelli è un tentativo di conciliare due differenti schemi di trasmissione del potere succedutisi nel tempo: quello in cui il potere si trasmette per via femminile, che prevede l’ascesa di chi sposa la figlia del re, e quello, invece, in cui la trasmissione avviene per via maschile di padre in figlio. Dalla compresenza contraddittoria tra la figlia erede e il figlio erede nasce l’idea del matrimonio tra fratello e sorella, in cui sia la principessa trasmette il trono al proprio sposo, sia il figlio diviene erede del padre.

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MARTINA TREU Il “reato del corpo”. Esempi di invettiva in Aristofane

Il corpo sotto accusa Il presente contributo esamina un aspetto peculiare della commedia attica antica alla luce di alcune pratiche rituali arcaiche contraddistinte dalla forte presenza di oscenità aggressiva a livello verbale, mimico e gestuale, e in particolare di quei riti di passaggio e d’iniziazione – incentrati sull’espulsione o sull’integrazione di un individuo da parte della collettività – che coinvolgono il corpo come bersaglio centrale dell’aggressività.1 L’oggetto specifico della nostra analisi è detto in greco psògos (“biasimo, invettiva”) e indica l’attacco nominale rivolto dagli attori e dal coro contro persone reali estranee alla vicenda, a volte anche spettatori e campioni rappresentativi del pubblico intero. Simili attacchi, se classificati in base al contenuto, sono raggruppabili in quattro categorie: aspetto fisico, comportamento, indegnità di nascita, occupazioni disonorevoli. Restringendo il campo d’indagine alla prima accusa, in primo luogo, dalle commedie aristofanee si evince che l’aspetto fisico non è mai preso di mira come tratto isolato, ma è sempre ricondotto esplicitamente ad altre caratteristiche o arricchito da implicazioni allusive. Quanto alla corporatura, per esempio, la grassezza è associata da Aristofane all’avidità e alla voracità nel caso di Cleocrito (Uccelli, 877; Rane, 1437), alla viltà e allo scarso senso morale di Cleonimo, imbroglione e spergiuro (Acarnesi, 88-89), mentre l’estrema magrezza del poeta Cinesia si accorda con la rigidità e l’inconsistenza dei suoi canti

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(Rane, 153, 1437-1438). La derisione di difetti fisici o tratti somatici peculiari, frequente nella satira di ogni tempo, assume qui un valore particolare, poiché gli elementi esteriori sono considerati inscindibili da quelli interiori fino a esserne il segno, la manifestazione evidente. Così, per il coro, il cisposo Archedemo porta nella sua stessa malattia la prova della sua bassa estrazione (Rane, 416-421), il pelo di Geronimo – che evoca l’oscura tenebra e ne tradisce la natura ferina e bestiale – lo rende il possessore ideale dell’elmo di Ade (Acarnesi, 389390), mentre l’aspetto spiritato e il colorito giallognolo di Cherefonte, discepolo di Socrate, ne fanno un pipistrello vampiro, perfetta comparsa nel sinistro quadro dell’evocazione dei morti dipinto dal coro degli Uccelli (vv. 1553-1564; nello stesso passo anche l’aspetto fisico del maestro è sotto accusa per la sua sporcizia e trasandatezza). Gli attori stessi scherniscono per simili motivi Socrate (Uccelli, 1280-1283) e Patrocle (Pluto, 83-85), mentre l’attacco contro Teogene potrebbe riferirsi alla sua sporcizia, stupidità o grossolanità (Pace, 927-928). Le caratteristiche fisiche sono legate al comportamento anche nei casi di depravazione morale, specialmente in ambito sessuale: così vengono presi in giro i tratti esteriori dell’effeminato, come la scarsità di barba o di peluria, oppure l’atteggiamento abituale dell’omosessuale passivo che lo fa assomigliare a una donna. Di entrambi i tipi di psògos abbondano gli esempi nelle Ecclesiazuse: «Perfino Agirrio, prendendosi la barba di Pronomo, si è travestito. Eppure prima era una donna, ora invece si dedica agli affari più importanti della città!» (vv. 101104);2 e anche: «È colpa di quello lì, di Epigono: guardando verso di lui credevo di parlare a delle donne!» (vv. 167-168). Il paragone fra la barba finta delle donne travestite e quella di Epicrate (vv. 70-71) può leggersi come semplice canzonatura dell’aspetto fisico di quest’ultimo o anche come indizio di scarsa virilità. Più ancora che dal coro, l’aspetto fisico delle vittime è preso di mira dagli attori, i cui lazzi sono contraddistinti dalla rapidità e brevità tipiche del motteggio puntuale, condotto per stoccate nette e incisive; spesso si trova quindi il nome della vittima accompagnato da un semplice aggettivo o dalla pura menzione della parte del corpo che presenta anomalie. I tratti corporei e morali delle vittime sono strettamente connessi anche nello psògos degli attori: così viene sottolineato il rapporto fra l’infermità di Archedemo e la sua condizione di parvenu da emarginare (Rane, 586-588), e un altro cisposo,

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Neoclide, ha tuttavia la vista lunga nel rubare (Ecclesiazuse, 254255, 397-407), mentre nelle pur criptiche allusioni ad Opunzio si cela l’insita contraddizione tra l’essere guercio e il praticare con occhio acuto il mestiere di sicofante (Uccelli, 152-154, 1294). Allo stesso modo l’assimilazione di Geronimo a un centauro si fonda sia sulla sua pelosità sia sulla depravazione sessuale (Nuvole, 348-350), mentre per Cherefonte sono l’aspetto da moribondo (Nuvole, 501-504) e il colorito (Vespe, 1412-1414) a giustificarne l’assimilazione con il pipistrello (Uccelli, 1296) e la presunta assunzione delle caratteristiche comportamentali dell’animale.3 Anche le deformità richiamano l’attenzione impietosa degli attori, che ironizzano su Melanzio affetto da lebbra (Uccelli, 149-151), sul modo di portare la tunica del generale Laspodia, menomato alle gambe (Uccelli, 1567-1569) e su Erissi, figlio di Filosseno, associato da Dioniso al «fulvo ippogallo» di Eschilo (Rane, 930-934). I tre attori dei Cavalieri costruiscono sul nome “Cillene” un gioco di parole fra la mano del Paflagone, adunca in senso metaforico, e quella di Diopite, probabilmente affetto da paralisi (Cavalieri, 1080-1085). Adunco è pure, forse, l’anomalo naso di Lisicrate (Ecclesiazuse, 628630), di cui è proverbiale la corruzione (Uccelli, 513), mentre la carnagione scura è probabilmente riportabile alla sua presunta origine straniera (Ecclesiazuse, 735-736). Sono rilevanti per la nostra indagine, infine, alcuni capi d’accusa legati a un ambito di ascendenza giambica che è anche un importante ingrediente della comicità aristofanea: il soddisfacimento dei bisogni corporei primari, cioè nell’ordine la fame, il freddo e le funzioni corporali. La fame di un individuo può diventare il suo tratto distintivo nello psògos se è talmente straordinaria e abnorme da sbalordire e provocare il riso – come l’ingordigia insaziabile di Cleonimo, terrore di tutte le dispense (Cavalieri, 1290-1299) – o anche se qualifica immediatamente la vittima come pezzente: nel caso di Pausone, che pratica il digiuno forzato, basta quest’unico elemento a delineare il personaggio (Tesmoforiazuse, 947-952); per Lisistrato (Acarnesi, 854-859) e Tumantide (Cavalieri, 1264-1273), invece, si aggiungono rispettivamente il fatto di patire sempre il freddo e di essere senzatetto. Più enigmatico è il caso del voracissimo Aminia, nominato due volte dal coro nelle Vespe (sempre ammesso che si tratti della stessa persona). Hanno contorni alquanto oscuri, infatti, sia il primo

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riferimento a questo personaggio (vv. 464-470) sia il vero e proprio psògos dedicato a lui e a Leagora (vv. 1264-1267): qui il carattere allusivo e la molteplicità di motivi strettamente intrecciati fra loro rende difficile stabilire i termini esatti dell’aggressione, ma un riferimento a riti misterici è ipotizzabile nell’associazione delle mele e delle melagrane con la fame insaziabile. L’ultimo tipo di derisione legato al soddisfacimento delle esigenze corporee è l’insieme variegato di attacchi contro gli incontinenti: si va dal vecchio ubriacone Cratino che usa il pannolino nel letto (Cavalieri, 400-401), ai bisogni impellenti di Patroclide (Uccelli, 790-792), all’anonimo poeta che imbratta le statue di Ecate, da identificare forse con Cinesia (Rane, 366). Anche gli attori, al pari del coro, colpiscono di frequente l’incontinenza e la stitichezza, l’eccessiva voracità o ingordigia, la fame atavica che attanaglia i pezzenti. La parola come arma Se i capi d’accusa dello psògos aristofaneo, in sintesi, si associano tra loro per analogia o per antifrasi in modo sempre diverso, quelli relativi a deformità e difetti fisici si coniugano spesso con vizi morali, disonestà o abilità in illecite attività, origine straniera, mestiere spregevole e nascita umile. Di particolare interesse a questo riguardo è lo psògos contro poeti e musicisti, in cui a livello formale è eccezionalmente frequente – tanto da costituire quasi un comune denominatore – il paragone fra un animale e un poeta e/o la sua opera. La somiglianza dell’uomo con l’animale può essere data da caratteristiche o difetti di tipo fisico e fisiognomico, mentre del canto si considerano la sgradevolezza o la tortuosità, paragonate alle voci sgraziate degli animali o ai loro movimenti tortuosi (ad esempio i percorsi delle formiche). Esemplare è in questo senso la presa di posizione contro Cinesia (Rane, 1437-1438), tutta giocata sull’identificazione strettissima fra la persona e la produzione poetica: l’inconsistenza del fisico secco e scarno di Cinesia, talmente leggero che potrebbe sollevare in volo Cleonimo quasi fosse un paio d’ali, è tutt’uno con il carattere volatile e evanescente dei suoi versi. La stessa coppia di elementi si trova precedentemente in Uccelli, 1377 e 1383-1390. In simili casi si veri-

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fica di fatto uno slittamento fra un motivo e l’altro, dall’aspetto fisico alle caratteristiche morali o viceversa; poiché tale passaggio è spesso implicito si può ammettere la coesistenza di entrambi i capi d’accusa in riferimento alla stessa persona. In base all’analisi condotta, inoltre, lo psògos si configura come personalizzazione estrema del biasimo che colpisce un’idea, un concetto, un valore o un complesso di opere attraverso la critica e denigrazione di una categoria di persone. Grazie a tale processo qualsiasi difetto fisico, comportamento o perversione assume il nome proprio del suo portatore per eccellenza: così ad esempio il nome di Simonide può “stare per” l’avarizia, la razza dei musicisti è composta di “calabroni figli di Cheride”, perfino l’intera produzione di un genere poetico come la commedia è riassunta nei tre nomi dei commediografi Frinico, Licide e Amipsia (Rane, 12-14). Il meccanismo di funzionamento dello psògos qui descritto, riscontrato in tutti i testi esaminati, non è affatto realistico, bensì assolutamente simbolico: le vittime, inizialmente scelte per le loro caratteristiche fisiche o morali, diventano nelle mani del poeta simboli comici della degradazione presente. Attraverso la caricatura e gli altri strumenti dello psògos, in altre parole, la commedia raffigura sì persone reali, ma senza curarsi della verosimiglianza, bensì al contrario evitandola, cioè esasperando e sottolineando gli aspetti abnormi e paradossali del carattere di ogni individuo fino a creare l’emblema del tipo umano corrispondente. Questo processo raggiunge la massima densità nelle parti corali, in cui l’aggancio con il particolare si fa meno stretto e lo psògos assume sembianze tali da trasfigurare le vittime in casi paradigmatici: proprio l’estrema condensazione simbolica – unita alla labilità e alla rarefazione delle connessioni con il reale – conferisce a molti canti corali quell’involuta enigmaticità che può causare problemi anche notevoli agli interpreti moderni. Nello stesso psògos corale, inoltre, è riscontrabile un’altra peculiarità ancora più rilevante per la nostra indagine; dall’esame delle commedie risulta che alcune forme di psògos – quali la maledizione e la prescrizione – sono non solo ricorrenti nei testi corali, ma del tutto assenti nelle parti riservate agli attori: sulla base di tale dato è formulabile l’ipotesi che gli attacchi affidati al coro, sensibilmente più violenti e incisivi rispetto a quelli degli attori, debba-

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no la loro peculiare natura alla sopravvivenza di elementi arcaici – allo stato di fossili, eppure ancora in parte vitali – che sono insiti nella natura del coro sin dalle origini e conferiscono una particolare efficacia alle sue parole. Quest’efficacia è riconducibile allo status del coro, gruppo di persone che nei riti sacri a Dioniso rappresentano la collettività e contemporaneamente invocano la protezione degli dei: le imprecazioni, maledizioni e prescrizioni pronunciate insieme con le preghiere, probabile relitto del nucleo originario della commedia, sembrano conservare ancora in età classica un residuo del loro antico potere magico. Per voce del coro è la comunità intera a emettere la sua condanna nello psògos, perché chiunque abbia tenuto un comportamento riprovevole si è reso colpevole verso tutti i suoi membri, e va pertanto punito con una maledizione particolare: questa si differenzia dalle maledizioni private, cioè rivolte da un individuo a un altro, sia per il suo stile solenne sia per il suo carattere pubblico.4 Se dunque la prima prerogativa che differenzia il coro dagli attori è di scagliare contro persone reali articolate e complesse maledizioni, ancora più importante è il fatto che queste siano pronunciate di norma nel momento in cui con maggior evidenza il coro rappresenta la comunità: la parabasi.5 È proprio qui che all’autorità del popolo ateniese si aggiunge quella del dio protettore, invocato dal coro nell’inno cletico tradizionalmente riservato a questa funzione: chiamando a sé il dio, il coro viene investito del doppio potere di maledire e pronunciare profezie, oltre a conferire una forza straordinaria allo psògos. In quest’ottica si colloca a esempio una testimonianza relativa al coro del Misantropo del commediografo Frinico, dove si auspica che Siracosio, colpevole a quanto sembra di voler limitare lo psògos, si trasformi in un appestato, un lebbroso o poco meno (fr. 27). Il male che il coro augura qui al proprio nemico non solo è di tipo fisico, ma appartiene all’ambito del miasma, della contaminazione: il suo portatore, infetto e repellente, porta in modo “ben visibile” i segni della malattia che per giunta è altamente contagiosa. La disgrazia che dovrebbe colpire Siracosio – nelle intenzioni del coro – è di quelle che escludono un individuo dal consorzio umano e perfino dal più elementare contatto coi suoi simili, cioè quelle che identificano una vittima espiatoria (in greco pharmakòs).6

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Le vittime espiatorie Se merita il peggiore dei mali chi osa censurare i poeti e i cori comici quando esercitano lo psògos, vale a dire nell’esercizio delle proprie funzioni, una sorte altrettanto terribile è augurata a un altro nemico del coro: Antimaco, il corego che ha lasciato i coreuti senza pranzo (Acarnesi, 1150-1173). La potenza di Zeus è qui direttamente invocata perché colpisca a morte chi ha privato del tributo rituale il coro sacro a Dioniso, mancando così ai suoi doveri verso la città e verso gli dei. In seguito la pena di morte si commuta in una disgrazia che rovescia su di lui il peso del suo stesso misfatto: rimarrà senza pranzo come i coreuti che lui stesso ha affamato.7 Di particolare interesse è il fatto che questa maledizione trovi posto fra due scene degli Acarnesi di cui sono protagonisti Diceopoli e Lamaco (rispettivamente il paladino e il nemico del coro nella vicenda); due segmenti essenziali della parabasi compongono questo canto, il “congedo” e una coppia di strofe e antistrofe: nel primo, in cui sono contrapposti i diversi destini dei due personaggi che escono di scena, il coro prospetta a Lamaco una notte di guardia al freddo; la parte che segue, interamente dedicata a maledire Antimaco, termina con l’augurio che il corego si spacchi la testa in uno scontro notturno. La disgrazia menzionata presenta una notevole somiglianza con l’incidente che si suppone sia accaduto a Lamaco nel lasso di tempo coperto dalla parabasi: a raccontarlo al pubblico è un servo, entrato in scena poco prima dello stesso generale colpito dall’infortunio. Da un lato, dunque, è riscontrabile all’interno e all’esterno della finzione scenica una corrispondenza dal sicuro effetto comico: è come se il coro anticipasse, raccontandolo in modo traslato, quello che poi risulterà essere accaduto al personaggio su cui si convoglia tutta l’aggressività. Accettando la logica dello psògos, dall’altro lato, si arriva a scorgere nel rapporto fra i due fatti non una semplice coincidenza, ma una sorta di ripercussione magica: è in virtù del potere della parola che la disgrazia, augurata a chi è nemico del coro fuori dalla vicenda, può ricadere sul suo avversario nella vicenda, Lamaco. Quest’ultimo viene così a costituire sulla scena una sorta di doppio di Antimaco, per una specie di corto circuito innescato dal concorrere di molti elementi, non ultima l’affinità fonica e di significato fra i due nomi propri, entrambi composti di màche (“battaglia”).

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Alla simmetria dei nomi corrisponde per antifrasi la loro sorte ingloriosa, e ad accrescere l’effetto comico contribuiscono sia la natura escrementizia del proiettile scagliato da Antimaco sia la ridicola banalità della caduta occorsa a Lamaco; nel ritratto impietoso di entrambi è facile intravvedere un modello negativo o antieroico – contrapposto rispettivamente alle virtù civiche e militari tradizionali – a cui corrisponde la triste sorte che li accomuna tra realtà e finzione scenica: chi si è reso colpevole verso il coro mancando al suo dovere di corego fa le spese dell’aggressività collettiva nello psògos, in altre parole, così come il generale tronfio e scornato le fa sulla scena. Anche in questo caso, come in molti altri, appaiono evidenti le tracce dell’antico potere magico della maledizione, che ancora traspare dalle parole del coro seppure filtrato e smussato dalla forma ormai cristallizzata della poesia. Se poi dalla prima commedia aristofanea conservata, gli Acarnesi, passiamo all’ultima, il Pluto, troviamo due temi principali che costituiscono un immediato punto di contatto fra psògos e vicenda, quasi un leitmotiv. Nell’intera commedia, in particolare nello psògos, predominano i temi della cecità e dell’avidità di ricchezza, separatamente o uniti, così come negli attacchi insistentemente sferrati contro Neoclide il cisposo. In quest’ultimo caso il nesso fra psògos e vicenda è davvero trasparente: se il dio cieco non è responsabile della sua condotta – che gli fa preferire le cattive compagnie agli onesti – Neoclide è al contrario doppiamente colpevole perché non soltanto non cura la propria malattia, ma si arricchisce disonestamente e pretende di occuparsi degli affari pubblici da incompetente, disonesto e immorale. Le accuse rivolte a Neoclide hanno quindi un carattere paradigmatico, perché svolgono la stessa funzione dei personaggi che sfilano sulla scena: quella di rafforzare con esempi la tesi comica della commedia aristofanea, che indica nella cecità di Pluto la causa della cattiva distribuzione della ricchezza. Si deve però notare che questo stesso psògos, affidato qui esclusivamente agli attori, presenta altre particolarità su cui vale la pena di soffermarsi: a essere preso di mira, innanzitutto, è un individuo doppiamente spregevole in quanto è malato, avido e disonesto. La compresenza in un solo uomo di una malattia immonda e repellente e di un’estrema corruzione morale – entrambe caratteristiche in grado di contaminare chi gli sta

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vicino – potenzia enormemente la carica aggressiva che Aristofane convoglia su Neoclide, rendendolo di fatto un capro espiatorio. Da chi dunque può essere gestita e come può essere espressa o auspicata in questa tarda commedia aristofanea la simbolica esclusione dalla comunità di un simile individuo? Non certo dal coro e meno che mai con una esplicita e formale maledizione, come accadeva nelle prime commedie aristofanee: scomparsa la parabasi – e ridotto il coro a vana parvenza di quel che era – la scena rimane ormai dominio esclusivo del primo attore. Quest’ultimo, però, non ha mai posseduto quella facoltà di maledire che era antica prerogativa del coro, né da lui può riceverla in eredità insieme con le altre funzioni che ha già assunto. A Carione resta perciò come unica risorsa quella di raccontare una gustosa scenetta di cui è stato testimone nel santuario di Asclepio: il dio stesso, riferisce, ha punito lo spergiuro anziché guarirlo e gli ha imposto di rimanere per sempre nel suo santuario, in modo da tenerlo lontano da Atene e dalle assemblee. L’uomo sgradevole e infetto nel fisico, corrotto e spergiuro nel morale, è così idealmente reso innocuo dallo stesso dio guaritore. L’ipotesi che questo passo contenga riferimenti al rito del pharmakòs, a nostro avviso, è avvalorata dal fatto che nella descrizione della cura sono messi in rilievo due aspetti: la preparazione dell’unguento per impiastro e il dolore provato dal malato dopo il trattamento. Da un lato infatti il medicamento – composto di aglio, silfio, lentisco e aceto – pare avvicinabile al kukeòn per il suo potere magico ambiguo, che dovrebbe essere benefico e invece si rivela malefico; l’atroce dolore causato a Neoclide dal dio, dall’altro lato, è descritto con tale partecipazione e compiacimento da parte di Carione – e salutato con tanto sollievo dagli altri personaggi – che risulta difficile non riconoscere in Neoclide una vittima espiatoria, la cui punizione, o meglio espulsione, si traduce nella finzione comica in una vera e propria liberazione per la collettività. Il coro delle Rane Per concludere la nostra rassegna, infine, un discorso a parte va riservato ai cori aristofanei dotati di una personalità drammatica eccezionale: si tratta essenzialmente di quelli composti da animali (creatu-

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re inquietanti in quanto appartenenti a una sfera non umana e legate in vari modi al mondo sotterraneo), oppure da divinità, entità soprannaturali e sovrumane, infernali e demoniche, o anche collegate simbolicamente all’Aldilà, come gli Iniziati ai Misteri delle Rane. In tali casi – è lecito supporre – la condizione del coro di rappresentante della comunità risulta ulteriormente rafforzata dall’autorità derivante dal suo specifico carattere drammatico; la sua parola sarebbe dunque ancora più efficace in quanto più vicina all’ambito magico-religioso che caratterizza il dominio divino. In tal senso l’esempio più adatto al nostro scopo è costituito dalle maledizioni, prescrizioni e profezie pronunciate dal coro delle Rane. Il canto d’ingresso (pàrodos) di questa commedia, sia per la personalità del coro sia per la presenza di elementi linguistici specifici, è abitualmente messa in rapporto con i lazzi rituali tipici dei culti di Demetra, in particolare i cosiddetti “scherzi dal ponte”:8 da un lato il coro, in quanto composto di Iniziati ai Misteri, gode di uno status del tutto particolare, contraddistinto da una straordinaria autorevolezza e al tempo stesso dalla propensione allo scherno e agli insulti; dall’altro sono riscontrabili nella pàrodos tracce che sembrano rimandare al modello del rituale eleusino.9 Sin dall’inizio i coreuti – nella doppia veste di Iniziati ai Misteri e di coro comico – intimano a coloro che si sono resi impuri di «togliersi dai nostri cori».10 Nella stessa pàrodos sono inoltre eccezionalmente frequenti i termini pàizein (“scherzare”) e skòptein (“sbeffeggiare”), che secondo Bowie rimandano alle ingiurie e ai lazzi rituali tipici della processione degli Iniziati a Eleusi;11 anche secondo altri studiosi richiami consapevoli e espliciti agli “scherzi dal ponte” pervadono l’intera pàrodos (in particolare l’invettiva in giambi ai vv. 416-430).12 Su posizioni diverse si segnala Dover, che per quanto rilevi la frequenza con cui compaiono nella pàrodos il verbo pàizein e i suoi derivati non mette in rapporto l’uso di questo termine – seppure associato per di più a skòptein – con le ingiurie rituali praticate dagli Iniziati che compongono il coro. Egli, anzi, definisce ingenui i numerosi tentativi di dimostrare come la pàrodos si adatti in dettaglio alla processione degli Iniziati a Eleusi o alla celebrazione dei Piccoli Misteri di Agra o del Leneo.13 Quanto alle strofette ingiuriose dei vv. 420-443, mentre Gelzer avanza il dubbio che siano «Rituelle Strophen», Dover non ritiene necessario porre all’origine di questo

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psògos gli “scherzi dal ponte” per il fatto che la stessa forma strofica assolve analoga funzione nel fr. 99 della parabasi dei Demi di Eupoli.14 A nostro parere è vero che gli elementi eleusini della pàrodos sono probabilmente selettivi e non volti a una raffigurazione del rito paragonabile alla processione fallica degli Acarnesi; ciononostante ci sembra indubbio che il comportamento degli Iniziati nell’Oltretomba mostri tracce evidenti delle caratteristiche che contraddistinguono i loro riti terreni.15 La pàrodos delle Rane, in sintesi, non è leggibile come un’immagine fedele – fotografica o allegorica – che riproduca precisamente i luoghi e i modi delle processioni di Iniziati; ci pare tuttavia innegabile che un’aura sacrale legata all’ambito dei misteri sia conferita al contesto dalla forte concentrazione di elementi specifici dei riti eleusini, fra cui l’invito a osservare sacro silenzio, l’invocazione a Iacco, la presenza insistita di pàizein e skòptein a livello verbale e contenutistico. Pur riconoscendo il dovuto peso alle limitazioni imposte da Dover, dunque, rintracciamo echi rituali – al di là delle singole componenti o della forma metrica in sé – nel modello di riferimento che determina sia l’impostazione globale della pàrodos, sia l’atmosfera sacrale del contesto, sia la posizione assunta dal coro nello psògos. In quest’ottica il «tutti insieme» del v. 516 è riferibile a entrambe le entità collettive presenti in teatro: non solo al noi del coro, nella doppia veste di Iniziati e di comunità religiosa che partecipa a un rito, ma anche agli spettatori; questi ultimi, secondo Reckford, possono verisimilmente rispondere all’invito e accompagnare il facile ritmo delle strofette battendo le mani a tempo.16 Il coro di Iniziati ai Misteri accresce quindi l’efficacia dello psògos, della cui forza è senz’altro consapevole, evocando elementi di origine rituale e richiamandosi esplicitamente all’autorità che gli deriva sia dalla posizione di coro comico sia dalla sua specifica personalità drammatica; di entrambe le risorse si avvale in modo ancora più incisivo nella parabasi, dove unisce allo psògos la facoltà di espellere simbolicamente dalla città gli individui che condanna. Se già nella pàrodos lo psògos colpisce chi è indegno di essere iniziato e va allontanato, nella parabasi si assiste a un vero e proprio appello che esorta la città a discriminare fra i cittadini buoni e cattivi: questi ultimi, assimilati dal coro stesso ai pharmakòi, devono essere esclusi dal corpo civico perché la città possa salvarsi.

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Conclusioni In conclusione è ipotizzabile che le differenze formali e di contenuto riscontrate in Aristofane tra lo psògos corale e quello degli attori siano riconducibili essenzialmente allo status collettivo del coro e al suo ruolo di rappresentante della comunità. Tali prerogative conferiscono una singolare efficacia alla funzione che il coro svolge enunciando le norme da osservare e condannando chi le trasgredisce: il valore di tali princìpi – che peraltro è già contenuto nell’affermazione poetica in sé e per sé – risulta così ulteriormente rafforzato dal fatto che il coro dia voce all’intera comunità. Il fenomeno descritto acquista particolare evidenza proprio nella parabasi, dove l’eredità della poesia giambica, assunta nella dimensione collettiva dello psògos corale, si fonde con i residui fossili di quel riso aggressivo che nel mondo greco caratterizza i culti di Dioniso e Demetra. A contraddistinguere simili riti collettivi è difatti la compresenza di preghiera e loidorìa (ingiuria) pronunciate da un gruppo di persone che invoca gli dei e al tempo stesso aggredisce gli individui chiamandoli per nome e sbeffeggiandoli con insulti e oscenità.17 Legami altrettanto profondi, inoltre, sono rintracciabili tra lo psògos e i riti del capro espiatorio, poiché il colpevole della trasgressione può essere metaforicamente espulso e l’ordine delle cose ristabilito anche grazie all’assimilazione simbolica della vittima al pharmakòs. In questo caso, naturalmente, l’emarginazione non è attuata in modo diretto nella realtà, bensì è invocata o predetta nelle parole del coro: queste ultime hanno comunque un potere simbolico paragonabile a quello dell’espulsione vera e propria, perché conservano in sé i residui della maledizione magica scagliata dalla collettività contro il singolo.18 La rappresentazione simbolica di simili riti ha luogo ad entrambi i livelli – della realtà e della finzione scenica – quando chi non rispetta le regole viene emarginato dalla comunità; a subire tale esclusione può essere sia una persona reale, colpita dallo psògos, sia l’avversario del protagonista, come accade ad esempio negli Acarnesi, nei Cavalieri e nelle Nuvole. I meccanismi fin qui descritti sono infine confrontabili con le testimonianze raccolte da Louis Gernet riguardo a un supplizio avvicinabile ai riti del capro espiatorio per i suoi tratti salienti di tipo

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simbolico: l’apotympanismòs, cui sono dedicati due saggi di Antropologia della Grecia Antica.19 Non solo risultano numerose analogie tra le procedure giudiziarie connesse a riti di espiazione ed esecuzione capitale, da un lato, e le norme che regolano lo psògos nella commedia, dall’altro, ma anche le considerazioni generali di Gernet sul rapporto fra sistema giudiziario e rituale sembrano significativamente convergere con i dati acquisiti. Fra gli aspetti che avvicinano lo psògos al nostro “mettere alla gogna”, innanzitutto, c’è la funzione di regolarizzare l’ingiuria e l’invettiva personale, ponendo così un limite al degenerare della vendetta e dello scherno incontrollato; sebbene la stragrande maggioranza dei capi d’accusa non si riferisca a reati sacri ma profani, proprio come quelli puniti con l’apotympanismòs, il modo in cui il coro attacca le sue vittime non è affatto profano, bensì è al contrario profondamente intriso di sacralità. Se infatti di per sé lo psògos consiste nel rendere pubblica la trasgressione di un singolo, nel caso del coro esso si esplica davanti all’intera comunità, e soprattutto per voce di un gruppo che istituzionalmente la rappresenta. In questa dimensione collettiva, che coinvolge contemporaneamente i due piani della finzione scenica e della realtà, si situano le espulsioni dei metaforici pharmakòi. Sulla scena alcuni individui sono malmenati e scacciati dagli attori, eventualmente con l’aiuto del coro, e vengono così esclusi dalla nuova realtà creata dal protagonista-primo attore; nello psògos corale sono invece persone estranee alla vicenda a subire l’espulsione, in questo caso simbolica, ma altrettanto violenta e definitiva. In entrambi i casi emerge con evidenza l’alto valore simbolico della coralità: nella pena capitale, così come nello psògos, fondamentale è la presenza di un gruppo che si schieri con l’accusatore (parte lesa) contro il colpevole, condannandolo al pubblico ludibrio e a punizioni particolari (processione infamante, gogna ed espulsione accompagnate da scherno, beffe, percosse, frustate) o spingendosi fino a provocarne la morte, in un caso reale nell’altro metaforica: tutti questi elementi avvicinano la figura del pharmakòs, i malfattori condannati alla gognacrocefissione e, sul piano simbolico, le vittime dello psògos. Nello psògos corale aristofaneo convivono dunque le due eredità della tradizione giambica e delle pratiche rituali sopra citate: ne sono testimonianze evidenti, come mostrano gli esempi considerati,

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sia le prescrizioni e gli esempi in positivo o in negativo dei cori tragici e comici sia l’uso da parte del coro di elementi quali l’oscenità e la maledizione, residui delle beffe rituali e dei riti di emarginazione del singolo che riservano al corpo un ruolo centrale. Violenza verbale e gestuale, aggressività, oscenità, trasgressione dei tabù: sono questi i principali elementi che accomunano lo psògos corale ai riti citati e provocano il riso inquietante, che infrange l’ordine del cosmo per riportarvi l’armonia e rafforzare così la coesione della comunità. La mancanza di freni inibitori a livello fisico, così come la violazione delle norme di decoro linguistico, si rivela quindi un importante strumento atto a ristabilire l’ordine di fondo su cui poggia la nozione stessa di vergogna, insieme con tutti i limiti e le restrizioni del vivere civile.

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Note 1. Nella Grecia classica tali pratiche contraddistinguono in particolare i culti di Demetra e di Dioniso; nel primo ambito si situano gli “scherzi dal ponte” della processione fra Atene e Eleusi e altre feste che prevedono turpiloquio e scambi d’insulti, denudamenti osceni, falloforie, travestimenti, utilizzo di oggetti e cibi raffiguranti gli organi sessuali maschili e femminili (vedi oltre, nota 8). A Dioniso sono invece riconducibili i lazzi osceni detti “dal carro”, pronunciati da inquietanti personaggi mascherati durante le Antesterie, per i quali si veda K.J. Reckford, Aristophanes’ Old-and-New-Comedy, Chapel Hill & London, 1987, vol. 1, p. 456; p. 540, nn. 1214. Reckford cita a sua volta J.E. Harrison, Prolegomena to the Study of Greek Religion, Cambridge, 19082, pp. 32-76, e L. Deubner, Attische Feste, Berlin, 19662, pp. 93-123; si veda anche W. Burkert, Homo Necans, Interpretation altgriechischer Opferriten und Mythen, Berlin (tr. it. Homo Necans. Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica, a cura di F. Bertolini, Torino, 1981, pp. 326-369). Gli stessi elementi che caratterizzano le Antesterie ricorrono secondo Reckford anche nella festa ateniese di Dioniso Leneo (Reckford, Aristophanes’ Old-and-New-Comedy, pp. 410, 485). Al di fuori dell’area greca di età classica lo stesso Reckford segnala due riti, che per quanto appartengano a contesti culturali e spazio-temporali differenti sono notevoli per l’impiego di insulti, esposizione dei genitali e altre oscenità verbali o gestuali. Il primo è lo scontro verbale che avviene fra gruppi di maschi e di femmine in occasione della «cerimonia dei Gemelli» presso gli Ndembu. L’altro rito, descritto da Erodoto (Storie, II, 60), è la navigazione degli Egiziani verso Bubastis durante la quale le officianti poste sulle barche, oltre a suonare e danzare, rivolgono insulti e mostrano i genitali a tutte le donne che le guardano dalla riva del fiume. Sul rito Ndembu, studiato da V. Turner in The ritual Process: Structure and Antistructure, Ithaca, 1969, pp. 78-79, e documentato da una fotografia, cfr. Reckford, Aristophanes’ Old-and-New-Comedy, pp. 461-465; p. 541, nn. 25, 27. 2. Agirrio è detto anche poneròs (“ignobile, plebeo”) da Aristofane nelle Ecclesiazuse (vv. 183-188) e nel Pluto (v. 176) e da Platone Comico, frr. 141 (133K) e 201 (185K); è sbeffeggiato secondo gli scolî anche nelle Rane aristofanee, v. 367. Secondo lo scolio delle Rane e i frammenti di Platone Comico, Agirrio propugnava la diminuzione del compenso dato ai poeti comici, mentre ne innalzava altri secondo la Costituzione degli Ateniesi pseudo-aristotelica. Qualunque fosse il ruolo svolto da Agirrio, comunque, è significativo che la sua attività politica sia nettamente contrapposta alla sua presunta identità muliebre: proprio nella commedia in cui le donne prendono il potere al posto degli uomini, non a caso, lo psògos colpisce con particolare frequenza gli effeminati che pretendono di governare la città. 3. Il confronto denigratorio che coinvolge tipi umani e specie animali è molto diffuso nello psògos e si incentra solitamente su tratti fisici, anche se spesso si estende a vizi e comportamenti eccessivi o maniacali. Simili raffronti tra uomo e animale possono assumere forme diverse, dal semplice accostamento del nome della vittima con quello dell’animale fino alla metafora o al paragone più complesso: in Acarnesi, 866, ad esempio, i flautisti sono semplicemente «calabroni figli di Cheride», mentre nelle Rane (vv. 706-717) è assimilato a una scimmia molesta l’odioso Cligene, a cui si augura una brutta fine.

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4. L’aggressività, unita alla peculiare licenza di rendere pubblici fatti o comportamenti individuali che infrangono le norme etiche della comunità, non a caso caratterizza in prima istanza il kòmos, indicato sin dall’antichità come nucleo originario della commedia. Nella sua forma più semplice il kòmos sembra un gruppo di persone che di notte, dopo aver abbondantemente mangiato e bevuto, girovagano alla luce delle torce e fanno baldoria gridando, scherzando e cantando. I loro canti, a quanto pare, contengono attacchi personali rivolti all’indirizzo dei concittadini, comprendenti beffe, maldicenze diffamatorie e denunce condite di insulti e oscenità più o meno pesanti. Ai fini del nostro confronto con lo psògos corale è proprio il fatto che oggetto di beffe collettive siano questa volta individui ed episodi specifici a indurci a distinguere questo gruppo di riti dal precedente, anche tenendo conto della contiguità esistente tra le diverse aree e pratiche di culto. Sull’ipotesi già diffusa nell’antichità che collega la nascita della commedia attica al kòmos, cfr. M.L. West, Studies in Greek Elegy and Iambus, Berlin-New York, 1974, p. 27, con la notizia riportata da Aristotele nella Costituzione dei Nassi (fr. 558) e la storia contenuta in Schol. Dion, Thr. pp. 18, 15, Hilgard, sulle origini della commedia. Le testimonianze antiche sono raccolte da R. Cantarella, Aristofane. Le Commedie, vol. 1, Prolegomeni, 1949, pp. 14-39. Per la composizione del kòmos cfr. Reckford, Aristophanes’ Oldand-New-Comedy, p. 485. Per un esame approfondito delle testimonianze e ipotesi relative all’evoluzione che dalle pratiche rituali legate a Dioniso, in particolare le processioni falliche e il kòmos, porta alla forma artistica matura della commedia attica, si vedano A.W. Pickard-Cambridge, Dithyramb, Tragedy and Comedy, 19622, pp. 132-147; G. Giangrande, The Origin of Attic Comedy, 1963, pp. 1-24; Reckford, Aristophanes’ Old-and-New-Comedy, pp. 434-498; E.W. Handley, s.v. Comedy, in The Cambridge History of Classical Literature, vol. 1, Greek Literature, a cura di P.E. Easterling, B.M.W. Knox, Cambridge, 1985, pp. 355-425 (tr. it. La commedia, in La letteratura greca, a cura di E. Savino, Milano, 1989, vol. 1, pp. 649689). Sulle beffe rituali alle origini del kòmos cfr. J.C. Carrière, Le carnaval et la politique, Paris, 1979, pp. 19, 34. 5. La parabasi è un canto corale a scena vuota dalla struttura prefissata in cui il coro di volta in volta fornisce al pubblico consigli espliciti sul comportamento da adottare (cfr. Rane, 686-737), ricorda i meriti del poeta o ne riferisce le opinioni (cfr. Acarnesi, 628-658, Cavalieri, 507-550, Vespe, 1015-1057), critica comportamenti assunti da singoli cittadini o dall’intera città. Cfr. le indagini specifiche di G. Sifakis, Parabasis and Animal Choruses, London, 1971; A.M. Bowie, The Parabasis in Aristophanes: Prolegomena, in «Classical Quarterly», XXXII n.s., 1982, pp. 27-40; G. Mastromarco, La parabasi aristofanea tra realtà e poesia, in «Dioniso», 57 (1987), pp. 75-93. 6. Lo «scapegoat ritual complex» riunisce i riti di emarginazione, ordalia e purificazione incentrati sul sacrificio o di un animale – il cosiddetto “capro espiatorio” – o di esseri umani, chiamati in greco pharmakòi. La cerimonia che al rituale dà il nome viene così descritta nell’Antico Testamento (Levitico, 16, 21 s.): un capro, su cui Aronne ha trasferito per imposizione delle mani tutti i peccati del popolo di Israele, viene condotto in terre selvagge e desolate, dove viene abbandonato. Varianti di questa usanza, tipica delle culture nomadiche, sono attestate in numerose società antiche e moderne, dagli Ittiti al mondo greco e romano a certe zone dell’Africa

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equatoriale e dell’Asia. Nucleo comune a tutte le varianti del rito è che la comunità salva se stessa sacrificando uno dei suoi membri, impersonato da un animale o da un essere umano. Nel secondo caso uno o più individui sono scelti come vittime rituali per essere caricati di tutte le colpe della comunità e espulsi con un cerimoniale complesso che varia nelle diverse culture. Prima della cerimonia essi possono essere nutriti a spese della comunità, anche per un lungo periodo di tempo, vestiti di magnifiche vesti o anche mascherati. In alcune fonti si parla inoltre di un misterioso kukeòn, una bevanda rituale somministrata al pharmakòs e composta a quanto pare di ingredienti dal probabile valore simbolico. Condotte in processione, le vittime subiscono percosse e irrisioni, in alcuni casi vengono frustate sul corpo o sui genitali con piante tradizionalmente sterili e improduttive; infine sono espulse dalla città e a volte anche inseguite a colpi di pietre, a quanto sembra senza però essere lapidate a morte. Per una descrizione dettagliata dei rituali si veda J. Bremmer, Scapegoat Rituals in Ancient Greece, in «Harvard Studies in Classical Philology», 87 (1983), pp. 299-320. Cfr. anche Harrison, Prolegomena to the Study of Greek Religion, pp. 95-119; G. Murray, The Rise of the Greek Epic, Oxford, 1907, pp. 13-16, 253-258; J.G. Frazer, The Golden Bough, vol. IX, London 19133, pp. 252-274; P. Vidal-Naquet, Le chasseur noir, Paris, 1981, pp. 151-207. 7. Una specie di contrappasso analogo a quello aristofaneo caratterizza inoltre la prima satira della letteratura irlandese, tradizionalmente attribuita al poeta Cairpre Mac Edaine; costui si vendica dell’inospitale accoglienza del Re Bres Mac Eladain lanciandogli la seguente maledizione magica: «Without food speedily on platter, / Without a cow’s milk whereon a calf thrives, / Without a man’s habitation after the staying of darkness, / Be that the luck of Bres Mac Eladain» (cfr. R. Elliott, The Power of Satire: Magic, Ritual, Art, Princeton, 1960, p. 62). Questa formula si rivela particolarmente significativa ai fini del confronto con Aristofane in quanto la punizione del re è modellata sulla sua stessa colpa: all’ospite che gli ha dato uno scomodo alloggio e cibo scadente, infatti, il poeta augura di rimanere a sua volta senza nutrimento né riparo. 8. Le testimonianze relative ai culti iniziatici di Demetra sono oggetto di approfondito esame in Burkert, Homo Necans, pp. 98-104. Sui gesti osceni a Eleusi, cfr. Reckford, Aristophanes’ Old-and-New-Comedy, p. 542, nn. 29-33, che a sua volta rimanda a N.J. Richardson, The Homeric Hymn to Demeter, Oxford, 1974, pp. 214-216. 9. Il carattere sacrale e autorevole del coro è peraltro ribadito nella parabasi della stessa commedia (Rane, 686-687). 10. A tale esortazione fa riscontro il dato storico che conferma l’effettiva esclusione dalle cerimonie sacre di coloro che si erano resi colpevoli di quei reati punibili per legge con la perdita dei diritti politici (àtimoi). 11. Cfr. A.M. Bowie, Aristophanes, Myth, Ritual and Comedy, Cambridge, 1993, pp. 238-244. 12. Cfr. E. De Martino, I gephyrismi, Studi e Materiali di Storia delle Religioni, X, 1934, p. 74; R.M. Rosen, Old Comedy & the Iambographic Tradition, Atlanta, 1988, pp. 24-28; Reckford, Aristophanes’ Old-and-New-Comedy, pp. 488-489. 13. Cfr. K.J. Dover, The Chorus of Initiates in Aristophanes’ Frogs, in Entretiens sur l’antiquité Classique, XXXVIII, Aristophane, Vandœvres-Genève, Fondation Hardt, 1993, pp. 171-179.

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14. Per le opinioni dei due autori citati cfr. Dover, The Chorus of Initiates, rispettivamente pp. 198 e 184. 15. Se così non fosse gli elementi di caratterizzazione del coro si ridurrebbero esclusivamente all’aspetto esteriore e alla presentazione dei due attori (Rane, 312322). Lo stesso Dover, del resto, riconosce la presenza di un linguaggio rituale e in particolare di formule tipiche del rito iniziatico, e rileva come la formula di iniziazione al rito di Rane, 354-355, sia seguita ai vv. 356-357 da una “metaforica iniziazione” al teatro, in particolare alla commedia (Dover, The Chorus of Initiates, p. 182). 16. Cfr. Reckford, Aristophanes’ Old-and-New-Comedy, p. 419: «These verses [...] are written in simple iambics, in a hand-clapping rhythm in which the audience could participate.». Secondo Dover e Gelzer invece (cfr. Dover, The Chorus of Initiates, p. 198), il “koinè” del v. 516 coinvolge solamente Dioniso e Xantia, che hanno dichiarato di volersi unire al coro nella battuta precedente (Rane, 408-409) e che interverranno ancora ai vv. 435-443. 17. A questa coppia di elementi si può ricondurre – se non l’intera commedia aristofanea (come sostiene Reckford, Aristophanes’ Old-and-New-Comedy, p. 489) – almeno la doppia essenziale funzione del coro comico, eredità del kòmos: i due volti del rito sono infatti individuabili nel nucleo della sigizia parabatica, composto rispettivamente da invocazioni alle divinità nelle odi e da beffe personali nelle parti epirrematiche (Reckford, Aristophanes’ Old-and-New-Comedy, p. 488). 18. Le pratiche di violenza collettiva hanno riscosso l’attenzione di molti storici delle religioni e antropologi; René Girard, in particolare, si sofferma sui meccanismi di funzionamento dei riti in cui l’aggressività di tutti i membri della comunità si concentra su un individuo solo. Questo fenomeno, definito da Girard «unanimità violenta», si può considerare fra gli elementi determinanti all’origine dei riti e del sistema giuridico: da un lato infatti le cerimonie rituali del pharmakòs e le altre forme di sacrificio accomunate dalla stessa origine permettono l’esistenza stessa della comunità, che grazie alla violenza collettiva purificatrice viene mondata da ogni macchia o impurità; dall’altro la violenza nel suo aspetto legittimo e istituzionalizzato svolge la fondamentale funzione di arginare, incanalare e frenare la vendetta incontrollata che altrimenti potrebbe propagarsi fino a distruggere l’intera comunità: cfr. R. Girard, La violence et le sacré, Paris, 1972 (tr. it. La violenza e il sacro, Milano, 1980, pp. 41, 44-59, 64-65, 109-111, 115 e passim). Si noti che Girard, pur senza includere nella sua analisi testi letterari, situa la tragedia in corrispondenza del momento di passaggio dal pensiero religioso a quello giuridico, ritenendola come punto intermedio ancora permeata di tracce di entrambi. La stessa mescolanza caratterizza a nostro avviso la commedia di Aristofane, che della tragedia in questi termini si può considerare gemella. 19. Cfr. L. Gernet, Anthropologie de la Grèce antique, Paris, 1968 (tr. it. Antropologia della Grecia antica, a cura di R. Di Donato, Milano, 1983, pp. 239-274). L’apotympanismòs è una specie di crocefissione riservata a delinquenti comuni, come banditi di strada, ladri o borseggiatori, che siano stati colti in flagrante e arrestati; il fatto che sia in vigore in età classica è ricavabile da una tomba, che risale probabilmente al VII sec. a.C., e da autori sia contemporanei (come Lisia e Demostene) sia di età più tarda. La conclusione delle riflessioni di Gernet, di estrema rilevanza per la nostra analisi, è questa: la pena di morte – di fatto l’espulsione del colpevole dalla

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vita e dalla società che ha contaminato con la sua colpa – si avvale di forme derivate più o meno direttamente dal rituale; questo avviene sia nelle forme d’esecuzione capitale propriamente religiose, in cui il simbolismo è immediato e la pena di morte tende a confondersi con il sacrificio umano (ad esempio nella precipitazione e nella lapidazione, tipiche dei reati sacri), sia nelle forme laiche come l’apotympanismòs in cui però «l’immagine del castigo trascina in un ambito di pensiero religioso» (cfr. Gernet, Antropologia, pp. 248-249). Lo stesso Gernet è esplicito nel definire l’ambito come specificamente corale «[...] in questo tipico caso, la punizione del delinquente e la definizione stessa del delitto sono sottomesse a regole sociali [...] a riti nei quali la parte lesa è senza dubbio protagonista, ma abbisogna dell’assistenza obbligatoria di un coro, con la partecipazione dei “vicini” che sono a un tempo i custodi della procedura e i garanti della sua regolarità [corsivo nostro]» (cfr. Gernet, Antropologia, pp. 266-267). Alla menzione del coro lo stesso Gernet accompagna una nota (cfr. Gernet, Antropologia, p. 266, n. 73) in cui evidenzia il legame esistente fra le pratiche rituali considerate e alcune forme letterarie: «Non è questa una semplice metafora, poiché le procedure rituali hanno fornito dei temi all’orchestica e al dramma (cfr. Senofonte, Anabasi, VI, 1, 7; Sofocle, Hichneytài; Aristofane, Rane, 1343 ss.)».

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Ligi al rispetto dei precetti aristotelici, pronti a sovrapporre al dramma antico le proprie categorie estetiche, gli esegeti ottocenteschi giudicavano le Troiane di Euripide un esperimento poetico sconcertante e malriuscito, condannando l’autonomia dei singoli episodi e la sequela dei lamenti che impedisce un reale sviluppo dell’azione scenica.1 Durante il secolo scorso la tragedia ha conosciuto numerose letture di tipo storicistico, che hanno voluto scorgervi precisi riferimenti al contesto storico-politico dell’epoca in cui fu rappresentata,2 a ridosso della disastrosa spedizione in Sicilia che Atene intraprese nella primavera del 415 a. C. Malgrado la loro distanza culturale, i diversi approcci critici che si sono succeduti condividono un generale disinteresse nei confronti dei personaggi, ignorati nel loro spessore drammatico a vantaggio di valutazioni complessive che spesso muovono da posizioni aprioristiche. Al contrario, un’analisi attenta alla costruzione delle figure e al gioco scenico che le contrappone, illumina tanto il senso delle scelte drammaturgiche di Euripide quanto il rapporto delle Troiane con la storia di quel tempo e la cultura dell’Atene democratica. Nel gioco delle maschere tragiche Identificando senza scarti il cittadino col guerriero, la polis del V secolo aveva trasformato il kleos individuale dell’epos nel valore

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supremo del prestigio comune, mentre elaborava gli strumenti collettivi della memoria e del lutto per conservare un assetto socio-politico in cui la guerra era una sorta d’istituzione.3 Con la sua potente creazione drammatica, Euripide sembra aver intuito e spezzato la perversa catena di un’ideologia che si riproduceva celebrando la morte di coloro cui chiedeva la vita: negli anni cruciali della guerra del Peloponneso, nell’altrove di Troia, ormai distrutta, il poeta rappresenta i destini di un gruppo di donne, non solo sopravvissute agli uomini, ma perdute per sempre dal ricordo del loro eroismo. Tra le Troiane che attendono solo il viaggio della schiavitù, Andromaca appare la figura di proiezione del codice eroico e la maschera tragica dell’ideologema politico donna-oikos, ma il suo personaggio, così vicino al modello omerico, è anche la lente che lascia scorgere lo scarto rispetto al mondo dell’epica e della città: Tutte le virtù che fanno saggia una donna, con sforzo coltivavo nella casa di Ettore. In primo luogo, poiché si procura cattiva fama – sia il biasimo giusto o meno – colei che non resta in casa, io vi restavo e reprimevo il desiderio contrario; nelle stanze non lasciavo entrare le chiacchiere astute delle donne e mi bastava che un buon maestro fosse il mio senno. Il silenzio della lingua ed occhi pacati offrivo allo sposo: sapevo quando dovevo impormi io e quando dovevo lasciare che prevalesse lui. Di queste virtù la fama giunse all’esercito acheo ed è stata per me la rovina; quando fui catturata, il figlio di Achille volle prendermi in sposa: sarò schiava nelle case degli assassini!4 (vv. 645-660).

Reclamata come concubina da Neottolemo, privata per sempre di Astianatte, Andromaca è rovinata dalla fama di sposa esemplare e subisce l’uccisione del figlio a causa della gloria dello sposo:5 la sua vicenda drammatica illustra non solo la dissoluzione del mondo eroico, ma anche l’ipoteca nefasta lasciata dalla sua memoria e diventa ancor più inquietante nel contesto di una città che aveva inglobato l’ideologia dell’epos perfezionando la polarità tra la donna-sposa e il cittadino-guerriero. Trasportata dal carro della schiavitù che le sottrae anche autonomia fisica, Andromaca non resta in scena oltre il tempo necessa-

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rio ad annunciare il tracollo dei valori che incarna, lasciando a Ecuba tutto il peso di un dolore insostenibile. Affidandole le fila della sua strategia drammatica, Euripide trasforma nell’onnipresente protagonista della scena la regina troiana che l’Iliade quasi ignorava. Prostrata a terra in un’ideale assimilazione ai cari,6 Ecuba diventa «l’immagine di una morta, ma tra i morti simulacro impotente» (v. 193), il fantasma di una regalità scomparsa, ancora relegato nel limbo tra la vita e la morte. Il veicolo privilegiato con cui Euripide rappresenta il trauma della guerra, è il corpo della regina che parla il linguaggio della memoria e della morte attraverso la gestualità scenica e le immagini evocate dalla parola poetica: Alza, sventurata, il capo da terra, solleva il collo... Troia non è più, io non sono più la regina di Troia. Sopporta una sorte ormai mutata! Naviga secondo la rotta del destino e non volgere la prora della vita contro l’onda: naviga assecondando la sorte! Ahimè! Tutto trabocca del mio pianto; i figli, lo sposo, la patria... perduti per sempre. Magnificenza degli avi, costretta ad ammainare le vele: eri davvero gonfia di nulla! Cosa tacere? Cosa non tacere? Di che piangere? Infelice me, gravata dal destino! Giaccio con gli arti rattrappiti, col dorso disteso su un giaciglio duro. Ahi, il capo, le tempie, i fianchi! Come vorrei girarmi, spostare le spalle e la schiena, ora su un fianco ora sull’altro, secondo la nenia delle lacrime che sempre si rinnovano (vv. 98-119).

Con la monodia d’esordio, Ecuba esorta se stessa a seguire la rotta della sorte come la chiglia della nave che asseconda il mare, ma lamentando la difficoltà di muovere i fianchi contratti dal dolore, svela anche i paradigmi del suo immaginario di donna: strappata al ruolo di sposa e di madre, inscindibili nelle regalità orientali,7

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Ecuba ricorda i movimenti ormai preclusi al suo corpo avvizzito, alludendo alla sessualità e alla maternità frustrate per sempre. Con la stessa immagine, tuttavia, la regina denuncia anche la propria inadeguatezza ai doveri del rito, dichiarandosi incapace di oscillare il busto secondo le cadenze ritmiche tipiche della concentrazione ipnogena che accompagna la lamentazione.8 Persa nel ricordo di un passato irrecuperabile, stremata da un dramma che si rinnova con l’uccisione fuoriscena di Polissena e di Astianatte,9 la regina sfugge anche alla disciplina rituale della morte e, se ricorre al linguaggio del lutto negli snodi di maggiore intensità drammatica, ne stravolge del tutto le forme. Quando Taltibio le comunica che sarà la schiava di Odisseo, Ecuba si graffia e si colpisce,10 ricade a terra dopo l’uscita trionfante di Cassandra,11 si batte il capo e il petto mentre i Greci le strappano Astianatte:12 se con quei gesti il rito simula ed esorcizza l’impulso suicida indotto dall’esperienza della perdita, mentre li riproduce in assenza di cadaveri e al di fuori di un reale contesto funebre, Ecuba ne spezza l’automatismo irriflessivo e li trasforma nell’espressione privilegiata del suo istinto di morte. Dinnanzi a una città che aveva limitato i compianti prolungati delle donne13 e disciplinava inesausta il dolore della guerra con solenni cerimonie pubbliche,14 Euripide porta in scena la disperazione incontenibile di una madre che sovverte ogni prescrizione rituale col linguaggio del suo corpo e ne adombra l’irreparabile vanità attraverso la dialettica scenica. Con l’evidenza della provocazione, il poeta lascia che sia il personaggio di Cassandra a riecheggiare l’ideologia della morte, codificata dalla polis nei topoi del logos epitaphios e riproposta durante i funerali di stato riservati ai caduti.15 Contraltare drammatico del lutto di Ecuba, la profetessa irrompe in scena esultante per le nozze con Agamennone, ma ripudia il delirio della follia quando volge lo sguardo al passato troiano e acquista l’abilità dialettica di un retore: Voglio dimostrare che la nostra città è più fortunata degli Achei: è vero che il dio mi possiede, ma, per l’occasione, mi terrò fuori dal delirio! (vv. 365 ss.).

Ricalcando gli argomenti dei discorsi di Pericle,16 Cassandra esalta la gloria dei Troiani morti per la patria, sostiene la necessità

Tra memoria e morte

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di una guerra scoppiata per difenderla e rimarca il privilegio di chi onora i cari sepolti da eroi:17 declamati sullo sfondo di una città in fumo, di fronte a Ecuba distesa a terra, quei proclami d’eroismo si svuotano per sempre di ogni tensione ideale e appaiono solo inquietanti mistificazioni. Proiezione del vuoto di Troia, luogo drammatico del nulla, il corpo della regina a cui tutto è negato, definisce per analogia e per contrasto le altre immagini del femminile, strutturando la rete dei rapporti simbolici: con la sua prostrazione ostinata e sfibrante, Ecuba risponde non solo al balletto nuziale e alle corse furenti di Cassandra, ma anche al sogno subito infranto della continuità dinastica, legato alla vista di Andromaca che scalda col seno Astianatte. Tuttavia, l’antitesi drammatica che Euripide sottolinea ed esaspera, accosta la pelle raggrinzita di Ecuba, avvolta da vesti lacere, agli occhi fatali di Elena che sfoggia i suoi belletti, benché prigioniera dei Greci come le Troiane. Interrompendo la sequela dei lamenti scomposti, Ecuba si scontra con Elena nell’agone che le vede entrambe dotate di un rigore dialettico stringente, alla presenza di un Menelao imbelle, che la scena riduce a fantoccio di se stesso e del mondo eroico.18 All’odiata rivale che pretende di raccontare un mythos per scagionare se stessa, la regina agguerrita rinfaccia la colpa di una guerra epocale, ma se rifiuta la presunta coercizione di Afrodite, Ecuba delinea la dialettica di un desiderio, innescato dall’incrocio degli sguardi, che rese folle Elena quanto Paride e Menelao, annullando la volontà dei soggetti non meno dell’intervento divino: Hai detto – questo sì che fa ridere! – che Cipride venne con mio figlio alle case di Menelao. Non poteva forse starsene tranquilla in cielo e condurre ad Ilio te con tutta quanta Amicle? Il fatto è che mio figlio era di una bellezza straordinaria, fu la tua mente a vederlo e si è creata Cipride: ogni follia per gli uomini è Afrodite e non a caso il nome della dea comincia come aphrosyne, stoltezza. Tu lo vedesti splendente di vesti barbare e d’oro e sei andata fuori di te! (vv. 983-992).

Attraverso Ecuba e al di là di lei, Euripide descrive l’inquietante miscela di attrazione e aggressione che governa gli occhi degli aman-

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ti,19 delineando la fenomenologia dell’eros di cui la guerra è proiezione esterna: non a caso l’oro di Paride sembra sedurre Elena con la stessa devastante violenza che allora trascinava gli Ateniesi verso quello siciliano.20 Congelando l’azione tragica nella sezione antecedente alla parodo, dopo il prologo degli dèi Euripide occupa il tempo scenico coi discorsi e i lamenti delle donne, ma la strategia drammatica che ha tanto disturbato gli esegeti, gli consente di dialettizzare i grandi conflitti della città, rappresentando, in anticipo sulla storia, i disagi delle sue soluzioni. Nel mondo altro di Troia, il corpo svuotato di Ecuba, regina, madre e donna, accoglie il dramma e il rimosso di Atene.

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Note 1. Cfr. per es. la pesante stroncatura di K.O. Müller in H. Steiger, Warum schrieb Euripides seine Troerinnen?, in «Phil.», 59 (1900), p. 363: «Die Szenen der Troerinnen sind nichts, als einzelne bedeutungsvolle Bilder, die nach einander aufgerollt werden [...] Die Troerinnen sind das regelloseste unter allen erhaltenen Stücken des Euripides». All’inizio del secolo scorso, sulla struttura del dramma sollevava perplessità anche U. v. Wilamowitz-Möllendorff, Griechische Tragödien, Berlin, 19267, vol. III, pp. 263 ss.: «Die Troerinnen geben keine fortlaufende Handlung, sondern eine Reihe von Szenen konvergieren auf dasselbe Ziel». Come un assunto critico ormai assodato, la sentenza di Wilamowitz finisce per rimbalzare negli studi ormai classici sulla tragedia antica; cfr. per es. M. Pohlenz, La tragedia greca, Brescia, 1979 (Leipzig, 1930), vol. II, p. 420, e A. Lesky, La poesia tragica dei Greci, Bologna, 1996 (ed. or. Göttingen, 1972), p. 585. 2. Inaugurato da Steiger, Warum schrieb Euripides, pp. 362-399 (vedi nota 1), il filone esegetico è stato applicato con sistematica coerenza addirittura a tutto il teatro di Euripide da E. Delebecque, Euripide et la guerre du Péloponnèse, Paris, 1951 (in particolare, sulle Troiane, cfr. pp. 245-262). Molto esplorata dalla critica di impronta marxista – si veda per es. M. Dieckhoff, Zwei Tragödien um Troia, in «Eirene» 8 (1970), pp. 23-39 – , questa chiave di lettura sostiene anche il lavoro relativamente recente di N.T. Croally, Euripidean Polemic. The Trojan Women and the Function of the Tragedy, Cambridge, 1994. 3. Cfr. per es. J.P. Vernant (a cura di), Problèmes de la guerre en Grèce ancienne, Paris-La Haye, 1968. 4. Pensate come momento centrale dell’interpretazione, tutte le traduzioni di questo contributo sono originali. 5. Così ad Andromaca spiega Taltibio, l’araldo greco: «Tra i Greci ha avuto la meglio il parere di Odisseo / […] / disse che il figlio di un eroe non doveva crescere!» (vv. 721 ss). 6. Così la presenta Posidone nel prologo: «Quella sventurata là – se qualcuno vuole farci caso / eccola lì!... è Ecuba: giace davanti alle porte / e piange per molte persone, a dirotto» (vv. 36 ss.). Infrangendo la convenzione drammaturgica che vuole gli dèi prologanti soli sulla scena prima dell’ingresso degli ignari mortali, Euripide accosta alle figure dialoganti di Atena e Posidone il corpo disteso di Ecuba in lacrime, segnalando con la loro vicinanza il paradosso di una distanza incolmabile. 7. Cfr. A. Beltrametti, Immagini della donna, maschere del «logos», in S. Settis (a cura di), I Greci, Torino, 1997, II, 2, pp. 897-935. 8. Sulla ritualità della morte elaborata dalle culture dell’area mediterranea, cfr. E. De Martino, Morte e pianto rituale, Torino, 2000. 9. Cfr. rispettivamente vv. 622-629 e vv. 1156-1259. 10. Cfr. vv. 278-288. 11. Cfr. vv. 462-468. 12. Cfr. vv. 792-795. 13. A ridurre il lutto protratto delle donne miravano i provvedimenti di Solone ricordati da Plutarco, Sol. 12, 8; 21, 5-7. È anche con queste disposizioni che la città democratica intendeva spezzare i legami tra le consorterie aristocratiche, nel tentati-

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vo di affermare il primato maschile all’interno dell’oikos in luogo di quello femminile alla base del genos. Sulle persistenze e i cambiamenti del rituale funebre nel mondo greco dall’antichità ai giorni nostri, cfr. M. Alexiou, The ritual lament in Greek tradition, Cambridge, 1974. 14. Cfr. la celebre descrizione di Tucidide, II, 34-46, che racconta i funerali ateniesi in onore dei caduti del primo anno della guerra del Peloponneso. 15. Cfr. N. Loraux, L’invention d’Athènes, Paris, 1981. 16. Cfr. Thuc., I, 144; II, 42-44; II 60-61. 17. Cfr. vv. 368-405. 18. Cfr. vv. 860-1059. 19. Sulla vista come veicolo dell’eros, cfr. S. Durup, L’espressione tragica del desiderio amoroso, in C. Calame (a cura di), L’amore in Grecia, Bari, 1997, pp. 143-157. 20. Cfr. Thuc., VI, 6, 8.

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LUCIA BELTRAMI “Periculum iniuriae muliebris”. Il rispetto delle donne del nemico nella cultura romana

Due racconti di Livio Queste riflessioni1 prenderanno come punto di partenza un testo di Livio (26, 49 s.) riguardante due episodi di cui è protagonista Scipione, personaggio di grande rilievo nella cultura romana. Nel primo si narra che, dopo la conquista di Cartagine Nuova, il comandante romano ordinò che fossero radunati gli ostaggi delle città dell’Hispania. Ma vediamo direttamente il racconto dello storico patavino: Comunque stiano le cose, Scipione dapprima esortò gli ostaggi a stare tutti quanti di buon animo, poiché essi erano venuti in potere del popolo romano che preferiva legare a sé le persone più con la benevolenza che con la paura e che amava conciliarsi i popoli stranieri con la lealtà e i vincoli d’alleanza, più che tenerli soggetti in triste servitù. Presi, quindi, i nomi delle città, passò in rassegna i prigionieri, informandosi quanti fossero ed a quali genti appartenessero e mandò poi dei messi alle loro case, perché le loro famiglie venissero a riprenderli. Scipione, poi, fece restituire subito i prigionieri agli ambasciatori di quelle città alle quali essi appartenevano, che per caso erano presenti; riguardo agli altri, li affidò al questore C. Flaminio, perché li trattasse bene. Mentre tutto ciò avveniva uscì ad un tratto dalla folla degli ostaggi una donna di età avanzata, la moglie di Mandonio, che era fratello di Indibile, re degli Ilergeti; essa si gettò piangendo ai piedi del generale e cominciò a scongiurare Scipione perché raccomandasse alle guardie di avere la massima cura e rispetto delle donne. Poiché Scipione affermò che nulla a loro sarebbe certamente mancato, la donna riprese: «Noi non facciamo gran conto dei beni materiali; che cosa, infatti, non è sufficiente in questa condizione in

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cui ci ha posto la sorte? Ben altra preoccupazione mi tormenta, non certo per me che, già anziana, non corro pericolo di essere oltraggiata come può esserlo una donna, ma per queste fanciulle, quando guardo la loro età». Intorno a lei, infatti, stavano, fiorenti per età e per bellezza, le figlie di Indibile ed altre di pari nobiltà, che l’onoravano come madre. Scipione così rispose: «Io mi sarei comportato come tu chiedi, seguendo i miei principii ed il costume del popolo romano, perché nulla sia presso di noi oggetto di offesa, di ciò che in ogni luogo è considerato inviolabile; ora, anche la vostra virtù e dignità mi induce a far sì che io mi dia cura di ciò con maggior diligenza, poiché voi, neppure nella sventura, vi siete dimenticate del decoro matronale». Affidò poi le donne a un uomo di integra moralità e gli ordinò di proteggerle con rispetto e col massimo riguardo, come se si fosse trattato di spose e di madri di ospiti.2

Ma, prima di soffermarci su alcuni aspetti particolarmente interessanti di questo testo, vediamo anche l’episodio che, nel racconto di Livio, segue immediatamente quello riportato: Dopo di ciò, fu dai soldati condotta a Scipione una giovane donna ancor vergine, così bella che al suo passaggio attirava sopra di sé gli sguardi di tutti. Scipione le domandò quali fossero la sua patria e i suoi genitori e, fra l’altro, venne a sapere che era fidanzata a un principe dei Celtiberi, un giovane di nome Allucio. Subito fece chiamare da casa i genitori e il fidanzato, avendo nel frattempo saputo che costui si struggeva d’amore per lei. Appena questi si presentò, Scipione rivolse la parola a lui con maggior premura che non ai genitori. «Io giovane parlo a te che sei giovane» disse «perché tra noi sia minore il riserbo di questa conversazione. Quando la tua fidanzata, fatta prigioniera dai miei soldati, fu da loro condotta dinanzi a me, io seppi quanto tu l’amavi e la sua bellezza me ne dava la prova sicura. Se mi fosse permesso godere dei piaceri della giovinezza, particolarmente di un puro e legittimo amore, e se le cure dello stato non occupassero tutto il mio animo, io vorrei essere scusato se amassi intensamente la mia fidanzata; perciò, dal momento che lo posso fare, voglio favorire il tuo amore. La tua fidanzata è stata trattata presso di noi con lo stesso rispetto come se fosse stata presso i tuoi suoceri e suoi genitori; ti è stata riserbata pura ed inviolata, perché tu la possa accogliere come un dono degno di me e di te. Per questo dono chiedo una sola ricompensa, che tu sia amico al popolo romano e, se tu pensi che io sia un uomo retto, quali lo erano, come queste genti hanno già conosciuto, mio padre e mio zio, sappi anche che fra i cittadini romani molti sono simili a noi e che nel mondo di oggi non si può citare alcun popolo che tu meno debba volere nemico a te e ai tuoi o che tu debba preferire amico». Il giovane, pervaso dal turbamento e dalla gioia, afferrando la destra di

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Scipione, invocò tutti gli dei perché testimoniassero, essi per lui, la sua gratitudine al generale romano, poiché egli non aveva sufficiente possibilità di farlo, secondo i sentimenti dell’animo suo ed in modo adeguato ai meriti di Scipione verso di lui. Furono poi chiamati i genitori e i parenti della giovane donna, i quali, avendo portato una gran quantità d’oro per riscattarla, come videro che essa era a loro restituita senza prezzo, cominciarono a pregare Scipione di accettare quell’oro in dono, affermando che di ciò non sarebbero stati a lui meno grati di quanto lo fossero per aver loro restituita inviolata la fanciulla. Scipione, poiché essi lo pregavano con molta insistenza, promise di accettare il dono e li invitò a deporre l’oro ai suoi piedi; chiamò poi a sé Allucio e gli disse: «Alla dote che riceverai dal suocero, da parte mia si aggiungeranno a te questi doni nuziali». Detto questo, lo invitò a prendere l’oro e a tenerlo per sé. Il giovane, congedato e rimandato in patria, lieto per quei doni e per quelle manifestazioni di stima, non cessò di esaltare con le dovute lodi presso i suoi concittadini Scipione, raccontando che era venuto un giovane somigliantissimo agli dei,3 ovunque vittorioso sia con le armi, sia con la benevolenza e coi benefici. Pertanto, avendo raccolto reclute fra i suoi clienti, pochi giorni dopo ritornò a Scipione con millequattrocento cavalieri scelti.4

In questi due episodi narrati da Livio5 troviamo alcuni elementi che meritano la nostra attenzione. Innanzi tutto, possiamo osservare come l’atteggiamento di Scipione – sul cui carattere di esemplarità non occorre soffermarsi – si presenti, fin dall’inizio del primo racconto liviano, improntato alla massima benevolenza nei confronti degli ostaggi e dei prigionieri. Anzi, a voler esser più precisi, sembra che il comandante romano enunci intenzionalmente dei principii generali ispiratori della politica e del codice di comportamento in cui il populus Romanus si riconosce. Infatti, come abbiamo visto, prima di tutto Scipione si rivolse agli ostaggi delle città della Hispania invitandoli a bonum animum habere perché essi erano venuti a trovarsi sotto la potestas del popolo romano, che preferiva legare a sé le persone con il beneficio piuttosto che con la paura (beneficio quam metu), e amava conciliarsi i popoli stranieri con la lealtà e con i vincoli d’alleanza (fide ac societate) piuttosto che tenerli assoggettati in un’umiliante servitù (tristi servitio). E, a questo proposito, vorrei ricordare l’affinità concettuale che si ha con testi quali Sallustio, Iug 102, 6, in cui Silla si rivolge a Bocco: «Il popolo romano, inoltre, fin dagli albori

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dell’impero, ha stimato più opportuno procurarsi degli amici piuttosto che dei servi ([…] melius visum amicos quam servos quaerere), ritenendo più sicuro esercitare la sua autorità su uomini condiscendenti che su gente costretta dalla forza». 6 Sembra dunque che in realtà Scipione volesse qui manifestare la propensione dei Romani per un modello di relazione positiva piuttosto che per il semplice esercizio del potere. A una tale natura del rapporto che i Romani intendono instaurare con gli avversari sembrano far chiaramente riferimento le parole che abbiamo appena riportato: si parla infatti di beneficia e di fides ac societas come dei vincoli più adatti a tenere legati ai Romani i vari popoli con cui costoro entrano in contatto nel loro progressivo espandersi. A questo punto, Scipione, dopo aver manifestato la propria benevolenza anche nei confronti dei prigionieri, ebbe subito occasione di dimostrare direttamente coi fatti la validità di quella sorta di dichiarazione programmatica che abbiamo visto. Si ha infatti l’episodio, prima riportato, nel quale la moglie di Mandonio, che si trovava in ostaggio presso i Romani, scongiurò Scipione di raccomandare impensius alle guardie curam cultumque feminarum. Ma il comandante fraintese il senso di questa richiesta, interpretandola come una richiesta di maggiori comodità, di un trattamento migliore sul piano materiale. Quando allora la anziana donna chiarì che le sue preoccupazioni erano invece rivolte a quello che ella definì il periculum iniuriae muliebris corso dalle giovani donne in ostaggio insieme a lei, Scipione le rispose rassicurandola che il proprio comportamento sarebbe stato comunque, anche senza le sue preghiere, quello che lei auspicava, perché per lui il rispetto, la tutela delle donne nella loro condizione costituiva un comportamento che faceva parte integrante del consolidato codice culturale romano, accettato e condiviso da lui personalmente come da tutti gli altri Romani (questo sembra infatti doversi intendere con la frase Meae populique Romani disciplinae causa facerem). Adesso la virtus dignitasque della matrona potrà solo far sì che Scipione si prenda cura con ancora maggior attenzione del rispetto che deve essere portato agli ostaggi: egli ordinerà a un uomo di spectata integritas di proteggerle verecunde ac modeste come spose e madri di ospiti.

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Scipione e Allucio Ora passiamo all’altra vicenda in cui è coinvolto Scipione, personaggio – è opportuno ricordarlo – noto per la sua propensione verso il gentil sesso:7 perciò, ancora più significativo e paradigmatico sarà apparso il suo comportamento. Abbiamo dunque visto che gli fu condotta una giovane vergine, tanto bella da attirare su di sé gli sguardi di tutti. Questo tratto, naturalmente, è ben evidenziato anche nel primo racconto, e sembra aver la funzione di mettere in luce la valenza di rinuncia a un’occasione che presenta le più grandi attrattive: ne risulteranno così nella maniera più efficace non solo il carattere di rinuncia consapevole ma anche la massima esemplarità di quel modo di agire. Dunque, Scipione fece chiamare i genitori e il fidanzato della ragazza, e si rivolse per primo a lui, dicendogli che, dal momento che egli ne aveva la facoltà, intendeva favorire il suo amore. Come abbiamo visto, lo informò poi con una certa solennità che la sua fidanzata era stata trattata presso di lui con lo stesso rispetto di cui avrebbe goduto presso i suoceri di Allucio, genitori della ragazza (Fuit sponsa tua apud me eadem qua apud soceros tuos parentesque suos verecundia: 50, 6), i quali, potremmo dire, erano i suoi naturali custodi, e proseguì affermando che ella gli era stata riserbata intatta perché potesse essergli consegnato un dono inviolato e degno di Scipione stesso e di Allucio (servata tibi est, ut inviolatum et dignum me teque dari tibi donum posset). Possiamo allora osservare che il rispetto di cui ha goduto la ragazza si configura come donum che Scipione intende fare ad Allucio: il quale, in quanto destinatario di tale beneficio, verrà ad avere nei confronti del generale romano un debito di gratitudine. Di ciò Scipione appare perfettamente consapevole, sa che l’altro vorrà sdebitarsi e infatti gli chiede un contraccambio: di essere amico del popolo romano (Hanc mercedem unam pro eo munere paciscor: amicus populo Romano sis). Questa richiesta (che è seguita da una sorta di interessante affermazione della affidabilità sia sua personale – in linea con quella dei suoi ascendenti – che collettiva dei Romani, e da una dichiarazione sulla opportunità dell’amicitia con il suo popolo) fa evidentemente riferimento a un modello di alleanza con i popoli stranieri come amicitia:8 e quindi Scipione esorta Allucio ad allearsi con i Romani.

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A questo punto il giovane afferrò la destra del comandante e invocò tutti gli dei perché ricambiassero essi il beneficio, al posto suo, poiché egli non aveva sufficiente possibilità di farlo in misura proporzionata ai suoi sentimenti e ai meriti di Scipione nei suoi confronti (Cum adulescens [...] dextram Scipionis tenens deos omnes invocaret ad gratiam illi pro se referendam, quoniam sibi nequaquam satis facultatis pro suo animo atque illius erga se merito esset [...]). Dunque Allucio ritiene, e riconosce pubblicamente, di aver ricevuto dal generale romano un beneficio di tale entità che non può essere contraccambiato adeguatamente: egli ha contratto con lui un debito per sua stessa ammissione non “saldabile”. Furono allora fatti venire i genitori e i parenti della ragazza: a loro (com’era ovvio, trattandosi di ragazza ancora non sposata) essa venne restituita, e senza il pagamento di alcun riscatto. A questo scopo essi avevano invece portato con sé una grande quantità di oro, e quando videro che la ragazza veniva loro consegnata gratuitamente cominciarono a pregare Scipione di accettarlo in dono (ut id ab se donum acciperet), affermando che non gli sarebbero stati meno riconoscenti per questo di quanto lo fossero per aver loro resa inviolata la virgo. Risulta quindi più che evidente la natura di beneficium di tale restituzione anche nei confronti dei parentes cognatique della ragazza. Anzi, per essere precisi, di doppio beneficio: infatti, appare chiaro dalle parole dei parenti della giovane che già un beneficio sarebbe stato comunque costituito dal fatto che la ragazza era stata riconsegnata intatta. Il fatto, poi, che fosse anche stata restituita gratuitamente andava ad aumentare il debito di gratitudine che essi si trovavano ad aver contratto con Scipione. Da qui presumibilmente dovette nascere il loro desiderio che costui accettasse in dono l’oro che essi avevano portato: evidentemente gli sarebbero stati grati se avesse loro consentito di attenuare l’ammontare di tale loro gravoso debito con un contraccambio almeno parziale. Scipione allora non si sottrasse all’insistente richiesta dei genitori della ragazza, trasformando però questo dono da parte loro in un ulteriore beneficio per il fidanzato. A lui infatti donò l’oro ricevuto, pregandolo di accettarlo come dotalia dona che sarebbero andati ad aggiungersi alla dote che avrebbe ricevuto dal suocero. Dunque, Scipione elargisce un doppio beneficio sia ai parenti della ragazza che ad Allucio: e costui non potrà fare a meno di manifesta-

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re al generale romano la propria riconoscenza, se pure inevitabilmente impari rispetto ai benefici ricevuti. Infatti, congedato e rimandato in patria, his laetus donis honoribusque, riempì i suoi concittadini delle meritate lodi di Scipione, laudibus meritis Scipionis: diceva che era venuto un giovane somigliantissimo agli dei, che vinceva sia con le armi sia con la benevolenza e i beneficii (cum armis, tum benignitate ac beneficiis). E, a questo punto, non avrebbe potuto non manifestare concretamente la sua gratitudine al generale, tornando da lui nel giro di pochi giorni con millequattrocento cavalieri scelti fra i suoi clientes. Dunque il cerchio si chiude: dalle parole iniziali di Scipione a quelle conclusive del beneficato Allucio, che sanciscono nel modo più efficace la veridicità di quanto Scipione aveva affermato all’inizio del brano liviano che abbiamo preso in esame. Rispetto delle donne e natura della relazione con il nemico Da questi racconti sembra dunque emergere l’idea dei Romani che possa realizzarsi, attraverso il rispetto delle donne del nemico, il passaggio da una situazione di ostilità a una di alleanza. Come infatti un donum crea una relazione positiva – una relazione che solitamente viene a configurarsi quale amicitia – tra i due individui coinvolti (chi ha donato e chi ha ricevuto) attraverso il debito di gratitudine che viene a crearsi e il dovere di contraccambiare, cui, come si sa, non si può sfuggire,9 così un donum (questo del resto è termine ricorrente nelle vicende narrate da Livio) da parte del vincitore pare avere il potere di trasformare una relazione negativa, di ostilità, in una positiva, di amicitia: come abbiamo già accennato, è in questi termini del resto che a Roma si configura il vincolo di alleanza. Dunque, Scipione sembra far riferimento a un modello di relazione con il nemico improntato non all’assoggettamento bensì a sentimento dei doveri di gratitudine che questi proverà nei confronti dei predominanti Romani, che hanno elargito beneficia, e cioè, in ultima analisi, alla condizione di debitore del nemico stesso e in particolare dei suoi capi. Il debitore non può sottrarsi alla necessità morale di contraccambiare, di restituire in qualche modo quanto ha ricevuto, e si trova così legato a doppio filo al suo benefattore, e dovrà ripagarlo mostrandogli la propria gratitudine con la fedeltà, l’alleanza.

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Nei due episodi liviani, il dono è costituito appunto dal rispetto delle donne, che costituisce un beneficium particolarmente importante, perché consente all’altro popolo di mantenere la propria identità, grazie alla corretta riproduzione dei gruppi familiari e quindi dell’intera comunità. Il valore di tutto ciò d’altra parte appare ancora più evidente nel caso di donne dei capi del popolo avversario. Sembra anzi che il comportamento verso le donne del nemico manifesti con particolare chiarezza le intenzioni che la parte più forte nutre riguardo alla natura della relazione che vuol stabilire con tale gruppo di uomini,10 come del resto sembra confermato dall’episodio delle Nonae Caprotinae, nella versione, per noi molto interessante, di Macrobio.11 Ma vediamo direttamente il suo racconto circa l’origine della festa delle schiave: […] Ma non credere che queste virtù esistano solo negli schiavi e non nelle schiave. Sta’ a sentire un fatto non meno memorabile di cui furono protagoniste delle schiave, e fu più utile allo stato di qualsiasi altro compiuto dalla nobiltà. Alle none di luglio si celebra la festa delle serve: lo sanno tutti, e non è affatto oscura l’origine e la causa di tale solennità. In quel giorno donne libere e schiave sacrificano sotto un fico selvatico a Giunone Caprotina in memoria della preziosa virtù nata nel cuore delle schiave a difesa della dignità dello stato. Dopo la presa di Roma, alla fine della sommossa dei Galli, la situazione della repubblica era estremamente critica: i popoli vicini, ritenendo giunto il momento di invadere il territorio romano, scelsero come loro capo Livio Postumio, dittatore di Fidene. Costui mandò messi al senato a chiedere che gli consegnassero le madri di famiglia e le vergini, se volevano salvaguardare i resti della loro città. I senatori esitavano a prendere una decisione: allora una schiava di nome Tutela o Filotide si impegnò ad andare dai nemici con le altre schiave fingendosi donna libera. Vestite quindi da madri di famiglia e da fanciulle, furono condotte ai nemici con un corteo di popolo piangente, a dimostrazione di dolore. Livio le distribuì per l’accampamento ed esse eccitarono gli uomini a bere moltissimo, dichiarando falsamente che quello per loro era giorno di festa. Quando quelli si furono addormentati, diedero ai Romani il segnale convenuto da un fico selvatico vicino all’accampamento. Essi con un improvviso attacco sopraffecero i nemici, ed il senato in segno di riconoscenza fece liberare tutte le schiave, diede loro una dote a spese dello stato e concesse loro di portare le vesti che avevano indossato in quel giorno. Inoltre denominò ufficialmente quel giorno None Caprotine, dal fico selvatico o caprifico da cui avevano ricevuto il segnale della vittoria, e stabilì che nella ricorrenza annuale si celebrasse un sacrificio in cui a ricordo del fatto si usa del lattice di fico selvatico. 12

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Per prima cosa, occorre notare come il fatto di cui furono protagoniste le schiave sia presentato come più utile allo stato di qualsiasi altro compiuto dalla nobiltà [...] nec quo utilius rei publicae in ulla nobilitate [...]), quella festa difatti si celebrava in ricordo della benigna virtus nata nell’animo delle schiave pro conservatione publicae dignitatis. Infatti gli ostili finitimi, approfittando di un momento per Roma di estrema debolezza per cogliere l’occasione invadendi Romani nominis, chiesero appunto ai Romani – se volevano che restasse in piedi quello che rimaneva della loro città – che fossero loro consegnate le matres familias [...] et virgines. Questa sorta di ultimatum chiaramente non faceva riferimento a una richiesta di ostaggi bensì, evidentemente, a una consegna incondizionata, per i piaceri dei richiedenti, come attestano l’uso del verbo dedere e la stessa reazione sgomenta dei Romani: sembra che essi vedessero nel comportamento dei finitimi l’intenzione di fare delle matrone e delle vergini – evidentemente tutte – quello che volevano, a loro discrezione. A questo punto possiamo fare una prima considerazione. Dalla richiesta dei finitimi emerge la precisa e decisa volontà di non rispettare il normale processo di ordinata e corretta riproduzione dei gruppi – e quindi anche del popolo nel suo insieme – che passa necessariamente attraverso l’essenziale strumento costituito dalle “donne per bene”. In altre parole, il privare della rispettabilità, della castitas, tutte le matrone e le vergini porterebbe inevitabilmente con sé come conseguenza, in qualche modo, l’annientamento dell’altro popolo nel suo complesso, insieme ai gruppi che lo compongono, in quanto gli si toglierebbe la facoltà di riprodursi in modo corretto, trasmettendo la propria identità nel tempo da una generazione all’altra. Risulta dunque evidente la portata, l’utilità dell’intervento delle ancillae – e in particolare di quella chiamata, non a caso, Tutela – che sostituendosi alle padrone salvano, per così dire, la loro pudicizia, e con essa, appunto, la publica dignitas. D’altra parte, ancora una volta non può esservi dubbio su quali fossero le reali intenzioni dei finitimi, dato che, delle schiave abbigliate da “donne per bene” e accompagnate da un corteo di popolo piangente ad fidem doloris, si dice che furono distribuite per l’accampamento (quae cum a Livio in castris distributae fuissent [...]). Ma, come abbiamo visto, la vicenda non si conclude qui: non ci si limita alla salvaguardia, alla protezione della castità di vergini e

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spose (che, consistendo per i Romani prevalentemente in un fatto fisico, poteva appunto essere compromessa irrimediabilmente anche da una violenza subita del tutto passivamente, diciamo da vittime, come ci insegna il mito di Lucrezia).13 Si ha infatti un ulteriore sviluppo: le ancelle riuscirono a far bere moltissimo i nemici e, quando questi si furono addormentati, fecero entrare i Romani nell’accampamento, e così i finitimi tanto ostili furono sopraffatti. Il modello di comportamento dei Romani nei confronti dei nemici Dunque, sembra proprio che si possa ricavare il modello di comportamento ideale per i Romani nel rapporto con i nemici (se non irriducibilmente ostili), che si basa su una relazione positiva, di societas. In altri termini, pare che i Romani ritengano che – in linea di principio – tra due popoli, neppure in caso di conflitto, di ostilità, sia opportuno che il più forte giunga all’annientamento del più debole. Cioè, in casi del genere, nei quali certo non si procede a una sorta di fusione paritaria tra i Romani e un altro popolo (come nel caso, assai diverso, della societas tra Romani e Sabini, successiva al ratto),14 si ha il rispetto della identità di esso e non un totale asservimento. Devono restare comunque due popoli, due soggetti, due identità diverse. Tale relazione positiva – anche se evidentemente dissimmetrica – è appunto concepita dai Romani come di fatto aperta dagli stessi beneficii da loro concessi. E proprio come beneficium, come dono – e dei più preziosi – fatto agli uomini appartenenti al gruppo dei nemici, si configura il rispetto delle loro donne, che consente la corretta prosecuzione del normale processo di riproduzione, cioè contemporaneamente di produzione di una discendenza da parte dei singoli gruppi e di continuazione del popolo nel suo insieme. Ed è infatti un beneficio di tal natura che, nei racconti “in positivo” di Livio, opera la trasformazione della relazione di ostilità in una relazione di societas. Quando invece, come avviene nel mito che spiega l’origine della festa delle Nonae Caprotinae, viene meno il rispetto nei confronti delle “donne per bene” di un altro gruppo di uomini (e in particolare, come qui, da parte di un intero gruppo di uomini nei confronti di tutte le “donne per bene” appartenenti all’altro), quando

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cioè si pretende di farne oggetto del proprio piacere, impedendo che esse svolgano il loro ruolo rispettivamente di ragazze destinate al matrimonio e di spose destinate alla corretta propagazione della stirpe del marito, si ha un comportamento che già di per sé costituisce un atto di estrema ostilità, un vero e proprio atto di guerra. Si ha soltanto un modo diverso di combattere, basato sull’uso di altre armi, ma equivalente, anzi forse ancor più capace di provocare l’annientamento dell’avversario. Dunque il chiedere – con intenzioni indubbie – tutte le “donne per bene” dei nemici costituisce solo un modo per eliminarli alternativo a quello dell’annientare materialmente la loro città e i suoi abitanti. Siamo quindi, in questo caso, di fronte a una concezione del conflitto come qualcosa di radicale, che deve portare alla eliminazione completa e definitiva dell’altro gruppo. Si tratta di una concezione opposta a quella che, come si è accennato, i Romani ritenevano la strategia migliore, nel caso ovviamente di nemici non “irriducibili” (superbi): non eliminarli in quanto soggetto in qualche misura indipendente, rispettando la loro “identità di gruppo”, facendone anzi degli amici,15 attraverso la concessione di beneficia. Per quanto riguarda il comportamento nei confronti dei nemici si potrebbe dunque parlare di una vera e propria “strategia dei beneficii” (e del resto è comune l’espressione beneficia populi Romani, come ad esempio, ancora una volta, nelle parole rivolte da Silla a Bocco in Sallustio, Iug. 102, 11: «Infine convinciti che il popolo romano non è mai stato superato in quanto a beneficii» (Postremo hoc in pectus tuom demitte numquam populum Romanum beneficiis victum esse […]); beneficii – tra cui in particolare, appunto, il rispetto delle donne – che sono visti come base sicura per rapporti con tali popoli ispirati a un modello di societas. Osservazioni conclusive Abbiamo dunque a che fare con due paradigmi di comportamento radicalmente opposti. Nel primo caso la parte più forte, nel corso delle ostilità, agisce in modo da trasformare la relazione negativa esistente in una positiva, orientata nella direzione dell’amicitia, attraverso la concessione del beneficio essenziale del

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rispetto delle donne. In questo modo, si è visto, si ha la sopravvivenza di entrambi i gruppi come entità almeno in certa misura autonome: non ci si propone l’annientamento degli uomini del gruppo più debole, il triste servitium di cui parla Livio. Nell’altro caso, invece, si parte da una situazione di ostilità in cui il popolo che in quella circostanza si trova a essere il più forte compie un vero e proprio atto di guerra, non rispettando le donne dell’altro gruppo: cioè, in altri termini, tentando di sottrarre il bene essenziale costituito dalla loro pudicizia. Tutto questo avviene perché il più forte intende sopraffare l’altro: mira ad asservirlo, a eliminarlo in quanto soggetto in qualche modo indipendente, non cercando certo una relazione di societas. A questo punto non potremo che rilevare come evidentemente agli occhi dei Romani dovesse risultare valido un modello di relazione nei confronti del nemico improntato alla volontà di societas, e non di pura sopraffazione. Del resto l’andamento stesso del mito delle Nonae Caprotinae narrato da Macrobio – con il suo finale (che rappresenta un vero e proprio rovesciamento della sorte) in cui i più forti si trasformano negli sconfitti in conseguenza del loro agire – mostra nel modo più efficace come per i Romani un modello “negativo” di relazione con il nemico dovesse risultare inaccettabile e portasse inesorabilmente al fallimento. E con altrettanta chiarezza risulta come tutto ciò potesse passare attraverso l’atteggiamento verso il corpo delle donne del nemico: il rispetto o meno del loro corpo e quindi della loro pudicitia pare esprimere in modo privilegiato la natura della relazione che il più forte intendeva instaurare.

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Note 1. Questo lavoro rappresenta il primo nucleo di uno studio più ampio. È superfluo sottolineare che quello che ci interessa qui è un discorso sui modelli culturali piuttosto che sulla più o meno diffusa pratica dello stupro ai danni delle donne del nemico, della quale sarà impossibile, naturalmente, negare l’esistenza nella realtà: ciò di cui ci occuperemo è la valenza attribuita a tali stupri. 2. Livio, 26, 49, 7-16 (la traduzione – con una piccola modifica – è di B. Ceva, in Tito Livio – Storia di Roma dalla sua fondazione, note di M. Scàndola, Milano, Rizzoli, 19965, vol. VI): «Ceterum, vocatis obsidibus primum universos bonum animum habere iussit: venisse enim eos in populi Romani potestatem, qui beneficio quam metu obligare homines malit exterasque gentes fide ac societate iunctas habere quam tristi subiectas servitio. Deinde acceptis nominibus civitatium recensuit captivos quot cuiusque populi essent, et nuntios domum misit ut ad suos quisque recipiendos veniret. Si quarum forte civitatium legati aderant, eis praesentibus suos restituit: ceterorum curam benigne tuendorum C. Flaminio quaestori attribuit. Inter haec e media turba obsidum mulier magno natu, Mandonii uxor, qui frater Indibilis Ilergetum reguli erat, flens ad pedes imperatoris procubuit obtestarique coepit ut curam cultumque feminarum impensius custodibus commendaret. Cum Scipio nihil defuturum iis profecto diceret, tum rursus mulier “Haud magni ista facimus” inquit; “quid enim huic fortunae non satis est? Alia me cura aetatem harum intuentem – nam ipsa iam extra periculum iniuriae muliebris sum – stimulat”. Et aetate et forma florentes circa eam Indibilis filiae erant aliaeque nobilitate pari, quae omnes eam pro parente colebant. Tum Scipio “Meae populique Romani disciplinae causa facerem” inquit, “ne quid quod sanctum usquam esset apud nos violaretur: nunc ut id curem impensius, vestra quoque virtus dignitasque facit quae ne in malis quidem oblitae decoris matronalis estis”. Spectatae deinde integritatis viro tradidit eas tuerique haud secus verecunde ac modeste quam hospitum coniuges ac matres iussit». In Livio, 27, 17, 9-17, si leggerà della decisione di Indibile e Mandonio di passare ai Romani, della restituzione a Indibile di moglie e figli e del patto stipulato il giorno successivo. 3. In generale, sulla raffigurazione superumana di Scipione, cfr. E. Gabba, P. Cornelio Scipione Africano e la leggenda, ora in Aspetti culturali dell’imperialismo romano, Firenze, Sansoni, 1993, pp. 113-131. 4. Livio, 26, 50 (in Tito Livio): «Captiva deinde a militibus adducitur ad eum adulta virgo, adeo eximia forma ut quacumque incedebat converteret omnium oculos. Scipio percontatus patriam parentesque, inter cetera accepit desponsam eam principi Celtiberorum; adulescenti Allucio nomen erat. Extemplo igitur parentibus sponsoque ab domo accitis cum interim audiret deperire eum sponsae amore, ubi primum venit, accuratiore eum sermone quam parentes adloquitur. “Iuvenis” inquit, “iuvenem appello, quo minor sit inter nos huius sermonis verecundia. Ego cum sponsa tua capta a militibus nostris ad me ducta esset audiremque tibi eam cordi esse, et forma faceret fidem, quia ipse, si frui liceret ludo aetatis, praesertim in recto et legitimo amore, et non res publica animum nostrum occupasset, veniam mihi dari sponsam impensius amanti vellem,

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tuo cuius possum amori faveo. Fuit sponsa tua apud me eadem qua apud soceros tuos parentesque suos verecundia; servata tibi est, ut inviolatum et dignum me teque dari tibi donum posset. Hanc mercedem unam pro eo munere paciscor: amicus populo Romano sis et, si me virum bonum credis esse quales patrem patruumque meum iam ante haegentes norant, scias multos nostri similes in civitate Romana esse, nec ullum in terris hodie populum dici posse quem minus tibi hostem tuisque esse velis aut amicum malis”. Cum adulescens, simul pudore et gaudio perfusus, dextram Scipionis tenens deos omnes invocaret ad gratiam illi pro se referendam, quoniam sibi nequaquam satis facultatis pro suo animo atque illius erga se merito esset, parentes inde cognatique virginis appellati; qui, quoniam gratis sibi redderetur virgo ad quam redimendam satis magnum attulissent auri pondus, orare Scipionem ut id ab se donum acciperet coeperunt, haud minorem eius rei apud se gratiam futuram esse adfirmantes quam redditae inviolatae foret virginis. Scipio quando tanto opere peterent accepturum se pollicitus, poni ante pedes iussit vocatoque ad se Allucio “Super dotem” inquit, “quam accepturus a socero es haec tibi a me dotalia dona accedent”; aurumque tollere ac sibi habere iussit. His laetus donis honoribusque dimissus domum, implevit populares laudibus meritis Scipionis: venisse dis simillimum iuvenem, vincentem omnia cum armis, tum benignitate ac beneficiis. Itaque dilectu clientium habito cum delectis mille et quadringentis equitibus intra paucos dies ad Scipionem revertit». 5. Essi sono già presenti in Polibio, 10, 18, 7 ss., ma con molte interessanti differenze, di cui non ho modo di occuparmi in questa sede. Su Polibio, combinato probabilmente con un altro autore, quale fonte di Livio per quanto riguarda l’episodio di Nova Carthago, cfr. Gabba, P. Cornelio Scipione, p. 119. Su questi episodi si veda comunque B.H. Liddell Hart, Scipione Africano, Milano, Rizzoli, 19992, pp. 41 ss. e passim. 6. La traduzione è di P. Frassinetti, in Sallustio – Opere e frammenti, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1963. 7. Ce ne informano autori quali Polibio (10, 19, 3) e Gellio (7, 8, 5 ss.). 8. Sulla amicitia come modello delle relazioni internazionali cfr. B. Paradisi, L’“amicitia” internazionale nella storia antica e L’“amicitia” internazionale nell’alto Medio Evo, ora in Civitas maxima. Studi di storia del diritto internazionale, Firenze, Olschki, 1974, vol. I, pp. 296-338 e 339-397. 9. Il dono di per sé crea tra il donatore e il ricevente che accetti il beneficio una relazione la quale, come hanno messo in luce gli studi succedutisi da Mauss in poi, fino ad alcuni recentissimi, trova in un terzo momento – costituito dal contraccambio – un’ulteriore tappa obbligata, la sua necessaria continuazione. Il dono cioè dà origine a un legame, perché, creando la necessità di ricambiare, costringe anche alla relazione. Il vincolo di gratitudine, la necessità di rispondere con un contro-dono a un dono ricevuto, costituisce il fondamento stesso di una tale relazione e la migliore garanzia di continuativa coesione tra le due parti, insomma della dilatazione nel tempo e della durevole positività di quella relazione: la gratitudine generata nel ricevente costituisce la migliore assicurazione di supporto, di fides, di lealtà. Per quanto riguarda la cultura romana, il vincolo e i doveri morali (appunto di gratitudine, di contraccambio), cui il beneficato non può di fatto sottrarsi, creati dalla concessione di un beneficium, sono illustrati molto lucidamente in numerosissimi passi, soprattutto di Cicerone e di Seneca, recentemente ripresi da Renata Raccanelli in un bel lavoro

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sulla nozione romana di amicitia (L’amicitia nelle commedie di Plauto, Bari, Edipuglia, 1998, in particolare pp. 22 ss.). Qui basterà ricordare Cicerone, Off., 1, 48: «Essendovi due specie di generosità, l’una del beneficiare, l’altra del ricambiare il beneficio, è in nostro potere il ricambiare o meno, ma all’uomo onesto non è lecito non ricambiare, purché lo possa fare osservando la giustizia. Occorre distinguere poi tra i benefici ricevuti, e non c’è dubbio che più siamo debitori verso i nostri maggiori benefattori» (Nam cum duo genera liberalitatis sint, unum dandi beneficii, alterum reddendi, demus necne in nostra potestate est, non reddere viro bono non licet, modo id facere possit sine iniuria. Acceptorum autem beneficiorum sunt dilectus habendi, nec dubium quin maximo cuique plurimum debeatur); la traduzione è di L. Ferrero, in Opere politiche e filosofiche di M. Tullio Cicerone, a cura di L. Ferrero, Nevio Zorzetti, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 19742, vol. I. Inoltre Seneca, Ben., 3, 1, 1: «Non contraccambiare il beneficio con la dovuta riconoscenza è cosa vergognosa e tale è ritenuta da tutti [...]» (Non referre beneficiis gratiam et est turpe et apud omnes habetur […]); e ancora, ivi, 5, 11, 5, e 6, 41, 2: «Un beneficio è un atto che ha incidenze sociali: crea un rapporto di amicizia, un obbligo[…]» (beneficium dare socialis res est, aliquem conciliat, aliquem obligat); «[...] un beneficio è un vincolo comune che lega tra di loro due persone» ([...] beneficium commune vinculum est et inter se duos alligat); le traduzioni del testo senecano sono di S. Guglielmino, in Lucio Anneo Seneca – I benefici, testo lat., introduzione, versione e note di S. Guglielmino, Zanichelli, Bologna, 1991. E vorrei ricordare, infine, la battuta malevola ma efficace di Publilio Siro (48): «accettare un beneficio significa vendere la libertà» (beneficium accipere libertatem est vendere). 10. Sul nesso tra dono e relazione, cfr. da ultimo Raccanelli, L’amicitia, pp. 65 ss. e passim. 11. Essa è abbastanza diversa da altre, quali quelle narrate in varie opere da Plutarco. Non abbiamo qui modo di soffermarci su tali differenze, né su numerosi aspetti di questa complessa vicenda molto interessanti e, a mio avviso, ancora problematici nonostante siano stati analizzati, in prospettive diverse, da studiosi di varie discipline. Ci limiteremo qui a prendere in esame quello che sembra comunque un significato risultante dall’articolazione stessa del racconto (in particolare per quanto riguarda il mito vero e proprio piuttosto che il rito a esso collegato): in altre parole, ci occuperemo di ciò che questo racconto sembra di fatto voler raccontare. 12. Macrobio, Sat. 1, 11, 35 ss. (la traduzione è di N. Marinone, in I Saturnali di Macrobio Teodosio, a cura di N. Marinone, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1967): «[…] Ac ne in solo virili sexu aestimes inter servos extitisse virtutes, accipe ancillarum factum non minus memorabile nec quo utilius rei publicae in ulla nobilitate repperias. Nonis Iuliis diem festum esse ancillarum tam vulgo notum est ut nec origo nec causa celebritatis ignota sit. Iunoni enim Caprotinae die illo liberae pariter ancillaeque sacrificant sub arbore caprifico in memoriam benignae virtutis, quae in ancillarum animis pro conservatione publicae dignitatis apparuit. Nam post urbem captam cum sedatus esset Gallicus motus, res publica vero esset ad tenue deducta, finitimi opportunitatem invadendi Romani nominis aucupati praefecerunt sibi Postumium Livium Fidenatium dictatorem, qui mandatis ad senatum missis postulavit ut, si vellent reliquias suae civitatis manere, matres familias sibi et virgines dederentur;

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cumque patres essent in ancipiti deliberatione suspensi, ancilla nomine Tutela seu Philotis pollicita est se cum ceteris ancillis sub nomine dominarum ad hostes ituram, habituque matrum familias et virginum sumpto hostibus cum prosequentium lacrimis ad fidem doloris ingestae sunt. Quae cum a Livio in castris distributae fuissent, viros plurimo vino provocaverunt, diem festum apud se esse simulantes. Quibus soporatis ex arbore caprifico quae castris erat proxima, signum Romanis dederunt. Qui cum repentina incursione superassent, memor beneficii senatus omnes ancillas manu iussit emitti, dotemque eis ex publico fecit et ornatum quo tunc erant usae, gestare concessit, diemque ipsum Nonas Caprotinas nuncupavit ab illa caprifico, ex qua signum victoriae ceperunt, sacrificiumque statuit annua sollemnitate celebrandum, cui lac, quod ex caprifico manat, propter memoriam facti praecedentis adhibetur». 13. Cfr. L. Beltrami, Il sangue degli antenati. Stirpe, adulterio e figli senza padre nella cultura romana, Bari, Edipuglia, 1998, pp. 57 ss. 14. Del resto, tutta la vicenda che vede protagoniste le Sabine è radicalmente diversa. Infatti, i due gruppi in questione non sono nemici: i Sabini, semplicemente, sono un gruppo che si rifiuta alla relazione con i Romani (rispetto ai quali vuole restare estraneo), relazione che si avvierebbe attraverso la concessione delle donne. Anche il gesto dei Romani si configura sì come ratto, ma non come stupro: anzi, alcune fonti insistono sul carattere di regolare matrimonio proprio dell’unione con le Sabine (cfr. L. Beltrami, L’ ‘impudicizia’ di Tarpeia: trasgressioni e regole del comportamento femminile a Roma, Pisa, tesi di dott., 1989, pp. 153 ss.). 15. Si ricordi anche la frequenza dell’espressione socii et amici populi Romani.

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Maschile vs femminile: codice di genere e violenza. Una metafora politica e poetica Sulla scena del teatro elisabettiano, l’Edoardo II allestisce lo spettacolo d’una storia di sovranità: la vicenda del trapasso sconcertante e violento dal regno di Edoardo II a quello del suo giovane figlio Edoardo III. L’opzione di Marlowe è già parlante attraverso ciò che della memoria storico-romanzesca seleziona, reinventa e infine rappresenta: il destino di un re reso folle dall’eros per il favorito Gaveston, di un re schiacciato, a causa di questa passione, dal contrasto con la regina, con la gerarchia aristocratica ed ecclesiastica, di un re cui viene inflitto, dopo la forzata abdicazione tramata dalla consorte Isabella e dal pari Mortimer, il supplizio di uno stupro mortale. Se l’oggetto narrativo dell’Edoardo II è infatti il politico – la sovranità e le sue sorti – l’analisi del politico svolta nel corso del dramma si struttura sulla violenza sessuata/sessuale e sulle dinamiche violente dell’assetto di genere (maschile vs. femminile) che lo stupro implica, evoca e al contempo rivela. Lo stupro, consumato con uno spiedo rovente nell’ano e nei visceri di Edoardo dal boia Lightborn, presentifica sulla scena, senza giochi di silenzio, il ventre offeso della vittima e il fallo uccisore del carnefice reificato nell’asta incandescente. Voglio segnalare a questo proposito un fraintendimento che ritengo abbia pesantemente fuorviato la critica impegnata nell’interpretazione di Edoardo II: la lettura della violenza sommini-

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strata ad Edoardo come punizione della sua inclinazione e dei suoi atti omosessuali.1 Lo stupro tematizza non l’omosessualità, ma l’oppressione perpetrata da un genere, il maschile, contro l’altro, il femminile, distribuendo natura e ruolo maschile al carnefice e femminile alla vittima. Il corpo del sovrano viene ri-sessuato al femminile dallo stupro e ri-descritto come ventre da violare.2 Ma il codice di genere, che giunge a conseguenze estreme nello stupro di Edoardo, orienta la costruzione dei personaggi e l’azione dell’opera nel suo complesso. In prima istanza il genere bipartisce lo spazio semantico e concettuale della tragedia in due aree simboliche marcate da una forte stereotipia segnica. Il maschile è rappresentato dalla funzione guerriera e sacerdotale incarnate rispettivamente dai pari Warwik, Lancaster, Pembroke, Leicester, capeggiati dal giovane Mortimer, che sostengono l’ideologia del rango, e dai vescovi Coventry, Canterbury, Winchester, che inalberano i vessilli dell’ideologia cattolica romana (papale). La sovranità e il suo corteggio satellitare sono, di contro, interamente informati al femminile: il re, la regina Isabella, i favoriti Gaveston e Spencer il giovane. La sfera della regalità si presenta infatti esplicitamente come dominio dell’eros, del letto coniugale, dell’arte, della generazione e della corporalità. Gli schieramenti sono contrapposti e attori di un conflitto tra autorità ideologica (maschile) e autorevolezza carismatica (femminile). Ai margini del conflitto, ma cruciali per la sua risoluzione, stanno due figure, l’una, che realizza la profanazione ultima della dignità regale, Lightborn, l’altra che la riconsacra, il giovane Edoardo III, due figure liminari cui è affidato il compito di fissare gli estremi della storia, la morte/spoliazione e la (ri)nascita/investitura. Attraverso il codice di genere Marlowe crea un linguaggio e un immaginario che veicolano una puntuale anatomia del potere.3 Edoardo, come una femmina: il ventre del re. Dal politico al mito. Sullo sfondo della riflessione politico-giuridica, nota come la teoria dei “due corpi”, quello temporale e quello divino, risorta attorno alla sovranità proprio nell’età tudoriana, la figura di Edoardo II risulta tanto più sconvolgente.4 Del monarca, il teatro di Marlowe

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ci presenta il solo corpo individuale e naturale, che ha perduto o non ha (non ha mai avuto) un doppio sovrannaturale e ideologico. Per tutta la durata del dramma, il corpo di re Edoardo II non agisce come sostanza impersonale e sovratemporale preposta alle funzioni di governo, all’amministrazione della giustizia, alla difesa della terra. Edoardo opera unicamente per l’eros e nell’eros. Non bisogna tuttavia fraintendere il significato di questo eros: la passione del re non è impulso. L’eros del re è, al contrario, metafora di quel potere di elezione che è sovrano proprio perché non si esprime e non si esplica (soltanto) entro i limiti delle configurazioni ideologiche, ma sa porsi come obiettivo i soggetti, gli individui, prima e al di là del diritto e della gerarchia.5 Attraverso l’eros del re Marlowe intende procedere senza compromessi al pieno disvelamento di quel principio di soggettività che l’immagine dei due corpi occultava sapientemente nelle pieghe delle proprie complesse astrazioni dualistiche. Marlowe gioca la demistificazione fino in fondo: fino ad intaccare alle radici lessico, repertorio retorico e immaginario della finzione politico-giuridica eretta a scudo della maestà. L’autore riconverte sulla scena, attraverso Edoardo, le metafore del “corpo del re” e del re corporation sole, ideologemi della sovranità come corpo rappresentativo e universale, riguadagnandone la materia fisiologica e organologica. Con Edoardo infatti si ritorna dall’impersonalità del/i “corpo/i del re” alla soggettività del “re corpo” fatto di sesso e desiderio: con Edoardo la regalità si naturalizza dapprima come sostanza emotiva, come passione per un individuo (Gaveston) e quindi si somatizza completamente sino allo scandalo della cavità, dell’interiore, dei visceri sessuali, del ventre evocati dallo stupro, fino allo scandalo della (ri)sessuazione al femminile che la violenza fallica induce. Il teatro di Marlowe sottrae la sovranità al politico per donarla all’universo pre-politico del mito. Quelle istanze fondamentali che il politico rende fruibili per la comunità – il soggetto, l’eros, il genere, il corpo – vivono d’incontrastata potenza, in tutta la loro archetipicità, nel personaggio di Edoardo. Di più: si può dire che Marlowe induca a riconoscere nel re un personaggio mitico il cui libero arbitrio, l’eros, e la cui individualità, il corpo, vengono a costituire il luogo di nascita rimosso della politica.6

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Gaveston/Spencer, la bagascia: l’artista e il cortigiano «Bagascia greca» (II, v, 15), inveisce Lancaster contro Gaveston ridotto in ceppi. L’insulto, che richiama alla memoria Elena di Troia, esprime il profondo convincimento di tutti i pari: Gaveston è la puttana del re, è la femmina spregevole che mercanteggia il proprio corpo, la femmina profanata e profanatrice che semina discordie e attizza bassi istinti scompigliando l’ordine del mondo maschile. L’offesa, che degrada il maschile a un femminile sordido e spregevole, va riportata a un preciso codice d’onore. I pari definiscono bagascia chi viola l’assetto strutturato di vincoli e privilegi imposti dal rango per instaurare rapporti diretti, da soggetto a soggetto, con la fonte del potere. Bagascia, ingiuria scagliata contro Gaveston una sola volta, prima della sua esecuzione, a tragedia avanzata, a bollare la definitiva sparizione del favorito dalla scena, è il significato profondo dell’altra offesa ripetutamente pronunciata dai pari contro l’amato di Edoardo: «volgare villano». Il nobile Gaveston non è villano perché di umile condizione: è villano perché contro la sua stessa classe sociale si affilia al potere personalmente, commerciando se stesso “come una bagascia” con manifesto disprezzo per le logiche corporative. L’odio dei pari è tanto più forte perché Gaveston non è l’inutile parassita che i baroni e i conti dicono, né un semplice e passeggero amante. Gaveston è infatti titolare di un grande potere in virtù del quale egli sa e può confrontarsi senza mediazioni con il sovrano: il potere di animare la mente del re con storie, racconti, allestimenti e travestimenti scenici. Gaveston è, in altre parole, l’artista di corte. Ci sono precisi segnali testuali che conducono a questa deduzione. Al suo primo apparire, Gaveston si presenta infatti come plasmatore, se non demiurgo, dell’immaginazione e della fantasia del re, come signore di un manipolo di «poeti sensuali, ingegni piacevoli, musicisti» che possono manovrare il «docile sovrano»; si propone come somministratore di «maschere italiane, dolci discorsi, commedie, e spettacoli incantevoli», come inventore di rappresentazioni quali il masque di Diana e Atteone messo in scena da ragazzi e uomini in abiti femminili (I, 1, 4971). Il giovane Mortimer, per parte sua, definisce Gaveston «Proteo, dio delle forme» (I, 4, 410), imprimendo il sigillo della

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finzione e della creazione illusionistica dell’arte sul ritratto che il favorito ha già offerto di sé alla sua uscita in palcoscenico. Gaveston e l’arte hanno un doppio, una compagna di mestiere, Spencer e la cortigianeria. Spencer, su cui ricadono i favori del re non appena Gaveston viene eliminato dai pari (III, 1, 49-55, 143-147), incarna l’altra figura in cui si palesa il criterio dell’affiliazione personalistica. Il cortigiano, modello del politico «fiero, ardito, faceto, risoluto» capace di «mettere mano al pugnale di tanto in tanto, se l’occasione lo richiede» (II, 1, 42-43), prototipo del manipolatore al contempo consigliere, spia, agente segreto, ambasciatore, killer, manovratore occulto delle pubbliche decisioni, è il fratello gemello dell’artista, in quanto artista della politica.7 Attraverso Gaveston e Spencer, favoriti/amanti del re, Marlowe affermava che l’arte e la politica segreta dell’uomo di corte risiedevano nel letto, a contatto diretto con il corpo del carisma regale: le affermazioni di Gaveston «Fossi io il re» (I, 4, 26) e di Spencer «Fossi io re Edoardo» (III, 1, 10), non sono la confessione di un cieco desiderio di potere, ma costituiscono, al contrario, una potente affermazione del rapporto di convivenza e, ancor più, di identità speculare che vige tra la sovranità, da un lato, e l’arte/cortigianeria dall’altro.8 Se dalla vicenda che si svolge nel palazzo di Edoardo rivolgiamo la nostra attenzione al contesto storico della corte elisabettiana in cui l’autore vive la propria esperienza di letterato e di “agente” al servizio della corona, non riuscirà difficile vedere nel personaggio Gaveston/ Spencer la proiezione di Marlowe e del suo rapporto di protettorato/ scambio con la sovranità.9 Mortimer, il soldato: maschio, tiranno, omosessuale Mortimer riassume in sé la metà maschile dell’universo drammatico di Edoardo II. Classista, Mortimer disprezza tutto quello che non appartiene alla propria corporazione. Sessista, Mortimer disprezza tutto quello che non ha il suo stesso sesso: è il nemico giurato del re/ femmina e del suo corteggio di puttane; tratta la regina Isabella, che pensa di dominare completamente, come un essere infantile, dipendente e incapace di autonomia intellettuale. Autoritario, poiché incapace di autorevolezza, Mortimer non tollera l’emergere dei soggetti

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aldilà delle fazioni. Guerriero e alleato della chiesa, Mortimer è un oggetto ideologico, un prodotto dell’istituzione al servizio della spada e della croce, del privilegio di casta, nobiliare ed ecclesiastico. E tuttavia Marlowe non concede all’ideologia e all’autorità il privilegio della purezza. In un dialogo tra Mortimer e il suo vecchio zio a proposito di Gaveston, Marlowe decostruisce il supermaschio guerriero additandolo come capolavoro di falsa coscienza. In camera charitatis, Mortimer confessa allo zio di non essere tanto preoccupato dall’attitudine erotica del re, quanto dalla relazione personale che lega Gaveston al re e dal modo di comportarsi del favorito. Marlowe smaschera la gelosia e la pulsione alla rivalità mimetica di Mortimer nei confronti di Gaveston rappresentando l’invidia del nobile soldato per gli abiti del conte seduttore, per gli abiti della puttana: dà spettacolo con le sue fantastiche e pretenziose livree […] non ho mai visto un pacchiano rifatto così azzimato. Si mette quella mantellina corta all’italiana, incrostata di perle, e sul suo cappello toscano, un gioiello più prezioso della corona. Lui e il re […] deridono il nostro seguito e si prendono gioco dei nostri vestiti (I, 4, 401-418).

L’invidia di Mortimer per il corpo ornato, truccato si direbbe, della puttana, contiene in realtà l’ammissione di un’altra e ulteriore invidia: quella dell’amore del re, dell’amore di un re che il guerriero vorrebbe maschio, alleato cioè dei pari e della Chiesa, e dominatore (II, 2, 173-175). Attraverso ciò che egli stesso considera un femminile degradato, la puttana, Mortimer è costretto a guardare in faccia il proprio omoerotismo ideologico: la propria fascinazione per il suo stesso genere/casta da un lato e il proprio non corrisposto desiderio per il capo, dall’altro. L’eros del re è infatti l’opposto di ciò che Mortimer pensa essere l’eros: l’eros del re è il reame dell’alterità assoluta – la fantasia, il sogno, la maschera, l’invenzione, la trasformazione, il racconto; l’eros di Mortimer è il dominio dell’identità – la spada, la mano, il cuore. La frustrata “omosessualità politica” di Mortimer10 è un graffiante sbugiardamento dell’invidia della gerarchia per l’arte e per il (la) suo (a) segreto (a) potere (politica). Lo scandalo delle vesti che ricoprono l’arte femmina e puttana sta in primo luogo negli occhi di Mortimer e dei suoi camerati.

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Edoardo, come una madre. Lo stupro: violenza o rituale di rigenerazione? Nell’atto finale, Edoardo è rinchiuso nel pozzo immondo, nella fogna del castello. La caduta nella voragine oscura e fetida di escrementi annuncia la discesa nel ventre di Edoardo che la violenza compirà. Tutte le altre figure che hanno attorniato Edoardo per combatterlo o per amarlo sono svanite: il tempo del conflitto e dell’eros è scaduto. Si apre il tempo della morte e della generazione.11 Come in una trinità, accanto ad Edoardo campeggiano ora due personaggi, Lightborn e il principe, forse più che personaggi proiezioni fantasmatiche della morte, Lightborn, e della generazione, il principe. La sconcertante prossimità tra morte e generazione è raggiunta da Marlowe attraverso una precisa economia dello stupro assassinante. Colpire a morte nel sesso, nei visceri sessuali, nel ventre della sovranità, significa uccidere il re nella sua soggettività, nel suo arbitrio, nel suo personale potere di elezione e nella sua capacità di trasmettere il carisma regale. Lightborn, il boia, l’assassino che perpetra il delitto nella più totale segretezza e invisibilità senza lasciare tracce sul corpo di Edoardo, pare in realtà uno spettro sorto dall’inconscio di Mortimer e del suo mondo ideologico che odiano il re femmina, fecondo di potere erotico (elettivo) e gravido di potenza generativa (carismatica). Il carnefice stupratore, inviato da Mortimer, che non conosce il metodo prescelto da Lightborn né lo vuole sapere, è la materializzazione del desiderio più profondo del soldato tiranno e dei suoi compagni: impossessarsi della dignità regale, se non come amanti, come violentatori e cannibali del ventre nel quale risiede il tesoro della sovranità: lo stupro commesso da Lightborn è in realtà il pensiero dominante di Mortimer.12 Lo stupro ha però un esito insospettato: quello di generare, di rimettere al mondo un altro re.13 Lo stupro struttura infatti l’identità e la soggettività del principe, il giovane Edoardo: è nello stupro che il principe si riconosce alla fine figlio e successore. Per l’intero corso dell’azione scenica, la mente del principe, schiacciata dal conflitto che lacera la stirpe regale, si divide tra il re suo padre e la regina sua madre alla ricerca di un amore e di un’autorevolezza che non riesce a trovare: il re è compreso nell’amore per la parte favorita della pro-

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pria corte e la regina nell’amore mai ricambiato per il re. In una stessa breve scena il principe dichiara la frustrante schisi in cui si dibatte sostenendo, contemporaneamente, ora la parte paterna ora quella materna in dissidio tra loro: «Signora, ritorniamo in Inghilterra, seguiamo la volontà di mio padre […] vi assicuro che farò presto a convincere sua altezza: mi ama più di mille Spencer» (IV, 2, 3-7),14 quindi dopo poche battute: «Se piace alla regina, mia madre, piace anche a me. Né il re d’Inghilterra, né la corte di Francia mi separeranno dal fianco della mia graziosa madre, fino a quando non sarò abbastanza forte […] da colpire alla testa l’insolentissimo Spencer» (IV, 2, 2125). Il principe non sa di chi è figlio, non sa di chi essere figlio, non sa quali siano, di chi siano l’eros e il ventre che lo hanno voluto e generato.15 Rifiuta la corona che la madre e Mortimer gli mettono sul capo ancora vivo il padre.16 Ma quando lo stupro addita nel corpo del re l’unico possibile ventre, l’unico possibile eros, l’unico possibile corpo materno, l’unico corpo in cui risiede la sovranità, Edoardo si riconosce figlio e successore;17 il principe, divenuto ormai Edoardo III, irrompe sulla scena a vendicare il padre punendo i colpevoli e consacrandosi erede del carisma regale: «In me il mio amato padre parla» (V, 6, 40). Queste ultime parole del giovane Edoardo non sono tuttavia pronunciate, a nostro avviso, in difesa del diritto del padre, ma in difesa del (proprio) diritto alla sovranità: in difesa di quel corpo simbolico in cui le due domande fondamentali del principio di legittimità “qual è il ventre che mi ha generato” e “qual è la fonte della mia autorità” possono finalmente convivere.18

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Note 1. Per la bibliografia sul tema rimandiamo a R. Camerlingo, Menzogna teologica e verità poetica: la politica del sacro nel teatro di Christopher Marlowe. Introduzione a Ch. Marlowe, Edoardo II, Venezia, Marsilio, 1998, p. 39, n. 13, edizione da cui abbiamo tratto tutte le traduzioni a seguire. È da considerarsi un’eccezione, in questo filone critico, l’interpretazione del testo marlowiano offerta da Derek Jarman. Nel film del cineasta inglese (cfr. Edward II, Gran Bretagna, 1991) la rappresentazione parodica del “re gay” impiega il sesso e il genere come codice di lettura dei rapporti tra soggettività (l’individuo) e potere (l’ideologia). Si veda l’interpretazione di L. Malavasi, Derek Jarman: la storia in prima persona. Riflessioni sulla soggettività nel linguaggio cinematografico, tesi di laurea, Università di Pavia, 1999, analisi che ci è stata di non poco suggerimento all’atto di rivedere in chiave puramente metaforica il tema genere/i, sesso/i, omosessualità nell’Edoardo II jarmaniano/marlowiano. 2. Scrive Hans Mayer: «Evidentemente in questa costellazione erotica re Edoardo è il partner femminile. La maniera oscena in cui perisce lo mostra con un’evidenza quasi eccessiva», cfr. H. Mayer, I diversi, Milano, Garzanti, 1992, p. 180. 3. Sul codice di genere traslato delle dinamiche di potere e proiezione della dialettica del dominio è tuttora insuperato il libro di K. Millet, La politica del sesso, Milano, Rizzoli, 1971. Sull’uso politico del corpo (femminile nel mondo maschile) è imprescindibile la lettura di L. Irigaray, Questo sesso che non è un sesso, Milano, Feltrinelli, 1990, in particolare il capitolo Il mercato delle donne, pp. 141-158. Non v’è da stupirsi, del resto, se Marlowe gioca così fortemente sullo scambio tra maschile e femminile e sulla polarizzazione politico-ideologica del/dei genere/i (operazione che l’autore condivide largamente, tra l’altro, con Shakespeare). Il centro vitale della teologia regale elisabettiana è costituito dal corpo femminile della regina, corpo rigenerato nel segno di una verginità simbolica che rappresenta e al contempo riconfigura sotto le proprie insegne la circolazione sociale e le relazioni politiche del mondo maschile. Su Elisabetta Vergine Imperiale è fondamentale F.A. Yates, Astrea. L’idea di impero nel Cinquecento, Torino, Einaudi, 1978, in particolare pp. 39-104. Va inoltre rilevato che nella tradizione della teologia politica occidentale il corpo del re è rappresentato come ermafrodito (e vergine) attraverso il simbolo della mitica Fenice: il genere/sesso del re è un super-genere/sesso in cui convivono maschile e femminile. Si veda per questo aspetto E.H. Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea della regalità nella teologia politica medievale, Torino, Einaudi, 1989, pp. 331-344 e relative note. 4. Il riferimento fondamentale è a Kantorowicz, I due corpi del re. 5. L’eros di Edoardo per Gaveston si esprime infatti, nell’intero corso del dramma, come forza che rivoluziona gli assetti del rango e della dignità all’interno della corte: in altri termini, l’amore del sovrano non è che una metafora della prerogativa regale di generare rango e dignità. I pari desidererebbero che questo “amore” fosse collettivo, egalitario, sistematico, tradizionalista e acritico, che, cioè, si rivolgesse esclusivamente alla loro comunità guerriera senza riserve, né eccezioni, né, soprattutto, mutamenti preferenziali. René Girard parlerebbe, in questo caso, di “teatro dell’invidia”, di teatro dell’emulazione e della rivalità mimetiche, cfr. R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Milano, Adelphi, 1998. La redistribuzione del rango indotta dalla passione del re per Gaveston è tema ossessivo nella tragedia:

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EDOARDO: Io ti nomino Gran Ciambellano Primo Segretario di Stato e mio Conte di Cornovaglia, Re e Signore dell’isola di Man […] E se per questi titoli sarai invidiato te ne darò di più; perché solo per onorare te a Edoardo piace l’autorità regale. Temi per la tua persona? Avrai un corpo di guardia. Hai bisogno di oro? Attingi al mio tesoro. Vuoi essere amato e temuto? Prendi il mio sigillo. Risparmia o condanna, e in nome mio comanda qualsiasi cosa ti venga in mente o piaccia alla tua fantasia. GAVESTON: Mi basterà godere del tuo amore, e fin quando lo avrò mi riterrò grande (I, 1, 153-172). Dice poi Edoardo ai suoi pari: «[Gaveston] È il mio amante, fosse anche un contadino / il più superbo di voi dovrà inchinarsi dinnanzi a lui» (I, 4, 30-31). Il re ridistribuisce poi onori ai suoi pari, innalzandone il grado, per convincerli a non bandire Gaveston dal regno: (A Canterbury) Mio signore vi nomino Cancelliere del regno, Tu, Lancaster, primo Ammiraglio della nostra flotta. Il giovane Mortimer e suo zio saranno conti, e tu Lord Warwik, presidente del Nord, (a Pembroke) e tu del Galles (I, 4, 64-69). E così ancora Edoardo, quando manifesta ai pari la propria soddisfazione per aver essi richiamato Gaveston dall’esilio, riconfigura nuovamente l’assetto delle prerogative gentilizie: Warwik è fatto primo consigliere, Pembroke portatore della spada di stato, il giovane Mortimer comandante della flotta reale o, a sua discrezione, Lord Maresciallo del regno, il vecchio Mortimer generale delle truppe reali nella campagna contro gli scozzesi (cfr. I, 4, 344-362). Il terrore dei pari è, d’altra parte, quello di essere «superati nel rango» da Gaveston, come dice il giovane Mortimer in I, 4, 19-20. Il re provoca i pari che si oppongono al suo amore per Gaveston incitandoli sarcasticamente a spartirsi il trono: Dividete questa monarchia in molti regni e ripartiteveli equamente fra di voi; lasciatemi solo una nicchia in un angolo dove possa trastullarmi con il mio caro Gaveston (I, 4, 70-73). Quando Spencer prende il posto dello scomparso Gaveston accanto a Edoardo, il conflitto sul rango si riattiva con virulenza, scatenando ancora una volta l’odio dei pari: EDOARDO: Spencer, dolce Spencer, io ti adotto; e semplicemente per amore ti creiamo Conte di Gloucester e Lord Ciambellano,

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a dispetto dei tempi, a dispetto dei nemici» (III, 1, 144-147). Si veda anche III, 1, 49-55 – EDOARDO: Spencer, qui ti nomino Conte del Wilthshire, e ti arricchirò ogni giorno del nostro favore che, come la luce del sole, si rifletterà su di te. 6. Il re vive nel mito prima e al di là della politica. Si può vedere con grande profitto il libro di Yves M. Bercé, Il re nascosto. Miti politici popolari nell’Europa moderna, Torino, Einaudi, 1996, che dimostra questo assunto attraverso un amplissimo materiale documentario. 7. E.H. Kantorowicz, in un celebre saggio dal titolo parlante, La sovranità dell’artista. Mito e immagine tra Medioevo e Rinascimento, Venezia, Marsilio, 1995, pp. 17-38, ha descritto il processo del trapasso di insegne, simboli e rappresentazioni della regalità alla figura dell’artista in quanto intelletto creatore, un processo che, a partire dalle trasformazioni tardomedievali delle teorie politico-giuridiche, conobbe il proprio apogeo nel Rinascimento con l’affermarsi della cultura cortigiana: «Osserviamo ancora una volta che una prerogativa giuridica spettante ex officio ai regnanti è stata trasferita ai veri sovrani del Rinascimento, i poeti e gli artisti, che governano ex ingenio» (ivi, p. 37). L’arte è dunque consanguinea della regalità: l’una e l’altra vivono d’un rapporto di rispecchiamento reciproco. Allo stesso modo la politica di corte, quella che si è soliti chiamare “cortigianeria”, è rappresentabile come una forma di inventività artistica che opera demiurgicamente al di sopra delle e spesso nonostante le configurazioni ideologiche e il sistema di potere modificandoli e/o sovvertendoli. 8. D’altra parte re Edoardo definisce Gaveston “un altro se stesso”: «Gaveston! Benvenuto! Non mi baciare la mano; / […] Non sai chi sono? / Il tuo amico, te stesso, un altro Gaveston!» (cfr. I, 1, 139-142). 9. Viene altresì alla mente la figura di un artista/politico come Giordano Bruno, che operò alla corte di Francia e d’Inghilterra in veste di letterato, filosofo e interlocutore di Enrico III e di Elisabetta. Che le idee politiche di Giordano Bruno abbiano esercitato una cospicua influenza su Marlowe è un fatto; cfr. le osservazioni di R. Camerlingo, Teatro e teologia: Marlowe, Bruno e i puritani, Napoli, Liguori, 1999. Il rapporto tra Bruno e Edoardo II appare stringente qualora si interpreti il dominio erotico che Gaveston esercita sul sovrano come un riferimento alla cosiddetta “magia erotica” del De vinculis in genere. Abbiamo già ricordato che Gaveston si autoritrae come regista della fantasia del re: a Edoardo interessano soltanto gli spettacoli, le storie, il teatro di cui Gaveston è l’indiscusso signore. Ora, il mago bruniano opera sulla “fantasia” (il termine è tecnico) individuale o collettiva manipolandone le immagini, più propriamente, i fantasmi, nell’intento di controllare la vita psichica del soggetto e della comunità. Gaveston afferma non a caso che il suo obiettivo è quello di «condurre il docile re dove vuole» (I, 1, 50 ss.), attraverso «le immagini» e «i fantasmi» dell’arte. Ora, tutte le operazioni della magia e del mago sono descritte da Bruno attraverso la metafora erotica: l’eros è simbolo della potenza magica per eccellenza (nel linguaggio bruniano eros è inoltre sinonimo di “fantasia”). Si veda quando dice I.P. Couliano, Eros e magia nel Rinascimento, Milano, Il Saggiatore,

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1987, p. 146, al proposito: «È evidente che la magia erotica bruniana si pone come scopo di permettere a un manipolatore di controllare individui singoli e masse, il suo presupposto di fondo essendo che v’ha un grande strumento di manipolazione, il quale è l’Eros nel suo senso più ampio: ciò che si ama, dal piacere fisico fino alle cose insospettabili, passando, è ovvio, per la ricchezza, il potere, eccetera». V. Viviani, “Is it not Strange, that He is thus Bewitched?” “Edward II” and Giordano Bruno’s Erotic Magic, in M. Marrapodi (a cura di), Il mondo italiano del teatro inglese del Rinascimento, Palermo, Flaccovio, 1995, pp. 33-46, ha colto il nesso bruniano nel testo di Marlowe, proponendone però un’interpetazione dichiaratamente anti-politica: l’eros Edward-Gaveston costituirebbe al contempo la via neoplatonica all’Idea, al Bello, all’Arte, e la fuga estetica per eccellenza dal mondo del potere. A nostro avviso, invece, la relazione Gaveston/Edoardo è un ragguardevole manifesto politico dove si dichiara/si svela che l’attività dell’intellettuale/mago è parte imprescindibile del potere regale e anzi contribuisce a costruirlo. Ricordiamo inoltre al lettore che il carisma magico è attributo tradizionale, già medievale (e prima ancora antico) della regalità. Per il mondo del medioevo, cfr. il fondamentale studio di M. Bloch, I re taumaturghi, Torino, Einaudi, 1973; si veda anche il più recente J. Le Goff, San Luigi, re sacro, taumaturgo e santo, in Idem, San Luigi, Torino, Einaudi, 1996, cap. XXIV, pp. 691-718. Nel panorama degli studi antropologici, l’inventore, se così si può dire, della “regalità magica” è, come noto, J. Frazer, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Torino, Boringhieri, 1965 (ed. or. 1922). 10. J. Goldberg, Sodometries: Renaissance Texts, Modern Sexualities, Stanford, Stanford University Press, 1992, p. 119, si è accorto di come l’attitudine competitiva e l’aggressività mimetica dei pari nei confronti di Gaveston rivelino il loro desiderio di occupare il posto dell’odiato favorito. Ma non è per questo che Mortimer può essere tacciato di “omosessualità politica”: Mortimer e la sua classe sono ideologicamente e politicamente “omosessuali” perché hanno come unico scopo quello di riprodurre se stessi escludendo tutto quanto è diverso da loro, tutto quanto non si identifica con loro. Non sarà inutile forse ricordare, a questo proposito, quanto afferma R. Girard, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Milano, Adelphi, 1983, p. 421, sull’omosessualità come “erotizzazione di una rivalità mimetica”, vale a dire come ossessione dell’antagonista simmetrico o, in altri termini ancora, come rapporto di simultanei desiderio/conflitto per/con l’identico. 11. Non vi sono dubbi sulla caratterizzazione anale delle scene dedicate alla prigionia di Edoardo nell’atto V, se si pensa, al di là dello stupro stesso, alla sequenza fogna/cavità di scarico/feci. Ma va ricordato che il mondo anale può anche funzionare da immagine rovesciata della generazione se si accostano i nessi: produzione/espulsione delle feci, concepimento/accrescimento/espulsione del bambino, colonna fecale/pene/bambino. Su questo cfr. L. Irigaray, Speculum. L’altra donna, Milano, Feltrinelli, 1975, in particolare il capitolo Pene uguale a bambino del padre, in cui si commenta Trasformazioni pulsionali, particolarmente dell’erotismo anale, di Sigmund Freud, in Opere, VIII, Torino, Bollati-Boringhieri, 1989 (1a ed. 1915), pp. 181-187. 12. In questa prospettiva si comprende meglio il misterioso atteggiamento di Lightborn nei confronti di Edoardo. Lightborn è estremamente calmo e rassicurante con la sua vittima: LIGHTBORN: «Assassinarvi, mio grazioso signore? / Lungi dal

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mio cuore farvi del male» (V, 5, 45-46). EDOARDO: «Questi tuoi sguardi non possono ospitare altro che morte / Vedo la mia tragedia scritta sulla tua fronte […]». LIGHTBORN: Perché sua grazia diffida di me in questo modo?» (V, 5, 72-78); e ancora: «Siete esausto, mio signore. Stendetevi e riposate» (V, 5, 91). Lightborn non sta mentendo, non sta cercando di occultare le sue intenzioni che sono del resto fin troppo evidenti agli occhi di Edoardo. L’atteggiamento “pietoso” e “tranquillizzante” mantenuto dal carnefice con la vittima è suprema ostentazione di potenza, è anzi espressione del delirio di onnipotenza che anima ogni cultura gerarchica e militare come quella di Mortimer: tipica del paternalismo patriarcale è la pretesa di mostrare al giustiziato che la punizione impartitagli è un bene per lui quando non una misericordiosa occasione di riscatto. 13. Ciò che nell’intenzione dei pari vorrebbe essere un atto di brutale eliminazione si capovolge in una rinascita. La violenza, a dispetto dei nobili, assume le caratteristiche di un rituale di trasformazione: il corpo martoriato e sfinito di un repadre decaduto lascia il posto al corpo di un re-figlio che ristabilisce la dignità regale e restaura la linea di legittima discendenza. È possibile, a nostro avviso, che Marlowe si sia ispirato alla nota metafora alchemica della uccisione/rigenerazione del re nel tessere la situazione e l’ambientazione della morte di Edoardo, invitando così il lettore accorto a trascendere il significato letterale della violenza per ricercarne uno metaforico (politico). Alcuni elementi sembrerebbero descrivere Edoardo come il vecchio re malato, bisognoso di rinnovamento e imprigionato, che simbolizza, nel processo alchemico, la materia prima da purificare: è la fase preliminare della nigredo (la nerezza) o melancolia. Edoardo, ormai incarcerato, si definisce vecchio: «Così vive il vecchio Edoardo»” (V, 3, 23), dice di sé il sovrano. Egli è allo stesso modo definito anche dagli altri: «Mi devo affrettare al castello […] per liberare il vecchio Edoardo» (V, 3, 119), progetta Kent. Questo particolare è reso piuttosto significativo dal fatto che fin dall’inizio della tragedia Edoardo è presentato come giovane re e in tal modo descritto dallo zio di Mortimer: «Dunque lascia che sua grazia / la cui gioventù è flessibile / […] goda di quel vacuo e leggero conte, / perché la maturità lo svezzerà da simili giochi (I, 4, 397-400). Il vecchio re versa poi in uno stato di evidente “melancolia”: nell’abbazia di Neath, dove si rifugia prima della cattura, Edoardo si proclama attratto dalla vita contemplativa e dalla filosofia di Platone e di Aristotele (IV, 7, 16-21); il suo carattere è umorale e dominato dall’eros – Isabella lo definisce passionate (II, 2, 4); Mortimer lo chiama wanton humor (I, 4, 401); «what passions call you these?» chiede Lancaster ai pari nel tentativo di definire l’amore del re per Gaveston; il carceriere Gourney consiglia il re di calmarsi perché «your passions make your dolours to increase» (V, 3, 15). Ma, altrettanto facile agli accessi di collera contro la regina e contro i baroni; durante la prigionia il re si abbandona a uno stato di smaniosa tristezza: «Il che mi riempie la mente di strani e disperati pensieri / e i pensieri sono martoriati da infiniti tormenti» (V, 1, 79-80). Edoardo giace poi in un pozzo, nel buio più totale, dove si raccolgono gli scarichi del palazzo: sta in piedi in mezzo agli escrementi immerso in un fetore insopportabile (si veda l’intera scena III dell’atto V). Le tenebre, il puzzo, la sozzura, gli escrementi caratterizzano la prima fase dell’operazione alchemica, la mortificatio (definita anche putrefactio, solutio, separatio) del Rex/materia prima. Infine la morte del Re alchemico per trafittura e penetrazione con la spada infuocata, chiamata dagli alchimisti telum passionis, sem-

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bra richiamare da vicino la morte di Edoardo. Alla sua morte il Re alchemico/materia prima rinasce sottoforma di figlio regale (il cosiddetto puellus regius)/oro. È la situazione che effettivamente riscontriamo nel testo di Marlowe: ucciso il vecchio Edoardo, il giovane Edoardo, prima incapace di governare e recalcitrante ad assumere la corona, acquisisce un’insolita, improvvisa vigoria, prende il potere sul parlamento e fa uccidere Mortimer. Vorrei ancora concentrare l’attenzione su due particolari. Il bagno del re con acqua di fogna, per cui si veda la scena III dell’atto V, potrebbe alludere al bagno immondo (sulfureo) cui viene sottoposta la materia prima nel processo alchemico. Il nome Lightborn pare essere parola-chiave: Lightborn è traduzione di “Lucifero”, come è in genere riconosciuto dagli interpreti. Ora, Lucifero è il nome alchemico dello zolfo/mercurio agente della dissoluzione/morte della materia prima. Sulla figura del re alchemico e sul significato simbolico delle sue sofferenze rimandiamo essenzialmente ai due noti lavori di C.G. Jung, che costituiscono eccellenti e a tutt’oggi imprescindibili repertori iconici e tematici dell’alchimia, Mysterium Coniunctionis, Torino, Bollati-Boringhieri, 1991, pp. 108-125; 273282; 505-518, e Psicologia e Alchimia, pp. 307-322. Sulla melancolia rimandiamo al tradizionale R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melancolia, Torino, Einaudi, 1985, e a F.A. Yates, Cabbala e occultismo nell’età elisabettiana, Torino, Einaudi, 1982. 14. Anche: «Non vedrò il re mio padre?» (IV, 6, 61). «Penso che re Edoardo ci supererà tutti» (IV, 2, 68). E infine: «E non temete signore e padre» (III, 1, 76). 15. Edoardo è estremamente ambiguo nei confronti del giovane Edoardo. Da una parte sembra quasi non riconoscere la paternità del proprio figlio: rivolgendosi alla regina definisce il principe «il vostro figliolo» (III, 1, 70 e III, 1, 82), ma dall’altra lo chiama «my little boy» (IV, 3, 71) e quindi «my son» (V, 1, 115). 16. Dice Edoardo contro la madre e Mortimer: «Madre non tentate di convincermi / a portare la corona. Fate fare a lui [Mortimer] il re. / Io sono troppo giovane per regnare» (V, 2, 91-92). 17. Rifiutando la madre. Edoardo rimprovera alla regina, ormai da lui destinata alla torre: «Se voi lo aveste amato solo la metà / di quanto l’ho amato io, non potreste accettare / la sua morte con tanta pazienza» (V, 6, 33-35). 18. Domande molto importanti e attuali nell’età elisabettiana retta da una regina considerata da molte potenze europee e dal papato bastarda, nata da nozze misconosciute, immagine incarnata dell’Anticristo nonché in odore di stregoneria.

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IV. Rappresentazioni

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SILVANA BARTOLI Raffigurazioni del Noli me tangere nel palazzo episcopale di Novara. XIV e XVI secolo

Un affresco ritrovato Punto di partenza di questo studio sono due diverse rappresentazioni di Maria Maddalena presenti nel palazzo episcopale di Novara. Attorno alla metà del XIV secolo un vescovo novarese commissionò a un pittore di passaggio, o forse appositamente chiamato, un affresco da collocare sull’altare della sua cappella privata, per offrirlo alla meditazione sua e dei suoi collaboratori. L’affresco, che traduce in immagini il passo del Vangelo di Giovanni (20, 11-18), in cui si racconta di Gesù che appare a Maria di Magdala angosciata per aver trovato il sepolcro vuoto, venne scoperto nel 1947 durante i lavori di risistemazione della cappella dei vescovi, dietro la pala dell’altare; quest’ultima, che rappresenta lo stesso soggetto, è opera di due pittori dell’area lombarda, i Fiammenghini, a cui fu commissionata nel 1599 dal vescovo Bascapè. Definito «giottesco» dagli studiosi di cose novaresi,1 l’affresco trecentesco costituisce indubbiamente una presenza singolare nel panorama artistico della zona, e offre più motivi d’interesse: riconducibile a una scuola di prestigiosa tradizione, esso riverbera sulla cultura novarese del basso medioevo nuovi motivi di attenzione e di ricerca, permettendo di considerare la città come un centro non periferico o secondario, e valorizzando la funzione dei vescovi come illuminati committenti e sostenitori di iniziative culturali di alto livello. Uno studio recente attribuisce l’affresco al Maestro del Noli me tangere e accoglie l’ipotesi che la committenza sia da individuare in

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Guglielmo da Cremona, vescovo di Novara dal 1342 al 1356; Guglielmo era stato Generale degli Eremitani di Sant’Agostino e confessore di Giovanni Visconti, sia mentre questi era suo predecessore sulla cattedra episcopale novarese, sia quando lo stesso divenne vescovo e signore di Milano.2 Si avrebbe così un arco di tempo, dal 1331 al 1356, segnato dalla spiritualità agostiniana di un monaco che, divenuto vescovo, non dimenticò le proprie origini tenendo sempre con sé dodici confratelli «con i quali era solito recitare, nella cappella episcopale, l’ufficio divino diurno e notturno, alzandosi ogni notte a mattutino».3 Il culto di Maria Maddalena secondo la tradizione borgognona4 sembra attagliarsi perfettamente al desiderio di vita monastica del vescovo Guglielmo. Il legame con Giovanni Visconti gli consentì poi, nonostante la scelta pauperistica, di ampliare e innalzare palazzi, fondare monasteri, commissionare quadri e affreschi.5 È ormai dimostrato infatti che, in quegli anni, nei palazzi vescovili di Novara e Milano, lavorarono artisti in contatto tra loro su committenza dei due vescovi accomunati dalla stessa sensibilità. Se sembra fuor di dubbio che l’autore del Noli me tangere abbia potuto osservare Giotto a Milano, è altrettanto certo che venne ingaggiato da una committenza ricca: lo dichiarano l’uso di lapislazzuli, la lamina argentea usata per i frutti, l’oro delle aureole decorate con motivi geometrici rilevati a pastiglia, ripresi anche nella cornice, la grafia gotica delle parole che escono dalla bocca di Maria, dettagli questi rivelati in tutta la loro preziosità da un accurato restauro.6 Benchè il dipinto si presenti tuttora abbondantemente rovinato, la scena che esso raffigura è animata e piena di passione (fig. 1). Su un impianto spaziale probabilmente semplicissimo, ma attualmente quasi illeggibile, si staglia la rappresentazione dell’episodio secondo una sequenza che vuole raccontare fedelmente la narrazione di Giovanni (20,11-18). Maria di Magdala, sola e di notte, si accosta piangendo al sepolcro sul quale stanno due angeli; essi chiedono alla donna il motivo delle sue lacrime: “perchè hanno portato via il mio Signore e non so dove lo abbiano messo”. Poi Maria si volta a Gesù, che era in piedi dietro di lei, e che le rivolge la stessa domanda. Maria, scambiandolo per il giardiniere, chiede se lui sappia dove sia il corpo del Signore. Solo quando Gesù la chiama per nome (compare qui in tutta la sua intensità la valenza intima e segreta che la cultura e

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la sensibilità ebraica attribuiscono al nome proprio),7 Maria lo riconosce ed esclama Rabbunì, “Maestro mio!”. Maria lo riconosce quando si sente nominata: Gesù aveva detto che il pastore chiama le sue pecore per nome, è quindi un’esperienza di intimità e di fede profonda. A questo punto Gesù pronuncia parole che, nonostante secoli di tentativi esegetici, mantengono la loro oscurità e che sono entrate nella conoscenza collettiva attraverso la traduzione latina che suona Noli me tangere, “non mi toccare”, mentre il testo originale greco significa piuttosto “non mi trattenere” o “non continuare a trattenermi”. Nell’affresco Gesù impugna, anzichè la zappa che lo rappresenta come il giardiniere – così è ad esempio nella pala cinquecentesca dei Fiammenghini – il vessillo crociato della Resurrezione. Il dialogo tra i due personaggi è reso dall’espressione di Maria che è di profilo, coi capelli cadenti sulle spalle e protende le braccia e la persona verso il maestro. Lo sguardo di Gesù è severo verso di lei che mostra il desiderio di abbracciarlo. La donna, che è inginocchiata in atteggiamento di chi è pronta a gettarglisi ai piedi, ne è come umiliata, e potremmo ravvisare qui una precisa intenzione teologico spirituale dell’autore o della committenza. Il gesto della mano di Gesù attenua in parte la drammaticità della scena, perché non sembra che la stia allontanando, ma che le stia spiegando il senso del distacco. Certo la dolcezza del gesto di Gesù appare annullata dalla severità dello sguardo e sottolineata dalla tragicità metafisica della scena, suggerita dallo sfondo ancorché quasi completamente cancellato. L’affresco conserva forza e vivezza di espressione, anche se è in gran parte privato del colore o lo conserva sbiadito, restituendo in termini attenuati anche il contrasto tra la veste chiara di Gesù e il rosso di Maria di Magdala. Il silenzio dei documenti su questo affresco ha avallato l’ipotesi, peraltro largamente condivisa, che l’affresco sia stato “nascosto” dietro la tela dei Fiammenghini all’epoca degli interventi per la decorazione della cappella, alla fine del XVI secolo. Infatti la pala, dietro la quale è stato ritrovato l’affresco, venne commissionata personalmente dal Bascapè che fornì anche, con la misura esatta di una “cordella”, indicazioni precise sulle dimensioni del lavoro finito, ivi compresa la cornice. La pala venne terminata nell’agosto del 1599; tutta la decorazione della cappella, come è stata espressamente voluta e progettata dal Bascapè, con il busto in marmo di Maria Maddalena da sistemare sulla porta d’ingresso,8 rivela il radicamento

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della devozione al personaggio della santa, sia nella tradizione elaborata sul Vangelo sia nella tradizione medievale. Il committente dell’affresco trecentesco, che ha in certo modo avviato le scelte iconografiche successive, scelse per i propri momenti di preghiera e di meditazione un personaggio che, secondo la tradizione occidentale, si era sporcato con il più terreno dei peccati. La figura di Maria Maddalena, quale era stata costruita nella tradizione ecclesiastica e poi compiutamente definita nel secolo XI, il secolo della “fermentazione magdalenica”,9 durante il quale si era andato precisando anche il concetto di purgatorio, si rivelava per questi suoi tratti particolarmente efficace nel restituire speranza a chi teme la dannazione, indicando nel contempo l’unica strada percorribile: il pentimento e il fiducioso abbandono in Cristo. La peccatrice Com’è ampiamente noto, la Maddalena venerata in Occidente non esiste nei Vangeli. Il personaggio della prostituta pentita alla quale, proprio in virtù del pentimento, è elargito il dono del primo annuncio della Resurrezione, largamente presente e radicato nell’immaginario collettivo della nostra tradizione, è il prodotto di un (consapevole o meno) travisamento dei testi evangelici mediante la sovrapposizione di tre persone diverse. La prima è la peccatrice anonima che in casa di Simone il Fariseo lava i piedi di Gesù, glieli asciuga con i capelli e li unge di profumo prezioso (Lc 7, 36-50); la seconda è Maria di Magdala che, liberata dalla possessione demoniaca, si pone al seguito di Gesù con altre donne (Lc 8, 1-3), lo segue fino al Calvario e sarà la prima testimone della Resurrezione (Gv 20,11-18); la terza è Maria di Betania, sorella di Marta e di Lazzaro che, oltre a distinguersi per l’attenzione con cui ascolta Gesù (Lc 10, 38-42) è protagonista di un’altra unzione (Gv 12, 1-8). I Vangeli non stabiliscono legami tra queste donne. I Padri, la liturgia e gli autori ortodossi ne mantengono distinta la memoria e il culto: la festa di Maria di Betania è celebrata il 18 marzo, quella della peccatrice anonima il 31 marzo, quella di Maria di Magdala il 22 luglio. Nella liturgia cattolica viene invece ricordata un’unica donna: la prostituta pentita che diviene “erede della luce”. Molti studi moderni10 hanno

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analizzato i passi e i punti che hanno potuto in qualche modo suggerire o giustificare l’unificazione delle tre donne. Della peccatrice anonima non si sa nulla, forse il peccato di cui si era macchiata e pentita non era la prostituzione, visto che il testo greco non usa il termine specifico per indicare la meretrice ma un termine più generico per indicare colei che ha sbagliato. Maria di Magdala, che Gesù aveva liberato da sette demoni, offre molti appigli interpretativi. Nella Bibbia il demone era sopratutto un male morale o fisico che, attraverso manifestazioni sconcertanti, esprime la violenta oppressione che grava una persona; non era però necessariamente sinonimo di prostituzione.11 Ma il sopravvento di un atteggiamento derivante dall’antica teologia di Israele, portava a vedere in ogni mal-essere una sorta di contrappasso per una colpa commessa secondo il rigido binomio delitto/castigo. Tenendo presente il valore simbolico dei numeri, sette demoni significano il massimo della colpa e del male.12 A questo si aggiunga la fama di città rilassata e corrotta che gravava su Magdala. Bisogna anche ricordare che Maria viene presentata nel Vangelo come una donna libera, che non appartiene a un padre o a un marito ma che può disporre del suo tempo, della sua persona e dei suoi beni che ella mette a disposizione di Gesù. Questa libertà di decidere della propria vita la rende come minimo sospetta nella valutazione di una mentalità maschile che si perpetua inalterata dalla civiltà ebraica a quella cristiana medievale. Per i contemporanei di Gesù, imbevuti dei valori e delle forme di una religione costruita al maschile e per il maschile, era motivo di scandalo la presenza di donne accanto a lui, il quale, con questo suo comportamento infrangeva tabù fortemente radicati13 che, ad esempio, negavano alle donne l’accesso alla Torah e ripetevano da secoli la disgrazia di nascere donna o di avere figlie.14 L’unzione in casa del fariseo, di cui la peccatrice anonima è protagonista, mediante il racconto di un’altra unzione avvenuta a Betania (Gv 12, 1-8) giustifica la sovrapposizione con Maria sorella di Marta, lodata da Gesù per l’attenzione con cui seguiva le sue parole. I Padri della chiesa offrirono alla venerazione dei fedeli una donna che era contemporaneamente sorella di Marta e di Lazzaro di Betania, originaria di Magdala e gravata da un torbido passato. Il problema doveva essere percepito esattamente in questi termini se nel XIII secolo Jacopo da Varagine nella Leggenda Aurea sente il bisogno di precisare le parentele di Maria per mettere d’accordo le due diverse origini, Magdala e Betania, entrambe proprietà familiari di cui l’una

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sarebbe poi toccata in sorte a Maria, l’altra a Marta15. Ambrogio, Agostino, ma soprattutto Gregorio Magno, non approfondirono i passaggi che pur potrebbero collegare le tre donne e le sovrapposero toutcourt: “Crediamo dunque che questa donna che Luca chiama peccatrice sia quella stessa che Giovanni indica con il nome di Maria, e dalla quale Marco dice che erano stati cacciati sette demoni”.16 Venne così realizzata un’operazione di assemblaggio, che portò a raffigurare in un unico personaggio un’immagine di donna presente nell’immaginario maschile, ma che derivava spessore di realtà proprio dai tratti distinti delle diverse figure che vi confluivano. Da quel momento in poi Maria di Magdala, che nei vangeli canonici è delineata con poche indicazioni, divenne “la Maddalena”, immagine duttile con cui i Padri della Chiesa e gli autori medievali costruirono per la tradizione cristiana un simbolo dai forti richiami terreni e carnali. Tra Eva e Maria Nell’abbondantissima produzione letteraria e iconografica incentrata sulla figura di Maria Maddalena si è voluto spesso vedere il compimento di un percorso di riabilitazione e di recupero della donna e dei valori femminili. Dopo Eva, certamente dannata, e Maria, irraggiungibile nella sua purezza, Maddalena, molto più vicina alla realtà umana, preda del peccato ma aspirante alla redenzione, è colei che indica la strada per giungere alla salvezza. Il mattino di Pasqua, nel giardino della Resurrezione, riprende la dolce conversazione d’amore del giardino dell’Eden interrotta da secoli di miseria.17 Per feminam mors, per feminam vita. Ma a chi viene offerto questo itinerario di salvezza? Non rappresenterà, la peccatrice redenta, un possibile percorso di purificazione rivolto in realtà proprio alle preziose anime maschili? In effetti sia il sermone In venerazione di santa Maria Maddalena, attribuito ad Oddone di Cluny, sia il sermone In onore della beata Maria Maddalena di Goffredo di Vendôme,18 erano destinati alla sala capitolare o all’ufficio divino dei monaci. E anche la cappella dei vescovi del palazzo episcopale di Novara, in cui furono collocati prima l’affresco e poi la pala dei Fiammeghini, era rivolta a un pubblico unicamente maschile. Oddone presenta Maddalena come simbolo della Chiesa che sa rinnovarsi, e Goffredo utilizza la sua corporeità per tradurre in im-

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magine concreta il femminile che vi è in ogni uomo, cioè la debolezza che lo trascina verso la materia.19 Riprendendo la distinzione tra anima e spirito20 elaborata da Origene21 e perfezionata da Ambrogio – «Lo spirito è dunque come Adamo, l’anima sensibile come Eva»22 – Goffredo costruisce un dialogo tra l’uomo e la sua anima peccatrice che, a causa della tentazione carnale, è diventata preda del demonio. È a questa anima di uomo che viene proposto il modello della Maddalena penitente, messaggera di una speranza di salvezza in quanto figura degli estremi. Passata dall’abiezione del peccato ai vertici della grazia e alla più luminosa vita spirituale, questa donna offre un ponte tra la sensibilità e lo spirito, che permette all’anima di svincolarsi dal peccato e giungere alla purezza. «Vittoriosa grazie al suo pentimento, la Maddalena s’innalza al più alto grado della gerarchia spirituale, a quello dei martiri. Ella può allora essere avvicinata a S. Giovanni Battista e proposta come modello al clero».23 Poiché l’anima è femminile, è naturale che sia una donna a dare “corpo” alla figura che, mentre indica la strada della salvezza, è anche monito perenne della presenza del peccato. Pietro Crisologo, vescovo di Ravenna nell’VIII secolo, definiva la donna «causa del male, origine del peccato» e individuava nella scelta di una dissoluta come prima testimone della resurrezione, il comprensibile desiderio divino di riservare gli uomini «a cose più grandi».24 La feroce misoginia del vescovo di Ravenna non è un caso isolato; nella concezione medievale la donna è per definizione peccatrice carnale25, il peccato è prodotto del suo corpo e i lunghi capelli di Maria Maddalena rappresentano il «tradizionale simbolo della seduzione femminile».26 È possibile che proprio i capelli con cui la peccatrice anonima (Luca, 7, 36-50) volle dimostrare la sua reverente devozione all’autorità morale di colui che riconosceva come maestro, abbiano costituito il pezzo del mosaico che inchiodò Maria di Magdala guarita da “sette demoni” a un passato forse peccaminoso, ma certamente non suo. Nella simbologia e nell’iconografia medievale le chiome sciolte rappresentano sia la vita senza regola e pertanto pericolosa per l’ordine sociale, sia l’innocenza e la purezza della fanciulla prima del vincolo matrimoniale. I capelli disfatti sono anche consuetudine antica significante lutto, dolore, penitenza. Nella Maddalena en chevelure le tre componenti si intrecciano proponendo un’immagine di immediata comprensione per i fedeli: la donna anticamente sregolata e perico-

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losa per la società, attraverso la penitenza ha potuto ritrovare nello spirito la purezza che il corpo aveva perduto. In alcune Maddalene medievali, rivestite unicamente di ispidi capelli, la figura ripropone il topos di una santità selvaggia in cui appare evidente il ricordo della leggenda di Maria Egiziaca.27 Quando, in età di Controriforma i capelli della penitente si sostituiranno di nuovo all’abito, la scena proposta ai fedeli si farà evocativamente più ambigua: il corpo viene nascosto proprio da quella chioma che suggerisce le antiche arti della seduttrice; negato alla vista, esso è offerto all’immaginazione. L’icona del pentimento L’immagine della Maddalena più diffusa nei secoli XVI e XVII è quella della penitente, la più efficace nel confutare la convinzione luterana e calvinista della giustificazione sola gratia, e nel divulgare l’esaltazione tridentina dei meriti. Macerata e appassita nella solitudine del deserto, la Maddalena che piange i suoi peccati davanti a un teschio e si avvinghia alla croce, è il soggetto prediletto dell’iconografia penitenziale controriformista.28 È vero che la tradizione precedente non venne mai del tutto soppiantata, ma è altrettanto vero che con il Concilio di Trento si avviò in Italia una produzione artistica più in sintonia con la nuova cultura della Chiesa. Atteso il rigore con cui il vescovo Bascapè, che conosceva e apprezzava il Discorso sulle immagini del cardinale Paleotti,29 applicava i decreti tridentini, suscita qualche interrogativo il fatto che egli abbia commissionato, a quell’epoca, un nuovo Noli me tangere (fig. 2). I documenti sembrano suggerire un atto di omaggio verso il vescovo Guglielmo.30 Bisogna però osservare che il Noli me tangere della tradizione medievale subisce ora significativi ritocchi: la scena narrata nel vangelo di Giovanni è infatti rappresentata con precisione fino al Correggio; in seguito l’apparizione del risorto, in sintonia coi modelli tridentini, assume i tratti del Christus tangit Magdalenam.31 La tela dei Fiammenghini racconta così una scena a prima vista inconsueta: Gesù tocca la fronte di Maria in apparente contraddizione con le parole che la tradizione gli ha attribuito. Questa versione, che compare agli inizi del Cinquecento e avrà particolare fortuna dopo il Concilio e per tutto il Seicento, deriva dalla leggenda

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secondo la quale la reliquia della testa della Maddalena, conservata nella cattedrale di Saint Maximin in Provenza, mostrerebbe ancora sulla fronte un brandello di pelle recante l’impronta del dito di Gesù. I monaci domenicani che avevano in custodia la reliquia, narravano ai pellegrini che Gesù aveva toccato la fronte di Maria Maddalena per allontanarla da sé. Nel dare precise indicazioni sui temi che dovevano costituire il ciclo di affreschi per la rinnovata cappella, il Bascapè chiese espressamente, per la pala d’altare, una scena in cui a Maddalena «appare il Salvatore in figura di ortolano et ella se gli vuole accostare a’ piedi, ei la ritiene da sé, toccandola in fronte».32 La pala una volta terminata secondo le dimensioni indicate dallo stesso vescovo, servì a nascondere una rappresentazione non più rispondente alla sensibilità posttridentina. È indubbio che questa scelta iconografica permise a Bascapè di offrire il suo contributo al culto delle reliquie raccomandato da Trento in funzione anti-luterana. Per cui se di riproposizione del tema iconografico dell’affresco del vescovo Guglielmo si tratta, certo ciò avvenne mediante una correzione significativa delle nuove indicazioni conciliari. L’abito di Maddalena non è più rosso perché l’uso liturgico ha ormai stabilito che il rosso è riservato agli apostoli e ai martiri. L’immagine medievale della Maddalena è semmai conservata nel gesto del corpo, rivolto ad abbracciare il maestro, e nei capelli sciolti. Seduzione e redenzione L’immagine di Maria Maddalena evoca l’essenza della femminilità così come è presente nell’immaginario maschile; a livello spirituale, essa assume una funzione rilevante inserendosi tra Eva e la Madonna, i due estremi del simbolico femminile offerto dalle Scritture.33 “Eva la Tentatrice” e “Maria l’Immacolata” sono le due figure tra le quali oscilla la rappresentazione della donna nella cultura medievale; da una parte la seduzione, alla quale è difficile sfuggire vivendo immersi nella realtà, dall’altra la purezza sempre più perfetta tanto da diventare, nella percezione comune, quasi irraggiungibile. Nell’ambito delle scelte determinate dalla riforma del clero, attuata nel corso dei secoli XI e XII, viene accentuato il pericolo costituito da Eva, la

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donna da cui bisogna allontanare il chierico, mentre la perfezione immateriale della Madre viene ulteriormente allontanata da qualsiasi possibilità di imitazione terrena. Nello spazio che si viene sempre più allargando tra le due figure trova inserimento la Maddalena, indicando un possibile percorso di redenzione fondato sul pentimento e sulla penitenza. L’esperienza del deserto e l’impossibilità di accostarsi a Gesù risorto sono passaggi purgatoriali perché il deserto rappresenta la penitenza prima dell’ascesa tra i beati e il Noli me tangere è l’impossibilità di una comprensione totale del Cristo, quando si è ancora legati a una dimensione terrena. La “terza via” purificatrice indicata da Maddalena comincia a delinearsi con precisione nella seconda metà del secolo XII, quando prende forma l’immagine di un luogo dove il fuoco attraverso il pentimento e la penitenza apre una porta alla speranza. Tra i “padri” del purgatorio, Gregorio Magno conservava un nozione agostiniana della salvezza34 e riteneva che i peccati potessero essere distrutti dopo la morte con il fuoco, solo grazie ai meriti conquistati in questa vita per mezzo del pentimento e della penitenza. L’affresco del vescovo Guglielmo con il suo procedere in sequenza rivela una derivazione diretta dall’Omelia XXV di Gregorio Magno, dove si propone all’attenzione dei fedeli il fatto che nel Vangelo di Giovanni Maria si volge due volte: dubitando, con la sua incredulità aveva come girato le spalle al volto del Signore, non credendo che fosse resuscitato.35 L’affresco è stato pensato quindi come predica per immagini, particolarmente efficace per divulgare gli effetti salvifici del pentimento. Il vescovo che lo aveva commissionato e coloro che lo contemplavano non avevano dubbi sul peccato della donna che vi era raffigurata e sul suo riscatto dopo l’incontro con Cristo. Il corpo della Maddalena Il personaggio della Maddalena, sessualmente attraente e moralmente repellente, riveste una doppia funzione. Nelle forme in cui è stato costruito dai Padri della Chiesa, esso asseconda un ordine simbolico maschile; pur essendo donna, Maria Maddalena consente infatti di giudicare il femminile nello stesso modo in cui lo giudica la cultura maschile: disprezza il proprio corpo e disprezza se stessa.36 Il corpo della donna “non-vergine/non-madre” occupa il posto più in-

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fimo nella società e nell’immaginario; trasferito al maschile perde ogni valore simbolico esattamente come la “madre-sempre-vergine”.37 La presenza di Maria di Magdala nel Noli me tangere, ambiguamente connotata dalla fusione delle tre donne operata da Gregorio Magno, è ulteriormente appesantita dalla traduzione della Vulgata che rende il testo greco con un “Non mi toccare”, suggerendo ancor di più la corporeità negativa e tentatrice di lei. Ben diversa come si accennava all’inizio è la valenza del testo originale: «Non mi trattenere» o «Non continuare a trattenermi». Il lavoro esegetico ed ermeneutico ha proposto diverse interpretazioni volte a sciogliere l’oscurità del testo originale. Tutte però concordano nel ritenere la traduzione latina come la manifestazione di un’immagine delle donne come esseri impuri e pericolosi. Nella Maddalena e nella leggenda che le è stata costruita addosso, emerge così una figura che accoglie e recepisce fantasmi e paure nei confronti della carne e del peccato sessuale38, e il Noli me tangere finisce con il tradurre un dialogo di salvezza in un rifiuto di contatto corporale. Ma se la donna raffigurata nella scena della resurrezione è soltanto Maria di Magdala, la donna liberata da ossessioni terrene e riportata alla consapevolezza di sé, allora il “non mi trattenere” acquista tutt’altra valenza spirituale: un distacco non per l’impurità di lei, ma per indicarle la possibilità di una crescita spirituale oltre la dimensione del sensibile, attraverso la separazione. Nelle sacre rappresentazioni medievali, così come nell’affresco della cappella dei vescovi di Novara, Maddalena è sempre connotata dal mantello rosso e dai capelli sciolti offerti al pubblico come simboli evocatori di passione, pentimento, penitenza.39 Per i fedeli (clero, frati, canonici, vescovo) che pregavano anticamente nella cappella del palazzo episcopale di Novara, l’affresco sull’altare proponeva dunque due percorsi di morte e resurrezione: quello divino, soprannaturale, promesso agli uomini da Cristo, per giungere al quale era necessario l’altro percorso, terreno, praticabile da tutti, di cui era testimone Maria Maddalena. Il committente dell’affresco e i suoi contemporanei riconoscevano facilmente la propria debolezza in questa donna peccatrice e penitente e si rivolgevano a lei nelle preghiere, consapevoli di quanto la sua vicinanza alla sofferenza umana di Gesù, risorto nella gloria, la arricchisse di capacità di intercessione.

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Note Abbreviazioni: ASDNo – Archivio Storico della Diocesi di Novara; BCN – Biblioteca Capitolare di Novara; PG – Patrologia Greca; PL – Patrologia Latina. 1. L. Cassani, Arte e artisti nel novarese. Notizie (1904-1963), ms. conservato in ASDNo, pp. 105 e 174; G. Romano, Guida breve al patrimonio delle province piemontesi, Torino, 1969, p. 61. 2. Cfr. L. Galli, La pittura del Trecento a Novara e nel suo territorio, in G. Romano (a cura di), Pittura e miniatura del Trecento in Piemonte, Torino, Fondazione CRT, 1997, pp. 247-317. 3. Giordano di Sassonia, Liber Vitae fratrum, a cura di R. Arbesmann e W. Hümpfner, New York, 1943, vol. I, pp. 62-63. 4. Cfr. G. Lobrichon, La Madeleine des Bourguignons, in Marie Madeleine dans la mystique, les arts et les lettres, Actes du Colloque international, Avignon 20-22 juillet 1988, publiés par E. Duperray, Paris, Beauchesne, 1989, pp. 71-88. 5. Cfr. Carlo Bascapè, Novaria sacra, a cura di G. Ravizza, Novara, Merati, 1878, pp. 378-380. 6. Cfr. Galli, La pittura, pp. 269-270. L’affresco è l’unica traccia superstite dell’antica cappella dedicata a S. Maria Maddalena che, dagli inizi del ’300, aveva sostituito S. Siro nella funzione di cappella privata del vescovo. L’Ordo liturgicus della chiesa novarese, databile tra il 1332 e il 1358, permette di documentare l’esistenza della cappella a partire dal 1332 (A. Cislaghi, Ordo liturgicus ecclesiae novariensis. Trascrizione del codice LII della Biblioteca Capitolare di Novara, tesi di perfezionamento in paleografia presso l’Università Cattolica di Milano, anno acc. 1978-1979, conservata dattiloscritta in ASDNo). Allo stato attuale delle ricerche l’Ordo è il più antico testo liturgico in cui venga citata la cappella di S. Maria Maddalena. Il Missale vetus è incompleto: cfr. G. Colombo, Edizione e presentazione generale del codice LIV, Missale Vetus, della BCN, tesi dott. del Pontificio Ateneo Anselmiano, Roma, Istituto Liturgico 1974, II, p. xxv). Mancano infatti integralmente i mesi da giugno a ottobre, e nel Benedizionale di Novara non compare la santa, cfr. F. Dell’Oro, Il Benedizionale della BCN, in «Novarien», 6 (1974), pp. 53 ss. 7. Cfr. G. Ravasi, Maria di Magdala, santa calunniata e glorificata, in G. Testori (a cura di), Maddalena, Quadreria, Franco Maria Ricci, 1989, p. 20. 8. Cfr. ASDNo, Carlo Bascapè, Lettere episcopali, t. VII, 6 febbraio e 27 marzo 1599; t. VIII, 8 agosto 1599; Mensa XIV, 3/1, 1598; 3/2, luglio 1599, 28 novembre 1600 e 10 novembre 1602. 9. V. Saxer, s.v. Santa Maria Maddalena, in Bibliotheca Sanctorum, vol. VIII, Roma, Città Nuova, 1967, col.1089. 10. Cfr. T. Bernard, J.-L. Vesco, Marie de Magdala, Paris, Saint-Paul, 1982; Jacques Dalarun, La donna vista dai chierici, in G. Duby, M. Perrot, Storia delle donne. Il Medioevo, a cura di C. Klapisch-Zuber, Bari, Laterza, 1990; E. Drewermann, Il messaggio delle donne. Il sapere dell’amore, Brescia, Queriniana, 1993; G. Duby, Donne nello specchio del Medioevo, Bari, Laterza, 1995; M. Mosco (a cura di), La Maddalena tra sacro e profano. Da Giotto a De Chirico, catalogo della mostra, Milano-Firenze, Mondadori-Casa Usher, 1986; Ravasi, Maria di Magdala; C. Ricci, Maria di Magdala e le molte altre, Napoli, D’Auria, 1991; V. Saxer, Les origines du

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culte de Sainte Marie Madeleine en Occident, in Marie Madeleine; L. Sebastiani, Tra/Sfigurazione, Brescia, Queriniana, 1992; E. De Boer, Maria Maddalena, oltre il mito, Torino, Claudiana, 1999. Drewermann pone un distinguo anche sull’origine di Maria: la città di Magdala andata in rovina a causa della lussuria sarebbe Magdala dei tintori e non Magdala di Galilea da cui proveniva la donna e afferma che «del tutto leggendario e senza il minimo fondamento biblico è il collegamento tra Maria di Magdala e la peccatrice di Luca, 7, 37», cfr. Drewermann, Il messaggio delle donne, p. 224. 11. Cfr. Vangelo di Maria, in L. Moraldi (a cura di), I Vangeli gnostici, Milano, Adelphi, 1999, pp. 23-24. 12. Cfr. Ravasi, Maria di Magdala, p. 16. 13. È estremamente interessante, su questo punto, il contributo di Luisa Accati che dichiara di non condividere i termini di quella che definisce una «pseudocomparazione tra ebraismo e cristianesimo», cfr. L. Accati, La legge della madre e la religione delle figlie, in Donne sante sante donne. Esperienza religiosa e storia di genere, Torino, Rosenberg & Sellier, 1996, pp. 43-47. 14. Cfr. Ricci, Maria di Magdala, pp. 145-146. 15. Cfr. Sebastiani, Tra/Sfigurazione, pp. 130-131. Nella Leggenda Aurea si parla anche del presunto fidanzamento di Maria con Giovanni, il futuro evangelista, che l’aveva abbandonata per seguire Gesù. Questa ulteriore leggenda è stata rielaborata da M. Yourcenar, Fuochi, Milano, Bompiani, 1993, pp. 51-65. 16. Cfr. P. M. Guillaume (a cura di), s.v. Marie Madeleine, in Dictionnaire de spiritualité, Paris, Beauchesne, 1978, fasc. LXVI-LXVII, coll. 559-575; A. Scattigno, Marta e Maria, in Il grande libro dei santi, vol. II, Cinisello Balsamo (Mi), 1998, pp. 1378-1381; Dalarun, La donna vista dai chierici, pp. 41-52; Gregorio Magno, Omelia XXXIII, PL 76, col.1239. 17. Cfr. Oddone di Cluny, PL 133, col.721. 18. Cfr. D. Iogna-Prat, Bienheureuse polysémie, in Marie Madeleine, pp. 21 ss. 19. «I pensatori medievali associavano il corpo con la donna [...] erano inclini a vedere il peccato femminile come prodotto dell’interno del corpo della donna mentre i peccatori maschi erano descritti come tentati dall’esterno – e molto spesso come tentati dalla profferta fisicità delle donne». C. Walker Bynum, Corpo femminile e pratica religiosa, in L. Scaraffia, G. Zarri (a cura di), Donne e fede, Bari, Laterza, 1994, pp. 131-133. 20. Cfr. Goffredo di Vendôme, PL 157, coll. 231-234. 21. «Interior homo noster ex spiritu et anima constat. Masculus spiritus dicitur, femina anima potest noncupari», in PG 12, col. 158. 22. Alcuni autori medievali sono più espliciti: Adamo è lo spirito, Eva la carne (Cfr. Dalarun, La donna vista dai chierici, p. 44). 23. D. Russo, La Madeleine dans l’art italien, in Marie Madeleine, p. 186. 24. Cfr. PL 52, coll. 422-423; il vescovo di Ravenna si era conquistato il cognomen di “Crisologo” con simili prove di aurea eloquenza. 25. Cfr. J. Dalarun, Robert d’Arbrissel fondateur de Fontevraud, Paris, Albin Michel, 1986, p. 91. 26. Cfr. C. Frugoni, La donna nelle immagini, la donna immaginata, in C. Klapisch-Zuber (a cura di), Storia delle donne in Occidente. Il Medioevo, p. 433.

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27. Cfr. D. Arasse, Il vello di Maddalena, in Mosco (a cura di), La Maddalena tra sacro e profano, pp. 58-59. 28. Cfr. E. Mâle, L’arte religiosa nel seicento, Milano, Jaca Book, 1984; A. Scattigno, “I desiderij ardenti”. Penitenza, estasi e martirio nei modelli di santità, in Monaca, moglie, serva, cortigiana. Vita e immagine della donna tra Rinascimento e Controriforma, a cura di S. F. Matthews Grieco e S. Brevaglieri, Firenze, Morgana Edizioni, 2001, pp. 153-191. 29. Cfr. ASDNo, Bascapè, Lettere episcopali, t. I, 7 agosto 1593. Il Discorso sulle immagini è del 1582. 30. Cfr. Bascapè, Ravizza, Novaria sacra, pp. 381-382; ASDNo, Mensa XIV, 3/2, 24 ottobre 1605; Testamento Bascapè, Archivio Capitolare, Episcopato, IX, 1613. 31. Cfr. L. Réau, Iconographie de l’art chrétien, Paris, P.U.F., 1955-1959, t. III, vol. II, p. 559. 32. ASDNo, Mensa XIV, 3/1, 1598. 33. Cfr. Arasse, Il vello, p. 58. 34. Agostino è convinto che le tribolazioni di questa vita siano la principale forma di purgatorio. Il fuoco dell’aldilà sarà efficace se la vita terrena è stata fervida di fede e di penitenza (Jacques Le Goff, La nascita del Purgatorio, Torino, Einaudi 1982, in particolare pp. 76 e 99). 35. PL 76, col. 1192. Il teologo Drewermann legge nel girarsi due volte di Maria, descritto da Giovanni, un sostanziale rinnovarsi della personalità umana, prima rivolta con timore alla morte poi illuminata dal risorto che è vita, cfr. Drewermann, Il messaggio, pp. 239-248. 36. Cfr. Giuliani, Le Soi incomplet, p. 264. 37. Cfr. Sebastiani, Tra/Sfigurazione, p. 283. 38. J. Kelen, Un amour infini. Marie Madeleine prostituée sacrée, Paris, Michel, 1982, p. 116. 39. Cfr. G. Varanini (a cura di), Cantari religiosi senesi del ’300, Bari, Laterza, 1965; G. Varanini, M. Banfi, A. Ceruti Burgio, Laude cortonesi, Firenze, Olschki, 1981.

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Noli me tangere. Affresco, metà sec. XIV. Palazzo episcopale di Novara.

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Noli me Tangere. Tela dei Fiammenghini, 1599. Palazzo episcopale di Novara.

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TIZIANA PLEBANI Tra disciplina e diletto: corpi di lettori, corpi di lettrici

Una nuova prospettiva di ricerca sulla lettura Uno degli aspetti più trascurati nell’analisi della storia e della rappresentazione dell’atto del leggere è quello riguardante il coinvolgimento del corpo attraverso il suo impegno, le posture obbligate o libere, la fatica o il piacere ricavati. Una dimenticanza che ci ha sinora privati di una interessante chiave di lettura; i “corpi in lettura” che emergono dalla precettistica e dall’apparato iconografico, indagati, spiati, attraverso l’osservazione sia delle posture, statiche o in movimento, sedute compostamente o sdraiate con agio, curve su leggii o pagine, o delle espressioni dei volti, ferme e irrigidite o aperte sul mondo, permettono di sondare molteplici aspetti: la distanza oppure la confidenza di un soggetto con un dato testo, il rispetto verso ciò che si ritiene essere un’autorità indiscussa o semplicemente un compagno di momenti appartati, ancora l’inclusione della scrittura nella propria esperienza o la sua estraneità. Grazie a tutto ciò, in relazione alla storia e alla documentazione sulla lettura e sulla circolazione del libro, i corpi in lettura consentono ancor più di riscontrare un percorso di lunga durata segnato dal genere, oltre che dall’età dei soggetti.1 La ricerca sulle pratiche corporee effettuata su un ampio arco temporale, dal Medioevo alle soglie dell’età contemporanea, lungo la storia della lettura e la visualizzazione dei modelli maschili e femminili, lascia trasparire infatti un doppio binario, assai radicato e persistente, di simbologie, modelli e storie: gli uomini rappresentati in

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lettura sono quasi unicamente dediti a essa per scopi precisi, per volontà o necessità di conquistare sapere e di incrementarlo a propria volta, tradotti visivamente in pose ferme e affaticate. Le donne si situano nel versante, se non opposto, certo alternativo alla produzione di cultura, abbandonate al piacere del testo, all’incorporazione nella propria vita dei sentimenti e degli stimoli da esso ricavati, consegnate in corpi dalle posture disinvolte, assai più libere degli uomini. Percorsi differenziati per uomini e donne accompagnano lettori e lettrici nel discorso e nella raffigurazione, distanziandosi dal piano della realtà o talvolta illuminandola. All’interno di questo ricco patrimonio di figurazioni e narrazioni, complesso e non uniforme, prenderemo ora in considerazione solo un aspetto, tra i molti emersi, legato alla disciplina del corpo.2 Corpo vs Logos: l’intellettuale senza piacere La figura del lettore/studioso di genere maschile così come si è configurata nel vissuto comune e nella raffigurazione, dal passato sino ai nostri giorni, mostra di essere saldamente ancorata a un canone e un immaginario dello studio e della lettura che si originò nel Medioevo e che, pur nelle rilevanti trasformazioni, permea in parte ancora oggi la rappresentazione dello studioso. Un universo di idee e modelli che Kien, protagonista del romanzo di Elias Canetti Auto Da Fé, esemplifica egregiamente. Risaliamo quindi a ciò che sembra aver lasciato tracce persistenti in questo ambito di lettura: il modello che vuole imporsi come dominante nella scena della lettura negli ultimi secoli del Medioevo coincide in toto con la predominanza nel campo visivo dell’immagine dell’evangelista e del padre della chiesa in scrittura/studio, icona che accompagna la nascita dell’intellettuale.3 La figura dell’intellettuale, colui che fa della pratica della lettura un’occupazione totale, se non un mestiere, una ricerca dunque destinata alla produzione di cultura, in altre parole finalizzata alla realizzazione di altri testi da leggere, di altri volumi da consultare e da glossare, ci è stata consegnata nella rappresentazione e nelle descrizioni, sin dalla sua apparizione nei secoli XII-XIII, in associazione a un individuo di sesso maschile, negante il corpo e i suoi piaceri, racchiuso nell’iso-

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lamento dal mondo.4 La lettura in tal contesto voleva configurarsi come disciplina che metteva alla prova sia il fisico quanto lo spirito: una disciplina attraverso la quale raggiungere la virtus cristiana.5 Si tratta quindi di letture disciplinate per corpi disciplinati. Se non rintracciamo, nei trattati medievali dedicati allo studio, delle specifiche regole sulle posizioni del corpo da adottare in lettura, tuttavia vi troviamo precisate e dettagliate tutte le attività corporee coinvolte nel contesto; si passano infatti in rassegna sguardo, parola, gestualità, abito, nutrimento e sonno; la disciplina investiva tutti i cinque sensi al fine di rinsaldare il vincolo che si affermava esistere tra i comportamenti e l’anima. Ugo di San Vittore nel suo De institutione novitiorum liber si soffermava lungamente sulla necessità di allontanare dall’ambito della lettura e dello studio «turpes motus, et inordinatas gesticulationes membra» poiché «inhonesta figuratio et motio indecens, ab interiori mentis corruptione manaret».6 In quest’ambito la lettura diveniva gesto e fatica disciplinata e certo si adattavano a tale pratica, che nella rappresentazione figurativa era tradotta nell’evangelista seduto su uno sgabello, le norme che Ugo indicava sul modo di sedere, in cui si doveva evitare l’apertura e il movimento delle gambe e l’accavallarsi dei piedi: «sedere sine divaricatione crurum, sine alterutra superjectione pedum, sine extensione vel agitatione tibiarum, sine alterna accubitatione laterum».7 Si richiedeva una seduta immobile, ferma, che non facesse trapelare alcun sussulto del corpo. Bonvesin de la Riva in un’operetta volutamente didascalica composta in rima, Vita scholastica, rinsaldava l’associazione tra i comportamenti e lo studio, «moribus et studio consociare datis», ricordando alcune regole necessarie alla lettura: «Non te decipiat, vigilandi tempore, somnus, nullaque pigrities sit tibi causa nocens».8 Lo studio veniva paragonato a un arco che doveva essere tenuto sempre ben teso e necessitava di brevi riposi. L’ordine dai gesti si propagava alle cose: «Custodi libros, est querere perdita grave: qui bene conservat rem reperire valet». Mani pulite devono sfogliare i libri poiché «munda petunt mundas sepe voluta manus». Prendere il volume con mani pulite, sedersi in maniera conveniente, fare silenzio, «nulla clamore legendo», disciplinare il ritmo, controllare l’attenzione: il quadro ci riporta a posture obbligate e

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canoniche. D’altronde quel genere di lettura non poteva che svolgersi senza abbandoni nel corpo, nell’impossibilità di esprimersi in altre posture in quanto si accompagnava necessariamente alla scrittura, non dedita solo all’attività di copia. Si riteneva infatti che un leggere fruttuoso comportasse l’annotazione dei passi più rilevanti, nell’idea che ricopiare il testo influisse sulla sua comprensione e assimilazione: «distincte quicquid legis ipse notabis ut melius capias corde quod ore legis».9 Alla fatica della lettura, meticolosamente scandita dalla ruminatio e dalla meditatio, si congiungeva l’onere della copia. Si trattava di una lettura quindi con la penna in mano, che aveva bisogno di quella particolare postura del corpo atta allo scrivere, con calamo e raschietto tra le mani. Una pratica che si dimostrava tutt’altro che libera, prima di tutto nel corpo, affaticato da posizioni che oggi riterremmo insostenibili, senza appoggi per la schiena, curva sul foglio, spesso con i pesanti codici appoggiati solo sulle ginocchia, gli occhi indeboliti dalla scarsa luce, la scrittura sostenuta prevalentemente dal braccio levato. Il controllo del corpo diveniva indispensabile e strumento per poter affermare la superiorità dell’anima, la sua autorità. Sullo sfondo traspare presente la metafora di Aristotele che vedeva nel confronto anima-corpo una rivisitazione del rapporto tra il padrone e lo schiavo.10 Se la lettura in tale contesto voleva arginare e restringere, se non annullare, la libertà del corpo, tanto meno potremmo ravvisare una diversa disponibilità nella scelta dei testi, non lasciata certo all’arbitrio personale bensì strutturata all’interno di percorsi canonici, che nulla avevano in comune con una ricerca libera e priva di confini. I curricula studiorum prevedevano di iniziare con la grammatica e di proseguire con la retorica, la dialettica, l’aritmetica, la musica, la geometria, per concludersi con l’astronomia; né si poteva invertire o cambiare la successione delle materie di studio. L’ordine interno era uno degli elementi costitutivi della disciplina. Cassiodoro aveva fornito un preciso chiarimento a riguardo, prendendo a modello «coloro che desiderano avere la salute corporale. Infatti quelli che vogliono guarire domandano ai medici quali cibi debbano prendere nel primo e nel secondo pasto, affinché una disordinata attività non aggravi piuttosto che ristorare le molto esili forze delle deboli membra».11 Le letture necessarie per seguire compiutamente la ricchezza dei contenuti del trivio e del quadrivio erano tantissime e tale sterminata

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mole di libri fa sì che noi possiamo rintracciare nei contesti della Scolastica e della cultura ecclesiastica una preoccupazione che pare peculiare della modernità, ovvero il percepire il mondo dei libri come infinito. Si produceva, conseguentemente, una rincorsa affannosa al sapere, una caccia a procurarsi gli strumenti per il proprio costante aggiornamento.12 Forzati dello studio, i lettori medievali sono ritratti in ambienti ricolmi di grandi e pesanti tomi. Raccontando dei propri studi giovanili, delle ore e ore dedicate allo studio, Pierre de Blois confidava di aver letto un numero incalcolabile di libri.13 In questo universo tutto maschile e misogino alla lettura si chiedeva un sapere ordinato e regolato mentre da essa si bandiva la ricerca di emozioni sensoriali, di palpiti, della rappresentazione di entrambi i sessi e della carnalità della vita. La lettura e lo studio infatti erano rivolti unicamente alla sfera dell’intelletto, del logos, come frequentemente veniva ribadito: il dominio della conoscenza e la strada della sapienza erano percorsi unicamente razionali e produttivi. È ben conosciuta l’avversione dell’ambiente ecclesiastico e universitario per la letteratura, tanto più se pagana, e soprattutto per la poesia che infarciva la testa di cose vane, di fantasie; lo stesso Virgilio lungo tutto il Medioevo fu oggetto di una radicata avversione.14 Numerosi racconti esemplari venivano fatti circolare sui rischi di tali letture : «Un tale, a nome Vilgardo, nutriva per la grammatica una passione più forsennata che costante [...] tanto che una notte gli apparvero i diavoli sotto le forme di Virgilio, Giovenale e Orazio e lo ringraziarono del suo ardore nello studiare i loro libri [...]. Alla fine fu giudicato eretico».15 Questo dunque è il quadro che accompagna lo strutturarsi della figura dell’intellettuale medievale, riassunto nella mortificazione del corpo, nella disciplina dei sensi, nella costruzione di un mondo dimidiato che allontanava le donne, definito da letture canoniche che non volevano alimentare sentimenti e curiosità, ricerca libera – Pier Damiani ammoniva sull’empietà della «scientiae cupiditas»,16 – bensì affinare l’intelletto, la ratio affinché ci si potesse accostare alla lettura delle Sacre Scritture. Tutto ciò si traduceva visivamente nelle innumerevoli immagini di San Girolamo in studio, chino su grandi volumi o in lettura nel deserto, ancor più penitente, o in Sant’Agostino intento a leggere e scrivere, oltre ai sempre presenti evangelisti in scrittura.

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Percorsi femminili di lettura tra esclusione e libertà Escluse generalmente dall’istruzione superiore,17 le figure femminili non si sono rapportate nel passato con l’ordine e la disciplina finora incontrate. Il principio della diseguaglianza educativa, che dettava regole diverse per uomini e donne, in relazione alla maggiore o minore resistenza e alla differente natura, non prevedendo la lettura ordinata e lo studio utilitario per le donne, non elaborò un così complesso quadro normativo e un modello disciplinato del corpo in tale pratica. Neppure nell’ambito monastico, in cui leggere si configurava come attività di precetto, scandita da tempi ben definiti, la lettura femminile era precisata e sottomessa a fatica così come nel corrispondente contesto maschile. Se Benedetto nella sua regola inseriva anche le ispezioni durante le letture individuali – «Si incarichino innanzi tutto uno o due anziani che facciano il giro del monastero nelle ore in cui i monaci attendono alla lettura, per stare attenti che non si trovi qualche monaco pigro il quale perda tempo in ozio»18 – accenti meno severi, a questo proposito, si trovano nella prima regola indirizzata alle vergini di Cesario di Arles. Trattando delle letture, da quelle da eseguirsi in refettorio, a quelle che accompagnavano il lavoro comune, egli si soffermava sulla quantità da riservare alle veglie notturne, che secondo Cesario, doveva essere modesta, «temperanda est», due pagine, al massimo tre, ma in caso che ci si fosse alzate in ritardo, ne bastava una o ciò che la badessa riteneva sufficiente.19 Illuminante a questo proposito si rivela la lettera di Eloisa ad Abelardo in cui ella gli chiedeva una regola scritta adatta alle donne20 facendo presente che «al cosiddetto sesso debole viene imposto lo stesso giogo monastico del sesso forte», mentre più opportuno sarebbe stato seguire le indicazioni di San Gregorio che aveva indicato la necessità di differenziare pratiche e richieste. Eloisa proseguiva nel suo intento e scriveva: «Se per gli uomini ci vogliono pratiche anche di una certa durezza, basta un po’ di dolcezza per indirizzare sulla retta via le donne».21 E gli suggeriva: «Considera dunque quanto sia assurdo e irragionevole voler assoggettare uomini e donne alle stesse regole, volere insomma mettere lo stesso carico sulle spalle di una persona forte e di una persona delicata».22 Da queste premesse essa giungeva a richiedere meno rigore nelle pratiche corporee.

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Eloisa faceva derivare dalla differenza una maggiore libertà: ad esempio sulle regole da tenere nei confronti del cibo, del vino, spiegava che essendo il corpo femminile depurato dai molteplici flussi, è di per sé più sobrio e, quindi, spronava Abelardo a tenerne conto nella composizione della sua regola, affermando che «dopo tutto sia giusto, anzi conveniente, concederci nel mangiare e nel bere quella libertà che anche la nostra natura di donne comporta».23 È difficile allontanare il pensiero che Eloisa, ponendo innanzi la debolezza, non mirasse a un preciso percorso di sottrazione dalle regole maschili e non stesse formulando una critica alle norme troppo rigide che esigevano gravose fatiche corporali. Non si soffermava solo sulla nutrizione, l’abbigliamento, la pulizia delle mani, ma sottolineava la stessa libertà dalla disciplina delle letture obbligatorie. Sollecitava così Abelardo: «Potresti, ad esempio, fare in modo che leggendo il Salterio nell’arco di una settimana non fossimo costrette a ripetere gli stessi Salmi».24 Eloisa chiedeva quindi di infrangere una regola che vigeva nell’ordine maschile, ovvero la scelta settimanale di quei Salmi che si dovevano salmodiare inesorabilmente tutti i giorni, al fine di variare e rendere più libere le letture. Inoltre escludeva la più onerosa delle pratiche di disciplina del corpo legate alla lettura, ovvero il risveglio notturno per leggere i Salmi e il Vangelo. Scriveva infatti Eloisa: «Che dobbiamo fare riguardo alla lettura del Vangelo durante le veglie notturne?» Oltre a fargli presente che era meglio evitare, al fine di essere maggiormente al riparo dalle tentazioni, che qualche monaco o padre spirituale si recasse in piena notte a dirigere le letture, così come prescritto, Eloisa gli ricordava di limitare le fatiche, «anche qui, naturalmente, ti prego, tieni conto della debolezza delle nostre forze».25 La lettura “vera”, legata al logos, utilitaria, produttiva e in quanto tale disciplinata, era, secondo la tradizione filosofica classica, di competenza unicamente maschile, e di pochi tra gli uomini, dunque non prevista, né tanto meno auspicabile per altri e altre. Ciò non escludeva la possibilità che esistessero letture femminili e, tranne alcune voci contrarie a un’elementare istruzione delle donne, la capacità di leggere non incontrava delle opposizioni radicali. Il problema tuttavia aperto dalle letture delle donne era più grande e di difficile soluzione. Se agli uomini la legge naturale affidava l’intelletto, alle donne essa assegnava la corporeità, la radice prelogica e istintuale della vita. Le loro letture e la loro istruzione si dovevano

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quindi collegare a tale diversa natura: non tanto strade di affinamento dell’intelletto, i libri avrebbero coltivato la parte sensibile per ottenere buone mogli e madri, buone figlie, buone devote. Sbarrare la strada allo sviluppo intellettuale, non prevedendo un percorso regolare e canonico di studi, e lasciare aperta la via di influenza sui sentimenti non era privo di rischi e ciò spiega la puntuale ammonizione sul genere di letture. Ma, del resto, espulsa dalla dimensione produttiva, finalizzata alla scrittura, la lettura femminile era altro, come lo era quella praticata dai fanciulli, quella promossa negli ambienti cortesi, realizzata in contesti lavorativi dai ceti artigiani e umili. Se nell’ambito monastico l’accesso diretto alle Sacre Scritture, fine ultimo della “vera” lettura, attraverso lo studio approfondito e la spiegazione dei passi, era ostacolata al fine di evitare che le donne interpretassero liberamente e osassero insegnare, ancor più nell’ambito laicale la lettura delle donne si allontanava dal modello della disciplina e dallo studio organizzato. Sovente nei trattati sull’educazione femminile tale pratica assumeva il significato di onesto intrattenimento, si palesava come passatempo non diversamente dalla musica o dalla danza e la parola “diletto” le si accostava senza stridori. La lettura femminile era dunque un gesto improduttivo, non finalizzato, disgiunto dalla scrittura, che dimorava pericolosamente nel regno del gratuito, dell’accessorio. Non pertinente a un percorso compiuto, alla disciplina degli studi, a essa non si poteva, conseguentemente, richiedere un particolare e minuzioso controllo del corpo, che non riguardasse le consuete norme di creanza cristiana e di cortesia richieste alle donne. I generi testuali da esse frequentati, dai libretti di devozione domestica, ai romanzi, ai racconti, ai consigli dietetici e salutari, erano veicolati in codicetti di formato ridotto, che non obbligavano a posture ferme e curve bensì consentivano libertà nella posa e nello spazio. Paradossalmente la lettura femminile, in quanto lettura altra da quella dell’intellettuale, guadagnava una libertà non originaria ma residuale, una dimensione che l’esclusione dagli studi codificati rendeva poco controllabile e inclassificabile perché priva di un fine prestabilito e sottomessa al diletto, al piacere di leggere e di essere incantati da un testo. Né era possibile condannarla in toto. Francesco da Barberino infatti precisava che «lo leggere e lo scrivere non mi danno cagione del mal fare»26 e nell’educazione della fanciulla, pur-

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ché essa non fosse una serva o figlia di umili, inseriva: «Che in questo tempo imprenda leggere e scrivere convenevolmente; sicché se convenisse che ben savé ch’il senno accidentale qual porrà poi conquistar leggendo, aiuta il naturale in molte cose».27 Da un lato si ribadiva costantemente che la lettura femminile, strada di educazione dei sentimenti e non dell’intelletto, doveva mirare all’assimilazione dei precetti morali da trasferire in famiglia e nella società: le buone letture non potevano che essere consigliate per il ruolo centrale nella prima educazione svolto dalle madri, zie e sorelle e nutrici. D’altra parte, riconosciute come narratrici e ascoltatrici di storie, le donne vedevano legittimato il loro esercizio della lettura di romanzi e di novelle a intrattenimento amabile delle corti, delle cortesi compagnie. La capacità e l’abilità del leggere si integrava nei compiti e nelle qualità femminili,28 che il Boccaccio esprimeva nel racconto delle dame del Decameron. Se la lettura femminile non poteva seguire la disciplina, le regole che vigevano nel mondo degli studi, tantomeno nell’accostarsi ai libri le donne potevano e volevano rispettare le scansioni e le metodologie dei curricula. Spesso nei ricordi autobiografici si percepisce un ben diverso procedere, dettato dalle costrizioni e dalle opportunità, dai libri che potevano essere a disposizione, letti senza l’apparato di studi e commenti ma anche svincolati dall’esigenza produttiva e da una finalità filologica. Christine de Pizan raccontava di aver «rubato delle schegge e delle pagliuzze, dei soldini, delle monetine» del sapere accumulato dal padre e di aver poi proceduto in un percorso di autoapprendimento, caratteristica di molte donne e dei componenti di ceti umili, afferrando ogni buon libro che poteva procurarsi: «Come dapprima si fa cominciare il bambino dall’a, b, c, d, io mi accostai alle storie degli Ebrei, degli Assiri e dei prìncipi delle signorie che seguivano le une alle altre, passando ai Romani, ai Franchi, ai Bretoni e ad altre numerose opere storiche, poi alle conclusioni delle scienze, secondo quello che riuscii a comprendere nel tempo che potei dedicare allo studio».29 Un uso assai disinvolto e non canonico dei testi, privo del rigore metodologico, produceva risultati difformi, imprevisti, interpretazioni soggettive ed eterodosse, letture per sé, per il proprio piacere e diletto, per un uso sovente collettivo.

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Così come sul versante delle lettura utilitaria maschile si allineava una precisa gerarchia di fonti letterarie dal canone prestabilito, così alla pratica del leggere o dell’ascoltare testi in ambienti femminili o promiscui corrispondeva un diverso panorama di generi che spaziavano dal sacro al profano, che mescolavano cronache cittadine a leggendari, che ancor più lasciavano via libera ai racconti, ai romanzi cavallereschi alla poesia. Il pubblico femminile emerge dalle dediche dei novellatori, dei Padri della Chiesa e lascia intravedere spazi e contesti di lettura non rinchiusi in studioli ma aperti nei giardini, nei Garden of Love, nelle camere da letto, negli ambienti promiscui della casa. I corpi femminili che vi si associano nel piano della raffigurazione sono affrancati dalla fatica, le vesti cadono morbide e i volti sono rilassati in posture che non sono obbligate dalla necessità della copia o dell’annotazione dei notabilia. Il repertorio di immagini di donne in lettura sino al XIV secolo non costituisce un repertorio dominante come quello rappresentato dall’evangelista o dal Padre della Chiesa intento a leggere e scrivere, bensì si pone come alternativo e distante da tali immagini e ci riporta alla diversa caratterizzazione di tale pratica in ambienti femminili, suggerendo un tempo sottratto all’assillo produttivo:30 vi possiamo incontrare letture promiscue di uomini e donne in contesti cortesi, espresse in corpi morbidi e non segnati dalla fatica, bensì dal diletto, dame ritratte leggere in movimento, un passeggiare con l’accompagnamento di un piccolo libro, il libro d’ore. Un bell’esempio ci è offerto dalla statua tombale di Eleonora d’Aquitania, protettrice dei trovatori, patrona e committente di letterati, tra cui Maria di Francia,31 che la raffigura distesa in lettura, un piccolo libro tra le mani, quasi sorpresa nella sua camera da letto in un momento intimo.32 A fianco di questi modelli si faceva strada la scena dell’Annunciazione, nella quale il libro tra le mani di Maria fa la sua comparsa in maniera ancora sporadica dall’XI secolo per poi divenire presenza costante e radicata dal Trecento.33 Se la lettura di Maria potrebbe sembrare direzionata, se la postura della Vergine è presentata per lo più come inscritta nell’obbedienza, sottomessa all’umiltà e al pudore, nella realtà la sua traduzione visiva, che si esprime in molteplici varianti in cui non sempre lo sguardo è chino e il gesto della mano rinserra la veste, a suggello della purezza e del sigillo verginale e dottrinale, non

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riesce a circoscrivere la lettura di Maria in un atto unicamente prescrittivo: la lettura di Maria ci trasporta maggiormente in una dimensione privata, legata a una pratica piacevole, e comunica un tempo e uno spazio sottratti ai doveri domestici, un momento intimo dal quale l’arcangelo sembra trarre bruscamente la Vergine. Né il suo corpo riesce a trasmettere compiutamente un gesto disciplinato: colta nella camera da letto, più spesso seduta che inginocchiata, la figura inclinata e non statica, sembra maggiormente evocare una lettura per sé. Se le caratteristiche della pratica della lettura che accompagnano la nascita dell’intellettuale medievale avranno una lunga durata, legata alla produzione, all’ossessione utilitaria, le associazioni simboliche e figurative che si addensavano nella lettura femminile conosceranno un’altrettanto durevole resistenza nel tempo, mantenendo la lettura femminile prevalentemente nel regno del piacere e non del sapere. Nelle donne in lettura, un soggetto che incontrò una fortuna iconografica e letteraria in costante aumento, sino a conoscere un successo incontrastato dalla metà del XVIII secolo al primo Novecento, lo sguardo maschile indagava una pratica sfuggente, dal risultato oscuro, nella ricerca di comprendere percorsi psicologici, seduzioni dei testi e dei corpi. L’immagine di un uomo che legge, del resto, quasi sino ai nostri giorni rinvia all’erudizione e al mondo della cultura, l’immagine di una donna che legge ancora oggi riesce a produrre uno scarto e a evocare sempre anche altro. Nella espulsione dai percorsi canonici di studio, rimaneva infatti aperta un’altra via d’accesso ai testi, meno rigorosa e assai più irregolare, che si nutriva di letture proibite o di letture consentite ma utilizzate liberamente, che andavano a nutrire la fantasia femminile non solo per incrementare una sterile rêverie bensì per mantenere spazi liberi e meno disciplinati. Le donne intellettuali cercheranno di infrangere tale schema mostrando la loro intenzione di costruire sapere e cultura, sottraendosi all’esclusivo regno del diletto, dell’accessorio, in cui si voleva perimetrare l’accesso ai libri in mani femminili, usando della lettura per scrivere e rappresentandosi in posture che, seppur più libere, rinviavano alle immagini consolidate degli evangelisti e dei padri della chiesa. Posture, ambienti, corpi femminili in lettura e studio che volevano quindi suggerire ancora una volta una “disciplina”, pur diversa, e che nella maggior parte dei casi traducevano in immagini dei

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processi di auto-disciplina, non più imposti da una regola o da un percorso canonico e generalmente eterodiretti bensì spesso faticosamente conquistati, imponendosi regole di studio e di lavoro che al rigore metodologico, forzatamente manchevole, sostituivano un’inedita passione del sapere e la ricerca di un posto nel mondo delle lettere.

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Note 1. Per un quadro più vasto rinvio al mio lavoro Il “genere” dei libri. Storie e rappresentazioni della lettura al femminile e al maschile tra Medioevo ed età moderna, Milano, Franco Angeli, 2001. 2. D. Romagnoli, Parlare a tempo e luogo: galatei prima del “Galateo”, in G. Patrizi, A. Quondam (a cura di), Educare il corpo, educare la parola nella trattatistica del Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 43-63. 3. J. Le Goff, Gli intellettuali nel Medioevo, Milano, Mondadori, 1999 (ed. or. Paris, 1957); C. Frova, Istruzione e educazione nel Medioevo, Torino, Loescher, 1973. 4. P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani, Torino, Einaudi, 1992, p. 407 (ed. or. New York, 1988); D. F. Noble, Un mondo senza donne e la scienza occidentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 44-60 (ed. or. 1992); J. A. McNamara, The Herrenfrage. The Restructuring of the Gender System, 1050-1150, in C. A. Lees (a cura di), Medieval Masculinities. Regarding Men in the Middle Ages, Minneapolis-London, University of Minnesota Press, 1994, p. 6. 5. Ugo di San Vittore, Didascalicon, III, VI, Introduzione, traduzione e note di V. Liccaro, Milano, Rusconi, 1987, p. 130; Ivan Illich, Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, Milano, Raffaello Cortina, 1994 (ed. or. Chicago 1993). 6. Ugo di San Vittore, De institutione novitiorum liber, in Patrologiae Cursus Completus. Series Latina, 176, a cura di J.P. Migne, Paris, Apud Garnier fratres et J.P. Migne successores, 1880, coll. 941. 7. Ivi, coll. 943. 8. Bonvesin de la Riva, Vita scholastica, a cura di E. Franceschini, Padova, Gregoriana, 1943, p. 37. 9. Ivi, p. 36. 10. A. Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, Milano, Feltrinelli, 1995, p. 105. 11. Cassiodoro, Institutiones, in B. Nardi (a cura di), Il pensiero pedagogico del Medioevo, Firenze, Giuntine-Sansoni, 1963, p. 309. 12. J. Hamesse, Il modello della lettura nell’età della Scolastica, in G. Cavallo, R. Chartier (a cura di), Storia della lettura nel mondo occidentale, Roma-Bari, Laterza-Editions du Seuil, 1995, pp. 91-115; H. Erich Bödeker, D’une “histoire littéraire du lecteur” à l’“histoire du lecteur”. Bilan et perspectives de l’histoire de la lecture en Allemagne, in R. Chartier (a cura di), Histoires de la lecture. Un bilan des recherches, Paris, IMEC éditions - Éditions de la Maison des Sciences de l’homme, 1995, pp. 97-98. 13. Pierre de Blois, Epistola 101, in Patrologiae, XXVII, coll. 314. 14. D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, n. ed. a cura di G. Pasquali, Firenze, La Nuova Italia, 1937-1941, vol. 1. 15. Raul Glaber, Historia Francorum, libro II, cap. 12, citato in Frova, Istruzione e educazione, p. 64. 16. Pier Damiani, De santa simplicitate scientiae inflanti anteponenda, in Nardi (a cura di), Il pensiero pedagogico del Medioevo, p. 320. 17. Sull’istruzione femminile cfr. A. Giallongo, Il galateo e la donna nel Medio-

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evo, Rimini, Maggioli, 1987; P. Riché, Sources pédagogiques et traités d’éducation, nella raccolta di saggi dell’autore Éducation et culture dans l’Occident médiéval, Aldershot, Variorum, 1993 (Collected Studies Series; CS420); per il periodo successivo G. Zarri, Le istituzioni dell’educazione femminile, in A. Prosperi (a cura di), Le sedi della cultura in Emilia-Romagna. I secoli moderni. Le istituzioni e il pensiero, Cinisello Balsamo, 1987, pp. 84-109; per un panorama generale cfr. P.F. Grendler, La scuola nel Rinascimento italiano, Roma-Bari, Laterza, 1991 (ed. or. Baltimore-London, 1989). Si veda anche S. Ulivieri (a cura di), Le bambine nella storia dell’educazione, RomaBari, Laterza, 1999. 18. San Benedetto, Regula, introduzione, apparati, traduzione e commento a cura di G. Penco, Firenze, La Nuova Italia, 1958, p. 139. 19. Césare d’Arles, Regulae ad virgines, introduzione, testo critico, traduzione e note di A. de Vogué, J. Courreau, in Césare d’Arles, Oeuvres monastiques, I, Oeuvres pour les moniales: «si vero evenerit ut tardius ad vigilias consurgant, singulas paginas, aut quantum abbatissae visum fuerit, legant», Paris, Les Éditions Du Cerf, 1988, p. 266 (Sources Chrétiennes, 345). 20. Eloisa del Paracleto, VI. lettera ad Abelardo, in Abelardo ed Eloisa, Lettere d’amore, traduzione dal latino, introduzioni e note a cura di F. Roncoroni, saggio introduttivo di G. Ceronetti, Milano, Rusconi, 1971, pp. 237-267. 21. Ivi, pp. 242-243. 22. Ivi, pp. 244-245. 23. Ivi, p. 248. 24. Ivi, p. 266. 25. Ibidem. 26. Francesco da Barberino, Del reggimento e de’ costumi delle donne, pubblicato a cura di G. Manzi, Milano, Giovanni Silvestri, 1842, p. 50 (Biblioteca scelta di opere antiche e moderne, 449). 27. Ivi, p. 45. 28. A.A. Hentsch, De la littérature didactique du Moyen Age s’adressant spécialement aux femmes, Halle, 1903, p. 88. 29. Christine de Pizan, L’Avision, citato in E. Carrara, Christine de Pizan. Biografia di una donna di lettere del XV secolo, in «Quaderni medievali», 29 (Giugno 1990), p. 72. 30. Per una galleria di immagini al maschile e al femminile cfr. Plebani, Il “genere” dei libri, cap. II, Corpi in lettura. 31. Sulla committenza di aristocratiche, cfr. M. B. Parkes, Scribes, Scripts and Readers. Studies in the Communication, Presentation and Dissemination of Medieval Texts, London and Rio Grande, The Hambledon Press, 1991, cap. 14, The Literary of the Laity, pp. 276-278. 32. Sulla vita di Eleonora d’Aquitania cfr. Régine Pernoud, Eleonora d’Aquitania, Milano, Jaca Book, 1983 (ed. or. Paris, 1965); J. Markale, Eleonora d’Aquitania. La regina dei trovatori, Milano, Rusconi, 1980 (ed. or. Paris, 1979). 33. Sul rapporto tra l’inserimento del libro nella scena dell’Annunciazione e la nascita del pubblico di lettrici rinvio al mio lavoro Corpi in lettura.

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LUISA ACCATI Il corpo naturale delle madri e il corpo sociale dei figli: nascite barocche

1. Per certi versi parlare o scrivere del corpo è un controsenso. Infatti il corpo ha un suo linguaggio molto chiaro e perfettamente autonomo; un linguaggio ben più rispettoso delle diversità di genere e delle diversità in genere di quanto non sia quello delle parole. Il corpo mostra e afferma le diversità, può contraddire le affermazioni con inconfutabili evidenze: sto pensando soprattutto all’espressività e al movimento nel quotidiano, ma anche ai sintomi oppure alla danza, alla recitazione, al travestimento e così via. Una frase può cambiare del tutto significato a seconda del modo in cui viene detta, così come ci sono gesti, passi, modi di atteggiarsi che possono comunicare messaggi fondamentali e decisivi per le relazioni umane. Tuttavia la cultura occidentale, più di numerose altre culture, ha fatto largo uso di un ulteriore linguaggio, quello delle immagini, intermedio fra parole e fisicità. Le immagini interpretano i corpi e danno l’illusione che ci siano delle donne o degli uomini là dove non ci sono: un anziano signore in cielo o una donna che cammina sulle nuvole. Infiniti possono essere i significati che emergono dall’intreccio di questi linguaggi: nascono ambiguità e ambivalenze dalle diverse possibili composizioni fra immagini, parole e messa in scena della fisicità. Quello che contraddistingue la religione cristiana, e in particolare la religione cattolica, è il grande peso che viene accordato alle immagini: le immagini sacre sono un linguaggio dentro il linguaggio, costellazioni di simboli dominanti, fanno da intermediarie autorevoli fra la gerarchia e i fedeli.1 A metà Cinquecento osserviamo nell’immaginario sacro una serie di trasformazioni che comportano notevoli mutamenti nella

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rappresentazione figurativa del corpo materno, a cui corrisponde un mutamento dell’immaginazione mentale del materno. Cambia tra cattolici e protestanti il modo di pensare l’incarnazione e, anche fra i cattolici, si avvia un processo di parziale ridefinizione appunto dell’incarnazione.2 Com’è noto la Chiesa di Roma smette di essere il punto di riferimento per i protestanti come smettono di essere oggetto di culto le immagini sacre e, prima fra tutte, quella di Maria, metafora per l’appunto della Chiesa romana. Scompare così la rappresentazione corporea della Madre per eccellenza che fino ad allora aveva avuto un ruolo di primo piano in tutta la cristianità. Per contro nei paesi cattolici il corpo della madre quale luogo di incarnazione non scompare, al contrario, diventa una rappresentazione emblematica più di quanto non fosse mai stata. Tuttavia, l’immagine del corpo muta e muta anche il ruolo mediatore del corpo materno in funzione del riequilibrio fra autorità del papa e autorità del re. Questo cambiamento simbolico è il segno di un cambiamento nella definizione del ruolo materno socialmente approvato e al contempo dell’autorità che egemonizza il simbolo materno, la Chiesa. Dunque non ha nulla di sorprendente che uno dei punti di maggior contrasto fra cattolici e protestanti sia stata la devozione mariana; era ovvio che coloro che si staccavano dalla Chiesa romana non volessero più saperne della sua rappresentazione metaforica. Tuttavia dal momento che il punto di riferimento reale del simbolo è la madre naturale – Maria infatti è una madre naturale a tutti gli effetti – è coinvolto il ruolo materno e, indirettamente, le donne. Il punto cruciale del contrasto fra cattolici e protestanti riguarda infatti l’incarnazione; è in questione la più elementare delle domande: come nascono i bambini? Questo in definitiva è il senso delle domande teologiche intorno all’incarnazione. La realtà comincia dai genitori, dalla madre o dal figlio? 2. Nella educazione dei bambini e dei giovani i genitori e gli educatori usano soprattutto le parole per insegnare le regole della conoscenza, quelle del diritto e quelle del comportamento morale. Però nei paesi cattolici (a differenza che nei paesi protestanti) oltre alle parole – come abbiamo già detto – c’è un altro linguaggio che contiene delle indicazioni circa le cose che bisogna sapere: le immagini sacre infatti sono immagini speciali perché suggeriscono anche

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loro delle norme. Tuttavia, a differenza delle parole, non si rivolgono alla ragione logica delle persone, sollecitando risposte verbali, si rivolgono più immediatamente alla parte affettiva delle persone, colpiscono i sentimenti, suscitano emozioni: sono molto più nell’ordine del corpo delle parole. Tutti vedono le immagini, pochi conoscono la teologia che ci sta dietro.3 Le immagini, proprio perché si rivolgono agli affetti, hanno una capacità di colpire nel profondo chi guarda; riescono a violare il pensiero vigile e allo stesso modo possono esprimere sentimenti più profondi delle parole.4 Le parole e le immagini sacre, cioè la teologia e l’arte sacra, sono due campi di competenza maschile particolarmente esclusiva. Anche se le immagini sacre rappresentano spesso corpi di donne, l’egemonia su queste immagini è di uomini celibi, ossia di uomini che non diventano né mariti, né padri (almeno legalmente); siamo dunque in un universo maschile filiale, deliberatamente estraneo alla convivenza con le donne per quel che concerne i committenti; uomini sono anche gli esecutori delle immagini, i pittori, tuttavia loro non sono necessariamente celibi. Quando vediamo una Madonna possiamo essere colpiti dalla sua bellezza, ma al tempo stesso nella nostra mente (anche se non siamo affatto cattolici) si presenta una associazione di idee contrastanti Vergine-Madre. Questo binomio sembra paradossale se ci lasciamo ingannare dall’effetto di realtà delle immagini, se pensiamo cioè che le immagini rappresentino corpi reali e non corpi finti; se invece ci ricordiamo che le immagini sacre mostrano le idealizzazioni5 intorno alla madre di un universo maschile-simbolico-normativo in cui le donne non hanno alcun potere, né alcuna presenza, subito ci rendiamo conto che Vergine-Madre non è un impossibile modello per le donne, ma un divieto per gli uomini.6 L’associazione di parole Vergine-Madre significa che la madre rimane sempre vergine per i figli, cioè non è un possibile oggetto sessuale per loro, è sacra cioè proibita per loro. I teologi, che sono perlopiù dei celibi, quando parlano della Madonna ne parlano in termini molto astratti: Maria è una metafora dell’umanità, della Chiesa, della stessa teologia, della fertilità.7 I pittori invece ci mostrano che la Madre per eccellenza non manca di essere associata alle donne reali e non manca di una vicinanza affettiva forte fra la donna primo oggetto reale del figlio, la madre e tutte le altre donne, non manca cioè di esserci un collegamento fra il

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primo oggetto d’amore e altre donne, altri oggetti di amore successivi.8 Per esempio Velazquez per un’Adorazione dei re magi9 usa sua moglie come modello per la Madre per eccellenza e suo figlio come modello per il Bambino per eccellenza. I pittori, a dispetto dei teologi, mostrano che vi è una continuità affettiva fra la madre e la moglie. Tutto il culto mariano è uno scenario di conflitti fra uomini, appunto sul modo di rispettare il divieto dell’incesto. Per gli ecclesiastici celibi l’unico modo è non avere rapporti con donne cioè la castità; per gli altri, gli uomini che vogliono avere una famiglia, si tratta invece di spostare l’esperienza affettiva e sensuale, l’esperienza corporea fatta da bambini con la madre, su un’altra donna non proibita sessualmente. Questo spostamento da un corpo a un altro è ciò che fa diventare adulti. Lo spostamento per essere portatore di maturità deve essere basato sulla scelta libera, cioè deve contenere la possibilità della separazione e di altri possibili oggetti d’amore; se si propone di essere eterno e unico ripete la condizione di dipendenza assoluta e di soggezione al materno.10 Questo è un punto cruciale del potere ecclesiastico, perché è un dettaglio irrinunciabile dell’immaginario celibatario considerare ogni donna una semplice variante di un soggetto collettivo, la Madre per eccellenza, simbolo per eccellenza della Chiesa. Per questo la indissolubilità del matrimonio diventa un punto cruciale del potere della Chiesa. La dipendenza per sempre dalla moglie tenta di riprodurre la forma elementare di dipendenza dalla madre e, per estensione metaforica, tenta di trasferirla alla Chiesa. La nuova interlocutrice, la moglie, acciocché il potere dell’istituzione ecclesiastica sia operativo, si deve configurare come una semplice riedizione delle funzioni assistenziali materne, su cui la Chiesa ha l’egemonia dal punto di vista simbolico. 3. Il processo di maturazione è difficile, è difficile il distacco dai genitori in genere, per tutti e dovunque, per gli uomini come per le donne. Fra i numerosi culti mariani uno ci mostra in particolare la difficoltà di pensare l’amore fisico fra i genitori, quello della Concezione. La difficoltà di tutti i bambini a pensare come nascono i bambini sta nella immaginazione di come i corpi dei genitori si uniscono: è una curiosità elementare e fondamentale nei processi conoscitivi. Riuscire a pensare la coppia dei genitori e la loro unione è importante sul piano affettivo per riuscire a costruire un’altra possibile coppia, una

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nostra coppia diversa e simile a quella dei genitori. Si tratta insomma dello scenario del passaggio delle generazioni e questo ha a che fare anche con l’accettazione e la consapevolezza del tempo storico. I pittori ci rappresentano queste difficoltà nell’arte sacra. L’immagine dello Sposalizio di Maria e Giuseppe è un’immagine che troviamo frequentemente dal Trecento al Cinquecento (Giotto, Raffaello), tuttavia San Giuseppe non riesce mai a diventare il vero marito di Maria: la difficoltà a pensare come siamo nati è grandissima nell’immaginario cristiano. Il celibato perpetuo a cui sono tenuti coloro che commissionano le immagini sacre non può che accrescere queste difficoltà; a loro infatti non è dato progettare una futura coppia coniugale. I pittori, per riuscire a rappresentare il concepimento, lo spostano di una generazione: nel Trecento e nel Quattrocento la Concezione è rappresentata come la coppia dei nonni di Cristo, cioè Gioacchino e Anna genitori di Maria. Oppure la Concezione è rappresentata nella sua forma passiva, come la figlia concepita, cioè come Maria concepita.11 Per esempio nel 1473 Bartolomeo Vivarini dipinge sia la coppia dei genitori, Gioacchino e Anna (fig. 1), sia la figlia, Maria,12 frutto della loro unione e a sua volta gravida (fig.2). In altre parole la rappresentazione della Concezione è divisa in due: da una parte la coppia dei genitori, uniti in un abbraccio realistico che significa l’unione coniugale dei corpi, e questo è il modello per chi vuole avere figli e discendenza; dall’altra la Concezione come Maria-figlia, frutto contenuto nel ventre di Anna e a sua volta gravida. Metafora quest’ultima dell’eterno ripetersi della fertilità e del carattere contenitivo del ventre gravido, luogo per chi rimane celibe, sotto la protezione della Chiesa. Preti e monache si fermano nella condizione di figli senza discendenza, protetti dalla guerra e dal parto; preti e monache s’identificano con la funzione protettiva del ventre materno e fanno del maternage la loro vita. Queste due immagini scompaiono progressivamente con la Controriforma e nel corso del Seicento si afferma in numerosi esemplari un’altra e unica immagine della Concezione: l’immagine della Controriforma. La Vergine è sola, bianchissima, giovanissima e, in modo del tutto invisibile, gravida dall’eternità; questa rappresentazione la troviamo in Zurbaran, Murillo, Guido Reni e altri fino alle numerose Immacolate di Tiepolo (fig. 3).13 In sostanza prevale l’immagine monastica della Concezione. Infatti questo modo di rappre-

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sentare la Concezione esclude la coppia coniugale, tanto Maria e Giuseppe, quanto Gioacchino e Anna. Si fa partire l’origine di sé dalla madre sola e dalla condizione di dipendenza assoluta del figlio nella gravidanza. La gravidanza è opera di Dio e la madre è un contenitore senza macchia, senza peccato, senza responsabilità, del figlio. Nei quadri di Vivarini, anche in quello monastico di Maria, si vede una differenza fra la madre e i figli, si vede il ventre gravido. Nelle Concezioni dal Seicento in poi si vede una giovinetta, «gravida nella mente di Dio», dice la teologia, ma l’immagine sacra non da più alcun segno fisico e realistico della concezione: madre e figlio sono indistinguibili, si vede soltanto una giovane donna e di lei si sa che è una madre gravida. L’immagine della concezione passiva di Vivarini è già una metafora della maternità, ma è una metafora che conserva la capacità di alludere alla realtà. Nell’Immacolata di Tiepolo non solo non si riesce a pensare al concepimento come coppia di genitori, ma non si riesce più a pensare neppure alla gravidanza. La sparizione del ventre turgido fa della madre un involucro, un guscio del figlio, non più una persona autonoma, bensì la parte contenitrice del figlio stesso, un’unione-fusione. Che cosa provoca questo cambiamento nell’immagine del materno fra Quattrocento e Settecento? Nel 1563 il matrimonio diventa materia esclusiva dell’autorità ecclesiastica. Il Concilio di Trento infatti passa le norme del matrimonio legittimo dall’autorità dei padri e dei notai a quella del papa e dei vescovi.14 Il predominio assoluto della Chiesa in materia di matrimonio porta al predominio della sola immagine ecclesiastica. Una madre indissolubilmente legata al figlio nel matrimonio mistico (appunto l’unione fra la madre-Chiesa e il figlio-prete-celibe) diventa l’icona del matrimonio al posto della coppia di genitori. A partire dal 1563 e fino al 1854 (anno di proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione), la capacità dei singoli uomini di saper pensare alla coppia dei genitori e al concepimento di sé è messa a durissima prova. Devono infatti lottare strenuamente contro un immaginario normativo che cancella la coppia e fa partire la realtà della nascita, dalla gravidanza. La partenogenesi diventa il momento originario. Prima di spiegare il senso preciso della partenogenesi è bene fare qualche considerazione generale, a grandi linee, del quadro politico. È come se a metà Cinquecento le due immagini di Bartolomeo Viva-

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rini si dividessero fra protestanti e cattolici. È come se la coppia di Gioacchino e Anna, perdendo la sua sacralità, diventasse l’icona dell’unione quale dovere civile (propria dei paesi protestanti) e la Vergine della Misericordia diventasse il nuovo modo di nascere nei paesi cattolici, la coppia madre-figlio al posto della coppia padre-madre. Il cristianesimo si divide perché si dividono gli orientamenti politici e da queste suddivisioni nasceranno gli stati moderni, antropologicamente diversi fra loro.15 Nei paesi protestanti e in special modo in Inghilterra il problema è soprattutto il consolidamento della sacralità del potere regio e dell’indipendenza dalla Chiesa romana. Dunque si tratta soprattutto di problemi di ordine interno, problemi di autorità del sovrano e problemi di autorità delle nuove forme di religiosità rispetto a sudditi e fedeli. Il carattere di dovere che assume il matrimonio è da riferirsi soprattutto a intenti di coesione sociale; il matrimonio infatti è uno strumento decisivo per definire l’intreccio delle relazioni. Nei paesi cattolici dove la fede religiosa non muta sostanzialmente, la corona di Spagna ha una particolare influenza sulle sorti della cattolicità e la monarchia spagnola non intende rendersi autonoma dal Papa; al contrario, conta sull’appoggio della gerarchia ecclesiastica per l’assimilazione attraverso l’evangelizzazione del Nuovo Mondo. La organizzazione del potere è soprattutto rivolta verso l’esterno, verso sudditi di altri regni e infedeli. 4. La disputa intorno alla concezione di Maria ha grande peso per i gesuiti, per Francisco Suarez in particolare e per le relazioni fra sovrani spagnoli e clero spagnolo; non solo, è motivo di forti contrasti fra domenicani, francescani e gesuiti. Francisco Suarez, oltre ai testi politici, è anche autore di una teologia mariana16 e, come tutti i gesuiti e tutti i sovrani spagnoli della Controriforma, è fautore della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione.17 La Madonna è una metafora della Chiesa, ma come ogni simbolo dominante condensa molti significati, rappresenta infatti anche la madre naturale e il materno, la carne e il corpo del figlio in quanto essere umano, la sposa di Dio e la fertilità contenuta dall’utero, il ripetersi della fertilità e pertanto le comunità come soggetti collettivi che continuano nel tempo a riprodursi. Di qui la capacità di proteggere innanzitutto conventi e monasteri, ma anche città, comuni, corporazioni e confraternite e

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dunque la sua predisposizione ad assimilare i nuovi popoli del nuovo mondo. A partire dalla fine del Cinquecento il culto e l’immagine di Maria conoscono uno straordinario sviluppo, proprio in concomitanza con le polemiche antiprotestanti e proprio in concomitanza con l’assegnazione, in occasione del Concilio di Trento, del matrimonio e della materia matrimoniale al Controllo esclusivo dell’autorità ecclesiastica, cioè di un’autorità che non usufruisce della paternità. Il popolo che conferisce il suo potere nelle mani del sovrano è contenuto e condizionato dalla Chiesa ante secula,18 cioè prima del tempo storico e al di fuori del tempo storico ed è a causa di questo legame meta-storico – che precede le leggi positive, indipendentemente dal loro contenuto – che il papa può legare o sciogliere qualunque legge. Il Verbo divino elesse sua madre e la preordinò da tutta l’eternità con la sua sola volontà, per questo la Vergine è detta vaso di elezione. «Questa verità intendono insegnare i Santi Padri quando dicono che il Verbo divino scelse per sé la madre e la preordinò dall’eternità secondo la sua sola volontà […]». La Vergine fu scelta ante secula, cioè prima del peccato originale, perché la madre non era ancora separata dal figlio nella divina elezione.19 Il femminile-materno è saldato al figlio e risponde a Dio e non ai sovrani e alle leggi positive. La violabilità delle donne infatti non è controllabile da parte delle leggi umane, ma solo da quelle della natura, proprio nel momento del concepimento, cioè nel momento in cui le leggi della natura, ancora pure, entrano in rapporto con le leggi positive. Il materno, su cui il papa ha l’egemonia è un valore indeterminato socialmente, la determinazione è infatti conferita dall’esterno, cioè dal padre; questo pone l’essenza sotto una determinazione, ma non cambia l’appartenenza dell’esistente all’essenza, cioè del figlio alla madre e della madre a Dio. Se – come Suarez pensa – gli ordinamenti positivi non sono modificati dalla Rivelazione20 perché hanno una coerenza in termini di pura natura umana, il nascere e il concepire restano saldamente legati alla legge divina, quale che sia il governante del vecchio o del nuovo mondo. I privilegi concessi da Dio alla Vergine diventano in quegli anni una sorta di quadro di riferimento prepolitico che assegna alla Chiesa il ruolo di contenitore dei popoli del nuovo mondo. «Dio volle che la Beata Vergine conseguisse tutta questa perfezione, perché, a nostro modo d’intendere, l’intenzione del fine precede la scelta dei mezzi».21

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5. Dice Suarez che la legge nell’accezione di Tommaso è metaforica e troppo ampia, infatti riguarda anche cose che non sono dotate di ragione e pertanto incapaci di leggi e di obbedienza, le norme delle cose vengono chiamate leggi per analogia; la legge a titolo di comandamento richiede la capacità di obbedire: «le cose che mancano della ragione non sono propriamente capaci di legge, così come non sono capaci di obbedienza. Dunque la potenza della divina capacità, e la necessità naturale che troviamo in queste cose, risulta chiamata legge per metafora».22 La Chiesa s’identifica con la madre, ma è il figlio soprattutto a essere esentato dal peccato e pertanto redentore. «Come se uno, al momento in cui una schiava viene venduta, prevedesse nello stesso contratto di vendita che uno dei suoi figli fosse esentato dal nascere schiavo, in ragione di colui che lo aveva reso libero dalla schiavitù; così, conseguentemente, la Vergine si dirà redenta da Cristo, sebbene non avesse peccato in Adamo, perché per i suoi meriti previsti, in tal modo fu esentata che non poté peccare in Adamo».23 In quest’ottica la madre Chiesa (cioè i figli celibi e senza discendenza), come la madre naturale (cioè la donna nella pura condizione naturale, senza marito e senza padre), è gravida nella mente di Dio dall’eternità, cioè appartiene non alle leggi positive, ma alle leggi naturali, cioè a quelle che, secondo Suarez, non sono propriamente leggi, perché a esse non è possibile obbedire volontariamente. Nella realtà degli esseri incarnati si fronteggiano due volontà: quella arbitraria e libera di contraddire la ragione dei sovrani e dei loro sudditi, e questo è l’ambito delle leggi positive; poi vi è la volontà di Dio che organizza la realtà, ma nelle sue leggi comando e obbedienza coincidono, a questa volontà obbediscono il papa, i sacerdoti e le madri. Il punto cruciale – come vedremo – è che il papa e i sacerdoti le obbediscono volontariamente, mentre le madri le obbediscono involontariamente. La capacità specifica del sovrano è quella d’imporsi e farsi obbedire su un piano umano e in virtù della sua forza; la capacità specifica del papa è l’assoluta obbedienza a Dio, che lo rende depositario delle leggi necessarie della natura, prima fra tutte la legge della concezione. 6. Nell’interpretazione dei gesuiti e di Suarez la Chiesa, come le madri, accoglie gli ordini della volontà divina, ma non sa porre confini a questa volontà; il papa si pone come passività assoluta, conte-

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nitore universale, prima delle leggi positive, contenitore di popoli non definiti quanto ai padri e quanto al sovrano: «l’infinità assoluta della potenza papale è tale da superare la comprensione di ogni intelletto creato e dunque del papa stesso che non misura la sua potenza perché non la conosce».24 Questo è il punto cruciale in cui si comprende perché sia l’immagine di un corpo femminile-materno contenitore a rappresentare la Chiesa. È infatti la stessa situazione di mediazione in cui si trovano le madri rispetto a Dio: concepiscono, fanno i figli e danno loro la vita senza conoscere il potere del loro corpo e senza poter arrestare con la volontà i processi biologici una volta avviati. La volontà di Dio è illimitata e l’obbedienza delle madri anche. «Dunque rispondo, perché si possa dire che la beata Vergine è propriamente e veramente madre di Dio, è sufficiente che nello stesso istante in cui l’anima di Cristo si è unita al corpo, mentre la Beata Vergine partecipava con il concorso materno (sia esso attivo o passivo, questo in verità non lo discuto ora), nello stesso momento (dico) l’anima, il corpo e l’umanità si sono unite al Verbo; così come, al contrario, si dice che i giudei abbiano ucciso Dio, perché con la loro azione scellerata hanno separato l’unione dell’anima dal corpo e conseguentemente, allo stesso modo, l’umanità è stata separata dal Verbo».25 Il papa, come le madri, non sa mettere limiti al suo potere, è tramite passivo dell’Assoluto, il suo potere deriva dalla gestione del pericolo insito nella illimitata obbedienza materna. Si comprende l’interesse del re di Spagna non ad avere questo potere, rischiosamente illimitato, ma a essere appoggiato da questo potere utilmente universale. Se il re Giacomo I ha bisogno di imitare il papa, il papa di Suarez non può trovare confini definiti in cui esercitare il suo magistero, senza l’aiuto del re cattolico. La carne fornita dalla Vergine al Figlio, grazie all’esenzione dal peccato originale, perde qualsiasi traccia di determinazione sociale, infatti il concorso materno sive activus, sive passivus è indifferente, comunque non conferisce nulla al figlio. La Vergine è considerata come non determinata dal marito fin dal IV secolo, i fautori dell’Immacolata Concezione come Suarez e come i gesuiti, in aperto e inconciliabile contrasto con Tommaso e i domenicani, esigono che sia non determinata nemmeno dal padre. «Nessuno può essere redento se non chi è soggetto al peccato o almeno tanto soggetto alla necessità di contrarre peccato da non poterlo evitare senza la grazia singolare del Redentore. Questo è spiegato

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dall’esempio […] della donna che viene fatta schiava, eccettuando nello stesso contratto di schiavitù uno dei suoi figli dal nascere schiavo. Giacché, supposto questo, chi poi redimesse dalla schiavitù quella donna, in verità non redimerebbe suo figlio, poiché non era soggetto alla schiavitù, poiché doveva nascere libero».26 L’ipotesi che Maria sia nata senza contrarre il peccato originale perfeziona la sua assoluta dipendenza da Dio, il suo essere pura serva del Signore (ancilla Domini); l’esenzione, infatti, implica che, oltre a non aver avuto alcun contatto determinante con Giuseppe, non abbia nemmeno ereditato alcuna determinazione da suo padre Gioacchino. Il figlio viene direttamente da Dio senza che sua madre porti traccia né del marito (Giuseppe), né di suo padre (Gioacchino), e quest’assenza assoluta di legami maschili la svincola dal contratto fra Dio e Adamo. La principale preoccupazione dei re di Spagna è l’assimilazione del nuovo mondo e questa è anche una delle preoccupazioni sia di Suarez che di tutti i sostenitori del dogma della Immacolata Concezione.27 Infatti se Maria fosse stata santificata in utero, come vorrebbero Tommaso e i domenicani, porterebbe la traccia del peccato originale, cioè una determinazione di suo padre Gioacchino e attraverso di lui del patto fra Dio e Adamo. Vi sarebbe in sostanza una condivisione del potere temporale e del potere spirituale sul sacro, sull’ambito del rapporto con Dio; simmetricamente vi sarebbe una responsabilità del potere spirituale nelle condotte del potere temporale. L’insistenza dei gesuiti sulla mariologia è un segno di demarcazione originario fra il potere papale e quello regio: il potere papale conserva il legame con l’ordine soprannaturale, attraverso la legge naturale materna, ma il materno è un oggetto condiviso fra potere del sovrano e potere del papa; la mancanza d’identità sociale delle donne occulta l’accordo fra la sfera di competenza del potere temporale e la sfera di competenza del potere spirituale, il concetto di concezione immacolata nega, cancellandola, ogni determinazione del padre naturale. Il patto biblico era stato stipulato fra Dio (astratta norma, giustizia originale) e due esseri umani, Adamo ed Eva. Eva è quella che rompe l’armonia con Dio. La Eva biblica nella legge dei suoi padri, può contribuire a ricomporre il patto originale, riscattando il suo errore attraverso l’obbedienza ad Adamo, il dolore del parto e l’osservanza delle norme relative al sangue, contenute nel Levitico e nel

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Deuteronomio.28 Nel patto neotestamentario Eva non può più partecipare soggettivamente alla ricomposizione della giustizia; la nuova Eva, Maria, non ha alcuna responsabilità soggettiva e per redimersi dipende dal figlio e dalla sua rappresentanza. La qualità che contraddistingue Maria rispetto a Eva è l’obbedienza senza limiti e questo la rende bellissima.29 La responsabilità delle donne viene alienata nei loro figli, sicché il recupero della giustizia originale a partire dal mondo diventa impossibile. La mariologia rappresenta un’elaborazione estetica e rituale di un’impossibile ricomposizione etica con Dio e le sue leggi, ricomposizione che si fa più che mai impossibile se Eva, oltre a non potersi redimere, non ha nemmeno più commesso alcun peccato. Sant’Anselmo – osserva Suarez – nel libro De conceptu virginali «dove parla di Cristo, dice che ebbe la giustizia originale fin dalla sua origine. E questo non lo può dire per altra ragione se non perché mancò del fomite; dunque la stessa cosa, fatte le debite proporzioni, si deve dire della Vergine, poiché anche lei mancò del fomite. Sicché, come la giustizia originale che è stata comunicata ad Adamo come primo principio naturale, è stata comunicata anche a Eva, che gli era stata data come aiuto e pertanto simile a lui, così è stata data alla Beata Vergine nel modo in cui è stata data a Cristo».30 Il moltiplicarsi dell’immagine mariana da Velasquez a Zurbaran a Murillo accanto a Suarez e ai gesuiti è un segno inequivocabile di quanto il popolo venga considerato incapace di stipulare alcun contratto per mancanza di responsabilità morale soggettiva: l’illustrazione estetica del contesto nega la capacità etica del contesto stesso. Il rituale e le immagini sono l’elaborazione morale per le donne e per i semplici.31 «Tutta bella sei, amata mia, e macchia non è in te» («Tota pulchra es amica mea et macula non est in te», Canticum Canticorum, 4, 7): il contrassegno dell’Immacolata è la bellezza, tutta la bellezza corporea, quale segno della perfetta assenza di macchia e della pienezza dei meriti. Poiché non vi è una responsabilità soggettiva di Maria, il controllo della fertilità si configura come dominio sulla fertilità-bellezza, dominio del figlio. La conoscenza nella mente di Dio dei meriti di Cristo ottiene per l’Immacolata il privilegio dell’esenzione dal peccato originale. L’esenzione è dovuta alla volontà di Dio, si tratta di un miracolo, sicché siamo all’interno della legge eterna. «Dunque si può dire e si può pensare che la legge eterna […] è misura e regola degli atti liberi di

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Dio»,32 ci troviamo cioè nell’ambito della volontà di Dio. «Si conclude che la legge eterna necessariamente include e postula un atto della volontà divina, poiché anche la libertà di Dio si trova formalmente contenuta nella volontà divina; tuttavia la legge eterna è qualcosa di libero in Dio; pertanto comprende la volontà».33 Poiché non esiste legge senza volontà di comando, non esiste legge senza qualcuno che la obbedisca volontariamente e non per necessità. «[…] La subordinazione e la soggezione delle cose irrazionali a Dio, vien detta obbedienza in senso lato e metaforico, giacché si tratta piuttosto di una certa forma di necessità naturale»:34 per questo dunque la madre, anche la Vergine, non ha merito suo proprio e non obbedisce se non come gli esseri animali o le cose, senza responsabilità. Tuttavia, «anche la legge eterna, quando con essa si procede al governo delle cose razionali da un punto di vista morale e politico, ha una propria specifica razionalità di legge a cui corrisponde un’altrettanto specifica obbedienza».35 Chi sono coloro che obbediscono dunque alla legge eterna per far sì che sia una legge? Quei figli che nella previsione divina, come il figlio per definizione, facendo uso della volontà umana e della libertà umana, scelgono di mettersi al servizio di Dio e di rendersi strumenti consapevoli del volere divino. In tal modo gli ecclesiastici, ovviando a un’incapacità delle madri, rendono operativo il volere di Dio attraverso un’unione mistica, naturale e al tempo stesso volontaria: «quando la legge divina si manifesta a noi, accendendo la nostra mente, la attira a sé e stimola la nostra coscienza, quella stessa coscienza che viene definita legge della nostra mente».36 Non per caso, al Concilio di Trento, con il pieno appoggio dei gesuiti, tutto ciò che riguarda le spose, le future madri, viene conservato nel sacro e nel diritto canonico e viene affidato all’autorità esclusiva degli ecclesiastici: «[…] le leggi Canoniche spettano all’ordine soprannaturale, sia perché derivano dal potere concesso a Pietro, affinché pascolasse il gregge di Cristo, sia anche perché traggono origine dai princìpi del diritto divino; e questo imitano, per quanto è possibile e conviene».37 L’ultima parola dunque spetta non a chi comanda ma a chi è capace di obbedire alla volontà più forte e quella di Dio è più forte di quella del sovrano. Il passaggio alla Chiesa cattolica della competenza sul matrimonio, unitamente al culto dell’Immacolata e al senso politico che i gesuiti riescono a imporre attraverso questa specifica devozione, tutti

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questi elementi concorrono ad annullare ogni traccia di consenso delle donne. La Chiesa come soggetto collettivo, come istituzione simbolicamente identificata con il materno, accetta al posto di tutte le donne, ridotte a oggetti naturali-passivi della volontà divina, qualunque figlio Dio voglia mandare loro, senza nessun tipo di riguardo per le condizioni del concepimento. La priorità assegnata alla filiazione rispetto all’unione coniugale cancella in primo luogo il corpo del padre e poi fonde insieme il corpo del figlio e quello della madre, dando luogo a un’immagine grondante ambiguità e problemi filiali irrisolti: un acerbo corpo di donna adolescente quale madre, abitata da un figlio eternamente nascituro, per volere di un padre per eccellenza di cui la giovinetta è serva incondizionata. L’unica espressione della sua volontà è la formula dell’accettazione: Ecce ancilla Domini. Quando nel 1854 viene proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione tutto è ormai pronto per Freud.

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Note 1. Cfr. P. Barocchi (a cura di), Scritti d’arte del Cinquecento, Bari, Laterza, 1962. 2. Cfr. C. Walker Bynum, S. Harrell, P. Richman (a cura di), Gender and Religion: on the Complexity of Symbols, Boston, Beacon Press, 1986. 3. A questo proposito è interessante notare che il cardinale Paleotti riteneva che fosse meglio evitare di rappresentare figurativamente l’Immacolata per la complessità delle tesi teologiche difficili, secondo lui, da rendere con una immagine (Gabriele Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e profane (1582), in Barocchi (a cura di), Scritti d’arte del Cinquecento, vol. VIII, col. 475. Invece proprio l’Immacolata Concezione diventerà una sorta di logo della Controriforma (cfr. E. Mâle, L’arte religiosa nel ’600. Il barocco, Milano, Jaca Book, 1984). 4. Sulle rappresentazioni di parole e di immagini cfr. S. Freud, Metapsicologia (1915), in Opere, Torino, Boringhieri, 1967-1980, vol. VIII, pp. 1-118; si veda poi E. Gombrich, Freud e la psicologia dell’arte. Stile, forma e struttura alla luce della psicanalisi, Torino, Einaudi, 1967; e anche E. Gombrich, J. Hochberg, M. Black, Arte percezione e realtà. Come pensiamo le immagini, Torino, Einaudi, 1978. 5. Sulle alterazioni della idealizzazione cfr. J. Chasseguet-Smirgel, La maladie d’idealité. Essay psychanalytique sur l’ideal du moi, Paris, Éditions Universitaires, 1990; J. Mc Dougal, Plaidoyer pour une certaine anormalité, Paris, Gallimard, 1994. 6. Sul divieto dell’incesto cfr. C. Levi Strauss, Le strutture elementari della parentela, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 39-67; Idem, Razza e storia, Torino, Einaudi, 1967, pp. 97-144. 7. Cfr. Cesare Ripa, Iconologia (1618), Torino, Fogola. 8. Cfr. J. Chasseguet-Smirgel, La maladie d’idealité, pp. 12-28. 9. Diego Rodriguez de Silva y Velazquez (1599-1660), La Adorazione dei Magi, Museo del Prado, Madrid. 10. Cfr. Mac Dougal, Plaidoyer pour une certaine anormalité. Si veda anche Eadem, Eros aux mille et un visages, Paris, Gallimard, 1996, pp. 9-22. 11. Per una rassegna sull’iconografia dell’Immacolata cfr. M. Levi D’Ancona, The iconography of the Immaculate Conception in the Middle Ages and Early Renaissance, New York, The College Art Association of America, 1957; per un inquadramento del tema iconografico e una bibliografia più ampia si vedano in particolare pp. 81-113. Per l’identificazione madre-chiesa sono particolarmente significative le rappresentazioni figurative; si vedano fra gli altri: C. Conforti, Lo specchio del cielo. Forme, significati, tecniche e funzioni della cupola dal Pantheon al Novecento, Milano, Electa, 1997, pp. 67 ss.; G. Radler, Die Schreinmadonna “Vierges Ouvrantes”. Von den bernhardinischen Anfaengen bis zur Frauenmystik im Deutschordensland mit beschreibendem Katalog, Frankfurt, Kunstgeschichtliches Institut der Johann Wolfgang Goethe-Universität, 1990; L. Réau, Iconographie de l’art chrétien, Paris, PUF, 1955, t. I, vol. I, pp. 458-461, t. II, vol. II, pp. 71-75; su Maria-madre-Chiesa contrapposta a sinagoga cfr. B. Blumenkranz, Le Juif médiéval au miroir de l’art chrétien, Paris, Études Augustiniennes, 1966. Per l’identificazione fra sacerdote e figura materna cfr. C. Walker Bynum, Jesus as Mother. Studies in the Spirituality of the High Middle Ages, Berkeley, University of California Press, 1982, pp. 110-169, cfr. anche E. Mâle, L’art religieux de la fin

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du Moyen Age, Paris, Colin, 1908; per maggiori indicazioni bibliografiche cfr. L. Accati, Il mostro e la bella. Padre e madre nell’educazione cattolica dei sentimenti. Milano, Cortina, 1998. 12. Bartolomeo Vivarini, L’incontro di Gioacchino e Anna alla porta d’oro di Gerusalemme, dello stesso pittore Vergine della Misericordia, Santa Maria Formosa, Venezia. 13. Giovan Battista Tiepolo, Immacolata Concezione, Madrid, Museo del Prado. 14. Cfr. Concilium Tridentinum, Tomus Nonus. Concilii Tridentini actorum pars sexta, sessio octava (XXIV), 11 novembris 1563, Friburgi Brisgoviae, 1923. Sulle possibilità di influire sul patrimonio attraverso il controllo del matrimonio si veda L. Accati, Volontà e autorità, in «Quaderni Storici», XXXV, 3. 15. Cfr. J. Bossy, L’occidente cristiano 1400-1700, Torino, Einaudi, 1985; si veda poi J.F. Courtine, Nature et empire de la loi, Paris, Vrin, 1999; e anche Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, Bologna, Il Mulino, 1989, vol. II. 16. Cfr. Tractatus Theologicus De Immaculata Conceptione B. Mariae Virginis, in J.J. Bourassé (a cura di), Summa aurea de laudibus Beatissimae Virginis Mariae Dei Genitricis sine labe conceptae, Paris, J.P. Migne, 1862, pp. 458-482; Commentariorum ac disputationum in tertiam partem Divi Thomae, tomus secundus, Paris, Vivès, 1860, discussione della Summa di Tommaso d’Aquino dalla questione 27 alla questione 59, le prime 23 dispute riguardano la Madonna. 17. Cfr. X. Le Bâchelet, M. Jugie, in Vacant e E. Mangenot (a cura di), Dictionnaire de Théologie Catholique, Paris, Letouzey et Ané, 1903-1970, 1927, vol. VII, t. II, coll. 2-1218; R.M. Dessì, La controversia sull’Immacolata Concezione e la “propaganda” per il culto in Italia nel XV secolo, in «Cristianesimo nella storia», XII, 2 (1991), pp. 265-293. Tutti i sovrani spagnoli insistono affinché il papa approvi il dogma dell’Immacolata Concezione, tuttavia sono particolarmente coinvolti Filippo II, Filippo III e Filippo IV che per insistere presso il papa si appoggiano, oltreché ai gesuiti, anche ai benedettini e ai francescani. 18. Il passo biblico Ecclesiaste, 24, 14: «Ab initio et ante secula creata sum» è fra quelli citati dai fautori dell’Immacolata Concezione come espressione dell’intenzione divina di preservare Maria dal peccato originale. 19. «Et hanc veritatem docere intendunt Sancti Patres, cum dicunt Verbum divinum elegisse sibi matrem, eamque sola sua voluntate ab aeterno preordinasse [...] Et Cyprianus, in sermone de Nativitate Christi, in hoc sensu per antonomasiam vocat Virginem vas electionis», Commentariorum ac disputationum, Disputa I, III, 2. 20. Cfr. Defensio fidei, III, II, 5: «haec potestas politica naturalis est: quia nulla etiam interveniente supernaturali revelatione, aut fide, ex dictamine rationis naturalis agnosceret haec potestas in humana republica, ut illius conservationis, et equitati omnino necessaria»; vedi anche De legibus, III, II, 4. 21. «Deus voluit B. Virginem consequi totam hanc perfectionem, quia nostro modo intelligendi, intentio finis antecedit electionem mediorum». Tractatus theologicus, p. 480. 22. «Nam res carentes ratione non sunt proprie capaces legis, sicut nec obedientiae. Efficacia ergo divinae virtutis, et necessitas naturalis, quae in his rebus inde resultat per metaphoram lex appellatur». De legibus, I, 1, 2; cfr. anche ivi, II, 2, 13: «lex, qua Deus dicitur gubernare res naturales, seu ratione carentes,

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metaphorice lex seu praeceptu appellatur; nam subordinatio, et subiectio irrationalium rerum ad Deum late, et metaphorice dicitur obedientia, quia potius est necessitas quaedam naturalis». 23. Commentariorum ac disputationum, Disputa III, II, 3: «si quis, cum mulier aliqua in servam venditur, in ipso contractu quempiam ejus filium exciperet ne servus nasceretur, merito diceretur illum a servitute liberasse. Sic igitur dicetur Virgo a Christo redempta, etiam si in Adamo non peccaverit, quoniam ex meritis ejus praevisis ita exempta est, ut in illo peccare non potuerit». 24. J.F. Courtine, Nature et empire, p. 37; l’autore sta commentando un passo di Augustinus Triumphus. 25. «Ergo respondetur, ut B. Virgo proprie ac vere dicatur mater Dei, satis esse quod in eodem instanti temporis, in quo anima Cristi unita est corpori, concurrente B. Virgine concurso materno (sive ille activus sit, sive passivus, hoc enim nunc non disputo), in eodem (inquam) momento anima, corpus et humanitas unita sint Verbo; sicut e contrario Judaei dicuntur interfecisse Deum, quia per actionem eorum dissoluta est unio animae cum corpore, et consequenter humanitas ut sic separata est a Verbo». Commentariorum ac disputationum, Disputa I, I, 16. 26. Commentariorum ac disputationum, Disputa III, II, 2. 27. Oltre ai gesuiti, hanno una parte rilevante come fautori dell’Immacolata anche i francescani. Tutti e due questi ordini sono coinvolti nell’evangelizzazione del nuovo mondo; il francescano Pedro de Alva y Astorga autore di tutte le sintesi mariologiche delle discussioni e dei testi relativi alla Concezione aveva trascorso lunga parte della vita a Lima. 28. Sul carattere positivo del piacere sessuale cfr. Deuteronomio, 20, 1-7; Ecclesiaste, 9, 9; per i doveri delle donne si veda R. Barakai, Les infortunes de Dinah: le livre de la génération. La gynecologie juive au Moyen Age, Paris, Cerf, 1991; A. Destro, Le politiche del corpo. Prospettive antropologiche e storiche, Bologna, Patron, 1994, pp. 87-127. 29. Cfr. Commentariorum ac disputationum, Disputa IV, III, 3. 30. «Ubi de Cristo loquens ait, a sua origine justitiam originalem habuisse. Quod non potuit alia ratione dicere, nisi quia fomite caruit; ergo idem, proportione servata, dicendum est de Virgine, cum etiam fomite caruerit, ut, sicut justitia originalis, quae communicata est Adae ut primo naturae principio, communicata fuit Evae, quae in adjutorium simile sibi data est, ita suo modo Christo et B. Virgini sit data» (Commentariorum ac disputationum, Disputa, IV, VI, 1). 31. Sull’uso delle immagini sacre per educare le persone incolte e le donne cfr. Paleotti, Discorso intorno alle immagini, in Barocchi (a cura di), Scritti d’arte del Cinquecento, vol. I, pp. 230 ss.; sull’uso delle immagini sacre nel barocco spagnolo cfr. F. Pacheco, El arte de la pintura (1649), Catedra, Madrid, 1990. 32. «Dici ergo vel cogitari potest, legem aeternam sub utraque ratione esse mensuram, ac regulam actuum liberorum Dei» (De legibus, II, II, 3). 33. «Concluditur, legem aeternam necessario includere seu postulare actum divinae voluntatis, quia libertas etiam Dei est formaliter in voluntate divina; sed lex aeterna est aliquid liberum in Deo; ergo includit voluntatem». De legibus, II, III, 4. 34. «[…] Subordinatio, et subiectio irrationalium rerum ad Deum late, et

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metaphorice dicitur obedientia, quia potius est necessitas quaedam naturalis». De legibus, II, II, 13. 35. «Lex autem aeterna, quatenus per illam moraliter, et politice rationalia gubernantur, habet propriam rationem legis, et illi respondet propria obedientia». De legibus, II, II, 13. 36. «Adveniens lex Dei, mentem nostram incendens eam ad se pertrahit, conscientiamque nostram vellicat, quae ipsa lex mentis nostrae dicitur». De legibus, I, IV, 5. 37. «[…] leges Canonicae ad supernaturalem ordinem spectant, tum quia a potestate Petro data ad pascendum Christi gregem derivantur, tum etiam quia ex principiis divini iuris originem ducunt; illudque quod fieri potest, et expedit, imitantur». De legibus, Proemium, p. 3.

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fig. 1 - Bartolomeo Vivarini, Gioacchino e Anna (XV sec.), Venezia, chiesa di Santa Maria Formosa.

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fig. 2 - Bartolomeo Vivarini, La Madonna di Misericordia (XV sec.), Venezia, chiesa di Santa Maria Formosa.

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fig. 3 - Giovan Battista Tiepolo, Immacolata Concezione (XVIII sec.), Madrid, Museo del Prado.

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REGINA SCHULTE Sacrificio come violenza. Aspetti di una relazione madre/figlio nella Germania della prima guerra mondiale

Aspetti di una relazione madre/figlio nella Germania della prima guerra mondiale1 Käthe Kollwitz, celebre artista e scultrice tedesca (1867-1945), accolse con entusiasmo lo scoppio della prima guerra mondiale, al pari di molti altri intellettuali della sua generazione; quando il suo primogenito Peter partì per il fronte con gli altri volontari, appoggiò la sua decisione. Peter cadde nell’ottobre 1914, nelle Fiandre. Nel 1932, nel cimitero militare di Dixmuiden (in Belgio), fu eretto il monumento di Käthe Kollwitz intitolato “Genitori in lutto”. Il diario dell’artista, di cui analizzerò qui alcuni frammenti, mostra l’elaborazione della perdita del figlio da parte di Kollwitz – un processo doloroso attraverso il quale il culto sacrificale del figlio come eroe patriottico viene gradatamente abbandonato in favore di una protesta politica contro la guerra, di un appello alla pace. Il testo che segue ci mostra una madre conquistata dalla hybris della guerra, e il difficile percorso per svincolarsi dagli schemi culturali di una società devota al culto degli eroi, in cui l’autostima delle madri si nutre dell’immagine dei figli. Le capacità creative permettono a Kollwitz non solo di scrivere ma anche di visualizzare i diversi strati di esperienza che compongono questo processo. Questa riflessione sulle esperienze di vita e lavoro di Käthe Kollwitz durante la prima guerra mondiale comincia con una citazione tratta dal suo diario (6 agosto 1914): oltre a un ricordo pieno di tenerezza del figlio Hans, Kollwitz vede la guerra come l’occa-

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sione per sperimentare una sensazione di “nuovo inizio”, come se nessuna delle idealità dell’anteguerra avesse più alcun significato e tutto dovesse essere oggetto di rinnovata proposizione. I primi giorni mi dimenticavo spesso della guerra, o pensavo: basta pressione, è ora di ricominciare a vivere. Era come essersi risvegliati da un brutto sogno. Ma a quel tempo dentro di me sentivo anche un nuovo inizio. Come se nessuno dei vecchi valori fosse più valido, e tutto dovesse essere oggetto di una nuova valutazione. Sperimentavo la possibilità del sacrificio volontario (6 agosto 1914).2

Nel giugno del 1914 Kollwitz si era lamentata ancora dei giorni di piombo trascorsi a casa, del desiderio di vivere la propria vita. Era oppressa dalla banalità del quotidiano. «Qualunque cosa sarebbe preferibile a questa trita routine»,3 scriveva, esprimendo un sentimento comune a molti nel periodo prebellico. Fa cenno a una sensazione di vuoto: il lavoro stagnava dopo un periodo di successo e i bambini parevano troppo cresciuti per aver bisogno di lei. Il 4 agosto le sembrò un «nuovo inizio» per se stessa e per il mondo. La guerra, sperava, avrebbe investito il suo ruolo di madre e il rapporto con i figli di un significato completamente nuovo, liberandone la materia capace di suscitare in lei il desiderio di creazione artistica.4 Il mondo era avvolto da un’aura sacrale. «L’ora precisa» del sacrificio giunse quando suo figlio Peter, diciottenne, decise di arruolarsi volontario. Il figlio non fu il solo ad offrirsi in sacrificio nel nome della patria, trascinato dalle idee del movimento giovanile tedesco. Anche la madre lo «offrì in sacrificio», pur svegliandosi il mattino dopo «nella disperazione» e «nell’impossibilità di essere devota». Il 13 agosto 1914 descriveva l’esultanza e l’entusiasmo dei ragazzi volontari come una fiamma pura che si innalza verso il cielo, anticipando in qualche modo la loro morte, e lo stesso accade in altri brani del diario. Con le immagini di purezza e di fuoco, della “fiamma senza fumo”, Käthe Kollwitz anticipava la morte dei ragazzi. La morte era il traguardo che donava alla nozione di sacrificio la sua qualità di sacralità e grandiosità. […] Canzoni di montagna. Pensare che tutto questo – forse la vita stessa – è finito per i nostri ragazzi. Per loro, la vita intera si condensa in questo

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spazio di tempo; stanno anticipando tutto allo scopo di divampare in una sola fiammata e bruciare. E Peter non ha ancora conosciuto l’amore, stava solo iniziando ad avvicinarsi all’arte (27 agosto 1914).5

Quando le immagini del cannone e dei veri campi di battaglia si impongono a coprire la visione della “sacra fiamma del sacrificio”, cominciano a trasparire dal testo i primi segnali della depressione che stava per colpire Käthe Kollwitz. Entro la fine dell’agosto 1914 scriveva già: «Ho paura che a questo slancio dell’anima faranno seguito una disperazione e un abbattimento tanto più neri».6 Alla luce delle crudeltà della guerra, Kollwitz prova ribrezzo per le reazioni di «giubilo superficiale», giudicando «idiota», «vile» e «folle» la partenza dei giovani per la guerra, pur mantenendo pensieri e disperazione nei limiti dell’angosciosa ricerca di un significato.7 «Solo una circostanza rende sopportabile tutto questo: l’accettazione volontaria del sacrificio».8 L’accettazione del sacrificio era divenuto un postulato morale ed etico, che nulla aveva più a che vedere con la volontà o i sentimenti individuali. Il 4 ottobre i giovani «hanno ricevuto anche la benedizione della chiesa per il loro sacrificio». Ma suo figlio non le si faceva più incontro con un lieto viso trasfigurato. «A volte gli occhi di Peter [erano] incredibilmente tristi».9 Nel suo diario, Käthe Kollwitz cercò incessantemente di fare i conti con questo duplice volto del figlio: l’eroe consacrato e il ragazzo disperato, la cui tristezza e senso di abbandono avrebbero dovuto ritrovare infinite volte un significato. «5 ottobre 1914: lettera di addio a Peter. È come se il cordone ombelicale fosse nuovamente reciso. La prima volta per entrare nella vita, la seconda per entrare nella morte».10 Peter morì il 22 ottobre 1914 sul fronte delle Fiandre, dieci giorni dopo il loro ultimo incontro. Käthe Kollwitz non commentò per oltre un mese la morte del figlio nel diario. Ai primi di dicembre, appaiono nel diario alcuni passaggi il cui pathos riprende la precedente drammatizzazione del “sacrificio”. Ieri notte ho concepito l’idea di un monumento commemorativo dedicato a Peter, dovrà essere posto sul promontorio di Schildorn, dove si vede l’Havel. Dovrà essere terminato e inaugurato in una bellissima giornata d’estate (1 dicembre 1914). Questa solitudine adesso.

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Voglio onorarti con questo monumento. Tutti coloro che ti hanno amato ti hanno nel cuore, continuerai a vivere in chi ti ha conosciuto e ha vissuto la tua morte. Io però vorrei onorarti in modo diverso. Voglio utilizzare la tua forma per onorare la morte di tutti i giovani volontari. Sarà in ferro o in bronzo, durerà nei secoli (3 dicembre 1914).11

In questa fantasia di pubblico omaggio, il figlio è offerto in un sacrificio eroico sull’altare della patria. Ma il figlio non è l’unico protagonista di questa grandiosa rappresentazione: anche la madre, l’artista, vi parteciperà, dando forma pubblica alla morte di lui. «È un traguardo magnifico, e nessuno ha diritto quanto me di creare questo monumento». Simbolicamente, Kollwitz occupa il posto delle madri di tutti i volontari, poiché, dice, «voglio utilizzare la tua forma per onorare la morte di tutti i giovani volontari». Nelle linee essenziali, questo primo segmento ha già in sé tutti i contraddittori strati di esperienza ed espressione che confluiscono e corrono paralleli nel diario di Käthe Kollwitz, modellandone l’elaborazione del lutto. Lo spazio sacro A questa ripresa emotiva, strappata con forza e disperazione all’immaginazione creativa, fece ben presto seguito una «terribile solitudine». Il figlio, di cui invoca la figura, «con il fucile in spalla, in uniforme, avvolto nella cerata, forte e bello», sembra ritrarsi continuamente di fronte a lei. «[…] A volte non ci sei. Te ne stai da qualche parte, nel buio, ed è come se non mi guardassi con occhi gentili».12 Kollwitz si sforzò in tutti i modi di ricreare la sensazione di vicinanza del figlio, invocando il dolore come l’unica emozione forse capace di riempire il suo senso di vuoto. Creò per sé uno spazio di culto della memoria nella «stanza di Peter», o «la stanza bianca, silenziosa di Peter», nella quale decorò il letto. In aprile 1915 adorna di «fiori di campo» le «bianche lenzuola» del letto del figlio. La permanenza nella «stanza silenziosa» assunse un significato rituale. Chiunque varcasse quella soglia – fratello, padre, amici, prendeva parte alle devozioni. Bruciavano candele e si leggevano testi ad

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alta voce, lettere del figlio morto e brani letterari. All’anniversario della morte di Peter come momento culminante della commemorazione annuale si aggiunse il Natale. In questa occasione, dietro il letto era sistemato un albero, decorato con tante candele quanti erano gli anni di Peter. Si metteva così in scena ogni anno la “morte ardente” del sacrificio: la sua forza purificatrice e lo struggimento ad essa legato sarebbero perdurati nella “purezza” della stanza, luogo di riferimento simbolico nella vita quotidiana di casa Kollwitz. In questa stanza ogni gesto acquistava una dimensione sacrale, poiché «la sua stanza era sacra».13 Käthe Kollwitz stessa appare come la sacerdotessa di un tempio, a guardia del tesoro sacro. La stanza è il luogo dove ricordare incessantemente il figlio morto. È qui che Käthe Kollwitz si sedeva per stare con lui e accanto a lui. «4 novembre 1917: Primo inverno nella stanza di Peter. Sola. Seduta al suo tavolo di legno. Cominciato a leggere la Bibbia. Il secondo inverno, ancora nella sua stanza. Avevo là la scrivania di Georg. Mi ci sono seduta e ho scritto».14

La frase «sto seduta nella stanza di Peter» ha le caratteristiche di un incantesimo. Seduta là, mentre scriveva il diario, riallacciava il dialogo con lui. «Figlio mio, sono qui nella tua stanza, al tuo tavolo».15 La stanza di Peter era la cappella per le sue preghiere solitarie, per la sua “religiosità” incentrata sul figlio morto: era il luogo della contemplazione e del sentimento di unione con lui. Kollwitz piangente non era la normale madre in lacrime, colma di desideri ed afflizione; il suo amore era “diverso”. Dopo tutto, lei stava cercando di elevare la realtà quotidiana della madre in lutto, come si evince da un dettaglio non trascurabile della stanza di Peter: dietro la «piccola immagine di un soldato sorridente» c’era una raffigurazione del compianto per Cristo.16 Nell’ottobre del 1922 Käthe Kollwitz parlava ancora della «Settimana Santa di Peter, appena cominciata».17 Nell’annotazione fatta a due anni dalla morte del ragazzo, Kollwitz interroga il figlio, quasi si sentisse costretta a registrare con precisione le stazioni della sua via crucis nelle Fiandre. Oggi è il diciassette. Due anni fa: dov’eri? Marce spossanti, al limite delle tue forze. Guardie notturne sotto il grande albero. Il villaggio in fiamme (17 ottobre 1916).18

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Le «guardie notturne sotto il grande albero» rimandano all’episodio sul Monte degli Ulivi, la notte di dolore, di avvilimento e di sottomissione al volere divino del Padre.19 Nel diario, il venerdì santo è indicato come «il tuo giorno, figlio mio».20 Kollwitz paragona costantemente il figlio a Cristo, per esempio quando percorre le stazioni della croce per raggiungere un monumento ai caduti a Wörth, nel giugno 1916: «20 giugno 1916. Uno [dei cippi] recava l’iscrizione: ‘non proferì verbo, perché voleva essere il sacrificio.’ Si riferisce a Gesù o al soldato caduto? Penso a Peter».21 Se Peter assume le caratteristiche del Cristo crocifisso, allora la madre, Käthe Kollwitz, può essere vista come la Pietà. Accanto alla Mater Dolorosa cristiana, tuttavia, nei diari appare un’altra madre, la quale rievoca un arcaico sacrificio infantile veterotestamentario: «A volte la coglieva il pensiero che forse avrebbe provato ciò che provò Abramo mentre cercava di sacrificare Isacco».22 Nel gennaio 1916 legge la Bibbia: «11 gennaio 1916. Lo stupendo Libro di Samuele. Di notte ho sognato un bambino piccolo di cui dovevo occuparmi».23 Il venerdì santo del 1918 scrive: Anna promette al Signore che se Lui le darà un figlio, lei lo cederà al Signore per tutti i giorni della sua vita, se solo potrà averlo. Il Signore ascolta la preghiera. Quando il marito si reca al Tempio per il sacrificio, lei ancora non conduce il figlio al Signore, desiderando tenerlo con sé fino allo svezzamento. Quando il bimbo è svezzato e lei deve rinunciare a lui, lo fa.24

Anche Käthe Kollwitz fece lo stesso. Il circolo sacro è completato da un’immagine in cui Käthe Kollwitz vede se stessa come un’arcaica e stilizzata Madre Terra, la quale ha ripreso nel proprio grembo il figlio ed è pronta a una nuova gestazione. Riprendendo per la prima volta la frase del geniale figlio di Katharina Elisabeth Goethe, «il grano da semina non deve essere macinato», Kollwitz evoca, quattro mesi dopo la morte del figlio, l’immagine della madre come fertile terreno arabile. Non voglio lasciare questa vita prima di avere sfruttato al meglio le mie possibilità e prima di aver lasciato sviluppare a pieno il seme che è dentro di me, fino all’ultimo tralcio che esso è destinato a diventare. […] Peter era il grano da semina che non deve essere macinato. Era lui stesso il seme. A me il compito di farlo maturare dentro di me. È il mio compito, devo

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portarlo a termine. Questo mi sembra ora il significato di tutto il nostro parlare di cultura (15 febbraio 1915).25

La madre terra ha reintrodotto il figlio all’interno del proprio corpo per portare a compimento un essere il quale, in quanto autentico, è inteso come il risultato di un atto culturale. Käthe Kollwitz ricercò un’immagine di sé come madre non solo nella Mater Dolorosa dei cristiani, la Pietà, ma anche in alcune figure del Vecchio Testamento e nella mitica Madre Terra. Questa incarnazione del lutto la inseriva nel discorso del suo tempo.26 Nel duplicare l’immagine della madre, come dea della terra e come Pietà, e nel suo misticismo secolarizzato, al centro del quale c’è il figlio-Cristo, Kollwitz compie la transizione dalla fisicità della Madre Terra alla metafisicità della Pietà, modellando questo processo artisticamente. 27 Il sentirsi prescelta come Anna e come madre della vittima sacrificale consacrata a Dio trasformano la sua arte in una vocazione: «Non mi è solo concesso di compiere il mio lavoro, io devo portarlo a termine».28

Arte e misticismo Il figlio morto è il fondamento della sua maternità divina ed è, allo stesso tempo, l’essere di cui si ciba la sua volontà artistica. Madre e figlio diventano una coppia artistica immaginaria, la quale ha il compito di creare se stessa nella grande opera di una vita: il monumento. Stai collaborando alla realizzazione del monumento alla tua caduta – a tutto il monumento a te dedicato. Uso le tempere che hai macinato tu, i tuoi materiali, figlio adorato (14 aprile 1915).29

Già nel 1903 Käthe Kollwitz aveva realizzato una Pietà (fig. 1) e, poco più tardi, un’acquaforte intitolata “Madre con il figlio morto”, per la quale lei stessa aveva posato davanti allo specchio insieme a Peter, che all’epoca aveva 7 anni (fig. 2). Un amico fece una descrizione di quell’acquaforte, e Kollwitz fu sconvolta nel sentirsi paragonare alla Madre Terra. Una madre animalesca, nuda, che stringe il corpo esangue del figlio tra

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gambe e braccia e cerca, con gli occhi, le labbra e il respiro, di ingoiare quella vita che le sfugge e che un tempo era stata una parte del suo ventre. – Quando vidi quell’acquaforte, era da tempo che io e lei non ci incontravamo. Alla mostra mi trovai improvvisamente davanti a quel soggetto e fui costretto ad uscire di corsa dalla sala per riprendere un contegno. Pensai: è forse successo qualcosa al piccolo Peter, perché lei abbia potuto fare qualcosa di così spaventoso?30

Più tardi Hans, figlio maggiore di Kollwitz, confermò che nel 1903 sua madre aveva già avuto delle premonizioni sulla morte di Peter. Già nel 1903, potremmo dire, Peter era condannato, segnato. L’acquaforte anticipava in un certo senso le fantasie di personificazione che si sarebbero impossessate di lei dopo la morte del figlio. Un sogno del 1916 dimostra come la scena originaria del dipingere fosse diventata un reiterato atto di conferma del “sacrificio”; il morto ora era vivo come lo era stato il modello. Ieri notte ho di nuovo sognato Peter. Ho sognato che mi stava di fronte ed era mezzo Hans e mezzo Peter. Gli ho cinto con le braccia il corpo esile, come quello di un bambino. L’ho circondato con entrambe le braccia e lui ha piegato il busto leggermente all’indietro. Ho pianto e gli ho chiesto di parlarmi dei giorni nelle Fiandre, di come era stato morire. È stato così dolce e mi ha sorriso (10 maggio 1916).31

Nel sogno, l’immagine della Pietà è ancora una volta in primo piano. La Mater Dolorosa chiede al morto vivente di parlarle della sua sofferenza, poiché anche in questo è contenuta la storia della propria, grande Passione. Il figlio del sogno si abbandona alla madre senza rimprovero – dolce, tranquillo, sorridente – ma non pare risponderle. La Madre Terra, ora spiritualizzata, appare infine anche in una visione (sempre nel 1916), durante la quale Kollwitz si chiede se quello è «misticismo». [..] che quando anch’io sarò morta forse ci ritroveremo sotto nuove spoglie. Che stiamo scorrendo insieme. Fa’ che tu non sia solo per te e io solo per me. Lascia che ti aiuti. Perfeziona la tua forma per mezzo della mia. Possa un giorno la tua breve esistenza terrena essere perfezionata – forse in un luogo completamente diverso – in un’altra forma. Voglio mescolarmi a te, come un fiume scorre in un altro fiume e riprende il proprio corso unito, più forte, più profondo, più tumultuoso. Caro, mio caro, insieme a te. Non può essere così? Non potrebbe essere così, che elementi simili si uniscano, come accade nella formazione dei cristalli? (17 ottobre 1916)32

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Questa immagine mistica sembra un riflesso eternante della Pietà del 1903. Essa riecheggia inoltre le visioni del misticismo pietista e le Spose di Cristo, mistiche francesi dell’Ottocento le quali, in sottomessa e perfetta contemplazione del Divino, dissolvevano il proprio Io nel vuoto e nella malinconia infinita. 33 Lo stato di plenitudine estatica non ammette redenzione, solo un ricadere nella realtà, la quale è vissuta come qualcosa di vuoto e desolato, che deve incessantemente essere riempito. Käthe Kollwitz identifica la sensazione di “deserto”, svuotamento, aridità “vuoto” e distanza dal figlio con la scomparsa del dolore. Il dolore corrisponde alla fiamma purificatrice che ha consumato la vita del figlio. Agli effetti del dolore si collega una fantasia di redenzione: «Credevo che questa cosa avrebbe potuto da sola annullare tutti possibili eventi terribili. […] Ora mi aggrappo a Hans, a Karl, al lavoro».34 La perdita del dolore significa tornare alla normalità della vita di tutti i giorni, e tale normalità la allontana dal «bisogno più profondo». Il dolore era il mezzo attraverso cui manifestare l’amore per coloro che condividevano la sua vita di ogni giorno. Nel dolore c’era il sentirsi una cosa sola con il figlio morto, il dolore era il catalizzatore di tutti gli altri sentimenti. La forza le era stata “rubata” insieme al dolore. Ma «ho bisogno di forza. Prego di essere capace di compiere il mio lavoro».35 Diminuendo l’idealizzazione del sacrificio (che voleva il dolore come assoluto), il mondo diventa “arido”. Un tempo vivevo con Peter, era sempre vicino, tutto mi ricordava di lui. Poi sono diventata una cosa sola [con lui]. Ma ora vivo la mia vecchia vita e non sono più sempre con lui. Col tempo, il dolore ci viene portato via, come non avrei mai pensato possibile in un primo momento. E poi ho ancora il mio lavoro, grazie a Dio. Mi porta da lui. Ma nelle ore durante le quali non lavoro sono spesso così inaridita. A volte il flusso di amore per Peter, Hans e Karl, che scorre e tutto avvolge, scompare e tutto è arido (15 agosto 1916).36

Kollwitz si sente spesso vecchia e debole, incapace di continuare a lavorare. Il lavoro, tuttavia, era allo stesso tempo il mezzo attraverso il quale tentava di rievocare il dolore per il figlio e di sentirlo vicino. Fatto un disegno: la madre che si lascia scivolare tra le braccia il figlio morto. Potrei disegnare centinaia di soggetti simili senza riuscire ad avvicinarmi a lui. Sono alla sua ricerca. Come se trovarlo nel mio lavoro fosse una necessità… Per poter lavorare è necessario essere duri, porre al di

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fuori di sé le proprie esperienze. Quando comincio a farlo, mi sento di nuovo una madre che non vuole abbandonare il dolore (22 agosto 1916).37

Simili affermazioni rendono poco chiaro l’oggetto della sensazione desiderata: il dolore o il figlio. Era il dolore che poteva condurla al figlio morto oppure immaginare il figlio morto era un mezzo per mantenere vivida la sensazione di dolore, nella quale era più acuta la percezione che l’artista aveva di se stessa? Sembra quasi che, per un certo periodo, la sua stessa vivacità fosse inestricabilmente avviluppata in questa matrice di ricordo. La presenza del figlio, la presenza del dolore, significava «essere buona e importante», avere «l’energia di vivere con forza» e «un desiderio di dolore». «Avevo creduto che la guerra e la morte di Peter mi avrebbero completamente rimodellata. Non è stato così».38 Il 1918 la trova esausta, svuotata dalle fatiche del quotidiano in tempo di guerra, in lutto per la perdita delle sensazioni forti e di una visione mistica: Finiti i sentimenti, finito il dolore, finito il desiderio [...] non è stato piacevole. Quanta passione c’era nella mia esistenza, energia di vita, di gioia e di dolore. A quel tempo lottavo veramente nel sole, il “figlio della terra”. Poi cominciò l’invecchiamento graduale. Poi venne la guerra. Raggiungere le vette grazie ai ragazzi. Il sacrificio di Peter. Il mio sacrificio di Peter. La sua morte sacrificale. Poi caddi anch’io. Ancora trascinata da lui in manifestazioni di dolore e di amore, risprofondai lentamente in questa vita. Il dolore per lui rimase. A tratti credevo di vedere “brillare le luci eterne” le quali, man mano che il cammino si faceva sempre più oscuro, avrebbero dovuto apparirmi, il “figlio della terra”. Avevo di rado occhi capaci di vederle. Cammino nel crepuscolo, solo rare stelle, il sole è da tempo completamente tramontato. Ho piedi stanchi, gambe e braccia pesanti, non riesco a tenere sollevata la testa. Avevo pensato, credendoci sul serio, che il periodo tra il 1914 e oggi mi avrebbe purificata. Il dolore ha lasciato il posto alla stanchezza. Dopo tutto, non è solo Peter. È la guerra che ti fa a pezzi (1 luglio 1918).39

Il sacrificio, l’incorporazione o fusione mistica, le fasi alterne di dolore per il figlio, quasi estaticamente invocato, e le desolate depressioni: tutti questi strati, presenti dalla fine del 1914 nei diari di Käthe Kollwitz, anticipano una tormentata spaccatura. Alcuni elementi del sentire e dell’esperire andavano incrinando sempre più (e fin dall’inizio) la grandiosa autorappresentazione della madre che si sacrifica, e del figlio devoto alla patria e alla madre stessa. Attra-

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verso il preciso resoconto di alcuni sogni riguardanti Peter, nel diario compaiono elementi appartenenti al regno notturno – alla materia inconscia, repressa, proibita. Kollwitz ha la consapevole visione della società come di qualcosa che esige il “sacrificio”, e il racconto della Pietà grandiosa, della Madre Terra – visioni mistiche di fusione e di vacuità malinconica – è interrotto da un’altra storia. La madre di un essere umano I «sogni tristissimi»,40 registrati infinite volte, non parlavano di morte, esprimevano piuttosto la ricerca e il desiderio di ciò che è vivo. A volte sognava di essere in attesa di un altro figlio e, nei sogni, Peter era ancora vivo. Erano sogni felici di ritorni incolumi. «6 febbraio 1915: Sempre lo stesso sogno: lui è ancora qui, c’è ancora una possibilità che lui sia vivo e torni a casa e poi la consapevolezza nel sogno che lui è morto». Durante il sogno, o immediatamente dopo, le appariva però chiaro che tale felicità non avrebbe potuto realizzarsi, poiché chiamava in causa la figura del figlio eroico. Anche il figlio tornato a casa per riprendere la sua vita sarebbe stato debole, provato, avvilito. Solo nel 1919 Kollwitz comincerà a riflettere sulla contraddizione esistente tra i suoi sogni preoccupati, abitati da un Peter debole ed emaciato, e i suoi discorsi sul sacrificio. Il suo atteggiamento non sarebbe cambiato fino al 1919, quando i dubbi sul significato della guerra e del sacrificio erano ormai enormi. Cosa ostacolava la felicità che sperimentava in sogno, con il ritorno dei figli, e perché non riusciva a fare di giorno ciò che i sogni le suggerivano – avere il coraggio di tentare di salvare la vita dei suoi ragazzi, di essere felice assieme a loro vivi? In sogno era felice che il figlio Peter fosse vivo. In sogno, Käthe Kollwitz faceva ciò che suo marito avrebbe voluto fare già da molto tempo: rifletteva assieme al marito e ai figli, su possibili strategie per sfuggire alla guerra e alla morte. Ma cosa le impediva di rimpiangere di non aver fatto lo stesso nella vita ad occhi aperti? A quanto pare non riusciva a vedere il figlio, che non appariva nei suoi sogni come il giovane da lei generato. «Peter, non eri tu, quello nel sogno, era una persona demoralizzata dalla guerra».41

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Non poteva desiderare davvero il ritorno del figlio perché non poteva permettersi quello che lei chiamava «essere debole». L’immagine del «troppo debolmente umano» contraddice la sua visione del figlio come guerriero, forte e incrollabile, incondizionatamente devoto ai propri ideali. «La debolezza» corrispondeva alla banalità dei sentimenti di ogni giorno. Alla vergogna che Kollwitz prova nei confronti dei propri sogni materni (da lei definiti una “debolezza”) si accompagna l’imbarazzo suscitato in lei dal marito, il quale rappresentava proprio questo lato affettuoso, protettivo, o come diceva Kollwitz, «debolmente umano» delle cose. Madre e padre Kollwitz erano pronti a morire per amore dei figli ma, conclude l’artista, «Peter ha fatto di più: non è morto per amore di un altro essere umano, bensì per amore di un’idea, di un principio». In varie occasioni Käthe Kollwitz contrappose all’amore paterno di Karl l’idea dell’amore del figlio nei confronti della patria. Karl perseguiva una sua «perfezione nella bontà» ma, a differenza di lui, Käthe non riusciva a vedere «la bontà come una forza»; per lei, la bontà era piuttosto qualcosa di debole e incolore.42 La forza era quella incarnata da Peter, il guerriero. Egli simboleggiava la virilità, che Käthe associava in tutto e per tutto alla guerra, al fronte e al sacrificio per la madrepatria. Egli era l’uomo virginale, il quale aveva lasciato l’utero materno per trovare la morte. Il rapporto simbiotico madre-figlio non poté essere scalfito né da un’altra donna, né da una vocazione professionale sgradita alla madre, giacché Peter era un pittore, un artista come Käthe. Per mantenere in vita la sua fantasmagoria, Kollwitz era costretta a rivolgersi e dedicarsi al figlio morto. Ma perché Käthe Kollwitz scelse il figlio morto come soggetto della propria opera artistica, e perché fece questa scelta molto tempo prima della morte del ragazzo? La madre con il figlio morto era un tema della sua arte già dal 1903, e il figlio delle sue opere aveva le fattezze di Peter. Nel diario appare ripetutamente, anche se in forma schematica, la figura della madre di Käthe Kollwitz, la quale è descritta simile a una madonna – un essere capace di vivere la propria vita con «disciplina ruppiana», mai «senza risorse», mai «fuori di sé», sempre in possesso di «dignità e […] grazia», «frutto della sua vita morale e pura». La madre di Käthe Kollwitz aveva perso i suoi tre figli più giovani in tenera età e, avanti negli anni, il primo “bambino” morto era

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divenuto il centro della sua vita, dei suoi ricordi e, apparentemente, dei suoi sentimenti più vividi. C’è un’immagine di lei con il suo primo figlio, […] sulle ginocchia. Era il “primogenito, il bambino santo.” Parla spesso del suo primo bambino, morto a un anno. Non del secondo. La morte del primo figlio è stato evidentemente l’episodio più forte della sua vita, e per questo è ancora così vivo in lei a distanza di cinquantacinque anni (7 luglio 1916).43

Miller vede in questa madre il modello per la Pietà di Kollwitz e per i ritratti della madre col figlio. La pittrice stessa, tuttavia, era stata la quarta nata, che mai aveva potuto raggiungere la madre: «La mamma era alla finestra e guardava il carro (venuto a prendere il terzo figlio morto). Le volevo un bene immenso, ma non mi avvicinai».44 La madre di Kollwitz riservava i propri sentimenti più intensi ai suoi figli morti piuttosto che a quelli rimasti in vita, e cercava (come dimostra la biografia) di educare questi ultimi severamente e scrupolosamente. Käthe Kollwitz scoprì da bambina che solo la morte garantiva l’accesso al tanto desiderato amore totale della madre. In quanto bimba vivente, tuttavia, dovette imparare a sopportare la distanza dagli aspetti da madonna di sua madre. Se, tuttavia, come nel caso di Käthe Kollwitz, il modello è rappresentato dai tre fratellini morti, i quali rendono ben visibili le possibili riserve di amore materno, la bambina farà tutto ciò che è in suo potere, sacrificherà con gioia e annullerà tutte le proprie emozioni pur di riuscire a mostrarsi “degna” dell’amore materno. La morte psichica, acquistata a costo della depressione, assume una doppia valenza: promette l’amore incondizionato e illimitato della madre, e soddisfa la fissazione sviluppatasi attorno alla morte di una madre il cui volto trasfigurato, dolce, quasi felice, si conosce solo dal cimitero.45 Käthe Kollwitz non riuscì mai a conquistare l’amore di sua madre, la quale era ossessionata dalla morte. Solo dopo essere divenuta a sua volta madre di un morto, di un figlio che non aveva mai completamente espulso dal proprio ventre, poté avvicinarsi a sua madre e “diventare come lei”. Il sacrificio di Peter può essere visto come il prezzo richiesto da questa specie di madonna che era la madre di Käthe Kollwitz. Nelle Pietà di Käthe Kollwitz madre e figlia si mescolano.

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Della madre, l’artista scrive: Quando sono qui con la mamma mi sento spesso come lei. Come lei, tengo le mani dietro la schiena e guardo fuori della finestra, borbottando alla sua maniera. Come se anche per me la vita non fosse che qualcosa da osservare. […] Nuova forza – prego per averla (8 luglio 1916).46

Madre e figlia sembrano riavvicinate dalla loro incredibile esperienza di vita. Allo stesso tempo, le due donne incarnano un’immagine di maternità tipica della media borghesia, un’immagine già pienamente sviluppata e diffusa a fine Ottocento.47 Il programma culturale del “senso materno” avrebbe «insegnato alla madre come rimanere contemporaneamente Madonna (la madre che stringe il figlio tra le braccia) e la Carità (così come è rappresentata nelle opere d’arte, la madre che sfama al proprio abbondante seno i figli delle altre donne)».48 Al cuore di questa matrice di maternità c’è il rapporto madrefiglio, che Freud definì «il più perfetto, il più libero da ambivalenze tra tutti i rapporti umani», dichiarandolo il modello di base per ogni legame d’amore ideale tra uomo e donna. Un matrimonio “non è solido e sicuro fino a che la moglie non è riuscita a fare di suo marito un figlio, e a fargli da madre».49 Qui Freud eleva un ideale incestuoso dell’amore a livello di norma, all’interno della quale la “mascolinità” sviluppatasi in rapporto alla madre si trasferisce solo a colui che trova una madre nella propria moglie. Karin Hausen sottolinea come il modello del «senso materno» fosse contrapposto, alla fine del secolo scorso, «a un modello maschile non tanto orientato verso il senso paterno, quanto verso la virilità».50 Anche Käthe Kollwitz si liberò dell’immagine della madre cresciuta sotto la guida del patriarca Rupp e colmò l’immagine del figlio morto con il topos “maschile” del guerriero: quando, per così dire, la sua aura materna fu investita dell’importanza sacrale del figlio, partecipando della qualità numinosa di lui. Käthe Kollwitz prestò il proprio volto alla madre con il figlio morto, simboleggiando dunque ella stessa il mito del sacrificio come una Pietà. In quanto artista con una missione universale, Käthe Kollwitz poteva trasformarsi nella madre di tutti i figli sacrificatisi per la patria e per le proprie madri. Alla fine, il progetto stesso di autorealizzazione artistica di

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Käthe Kollwitz, non lontano dalla hybris, avrebbe permesso a questa artista di mettere in moto un processo di simbolizzazione capace di infrangere la matrice della madre tutta rivolta alla guerra e di mettere fine alla ripetizione incessante della morte di suo figlio. Un simile momento sarebbe giunto quando l’estasi, unita alla malinconia, sarebbe riuscita a trasformarsi in dolore e rabbia.

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Note 1. Il presente testo è la riduzione di Käthe Kollwitz’ Sacrifice, in «History Workshop», 41 (1996), pp. 193-221. 2. Käthe Kollwitz, Die Tagebücher, a cura di J. Bohnke-Kollwitz, Berlin, 1989, p. 151. 3. Ivi, p. 148. 4. Citato in M. Reiter, Opferphilosophie. Die moderne Verwandlung der Opferfigur am Beispiel von Georg Simmel und Martin Heidegger, in G. Kohn-Wächter (a cura di), Schrift der Flammen. Opfermythen und Weiblichkeitsentwürfe im 20. Jahrhundert, Berlin, 1991, p. 133. Sull’“esperienza dell’agosto”, il pathos bellico e il lavoro durante la guerra, vedi U. Baumann, Protestantismus und Frauenemanzipation in Deutschland 1850-1920, Frankfurt am Main, 1992, pp. 229 ss.; R. Schulte, Die Schwester des kranken Kriegers. Krankenpflege im Ersten Weltkrieg als Forschungsproblem, in «Bios. Zeitschrift für Biographieforschung und Oral History», 7, 1994, pp. 83-100; tr. inglese di P. Selwyn, in L. Abrams, E. Harvey (a cura di), Gender and Gender Relations in German History from the Sixteenth to the Twentieth Century, London, 1995. Marianne Weber è vittima del medesimo pathos sanguinario che pervade Käthe Kollwitz e altre donne della media borghesia: cfr. M. Weber, Ein Lebensbild, Tübingen, 1926, pp. 526 ss. Si veda anche l’entusiasmo nei confronti della guerra e la ricerca di un senso della vita in Lily Braun, il cui figlio partì anch’egli volontario: L. Braun, Lebenssucher, in Gesammelte Werke, 5 voll., Berlin, 1923, vol. 4, pp. 355 ss. 5. Kollwitz, Tagebücher, p. 157. Sul sacrificio cfr. H. Cacik-Lindemaier, Opfer. Religionswissenschaftliche Bemerkungen zur Nutzbarkeit eines religiösen Ausdrucks, in H.-J. Althaus et alii (a cura di), Der Krieg in den Köpfen. Beiträge zum Tübinger Friedenskongreß ‘Krieg-Kultur-Wissenschaft’, Tübingen, 1988, pp. 109-120; Reiter, Opferphilosophie; K. Hoffmann-Curtius, Opfermodelle am Altar des Vaterlandes seit der Französischen Revolution, in Kohn-Wächter (a cura di), Schrift, pp. 57-92. Sulle metafore del fuoco e della fiamma, cfr. S. Wenk, Nike in Flammen. Gründungsopfer in der Skulptur der Nachkriegszeit, in Kohn-Wächter (a cura di), Schrift, pp. 199-200. 6. Kollwitz, Tagebücher, p. 158. 7. Ivi, p. 159 (8 settembre 1914). 8. Ivi, pp. 165-166 (30 settembre 1914). 9. Ivi, p. 167 (4 ottobre 1914). 10. Ivi, p. 164. 11. Ivi, pp. 177-178. 12. Ivi, p. 180 (31 dicembre 1914). 13. Ivi, p. 436 (20 settembre 1919). 14. Ivi, p. 338. 15. Ivi, pp. 175 (12 novembre 1914) e 191 (7 luglio 1915). 16. Ivi, p. 464 (venerdì santo 1920). 17. Ivi, p. 540 (17 ottobre 1922). 18. Ivi, p. 280. 19. Cfr. Luca, 22, 39-46, Matteo, 26, 36-46. 20. Kollwitz, Tagebücher, p. 183 (10 aprile 1915).

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21. Ivi, p. 251. 22. K. Kollwitz, Briefe der Freundschaft und Begegnungen, Münich, 1966, p. 134. 23. Kollwitz, Tagebücher, p. 211. 24. Ivi, p. 361. 25. Ivi, p. 183. 26. Conosceva probabilmente Das Mütterrecht di Johann Jakob Bachofen, la cui ideologia romantica della madre vicina alla terra e deificata riprendeva il mito della Grande Madre. L’utopia essenzialmente patriarcale di Bachofen ricercava le origini storiche di una mitologia matriarcale dell’antichità, e fu ripresa nei progetti sociali utopici di Engels e Bebel, con i quali Käthe Kollwitz, in quanto attivista socialista, aveva forti affinità. Per il dibattito sul matriarcato, cfr. H.-J. Heinrich (a cura di), Das Mütterrecht von Johann Jacob Bachofen in der Diskussion, Frankfurt am Main, 1987. Heinrich sottolinea il legame di Bachofen con la madre e la sua esaltazione religiosa, evidenziando il significato del contesto biografico all’interno della sua opera (p. 10). A questo proposito si veda anche L. Gossmann, Macht der Kultur gegen Kultur der Macht, in Johann Jakob Bachofen (1815-1887). Eine Begleitpublikation zur Ausstellung im Historischen Museum Basel, Basel, 1987, pp. 41-57, e B. Wagner-Hasel, Rationalitätskritik und Weiblichkeitskonzeptionen. Anmerkungen zur Matriarchatsdiskussion in der Altertumswissenschaft (1989), in Wagner-Hasel (a cura di), Matriarchatstheorien der Altertumswissenschaft, Darmstadt, 1992, pp. 295-373. Sul ruolo delle teorie sul matriarcato nelle discussioni tra i sostenitori dei diritti delle donne e nei circoli intellettuali – per esempio attorno a Max e Marianne Weber – sul finire dell’Ottocento, cfr. M. Perrot, Women, Power and History, in M. Perrot (a cura di), Writing Women’s History, (tr. inglese di F. Pheasant), Oxford and Cambridge, Mass., 1992, pp. 160-174. 27. Ricorda qui il protestante Bachofen per il quale, secondo l’interpretazione datane da Edgar Salin nel 1926, la «storia del mondo è un’ascesa dall’oscurità alla luce, dalla Madre Terra a Dio Padre. Poiché [Bachofen] possedeva la certezza che Cristo il Verbo rappresentasse la perfezione ultima, la storia del mondo era per lui un progredire dal materiale all’immateriale, dal fisico al metafisico, dal tellurismo all’intellettualità». E. Salin, Bachofen als Mythologe der Romantik (zur NeuHerausgabe von Bachofens Werken), in «Schmoller Jahrbuch», 5 (1926), pp. 839848, citato in Heinrich (a cura di), Mutterrecht, p. 156. 28. Kollwitz, Tagebücher, p. 183 (15 febraio 1915). 29. Ivi, p. 184. Sulla simbiosi artistica tra madre e figlio nelle classi medie a partire dal diciottesimo secolo, cfr. anche U. Prokop, Die Illusion vom Großen Paar, vol. 1, Weibliche Lebensentwürfe im deutschen Bildungsbürgertum 1750-1770, Frankfurt am Main, 1991, pp. 200-257. 30. Citato in S. Tönnies, Armer Peter, armes Deutschland. Todes-und Opfersucht bei Käthe Kollwitz, in «Merkur», 48 (1994), pp. 493-494. Sulla madre con il figlio morto si veda anche R. G. Dobart, Subject-matter in the Work of Käthe Kollwitz: An Investigation of Death Motifs in Relation to Traditional Iconographic Patterns, tesi di dottorato, Johns Hopkins University, Baltimore, 1975, p. 24. Si parla qui del tentativo della madre di «riprendere dentro di sé il bambino cui ha dato vita». Sulle numerose versioni moderne della Pietà e della madre con il figlio

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morto, cfr. E. Prelinger, Käthe Kollwitz, National Gallery of Art, Washington D.C., 1992, pp. 40-46. 31. Kollwitz, Tagebücher, p. 242 (10 maggio 1916). Nel corso di una conversazione, Esther Fischer-Homberger mi ha fatto notare il forte elemento di “mascolinità” presente nelle autorappresentazioni di Kollwitz nei panni della madre, e i tratti “femminili” del figlio, oltre alla corporalità “femminile” che sarebbe presente nella madre dalle forti braccia. Le braccia che stringono il figlio senza vita appaiono “forti” e “mascoline”. 32. Ivi, pp. 281-282. 33. Cfr. U. Prokop, Illusion, pp. 131; A. Juranville, Melancholie und Mystizismus. Madeline Janets “Fall” (1863-1918) und Thérèse de Lisieux (1873-1897), in «Fragmente. Schriftenreihe für Kultur-, Medien-und Psychoanalyse», 44-45 (1994), pp. 115-146. 34. Kollwitz, Tagebücher, p. 254. 35. Ibidem. 36. Ivi, p. 267. 37. Ivi, pp. 268-269. 38. Ivi, p. 348 (31 dicembre 1917). 39. Ivi, pp. 368-369. 40. Ivi, p. 181 (6 gennaio 1915). 41. Ivi, p. 297 (21 gennaio 1917). 42. Ivi, p. 302 (18 febbraio 1917). 43. Ivi, p. 253. 44. K. Kollwitz, Erinnerungen (1923), in Tagebücher, pp. 717-735, p. 721. 45. A. Miller, Der gemiedene Schlüssel, Frankfurt am Main, 1991, pp. 110111. Sull’interazione tra l’ideologia della “naturale predisposizione femminile al sacrificio” e quella di una “patologia materna” che, nonostante la soverchiante probabilità di morte, giungeva quasi al misticismo, cfr. M. De Giorgio, Il modello cattolico, in G. Fraisse, M. Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente. L’Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1995 (ed. or. 1992). In questo contesto colpisce particolarmente un confronto tra le vicende familiari di Käthe Kollwitz e quelle della mistica francese Thèrèse de Lisieux (1873-1897). Vedi Juranville, Melancholie, pp. 134 ss. 46. Kollwitz, Tagebücher, pp. 177, 254, 256. 47. Una coppia paragonabile a quella di Käthe Kollwitz e la madre è rappresentata da Marianne Weber (1870-1954) e sua madre Anna Weber. In questo caso la madre si rifugia in un’interiorità religiosa e la figlia sviluppa tendenze mistiche, unite a una forte sete di esperienza. La volontà di adempiere un “sacrificio femminile” rimase sempre una struttura esperienziale determinante per entrambe, anche quando, come nel caso di Kollwitz, la figlia sviluppava un certo grado di attività e indipendenza e idee personali sulla vita. Le lettere della nonna e della madre di Marianne Weber, intrise di virtù protestanti e introspezione religiosa, sono caratterizzate da un senso di rinuncia e da un continuo auto-esame, oltre che da incredibili ansie e depressione: tutte caratteristiche molto diffuse tra i testi scritti da donne delle classi medie. Cfr. Traueralltag und Trauerbewegung im 20. Jahrhundert. Materialsammlung zu der Abteilung 20. Jahrhundert im historischen Museum Frankfurt, vol. 1,

Sacrificio come violenza

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Industrialisierung und weibliche Lebenserfahrung 1890-1933, Frankfurt am Main, 1980, pp. 65 ss., con un commento di Ulrike Prokop. 48. A. Schreiber (a cura di), Mutterschaft. Ein Sammelwerk über die Probleme des Weibes als Mütter, Münich, 1912, citato in K. Hausen, Mütter, Söhne und der Markt der Symbole und Waren: Der deutsche Müttertag 1923-1933, in H. Medick, D. Sabean (a cura di), Emotionen und materielle Interessen. Sozialanthropologische und historische Beiträge zur Familienforschung, Göttingen, 1984, p. 515, n. 139, tr. inglese: Mothers, Sons and the Sale of Symbols and Goods: The German “Mother’s Day” 1923-1933, in H. Medick, D. Sabean (a cura di), Interest and Emotion: Essays on the Study of Family and Kinship, Cambridge, 1984, pp. 371-413. 49. S. Freud, “Feminity”: Lecture 33, in New Introductory Lectures on Psychoanalysis, tr. di J. Strachey, Pelican Freud Library, Harmondsworth, 1973, vol. 2, p. 168. Si veda anche C. von Braun, Die schamlose Schönheit des Vergangenen. Verhältnis von Geschlecht und Geschichte, Frankfurt am Main, 1989, p. 43. L’autrice sottolinea l’importanza, nell’Ottocento, dell’ideale dell’amore incestuoso. 50. Hausen, Mütter, pp. 515-516. Le memorie di Max Weber ci mostrano come l’immagine della madre come madre di Dio, con il figlio-Cristo sulle ginocchia avesse un certo peso anche tra i figli. Weber immagina la propria madre come la Madonna della Cappella Sistina, con lui medesimo tra le braccia come il “Bambino Gesù” e i suoi fratelli e sorelle come angioletti. Cfr. Weber, Ein Lebensbild, p. 520. Si veda anche B. Choluij, Max Weber und die Erotik, in H. Treibert e K. Sauerland (a cura di), Heidelberg im Schnittpunkt intellektueller Kreise. Zur Topographie der “geistigen Geselligkeit” eines “Weltdorfes”: 1850-1950, Opladen, 1995, p. 252.

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fig. 1 - Pietà, 1903, National Gallery of Art, Washington, Collezione Rosewald

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fig. 2 - Madre con il figlio morto, 1903, Museo Käthe Kollwitz Colonia

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ENRICA CAPUSSOTTI Modelli femminili e giovani spettatrici. Donne e cinema in Italia negli anni Cinquanta

In queste pagine propongo un’analisi delle connessioni tra alcuni modelli femminili offerti dal cinema italiano e la loro rielaborazione da parte delle giovani degli anni Cinquanta, che risignificarono e tradussero nelle proprie vite le immagini e le figure costruite collettivamente. Il percorso interpretativo si basa sull’ipotesi secondo cui le giovani donne furono uno dei soggetti storici emergenti nel secondo dopoguerra, e l’età anagrafica rappresentò un elemento di identificazione nuovo all’interno del processo di formazione soggettiva. Ovviamente le “donne giovani” sono sempre esistite, ma a partire dagli anni Cinquanta è possibile individuare delle rotture significative nel modo in cui questo soggetto è costruito e percepito collettivamente, così come la condivisione del dato anagrafico “in quanto giovani”, fornì una collocazione dalla quale criticare i modelli femminili proposti dalle generazioni precedenti. Le rappresentazioni che danno forma a differenti tipologie di corpi femminili sono la chiave attraverso cui propongo di interpretare i movimenti della soggettività femminile durante il decennio considerato. I corpi delle donne sono infatti al centro delle configurazioni discorsive e si presentano come testi culturali, che contemporaneamente raccontano i modelli femminili sedimentati nell’immaginario collettivo e i desideri di libertà delle donne, che lanciano i propri corpi negli spazi offerti dai mezzi di comunicazione di massa. La categoria di performance elaborata da Judith Butler per affrontare teoricamente la costruzione del genere femminile ha fornito alcuni spunti molto utili per il mio approccio all’idea di gioventù. Secondo

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Butler, il genere sessuale è una performance ottenuta attraverso la ripetuta messa in scena di stili: i vestiti, il trucco, specifici oggetti, particolari posture e movimenti del corpo concorrono a definire le possibilità del femminile, le quali, per essere realizzate, necessitano di soggetti che le “incarnino” e le rendano visibili. Le donne sono così chiamate ad assumere e a riprodurre nella quotidianità i simboli storicamente attribuiti al femminile; senza questa materializzazione nei corpi, il gender è privo di sostanza e significati.1 Il femminile appare dunque una creazione dei diversi dispositivi sociali per la cui realizzazione è indispensabile l’azione dei soggetti che, nel corso della messa in scena, possono aprire contraddizioni e attuare spostamenti, per quanto sempre interni all’ordine simbolico di uno specifico temporale e spaziale. Il quadro delineato da Butler offre importanti suggestioni per introdurre alla determinazione anagrafica. Anche l’idea di gioventù è costruita infatti nel processo storico e, per essere “reale”, ha bisogno di corpi giovani che la “incarnino”, riproponendo e rielaborando incessantemente una trama scritta collettivamente. A partire dall’età moderna2 i giovani sono stati oggetto di proiezioni ambivalenti; da un lato sono associati con la forza, l’energia propulsiva, il progresso e le speranze relative al futuro, dall’altro sono percepiti come soggetti immaturi, instabili – la crisi adolescenziale come figurazione di un intero periodo esistenziale – e in grado di disgregare le gerarchie sociali consolidate. Questi aspetti, inseparabili gli uni dagli altri, assumono rilevanze diverse durante il processo storico e la gioventù può essere intesa come una metafora culturale delle trasformazioni complessive. In Italia, a partire dal dopoguerra, il discorso sulla gioventù permette di mappare le speranze e le resistenze opposte a una società di massa in divenire, abitata da soggetti emergenti e da élites in declino. Una delle principale rotture che accaddero sulla scena degli anni Cinquanta fu la formazione di un universo popolato da giovani e separato dal mondo adulto, fornito di propri simboli e di un proprio linguaggio esclusivo, che negli anni Sessanta il discorso critico iniziò a etichettare con la definizione di culture giovanili.3 Il ruolo di rottura che ricoprì l’età emerge con chiarezza nelle rappresentazioni che costruiscono l’idea di femminilità: le giovani donne rielaborarono il dato anagrafico nella performance del femminile e così facendo introdussero delle contraddizioni nelle trame proposte dalla tradizione, aprendo spazi in cui articolare nuovi desideri, nuove immagini di sé e nuove possibilità di essere giovani donne.

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Il processo di individuazione che coinvolse le giovani fu frammentato e prevalentemente individuale; Simonetta Piccone Stella lo definisce come il percorso «dei piccoli passi».4 Le tracce che propongo di seguire, quindi, sono spesso deboli e seminascoste, ed è possibile recuperarle negli interstizi delle rappresentazioni dominanti, svelate dalle pratiche di risignificazione attivate dalle individualità. Le immagini fisse e in movimento sono state scelte come fonti principali, poiché condivido la tesi secondo cui furono i luoghi fondativi della nuova soggettività femminile che iniziò ad articolarsi nel secondo dopoguerra. Simonetta Piccone Stella indica proprio nelle fotografie il medium che accompagnò il lento percorso di individuazione intrapreso dalle giovani donne: «[La fotografia] raffina lo sguardo rivolto su di sé e produce uno sdoppiamento dell’immagine fisica all’esterno. Improvvisamente le donne non erano più soltanto se stesse, nel loro intimo, in privato, con un’idea semplice, unidimensionale, della loro apparenza esterna. Cambiava il modo di guardare, di guardarsi, nasceva la consapevolezza di essere guardate […]».5 Roland Barthes attribuisce alla fotografia il ruolo di aver accelerato e ampliato gli elementi di quello «stadio dello specchio» che, secondo le teorie sulla soggettività di Jacques Lacan, costituisce l’esperienza centrale del meccanismo di formazione identitaria.6 I soggetti, guardando la propria immagine fissata su un rettangolo di carta, si vedono e si percepiscono in quanto “altro” da sé seguendo le dinamiche di quel rapporto speculare che, per Lacan, è condizione stessa dell’Io. Nel contesto storico degli anni Cinquanta questi funzionamenti psichici possono essere tradotti negli sguardi delle giovani donne rivolti verso le immagini, riprese in spazi pubblici e privati, di sé e delle altre, e riprodotte nella miriade di fotografie che invadevano il paesaggio fisico e mentale attraverso i rotocalchi, i cartelloni cinematografici e le insegne pubblicitarie. In Italia la diffusione della fotografia, di gruppo e individuale, subì un notevole incremento nel secondo dopoguerra, e la moltiplicazione di queste immagini fisse è accompagnata dall’esplosione della frequenza cinematografica. Il cinematografo fu la principale attività del tempo libero nell’Italia del decennio, assumendo i caratteri di una ritualità collettiva: uomini e donne, di tutte le età e residenti su tutto il territorio nazionale, andavano al cinema con una frequenza almeno settimanale. Le pratiche della visione erano radicalmente diverse

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da quelle a noi contemporanee: era abitudine entrare a spettacolo iniziato, commentare il film ad alta voce, fumare, parlare e socializzare con gli altri spettatori. Il pubblico si differenziava soprattutto secondo la classe di appartenenza e la collocazione geografica, e vi corrispondeva un sistema di sale rigidamente suddiviso tra prime, proseguimenti e seconde visioni, per concludersi con le sale parrocchiali e quelle gestite dalle associazioni culturali di partito. La sala cinematografica svolse un ruolo di fondamentale importanza come luogo di socializzazione femminile. Giovanna Grignaffini suggerisce che durante gli anni Cinquanta il cinema offrì alle giovani donne lo spazio per una socialità esterna alla sfera privata e sottratta al controllo della famiglia.7 Insieme con le fotografie, le immagini filmiche furono quindi un ulteriore strumento con cui rielaborare un modello di sé e di relazione intersoggettiva, mentre lo spazio buio della sala cinematografica fu uno dei rari luoghi pubblici in cui incontrarsi, confrontarsi e riconoscersi. Il materiale che analizzo nella pagine seguenti è composto da alcune rappresentazioni filmiche che mettono in scena diverse tipologie di corpi di donna. La presenza di queste immagini sugli schermi cinematografici è condizionata dalla possibilità da parte del pubblico di riconoscerle e decifrarle, mentre attraverso uno studio approfondito della ricezione dei singoli testi, che qui sfioro solamente, è possibile tematizzare il significato diverso che essi ebbero per spettatori e spettatrici di età diverse. Le “maggiorate fisiche” e gli italiani “poveri e belli” Il modello femminile dominante sugli schermi degli anni Cinquanta era quello delle cosiddette “maggiorate fisiche”, costruito attraverso i corpi formosi ed esuberanti di alcune dive come Silvana Pampanini, Gina Lollobrigida e Sophia Loren. Il termine fu utilizzato per la prima volta nel 1952, nell’episodio Il processo di Frine del film Altri tempi diretto dal regista Alessandro Blasetti; Vittorio De Sica impersonava un brillante e spassoso avvocato che convinceva la giuria ad assolvere l’imputata di omicidio Mariantonia (Gina Lollobrigida), una popolana accusata di aver avvelenato la suocera, appellandosi alla sua straordinaria bellezza fisica. Vittorio De Sica

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recita nella pellicola: «La nostra legge prescrive che siano assolti i minorati psichici. Ebbene, perché non dovrebbe essere assolta anche una maggiorata fisica come questa formidabile creatura?».8 Il carattere gretto e discriminante della battuta non impedì la diffusione della definizione, e “maggiorate fisiche” divennero le numerose attrici la cui caratteristica principale era il seno copioso, traboccante da scollature studiate con ingegno. I corpi di Lollobrigida e Loren fissarono le dimensioni fisiche di questo “tipo”, che dominava i personaggi femminili del cinema italiano e all’inizio del decennio era utilizzato soprattutto in commedie idilliache di ambientazione rurale e popolare. La messa in scena di questi corpi dalle misure abbondanti, modellati con indumenti succinti e sovraccarichi di riferimenti sessuali sembra in contraddizione con la censura particolarmente intransigente e sessuofobica del decennio.9 Le forbici impugnate dai politici cattolici lasciarono stranamente intatte le rappresentazioni di questi fisici “maggiorati”, confermando che, come sottolinea Marco Barbanti,10 la battaglia per la moralità della Democrazia Cristiana e della Chiesa fu soprattutto una lotta anticomunista, durante la quale i corpi delle “maggiorate” furono usati come un antidoto contro i veleni disseminati dal neorealismo cinematografico identificato con il partito comunista italiano. Ritengo inoltre che il successo di questo modello femminile sia dovuto alla sua corrispondenza con gli elementi che definiscono una certa idea dominante di “popolo italiano” e condivisi dalle due maggiori tradizioni nazionali, quella cattolica e quella comunista. Un esempio di questo meccanismo culturale è evidente in alcune recensioni relative al film Pane, amore e fantasia, primo episodio di una serie che continua con Pane, amore e… e poi con Pane, amore e gelosia, le prime due pellicole interpretate da Gina Lollobrigida e l’ultima da Sophia Loren. I film ottennero ottimi incassi e il pubblico dimostrò di gradire questi prodotti appartenenti al cosiddetto “neorealismo rosa”, definizione con cui i critici hanno indicato la trasposizione di alcuni elementi propri del neorealismo in un genere di commedia popolare.11 La cattolica «Rivista del cinematografo», così come alcuni critici vicini al partito comunista come Umberto Barbaro e Luigi Chiarini, esaltarono le caratteristiche di Maria, popolana poverissima impersonata da Lollobrigida, la cui povertà era sottolineata da un attento uso di abiti laceri e aderenti:

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Donna giovane retta e composta da sentimenti puri che vincono su una certa mentalità piccolo borghese rappresentata da De Sica [nel film un comandante dei carabinieri, impenitente dongiovanni, che tenta di sedurre la ben più giovane Maria].12 «Un bel pezzo di figliola, dai grandi occhi stupiti […] tanto povera da dover portare, per altro non senza spigliatezza, uno straccio di abituccio di cotonina, così risicato e sbrindellato che, nonché coprirli, mette a nudo o in bella evidenza i frutti colmi e procacemente urgenti del suo corpo giovane e fresco […]. Si potrebbe dire che non si capisce tutto questo ottimismo da dove venga e dove voglia andare a parare, si potrebbe obiettare che questa Italietta idilliaca, preoccupata unicamente di fare all’amore, all’ombra tutelare delle lucerne napoleoniche dei carabinieri e dei cappelli da prete è troppo diversa dall’Italia viva e reale che lavora, che lotta e che soffre; ma sarebbe ingiusto opporre idee a chi non ha voluto suggerirne e che s’è soltanto proposto di divertire e far ridere: e che l’ha fatto sottolineando qualcuno dei tratti di grazia gentile e di cordiale umanità che sono caratteristici del nostro popolo» (corsivo mio).13

Il recensore cattolico evita ogni riferimento al corpo in bella mostra di Maria/Lollobrigida, preferendo evidenziarne la rettitudine morale e la purezza. Recensione e testo filmico, attraverso questa figura di popolana, concorrono a definire l’immagine “del popolo italiano”, che è ancora collocato in una dimensione rurale e le cui caratteristiche coincidono con i valori cattolici i quali, a loro volta, sono presentati come l’espressione più autentica della cultura nazionale. I critici comunisti sono a loro volta impegnati a descrivere le qualità del popolo nazionale, che Barbaro traduce in «grazia gentile e cordiale umanità», mentre altre produzioni culturali si riferiscono alla saldezza morale ed etica della cultura comunista, che sono contrapposte alla depravazione del mondo borghese e dei modelli provenienti dagli Stati Uniti.14 Gli elementi evidenziati finora suggeriscono che i corpi delle “maggiorate” furono uno dei terreni su cui si giocò la battaglia per l’egemonia tra cultura cattolica e comunista. Le due principali tradizioni nazionali, partendo da posizioni apparentemente opposte, convergevano nella costruzione di un’identità italiana ancorata nel mondo contadino e nella quale lo specifico femminile della “maggiorata” era un significante di fondamentale importanza. Le “maggiorate fisiche” erano inserite in paesaggi rurali e i loro corpi esprimevano i valori di una società arcaica idealizzata, in cui viveva un popolo povero ma felice, composto da donne dall’erotismo prorompente ma

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pure e da uomini inveterati seduttori ma fondamentalmente buoni. Questi testi usano un’idea di femminile che conferma le immagini più stereotipate dell’identità nazionale e si collocano nel filone populista della cultura italiana.15 Inoltre la centralità occupata dal seno prosperoso nella costruzione del modello, attributo che è tornato a dominare anche le immagini femminili della cultura di massa a noi contemporanea, ripropone una certa nozione di erotismo legata a un femminile materno e benigno. L’aperto erotismo delle “maggiorate” non era “sovversivo” e non suggeriva la possibilità di conflitti tra i sessi, come avviene invece con le figure della femme fatale e della dark lady, che raccolgono le paure di un femminile percepito come “altro” e pericoloso per le regole dell’esistente. I corpi formosi e i seni esuberanti di Lollobrigida e Loren riconfermavano uomini e donne nelle collocazioni storicamente assegnate ai due generi dalle norme della tradizione e dal simbolico maschile. Nel quadro della produzione culturale nazionale le figure delle “maggiorate” sono congruenti alla messa in scena dei vari “vitelloni” di felliniana memoria, irresistibilmente attratti dal fascino femminile, fondamentalmente immaturi e pronti a ritornare nel letto sempre accogliente della legittima e materna consorte. Figure “mutanti”: i modelli femminili alternativi Fin dal dopoguerra alcune attrici erano interne a configurazioni discorsive che raccontavano una femminilità “altra” rispetto al modello dominante; Piera De Tassis definisce queste immagini «mutanti» rispetto ai codici sedimentati nell’immaginario e indica Silvana Mangano e Lucia Bosè come figure all’origine di questa tipologia femminile emergente.16 Le biografie esistenziali e le filmografie di Mangano e Bosè forniscono numerosi elementi che possono essere legati al processo di costituzione soggettiva delle giovani donne. Innanzitutto le due attrici condividevano con le donne della propria generazione fantasie e aspirazioni connesse al desiderio di un maggiore benessere. Mangano, nata a Roma nel 1930 e Bosè, milanese del 1931, giunsero al cinema non ancora ventenni dopo aver attraversato insieme a migliaia di coetanee le passerelle dei concorsi di bellezza, che rappresentavano la novità

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più consistente e acclamata della cultura di massa dell’Italia del secondo dopoguerra. Piccoli paesi così come diverse istituzioni culturali promuovevano la propria “miss”, e un numero incredibilmente alto di ragazze proiettarono sul titolo di reginetta di bellezza i propri sogni di ascesa sociale e di maggiore visibilità. In sintonia con questa pratica diffusa, Mangano e Bosè, entrambe di origini popolari, affidarono ai propri corpi la possibilità di raggiungere ricchezza e notorietà. Alcune scelte cinematografiche ed esistenziali di Silvana Mangano sono paradigmatiche delle tensioni che attraversavano la ridefinizione della femminilità e delle esistenze possibili per le giovani. L’esordio sugli schermi avvenne nel 1947, a diciassette anni, nell’indimenticabile ruolo di mondina nel film Riso amaro di Giuseppe De Santis: con le calze nere lacerate, i pantaloncini molto corti, la maglietta attillata sul seno abbondante, i movimenti sinuosi ed eccitanti mentre balla il boogie-woogie, Mangano era il prototipo della “maggiorata fisica”. In Riso amaro Silvana, oltre a essere appassionata di boogie e a trasportare con sé un ingombrante grammofono, legge i fotoromanzi, riproducendo sugli schermi una soggettività femminile orientata verso il mondo dei mass media e da essi segnata, che racconta una certa modernità già presente in Italia.17 Mangano decise però di sottrarsi alla tipizzazione dominante di femminilità e si sottopose a una ferrea dieta dimagrante che ebbe, tra gli altri, l’esito di escluderla dal novero delle “maggiorate” anni Cinquanta. Alcune testimonianze maschili ci trasmettono il senso di rottura implicito nella perdita di quei chili e di quelle forme floride; il regista Lattuada, a proposito del film Anna girato con l’attrice all’inizio del decennio, afferma: La Mangano era brava, bella, adorabile! Stare sul set con lei era una gioia. Ancora non era la Mangano che ha voluto dimagrire, quintessenziarsi! Modificando la sua immagine, che era di esplosione di carnalità e forza fisica, su qualche suggestione intellettuale, chissà.18

Alberto Sordi ribadisce le perplessità di Lattuada e fornisce considerazioni ulteriori che rivelano le tensioni presenti nelle diverse tipologie di corpi femminili: Rompendo con l’immagine prorompente nata da Riso amaro la nuova immagine di donna sofisticata colpì gli stilisti dell’epoca che, sfruttando la sua magrezza e la sua nuova bellezza, esaltarono la sua figura di donna

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ideale. Aveva acquistato una gran classe ma non era più la mondina […] era diventata molto più sofisticata. Io stesso rimpiangevo le sue belle forme di una volta, rimproverandole la sua eccessiva magrezza, ma lei rideva e diceva di sentirsi bene così, com’era […].19

Il discorso maschile sul femminile è sorprendentemente esplicito e aggressivo se misurato con gli stilemi a noi contemporanei. La discrepanza tra ieri e oggi permette di cogliere il carattere profondamente maschilista della cultura del tempo e la natura rigidamente gerarchica del rapporto tra i due sessi. Questi aspetti rendevano problematica l’espressione di sé dei soggetti emergenti, come le donne e i giovani, e complicano la nostra stessa possibilità di ritrovare dei materiali direttamente prodotti dalle giovani donne. In una società conservatrice in cui i rapporti erano fondati su relazioni estremamente autoritarie, la possibilità di immaginarsi e di vivere esistenze alternative passava attraverso attività apparentemente secondarie come le diete e i concorsi di bellezza. Piccone Stella mette in evidenza che nelle rubriche di posta dei rotocalchi femminili è possibile rintracciare il desiderio di alcune giovani di modi di vita diversi da quelli delle generazioni precedenti. Molte lettrici descrivono le proprie sembianze, le proprie misure fisiche e allegano le proprie fotografie, nella speranza di raccogliere il consiglio giusto per raggiungere ricchezza e notorietà. Solitamente ricevono risposte superficiali e ironiche oppure che cercano di dissuaderle dalle loro aspirazioni; ma abbandonate le lettere e sfogliate alcune pagine, le lettrici ritrovano fotoromanzi, novelle, articoli sulle reginette di bellezza e sulle dive del cinema che riattivano la fabbrica dei sogni e conferiscono legittimità ai bisogni espressi. Nella tensione tra cultura tradizionale e desiderio femminile è possibile individuare quei lievi spostamenti che caratterizzarono le vite e le fantasie delle giovani. Nonostante che i pregiudizi fossero ancora fortemente radicati nel senso comune e nelle regole sociali, le ragazze invasero con i propri corpi i pochi spazi pubblici accessibili, venendo così riprodotte in innumerevoli fotografie e articoli, a loro volta indispensabili per la riproduzione di sé da parte della pubblicistica di massa. La visibilità ottenuta attraverso la messa in scena dei corpi sembrava essere uno dei pochi strumenti a disposizione con cui contrastare le limitate possibilità di azione e di manifestazione di sé. Contemporaneamente aspiranti dive, lettrici e spettatrici, queste donne

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riconoscevano alcune di loro nella magmatica e fragile costellazione del divismo nazionale. Seppure per la maggioranza i desideri rimasero sogni e fantasticherie, essi stimolarono l’immaginazione di esistenze ricche di denaro e di successo, radicalmente diverse dal destino riservato alle donne della generazione precedente.20 Nel quadro sociale e culturale degli anni Cinquanta alcune ulteriori tracce di questa configurazione definita “mutante”, che è, lo ricordo, una figura creata dal metadiscorso critico, sono presenti nella rappresentazione di quelle che venivano indicate come le “nuove professioni femminili”. La stampa femminile offrì numerose e dettagliate informazioni sui “nuovi” lavori riservati alle donne tra cui comparivano la hostess, l’accompagnatrice turistica, l’indossatrice, la segretaria, l’interprete e molte altre. Il cinema si appropriò di queste figure femminili impegnate in un’attività lavorativa extradomestica e i personaggi erano solitamente interpretati da giovani attrici dai corpi agili e scattanti, congruenti agli spazi urbani in cui erano ambientate le vicende. Le ragazze di Piazza di Spagna, film del 1952 diretto da Luciano Emmer e interpretato da Lucia Bosè, Cosetta Greco e Liliana Bonfatti, è uno dei testi filmici dello scenario appena descritto. I corpi delle tre attrici hanno misure “comuni”, sono snelli e slanciati e si muovono con agilità nel panorama cittadino, in armonia con il taglio leggero del montaggio scelto dal regista. Il rapporto tra queste corporature femminili e il paesaggio urbano è radicalmente altro rispetto alle costruzioni testuali che inscrivevano “pane, amore e altre passioni” sui fisici opulenti delle “maggiorate” inseriti in un ambiente rurale. Un’altra figura “mutante” fu Elsa Martinelli, la cui professione iniziale era quella di indossatrice e che, nella propria autobiografia, si presenta come un modello alternativo di femminilità nell’Italia degli anni Cinquanta: Ormai ero la risposta italiana ad Audrey Hepburn che «con Vacanze romane è riuscita a soppiantare il modello delle maggiorate» scrivevano i giornali. Mi chiamavano anche «la Cenerentola dagli occhi di cerbiatto» oppure scrivevano «basta con le maggiorate. Un nuovo stile con Elsa Martinelli. È arrivata la donna grissino».21

Concludo questa rapida rassegna di alcuni modelli femminili con Lea Massari e il film I sogni nel cassetto, di Renato Castellani,

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uscito sugli schermi durante il 1956. La biografia dell’attrice racconta un percorso diverso rispetto alla traiettoria finora dominante, che iniziava da una famiglia di modeste condizioni economiche e, attraverso i concorsi di bellezza, giungeva al cinema e alla ricchezza. Lea Massari frequentò la facoltà di architettura e cominciò la propria carriera senza apparenti sogni di riscatto e di ascesa sociale. I sogni nel cassetto racconta la storia di due giovani studenti che frequentano l’università a Pavia, si innamorano e, ribellandosi contro il buon senso genitoriale che suggerisce di aspettare, decidono di sposarsi prima della fine degli studi. Lucia, interpretata da Lea Massari, è simpatica e svampita, iscritta alla facoltà di chimica solo poiché questa scelta di studi le ha permesso di allontanarsi il più possibile dai genitori che risiedono nella provincia di Varese. Lucia compie delle scelte che erano ancora ritenute scontate per le donne: si sposa e accoglie con gioia la maternità, così come abbandona i corsi universitari a causa delle ristrettezze economiche provocate dal matrimonio. Nonostante ciò, Lucia è un personaggio anticonformista poiché esprime senza reticenze le proprie aspirazioni e rimane fedele al proprio desiderio. Anche in questo testo, nelle interconnessioni tra i corpi e gli spazi, è possibile mappare una critica dell’esistente e delle generazioni precedenti, che prefigura la possibilità di scelte alternative. I genitori e la generazione adulta sono identificati con la noia, l’immobilismo e la pesantezza di un mondo dove nulla accade. La ribellione avviene soprattutto nei confronti della madre, chiamata ironicamente «la suocera» da Lucia e lo scontro tra due modelli di vita esplode quando nella narrazione sono introdotte le fasce per il nascituro, soprannominato «il Pierino» dai due giovani sposi. Esclama Lucia: Io con la suocera non ci sto più! […] Guarda [rivolta al marito mentre apre dei cassetti], fasce per il Pierino! Tutto l’inverno ha cucito fasce, che non si usano più, roba vecchia ed antigienica… te lo immagini il povero Pierino legato come un salame? [E quando la madre entra nella stanza con altre fasce Lucia fugge in preda alla rabbia].

Il conflitto intergenerazionale è simboleggiato attraverso i corpi, da un lato resi immobili da una cultura tradizionale che sulla fissità costruisce il proprio ordine, dall’altro liberati da un nuovo che stenta a trovare le proprie coordinate ma che rifiuta l’immobilità del passato.

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Come Lucia aveva intuito, porsi sul terreno delle regole convenzionali rischia di limitare la libertà; l’annuncio del fidanzamento ha fornito il pretesto al padre della giovane per pretendere il ritorno a casa della figlia in attesa del matrimonio. Le considerazioni che Lucia esprime a Mario forniscono numerosi spunti interessanti: A cucire il corredo, capisci… a cucire il corredo come nel medioevo… a riempire bauli di roba che poi guai ad adoperare… il corredo di mia madre è ancora tutto lì! [Il tono è aspro e contrariato] Papà dice: «Se tra due anni ti sposi è inutile che torni a Pavia e prendi la laurea». Io invece la laurea la voglio, perché sono finiti i tempi che la donna si sposava per cucinare ed allattare i figlioli… io voglio la mia libertà spirituale, e soprattutto non voglio rimanere per due anni a cucire, a cucire a casa, capisci, mentre tu sei a Pavia [Mario è immobile, lo sguardo basso mentre Lucia si agita e sottolinea con le mani e con le espressioni del viso le proprie parole]… Quelle belle sere in latteria che fuori c’era la nebbia e si usciva con il supplente, il Franco e la Lina… e noi due più dietro [ora il tono è dolce e sognante] … Chissà cosa farai tu da solo a Pavia adesso… e il lungo Ticino con i tigli… senti, papà può dire quello che vuole, ma al lungo Ticino con i tigli non ci rinuncio, dovessi venire a Pavia a fare la cameriera… e del resto, perché no? (corsivo mio).

Nel monologo di Lucia e nella narrazione complessiva alcuni oggetti e alcuni luoghi ricorrono con frequenza come simboli di costumi ritenuti inutili e inattuali. Il corredo e le fasce impediscono i movimenti e costringono a un’attività sedentaria come il cucito in uno spazio privato come la casa. A queste attività sono opposte semplicemente la latteria e i viali cittadini, ambiti pubblici che permettono gli spostamenti e la visibilità dei corpi e dei desideri. Lucia non sovverte le regole ma introduce delle rotture perché cerca di non farsi ingabbiare negli spazi angusti del privato e delle norme comuni. L’età come rottura: Guendalina L’attrice francese Jacqueline Sassard nei panni di Guendalina combinava i tratti tipici dell’adolescenza con le caratteristiche della teenager, la figura giovanile nuova che si diffuse nel dopoguerra. Sassard e Guendalina condividevano la stessa età anagrafica, sedici anni, e Guendalina conteneva gli elementi fisici, caratteriali e sociali che definiscono storicamente l’adolescenza: un corpo magro e agile

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sul quale si intravedono i segni della trasformazione verso una più completa maturità delle forme; il carattere vivace e aperto ma instabile ed egocentrico; l’appartenenza borghese. Il film Guendalina, regista Alberto Lattuada, uscì nelle sale nei primi mesi del 1957 e ottenne un buon successo di pubblico, soprattutto nei centri urbani. Il soggetto della pellicola, riguardante il breve amore estivo di due adolescenti, presentava una certa novità per il cinema italiano che, tranne poche eccezioni di rilievo come quella di Michelangelo Antonioni, aveva trascurato personaggi e ambienti borghesi. Le immagini del film introducono alcuni elementi utili per il nostro percorso critico: in primo luogo l’esistenza di un gruppo di giovani, uomini e donne, che sulla base della comune età organizzano le proprie attività del tempo libero in un mondo separato da quello adulto. Nel bar sulla spiaggia, invaso esclusivamente da giovani, ragazzi e ragazze ballano al suono di un juke-box, bevono Coca Cola, giocano a carte, si esprimono attraverso un proprio gergo. I balli lenti convivono con uno scatenato rock’n’roll, ritmo che arrivò in Italia proprio tra il 1956 e il 1957 e che fornì la colonna sonora per la costruzione di un’identità generazionale sempre più diffusa e collettivamente riconosciuta. Il film Guendalina segnala un cambiamento fondamentale nella messa in scena della gioventù nazionale: alcuni oggetti come i blue jeans, le radioline a transistor, i dischi a 45 giri sono usati come i significanti di una nuova esperienza generazionale che coinvolge i giovani di entrambi i sessi nati nella prima metà degli anni Quaranta. Questi prodotti del mercato di massa furono gli elementi con cui venne creato un nuovo stile giovanile che, a partire dagli anni Sessanta, fu codificato in quanto cultura giovanile. Da allora, culture, sottoculture e controculture giovanili sono aspetti scontati del visibile e dell’immaginario collettivi, così come categorie ampiamente usate nel discorso critico sulla contemporaneità. Jacqueline Sassard, in numerosi articoli scritti durante gli anni Cinquanta, è raccontata come una figura significativa per i propri coetanei che la elessero a diva della giovane generazione: «Guendalina è stato il grande successo dell’attrice. I suoi ammiratori si rivolgono ancora a lei con questo nome; i giovanissimi le scrivono per chiederle consigli, per farle sapere che vorrebbero diventare simili a lei […]».22 In Sassard-Guendalina le giovani potevano identificarsi con l’immagine di una coetanea che viveva in modo attivo alcune forme di li-

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bertà, senza per questo essere sottoposta a punizioni e castighi. Sassard non proponeva il fascino inquieto e drammatico di Lucia Bosè; neppure l’erotismo raro di Brigitte Bardot oppure la leggerezza altrettanto inusuale di Lea Massari. Piuttosto Guendalina-Sassard era la “modernità” di una giovane donna in cui il dato anagrafico giocava un ruolo propositivo e positivo nel percorso di formazione individuale. Conclusione Ho esordito con le “maggiorate fisiche”, i cui corpi prosperosi e procaci sono interpretati come la messa in scena di un’immagine nazionale legata al mondo rurale e ai valori della tradizione popolare. Le principali figure sono Gina Lollobrigida, nata nel 1927, e Sophia Loren, classe anagrafica 1934. Nella performance di queste due attrici l’appartenenza di genere costituisce il significante fondamentale della rappresentazione e l’età, anche nel caso della Loren esordiente giovanissima, non ricopre un ruolo forte nella costruzione del significato. Silvana Mangano e Lucia Bosè sono invece due personaggi di confine: la Mangano, nata nel 1930, inizia “maggiorata” in Riso amaro ma si trasforma in modello “altro” sottoponendosi a una drastica dieta. Bosè, del 1931, ha un corpo formoso che propone un erotismo ambiguo, dovuto in gran parte alle scelte stilistiche di Michelangelo Antonioni, con cui l’attrice lavorò nei lungometraggi Cronaca di un amore (1950) e La signora senza camelie (1952). In Mangano e Bosè il genere sessuale è ancora al centro della configurazione discorsiva, per quanto sia un femminile problematico rispetto al modello dominante. Il quadro delineato sembra subire dei sommovimenti decisivi con l’entrata in scena di Elsa Martinelli, nata nel 1935, e Lea Massari, del 1933. Quest’ultima, ne I sogni nel cassetto, connette il proprio corpo agile, delicato, “adolescenziale” con un carattere divertente e irriflessivo, proponendo l’immagine di una donna in movimento e inquieta verso le regole della tradizione. Nel film I sogni nel cassetto l’età ricopre un ruolo importante nella costruzione del personaggio di Lucia, poiché è percependosi “in quanto giovane” che la donna entra in conflitto con le regole dell’esistente e propone un nuovo modello femminile dalla natura ancora incerta. Le attrici citate finora sono nate tra il 1927 e il 1935 e le loro figu-

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re sono legate a rappresentazioni in cui il significante principale è il genere sessuale mentre l’età può essere trascurata oppure essere usata come strumento emergente con cui esplicitare una critica alle immagini sedimentate nell’immaginario collettivo. Sassard-Guendalina rappresenta una rottura più netta nel rapporto tra genere ed età. L’attrice francese è nata nel 1940, ha sedici anni durante le riprese del film Guendalina e impersona sullo schermo la figura di una sedicenne. Questa aderenza anagrafica tra attrice e personaggio era piuttosto insolita nel cinema italiano e fu derivata dalla produzione hollywoodiana, che fondò questa convenzione filmica nelle pellicole cosiddette teenpics – pictures for teenagers – che erano prodotte esclusivamente per il pubblico giovanile.23 Nella performance di Sassard l’età è il significante principale della costruzione discorsiva e del processo di costituzione soggettiva. Questa centralità è fabbricata attraverso il legame tra l’attrice, il personaggio e il mondo giovanile autonomo e indipendente che connota l’ambientazione del film. Anche Silvana Mangano aveva poco più di sedici anni quando interpretò la mondina di Riso amaro ma nessuno dei commentatori del tempo colse alcun riferimento all’età e anche nella nostra memoria contemporanea non è la collocazione anagrafica a rendere indimenticabile l’interpretazione dell’attrice. Guendalina è invece la figura che esprime quali erano, nel 1957, le caratteristiche di una figura “moderna” di adolescente, manifestate attraverso alcuni oggetti simbolo di una nuova cultura generazionale: il juke-box, la Coca Cola, il rock’n’roll, un gergo specifico. La presenza di questa messa in scena avviene nel momento in cui queste immagini potevano essere riconosciute dagli spettatori e dalle spettatrici più giovani. Mentre la generazione adulta opponeva ancora resistenze molto forti verso l’universo giovanile emergente, che erano espresse, tra il 1957 e il 1960, attraverso un vero e proprio “panico morale” al centro del quale vi era la figura di un giovane delinquente di sesso maschile etichettato come “teddy boy all’italiana”, ragazzi e ragazze si identificavano con le figure e l’ambiente del film Guendalina, rivelando il nuovo ruolo occupato dall’età nel meccanismo identitario, e l’esistenza di uno spazio aperto dal dato anagrafico, in cui collocarsi per criticare le forme della tradizione. Nelle pagine precedenti ho infatti privilegiato uno sguardo diretto verso i modelli femminili e le pratiche delle giovani donne, ma credo sia possibile

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ipotizzare che l’età offrì uno strumento con cui trasformare l’esistente che coinvolse entrambi i sessi e i rapporti reciproci. Inoltre, per quanto riguarda lo specifico femminile, ritengo che le fantasie, i sogni e le rinegoziazioni quotidiane intraprese dalle giovani durante gli anni Cinquanta fornirono l’antecedente da cui queste donne e altre più giovani, partirono per operare rotture più evidenti e collettivamente riconosciute, che diedero forma al movimento neofemminista dei tardi anni Sessanta e degli anni Settanta.

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Note 1. Cfr. J. Butler, Performative Acts and Gender Constitution: An Essay in Phenomenology and Feminist Theory, in S. E. Case (a cura di), Performing feminisms: feminist critical theory and theatre, Baltimore, John Hopkins University Press, 1990. 2. Per quanto la “storia dei giovani” sia ancora in gran parte da scrivere, vi è una sostanziale concordanza nel far risalire all’età moderna la nascita dell’idea di gioventù e di giovani ancora dominante nelle nostre società. Cfr. J. Gillis, I giovani e la storia, Milano, Mondadori, 1981, si veda poi M. Mitterauer, I giovani in Europa del Medioevo ad oggi, Roma, Laterza, 1991; G. Levi, J.C. Schmitt (a cura di), Storia dei giovani, Roma, Laterza, 1994, vol. 2. 3. È questo il tema della mia ricerca di dottorato, di cui il presente articolo è una breve sintesi. Cfr. E. Capussotti, “Perduti, teddy boys e ninfette”. La costruzione della gioventù e la cultura di massa nell’Italia degli anni Cinquanta, Fiesole, Istituto Universitario Europeo, 2001. 4. Cfr. S. Piccone Stella, La prima generazione. Ragazze e ragazzi nel miracolo economico italiano, Milano, Franco Angeli, 1993. 5. Ivi, p. 142. 6. Cfr. R. Barthes, La camera chiara, Torino, Einaudi, 1980. 7. Cfr. G. Grignaffini, Note in margine alla «Signora senza camelie», in I. Ricci (a cura di), Senza camelie. Percorsi femminili nella storia, Ravenna, Longo, 1992. 8. Il testo dell’arringa difensiva di De Sica è presente in S. Masi, E. Lancia, Stelle d’Italia. Piccole e grandi dive del cinema italiano dal 1945 al 1968, Roma, Gramese, 1989, p. 13. 9. L’esercizio censorio era gestito dalla Democrazia Cristiana attraverso la figura del sottosegretario Giulio Andreotti e il mantenimento di un vuoto legislativo – una legge sulla censura fu approvata solo nel 1962 – che garantiva la possibilità di un controllo maggiormente invasivo poiché slegato da regole formali e codificate. Cfr. D. Tarantini, Processo allo spettacolo, Milano, Edizioni Comunità, 1961. 10. Cfr. M. Barbanti, Cultura cattolica, lotta anticomunista e moralità pubblica 1948-1960, in «Rivista di Storia Contemporanea», 1 (1992). 11. Va ricordato che, tranne poche eccezioni, i film identificati come neorealisti furono degli insuccessi commerciali e registrarono incassi molto bassi. Cfr. V. Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia, Milano, Bompiani, 1974. 12. Anonimo, Pane, amore e fantasia, in «Rivista del cinematografo», 1 (1954), p. 18. 13. Cfr. U. Barbaro, Allegria di maresciallo, in «Vie Nuove», 10 gennaio 1954. 14. Cfr. S. Bellassai, La morale comunista. Pubblico e privato nella rappresentazione del PCI (1947-1956), Roma, Carocci, 2000. 15. Cfr. G. Bollati, L’italiano, in Storia d’Italia. I caratteri originali, Torino, Einaudi, 1972, vol. I; si veda poi D. Bidussa, Il mito del bravo italiano, Milano, Il Saggiatore, 1994; e anche A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Torino, Einaudi, 1988. 16. Cfr. P. De Tassis, Corpi recuperati per il proprio sguardo. Cinema e immaginario negli anni ’50, in «Memoria», 6 (1982). 17. Cfr. G. Grignaffini (a cura di), Stars. Quattro passi nel divismo, Modena, Edizioni Ufficio Cinema del Comune di Modena, 1981.

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18. Cfr. E. Lodoli, s.v. Silvana Mangano/Sophia Loren, in Grignaffini (a cura di), Stars, p. 85. 19. Cfr. G. Cimmino, S. Masi, Silvana Mangano, il teorema della bellezza, Roma, Gramese, 1994, p. 37. 20. Per un approfondimento del legame tra giovani donne e i modelli di benessere importati dagli Stati Uniti, cfr. S. Piccone Stella, “Donne all’americana?” Immagini convenzionali e realtà di fatto, in P.P. D’Attorre (a cura di), Nemici per la pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, Milano, Franco Angeli, 1991. 21. E. Martinelli, Sono come sono. Dalla dolce vita e ritorno, Milano, Rusconi, 1995, p. 57. 22. In «Settimo giorno», 19 febbraio 1959, pp. 13-14. 23. Le teenpics costituiscono un materiale molto interessante per la storia culturale della gioventù poiché sono uno degli elementi con cui delineare la nascita di identità giovanili. I produttori di Hollywood decisero infatti di investire il proprio denaro in questo “genere” cinematografico nel momento in cui riconobbero il potere d’acquisto di un pubblico composto prevalentemente da giovani, che si comportavano e si percepivano in quanto tali. Nel cinema italiano un equivalente delle teenpics sono i “musicarelli”, pellicole musicali che, a partire dal 1958, impiegavano come attori i giovani cantanti, come Adriano Celentano, Mina, Joe Sentieri, Tony Dallara e molti altri ancora, ritenuti la versione nazionale dei rocker statunitensi. Cfr. L. Handel, Hollywood Looks at Its Audience, Urbana, University of Illinois Press, 1950; si veda anche S. Della Casa, Immaginario cinematografico e cultura giovanile, in P. Ghione, M. Grispigni (a cura di), Giovani prima della rivolta, Roma, Manifesto libri, 1998.

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«Non possiamo pretendere di comprendere le idee altrui rispetto alla contaminazione, sacra o secolare, finché non abbiamo affrontato le nostre».1 Nonostante le raccomandazioni di Mary Douglas, questa non è una procedura etnografica molto comune. Al di là delle intenzioni comparative, la società di provenienza dell’antropologo è rimasta un termine solo implicito di confronto. Lo sguardo antropologico, prima degli anni Settanta, era rivolto sovente agli “uomini diversi da noi” ma difettava di strumenti per l’analisi della propria società e della consapevolezza che il punto di vista non comprendeva il mondo femminile. Come femministe siamo invece sensibili alla differenza di genere e sappiamo di dover capire noi stesse e le nostre relazioni, non solo qualche ipotetico “altro”; tuttavia nell’epoca della globalizzazione il senso del “noi” e delle “nostre idee” non è facilmente circoscrivibile. Per chi vive in Europa è difficile individuare gli orizzonti culturali e storici ai quali fanno riferimento le rappresentazioni, i valori, le norme, i discorsi delle persone di varia origine, comprese noi stesse, che si incontrano nelle città e che entrano in relazione fra di loro. Parlare di “culture” che entrano in “contatto” per la prima volta non è una tesi plausibile: le persone che immigrano provengono spesso da paesi che sono stati colonizzati a lungo dagli stati europei e che sono collegati all’Europa dai mass-media e da molteplici vincoli neocoloniali, commerciali e religiosi. Le barriere fra gruppi, le situazioni di conflitto, le paure reciproche attivano pregiudizi, stereotipi e percezioni sedimentate nel corso di un lungo processo storico. Molte di queste rappresentazioni si incentrano sul cor-

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po, sul colore della pelle, sul modo di vestire, sulle abitudini alimentari oppure sessuali. E in particolare si soffermano sull’attribuzione di “pulizia” o “sporcizia” al corpo e alle abitudini altrui. È stato persino suggerito che la nostra attenzione al corpo dipenda dalla sua nuova importanza «come significante e locus primario di ‘casa’ per i cittadini ibridi e sradicati del movimento transnazionale».2 Il Centro Interculturale delle Donne Alma Mater, é stato fondato a Torino nel 1993 per promuovere gli interessi delle donne migranti, lo scambio culturale e l’amicizia fra donne native e migranti. Anch’io sono diventata socia. Si sono creati un gruppo teatrale, corsi di formazione, un servizio di mediazione culturale, delle cooperative che lavorano nel campo dell’assistenza domiciliare, ricerche internazionali sulla situazione delle donne, piccole imprese artigianali e un bagno turco, l’hammam. Durante i primi anni di vita del Centro, i conflitti che sorgevano fra donne di varie provenienze e per vari motivi venivano sovente a concentrarsi sui temi di potere, dignità e sporcizia. A quell’epoca, alcune donne straniere protestavano per il fatto che altre, anche loro straniere, non si occupavano delle pulizia dei locali, e per il fatto che lasciavano le loro tazze nel lavandino affinché fossero lavate. Spesso inoltre si accusavano le donne italiane di “volere il potere” e di considerare sporche le donne straniere. Era un periodo in cui le donne italiane, spesso della generazione delle “madri”, esperte nelle relazioni con l’amministrazione locale e avvantaggiate dal loro status di native, prendevano molte iniziative per conto del Centro. Le donne straniere, pressantemente invitate a far parte del direttivo, si tiravano indietro e le tensioni persistevano: derivavano dalla difficoltà, in un contesto in cui circolava il fantasma del colonialismo e del neocolonialismo, di affermare il proprio valore e di creare relazioni egualitarie in ambito sociale e lavorativo. Esisteva la paura di essere percepite come marginali, sporche, addette alle cose di nessun valore, non incluse nel sistema di relazioni e di categorie significative. Erano soprattutto le donne che svolgevano compiti di pulizia ad esprimere la percezione che questa fosse una mansione degradante che comprometteva la loro posizione nel Centro. Considerato il poco valore che è attribuito al lavoro domestico e a chi lo compie nella nostra società, queste paure non erano infondate. Si rischiava di imporre delle categorie italiane di valore che avrebbero messo alcune

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donne straniere in una posizione di svantaggio. Anche le altre donne straniere potevano trattarle con disprezzo.3 Le contese all’Alma Mater intorno al problema delle pulizie e della “sporcizia” sono un sintomo di questioni di grande attualità che vanno collocate in un contesto europeo o addirittura mondiale: la graduale identificazione delle persone immigrate con le occupazioni manuali, qualsiasi sia il loro livello d’istruzione, e di quelle indigene con i lavori amministrativi e qualificati, mostrano l’intreccio fra il mercato del lavoro e l’ideologia del consumo. Il corpo delle lavoratrici, attraverso il culto della bellezza e della moda, si trasforma in merce di scambio sul mercato dei consumi. Le donne straniere vengono coinvolte in un rapporto di potere che le svaluta su questo mercato. Il loro corpo è un corpo d’uso, meno concorrenziale. Basti pensare alla loro reclusione in casa come collaboratrici domestiche o assistenti a domicilio, oppure al loro sfruttamento come prostitute. L’accusa nei confronti delle donne italiane di “volere il potere” identificava in loro il potere di definire negativamente il corpo altrui. Ma il Centro Interculturale Alma Mater traeva origine dalla volontà di superare precisamente questo tipo di rapporto fra native e immigrate. Significativamente in quel periodo vi iniziarono una serie di sfilate di moda delle donne straniere che mettevano in risalto la bellezza dei loro corpi e dei loro costumi. Una donna somala mi ha proposto di scrivere insieme a lei un libro sulla bellezza femminile per affermare i valori del enbonpoint, della rotondità dei fianchi, del seno e del sedere, in alternativa all’esaltazione euro-americana della magrezza e del corpo adolescenziale. Ha preso il via il gruppo teatrale Almateatro con un laboratorio d’espressione corporea. E’ stato aperto il bagno turco, l’hammam, in cui alcune donne offrivano cure del corpo di stile maghrebino. Si trattava di valorizzare altri corpi e altre abitudini in uno scenario non gerarchico. Una narrazione “etnografica” di avvenimenti e di relazioni segnati dalla complessità culturale da parte di un’antropologa che si trova implicata nelle stesse relazioni che descrive, non può seguire le tracce dell’etnografia coloniale. I casi che prenderò in considerazione saranno diversi per meglio comprendere la complessità e l’ambiguità delle categorie sociali e culturali contemporanee. Si tratta di districare le relazioni, anche storiche, fra costruzioni di genere, costruzioni etniche, nozioni di ordine e disordine, pulizia e sporcizia,

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integrità e contaminazione. In particolare ritengo pertinente alla comprensione delle relazioni sociali nelle quali siamo coinvolte, tra donne native e migranti, una considerazione dei cambiamenti nelle idee europee di pulizia e di sporcizia nel corso degli ultimi due secoli. Queste sono state trasformate, quanto i rapporti di genere, sia dallo sviluppo dello stato-nazione, dalle scoperte della medicina e dalla creazione di sistemi di sanità pubblica, accompagnata da ideologie eugenetiche, sia dalla colonizzazione europea di gran parte del mondo e dall’estensione di sistemi di sanità pubblica ai paesi colonizzati. Qualsiasi sistema sociale, come ha dimostrato Mary Douglas, produce schemi di ordine e disordine, di pulizia e sporcizia, e questi possono essere di vario carattere, più o meno stringenti, con effetti politici diversi. In questo saggio prenderò in considerazione in particolare le nozioni di “pulizia” e “purezza” in comunità europee e marocchine, rurali e urbane, del Novecento. Esaminerò brevemente anche l’impatto della colonizzazione e lo sviluppo di sistemi sanitari europei sui rapporti etnici e di genere nell’Africa centrale e meridionale, che ritengo paradigmatici. Tutti questi fattori, spesso camuffati da differenze religiose, giocano un ruolo nelle relazioni che emergono nel complesso mondo dei nostri rapporti quotidiani. Nell’area mediterranea le relazioni economiche e politiche sono state spesso rappresentate come se fossero rapporti fra il cristianesimo, l’islam e il giudaismo. A causa della loro origine comune, la loro rivalità e la loro compresenza in molte aree del mondo, le idee di purezza di queste tre religioni androcentriche si rispecchiano e si assomigliano e hanno avuto un ruolo in tutti i grandi conflitti della nostra epoca. Teorie dello sporco Secondo quanto ha scritto Mary Douglas, «la sporcizia è il prodotto secondario della creazione sistematica dell’ordine e della classificazione della materia, in quanto creare ordine implica scartare degli elementi impropri. Questa idea della sporcizia ci conduce direttamente nel campo del simbolismo e consente di accedere a sistemi che sono più chiaramente sistemi simbolici e di purezza».4 Le caratteristiche delle contemporanee idee europee sulla sporcizia e sulla contamina-

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zione individuate da Douglas sono due. Una è che evitare lo sporco è per noi una questione sia di igiene che di estetica, non derivante dalla religione. La seconda è che la nostra idea della sporcizia è dominata dalle nostre conoscenze degli organismi patogeni. «La trasmissione batterica della malattia è stata la grande scoperta dell’Ottocento. Ha prodotto la rivoluzione più radicale nella storia della medicina. Ma le nostre idee della sporcizia non sono così recenti […] Se possiamo astrarre la patogenesi e l’igiene dalla nostra nozione di sporcizia, ci rimane la vecchia definizione di ‘materia fuori posto’».5 Per leggere questo fenomeno Mary Douglas, in Simboli Naturali, ricorre alla tesi dei due corpi. «Il corpo sociale determina il modo in cui è percepito il corpo fisico». Le pressioni sociali fanno sì che il corpo sia «uno strumento di espressione limitato».6 «Si terrà in alta stima il controllo del corpo là dove vige il formalismo; in stima anche più alta là dove si esalta il valore della cultura al di sopra di quello della natura».7 In particolare, i confini fra categorie sociali vanno continuamente ripristinati tramite la costruzione culturale dei corpi, la regolamentazione delle loro funzioni e del fluire delle sostanze corporee: «La contaminazione è un tipo di pericolo che incombe laddove le linee della struttura, sia cosmica sia sociale, sono chiaramente definite».8 Dopo la Douglas, due sono le tendenze recenti nel descrivere il corpo. Esso, per la prima, è il luogo dello scambio di emozioni e sostanze fra persone sociali. Bourdieu sostiene infatti che «il corpo socialmente informato sia il principio che genera e unisce tutte le pratiche».9 Un diverso sguardo vi incentra invece la condizione esistenziale del sé, della nostra vita, il momento dell’elaborazione (individuale e culturale) dell’esperienza.10 L’approccio della Stark-Arola, più vicino a Foucault e Bourdieu che a Victor Turner e Mary Douglas, considera il rituale un mezzo usato dalla società per mandare messaggi al corpo e non un modo di usare il corpo per mandare un messaggio alla società. Attribuisce al corpo, da una parte, un ruolo prioritario nella costruzione sociale di una realtà interiore; dall’altra vede il corpo come un mezzo primario per esprimere e percepire rituali.11 Le conoscenze culturali, le credenze, le relazioni simboliche mediate dal rituale si comprendono attraverso l’esperienza corporea immediata ovvero attraverso le sue

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facoltà di percezione e movimento. Il rituale plasma il corpo producendo “il corpo sociale”, descritto da Bell, tramite dell’interiorizzazione e della riproduzione dei valori sociali per la costituzione simultanea sia del sé sia del mondo delle relazioni sociali. La nostra percezione in termini positivisti e non simbolici delle nostre pratiche del corpo rende difficile per noi capire che esse si riferiscono a un campo sociale. Anche i corpi occidentali sono «informati socialmente», insiste Janice Boddy, per criticare la tesi di Marilyn Strathern secondo cui le epistemologie occidentali e quelle melanesiane mettono in relazione i corpi e le persone in modi molto diversi. Mentre nell’Occidente si enfatizzano dei soggetti stabili, coerenti, intenzionali, degli individui unici e autonomi che abitano corpi unici e autonomi, in Melanesia si dà importanza ai dividui.12 «Le persone dividuali vanno intese come i prodotti instabili delle relazioni (scambi), dei coinvolgimenti e delle influenze materiali che incarnano, comprese le sostanze corporee trasmesse in modo vario fra di loro».13 Janice Boddy ritiene che questa dicotomia fra concezioni individualiste occidentali e dividualiste melanesiane sia inconsistente. Molti anni fa anche Edmund Leach lo sosteneva: Gli individui non vivono in società come individui isolati con limiti ben definiti; essi esistono come individui collegati in una rete di relazioni di potere e di dominazione. Il paradosso logico è che […] un “Io” completamente pulito con nessun limite sporco non avrebbe alcuna relazione con il mondo esterno e con altri individui.

In tal modo un “io” sarebbe libero dal potere degli altri, ma sarebbe a sua volta impotente – come lo schiavo: gli schiavi sono simbolicamente “morti”, non partecipano allo scambio di sostanze corporee che crea le persone sociali e sono sottoposti senz’altro all’autorità del loro padrone.14 La conclusione logica è la seguente opposizione: pulito/sporco = impotenza/potenza e da ciò deriva che il potere è situato nello sporco. Questo paradosso è responsabile di molteplici pratiche religiose e della tendenza, che incontriamo dovunque, ad attribuire santità al comportamento sia ascetico sia estatico.15

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Il potere rituale delle donne La sporcizia, come luogo del disordine, è informe quanto l’acqua, la soluzione di tutto, e come lei è la fonte della creatività, della forma e di nuovo ordine. La sporcizia, il buio e l’acqua caratterizzano molte fasi liminali dei riti di passaggio, fasi in cui si rappresenta la morte del vecchio sistema di relazioni e la nascita di quello nuovo. Non sempre si tratta di un’acqua che purifica. Nei riti di passaggio marocchini di cui sono stata testimone durante gli anni Settanta, portare il bambino o la nuova sposa “al fiume” sembrava significare aprire un rapporto con la fertilità, con la fonte di nuova vita. Spesso si enfatizza la metafora della nascita a nuova vita del protagonista del rito. Il potenziale di questo paradosso per i ruoli rituali delle donne è evidente: si tratta di gestire, a partire da una posizione sociale subordinata, le trasformazioni delle relazioni sociali, la morte e la nascita, la sessualità e la fertilità, lo sporco e l’acqua. Le donne che “trafficano” con la sporcizia e con l’acqua, elementi che sono simboli del corpo rimosso dagli uomini, sono in grado di gestire una creatività sociale e culturale considerevole, che viene arginata attraverso la svalutazione del loro corpo e del lavoro domestico, visto come attività degradante, ragione della loro subordinazione sociale.16 Sono esemplificativi di questi aspetti due studi sulla gestione da parte di figure femminili dei rituali del corpo in società rurali europee del Novecento: il primo studio, di Yvonne Verdier, Façons de dire, façons de faire: la laveuse, la couturière, la cuisinière, è incentrato su Minot, un villaggio del Châtillonnais non lontano da Parigi, mentre il secondo, di Stark-Arola, Magia, corpo e l’ordine sociale: la costruzione di genere nei rituali privati delle donne nella Finlandia tradizionale, prende in considerazione la Finlandia rurale. Nel Novecento europeo alcuni rituali del corpo, specie quelli che riguardavano la nascita e la morte, erano gestiti dalle donne, addette alla pulizia del corpo, dei vestiti e delle case (e anche del decoro e della gestione corretta dei rapporti sociali). Le istituzioni mediche, in Francia come in Italia, non sono riuscite fino agli anni Cinquanta ad offrire il parto in ospedale a tutta la popolazione. La Chiesa si occupava dell’anima dei nati e dei morti ma non del loro corpo, che tuttavia richiedeva le cure delle donne nell’ambito domestico, soprattutto nelle zone rurali. Lo studio mostra come l’ambito della pulizia,

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funzione bassa attribuita alle donne di estrazione popolare, fosse sfruttato da loro per manipolare le relazioni fra i ceti sociali e i rapporti di genere proprio in ragione della loro esclusione dalle funzioni alte e valorizzate della società. Nel periodo precedente alla seconda guerra mondiale, la lavandaia del villaggio di Minot si occupava della pulizia dei morti; faceva anche la levatrice ed era denominata la femme qui fait. Come lavandaia svolgeva la sua opera solo presso le famiglie benestanti, che disponevano di una quantità di biancheria tale da durare per i sei mesi che intervallavano un bucato dall’altro. Non troviamo a Minot una netta distinzione fra la purificazione rituale del corpo e la pulizia nel nome dell’igiene: sia il rito di lavare i neonati e i morti, sia fare il bucato incideva nel campo della relazioni sociali. Il bucato, steso sui prati e i cespugli in modo che tutti lo potessero ammirare, esibiva la ricchezza delle famiglie, tanto quanto l’esibizione degli abiti di lusso nelle occasioni cerimoniali. Per la sua associazione con l’ingresso e l’uscita dalla vita, il suo contatto con le secrezioni del corpo, ma anche per la familiarità che acquisiva, attraverso la biancheria, con la vita intima di tutti gli abitanti del villaggio, la femme qui fait era stimata ma anche temuta. Era sospettata d’avere traffici con gli spiriti dei morti che abitavano i ruscelli e le fonti che lei frequentava. In altri tempi sarebbe stata considerata una strega, ma la sua permanenza esclusiva nel regno della pulizia, ambito del banale quotidiano, la rendeva innocua.17 La Stark-Arola, basandosi su materiali orali finlandesi raccolti da folcloristi fra il 1866 e 1961, analizza invece i rituali privati compiuti da donne nell’ambito domestico e alla presenza di poche persone. Li divide in due categorie: quelli segreti che nascondevano la non conformità dei loro mezzi e fini rispetto ai valori collettivi, e quelli non-segreti, non per questo collettivi ma più rilassati. I rituali segreti descritti dall’autrice comprendevano quelli svolti nella sauna per aumentare l’attrattiva sessuale di una ragazza che non aveva corteggiatori e rischiava di non sposarsi (lempi-bathing), magie d’amore coercitive, magie che permettevano a una sposa di acquisire potere nella sua nuova casa e nei confronti del marito, magie contro la sposa da parte delle parenti del marito, magie per ristringere la vagina dopo il parto. Si praticavano anche rituali per trasferire le mestruazioni agli uomini o per rinforzare l’identità di genere dei neo-

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nati. Tali riti potevano essere usati dalle donne per difendersi contro i pericoli inerenti alla struttura sociale (la possibilità di non sposarsi, di doversi subordinare ai parenti del marito o di affrontare una sposa invadente). I rituali femminili non segreti riguardavano il vaki, il potere pericoloso dei genitali femminili, usato anche per proteggere animali e bambini. Il vaki aveva persino il potere di far fuggire gli orsi che aggredivano il bestiame. I riti rappresentavano la foresta e il villaggio come luoghi dei lupi, degli estranei e degli uomini, a differenza della casa e delle stalle, luoghi dei lavori di pastorizia e artigianato frequentati dalle donne; tendevano a rappresentare il matrimonio come una giuntura simbolica debole, cerniera fra il fuori e il dentro, fra sfere e identità opposte. Una buona articolazione di queste sfere, impressa, per così dire, sul “corpo sociale” della ragazza, veniva sintetizzata nell’immagine del buon rapporto sessuale. I riti delle donne finlandesi sono interessanti per la loro messa a fuoco di questioni pertinenti all’attrattiva sessuale femminile e per la relativa assenza di riferimenti alla fertilità. Il potere femminile genitale che le donne rappresentavano come protettivo, era considerato dagli uomini potenzialmente pericoloso e contaminante, definito come “l’ira della vagina”. Il bagno lempi che rendeva la ragazza irresistibile ai ragazzi era finalizzato al matrimonio e ai cambiamenti, per così dire normali, nel campo relazionale; ma i riti che miravano ad aumentare il potere femminile erano sovversivi nei confronti della norma di sottomissione della sposa ai parenti del marito.18 I modi in cui le persone maschili e femminili vengono psicologicamente e fisicamente plasmate affinché occupino poli opposti dell’orizzonte sociale vengono spesso descritti come operazioni di pulizia – gli Ndembu matrilineari dello Zambia parlavano dei ragazzini non-iniziati che frequentavano troppo gli spazi femminili come sporchi: «Un uomo non circonciso è sempre contaminante, una donna soltanto in periodo mestruale […] Un uomo circonciso è ‘bianco’ (watooka) o ‘puro’».19 La situazione delle donne ndembu è ambigua, e carica di tensioni per le istituzioni patriarcali. Nonostante siano subordinate ed escluse dalla partecipazione piena al potere pubblico, le donne fanno parte di gruppi parentali e ne garantiscono la sopravvivenza. Le donne dell’Africa sub-sahariana che subiscono operazioni di clitoridectomia o infibulazione spesso ne parlano come finalizzate alla creazione di un corpo pulito, bello, libero da ambiguità

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maschili, poiché la persona inequivocabilmente femminile è svantaggiata sul piano materiale e politico; tali operazioni mirano cioè a un depotenziamento fisico e sociale delle donne. Le contraddizioni che discendono dall’atto sessuale derivano dalla stessa insistenza sociale sulla separazione dei sessi e sul confine che li separa. Adriana Destro, in un saggio sul concetto ebraico della niddah, (la donna separata perché mestruata), scrive: «In campo liturgico e cultuale, uomo e donna sono diversificati […] L’unione sessuale interrompe la separazione o riduce la distinzione fra i generi e intacca (perché produce impedimenti alla vita ritual-religiosa) il piano soprannaturale, limite estremo dell’uomo».20 «Maschi e femmine vengono a far parte di sfere distinte e nemiche. Da qui deriva l’antagonismo fra i sessi e questo si riflette nell’idea che ciascun sesso costituisce un pericolo per l’altro».21 La pulizia e la purezza nel Marocco Nell’Islam la sovrapposizione fra pulizia-igiene e pulizia-purezza o correttezza morale è assai conosciuta. Entrambe i criteri, come ci ha insegnato Mary Douglas, implicano la distinzione in categorie di cose e persone, tanto che le anomalie rispetto a questi schemi di classificazione e separazione sono percepite come sporcizia e ritenute potenti e pericolose abbastanza da mettere sottosopra tutto il sistema.22 Nell’arabo classico e secondo le regole coraniche – che diversamente da quelle cristiane si occupano da vicino della gestione del corpo – il termine per purezza è tahara. La condizione di purezza rende valide le pratiche religiose come la preghiera e il digiuno e ci sono regole complesse per la rimozione di stati maggiori e minori d’impurità. Nel linguaggio quotidiano dell’arabo dialettale usato dalle donne, si usa invece il termine nqi (pulito), opposto a mwessekh (sporco), termine che si potrebbe usare a proposito di un piatto o di una tovaglia. L’antropologa olandese Marjo Buitelaar descrive un incontro con un’amica della sua padrona di casa a Berkane, nel Marocco settentrionale, dove si pratica un islam severo, vicino ai modelli algerini. L’amica, con la quale l’antropologa aveva rapporti calorosi, si era ritratta invece di baciarla. L’antropologa ne aveva chiesto ragione alla sua padrona di casa:

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«Perché?» «Aveva paura che tu non fossi nqiyya (pulita). Perché sei nsraniyya (cristiana). Forse avevi il rossetto o qualcosa». «Allora perché non ne aveva paura la settimana scorsa?» «Perché adesso sta digiunando».

Chiaramente, scrive l’antropologa, «non intendeva che ero sporca in senso fisico, ma che ero ritualmente impura».23 A questa condizione si può rimediare: non implica infatti una condizione permanente di marginalità. Uno stato d’impurità maggiore consegue da particolari stati e condizioni: rapporti sessuali, ejaculazione, mestruazione, parto, lo stato della persona prima di diventare musulmana, e la morte. Queste condizioni richiedono l’abluzione rituale maggiore che comporta il lavaggio di tutto il corpo per tre volte a cominciare da gambe e braccia. L’impurità minore risulta dal contatto con tracce d’urina o feci, polvere o fango sulle strade, le suole delle scarpe, il sangue delle pulci e del corpo. Si può alleviare questo stato con l’abluzione rituale minore che consiste nel lavare la testa, gambe e braccia tra volte; così si fa prima di pregare. Poi ci sono sostanze e corpi impuri come il vino, i maiali e i cani, con i quali il contatto è haram (tabu), e contaminazioni morali che risultano da cattive azioni e pensieri. Il rituale di purificazione non ha un effetto automatico, ma deve accompagnarsi alla niya (la buona fede o l’intenzione), il pensiero di Dio e le preghiere speciali. Gli studiosi distinguono il processo di purificazione in quattro fasi: 1. purificazione del corpo dallo sporco fisico; 2. purificazione degli arti da cattive azioni; 3. purificazione del cuore da desideri cattivi; 4. purificazione dello spirito da tutto quello che non è Dio.24 Non tutte le prescrizioni sono seguite da tutti ma gran parte della gente, soprattutto in città, osserva l’abluzione maggiore che si compie durante le visite settimanali all’hammam, soprattutto durante il Ramadan, il mese del digiuno. In Marocco, la purezza viene calcolata in gradi: può essere intensificata, per esempio, da cosmetici che sono associati al paradiso, come il kohl (antimonio), l’henné, o i profumi che vengono dalla Mecca. I cosmetici occidentali sono haram (proibiti). La scrittrice Leonora Peets raccontò come la sua saponetta fosse considerata «ve-

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leno».25 Il rapporto fra purezza, che è una questione di gradi, e la baraka, benedizione divina, è stretto. La purezza è associata spesso a shih: salute, vitalità, vigore. Assolvere i compiti rituali porta benefici al corpo e alla mente. Prima del mese di Ramadan, le donne puliscono la casa a fondo, in modo anche da scacciare gli spiriti, e visitano l’hammam. Durante il Ramadan, poi, evitano i rapporti sessuali e non lavano i vestiti sporchi, e visitano il bagno più di una volta la settimana, per lo più di sera, quando l’hammam si trasforma in un luogo di socialità e di preghiera. Il bagno turco e i confini sociali e religiosi In una tesi di ricerca sul significato dell’hammam in Marocco, Buitelaar tratta dell’importanza per le donne del bagno pubblico come luogo in cui tessere e mantenere delle reti sociali extra domestiche, in cui partecipare alla comunità musulmana tramite l’adesione alle nozioni religiose di purificazione, e in cui segnare, attraverso riti di lavaggio specifici, i passaggi delle singole donne da una fase della loro vita a un’altra. In un articolo successivo elaborò il concetto di gender privacy, notando come l’hammam fosse forse l’unico spazio riservato alle donne come categoria mentre molti erano gli spazi riservati agli uomini. Nell’articolo notò come la differenziazione sociale si rifletta nel fatto che le donne della ville nouvelle o le emigrate che aderiscono a uno stile di vita europeo, più individualizzante e con più libertà di movimento, spesso abbandonano le visite al bagno pubblico, oppure portano dei piccoli sgabelli per ragioni igieniche e per separarsi dalla sporcizia delle altre donne. Anche la differenziazione religiosa fra donne si riflette nella preferenza accordata alle nuove docce installate accanto al bagno pubblico da parte delle donne integraliste, al fine di non compromettere la loro purezza.26 Una musulmana dovrebbe guardarsi dall’incontrare al bagno pubblico una non-credente, ebrea o cristiana, le cui pratiche di vita la rendono impura. La musulmana rischia di essere contaminata e le sue pratiche religiose rese vane. Ma il modo in cui quest’idea viene messa in atto viene influenzato dai contrasti politici del momento. Quando svolgevo ricerca nel Marocco durante gli anni Settanta, accompagnavo spesso al bagno delle amiche. Si commentava la mia presenza e il

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mio aspetto anche se non negativamente, semmai si riteneva “vergognoso” che non fossi sposata e fossi senza figli anche se avevo solo 23 anni. Ma una volta accompagnai le cinque figlie di una famiglia che conoscevo bene (età dai 5 ai 17 anni) durante il Ramadan e fui testimone di un uso “situazionale” delle regole islamiche. C’era una donna ebrea che lavava le sue figlie piccole e una delle mie compagne, Zineb di 12 anni, incominciò a insultarla, buttandole l’acqua addosso e intimandole di andare via. Le sorelle le dissero di smetterla e io ero così sbalordita da questo comportamento da parte di una ragazzina normalmente timida e beneducata che mi scusai con la donna ebrea e le feci posto vicino a me. Incominciò una discussione fra i presenti. Zineb affermava che gli ebrei stavano uccidendo i fratelli arabi in Palestina. Io chiesi che colpa aveva una donna con i suoi figli che si lavava pacificamente. «Non amano il Profeta». Obiettai che neanche i cristiani amavano il Profeta ma le ragazze affermarono che diversamente dagli ebrei i cristiani ignoravano il Corano. «A te piacciono gli ebrei?» mi chiesero. Risposi che tutte le persone mi piacevano se si comportavano pacificamente. «Puzzano», disse Khadija, «e puzzano anche le loro case, mentre quelle europee no». A casa le ragazze raccontarono l’episodio al loro padre che reiterò la questione della guerra in Palestina, ma aggiunse che il re aveva imposto una multa di trecento dirham o tre mesi di galera a chiunque insultasse o facesse del male a un ebreo.27

Si deve ricordare che «gli ebrei avevano sempre vissuto insieme agli arabi, dall’inizio dei tempi […] la svolta radicale delle alleanze fra le tre religioni nel Mediterraneo é avvenuta in un lasso di tempo incredibilmente breve». Infatti, ancora alla fine degli anni Quaranta, la comunità ebraica marocchina era imponente per numero (circa 255.000 persone) e rappresentava uno dei pilastri della tradizione nel Maghreb. Sidi Mohamed ibn Youssef (più tardi Mohamed V), allora giovane e visto dal regime di Vichy come poco temibile, ha impedito che gli ebrei marocchini fossero spediti ai lager nazisti, dichiarando che erano sudditi marocchini, di cui il regime francese filo-nazista non poteva disporre. L’emigrazione costante verso Israele, l’Europa e il Canada aveva ridotto nel 1966 questo numero a 55.000.28 La manipolazione politica delle nostre idee di pulizia La nozione di pulizia assunse sempre più pregnanza simbolica durante l’Ottocento e il Novecento al fine di definire i confini interni ed esterni dello stato-nazione europeo, a scapito delle popolazioni colonizzate da una parte, e, dall’altra, di quelle minoranze che Ernest

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Gellner chiamò “anti-entropiche”, quelle che non rientravano nelle definizioni biologico-nazionalistiche del popolo. Queste definizioni (come il riferimento al Volksgeist, ancora oggi evocato in nozioni come “la mentalità” o il “ carattere nazionale”) erano, da una parte, religiose e escludevano gli ebrei perché non cristiani; dall’altra, erano idee romantiche ed escludevano gli zingari perché privi di un legame stabile con la terra. Poggiavano su tesi eugenetiche che facevano frequente riferimento a nozioni di salute, igiene e pulizia. “L’igiene razziale” oppure “la razza sana” implicavano peraltro certe costruzioni di genere.29 Viceversa, il riferimento alla non-pulizia dei corpi era una metafora usata per descrivere gruppi non integrati nello stato nazione, «materia fuori posto» nei termini di Mary Douglas, e per reiterare i confini della nazione che era, tutto sommato, una comunità immaginata (Anderson). Nell’ex-Yugoslavia, durante la seconda guerra mondiale, i leaders nazionalisti impiegavano lo stesso linguaggio degli occupanti nazisti. Nel 1941 l’avvocato serbo-bosniaco Stevan Molievic´ del movimento etnico scrisse un memorandum intitolato La Serbia omeogenea. Nel 1942 scrisse al suo collega Vasic spiegando come il territorio serbo dovesse estendersi fino alla Dalmazia e come quest’operazione dovesse essere seguita dalla «pulizia della terra da tutti gli elementi nonserbi. Si potrebbero mandare i colpevoli per la loro strada: i croati alla Croazia, i musulmani alla Turchia o all’Albania».30 I richiami alla “pulizia etnica” nei Balcani hanno accompagnato il massacro di centinaia di migliaia di persone e l’espulsione di milioni di individui dalle loro case. Dobbiamo esaminare tutta l’ambiguità del termine “pulizia”. Un certo dibattito (non molto diffuso, a dire la verità) si è sviluppato intorno al termine “etnico”, un concetto distante dall’esperienza individuale. Sull’idea di pulizia, che sperimentiamo tutti i giorni, non siamo invece stati capaci di imbastire una critica. La pulizia è un valore ovvio per noi; anche per questa ragione dovrebbe interessare l’antropologo, proprio perché problemi vitali per le istituzioni e le strutture di potere di una società vengono spesso camuffati da questioni banali in modo tale da non essere messi in discussione o sottoposti ad analisi. I vari episodi di genocidio che hanno macchiato il XX secolo sono stati spesso ispirati e guidati da gruppi di leaders assetati di potere, i

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quali hanno manipolato attraverso la coercizione sia i mezzi di informazione che le azioni e il pensiero delle popolazioni, ricorrendo a modelli nazionalisti-eugenetici-religiosi già sperimentati altrove e in altre circostanze storiche. Anche popolazioni che riteniamo diverse da noi per cultura spesso utilizzano gli stessi sistemi di pensiero dell’Occidente. Un esempio recente proviene dal Ruanda, dove le parti in gioco nella devastante guerra civile hanno impiegato le categorie coloniali belghe, Hutu e Tutsi, per descrivere quello che era invece un complesso panorama di interessi politici.

La pulizia di genere: la violenza contro le donne Nelle nostre discussioni la pulizia etnica viene spesso associata alle violenze perpetrate sulle donne in suo nome. Lo stupro di massa su donne e ragazze, la soggiogazione di massa dei loro corpi e delle loro persone, viene utilizzato dai loro assalitori maschi come una moderna “strategia di espulsione”, come “pulizia etnica”. Questa strategia viene eseguita in un modo spietato sui corpi delle donne e delle ragazze, perché queste – oltre a subire un danno irreparabile alla propria esistenza sociale e personale – vengono costrette a creare il futuro dei loro nemici attraverso l’estinzione della propria comunità.31

Wobbe cita un articolo di Claire Brisset, Le massacre programmé des enfants rwandais, che afferma che «les petites filles elles ont été tuées plus sistematiquemente par les massacreurs. Tel est l’enjeu du genocide: faire disparaitre les futures femmes».32 Wobbe cita anche Ringelheim che sostiene, a proposito dell’Olocausto, che le donne ebree vennero prese di mira dai leaders nazisti perché in grado di garantire la futura generazione di ebrei.33 Quello che hanno aggiunto Wobbe e Brisset alle tesi di Douglas è che i sistemi di classificazione contengono un elemento teleologico. Non si può mettere a fuoco la sporcizia, se non come un elemento di un processo storico e nell’articolazione nel tempo fra sistema di pensiero, strutture sociali, norme e comportamenti, aggiungerei “corporei”. Il corpo è al centro della creazione e dissoluzione delle istituzioni sociali. Dal punto di vista delle donne, lo stupro è violenza reale e non un atto simbolico; tuttavia uno dei risultati dell’aggressione

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è che i mariti e i fidanzati di donne violentate dal nemico le ripudiano per ragioni simboliche: divengono ai loro occhi sporche, di nessun valore. Perdono la parentela anche con i propri figli e sono ridotte simbolicamente a schiave. Negli sforzi attuati dai sistemi autoritari per controllare ciò che accade fra gli individui, separando le madri dai bambini e i mariti dalle mogli, si può leggere un tentativo di appropriazione del potere della relazione femminile. Nell’ex-Yugoslavia insieme alla dissoluzione delle istituzioni sociali si sono verificati un arretramento e una subordinazione estrema della figura della donna, che ha perso diritti non solo in Bosnia ma anche in Croazia e in Serbia. Oltre alla violenza che le donne hanno subito a opera di soldati nemici, esse sono state spesso sottoposte alla violenza dei propri mariti, fidanzati e compaesani. Si tratta di una redistribuzione del potere tutto a favore degli uomini armati.

L’asimmetria di genere Scrive Theresa Wobbe: Contrariamente all’assunto che vuole che il razzismo non abbia connotatati di genere, diventa evidente come la distinzione di genere sia pertinente alla definizione violenta dei confini fra le maggioranze e le minoranze. La costruzione delle differenze di genere procede insieme con la costruzione del potere di violare da una parte, e con la vulnerabilità dall’altra.34

La questione che dobbiamo porci riguarda la modalità con cui si creano le distinzioni fra categorie sociali, per esempio fra i generi, tali da rendere l’una più vulnerabile dell’altra. Inoltre, quale forma prendono tali distinzioni? Gesa Lindemann dimostra che là dove si ritiene che il genere sia una forma sociale e non una categoria biologica, si deve tenere conto del modo in cui l’unità di contrasto (fra i generi) è composta e quale ne è il rapporto fra i poli. Questa domanda logico-storica va oltre i concetti di costruzione o decostruzione del genere. Lindeman considera evidenti nella storia europea almeno due forme di distinzione fra i generi, che si possono chiamare distinzione centrica e distinzione a-centrica. La prima, in uso fino al XVIII secolo, formava l’unità di distinzione tramite l’attribuzione di genericità a un solo polo dell’unità

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stessa, quello maschile. Il femminile non era diverso qualitativamente ma corrispondeva a una gradazione del maschile, una sua copia imperfetta, e quindi gerarchicamente subordinato. Tali rappresentazioni gerarchiche ponevano problemi per la società borghese moderna, la quale sosteneva l’uguaglianza degli esseri umani, e in cui la distinzione di genere incominciava ad assumere una forma a-centrica (personalmente ritengo che si tratti non di uguaglianza ma della diffusione di nuovi criteri di appartenenza all’“immaginata” comunità-stato-nazione che escludevano la donna come soggetto di cittadinanza, subordinando il suo diritto al suo legame con il cittadino-uomo). Secondo questa modalità non è il polo generico dell’unità di distinzione a essere messo in evidenza ma piuttosto l’altro polo. Quindi l’insieme non compare più come una distinzione fra due generi, quello maschile e quello femminile, ma un contrasto, nei termini di Jakobson, fra marcato e non-marcato. L’esempio proposto dalla Lindeman è la distinzione fra “professore” (che può essere o maschile o femminile) e “professoressa”, dove solo il secondo polo viene rimarcato in termini di genere. «Spostando l’indicazione al non-generico, l’identità di umano e maschile viene a sciogliersi e solo il femminile è indicato in termini di genere». È per questo che sentiamo spesso parlare di genere come si trattasse solo del femminile. La definizione a-centrica di genere logicamente permetterebbe alle donne di assimilarsi al generico come lo fanno gli uomini, ma la distinzione appare, dal punto di vista maschile, come una differenza qualitativa (un uomo non può diventare “professoressa”), e da quello femminile come un contrasto gerarchico.35 La cittadinanza e i luoghi protetti Le implicazioni pratiche dell’ambiguità dovuta alla mancata distinzione del genere sono molteplici. Molti provvedimenti degli stati europei riguardanti i corpi dei cittadini si basano su un’idea generica di cittadino che esclude il genere femminile. Il corpo politico generico è di fatto maschile. I bisogni specifici femminili sono considerati una fonte di disordine e sporcizia, se non moralmente negativi. Si potrebbe citare il rifiuto recente del Parlamento inglese di mettere a disposizione delle

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parlamentari una stanza per allattare i loro bambini, oppure i casi di arresto per oscenità di alcune donne statunitensi che allattavano in un luogo pubblico. Le donne che devono allattare fuori casa sono costrette a ritirarsi nelle toelettes pubbliche. Persino negli ospedali le donne sono spesso invitate ad allattare i loro bambini con discrezione e a disinfettare il seno fra una poppata e l’altra (gesto del tutto inutile: tale consiglio dà la misura del sospetto verso il corpo femminile e i suoi liquidi). In molti ospedali l’allattamento è scoraggiato. Un articolo recente di Edwards e McKie descrive come, nel disporre la costruzione di bagni pubblici in Gran Bretagna, si è preso a riferimento una generica utenza, di fatto solo maschile. Le donne invece fanno un uso diverso delle toelettes che richiede più tempo, indipendente dai bisogni dei bambini. Le toelettes sono costruite in numero uguale per uomini e donne così che le donne sono costrette a delle lunghe attese in coda e a una gran perdita di tempo. La mancata considerazione di questi aspetti non è casuale ma deriva dall’idea che donne e bambini siano soggetti “fuori posto” nell’ambito pubblico e che i bisogni dei loro corpi appartengano alla sfera esclusivamente domestica.36 Si può certo scorgere in quest’allontanamento concettuale delle donne dai luoghi pubblici, con la conseguente separazione dei luoghi di riproduzione sociale da quelli della gestione della cosa pubblica, un procedimento similare al modo con cui si percepiscono le minoranze come fonte di disordine e sporcizia, specie se i loro comportamenti fisici non sono ritenuti congrui con le categorie culturali e spazio-temporali dominanti. All’intrusione di corpi estranei si è sovente risposto con la creazione di confini e di luoghi “protetti”, variabili secondo le condizioni storiche e culturali. Ci sono tuttavia persone e gruppi che resistono a esservi rinchiusi, a causa del loro differente concetto dell’ordine sociale e corporeo. Il confine fra spazi protetti è un confine attraverso il quale rischia di passare la contaminazione. Ma, a guardarlo più da vicino, potrebbe sembrare più di una dimensione lineare: piuttosto diventa uno spazio demarcato dai propri assi concettuali e contenenti i propri oggetti anomali, esclusi dal sistema contestuale di classificazione. Questa linea di confine è un residuo dell’ordine sociale, un luogo crepuscolare di relitti sociali, pericolo e contaminazione. Apparentemente, all’interno della linea stessa, si nasconde una minaccia, un pericolo che non si può ordinare ma solo contenere. Questa zona ribelle separa e definisce gli spazi fondamentali della vita sociale. Ma, in qualche modo, si trova al di là del sociale.37

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Il modo in cui nei paesi europei si “contengono” gli zingari e altre minoranze è un’indicazione della minaccia che essi sembrano opporre all’ordine d’idee che separa il corporeo dai luoghi pubblici. La nostra società ha sancito misure che tengono gli zingari ai margini, privi dei benefici della cittadinanza. In numerose delibere dei Consigli comunali del Veneto, gli zingari vengono definiti una minaccia per l’igiene dei cittadini, e per risposta sono organizzati dei campi, spesso non attrezzati con strutture sanitarie e localizzati vicino alle discariche pubbliche. Piasere li ha chiamati «popolo delle discariche». Egli infatti scrive: «L’unica ‘cosa umana’ percepita nei confronti degli zingari, la sporcizia, lo schifo, non connota altro, in fin dei conti, che la frustrazione di una società egemone verso l’indomabilità di popolazioni che non vogliono, nei suoi riguardi, né egemonia né subalternità». Fra le 136 ordinanze di espulsione di zingari emanate da parte di sindaci della Provincia di Verona, 80% citano motivi d’igiene per carenza di attrezzature sanitarie;38 in realtà si potrebbe invece ribattere che è la salute degli zingari a essere minacciata dai non-zingari italiani. A Cernusco sul Naviglio il sindaco Paolo Frigero ha offerto cinque milioni a un agricoltore perché inondasse di liquame un accampamento abusivo di zingari.39 Il concetto di cittadino si trova sempre più associato all’idea di pulizia, criterio utilizzato spesso dai servizi dello stato sociale nel secondo dopoguerra per valutare la legittimità dell’esercizio dei diritti, per esempio, di genitore. Nel suo libro del 1984 sull’Inghilterra thatcheriana, Beatrix Campbell osserva che per lo Stato il disoccupato doveva avere i mezzi per pulire se stesso, i propri vestiti e la propria casa. «Così i disoccupati possono vivere in un modo che assicura loro un trattamento cortese da parte di funzionari pubblici, dottori, insegnanti, padroni di casa e altri membri della comunità».40 Si desume quindi che i non puliti abbiano difficoltà ad accedere ai servizi forniti da queste persone. Si tratta dunque di una cultura del corpo ben definita. Sanità pubblica: la minaccia dai margini La pulizia in Europa, come ricorda Mary Douglas, non ha significato sempre e soltanto igiene. Se si guarda alla storia europea

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del secolo passato si può scoprire che le nostre nozioni di pulizia domestica legate alla cura del corpo, al lavarsi, all’igiene, alle cucine e ai bagni immacolati, all’acqua corrente in casa e alle fognature coperte, sono elementi recenti, introdotti in Inghilterra a metà dell’Ottocento e in Francia solo a fine secolo, legati alla vita urbana e a certi ceti sociali. Durante la seconda parte del XVI e del XVII secolo i bagni, diffusi in epoca medievale, scomparvero mentre la peste infuriava in Europa. L’azione dell’acqua veniva considerata pericolosa per la salute perché si riteneva che sciogliesse le ossa e i denti, esponendo il corpo alle malattie. La pulizia si otteneva fregandosi il viso a secco e ci si proteggeva dalle malattie (e dalle pulci) portando tessuti lisci e cambiandosi spesso la biancheria e il vestito. L’abitudine del bagno fu introdotta alla fine del Settecento in ambienti aristocratici e per tutto l’Ottocento molte persone, soprattutto in campagna, facevano un bagno completo solo alla nascita e alla morte. Un aspetto ordinato e pulito era segno di distinzione sociale.41 Nel XIX secolo, per un processo di rimozione di tutto ciò che riguardava il corpo e le sue secrezioni, la cura del corpo e la sessualità sono diventate attività nascoste, circondate dal pudore, sulle quali si è andato costruendo un discorso di controllo da parte dello Stato, in nome della salute pubblica e mediato da rituali medici. In questa attività di controllo si venne definendo la minore o maggiore pericolosità dei corpi della popolazione secondo la formalizzazione dei ruoli sociali e in corrispondenza alle secrezioni organiche. Queste erano vissute come minacce all’ordine sociale, per la loro potenzialità di attraversare i confini vigenti tra diverse categorie sociali, con il conseguente rischio di contiguità e fusione, fonti, di conseguenza, di impurità e sporcizia. Le secrezioni di alcuni corpi, in alcuni ambienti, erano considerate più pericolose di quelle di altri. Per la sanità pubblica europea, l’area di sovrapposizione fra corpi “a rischio” e corpi “pericolosi” è piuttosto estesa, creando una certa confusione fra intento di salvaguardia e processo di criminalizzazione. Questo processo è particolarmente evidente nelle politiche sanitarie coloniali. Il modello europeo del sistema sanitario pubblico, nelle sue varianti coloniali, ha conosciuto diverse fasi di sviluppo, ciascuna caratterizzata da definizioni diverse degli spazi protetti e dei confini fra loro, con costruzioni specifiche del corpo colonizzato. Nella

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storia dello sviluppo del sistema sanitario pubblico in Sud Africa, Butchart ha individuato nel 1812 una crescente volontà, da parte del governo, di creazione di maggiori spazi fra i corpi in modo da prevenire il contagio. Si temeva innanzitutto la contaminazione dei bianchi da parte degli africani e questa preoccupazione ha dato luogo all’apartheid come politica sanitaria.42 La politica coloniale britannica in molti paesi limitava l’accesso delle donne alle città e favoriva l’impiego di uomini come domestici. Il rovesciamento dei ruoli di genere abituali in Europa era necessario per evitare che nelle colonie la donna bianca venisse a trovarsi in una posizione ambigua, associata come l’africana ai lavori domestici, collegati alla sporcizia e pertanto di livello inferiore. La donna bianca rischiava di essere rappresentata simbolicamente come inferiore all’uomo africano. Per evitare equivoci le donne africane non erano ammesse alle case dei bianchi; la loro immagine era infatti collegata a una sessualità contaminante, simile a quanto in genere veniva attribuito alle donne dei ceti popolari europei. L’economia e “la natura” non possono dar ragione delle dinamiche di genere nel servizio domestico in Zambia, né nel passato né nel presente. Per spiegare la maggioranza numerica di uomini nel servizio domestico, dobbiamo tenere conto della rappresentazione delle donne africane come sessualmente scatenate e tentatrici nei confronti dei datori di lavoro maschi.43

Il corpo maschile nascosto e la svalutazione del corpo femminile In Europa fin dal Cinquecento si assisteva a una progressiva separazione fra lo spirito e il corpo, una contrapposizione che si rifletteva nell’idea, tipica dei sistemi di educazione a ispirazione religiosa, che fosse lo spirito a dover domare il corpo. Ciò che caratterizza l’Ottocento e il Novecento è l’idea che il corpo fisico sia una minaccia per il corpo sociale e che vada disciplinato dall’intervento medico. Nell’Ottocento questo portò a relegare quasi tutte le funzioni corporee in una sfera privata, in un dimenticatoio dove facilmente si generavano mostri. In un saggio affascinante sul progetto di epistemologia sul maschile, Monica Rudberg parla del mostro creato da Victor Frankenstein nel romanzo omonimo di Mary Shelley. Il

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romanzo rappresenta una prospettiva femminile sulla rimozione maschile del corpo (espressa poi dalla figlia di Mary Wollstonecraft, nota femminista inglese). Qual è lo scopo del progetto di epistemologia sul maschile? Quando guardiamo le metafore della scienza ai tempi di Shelley, e anche dopo, spesso troviamo riferimento a una donna. La Natura stessa è donna, prima madre, poi una donna che resiste e che si deve penetrare (vedi anche Merchant). Ma il mostro sembra significare piuttosto il rapporto fra Frankenstein e il proprio corpo, rapporto che è mediato dal corpo femminile in più modi.44

Spesso questo corpo ambiguo è associato a concetti di pulizia e sporcizia. Nelle rappresentazioni della contaminazione come peraltro quelle della sterilità, pulizia e sporcizia sono attribuite comunemente al corpo femminile, non a quello maschile. «Dovunque e sempre, la sterilità s’intende spontaneamente al femminile, il che significa che essa dice con insistenza qualcosa sul rapporto sociale tra sessi».45 Si potrebbe dire che i fluidi giusti sono quelli maschili mentre quelli pericolosi sono quelli femminili. Oggi, come nell’Ottocento, si controlla lo stato di salute della prostituta, sospettata di trasmettere malattie veneree mentre i clienti, il vero tramite fra le donne malate e quelle sane, sono considerati innocui per definizione. Come abbiamo detto, il rapporto sessuale è paradossale in una società che pone l’accento sulla separazione e la differenza fra i sessi. Se un tale rapporto rischia di contagiare l’uomo ne consegue che è sporca la donna. Ma le donne pericolose considerano che sia l’uomo la fonte del contagio.46 Paradossalmente le persone dalle quali la popolazione generale teme di essere contagiata – le prostitute, le zingare – sono sovente quelle più dedite alla pulizia, le prostitute al lavaggio del corpo e le zingare a quello di vestiti e utensili domestici. Le donne zingare inglesi descritte da Judith Okely consideravano sporche le non-zingare, per il fatto che queste non stessero attente alla separazione della sfera sessuale da quella domestica, per esempio non portando un grembiule mentre cucinavano, per proteggere le loro famiglie dal proprio corpo sessuato.47 Lo status ambiguo del corpo femminile si rileva da vari rituali di contaminazione odierni. In alcune pagine significative Barrie Thorne descrive i rituali di contaminazione fra bambini dai sei ai nove anni negli Stati Uniti d’og-

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gi, dove particolari individui o gruppi vengono trattati come contaminanti o portatori di microbi, naturalmente invisibili e misteriosi, spesso chiamati cooties (California), girl-stain (Michigan), girl touch (East Coast). Qualche volta l’accusa è di portare pidocchi che sono inclusi nella nozione di cooties (a Torino ho sentito accusare una donna etiope, in coda all’ufficio postale, di portare pidocchi. A scuola i pregiudizi dei bambini nei confronti di altri si traducono spesso in accuse di avere pidocchi). In America sia bambine che bambini possono essere definiti portatori di cooties ma accade più spesso alle femmine, specialmente a quelle stigmatizzate perché obese o povere. In una particolare scuola in California erano i bambini messicani (Chicano/Latino) che trasmettevano cooties. Quindi le ineguaglianze etniche, oltre a quelle di genere o di classe sociale, possono esprimersi attraverso i giochi di contaminazione. La categoria “bambine” era trattata, in quanto tale, come contaminante mentre quella dei bambini no. L’autrice ricorda come le nozioni di contaminazione femminile si trovano in molte culture, collegate alla mestruazione o alla sessualità riproduttiva, ma raramente fra bambini così giovani. Questa circostanza indica una precoce sessualizzazione delle bambine negli Stati Uniti, e l’intrusione nelle loro vite di temi di separazione e potere.48 L’isolamento di una bambina, o l’esperienza di separazione fra gruppi a causa della paura di contagio, provoca una forma di embodiment dell’esperienza di svalutazione del proprio corpo e della sessualità che incide sulla percezione di sé sia come individuo sia come donna. Ciò spiega la diffusione in Europa di sensi di inferiorità o di vergogna collegati alla percezione del proprio corpo come socialmente inaccettabile. Il fatto che la corporeità femminile possa fornire un pretesto per molestie sul lavoro oppure per la discriminazione contro chi fa figli non può che confermare l’associazione fra subordinazione e corporeità femminile. Colpisce il contrasto fra la situazione europea e quella delle donne camerunensi descritta da Shirley Ardener. Queste, rese forti dalla riunione in associazioni femminili, ritenevano che le “cose segrete delle donne” non dovessero essere denigrate. Titi okola, le parti sessuali di una donna, sono «belle e preziose», cantano le donne. Un uomo che insinuasse il contrario o rivolgesse qualsiasi parola di offesa a una donna era portato da tutto il gruppo femminile al capo perché subisse una punizione.49 Da

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noi, a giudicare dalla pubblicità che invita le donne e non gli uomini a lavarsi, a “purificarsi dentro”, a deodorarsi e ad abbellirsi, si potrebbe sostenere che sia invece istituzionalizzato l’insulto alle cose segrete delle donne. Il fascino indiscreto del lavoro domestico Parlando della prostituzione nell’Ottocento, Alain Corbin descrive l’intensificarsi delle immagini sessuali intorno alla donna del popolo «associata al puzzo dell’immondizia, ai rifiuti organici, alla malattia e alla morte».50 Particolarmente importante nell’Europa ottocentesca era il contrasto fra le “signore”, donne borghesi e aristocratiche, e le altre donne, serve (circa 1.300.000 in Inghilterra alla fine dell’Ottocento), operaie e donne impiegate in lavori di fatica, per esempio nelle miniere. Queste donne sembrano aver esercitato un’attrazione particolare sugli uomini del periodo vittoriano, tradotta, in termini corporei, in un rapporto di dominio. La relazione durata quarant’anni fra il poeta Arthur Munby e la domestica Hanna Cullwick, che più tardi diventò sua moglie, si alimentava del fascino anche sessuale che la donna forte, addetta alle pulizie e associata simbolicamente allo sporco, al nero, alla schiavitù e all’animalità, sembrava offrire agli uomini del suo tempo. Nei loro giochi intimi e messe in scena erano questi i temi proposti da Munby alla sua partner.51 La partecipazione soggettiva delle donne a questo mondo simbolico deve essere ancora esplorata. Quello che si può costatare è lo sforzo delle signore borghesi a farlo presente alle loro protette popolari. «Dalla metà dell’Ottocento», osserva Michela de Giorgio, «i manuali dedicati a fanciulle e signorine cominciano a costruire la giornata non più dalle preghiere ma dalle pratiche di pulizia».52 Sia per le cattoliche sia per le socialiste la pulizia era «simbolo di rettitudine morale, specchio del candore dell’anima, a cui ogni giovane buona e virtuosa doveva aspirare».53 La strategia del laico Asilo Mariuccia descritta da Annarita Buttafuoco era di riscattare le ragazzine dal rischio della promiscuità sessuale con lezioni di economia domestica. La casalinga imparava a improntare la cura del proprio corpo e della sua casa a salute, ordine e pulizia in un’ottica di servizio a marito e figli.54 Questi sviluppi sono importanti per la costruzione delle iden-

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tità di genere della nostra epoca e un chiaro esempio è riscontrabile nella descrizione fatta nel 1984 da Beatrix Campbell delle comunità di minatori nel Nord dell’Inghilterra. La donna in quel contesto ha acquisito valore rendendo servizi di pulizia indispensabili all’uomo, che nel rituale di farsi lavare il corpo e i vestiti dalla moglie si compensava della propria subordinazione al duro lavoro in miniera. Il corpo del minatore era ritenuto il corpo maschile per eccellenza, muscoloso, nero di fuliggine, stremato dal lavoro fisico, e nello stesso tempo dipendente e protagonista orgoglioso delle cure intensive delle donne. Non di rado gli stessi muscoli erano rivolti contro moglie e figlie. Solo nel 1984, racconta Campbell, i minatori avevano da pochi anni ottenuto che fossero installate le docce all’uscita della miniera, cosa che sarebbe stata realizzabile anche decenni prima, ma che avrebbe reso superfluo un rituale che strutturava non solo i rapporti di coppia bensì anche le rispettive identità di genere e tutta la vita sociale dei villaggi.55 Il rituale del bagno del minatore interveniva nelle relazioni fra i sessi in modo strategico, riuscendo a modificare l’identificazione di donna popolare con la sporcizia e il disordine sessuale, pur rimanendo entro uno schema che individua il genere femminile come inferiore. Conclusioni Le donne del Centro Interculturale delle Donne Alma Mater devono affrontare in molti modi gli ostacoli allo scambio di parole e amicizia fra di loro, ma hanno intuito quanto la questione della pulizia sia un ambito cruciale per i rapporti fra donne native e migranti. Nel simbolismo della pulizia e della sporcizia, come si è visto, sono riassunti riferimenti alla gerarchia sociale, ai rapporti fra popoli colonizzati e colonizzatori, e a quelli fra ceti sociali e fra i generi, allo stato-nazione e alla cittadinanza, alla sessualità e alla facoltà generatrice e rigeneratrice delle donne. Nelle pratiche di pulizia si individuano alcune funzioni del rituale rilevate da Laura Stark-Arola per la Finlandia rurale: «Il rituale socializza le persone/corpi in schemi di gerarchia e potere, dando loro padronanza di una data situazione, problema o contraddizione, ma nello stesso tempo le subordina a uno schema gerarchico più vasto».56

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La pulizia è un simbolo dominante della società europea e dei nostri tempi, secondo i termini posti da Victor Turner. Nel Novecento la pulizia veniva spesso da noi associata all’igiene e addirittura alla salute, come conseguenza della medicalizzazione che ha segnato la storia del corpo, sempre più sottoposto al controllo pubblico. Ciò nonostante il termine “pulito”, nel senso comune e in molte lingue europee, si usa spesso non solo per giudicare il corpo dell’altro e, per associazione, i suoi vestiti e la sua casa; ma si estende anche al suo comportamento sessuale e al modo di tenere gli affari. In Italia l’ambiente urbano condiviso da tutti è spesso visto, al contrario, come vuoto di relazioni sociali significative; diventa marginale, terra di nessuno dove si accumula appunto la “sporcizia”, lasciata spesso all’incuria oppure alla gestione pubblica, confine fra i “luoghi protetti” della casa-famiglia e del quartiere-vicinato. I termini “sano” e “pulito” vengono spesso associati qualora si vogliano giudicare i comportamenti dei giovani. Se i maschi sono considerati puliti vuol dire che non si drogano e se ciò è attribuito alle femmine sta a denotare che non sono troppo generose di favori sessuali, che non frequentano il margine, l’ambito extra-familiare. La pulizia e la sporcizia rivestono caratteristiche di polisemia; l’aspetto “tecnico” associato con le idee europee di igiene nate nell’Ottocento non prescinde da dimensioni simboliche, che ne connotano il livello estetico o rituale. La sfera religiosa, invece, dà luogo a stati di purezza o impurità, che possono derivare anche da un contatto inconsapevole, o dalla conduzione normale della vita quotidiana. All’impurità segue il rimedio rituale, non la condanna morale. Si potrebbe pensare che la distinzione fra pratiche igieniche e pratiche di purificazione rituale sia più netta in quelle società in cui esistono bagni pubblici e nelle quali la pratica di pulizia del corpo sia stata storicamente più comune che fra noi. Ma non è così, anche perché ciò che succede al corpo fisico produce il “corpo sociale”, che induce a muoverci all’interno di certi schemi strutturali di gerarchia e potere, come abbiamo visto nel caso marocchino e in quello finlandese. Non sempre il riferimento al maschile e al femminile si riferisce ai rapporti reali fra uomini e donne. Più spesso la disparità fra maschile e femminile diviene metafora della gerarchia sociale in senso lato. In Italia, gli immigrati maschi sono stati rappresentati come una minaccia all’igiene pubblica e come portatori di malattie contagiose,

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come non “sani”, nel senso di implicati nel traffico della droga, mentre le donne sono state considerate non “pulite”, ovvero sessualmente sregolate. Al fine di rifiutare gli stereotipi circolanti nel senso comune e lo sfruttamento razzista nei confronti di persone provenienti da altri paesi, dobbiamo di conseguenza conoscere gli aspetti “corporei” dei nostri reciproci atteggiamenti.

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Note 1. M. Douglas, Purity and Danger: An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo, London, 1966 (tr. it. Bologna, 1975). 2. M. Lambek, A. Strathern (a cura di), Bodies and Persons. Comparative Perspectives from Africa and Melanesia, Cambridge, 1998, p. 5. 3. Cfr. L. Davidoff, Classe e genere nell’Inghilterra vittoriana: i diari di Arthur Munby e di Hannah Cullwick, in P. Di Cori (a cura di), Altre storie. La critica femminista alla storia, Bologna, 1996, p. 106. 4. Douglas, Purity and Danger, p. 48. 5. Ibidem. 6. M. Douglas, Simboli naturali. Sistema cosmologico e struttura sociale, Torino, 1979, (ed. or. 1970), p. 99. 7. Ivi, p. 107. 8. Ivi, p. 136. 9. P. Bourdieu, Outline of a Theory of Practice, Cambridge, 1977, p. 124. 10. T. J. Csordas, Words from the Holy people: a Case Study in Cultural Phenomenology, in T. Csordas (a cura di), Embodiment and Experience: the Existential Ground of Culture and Self, Berkeley, 1994, pp. 269-290. Idem, The Sacred Self: a Cultural Phenomenology of Charismatic Healing, Berkeley, 1994, pp. 1-15. 11. Cfr. C. Bell, Ritual Theory, Ritual Practice, Oxford, 1992; Eadem, Ritual: Perspectives and Dimensions, Oxford, 1997. Si veda anche P. Bourdieu, Outline of a Theory of Practice; M. Douglas, Purity and Danger; Eadem, Simboli naturali; M. Foucault, The History of Sexuality. Vol I: an Introduction, New York, 1980. 12. Cfr. M. Strathern, The Gender of the Gift, Berkeley, 1988. 13. J. Boddy, Afterword: embodying ethnography, in Lambek, Strathern (a cura di), Bodies and persons, p. 255. 14. Cfr. O. Patterson, The Slave Body: Authority, Alienation and Social Death, in J.B. Elshtain, T. Cloyd (a cura di), Politics and the Human Body, Nashville, 1995, pp. 258-315. 15. Cfr. E. Leach, Cultura e comunicazione. La logica della connessione simbolica, Milano, 1981, p. 87. 16. Ciò costituisce il “buco nero” del lavoro domestico. Termine usato da Antonella Picchio (Social Reproduction, Cambridge, 1993) nel gruppo di ricerca Murst 40% “Genere e sviluppo”, 1992-1996. 17. Cfr. Y. Verdier, Façons de dire, façons de faire. La laveuse, la couturière, la cuisinière, Paris, 1979, pp. 85-156. 18. Cfr. L. Stark-Arola, Magic, Body and Social Order, The Construction of Gender Through Women’s Private Rituals in Traditional Finland, Helsinki, 1998, pp. 276-284. 19. V. Turner, La foresta dei simboli, Brescia, 1976, p. 190. 20. A. Destro, La donna niddah: ordine del corpo e ordine del mondo giudaico, in A. Destro (a cura di), Le politiche del corpo. Prospettive antropologiche e storiche, Bologna, 1994, p. 117. 21. Ivi, p. 180. 22. Douglas, Purity and Danger, p. 40.

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23. M. Buitelaar, Fasting and feasting in Morocco. Women’s Participation in Ramadan, Oxford, 1993, p. 102 (parafrasi). 24. Cfr. A. Tritton, Tahara, in First Encyclopedia of Islam, Leiden, 1987, vol. VII, p. 609. 25. Cfr. L. Peets, Women of Marrakech. Record of a Secret Sharer 1930-70, Durham, North Carolina, 1988. 26. Cfr. M. Buitelaar, Public Baths as Private Places, in K. Ask, M. Tjomsland (a cura di), Women and Islamization: Contemporary Dimensions of Discourse, Oxford, 1998, pp. 103-123. Si veda anche N. Abu-Zahra, The Pure and the Powerful. Studies in Contemporary Muslim Society, Reading, 1997. 27. V. Maher, appunti di ricerca sul campo. 28. Cfr. F. Mernissi, La terrazza proibita: vita nel harem, Roma, 1994, p. 91, n. 19; J. Waterbury, The Commander of the Faithful: the Moroccan Political Elite, a Study of Segmented Politics, London, 1970, p. 11. 29. Cfr. G. L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Milano, 1997, pp. 25-216 (1a ed. 1964). 30. N. Malcolm, Bosnia. A Short History, London, 1994, pp. 178-179. 31. T. Wobbe, The Boundaries of Community: Gender Relations and Racial Violence, in H. Lutz, A. Phoenix, N. Yuval-Davis, Crossfires. Nationalism, Racism and Gender in Europe, London, 1995, p. 99. 32. «Le Monde», 2 Agosto 1994. 33. Cfr. J. Ringelheim, Postscript: Women and the Holocaust: A Reconsideration of Research, in C. Rittner, J.K. Roth, (a cura di), Different Voices. Women and the Holocaust, New York, 1992. 34. Wobbe, The Boundaries of community. 35. Cfr. G. Lindemann, The Body of Gender Difference, in K. Davis (a cura di), Embodied Practices. Feminist Perspectives on the Body, London, 2000, pp. 73-77. 36. Cfr. J. Edwards, L. McKie, Women’s Public Toilets: a Serious Issue for the Body Politic, in Davis, Embodied Practices, pp. 135-150. 37. A. Butchart, The Anatomy of Power. European Constructions of the African Body, London, 1998, p. 130. 38. L. Piasere, “L’unica cosa umana” degli zingari. Lo schifo nelle relazioni interetniche, in «Problemi del Socialismo», 2 (maggio-agosto1989), p. 127. 39. Cfr. «La Repubblica», 24 novembre 2000. 40. B. Campbell, Wigan Pier Revisited. Poverty and Politics in the 80s, London, 1984, p. 11. 41. Cfr. R.-H. Guerrand, Spazi privati, in P. Aries, G. Duby (a cura di), La vita privata. L’ottocento, Trento, 1994, p. 266. Si veda anche G. Vigarello, Lo sporco e il pulito. L’igiene del corpo dal medioevo a oggi, Venezia, Marsilio 1987 (ed. or. 1985). L’autore mette in luce diversi imagini del corpo, del concetto del pulito e del rapporto non necessario di quest’ultimo con l’acqua. 42. Cfr. Butchart, The Anatomy of Power, p. 152. 43. K. Tranberg Hansen, Household work as a man’s job: Sex and Gender in domestic service in Zambia, in «Anthropology Today», 1990, p. 22. 44. M. Rudberg, The Researching Body: the Epistemophilic Project, in Davis (a cura di), Embodied Practices, pp. 182-201.

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45. F. Heritier, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Bari, 1997, p. 60. 46. Rina Costantino, comunicazione personale. Rina Costantino mette in luce il cambiamento che il femminismo ha introdotto nel concetto di pulizia in relazione alla sessualità. Dove nel Medioevo e più recentemente nella morale cattolica il peccato era il desiderio della donna, le prostitute erano “pulite” perché “non sentivano” (affermazione sovente fatta da alcune prostitute italiane che definiscono “lavoro” la loro attività). Nel femminismo è “pulita” la sessualità della donna desiderante, che non finge, mentre la prostituzione costituisce un rapporto alienato e quindi “sporco”. 47. Cfr. J. Okely, Gypsy Women: Models in Conflict, in S. Ardener (a cura di), Perceiving Women, London, 1975, pp. 55-86. 48. Cfr. B. Thorne, Gender Play. Girls and Boys in School, Buckingham, 1993, pp. 73-76. 49. Cfr. S. Ardener, Sexual Insult and Female Militancy, in Ardener, Perceiving Women, pp. 29-54. 50. A. Corbin, Dietro le quinte, in P. Aries, G. Duby, La vita privata, p. 429. 51. Cfr. Davidoff, Classe e genere nell’Inghilterra vittoriana, p. 142. 52. M. De Giorgio, Le italiane dall’Unità ad oggi, Bari, 1992, p. 169. 53. M. Bellocchio, Aghi e cuori. Sartine e patronesse nella Torino d’inizio secolo, Torino, 2000, p. 54. 54. Cfr. A. Buttafuoco, Le Mariuccine. Storia di un’istituzione laica. L’Asilo Mariuccia, 1902-1933, Milano, 1985. 55. Cfr. Campbell, Wigan Pier Revisited, pp. 97-115. 56. Stark-Arola, Magic, Body and the Social Order, p. 34.

Profili delle autrici e degli autori

Luisa Accati insegna Storia moderna all’Università di Trieste. Ha acquisito la propria formazione antropologica presso l’École des Hautes Études e il Laboratoire d’Anthropologie del Collège de France. Si è occupata di ribellismo agrario in età moderna e di antropologia delle società contadine. Confronta modelli normativi e culturali e rapporti interfamiliari. Fra i suoi lavori un romanzo, Il matrimonio di Raffaele Albanese, Milano, 1994, e un saggio, Il mostro e la bella. Padre e madre nell’educazione cattolica dei sentimenti, Milano, 1998. Georgia Arrivo ha conseguito il dottorato di ricerca in storia moderna a Torino con uno studio di prossima pubblicazione sui processi per stupro nella Toscana del Settecento, dal titolo Il sesso in tribunale. Sull’infanzia abbandonata ha pubblicato Legami di sangue, legami di diritto (Pisa secc. XVI-XVII), in «Ricerche storiche», 27 (1997). Marzia Bambozzi ha conseguito il dottorato di ricerca in filologia classica a Padova. Si è occupata di teatro greco, in particolare della tragedia euripidea e della sua ricezione tardo-antica e moderna, nella cultura mitteleuropea. Ha pubblicato vari saggi e tradotto di Franz Werfel testi inediti, e le riscritture drammatiche a partire da Euripide. Silvana Bartoli insegna Lettere nelle scuole medie. Studia il monachesimo femminile nel Seicento. Tra i suoi saggi, oltre agli studi apparsi su «Novarien», La Maddalena di Novara. Un convento e una città, Palermo, 1995; le Spose Apostoline del Sacro Cuore, in Dizionario degli Istituti di perfezione, IX, Roma, 1997; ha curato inoltre I luoghi della memoria. Per una storia delle donne di Novara, Novara, 1998. Anna Bellavitis ha insegnato nelle Università di Tours e di Lione; attualmente è Maître de conférences di storia moderna all’Università di Paris 10-Nanterre. Si occupa di storia sociale della Repubblica Veneta e di Venezia in epoca moderna. Tra le sue pubblicazioni, Noale. Struttura sociale e regime fondiario di una podesteria nella prima metà del secolo XVI, Treviso, 1994; Identité, mariage, mobilité sociale. Citoyennes et citoyens à Venise au XVIe siècle, Roma, 2001. Lucia Beltrami è ricercatrice di Letteratura latina presso l’Università di Siena, e collabora al Centro interdipartimentale di studi antropologici sulla cultura antica. Si è occupata della normativa sul comportamento della donna «per bene», di ruoli

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Profili delle autrici e degli autori

parentali femminili e di miti romani, di tematiche relative alla nozione di stirpe. Ha pubblicato Il sangue degli antenati. Stirpe, adulterio e figli senza padre nella cultura romana, Bari, 1998. Emmanuel Betta ha conseguito il dottorato di ricerca in storia moderna presso l’Istituto Universitario Europeo. Si occupa di disciplinamento del corpo e della sessualità nella cultura ottocentesca. Tra le sue pubblicazioni, Anime salve e feti abortivi. L’Irlanda ottocentesca terreno di missione, in «Quaderni Storici», 105, 3 (2000); Per una medicina neotomista: «la scienza italiana», (1876-1889) , in «Roma moderna e contemporanea», XII/3 (1999). Alessia Bonadeo sta conducendo un dottorato di ricerca a Padova in filologia classica. Studia i rapporti tra scienza e letteratura nel mondo greco e romano; in particolare le teorie scientifiche, le implicazioni antropologiche e i risvolti mitologici di fenomeni fisici quali l’arcobaleno e l’eco. Su questi t emi ha in corso di stampa alcune pubblicazioni. Anna Bravo ha insegnato fino ad epoca recente Storia sociale all’Università di Torino. Attualmente vive e lavora a Torino. Si occupa di storia delle donne, di guerra, di resistenza armata e non armata, di deportazione e genocidio. Tra le sue pubblicazioni, In guerra senza armi. Storie di donne 1940-45, (con A.M. Bruzzone), Roma-Bari, 2000 (1ª ed. 1995); La resistenza civile, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (a cura di), Dizionario della resistenza, I, Storia e geografia della Liberazione, Torino, 2000; Social Perception of the Shoah in Italy, in B. D. Cooperman e B. Garvin (a cura di), The Jews of Italy: Memory and Identity, Bethesda, 2000; La nuova Italia. Madri fra oppressione e emancipazione, in A. Bravo, M. Pelaja, A. Pescarolo, L. Scaraffia, Storia sociale delle donne in Italia, Bari-Roma, 2001. Enrica Capussotti è ricercatrice presso il Gender Program dell’Istituto Universitario Europeo, dove ha conseguito il dottorato di ricerca con un lavoro sulla costruzione discorsiva della gioventù, il cinema e la cultura di massa nell’Italia degli anni Cinquanta. Attualmente si occupa delle rappresentazioni culturali e della soggettività delle donne migranti nei processi migratori dell’età contemporanea. Ha inoltre pubblicato saggi sull’editoria elettronica e le nuove tecnologie comunicative. Alessandra Contini è diplomata in demografia storica presso l’École des Hautes Études; è archivista presso l’Archivio di Stato di Firenze, Direttore coordinatore, responsabile degli Archivi lorenesi e degli Archivi della scrittura delle donne. È vicepresidente dell’Associazione per la scrittura e la memoria delle donne in Toscana. Autrice di numerosi saggi di storia politica e sociale, ha organizzato per l’Archivio di Stato di Firenze vari convegni internazionali. Nadia Maria Filippini ha conseguito il dottorato di ricerca in storia presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales. Insegna Storia delle donne al-

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l’Università di Venezia. Si è occupata di storia del lavoro femminile e di storia della nascita. Tra le sue pubblicazioni La nascita «straordinaria». Trasformazioni culturali e sociali nella pratica del taglio cesareo (XVIII-XIX secolo), Milano, 1995; Il cittadino non nato e il corpo della madre, in M. D’Amelia (a cura di), Storia della maternità, Roma-Bari, 1997; Sous le voile: parturientes et utilisation des hospices de maternité en Italie (l’exemple de Turin XIX e siècle), in «Revue d’Histoire moderne et contemporaine», 49/1, 2002. Con T. Plebani ha curato La scoperta dell’infanzia. Cura, educazione e rappresentazione (Venezia 17501930), Venezia, 1999. Anna Maria Gentili insegna Storia e Istituzioni dei paesi dei paesi afroasiatici presso l’Università di Bologna e di Forlì, ed è Presidente del corso di laurea triennale in Sviluppo e cooperazione internazionale. Ha insegnato all’Università di Ife (Nigeria), di Dar es Salaam (Tanzania), presso il Centro de Estudios Africanos dell’Università di Maputo (Mozambico). Si occupa dei sistemi politici contemporanei in Africa, con riferimento ai conflitti, alle politiche di sviluppo, alle riforme fondiarie. Presiede il direttivo del Centro Amilcare Cabral del Comune di Bologna. Tra le pubblicazioni, Élites e regimi politici in Africa occidentale, Bologna, 1974; Il Leone e il Cacciatore. Storia dell’Africa subsahariana, Roma, 1995. Marina Graziosi ha conseguito il dottorato di ricerca in sociologia del diritto. Si occupa di storia della criminalità femminile e della costruzione giuridica del genere, e svolge attività di ricerca presso l’Università La Sapienza di Roma. Tra le sue pubblicazioni, Quotidianità femminile e piccola criminalità. Ipotesi per una ricerca, in «Dei delitti e delle pene», 1 (1983); Infirmitas sexus. La donna nell’immaginario penalistico, in «Democrazia e Diritto», 2 (1993); Le rivolte dei detenuti nel biennio ’68-’69 , in «Parolechiave», 18 (1998); Donne, mafia, garanzie, in «Parolechiave», 19 (1999). Vanessa Maher insegna Antropologia culturale all’Università di Verona. Da alcuni anni si occupa di tematiche inerenti l’immigrazione, e collabora con associazioni di donne native e migranti. Ha pubblicato numerosi saggi in Italia e all’estero, tra cui Women and Property in Morocco, London, 1974; ha curato Il latte materno: condizionamnenti culturali di un comportamento, Torino, 1997; è coautrice di Uguali e diversi: il mondo culturale, le reti di rapporti, i lavori degli immigrati non europei a Torino, Torino, 1991. Ha curato Donne e giovani a Torino. Saggi di antropologia urbana, Torino, 2000; Cucire e vestire. Riflessioni antropologiche, Milano, 2002. Dominique Memmi è Direttore di ricerca al Centre National de la Recherche Scientifique in Francia (CNRS). Si occupa della regolamentazione pubblica e politica del corpo, e della biopolitica contemporanea. Tra le sue pubblicazioni, Les gardiens du corps. Dix ans de magistère bioéthique, Paris, 1996; La nouvelle administration étatique des corps, in «Revue Française de Science Politique», 1 (2000); Faire parler; une nouvelle façon d’administrer les corps? L’exe mple de

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l’avortement, in «Justice», 3, 2001; Sonder les ames ou radiographier les corps? La régulation sociale du désir d’enfant, in M. Iacub e P. Jouannet (a cura di), Juger la vie, Paris, 2001. Michelle Perrot è Professore emerito dell’Università di Paris-7-Denis Diderot. Insignita della laurea honoris causa in diverse università europee, ha conseguito per la sua attività di ricerca il titolo di Chevalier de la Légion d’Honneur. Tra i suoi temi di studio, il lavoro e il mondo operaio, la delinquenza e il sistema penitenziario, la storia della vita privata e la storia delle donne. Alcuni titoli: Les ouvriers en grève: France, 19e siècle, Paris, 1974; Les ombres de l’histoire. Crime et châtiment au 19e siècle, Paris, 2001; il IV volume della Storia della vita privata. Dalla Rivoluzione alla Grande Guerra da lei curato, sotto la direzione di Ph. Ariès e G. Duby; la Storia delle donne in Occidente (5 voll.) da lei diretta con G. Duby. Tra i lavori più recenti, Les femmes ou le silence de l’histoire, Paris, 1998. Tiziana Plebani è bibliotecaria responsabile del settore conservazione e restauro presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, e insegna Conservazione dei Beni culturali e documentari all’Università di Venezia. Si occupa di storia del libro, in particolare delle pratiche di lettura e scrittura. Ha curato L’Almanacco delle donne, Venezia, 1991, e con N.M. Filippini, La scoperta dell’infanzia, Venezia, 1999. Tra le sue pubblicazioni, Il «genere» dei libri. Storie e rappresentazioni della lettura al femminile e al maschile tra Medioevo ed Età moderna, Milano, 2001; Vite di donne nei libri di famiglia veneziani, in «MEFRIM», 113/1 (2001). Gianna Pomata ha insegnato nel Department of History dell’ Università del Minnesota (Minneapolis); è stata Jean Monnet Fellow presso l’Istituto Universitario Europeo, Visiting Scholar al Max-Planck-Institut di Berlino, Visiting Professor all’École des Hautes Études en Sciences Sociales. Insegna Storia moderna all’Università di Bologna. Si è occupata di storia sociale e culturale della medicina in età moderna, di storia delle donne e di storia della storiografia. Tra le sue pubblicazioni, La promessa di guarigione: malati e curatori in antico regime. Bologna, secoli XVI-XVIII, Roma-Bari, 1994 (tr. ingl. 1998); Ha curato di recente con L. Daston, The Face of Nature in Enlightenment Europe, Berlin, 2002, e con S. Cerutti Fatti. Storie dell’evidenza empirica, in «Quaderni Storici», 108/3 (2001). Giampiera Raina è ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Pavia, dove insegna Grammatica greca e latina. Si è occupata di teatro antico, di problematiche inerenti alla Seconda Sofistica, alla definizione del colore nel mondo classico, e alla fisiognomica. È autrice di numerose pubblicazioni, e dell’unica traduzione italiana dei trattati di fisiognomica dello Pseudo-Aristotele e dell’Anonimo Latino.

Profili delle autrici e degli autori

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Anna Scattigno è ricercatrice all’Università di Firenze. Insegna Cristianesimo e Storia di genere. Si occupa di storia religiosa e di storia delle donne. Con M. Palazzi ha curato Discutendo di storia. Soggettività, ricerca, biografia, Torino, 1990; è autrice con S. Salvatici di In una stagione diversa. Le donne in Palazzo Vecchio (1946-1970), Firenze, 1998; tra i saggi recenti di storia religiosa, Profili di regine nella storiografia della Controriforma: gli Annali Ecclesiastici di Odorico Rinaldi, in «MEFRIM», 113/1 (2001); Caterina da Siena, modello civile e religioso nell’Italia del Risorgimento, in A.M. Banti e R. Bizzochi (a cura di), Immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, Roma, 2002. Londa Schiebinger insegna Storia della scienza presso l’Università di Stato della Pennsylvania. Ha vinto il premio alla ricerca Alexander von Humboldt. Si occupa secondo una prospettiva di genere dei viaggi di scoperta scientifica, della scienza coloniale del XVIII secolo, di botanica medica. Tra le sue pubblicazioni, The Mind has no Sex? Women in the Origin of Modern Science, Harvard, 1989; Nature’s Body: Gender in the Making of Modern Science, Boston, 1993; è curatrice di Feminism and the Body, Oxford, 2000; e di Feminism in the Twentieth-Century Science, Technology and Medicine, Chicago, 2001 (con A. Creager e E. Lunbeck). Regina Schulte insegna Storia moderna all’Università di Bochum e dal 1998 all’Istituto Universitario Europeo. Si occupa di storia sociale e culturale dal XVII al XX secolo. Attualmente lavora attorno ai ruoli di genere nelle corti delle monarchie europee («L’immagine e il corpo della regina»). Tra l e sue pubblicazioni, Sperrbezirke. Tugendhaftigkeit und Prostitution in der bürgerlicher Welt, Hamburg, 1994 (1ª ed. 1979); Das Dorf im Verhör. Brandstifter, Kindsmörderinnen und Wilderer vor den Schranken des bürgerlichen Gerichts Oberbayern 1848-1910, Hamburg, 1989 (tr.ingl. 1994); Die verkehrte Welt des Krieges. Studien zu Religion, Geschlecht und Tod, Frankfurt am Main, 1998. Ha curato Der Korper der Königin. Geschlecht und Herrschaft in der höfischen Welt, Frankfurt am Main/New York, 2002. Massimo Stella ha conseguito il dottorato di ricerca in filologia classica a Padova ed è attualmente titolare di un assegno di ricerca presso il Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Pavia. Si occupa di Platone e della ricezione novecentesca del pensiero platonico. Si interessa altresì alle forme archetipologiche del politico nel teatro antico e moderno (Shakespeare e Marlowe). Ha in corso di pubblicazione un volume sul romanzo di Socrate nei Dialoghi platonici. Martina Treu ha conseguito il dottorato di ricerca in filologia classica a Padova. È cultrice di Storia del teatro greco e latino presso l’Università di Pavia, e insegna Elementi di storia della drammaturgia antica e classica all’Università di Venezia. Ha collaborato con Teatridithalia alla drammaturgia dell’Orestiade di EschiloPasolini. Ha partecipato a convegni internazionali, curato pubblicazioni e svolto

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Profili delle autrici e degli autori

compiti di segreteria scientifica per l’Olimpico di Vicenza, l’ Inda di Siracusa, l’Eliseo di Roma, il Piccolo di Milano, il Théatre des italiens di Parigi. Ha pubblicato studi su Aristofane (Undici cori comici) e sui maggiori tragici greci. Milka Ventura Avanzinelli ha conseguito il dottorato di ricerca in ebraistica a Torino. Insegna Storia delle religioni all’Università di Firenze. Si occupa di studi biblici e di ermeneutica ebraica, con particolare riferimento alle tematiche femminili. Ha curato con M. Ranchetti la nuova edizione della Bibbia di Giovanni Diodati, Milano, 1999. È autrice di vari saggi su figure bibliche e su altri temi di esegesi.