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Italian Pages 112 Year 2019
CONVERSAZIONI CON
Angelo S. Angeloni
CONVERSAZIONI CON LE RELIGIONI ABRAMITICHE
ARMANDO EDITORE
ISBN: 978-88-XXXX-XXX-X Tutti i diritti riservati – All rights reserved Copyright © 2019 Armando Armando s.r.l. Via Leon Pancaldo 26, Roma. www.armandoeditore.it [email protected] – 06/5894525
Sommario
Introduzione
9
Capitolo primo
Incontro con L’ Ebraismo. Conversazione con Riccardo Shmuel Di Segni (Rabbino capo della Comunità ebraica di Roma)
33
Capitolo secondo
Incontro con il Cristianesimo. Conversazione con mons. Vincenzo Paglia (Presidente della “Pontificia Accademia per la Vita”) Capitolo terzo Incontro con L’Islam. Conversazione con Salah Ramadan (Imam della Grande Moschea di Roma)
75
91
Appendice Israele e Islam. Conversazione con Pietro Citati
89
Conclusione
95
Note
99
Postfazione
103
Zeus, quale mai sia il tuo nome, se con questo ti piace esser chiamato, con questo io ti invoco. (Eschilo, Agamennone; trad. di M. Valgimigli). [Il Signore] condusse fuori [Abramo] e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”. E soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”. (Genesi, 15, 5). Omnia… quaecumque vultis ut faciant vobis homines, ita et vos facite eis. Haec enim est Lex et Prophetae. [Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Questa, infatti, è la Legge e i Profeti]. (Mt, 7, 12). Se il tuo Signore volesse, tutti coloro che sono sulla terra crederebbero. Sta a te costringerli ad essere credenti? (Corano, 10, 99). Se un uomo è privo di umanità, a che gli servono i riti? Se un uomo è privo di umanità, a che gli serve la musica? (Confucio).
Introduzione
«Discutete con la gente del Libro solo nel modo migliore – fuorché con i colpevoli – e dite: “Crediamo in quel che è stato rivelato a noi ed è stato rivelato a voi, il nostro Dio e il vostro Dio sono un solo Dio, noi tutti siamo sottomessi a Lui”»1. Nella novella terza della prima giornata del Decameron di Giovanni Boccaccio [“Melchisedech giudeo con una novella di tre anella cessa un gran pericolo dal Saladino apparecchiatogli”], Filomena (la narratrice di turno) racconta che il Saladino2, per cogliere in fallo Melchisedech, gli pone questa domanda: quali delle tre leggi egli reputasse quella vera: «la giudaica, la saracina o la cristiana»? In risposta, il giudeo gli racconta la novella dei tre anelli. Un uomo ricco possedeva, tra le altre ricchezze, un anello «bellissimo e prezioso». Colui che lo avesse ricevuto, «s’intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti gli altri esser come maggiore onorato e riverito». E così di mano in mano, finché giunse in quelle di uno che aveva tre figli, che «tutti e tre parimente gli amava». Tutti e tre 9
desideravano l’anello. Il padre, non sapendo a chi lasciarlo, ne fece fare tre uguali. Dopo la sua morte, ognuno dei figli tirò fuori il proprio anello, ciascuno credendo di essere lui il maggiore. «E trovatisi gli anelli sì simili l’uno all’altro, che qual fosse il vero non si sapea cognoscere, si rimase la quistione, qual fosse il vero erede del padre, in pendente: e ancor pende. E così vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle quali la quistion proponeste: ciascun la sua eredità, la sua vera legge e i suoi comandamenti dirittamente si crede avere e fare, ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancor ne pende la quistione». Non si tratta, quindi, di “riconoscere” il vero anello (la vera legge): i tre figli non possono farlo, ma possono (devono) seguire la volontà del padre. D’altronde, leggiamo due brani significativi al riguardo: uno del Corano, l’altro biblico. «La notte in cui Dio gli fece dono della missione profetica e si mostrò in questo modo misericordioso con i suoi servi, Gabriele venne da lui, secondo il volere divino. Mentre il profeta dormiva, l’angelo gli si presentò con indosso una veste di broccato, e uno scritto fra le mani. Gli disse: “Leggi!” – “Non so leggere”, rispose Muhammad. Gabriele lo strinse con forza, fin quasi a soffocarlo, e farlo sentire in punto di morte. Poi lo lasciò, e disse ancora: “Leggi!” – “E cosa devo leggere?”, rispose Muhammad, ma lo fece solo per liberarsi di lui, nel timore che potesse fare di nuovo quello che aveva fatto prima. Disse Gabriele: “Leggi, in nome del tuo Signore che ha creato, ha 10
creato l’uomo da un grumo di sangue! Leggi! Ché il tuo Signore è il Generosissimo, Colui che ha insegnato l’uso del calamo, ha insegnato all’uomo ciò che non sapeva”. Muhammad recitò quelle frasi, l’angelo lo lasciò e se ne andò via. Il Profeta si levò dal sonno, e fu come se quelle parole fossero scritte e incise nel suo cuore»3. Le parole di Gabriele, sono ritenute quasi unanimemente le prime parole rivelate, secondo la tradizione, a Maometto. Esse sono i primi cinque versetti della “Sura 96”: «La Sura del grumo di sangue». Questa Sura, spiega bene il concetto “trascendente” di “fratellanza”, che è la base del recente Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune4. In essa, infatti, si legge che Dio è «il Creatore»: «il tuo Signore che ha creato». Essendo la creazione opera sua, Egli è «il Generosissimo». «L’etica religiosa islamica è per così dire tracciata in questi versetti»5. L’altro brano è del profeta Ezechiele. [Il Signore] mi disse: “Figlio dell’uomo, mangia ciò che ti sta davanti, mangia questo rotolo, poi va e parla alla casa d’Israele”. Io aprii la bocca, ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: “Figlio dell’uomo, nutri il tuo ventre, e riempi le tue viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai: fu per la mia bocca dolce come il miele. Poi egli mi disse: “Figlio dell’uomo, va’, recati alla casa d’Israele, e riferisci le mie parole6. 11
È l’inizio della vocazione profetica di Ezechiele, identica a quella di Geremia7, o di Giovanni8. Tutte e tre le religioni, dunque, hanno fatto del “Libro” la loro «patria»9. I loro Libri (Corano, Tôrâh e Vangelo) sono «tre aspetti diversi della medesima parola divina, rivelata in epoche successive a tre diversi popoli»10. In una “Sura” del Corano, leggiamo: «Noi abbiamo “rivelato” la Tôrâh, che contiene guida e luce, e con la quale hanno giudicato i profeti degli ebrei che erano sottomessi a Dio, e i maestri e i dottori con il libro di Dio, del quale era stata affidata la loro custodia, del quale erano testimoni […]. In seguito, a loro abbiamo inviato Gesù, figlio di Maria, a conferma della Tôrâh rivelata prima di lui, e gli abbiamo dato il Vangelo, pieno di guida e di luce, a conferma della Tôrâh rivelata prima di lui, guida e monito per chi ha timore di Dio. La gente del Vangelo giudica secondo quel che Dio ha lì rivelato […]. E a te abbiamo “rivelato” il libro in tutta verità, a conferma delle scritture “rivelate” prima, e loro protezione»11. *** Il versetto del Corano citato in apertura di questa introduzione, dovrebbe fare da epigrafe al dialogo interreligioso, divenuto, oggi, così necessario (urgente, anzi), in un mondo dove le diverse confessioni religiose vivono una accanto all’altra, ognuna con la propria verità. Esso serve, anche, a sviluppare (o a chiarire) l’idea di un’Europa 12
diversa. Non possiamo più accontentarci, quindi, di conoscerle superficialmente; tanto meno di ignorarle nella loro “diversità” di cultura e tradizione. La diversità religiosa, però, non deve significare “divisione”. Anzi, è proprio la fede nel Dio di tutti, unico, che invita al dialogo. Il dialogo, allora, non deve proporsi sulle “dottrine”, o su argomenti “teologici” propri di ogni religione, come avveniva nel Medioevo, quando, invece del “dialogo”, si aveva la “apologia” di una religione, abilmente condotta con l’arte della retorica; a volte con ironia12. Quelle dispute, proseguite nel corso dei secoli, hanno diviso le religioni, combattendosi a vicenda. Oggi no: nessuno accetterebbe un simile dibattito. Questo non vuol dire che nel dialogo non si debbano tener conto le possibili convergenze anche sul piano teologico. Ma c’è un atto unico che accomuna i credenti delle diverse religioni: l’atto della preghiera. Quando in alcune occasioni vediamo uniti insieme i rappresentanti delle tre religioni (o di altre) a pregare per gli obiettivi più gravi e urgenti dell’umanità, allora comprendiamo le grandi parole di Gesù: «Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Poiché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io, in mezzo a loro»13. In quel momento, quegli uomini che pregano sono uniti intorno a un unico Dio che li ascolta. Nessun dialogo tra le religioni, né tra le diverse culture, vi può essere, se perdura la convinzione della superiorità di una rispetto alle altre. Questa convinzione, in realtà, non è 13
ancora del tutto superata: la convinzione, cioè, che la propria religione contenga “la verità”, e le altre sono nell’errore. Forse oggi si è superata la “chiusura” d’una volta, spesso rigida, nei confronti delle dottrine altrui; forse si è superata la “apologia” serrata della propria; ma quella convinzione (che diventa pregiudizio) forse no. Il dialogo richiede umiltà, attenzione, ascolto delle verità dell’altro. Le religioni non sono cittadelle inaccessibili e ben difese dagli uomini che le abitano. Tali sono state considerate in passato. Il dialogo non deve arroccarsi sulle dottrine. Ogni religione possiede la propria bellezza e verità dottrinaria. Ogni religione ha una sua dignità, ma tutte conducono verso un unico fine. È questo il senso del versetto del Corano che dice: «A ognuno di voi abbiamo assegnato un rito e una via, ma se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi un’unica comunità, e se non lo ha fatto è per mettervi alla prova in quel che vi ha donato. Fate a gara nelle cose buone, tutti fare ritorno a Dio, ed egli vi informerà di ciò su cui discordate»14. Il dialogo, allora, deve tendere a una reciproca e rispettosa comprensione dell’altro: non più un “infedele”, ma semplicemente un “credente”. «La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani»15. Un dialogo leale non trascura le differenze, ma le riconosce, le rispetta, e le valorizza nel reciproco “rispetto”, 14
nel re-spicere: nella capacità, cioè, (e dovere) di “profondamente conoscere” l’altro (base, d’altronde, di ogni dia-logo): conoscerne il Libro, prima di tutto, la storia, il pensiero, senza chiusure, senza pregiudizi, senza arroganza o pretesa di verità da parte di nessuna religione. Tante idee sbagliate (e pericolose) sulle altre religioni, derivano da tale mancanza di conoscenza profonda. (E tanti errori sono retaggio del passato). Dalla conoscenza, infatti, nasce la “comprensione”, dalla comprensione la “tolleranza”. Ma “tolleranza” è termine ambiguo, se non si interpreta bene, perché potrebbe tradursi in “indifferenza”, o in un permanente sentimento di “superiorità” più o meno avvertito. Tolleranza, invece, è riconoscere, realmente e lealmente, le singole dottrine con le loro verità. Tra esse, dovrebbe realizzarsi (lo si potrebbe) l’armonia di un’orchestra: nell’orchestra ognuno suona il proprio strumento; ma l’insieme di questi e dei suoni tenuti uniti dal direttore, creano armonia. Nel nostro discorso, l’armonia è l’unione di tutto con l’Assoluto, verso il quale conducono le religioni, come vie diverse. *** Se il dialogo non deve avere come obiettivo la dottrina, si deve spostare sui “valori”, sul “bene comune” che si vuole raggiungere: un bene, cioè, che accomuni le religioni. 15
È ciò che mi sono proposto di fare in queste conversazioni con rappresentanti delle tre religioni del Libro: con il Rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Shmuel Di Segni; con mons. Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita; con Salah Ramadan, Imam della grande moschea di Roma. Di quali valori si è discusso? Innanzitutto, sui valori “trascendenti”, che abbiano come fede comune quella in un Dio unico, padre di tutti, da cui discende il valore della “fratellanza”, e la comune discendenza da Abramo. Nel 1950, A.G. Roncalli (papa Giovanni XXIII), nunzio in Algeria, rivolgendosi in un discorso a musulmani, cristiani ed ebrei che coabitavano in quella terra, disse: «Amo contemplarli tutti alla luce di Abramo, il grande patriarca di tutti i credenti»16. A sua volta, il Documento sulla fratellanza, si apre proprio nel nome di Dio creatore «dell’universo, delle creature e di tutti gli esseri umani». Si apre, cioè, con un attributo di Dio comune e creduto per fede da tutte le religioni del Libro. Da questa fede, discende l’altra, anch’essa comune, della “sacralità della vita”: non uccidere. Essendo, quindi, figli del Dio unico (la tradizione islamica dice: «creature» di Dio), essendo legati tutti da questa “figliolanza” divina, tutti, indiscutibilmente, dobbiamo avere rispetto della dignità umana, la quale si fonda sulla volontà di Dio, che noi dobbiamo compiere. 16
Una volta che si hanno ben chiari i valori trascendenti, le religioni devono concordare su un altro terreno di valori: i valori “umani” e i “diritti” umani, per realizzare i quali, devono collaborare reciprocamente: la libertà, la pace, la giustizia sociale, ecc. Per comodità, ho separato i due ordini di valori. In realtà,questa distinzione non dovrebbe esserci, perché tutti si rifanno all’uomo, indubbiamente come essere sociale, ma soprattutto come creatura di Dio. I “diritti umani” sono quei diritti acquisiti (o che dovrebbero essere stati acquisiti) una volta per tutte, e sui quali non ci sarebbe da fare più nessuna discussione. Essi si legano strettamente all’idea della sacralità della vita, di cui si diceva. Per comprendere il ruolo delle religioni nella lotta per i diritti umani, si leggano due testi relativi a uno di essi: la pace: bene prezioso, perché è alla base della fratellanza umana. Il primo è del vescovo Pietro Rossano. In un incontro tra leaders religiosi a Varsavia, disse: Un segno vuol essere il nostro incontro nel vincolo che deve unire il vero spirito religioso della pace. Ogni religione quando esprime il meglio di se stessa tende alla pace. Siamo consapevoli che la religione è in se stessa una forza debole. È aliena dalle armi, dal denaro, dal potere politico. Alle molte parole preferisce il silenzio per entrare in se stessi e diventare pensosi. Ma possiede la forza dello spirito che può renderla forte, invincibile e finalmente vittoriosa. Pensiamo perciò in questo momen17
to alle figure dei santi e dei martiri di tutte le religioni […]. Riteniamo di poter affermare che la santità salverà il mondo. Perché soltanto essa è capace di muovere liberamente gli uomini a servire Dio e i fratelli17.
L’altro testo è dello scrittore Alberto Moravia: Chi vuole la pace oggi? In realtà non la vuole nessuno cioè nessuno sa cosa significa, cos’è, di che cosa è fatta, a che serve, come ci si può arrivare. La coesistenza delle due o tre superpotenze non è la pace. La Realpolitik dei diversi Mettrnich e Bismarck americani, europei e asiatici non è la pace. La spartizione del mondo in zone di influenza non è la pace. La giustizia per ambedue i contendenti non è la pace. I giusti confini non sono la pace. La risoluzione del problema palestinese non è la pace. Alla fine, neppure il pacifismo è la pace. La pace, quella pace che permette di cambiare il mondo, è un salto di qualità, una trasmutazione di tutti i valori. Questa pace non c’è, è ancora tutta da inventare. Intanto però l’idea che solo la pace è reale dovrebbe arrivare fino all’inconscio dei pochissimi o dei moltissimi che decidono le sorti del mondo, quell’inconscio invece di cui sappiamo che domina l’idea contraria, tuttora irresistibile anche se decrepita, che considera reale la guerra e irreale la pace. Ma anche questa idea può cambiare. Appunto, grazie alla pace18.
L’idea di pace di Moravia non è legata direttamente alla religione. Ma è chiaro che la religione possiede la forza 18
della «trasmutazione di tutti i valori». Si tratta, infatti, di una “con-versione”: di un vertere: rivolgere il cuore altrove, verso un bene comune, che sia al di là di ogni dottrina, di ogni speculazione, di ogni particolarismo. Lo stesso principio di “con-versione” deve guidare l’uomo verso il raggiungimento di altri diritti umani: la libertà, la giustizia sociale, l’uguaglianza. *** L’uomo, dunque, con la sua dignità di figlio di Dio, ma anche con la sua fragilità e le sue miserie: la fame, la malattia, la sofferenza; le sue emozioni, le sue necessità di vita, e le sue gioie; l’uomo nella ricerca della felicità presente e futura, nella sua tensione alla pace, alla libertà, alla giustizia sociale, alla dignità: a quei diritti, insomma, che sono alla base di tale dignità. L’uomo sente questi valori come bisogno se non proprio di felicità, almeno per una vita migliore. Naturalmente, molte possono essere le vie per raggiungerli; le religioni, tutte le religioni, sono una di esse. Sebbene queste conversazioni siano “limitate” alle tre religioni abramitiche, non vuol dire aver trascurato le altre. Assolutamente no! L’augurio è, invece, che il dialogo avvenga davvero tra tutte, perché tutte possono «gareggiare in opere buone» con il cuore. È il cuore, allora, l’altro terreno d’incontro. Il cuore: sede delle emozioni, dove l’uomo depone il dolore e la gioia, la speranza e la disperazione, le illusioni e le delusioni. È con il cuore che si combattono le ipocrisie. 19
Leggiamo, al riguardo, due testi. Il primo è di Isaia, e dice: Perché mi offrite i vostri sacrifici senza numero? – dice il Signore –. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli. Il sangue di tori e di agnelli e di capri io non li gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo: che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova19.
L’altro testo è del Corano, e dice: La vera pietà non è volgere il viso verso oriente o verso occidente. La vera pietà è quella di credere in Dio e nell’ultimo giorno, negli angeli, nel Libro e nei profeti, di chi dona dei propri beni per amore Suo ai parenti, agli orfani, ai poveri, ai viandanti e ai mendicanti e per il riscatto dei prigionieri. È quella di chi compie la preghiera e paga l’elemosina e tiene fede al patto dopo averlo stipulato, di chi è paziente nei dolori, nelle avversità e nei 20
momenti di tribolazione. Ecco quelli che sono sinceri, ecco quelli che temono Dio20.
E Dio, non è solo il Creatore: in tutte e tre le religioni del Libro, egli è anche il Dio «clemente e misericordioso». Anche in questo versetto (il “versetto della pietà”), come in Isaia, si condanna l’osservanza formale dei precetti, se si trascurano gli aspetti essenziali che un’autentica vita religiosa richiede. È il cuore la sede dove nasce la “com-passione”, la pietas nei confronti degli altri: sentimenti che ci permettono di comprendere più profondamente i diritti umani, la sacralità di ogni essere umano. Quando mancano, quando non siamo più capaci di provarli, allora vengono calpestati i diritti umani. «[…] Gabriele, il quale ha fatto discendere il Corano sul tuo cuore, con il permesso di Dio, a conferma di quel che è giunto prima, come guida e lieto annuncio ai credenti»21. «È il cuore, non la mente, l’organo di ogni conoscenza di ordine spirituale»22. Il dialogo, d’altronde, si ha, se ci sono valori comuni; e questi sono quelli indicati nelle Dichiarazioni dei diritti umani. Se questi valori non ci sono, non c’è nemmeno possibilità di dialogo. E, se non sono le verità di fede a guidare i dialoganti, sia, almeno, la “ragione”: si dialoga su qualcosa che la ragione condivide (dia-logos). Questo qualcosa sono, appunto, i diritti umani. 21
È su questo terreno che riceve luce maggiormente il versetto coranico ricordato prima: «fate a gara nelle cose buone», perché su di esse si baserà il giudizio finale23. Se nel corso dei secoli tra i credenti delle tre religioni (soprattutto tra cristiani e musulmani) ci sono stati dissensi e inimicizie, già il Concilio Ecumenico Vaticano II esortava «tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» (Documento conciliare Nostra Aetate). Su queste indispensabili realtà umane si deve sviluppare e irrobustirsi il dialogo interreligioso. E non solo, perché, a «impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace; a intervenire, quanto prima possibile, per fermare lo spargimento di sangue innocente, e di porre fine alle guerre, ai conflitti, al degrado ambientale e al declino culturale e morale che il mondo attualmente vive», sono chiamati anche i «Leader del mondo, gli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale». A riscoprire «i valori della pace, della giustizia, del bene, della bellezza, della fratellanza umana e della convivenza comune», oltre agli uomini di religione, sono chiamati gli intellettuali, i filosofi, gli artisti, gli operatori dei media gli uomini di cultura di ogni parte del mondo24.
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Capitolo primo
Incontro con l’Ebraismo. Conversazione con Riccardo Shmuel Di Segni (Rabbino capo della Comunità ebraica di Roma)
Perché la sofferenza? È la domanda più antica che l’umanità intera si è posta. Una domanda stupendamente drammatizzata nel libro di Giobbe, ma per gli Ebrei, certamente la più dolorosa. Questa è “la” domanda con la “D” maiuscola; una domanda che si pone ogni persona che si misura con l’idea di un Creatore, con la bontà del Creatore. A questa domanda, nella tradizione religiosa ebraica non c’è una risposta univoca. C’è chi dice che non c’è sofferenza senza colpa; e c’è chi, invece, obietta che è possibile la sofferenza senza colpa: esistono le sofferenze degli innocenti. La sofferenza, in realtà, è, sia a livello individuale che collettivo, l’espressione dell’essere umano in generale, del vivente, che, per la sua natura fragile, è comunque esposto a condizioni di instabilità. 23
Che questo sia un evento casuale, o che sia un evento determinato, è tutto da verificare e discutere. Non abbiamo, teologicamente, delle ricette pronte. Esistono delle soluzioni possibili, come, ad esempio, quella secondo cui si soffre in questo mondo, in modo da poter godere nel mondo successivo. Chi, invece, gode troppo in questo mondo, avrà dei conti da regolare nel modo successivo. È un’idea diffusa, ma richiede una forte dose di carica di fede. C’è da dire che, dal punto di vista della nostra tradizione, si riconosce un valore anche positivo alla sofferenza, perché la sofferenza fa crescere; la sofferenza ha, in qualche modo, un valore espiatorio. Ma i maestri dicevano: non voglio né la sofferenza, né il premio che questa può dare. Affine al tema della sofferenza, è l’altro sancito dal comandamento: «Non uccidere», legato, a sua volta, al tema della “violenza”. Conosciamo la cosiddetta “legge del taglione”. Ma c’è un versetto del Levitico25 che dice: «Non ti vendicherai, e non serberai rancore verso il tuo popolo». Gli Ebrei (ma in realtà tutti noi), come conciliano questa legge con quei comandamenti? Lei dice: conosciamo la “legge del taglione”. Ma da come ha impostato la domanda, vedo che la sua conoscenza di come questa legge viene articolata nella tradizione rabbinica, forse le manca. Prima di tutto, questa legge cosiddetta “del taglione” (che è una traduzione di un termine antico romano, e che dice: «occhio per occhio, dente per dente»), è una legge 24
che rappresenta un principio giuridico fondamentale ed essenziale, presente nelle civiltà giuridiche più evolute; e cioè: la sanzione deve essere commisurata al danno; e quindi, non ci deve essere una moltiplicazione di sanzione; ci deve essere la giustizia che commina punizioni proporzionali, direttamente proporzionali, al danno arrecato. Che poi queste punizioni dalla lettera della legge sembrano essere punizioni corporali, questo la tradizione rabbinica e giuridica lo smonta sistematicamente, nel senso che il danno che procura la lesione, deve essere misurato nel suo valore economico. Quindi, chi ha arrecato un danno, deve compensare economicamente il danneggiato. Questo è, in fondo, il principio fondamentale su cui si basa tutta la medicina legale, le assicurazioni, e così via. La domanda paradossale che fa il Talmud è: se uno, sdentato, rompe i denti a un altro, non lo puniamo perché non ha i denti da rompergli? La cosiddetta “legge del taglione”, allora, è una legge che nell’interpretazione e nella tradizione giuridica ebraica, dice che il danno va rifuso a pari gravità con sanzione economica. Quando, poi, si parla che non ti devi vendicare e no devi serbare rancore, c’è un ulteriore passo avanti, in cui si impone una pace sociale, e che è una crescita per l’individuo. Le faccio un esempio di come viene interpretata la successione di queste due parole: «non ti vendicare» e «non serbare rancore». Se viene il tuo vicino a chiederti in prestito un oggetto da lavoro che gli serve, tu non gli devi dire: tu non me lo 25
hai prestato quando serviva a me, e io non te lo presto. Questo è: «non ti vendicherai». «Non serbare rancore», in che modo s’intende? Quella persona gli dice: io te lo do, però ricordati che tu l’altra volta non me lo hai dato. Questo è il modo con cui viene letta questa norma. Nel libro di Giobbe, si leggono queste parole: «Chiedilo alle generazioni passate, considera l’esperienza dei loro padri, perché noi siamo di ieri, e nulla sappiamo, un’ombra sono i nostri giorni sulla terra. Non ti istruiranno e non ti parleranno, traendo dal cuore le loro parole?»26. Parole straordinarie, che pongono a tutti l’attenzione alla “coscienza storica”, così fondamentale, eppure oggi così trascurata. Al di là del contesto letterario in cui queste parole dell’anziano Bildad si inseriscono, cosa ci insegnano, oggi, in un mondo in cui la storia non è affatto cambiata? Danno una raccomandazione essenziale per la nostra identità: noi siamo quello che siamo, in ragione di chi ci ha preceduto, che ha costruito pietra per pietra monumenti di civiltà, e anche di inciviltà e di abiezione. Se noi non conosciamo ciò che ci ha preceduto, noi siamo senza identità e senza strumenti per regolarci nella nostra vita: che sia individuale, che sia sociale, che sia nazionale. La storia è fondamentale. Interrogare, appunto, ciò che ci ha preceduto. 26
L’importanza della memoria storica ci porta a considerare un altro fondamentale argomento: il più grande dei comandamenti, per Ebrei e cristiani. È nel Levitico, nello stesso versetto sopra ricordato: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Non conosco l’ebraico, ma so che la parola corrispondente a «prossimo» è «Rea»: parola che Elie Wisel preferiva rendere con «altro», mentre in latino «proximus» è «il più vicino». C’è differenza non solo di interpretazione, ma soprattutto di comportamento. Non le sembra? Sì! È un termine che solleva molta esegesi e molta discussione. Chiaramente, l’intento è quello di allargare i limiti di questo Rea. Ma anche quelli che rimproverano una visione molto esclusiva di esso, molto stretta, sono proprio, talvolta, quelli che creano ulteriori confini nella definizione del proprio Rea. Quindi, c’è differenza tra «altro» e «prossimo». Sì! Chi è, oggi, l’ “altro”? L’attenzione è, soprattutto, sull’immigrato, che, secondo quanto stiamo dicendo, dovremmo accogliere. In realtà, chi, più degli Ebrei, migrati un tempo in Egitto, potrebbero comprendere la condizione degli immigrati? 27
È una precisa norma biblica. Nel Levitico, a cui lei fa riferimento, è detto e ripetuto: non bisogna opprimere lo straniero, perché tu conosci lo spirito dello straniero, perché sei stato straniero in terra d’Egitto. Questa condizione di “estraneità”, quindi, deve essere interiorizzata. Siamo tutti cacciati da qualche parte. E se uno si rifà al racconto della Bibbia, deve tener presente che è l’umanità stessa ad essere cacciata, perché l’umanità discende da un “esule”: Adamo, cacciato dal giardino dell’Eden. Questo argomento si chiarisce alla luce di un altro principio fondamentale, comune alle tre religioni del Libro: Dio come padre di tutti, e la comune discendenza da Abramo. In Abramo si riconoscono discendenti spirituali i tre grandi monoteismi; quello ebraico anche discendente di Isacco e Giacobbe / Israele Ma gli esseri umani non soltanto sono discendenti di Abramo. Abbiamo il patto con Noè, che è antecedente, e che riguarda l’intera umanità. In un mondo desacralizzato come il nostro, come può l’uomo ristabilire il rapporto con Dio? Con la ricerca personale e di gruppo, che non sia, però, violenta; che non sia impositiva. Poi, con l’esempio; e con il corretto comportamento. 28
Gli argomenti finora discussi sono (potrebbero essere)più facilmente accettati per un dialogo interreligioso, perché toccano più in profondità la condizione “spirituale” dell’uomo (specie il tema della sofferenza, che dovrebbe unire l’umanità più dell’amore, essendo essa universale). Ma quando entriamo nel terreno dei “diritti umani” (sui quali ugualmente dovrebbe fondarsi il dialogo interreligioso), le cose, invece, si complicano, per motivi, per esempio, di propria “identità”. In un incontro interreligioso, non c’è da discutere della “teologia”, almeno dal nostro punto di vista. Non serve convincere altri della bontà della propria fede, in contrapposizione a quella loro. Un incontro interreligioso serve, prima di tutto, a riconoscere nell’altro la dignità di “essere umano”, che, fondandosi sulla fede, dovrebbe comportarsi bene. Quindi: riconoscere dignità alla “alterità”. Poi, trovare nelle radici, nei fondamenti della propria fede, quegli stimoli per operare insieme nella società, e migliorarla. La discussione sui diritti umani spostano il tema dell’incontro con l’altro su una convergenza “morale”. Quando ci troviamo di fronte agli orrori della storia, alla violenza, alla discriminazione, alla sopraffazione, ecc., si può fare a meno di Dio? Può esserci morale piena senza religione? 29
Io farei la domanda alla rovescia, nel senso che in passato (e nell’attualità) abbiamo visto persone che hanno detto di ispirarsi alla religione, ma hanno offeso la dignità umana al massimo, hanno perseguitato, hanno oppresso, hanno distrutto, hanno sterminato. Non basta richiamarsi a Dio, di cui si pretende di interpretare la volontà, per rispettare la dignità umana. Se poi esistono effettivamente pensieri che rispettano l’uomo prescindendo da Dio, anche se posso non essere d’accordo, ben vengano. Nelle “Dichiarazioni universali di diritti umani”- si dice – è bene non inserire Dio, o discussioni “metafisiche”. Queste sono tutte discussioni che hanno attraversato la formazione di queste Dichiarazioni. Il rabbino Sacks diceva che tutte queste dichiarazioni universali sono scritte nelle lingue locali, ma parlano in dialetto ebraico, anche se non parlano di Dio. Altro terreno d’incontro: la risoluzione dei problemi ambientali. Anche questo tema, come gli altri a cui abbiamo accennato, accomuna Ebrei e cristiani, perché ambedue considerano l’universo opera di Dio. Un versetto del Qoèlet dice: «Osserva l’opera di Dio: chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo?»27. Un commento a questo versetto di Midrach Rabbah dice: «Jahwe dice ad Adamo: “Vedi la Mia opera, vedi come è piacevole e buona. Tutto ciò che Io ho creato l’ho creato 30
per te. Stai attento a non guastare e a non distruggere il Mio mondo, perché, se lo fai, nessuno lo riparerà». Oggi va molto di moda l’ecologia, ma la difesa del creato fa parte delle sensibilità religiose ebraiche fin dalle origini bibliche. Noi siamo qua, come Adamo stesso, per lavorare la terra e per custodirla. Noi siamo dei “custodi” della terra.
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Capitolo secondo
Incontro con il Cristianesimo. Conversazione con mons. Vincenzo Paglia (Presidente della “Pontificia Accademia per la vita”)
Il dialogo interreligioso dovrebbe basarsi, oggi, su tre ordini di valori: sui valori “trascendenti”, sui valori più profondamente “umani”, sui “diritti” umani. Il primo dei valori “trascendenti” è quello della “fratellanza”, essendo tutti figli di un unico Dio Creatore (e che ha come comandamento: «Amerai il tuo prossimo come te stesso»),ed essendo tutti discendenti da Abramo. Per le religioni abramitiche, la fraternità umana si fonda, dunque, sulla comune partecipazione divina. E in questo contesto si inserisce lo storico Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Non è questa la via anche per un nuovo incontro con i laici? 33
Il citato testo di Abu Dabi è davvero una pietra miliare in questo tempo segnato da ripiegamenti e crescenti individualismi. È una grande lezione di umanesimo. E si iscrive bene nell’orizzonte di un dialogo ampio non solo tra credenti (come in questo caso tra cristiani e musulmani), ma anche tra credenti e non credenti, o, se si vuole, tra credenti e umanisti. Mi ha fatto riflettere questa affermazione di Luigi Zoja nel suo bel libro di qualche anno fa, La morte del prossimo28: «Per millenni un doppio comandamento ha retto la morale ebraico-cristiana: “ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso”. Alla fine dell’Ottocento, Nietzsche ha annunciato: “Dio è morto”. Passato anche il Novecento, non è tempo di dire quel che tutti vediamo? “È morto anche il prossimo”». È un’amara constatazione che non possiamo condividere. In effetti, l’altro non è più percepito come “prossimo”. È visto piuttosto come una minaccia da cui guardarsi e che va respinto. Esattamente l’opposto di quel che significa il termine prossimo, ossia il più vicino (è il superlativo della parola latina proper). È tristissima e assieme drammatica questa testimonianza di un profugo eritreo, sopravvissuto a una delle tante tragedie del mare di Sicilia, ha scritto: «Vedevamo le imbarcazioni che non si fermavano e proseguivano per la loro rotta. Eravamo disperati; soltanto un pescatore, cinque giorni fa, ci ha dato un po’ di acqua e del pane». Persino le leggi che obbligano all’assistenza nel mare vengono calpestate. E questo avviene nel cuore dell’Europa, la patria del diritto. Ci troviamo di fronte ad un arretramento della cultura europea, mentre avanza senza remore un’attitudine egocentrica in tanta gente che 34
per di più sembra incattivirsi. L’Altro va espulso. Non solo lo straniero; L’Altro, semplicemente. Per questo il testo della dichiarazione comune tra Papa Francesco e El Tayeb, il Grande Imam di El Azhar, intitolato “Fratellanza umana”, appare come una parola santa per l’oggi. Ed anche profetica. È un invito per tutti a riscoprire la dimensione della fraternità. La fraternità è una parola gravida di conseguenze per la storia della convivenza umana e la vita del mondo. Anche se nella storia è stata sempre una frontiera difficile. Fin dalle origini. Basti pensare a quel che accadde ai “primi due fratelli” Caino e Abele29. La domanda di Dio Caino dopo l’omicidio: «Dov’è tuo fratello?» fa capire che la fraternità è data, ma deve anche essere scelta. È data perché l’uomo la trova, come trova sia la nascita che i genitori. Ma deve essere scelta per viverla. La vicenda di Caino e Abele è emblematica. Dio sembra preferire il secondo al primo, sovvertendo l’ordine di nascita. La predilezione di Dio verso Abele – che sconvolge la normale convivenza – è data dalla debolezza di Abele rispetto a Caino. In ebraico il nome Abele significa “soffio”, “debolezza”. Ebbene, Dio è attento, più attento, al fratello più debole. Tale predilezione – un sentimento di vero amore – indispettisce Caino sino a spingerlo a un sentimento di invidia. Caino non comprende l’amore, soprattutto quello di Dio, che si piega su tutti, ma soprattutto sui deboli. Sì, i più deboli – i numerosi Abele di questo mondo – vanno amati per primi. Così ha fatto Dio. Caino non comprende l’amore di Dio, la sua gratuità, la sua eccedenza per i deboli. E in 35
lui cresce l’erba amara dell’invidia e si rafforza il tarlo del sospetto: pensa che ci sia un posto solo nella vita. E spetta a lui. L’altro è di troppo. La vita diviene una competizione. E i più deboli soccombono. Il desiderio di possesso, la voglia di essere l’unico diventa inevitabilmente omicida. La fraternità implica una scelta radicale: quella di amare tutti, appunto, come fratelli. È una profezia che ha irrorato le radici più profonde di ogni umanesimo. E non c’è alternativa. Ovviamente, se si vuole che la società viva nella pace, onorando le rispettive diversità. Nelle pagine bibliche appare evidente la centralità della dimensione della fraternità per frenare la violenza e incamminarsi verso una società pacifica e solidale: «Quel dramma (l’omicidio di Caino) viene messo in scena ancora oggi in Siria, in Iraq, Afghanistan, Nigeria, Somalia, Libia, e negli atti terroristici di tutto il mondo» – nota il rabbino J. Sacks. Peraltro, la parola fraternità (o i suoi equivalenti) sta all’inizio della rivoluzione occidentale moderna, come simbolo della universale complicità umana di fronte alle fatiche, alle ferite e alle sfide della vita. Ma è stata presto congedata dall’orizzonte che doveva plasmare la moderna cultura della città e del cittadino del mondo. Libertà e uguaglianza sono rimaste sole in vetta all’orizzonte della modernità. Una fonte di ispirazione certamente degna di essere sviluppata e difesa. Non c’è dubbio. Eppure, (ormai ce ne rendiamo perfettamente conto), senza la fraternità quelle figure – pur indiscutibili – della dignità umana, possono essere declinate sul registro di un individualismo che non dice ancora niente sulla qualità dei legami e sulla 36
giustizia degli affetti che edificano e ispirano la convivenza propriamente umana. La contiguità della fraternità con l’amicizia, la compagnia, la solidarietà, la condivisione, ci istruisce sull’appello di una radice comune che crea un legame affettivo speciale: e ci predispone a immaginare la costruzione di buoni rapporti di reciprocità come la destinazione migliore della qualità umana ci è comune. In assenza di uno sviluppo della fraternità, anche la libertà e l’uguaglianza – per quanto forte sia l’enfasi della loro proclamazione – sono destinate a logorarsi e a intristirsi. E la fraternità ne patisce a sua volta: perché la sua bellezza si sviluppa alla luce del riconoscimento di pari dignità dei soggetti umani, e al riparo da ogni prepotenza, assoggettamento, disprezzo dell’altro. Il respiro universale e fiduciale della fraternità – all’interno della cittadinanza moderna, come fra i popoli e le nazioni – appare molto indebolito. E lo stile burocratico e mercantile della regia dell’esistenza collettiva, ci fa sentire, a dispetto della propaganda, meno liberi e meno uguali. Di fatto, in questa società degli individui, la convivenza civile e il bene comune mancano di affezione all’altezza delle sue ambizioni. Senza una elaborazione della fraternità alla stessa altezza della libertà e dell’uguaglianza – che sono frequentissime, anche se totalmente liquide – perdiamo il senso della complicità umana del vivere, del prendersi cura, dell’inventare bellezza, del creare pensiero e dell’abitare comunitario. E cresce la corruzione della città dell’uomo, frutto di complicità oscure – simulacri negativi della fraternità – che attingono al familismo 37
amorale, alle corporazioni del denaro, all’anonimato delle tecnocrazie, alla delirante difesa delle identità etniche e religiose. Il vuoto di fraternità è destinato ad essere riempito da una complicità contraria. C’è bisogno di reinventarla, la fraternità. Essa va posta nel cuore stesso della storia come forza di cambiamento, di trasformazione. E proprio per questo la sua radice si pianta nel cuore dell’uomo. E fin dall’inizio essa è per sua natura universale. Vorrei dire che d’istinto intuisce il legame comune dell’umanità. La rivelazione biblica le dona chiarezza, vigore, forza, energia, e quella “marcia in più”, come qualche amico chiama la fede cristiana. Fraternità vuol dire amicizia, compagnia, solidarietà, condivisione, prossimità. Essa esige la pratica di una nuova prossimità tra gli uomini e i popoli. Ed è “il” compito grave e urgentissimo che tutti abbiamo davanti, in questo tempo di globalizzazione. È necessario pertanto cambiare da ora il nostro paradigma: alla ossessiva domanda individualista, “chi sono io?”, deve essere sostituito il nuovo radicale interrogativo: “per chi sono io?”. Quest’ultimo è l’interrogativo della nuova frontiera della libertà e della uguaglianza. E l’uguaglianza non è annullamento della differenza. La fraternità rende l’uguaglianza straordinariamente ricca nella sua diversità. Anche la libertà si annichilisce se non è affrancata dall’autoreferenzialità. La libertà è relazione: essa esiste e si esprime solo in rapporto all’ “altro”, e in una prospettiva di eguale dignità. La libertà muore se resta chiusa nell’io. Il legame con il “noi” resta essenziale e fonda la comune dignità di ogni persona. È in questo oriz38
zonte che si pone il compito delle religioni, soprattutto di quelle abramitiche: esse contestano in radice il “monoteismo dell’io”. Infatti, la fraternità è comprensibile pienamente nella fede nell’unico Creatore e Padre. In un mondo ormai globalizzato (come lei sintetizza) è facile rinchiudersi nei propri recinti. Le religioni mondiali non debbono sentire la responsabilità di promuovere una convivenza pacifica tra tutti? La tentazione dei fondamentalismi nel mondo delle religioni o dei nostri figli nei rapporti sociali, non chiede l’impegno a un dialogo a tutto campo? Sono convinto che le grandi religioni mondiali o, se si vuole, i credenti di tutte le fedi, debbono elaborare una nuova responsabilità di fronte al futuro pacifico dei popoli e dell’intero pianeta divenuto, come si diceva già negli anni Sessanta del secolo scorso, un “villaggio globale”. Il dialogo tra le religioni è chiamato a percorrere una nuova frontiera a motivo della globalizzazione. Tanto più se è vero (come anche a me pare) quel che sostiene il rabbino Jonatan Sacks, ossia che il XXI secolo sarà più religioso del secolo passato. Il rabbino è convinto che lo sarà pure se la religione non riuscirà a convertire anche una sola anima.. Una lettura più attenta della secolarizzazione, infatti, ha ormai mostrato che la dimensione religiosa è ben più radicata di quello che talune analisi sociologiche avevano prospettato. C’è una religiosità diffusa, magari non inquadrata nelle file delle religioni storiche, che traversa l’intero pianeta. E anche solo la demografia lo mostra: 39
“più religiose sono le persone, più figli hanno”. Il problema nasce però quando nelle religioni – anche in quelle monoteistiche – prevalgono i movimenti più estremi. L’Occidente laico sta abbandonando i valori che un tempo si chiamavano patrimonio ebraico-cristiani. Ha scelto di adorare gli idoli dell’egoismo – il mercato, il consumismo, l’individualismo, l’autonomia, i diritti e ‘qualunque cosa vada bene per te’ – rinunciando ai codici di lealtà, riverenza e rispetto che una volta salvaguardavano i matrimoni, le comunità e i legami sottili che ci legano l’uno all’altro, spingendoci a lavorare per il bene comune. Anche la politica dell’Occidente sembra priva di una visione che vada oltre il mantra di ‘libertà e democrazia’, e dei calcoli costi/benefici del massimo dei servizi al minimo delle tasse. Ecco perché c’è bisogno che i credenti delle diverse religioni intraprendano una nuova alleanza tra loro, per poter parlare al mondo in maniera efficace. A partire dalle tre religioni abramitiche. Infatti, nel deposito profondo delle religioni c’è l’idea di una universalità della salvezza. Giovanni Paolo II lo intuì quando nel 1986 organizzò, per la prima volta nella storia, un incontro di preghiera per la pace tra i rappresentanti di tutte la grandi religioni mondiali. L’evento si tenne ad Assisi. Fu un evento davvero storico. E alla Curia Romana che faceva fatica a comprendere quell’evento, il Papa mostrò la visione unitaria che lo presiedeva: «Non c’è che un solo disegno divino per ogni essere umano che viene a questo mondo (Gv, 1, 9), un unico principio e fine, qualunque sia il colore della sua pelle, l’orizzonte storico e geografico in cui gli avviene di 40
vivere ed agire, la cultura in cui è cresciuto e si esprime. Le differenze sono un elemento meno importante rispetto all’unità che invece è radicale, basilare e determinante». La coscienza di “un solo” disegno e la conseguente prospettiva unitaria rendeva ragione di quell’incontro e dell’impegno “ecumenico” e “interreligioso” che gli ultimi papi del Novecento hanno tutti sostenuto. Tutti siamo accomunati da uno stesso destino, che in ultima istanza è un destino trascendente. E questo scongiura il ritorno a contrapposizioni nazionalistiche. Con questa consapevolezza viene minata alla radice quella cultura fondamentalista e violenta che sfrutta la fede religiosa per fini che non hanno nulla a che vedere con la religione. I credenti delle diverse tradizioni religiose sono chiamati oggi a scendere nelle profondità delle loro fedi per poter nutrire le loro visioni di universalità. Avere una prospettiva universale comune significa sradicare le religioni da ogni violenza fatta in nome di Dio. I cristiani, oggi, più di altri hanno la responsabilità di promuovere tale dialogo. Mi torna in mente la “visione” ecumenica e universale che aveva il grande patriarca Athenagoras: «Al centro dell’umanità in via di unificazione – continuava a ripetere – deve trovarsi la Chiesa indivisa». In effetti, l’unità tra i cristiani non è semplicemente una questione interna. È divenuta determinante per favorire l’unità tra i popoli. Per il patriarca era una missione urgentissima di fronte alla spinta della globalizzazione del mondo: è colpevole e dannoso per i cristiani essere assenti dal processo di unificazione che il mondo aveva intrapreso – sosteneva. E Olivier Clement commentava: «Da 41
una parte […] c’è l’avvento dell’uomo planetario, in una storia che diviene mondiale; dall’altra forse per sfuggire all’impersonalità della civiltà industriale, ogni popolo si abbarbica alla sua originalità». E il patriarca proseguiva: «Noi dobbiamo situarci nella giuntura di questi due moti, per tentare di armonizzarli. Chiese sorelle, popoli fratelli: tale dovrebbe essere il nostro messaggio e il nostro esempio». Non era il romanticismo di un anziano patriarca, ma la visione spirituale di un uomo di Dio che leggeva in profondità la vocazione dei cristiani nell’attuale contingenza storica. Sarebbe tragico non riprendere questa visione deposta nelle profondità del credo cristiano. Di qui bisogna ripartire: «I cristiani debbono lavorare sui cambiamenti in profondità» – diceva Clement – e spiegava: «Lo studio dei movimenti del sottosuolo ci insegna che uno spostamento di alcuni millimetri negli strati profondi della scorsa terrestre provoca un terremoto in superficie. Una spiritualità creatrice, in base alla quale più ci si immerge in Dio, più si diventa responsabili degli uomini, costituisce la vera infrastruttura della storia». La prospettiva ecumenica e quella dell’incontro con le grandi religioni fa uscire dagli orizzonti delle rispettive aggregazioni per divenire assieme un’energia di unità per i popoli. Nel praticare la via dell’incontro è apparsa sempre più chiara la consapevolezza di quanto la diffidenza tra le fedi fosse complice di quella tra i popoli. Il rapporto dialogico e fiducioso tra le differenti comunità religiose spinge i popoli alla reciproca fiducia. In tale contesto la “purificazione della memoria” resta uno straordinario strumento di pace. Paul Ricoeur denunciava «la memoria 42
dei torti e delle sofferenze, le volontà di affermazione» che «sembrano giustificare le divisioni, le rivalità e i conflitti […]. Il culto dell’odio genera la violenza». È «la speranza di poter vivere con l’altro, la speranza di non essere dominati dalla memoria dei torti subiti, la speranza di costruire un mondo in cui tutti possano vivere con dignità», ciò che il filosofo protestante francese Olivier Abel chiama «il perdono o come tornare al mondo normale». È molto chiaro da quel che lei dice l’indispensabilità del dialogo e dell’incontro tra i credenti delle diverse religioni. Ma non è altrettanto urgente, anche, il dialogo e l’incontro tra i credenti (quindi, tutte le religioni) e i laici (gli umanisti)? La globalizzazione non chiede a tutti una nuova alleanza? Le sfide da affrontare sono enormi e richiedono la partecipazione di tutti. Quanto ho detto a proposito dei credenti delle diverse appartenenze religiose, vale senza dubbio anche per i credenti e gli uomini di buona volontà, potremmo dire per gli “umanisti”. Sono più che convinto che credenti e umanisti sentano la responsabilità di tessere una nuova e più profonda alleanza. Non si tratta semplicemente di fare accordi sul piano etico o di mettere in campo qualche compromesso teorico. C’è bisogno di ripercorrere in maniera nuova le domande antiche su Dio, sull’uomo, sul mondo, sulla vita e sulla morte. Talora uso l’espressione “c’è bisogno di più fede e di più ragione” da parte di tutti. Ed è ovvio che per elaborare una nuova sintesi che fermenti il mutato contesto sociale e culturale, c’è bisogno 43
di scendere più in profondità nelle rispettive tradizioni. E a mio avviso tutte le tradizioni – quelle dei credenti e quelle degli umanisti – restano indispensabili per il futuro del pianeta. Ma sono chiamate a realizzare quel dialogo interculturale e interreligioso che può garantire una convivenza pacifica tra i popoli. È emblematico, a tale proposito, il confronto avvenuto qualche anno fa tra Habermas e l’allora cardinale Ratzinger. Quest’ultimo sosteneva che «l’interculturalità rappresenta oggi una dimensione inevitabile della discussione sulle questioni fondamentali dell’essenza dell’essere umano, che non può essere condotta né del tutto all’interno del Cristianesimo né puramente all’interno della tradizione razionalistica occidentale». E il filosofo tedesco riteneva che «il cristianesimo e niente altro è il fondamento ultimo della libertà, della coscienza, dei diritti umani e della democrazia, i capisaldi della civiltà occidentale. Fino ad oggi non abbiamo altre opzioni (oltre il cristianesimo). Continuiamo a nutrirci da questa fonte. Tutto il resto sono chiacchiere postmoderne». E si dichiarava «incantato dalla serietà e dalla coerenza» della teologia di san Tommaso d’Aquino: «una figura spirituale capace di provare la sua autenticità con le proprie risorse. Che l’odierna leadership religiosa manchi di un terreno altrettanto solido mi sembra una verità incontrovertibile. Nel generale livellamento della società operato dai media tutto sembra perdere serietà, persino il cristianesimo istituzionalizzato. Ma la teologia perderebbe la sua identità se cercasse di scindersi dal nucleo dogmatico della religione, e quindi dal linguaggio religioso in cui 44
si concretizzano le pratiche comunitarie della preghiera, della confessione e della fede». E aggiunse: «Un riconoscimento più chiaro delle nostre radici giudaico-cristiane non compromette la comprensione interculturale, anzi, è ciò che la rende possibile». In tale contesto mi pare particolarmente urgente un rinnovato incontro tra cristianesimo e umanesimo. E penso che richieda ai partecipanti un vero e proprio rinnovamento interiore per potersi ritrovare in maniera vitale. Tale “incontro” è, a mio avviso, un processo in certo senso indivisibile: non ci rinnova se non ci si incontra. È questa, peraltro, l’unica via sia per evitare una deriva fondamentalista, sia per non sottrarsi alle rispettive fonti di senso dell’esistenza. In questa prospettiva, comprendo anche le parole di Eugenio Le caldano, un filosofo italiano, quando scrive: «Forse i tempi sono maturi perché chi crede in Dio e chi procede senza Dio – ritenendo che tutto ciò che conta accade nella realtà naturale di cui abbiamo esperienza con le nostre sensazioni ed emozioni – possano lavorare insieme per garantire la sopravvivenza della specie umana, non perdendo di vista le esigenze di una crescita del benessere e di un incremento della libertà e della giustizia nei rapporti sociali». Va colto il pensiero di Giovanni Paolo II che paragona la fede e la ragione a due ali che permettono all’uomo di non restare prigioniero dei propri orizzonti e di volare nel cielo spazioso della Verità e dell’Amore. Dobbiamo «fermentarci a vicenda», diceva il cardinale Martini. Ed è nella categoria del “mistero” che il credente e l’umanista, secondo Norberto Bobbio, si ritrovano: «Se fede laica vuol dire fede nell’uomo, mi 45
domando se questa non sia altrettanto soggetta al dubbio quanto quella religiosa. Allora non resta che il senso, che può anche essere angoscioso, ma è l’ultimo termine cui giunge la nostra ragione, del mistero. Non è forse questo senso del mistero che unisce profondamente e indissolubilmente gli uomini della fede laica e quelli della fede religiosa?». Il filosofo italiano spingeva per allargare gli orizzonti della ragione ma, diceva, il “mistero” gli restava muto: e la “fede laica” lo portava alla certezza della finitudine della vita e della sua conclusione con la morte. Tuttavia, si lasciò scuotere dalle riflessioni di un missionario che si era inserito nel dibattito e che aveva interloquito con il filosofo indirizzandogli una lettera. Ne parlò lo stesso Bobbio: «È la risposta di un missionario che da anni vive con i “dannati della terra” di un paese africano cercando di alleviare le loro sofferenze, e mi pone molto garbatamente, senza arroganza alcuna, la domanda se basti la fede laica per consacrare la propria vita ai derelitti di questo mondo o non occorra qualche cosa in più, che solo la fede nella fratellanza universale in Dio può dare. Non ho una risposta». Si iscrive in questo contesto la forza dei tanti testimoni che spingono la storia a percorrere i sentieri dell’amore per i poveri e della pace. C’è inoltre una spinta di non pochi laici che chiedono ai credenti di testimoniare la loro fede in maniera alta. Regis Debray, un filosofo francese, per fare un solo esempio, scrive: «Che cosa, noi laici d’occidente ci aspettiamo da voi, rappresentanti delle grandi correnti spirituali dell’umanità? Vi chiediamo innanzitutto di svegliarci. Abbiamo 46
bisogno d aprire gli occhi sul mondo così com’è: ingiusto, pericoloso e poco evangelico. Perché questo bisogno? Perché viviamo nella sonnolenza, noi che fumiamo ogni giorno “l’oppio del popolo”, e cioè il sonnifero mediatico che sta nelle mani del denaro e della facilità». E specifica quale sia l’autorevolezza e la forza attrattiva della fede e degli stessi credenti: «Non siete più soggetti al potere politico. Il costantinismo è finito. Non avete più potere, avete di meglio, avete l’autorità. L’autorità morale è ciò che ci protegge dai poteri di fatto. Per questo c’è bisogno di voi. Non soltanto, ma anche di voi. Perché la vostra voce è forte e voi parlate dall’alto della Montagna […], cioè come nel Sermone della Montagna che ha purificato, ha sostituito la legge del taglione. Siete in minoranza. Finalmente! È una fortuna formidabile. Approfittatene. Approfittiamone. Siete portatori di una concezione globale della persona umana, della sua dignità e della sua vocazione profonda. E non di interessi nazionali, ristretti o di categoria. La vostra libertà di parola è incomparabile». E conclude: «Siete incaricati della sovversione spirituale della realtà materiale, di sovvertire la guerra, il disprezzo e il dominio». In questo orizzonte si iscrive, ad esempio, anche Luc Ferry, per il quale è necessaria la nascita di un “secondo umanesimo” che sia strettamente legato alla dimensione spirituale. L’erosione delle forme religiose tradizionali – sostiene Ferry riferendosi soprattutto al crollo del cristianesimo come religione dogmatica che fonda la morale su di un’autorità esterna all’uomo – rende strutturale la crisi morale contemporanea. Non si tranquillizza Ferry per la 47
sconfitta della religione intesa come “nemica” (o comunque estranea) della modernità. Anzi, aggiunge che per evitare il baratro del nulla non è sufficiente il pur necessario “ritorno all’etica”. C’è bisogno di un’etica irrobustita con i tratti della religiosità, pena la sua insostenibilità. Un’etica puramente razionale – afferma Ferry – è troppo ristretta e non ha la forza di liberare l’uomo dall’essere un semplice meccanismo della natura. Già Guardini – a dire il vero – lo faceva notare: l’etica spiega, spinge, sostiene, giudica, esalta, colpevolizza, ma non salva. Il filosofo francese non esce tuttavia dalla prospettiva della soggettività, sebbene voglia sottrarsi dall’asfissia del non senso e del ripiegamento egoistico. E rivendica una vera e propria spiritualità laica, che egli scorge sulla via di una trascendenza immanente, l’unica che, sempre all’interno di un umanesimo religioso ma ateo, può far uscire l’umanità dal vuoto. Non basta il semplice umanesimo dell’autenticità e della rigorosa osservanza dell’imperativo morale: «La volontà di realizzare una perfetta immanenza a sé è destinata a fallire. Per una ragione di fondo […], l’esigenza di autonomia, così cara all’umanesimo moderno, non sopprime la nozione di sacrificio, né quella di trascendenza. Semplicemente, ed è questo che bisogna capire, implica una umanizzazione della trascendenza e, quindi, non lo sradicamento, ma piuttosto uno spostamento delle figure tradizionali del sacro». Si passerebbe, perciò, da una trascendenza “verticale” a una trascendenza “orizzontale”; il sacro scende dal monte alla valle e apre un varco verso una “religione dell’Altro”. 48
Queste sue riflessioni contrastano coloro per i quali la stagione del dialogo è finita. O comunque deve finire. Del resto, a che serve il dialogo tra culture, popoli, religioni? Non è frutto di ingenuità? E in effetti hanno ripreso fiato diffidenze che in realtà non sono mai scomparse. E, di fronte alla crescita dei nazionalismi, sovranismi e populismi, si fa sempre più insistente l’obiezione seguente: il dialogo non apre ingenuamente le porte alla violenza, e in particolare a quella violenza che viene compiuta in nome della religione, che ha toni ancor più crudeli delle altre? È vero che in questo nostro tempo sono cresciuti i sentimenti di pessimismo e di paura. E in tanti ne sono coinvolti. Viviamo in effetti in una stagione di relazioni tese, più che di incontri gratuiti. Siamo in un momento storico in cui è facile ripiegarsi in se stessi e nei cosiddetti interessi nazionali, piuttosto che alzare lo sguardo e sognare un futuro migliore per tutti. È più tempo di muri che di ponti. Ed è ovvio perciò che quel clima di speranza e di euforia che si era manifestato dopo i cambiamenti dell’ ’89, appaia definitivamente sepolto. Le paure ci sono. Ma si addossano a capri espiatori fuori da sé, dal proprio recinto, dal proprio quartiere, città, nazione. E così oltre. L’unica prospettiva è difendersi, in ogni modo, magari anche preventivamente. A questa tentazione di chiusura va risposto che l’incontro e il dialogo sono i luoghi e i momenti per sprigionare energie di pace, di solidarietà, di fraternità. L’esperienza che da molti anni faccio con gli amici della comunità 49
di Sant’Egidio nel realizzare gli incontri per la pace sulla scia di quello che fece nel 1986 Giovanni Paolo II ad Assisi, mostra la forza dell’incontrarsi. E fa vedere che lo spirito del dialogo non è finito. Lo “spirito di Assisi” – ossia quel clima di dialogo tra credenti di diverse religioni come si è realizzato ad Assisi – ha liberato non poche energie di pace. Il dialogo secondo tale “spirito” è un modo di sorpassare le frontiere del mondo religioso e diviene metodo di ricerca per la pace: crea un clima di comprensione e, direi, di affezione tra esponenti di mondi religiosi diversi e storicamente lontani. Questi incontri di preghiera per la pace, nello spirito di Assisi, mostrano sempre più la necessità del confronto tra uomini e donne di fede diversa per vincere il pessimismo e la paura che ci rendono tutti più deboli: la paura, infatti, fa divenire ora aggressivi o comunque intimamente fragili. La forza dei veri credenti non è l’arroganza, ma la santità e la sapienza: la forza interiore di chi, al di là degli avvenimenti più o meno difficili, sa indicare la via del bene. Ecco perché credo che sia necessario il dialogo o, comunque, l’urgenza di una comprensione reciproca. E vorrei chiarire subito un equivoco: il dialogo non solo non indebolisce la propria fede, al contrario esige che ciascuno vi aderisca con più profondità. E se scende nel profondo del proprio credo, scopre che la fede non mette contro l’altro, semmai spinge a comprenderlo e a rispettarlo. Per questo non dobbiamo lasciarci sopraffare dalle ondate di pessimismo, generatrici di diffidenza, chiusura, ripiegamento su di sé. Le religioni sono decisive per stabilire un legame di fraternità tra i popoli. Parafrasando il patriarca 50
Atenagora, cristiano di rara saggezza, (che diceva – come ho ricordato – Chiese sorelle e popoli fratelli ), si potrebbe anche dire: religioni sorelle e popoli fratelli. Certo, le religioni possono anche essere coinvolte nell’alimentare i conflitti, nel sacralizzare i confini, nel benedire le diffidenze ataviche e nel battezzare quelle nuove. Ed è accaduto anche questo. Anzi, continua ad accadere. Le religioni vengono così sottoposte all’ambigua pressione delle passioni di parte e di quelle nazionalistiche. Tante donne e tanti uomini spaesati nel grande mondo della globalizzazione cercano, talvolta nelle religioni, motivi per elevare muri protettivi e per tagliare ponti ritenuti pericolosi. Ne nascono temibili fondamentalismi (che sono la malattia infantile delle religioni) per cui la vita umana può essere sacrificata. D’altronde si aggirano, in questo nostro mondo contemporaneo, non solo fondamentalismi religiosi, ma anche fondamentalismi etnici che tanto sacrificano all’idolatria di un gruppo o di una razza. Il pessimismo e la paura (l’ho già accennato) possono trovare tanti motivi per affermarsi e trovano facilmente servi sciocchi che si prestano a gesti più efferati. Paura e pessimismo si affermano nei grandi vuoti lasciati dalla fine delle ideologie; si alimentano dal confronto con scenari internazionali preoccupanti, come quelli di guerre e terrorismo che lasciano intravedere una stagione molto dura, e trovano conferma in tante situazioni di tensione: lungo le strade del mondo c’è troppo odio, troppo risentimento, troppa paura, ed è facile in questo clima imboccare le strade della violenza, perfino del terrorismo folle. Sì, ci sono motivi per dire che è l’ora di chiudersi e non di 51
dialogare, l’ora del ferro e non della mano tesa. Ma guai a lasciar vincere la chiusura e il conflitto. E comunque non è questo l’atteggiamento fondamentale che le religioni hanno verso l’uomo. Tutte le religioni, pur nella differenza della loro spiritualità e dei loro cammini di fede, parlano ad un uomo bisognoso dell’Alto. Sì, tutte le religioni indicano all’uomo una via (o delle vie) per raggiungere la perfezione, e comunicano la speranza che, con le armi spirituali della fede, ciascuno può divenire migliore. C’è insomma nel profondo delle religioni una risorsa di spiritualità e di amore. Il Novecento, il secolo più secolarizzato della storia, appariva, fino a ieri, come un tempo di crisi gravissima se non di morte delle religioni. Invece si è chiuso come un tempo in cui le religioni sono attori rilevanti della vicenda storica. Le responsabilità degli uomini e delle donne di religione si fanno più grandi di quanto si poteva pensare fino a ieri. Allo stesso tempo, queste responsabilità non sono solo verso i propri correligionari, ma in un mondo in cui si vive tanto più insieme che nel passato, in un universo segnato dalla globalizzazione, si esercitano anche verso quelli che sono esterni alla propria comunità religiosa. Forse per la prima volta nella storia, alcune comunità religiose hanno dovuto considerare seriamente la loro responsabilità verso credenti che sono esterni alla loro fede. Esterni, ma non estranei. Nessuno, tanto meno una comunità religiosa, in questo nostro mondo contemporaneo, può vivere più solo per se stesso, concentrato su di sé e i propri – anche nobili – problemi. Questo è un cambiamento di non poco conto, specie per quelle comunità 52
religiose, abituate dalla storia a vivere da sole, isolate dalle altre. Ma oggi non è più così. Non si vive più da soli e non si può più vivere per sé. L’avvicinamento, la mutua conoscenza, il dialogo, l’invocazione religiosa della pace, sono oggi più necessarie di ieri. Il cammino insieme tra credenti di diverse religioni è tutt’altro che inattuale. Anzi, oggi è più necessario che ieri: è vitale quando si addensano le nubi delle incomprensioni, quando si respira un diffuso pessimismo. Sono convinto che ci vuole più dialogo. Oggi, grazie al dialogo, ci conosciamo di più: non attribuiamo a un’intera comunità quello che riguarda un individuo o un gruppo, mentre abbiamo imparato a stimare le risorse spirituali dell’uno e dell’altro patrimonio religioso. Sono convinto che l’arte del dialogo è un arte ardua e complessa, ma è l’unica via che abbiamo per non soccombere al conflitto. E comunque siamo tutti chiamati a guardare più in alto e a sognare un mondo migliore per tutti. Spostiamoci sul terreno dei valori più profondamente “umani”, sui quali dovrebbe avvenire il dialogo, perché essi parlano tutti lo stesso linguaggio. Per esempio, il linguaggio della sofferenza: quello che alla fine ha fatto sì che Giobbe conoscesse veramente Dio. Ma gli ha fatto conoscere anche il perché della sofferenza? È questa la più antica delle domande, e la più universale. Legato alla sofferenza e alla fratellanza è il sentimento della compassione: “soffrire con l’altro”. Pascal scrisse che Cristo è sempre in agonia, fino alla fine dei tempi: gli uomini devono vegliare. Io credo che, al 53
di là della kènosis divina, anche il non credente, o il credente in altre verità, non possa non vedere simboleggiata nella croce la sofferenza universale. E non è, questo, tema d’incontro umano, prima che religioso? Ma ahimé! Non le sembra che anche la sofferenza (come la morte) sia stata ridotta dai media a “spettacolo”, scomparso ogni sentimento di compassione? L’esperienza del dolore e dell’angoscia, la paura di un futuro no chiaro e, soprattutto, la consapevolezza della propria debolezza rispetto all’incombere di vicende personali e collettive dolorose o addirittura laceranti è forse quella universalmente condivisa. La malattia, metafora della vita stessa, manifesta la nostra radicale debolezza e il bisogno di essere accompagnati e, infine, salvati. Si tratta di una lezione decisiva in questo nostro tempo nel quale la cultura inclina verso il culto della salute, con l’illusione della onnipotenza, sino ad azzardare l’immortalità. Siamo disposti a tutto pur di conseguire una salute piena. Si potrebbe dire: la salute a tutti i costi! Una sorta di un nuovo imperativo categorico che porta a inseguire persino l’improbabile mito di “morire in buona salute”. Viene però la malattia, inesorabilmente. Tutti, prima o poi, sperimentiamo l’indebolirsi del nostro corpo, scoprendo così l’ineliminabile limite che abita dentro la condizione umana. Anche per questo va subito allontanata quella concezione che lega la malattia alla colpa. Gesù è molto chiaro a tale proposito, quando risponde alla domanda dei suoi discepoli se la cecità del cieco nato fosse stata causata dal suo peccato o da quello dei genitori: «Né lui ha peccato 54
né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio»30. Con ciò è chiarito che il male non viene da Dio. Al contrario, Dio ha inviato il suo stesso Figlio per contrastarlo sino a sconfiggerlo. La maggior parte dei miracoli compiuti da Gesù – come sono raccontati nei Vangeli – riguardano la guarigione dalla malattia e persino dalla morte. Gesù è venuto per guarire e salvare, questo è il Vangelo, la “buona notizia” da comunicare a tutti, a partire dai malati. La sofferenza fa parte della vita. Gesù stesso l’ha sperimentata in prima persona. Basti pensare alla sua ultima settimana che fu devastata dalla sofferenza sia nello spirito che nel corpo: la preghiera agonica nel Getsemani, l’arresto, il tradimento di Pietro, l’ingiuria, la flagellazione, la crocifissione e l’atroce morte sulla croce. Gesù non aveva cercato tutto questo. Ma l’amore per il Padre e per gli uomini era così grande da fargli accettare anche la più alta delle sofferenze, come quella procurata dalla morte sulla croce. Vi è andato incontro, riempiendola con il suo amore. Questa è la via della salvezza. Il tempo della malattia non è però di condanna. Può essere un tempo in cui si manifesta e cresce l’amore. Benedetto XVI invita a considerare la necessità di farsi prossimi ai malati come dimensione essenziale per l’intera società. «La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la compassione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è 55
una società crudele e disumana. La società, però, non può accettare i sofferenti e sostenerli nella loro sofferenza, se i singoli non sono essi stessi capaci di ciò e, d’altra parte, il singolo non può accettare la sofferenza dell’altro se egli personalmente non riesce a trovare nella sofferenza un senso, un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza. Accettare l’altro che soffre significa, infatti, assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore. La parola latina con-solatio, consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine, che allora non è più solitudine. Ma anche la capacità di accettare la sofferenza per amore del bene, della verità e della giustizia è costitutiva per la misura dell’umanità, perché se, in definitiva, il mio benessere, la mia incolumità è più importante della verità e della giustizia, allora vige il dominio del più forte; allora regnano la violenza e la menzogna»31. La fede perciò non invita a rassegnarsi al dolore. Semmai aiuta a combatterlo e, se possibile, ad eliminarlo. E la ragione di questa forza sta nell’amore che sa commuoversi, come quello che viene descritto dalla pagina evangelica del buon samaritano. La scelta che il Vangelo fa di un samaritano (il Vangelo parla solo del samaritano, senza aggiungere l’aggettivo buono), ossia di un uomo non appartenente alla fede ebraica, spinge a ritenere che l’amore compassionevole è iscritto nel cuore di ogni uomo, anche non credente. Questo amore che si lascia commuovere – 56
ma può esserci un altro amore? – spinge alla prossimità verso i più deboli, verso coloro che soffrono. È un amore forte che riesce ad essere più forte della stessa sofferenza. È un amore che cambia il corso della storia e blocca la forza del male. Spesso si fa strada la convinzione che di fronte alla forza del male e della malattia nulla possiamo con le nostre forze. In realtà, la vicinanza affettuosa fatta di gesti magari piccoli ma pieni di amore, ha una forza nascosta ma efficace di guarigione e di consolazione. Gesù ne ha dato per primo l’esempio. Egli, che ha assunto in sé tutto ciò che è umano tranne il peccato, attraversa per intero la lezione di Giobbe: fino all’angoscia di morte e al grido di abbandono. La passione e la morte del Signore ci salvano: una delle verità fondamentali della fede sulla quale il cristianesimo è edificato. Al tempo stesso, una di quelle verità che devono essere custodite con delicatezza speciale dall’oscuramento e dal fraintendimento. Dovremmo riflettere in questa prospettiva su queste parole dell’apostolo Paolo: «Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa»32. Dono della grazia non è la sofferenza, quanto piuttosto il legame d’amore che attraverso di essa si instaura. Quante volte si pensa che il male sia una conseguenza del proprio peccato e che Dio dia quello che ciascuno si è meritato per il male compiuto! È una convinzione figlia dell’idea di un Dio giudice e di una vita maledetta. Le domande sul male, sulla sofferenza, sul dolore, chiedono attenzione, ascolto, amicizia, abbraccio di amore. Anche 57
Giobbe non smetteva di parlare con Dio e di porgli domande. E c’è anche chi anche vuole essere liberato dalla colpa di continuare a vivere pur essendo malato: «Io lo so che sono molto malato e che dovrò morire, ma io voglio vivere ancora. Giusto vero?». In chi soffre c’è una profonda domanda di una vita di bene, in cui il male e la morte vengano vinti. Potremmo dire che sono domande della fede e non parole di rassegnazione. Il segno della presenza del Signore è nell’appello all’amore, non nella consacrazione del dolore. L’angoscia reale di Gesù nell’orto del Getsemani, il grido reale di Gesù sulla croce, proteggono il disagio dei deboli e degli indifesi dalla necessità di vergognarsi della loro prostrazione e di giustificare così il loro abbandono. Ma nel Vangelo di Gesù c’è dell’altro: Gesù stesso prende su di sé tutto il peccato e lo redime con un amore che non conosce limite, neppure quello della sua morte. Gesù fa esplodere tutta la violenza del peccato del mondo su di sé. E salva tutti noi! In questa prospettiva l’amore aiuta a resistere al male. Dona energie per affrontare il difficile cammino della malattia e anche della morte, perché non si è soli. Nell’abbraccio dell’amico si sciolgono tante amarezze e si può sperimentare una capacità di resistenza che non si era pensato di avere. C’è una parte di noi abitata da Dio e dalla forza. Ricordo che Antonio – un anziano in una casa alloggio della Comunità di sant’Egidio – nonostante fosse sfinito dalla malattia, aveva detto sorridendo: «sto lottando, qui sono circondato» – riferendosi alle persone che gli stavano attorno e che si prendevano cura di lui. Il suo sorriso non è mai venuto meno, neanche nei momenti 58
più difficili della malattia. Anche Elisa – un’anziana della stessa casa alloggio – quando non riusciva più a far udire la sua voce, nella sua estrema debolezza ha continuato a parlare con il sorriso. E anche quando la vita e il corpo sembravano andare incontro a tante limitazioni, è emerso tutto il suo attaccamento alla vita, tutta la sua gioia per quello che viveva, per l’affetto di tanti amici. Nel voler bene e lasciarsi voler bene non si è lasciata rubare la gioia della malattia, che pure era faticosa. «Che bella vita» aveva esclamato più volte! Parlava della malattia come di una battaglia da vincere ed era sicura che l’avrebbe vinta. Diceva: «La vita va vissuta fino in fondo». In una società in cui si vive sempre più soli e isolati è grande il bisogno di condividere il proprio dolore. Riversarlo nel cuore di un amico lo rende più leggero, più sopportabile e fa vedere la speranza che il male può essere vinto. Un terzo campo d’incontro interreligioso è quello dei “diritti umani”. Ciò che abbiamo detto finora, toccando la condizione umana più in profondità (direi quasi in modo sacro), tutte le religioni, credo, dovrebbero condividere. Le cose si complicano quando entriamo nel campo dei diritti umani, dove i “particolarismi”, le diverse identità locali sembrano, a volte, prevalere, diversificandoli, o rendendoli incompatibili con altre realtà, specie con una visione religiosa condivisa. – È così? Gli squilibri che sconvolgono il nostro mondo contemporaneo non possono lasciare indifferenti gli spiriti 59
avveduti. Deve preoccupare molto la crescita del fastidio verso la solidarietà, che avanza di pari passo con l’esaltazione di una concezione individualistica della vita. L’uguaglianza, o se si vuole la solidarietà, non può cessare di essere un’aspirazione, o per lo meno non deve perdere i tratti dell’utopia, perché si affermerebbero, prive di qualsiasi freno, le bramosie egoistiche di popoli e gruppi che inesorabilmente dominerebbero senza pietà sui deboli. «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali nella dignità e nel diritto. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e debbono comportarsi gli uni verso gli altri in uno spirito di fraternità», proclama il primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. E si intendono due grandi gruppi di diritti: da una parte i “diritti di”, ossia il diritto di pensiero, di espressione, di riunione, di pubblicazione, e così via; dall’altra i “diritti a”, ossia il diritto alla vita, alla protezione, alla salute, all’educazione, alla cultura, e così via. Questi sono i diritti dell’individuo. Ad essi sarebbero da aggiungere i diritti dei popoli, tra cui quello dello sviluppo. Quest’ultimo è stato adottato dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 4 dicembre 1986, e assumeva come suo oggetto un difficile scontro tra paesi in via di sviluppo e paesi del capitalismo avanzato, per affermare il diritto dei paesi poveri contro l’ineguaglianza di un mondo dominato dal mercato. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo si scontra con il potere assoluto del mercato globale che fa prevalere in ogni modo il potere del più forte. Per questo si rende urgente l’appello agli spiriti più attenti e sensibili per una robusta indignazione di fronte alle numerose violazioni 60
dei diritti dell’uomo. È uno sdegno che va senza alcun dubbio sollecitato. È necessario che i cristiani, gli altri credenti e gli uomini di buona volontà siano più attenti perché i diritti di ciascun uomo, di ciascun popolo e di tutte le religioni siano rispettati. Insomma, alla violenza del potere del mercato globale bisogna contrapporre una sorta di globalizzazione della solidarietà. Tutti questi diritti, infatti, poggiano sul consenso generale delle nazioni. Ogniqualvolta tale consenso si incrina subito si indebolisce la forza di tali diritti. Purtroppo il frangente storico che stiamo attraversando porta con sé un indebolimento preoccupante delle istituzioni internazionali. Basti pensare all’indebolimento dell’ONU; e si potrebbe continuare con un lungo elenco. In un mondo in cui è la “forza del mercato” ad imporre il suo ordine, e la “borsa” a dettare indicazioni anche ai politici, è urgente che ritorni in tutta la sua forza una politica informata dalla dimensione dell’etica, che faccia cioè dell’uomo il centro della sua azione. La difesa dell’uomo e dei suoi diritti è un imperativo che nasce direttamente dalla nostra fede. Paul Ricoeur, noto filosofo contemporaneo, commemorando la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo, richiamava i cristiani ad assumersi la loro responsabilità in questo campo. Egli sottolineava la capacità che essi hanno di legare «l’essere nati liberi e uguali», come dice la Dichiarazione, con «l’essere tutti creati figli di Dio», e «a sua immagine». E qui, sosteneva il filosofo, l’essere creati ad immagine di Dio comporta da sé il riconoscimento e l’accettazione della eguaglianza e della diversità, appunto perché Dio, nel suo intimo è Trinità, persone diverse ma eguali nella 61
dignità. E la comunione è un’azione continua di tutti. La fraternità non è scontata, è da costruire. Insomma, l’antropologia cristiana, basata sul mistero trinitario, offre non poche ragioni per la difesa degli uomini e dei loro diritti. Lo straordinario sviluppo della scienza e della tecnica, se privato della dimensione etica e umanistica, non rischia di portare al tramonto dell’umanità? Non sta affacciandosi quella prospettiva che alcuni chiamano “postumano”? Insomma, come legare scienza e tecnica con etica e umanesimo? Finite le utopie, sono salite in cattedra la Scienza e la Tecnica, divenute la «sola religione dell’avvenire» (Francois Raspail). In effetti, la logica scientifica ha scalzato gli altri “saperi”, assumendo il compito di unica custode della verità. Suonano gravi ancora oggi i moniti di Hans Jonas e di Martin Heidegger. Il primo – con un piccolo opuscolo – avvertiva che la crisi ecologica ci stava portando sull’orlo dell’abisso. E Heidegger, convinto che «ormai solo Dio ci può salvare!», sosteneva: «ci resta, come unica possibilità, quella di preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all’apparizione del Dio o all’assenza del Dio del tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo) […]. Noi non possiamo avvicinarlo (Dio) col pensiero, siamo tutt’al più in grado di risvegliare la disponibilità dell’attesa». Il filosofo tedesco non si riferiva al Dio della fede e la critica riguardava il predominio assoluto della “Scienza” e della “Tecnica” che mettono in questione la centralità dell’uomo. 62
Oggi, il tema si ripresenta in tutta la sua forza: l’uomo può essere scomposto e manipolato in ogni sua minima componente, nelle sue strutture senso-motorie, neuro-cognitive, e genetico-evolutive. Tale possibilità di manipolazione apre orizzonti nuovi e imprevedibili. E si richiede una nuova e profonda riflessione se vogliamo saper “dominare” nel modo più adeguato le incredibili prospettive che si aprono davanti a noi. Diversi autori ne hanno avvertito la tragica deriva qualora siamo privi di un pensiero etico e umanistico adeguato. Jurgen Habermas33, Paul Virilio34, Jacques Ellul35 e Jeremy Rifkin36, sono solo alcuni tra coloro che mettono in guardia dai rischi di una tecnica privata di un pensiero morale e religioso e comunque umanistico. Ci troviamo di fronte a una rivoluzione della biotecnologia che ci obbliga a riconsiderare attentamente i nostri valori più profondi e ci costringe a porci di nuovo seriamente la domanda fondamentale sul significato e sullo scopo dell’esistenza sia dell’uomo che della creazione. Tutti gli aspetti della nostra realtà individuale e di quella parte della vita che dividiamo con gli altri saranno toccati e seriamente modificati nel secolo della biotecnologia (Rifkin). Jean-Claude Guillebaud richiama la gravità del tempo presente, ormai fuori della dialettica tra modernità e tradizione, tra laicità e clericalismo, tra democrazia e totalitarismo. La rivoluzione tecnologica e quella antropologica rendono possibile, a suo parere, la decostruzione stessa dell’umano così come lo abbiamo sino ad ora conosciuto. È in questione il principio stesso di umanità: l’uomo diventa maestro e creatore di se stesso. Fanno riflettere le 63
riflessioni di un acuto filosofo italiano, Aldo Schiavone, nel volume Storia e destino37, un testo che vuole essere, come recita il sottotitolo, il manifesto di un nuovo umanesimo. Scrive: «Ci stiamo dirigendo verso una storia della vita orientata dall’intelligenza e non più dall’evoluzione. Siamo sul punto di staccare completamente l’umano dalla materialità della specie. È in atto una sorta di grandioso “effetto eversivo”: la pressione evolutiva ha finito con il selezionare una cultura capace di sostituirsi con la propria tecnica alla stessa selezione naturale che l’aveva prodotta». E aggiunge nel suo ragionamento sulle prospettive future: «Credo che la generazione cui appartengo e quella dei suoi figli saranno fra le ultime a fare i conti con l’esperienza della morte […]. L’ingegneria genetica potrà presto prolungare quasi definitivamente le nostre possibilità di vita biologica e, dall’altro, che si moltiplicheranno stadi intermedi nei quali sarà possibile mantenere le funzioni di un pensiero e di una personalità individuale entro strutture parzialmente o totalmente extrabiologiche, che conserveranno ben poco del nostro piano anatomico». Il filosofo a questo punto si chiede: di fronte a questo scenario di cosa abbiamo bisogno? E la risposta: di un nuovo umanesimo. E mi sento interpellato, come cristiano, dal suo forte richiamo biblico sull’uomo come imago Dei. Per Schiavone, tale rassomiglianza tra l’uomo e Dio si potrebbe riferire «all’umano come progettualità e come sviluppo […]. Somigliare a Dio non sarebbe insomma per l’uomo la condizione di partenza (questo farebbe ricadere in un creazionismo del tutto implusibile), ma la stazione di arrivo […] ciò che potremmo chiamare – se ci 64
muovessimo su questo piano – non più laicamente il nostro destino, ma religiosamente la nostra prospettiva escatologica». Schiavone, auspicando un “nuovo umanesimo” vuole evitare uno sbilanciamento fra una scienza e una tecnica sempre più potenti, e una politica, un’etica, un diritto, sempre meno capaci di offrire una cornice di regole mature ed adeguate in grado di assicurare trasparenza e controllo sulle procedure e i risultati della ragione scientifica. È consapevole che «stiamo correndo oggi rischi enormi» e sostiene che non si esorcizza la potenza della tecnica mettendo paletti e confini alla libera ricerca, bensì accrescendo il senso e gli strumenti della responsabilità dell’uomo. E auspica che i credenti intervengano assieme alla cultura umanistico-laica nello sforzo culturale che riequilibri il potere della tecnica con quello dell’etica. Si tratta di frontiere che richiedono nuove riflessioni e nuovi approfondimenti. La “scienza” è pronta a fare un enorme salto di qualità attraverso l’intervento diretto sulla vita dei singoli e delle future generazioni. Essa promette un allungamento indeterminato della vita fino al suo limite, fino alla immortalità. Ed è ovvio che di fronte a tali promesse, alcuni si chiedano se sia ragionevole rinunciare a una vita più lunga e più sana in nome di una supposta “naturalità”. Dobbiamo riflettere attentamente sul fatto che saremo in grado di gestire tecnicamente tutte le variabili legate alla generazione umana che sino ad ora erano lasciate alla natura, interpretata come “caso”. È ovvio, allora, chiedersi: se ci sono le condizioni (economiche e tecnologiche) per farlo, perché lasciare la riproduzione alla casualità degli eventi e non affidarla invece nelle 65
mani dei singoli individui? Ma è possibile prescindere dall’etica in un campo come questo? E ancora: lo sviluppo della robotica e dell’integrazione tra uomo e macchina (basti pensare a temi quali l’intelligenza artificiale, ai nuovi progetti delle neuroscienze, e a tutti quei filoni su cui si stanno investendo miliardi nella prospettiva di arrivare a un essere umano più evoluto, perché tecnicamente incrementato) non pongono la domanda circa i termini nei quali oggi si possa parlare di natura? E a seguire: ha senso mantenere un riferimento all’idea di natura in uno spazio pubblico discorsivo, dominato dalla fede nella potenza della tecnica, oppure proporlo in un modo che non sia puramente difensivo? Sono interrogativi le cui risposte non possono essere già prefigurate in un linguaggio che risente profondamente di una cultura immanentistica e scientista, che ha monopolizzato i nostri pensieri e non è più in grado di farci cogliere altre dimensioni della realtà. Ovviamente gli interrogativi sono moto più numerosi e stringenti. Ne aggiungo qualcuno: possiamo rallegrarci per il progetto di una vita senza dolore e senza morte, senza accettare con esso anche la prospettiva di una sopravvivenza senza destinazione e senza senso? Come rimuovere ogni affetto, ogni compassione, ogni slancio d’amore che venga a disturbare la nostra “scientifica” ricerca di benessere? Dovremmo forse accettare di rimanere “stupidi” a riguardo di tutte le domande sul senso, sullo scopo, sul valore e sulla destinazione della vita umana come la conosciamo? Già ora molti pensano che dobbiamo “perfezionare” l’uomo e la specie incominciando a scartare tutti gli 66
individui che mostrano difetti eccessivi o fragilità insormontabili (handicappati, anziani, malati gravi, eccetera). Vuol dire che quando saremo tecnicamente più evoluti la soglia di questa ricerca della perfezione del nostro benessere si alzerà, e vite oggi tollerate diventeranno scarti intollerabili? Possiamo davvero considerare “progresso umano” questa tendenza? Certissimamente no. Anche perché questa tendenza è contro tutto ciò che ha reso grande la nostra civiltà. E porta semplicemente al suo declino. Il fatto è che ora, nell’odierno scenario globale, questa tendenza è dannosa per l’intera cultura umana. E sempre meno capace di combattere le culture dei sacrifici umani e dei poteri dispotici. Dentro una società sempre più competitiva che auspica individui sempre più potenziati, in grado di essere all’altezza della “perfezione” delle macchine tecnologiche che sta fabbricando, è impossibile non scorgere l’eco profonda di un radicato darwinismo sociale, dove nessuno spazio possa essere riservato alle nuove generazioni, a quei “neoi” che portano la novità della vita in un mondo sovrappopolato da “immortali” che fingono di essere degli dèi. Resta da chiedersi se possiamo davvero comprendere la sfide che ci stanno di fronte rimanendo dentro l’orizzonte linguistico e culturale delle tecnoscienze, o se invece non abbiamo bisogno anche di una “conversione” delle nostre menti e del nostro linguaggio aprendoci a orizzonti più ampi, capaci di collocare al loro giusto posto tutte le potenze plasmatrici dell’uomo. In questa situazione “siamo tutti imbarcati”, per esprimerci con le parole di Blaise 67
Pascal, e siamo chiamati a un nuovo senso di responsabilità per costruire sempre più vaste aree di alleanze tra le persone, le culture, le religioni, le prospettive etiche. Se vogliamo rispondere a ciò che per troppo tempo abbiamo chiamato con il termine “sfida”, non è in primo luogo ad una battaglia cui dobbiamo pensare, bensì ad una costruzione, anzi ad una “riedificazione”, dell’umano: in questo compito non ci sono prima di tutto dei nemici da individuare, ma dei compagni di strada con cui dividere un percorso. Più in profondità, occorre comprendere – e comprendere non significa sempre condividere – le laceranti contraddizioni in cui vive l’uomo contemporaneo. Per questo motivo si possono ricordare qui le parole di Papa Francesco: «Io vedo con chiarezza che la cosa di cui la Chiesa ha più bisogno oggi è la capacità di curare le ferite e di riscaldare il cuore dei fedeli, la vicinanza, la prossimità. Io vedo la Chiesa come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto. Curare le ferite, curare le ferite […]. E bisogna cominciare dal basso»38. Il cristianesimo (ma anche l’ebraismo o, se si vuole, l’intera tradizione monoteista) è un umanesimo che si realizza esaltando l’uomo e la sua dignità. Il sociologo ebreo francese Shmuel Trigano, esprime bene questa tesi nel volume dal significativo titolo: Le monothéisme est un humanisme. È nota la frase della Mishnà ebraica, codificata da Maimonide: «Chi salva un uomo salva il mondo intero». Ma è poco noto come la si ritrovi anche nel 68
Corano: «Chiunque ucciderà una persona […] è come se avesse ucciso l’umanità intera. E chiunque avrà vivificato una persona sarà come se avesse dato vita all’umanità intera»39. Il mondo cambia, quando un uomo si imppegna a salvare un altro uomo. Il valore di una vita non è economico: anche una sola vita vale una lotta, e la lotta per una sola vita travalica i confini di quell’esistenza. Un uomo cambia se si mette a salvare un altro: il mondo comincia a cambiare. La fraternità, con cui abbiamo aperto il dialogo, non si traduce in un invito a percorrere quella che lei chiama “la via dell’amore”? Credenti di ogni religione e umanisti di diversi orientamenti possono percorrere una via che li conserva nelle loro identità e appartenenze ma che in qualche modo li unisce? All’inizio abbiamo riflettuto sulla fraternità come il grande orizzonte che tutto raccoglie. Quale la via da percorrere? La “Via dell’amore”, Via amoris. Tutti possono percorrere. Splendida è questa pagina di Guglielmo di Saint-Thierry: «Dunque la vista, naturale luce dell’anima per la visione di Dio, creata dall’autore della natura, è la carità. In questa vista due sono gli occhi, sempre palpitanti di una sorta di tensione naturale verso la visione della luce che è Dio: l’amore e la ragione. Se uno dei due opera senza l’altro non avanza di molto. Invece possono molto se si soccorrono a vicenda […]. Ed essi si affaticano grandemente ciascuno a suo modo, per il fatto che uno dei due, la ragione, non può vedere Dio se non in ciò che egli 69
non è, mentre l’amore non acconsente a riposare se non in ciò che Egli è […]. La ragione ha certi suoi cammini sicuri, sentieri dritti sui quali procede; l’amore per contro avanza di più, grazie a ciò che ha smarrito, apprende di più per la sua ignoranza […]. La ragione possiede una maggiore sobrietà, l’amore conosce una maggiore beatitudine. Ma se come ho detto si soccorrono a vicenda, se la ragione istruisce l’amore e l’amore illumina la ragione, se la ragione si converte in amore e l’amore acconsente a lasciarsi trattenere entro i confini della ragione, essi possono fare qualcosa di grande». È una via larga, la via amoris. La storia biblica presenta Dio come fonte d’amore. Il termine usato nel linguaggio biblico è agape, parola usata pochissimo dalla cultura greca che preferiva eros e philia. Con il termine agape si introduceva una nuova e impensata concezione dell’amore: un amore che non si nutre della mancanza dell’altro (eros) e nemmeno semplicemente si rallegra della sua presenza (philia), ma, appena concepibile dagli uomini, trova il suo modello culminante nel Calvario di Cristo: amore disinteressato, gratuito, perfino ingiustificato, perché continua ad agire – ed è il meno che si possa dire – al di fuori di ogni reciprocità. Esso perciò può sintetizzare tutta la vicenda biblica: Dio “scende” sulla terra per amare gli uomini. L’agape è un’energia che viene dall’alto, da Dio stesso. Anzi, è Dio stesso come scrive Giovanni: «Dio è amore». Il cristianesimo – in questo si differenzia dagli altri credo – più che religione che divinizza l’uomo, è la religione di un Dio che per amore si fa uomo. Gesù crocifisso è l’esito paradossale ma necessario di questo 70
itinerario; necessario per la tenerezza e la pietà del Dio antropomorfo veterotestamentario, che conosce e patisce gli stessi turbamenti dell’uomo creato a sua immagine e somiglianza, che è con lui “nella tribolazione”, che gli “rifà il letto quando è malato”, che lo accompagna sino alla fine dei giorni. È senza paragone la più perfetta pietà di un re che per consolare un amico si fa povero accanto a lui, della pietà di un re che per consolarlo lo innalza alla sua ricchezza. È il Dio che “ha tempo” per l’uomo, tanto che il suo curriculum vitae, si potrebbe dire per riprendere una frase di Hegel, è appunto il pellegrinaggio nella storia degli uomini quasi che, senza il completamento di questa storia, anche Dio non è “completo”. Nella tradizione cristiana l’agape è la sostanza della vita del credente; essa è superiore a tutte le virtù e ne costituisce il cuore. Per gli antichi pensatori cristiani «l’agape è Dio stesso che si comunica al mondo […]. L’amore di Dio è infinitamente gratuito: da qui il senso di stupore, da qui l’accento di lode che ha la pietà dei primi fedeli che hanno accolto il dono di Dio. L’amore di Dio è divinamente efficace: rinnova il volto del mondo. Un senso di freschezza e di libertà e di forza incontenibile, di gioia prorompe da questi cuori nei quali inabita Dio. Soprattutto l’amore di Dio si rivela nell’universalità di una salvezza che è offerta a ciascuno, che anzi già in qualche modo raggiunge gli estremi confini, e non salva più soltanto qualcosa, ma ogni cosa, perfino la carne nella promessa della risurrezione futura». Non c’è nulla al di sopra dell’agape: né la profezia della tradizione ebraico-cristiana; né l’ineffabile lingua degli angeli, quella che estasiava i Corinzi; e 71
nemmeno la speranza; e neppure la conoscenza, la quale in questo mondo è così misera, sì che conosciamo Dio solo confusamente, come attraverso uno specchio, dentro “enigmi”. L’amore è superiore persino alla fede. Cristo ha detto: «Se avrete fede quanto un granellino di senape potrete dire a questo monte spostati da qui a lì, ed esso si sposterà. Niente vi sarà impossibile»40. E san Paolo con incredibile capovolgimento: «Se avessi tutta la fede tanto da poter trasportare i monti, ma non avessi l’amore, non sarei nulla»41. Tutto passerà, anche la fede e la speranza. Al termine resterà solo l’amore. È dottrina cristiana, ma il suo riverbero tocca ogni religione. La mistica islamica Rabi’a bint Isma’il Adawiyya (ca. 717-801) prega: O mio Dio, se ti adoro per timore dell’inferno, bruciami nell’inferno; e se ti adoro per la speranza del paradiso, escludimi dal paradiso; ma se ti adoro unicamente per te stesso, non mi privare della tua bellezza eterna.
Nell’amore c’è già tutto. Certo, si può parlare di amore laico e di amore religioso, di filantropia e di amore sacro. Il dibattito ha attraversato i secoli, in particolare gli ultimi, quando (per fare un solo esempio) i termini “filantropia” e “solidarietà” vennero creati esplicitamente in opposizione 72
alla “carità” cristiana. Era l’ideologia (con l’inevitabile alto tasso di polemica) a dividere, più che la sostanza delle cose. L’amore, in certo modo, è sempre amore di Dio, magari in gradi ed evidenze diverse. Gilson, a proposito del pensiero medievale, scrive: «L’amore umano […] è sempre solo una partecipazione finita all’amore che Dio ha per se stesso: persino nei piaceri più bassi, persino nell’esaurimento della voluttà, ancora e sempre egli cerca Dio; diciamo di più, Dio stesso si cerca in lui, per sé. Così […] il fine dell’amore umano ne è anche la causa». Manifestazione peculiare dell’amore è quella che spinge a piegarsi verso i deboli, i malati, gli esclusi, gli indigenti, i poveri. Questa “via” è davvero “santa” nel senso più ampio del termine. Essa comporta un’energia interiore che sfocia sempre nell’Altro. Mai permette di chiudersi in se stessi, perché è sempre “oltre”. È la vera energia di libertà. Costringe, se la si pratica, ad andare oltre se stessi, oltre il proprio clan, persino oltre la stessa appartenenza religiosa, anche quella cristiana. Basti pensare alla pagina evangelica di Matteo 25, chiamata anche il “Vangelo dei non credenti” (c’è da notare che spesso nei Vangeli Gesù porta ad esempio persone estranee alla religione ebraica, spesso anche nemiche). L’evangelista scrive esplicitamente che colui che offre il bicchiere d’acqua è un non credente; eppure proprio lui, mentre professa davanti a Dio la sua non credenza, si sentirà ripetere: «quello che hai fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli l’hai fatto a me». In questa via amoris tutti possiamo ritrovarci, credenti in Dio e credenti solo religiosi, credenti laici e non credenti affatto. Ovviamente, non ci si ritrova per caso, 73
ma per scelta; ed è una scelta talora impegnativa, mai comunque banale. L’istinto (come fidarsi?) è tirare dritti per la propria via, quella dell’individualismo; conosciamo bene quanto sia attuale la parabola del Buon Samaritano. L’amore (quello per i poveri) è una scelta. Questo amore è come quel cielo che sta sopra qualsiasi muro. Per i credenti ha un nome, Gesù di Nazareth; per chi non crede forse è senza nome, ma sempre cielo è. L’amore è il presente assoluto, ed è anche l’assoluto futuro. Alla fine, quando tutto terminerà, non ci sarà più nessuna virtù umana, nessuna divisione: ci sarà solo l’amore.
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Capitolo terzo
Incontro con l’Islam. Conversazione con Salah Ramadan (Imam della grande moschea di Roma)
Il dialogo interreligioso dovrebbe partire, oggi, prima di tutto, dai valori “trascendenti”, il primo dei quali è che siamo tutti creature di un Dio unico Creatore. Su questo si fonda il concetto di “unità” degli uomini. Ma tra essi c’è “diversità”: di etnia, di lingua, di fede, di scelta della fede. Come conciliare le due realtà? Uguaglianza vuol dire uniformità? Il Corano è la parola di Allah, rivelata a Muhammad (su di lui la pace e la benedizione di Allah): il profeta, il messaggero, l’inviato da Allah: l’Altissimo, il nome più grande di Dio assoluto (Dio ha novantanove nomi), Creatore del mondo, conoscitore di ogni cosa. Attraverso i profeti, questa parola arriva a noi. Pertanto, il Corano deve essere compreso bene fino all’ultima parola, perché in esso Allah ha dato le risposte a qualsiasi nostra domanda; e ce le ha date per il futuro: per il giorno del giudizio. 75
C’è un versetto della “Sura” 49 (il versetto 13) in cui si parla della “diversità”, secondo la quale Allah ha creato il mondo. Egli ha distribuito i suoi beni, i suoi benefici fra tutti i popoli: a un popolo ha dato una cosa, a un altro un’altra cosa. (Per esempio, parlando in generale: i Greci erano un popolo di filosofi, più portato alla teoria. I Romani, invece, erano più pratici, pragmatici: un popolo che ha messo in pratica le teorie dei Greci, specialmente nel campo politico). Nell’Islam, pertanto, la “diversità” è una “misericordia”, un “merito”: proprio perché diversi, infatti, ogni popolo ha bisogno di un altro, scambiandosi vicendevolmente ogni bene, ogni merito; ogni cosa, insomma. La “diversità” è ricchezza: giova, non danneggia. Il versetto 13 della “Sura” 49 parla, appunto, della necessità di questo scambio. Esso dice: «O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù, affinché vi conosceste a vicenda. Presso Allah, il più nobile di voi è colui che più lo teme. In verità Allah è sapiente, ben informato». Dicendo «o uomini», ci si riferisce a “tutti” gli uomini, all’intera umanità. «Abbiamo fatto di voi popoli e tribù»: cioè, una “varietà”, una “diversità” di popoli e tribù. «Affinché»: la diversità è uno scopo. «Vi conosceste a vicenda»: scambiandovi, appunto, ogni cosa. «Allah è sapiente e bene informato»: Allah è l’unico giudice per giudicare i cuori; per giudicare chi ha agito bene e ha costruito, e chi ha agito male distruggendo. 76
Il recente Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato dal Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb e da Papa Francesco pone l’attenzione sul concetto di “fratellanza”. La fratellanza si basa sul fatto che (come si è detto) tutti siamo stati creati da Dio. Davanti a Dio, pertanto, siamo tutti uguali, tutti abbiamo la nostra dignità. Nel Corano si dichiara che riguardo alla fede non si deve e non è giusto costringere nessuno. Allah ha dato un ordine preciso al suo inviato Muhammad (su di lui la pace e la benedizione di Allah). Gli ha detto: «Tu non sei che un ammonitore»42: sei un profeta, un messaggero che annuncia la parola, onestamente (Muhammad – su di lui la pace e la benedizione di Allah – è un profeta lodato da Allah come persona di alta moralità); fai in modo che questa parola arrivi alla gente: questa è la tua missione; ma non hai l’autorità o il potere di “costringerla” ad avere la fede. Allah dice nel Corano: Se il tuo Signore volesse, tutti coloro che sono sulla terra crederebbero. Sta a te costringerli ad essere credenti?43.
Ripeto, sulla terra noi non abbiamo nessuno che sia giudice del cuore; e la fede è una questione di cuore, rispetto alla quale, nessuno può giudicare. Noi musulmani siamo “invitati” dal Corano solo a portare la parola di Allah. “Invitare” è la parola appropriata: quando io ti invito, infatti, tu puoi accettare l’invito, o rifiutarlo. Il musul77
mano, quindi, è anche lui un “annunciatore” della verità: uno che spiega la verità a chi viene per conoscerla. Noi musulmani “mostriamo” alla gente la verità, onestamente; la gente, poi, farà la sua scelta. Non si può costringere nessuno. Si può costringere, per esempio (come capita sul nostro pianeta), a lasciare la casa, il lavoro o i soldi, ma non ad accettare un’altra fede. La fede (ripeto) è qualcosa che risiede nel cuore: come si fa ad entrare nel cuore? Chi dice il contrario, non dice una cosa vera, né giusta. Il Corano parla di amore di Dio per chi lo teme e lo ama. Ma c’è anche l’amore per l’altro, per il prossimo? Chi è, per l’Islam, l’altro, visto che, oltre ad essere tutti creature di Dio, discendiamo da Abramo? E prima da Adamo. Attraverso i profeti che Allah ha mandato per il mondo per riformare il mondo, Allah nel Corano dice che nella fede i cristiani e gli ebrei sono più vicini ai musulmani, perché tutte e tre le loro religioni sono religioni “rivelate”: attraverso i profeti Mosè, Gesù, Muhammad (pace di Dio su tutti loro), Allah ha rivelato la sua parola. Sono le tre religioni “abramitiche”, discendenti, cioè, da un padre solo: Abramo, il padre di tutti i profeti (come è nel Corano e nella tradizione islamica). Egli è una grande “figura” della fede sincera, giusta, in un Dio unico; ed è “guida” verso questa fede. Quindi, queste tre religioni monoteistiche hanno una sola fonte comune. Per questo esse sono “vicine”. Più specificamente, poi, per l’Islam l’altro è tutta l’umanità. 78
L’arcangelo Gabriele (pace su di lui) ha raccomandato al profeta di trattare bene il vicino di casa. Muhammad (su di lui la pace e la benedizione di Allah) lo ha fatto. Quando stabilì i diritti sociali (attraverso i quali le persone devono comportarsi bene vicendevolmente), disse che il vicino di casa deve avere il diritto al rispetto, alla sicurezza. Chi non dà al vicino di casa il rispetto, e non lo mette al riparo dalla malvagità, non ha una fede giusta: quella che Muhammad (su di lui pace e benedizione di Allah) ha inculcato nel cuore. Il Corano stabilisce quasi un legame di sangue tra gli amici. Per i musulmani veri, danneggiare il vicino (che sia il vicino di casa, o del lavoro, o di ogni altro tipo) attira la maledizione di Dio. Da quanto abbiamo detto fino adesso, discende un altro principio sul quale dovrebbe basarsi il dialogo interreligioso: il rispetto della vita, che è sacra; la condanna della violenza. Sia il Corano che il profeta condannano la violenza. Noto è, al riguardo, il versetto 32 della “Sura” 5, che segue il racconto di Caino e Abele: «Per questo abbiamo prescritto ai Figli di Israele che chiunque uccida un uomo, che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera. E chi ne abbia salvato uno, sarà come se avesse salvato tutta l’umanità». Può una religione (qualunque religione) alimentare i conflitti? 79
No, assolutamente! Il crimine più grave, tale da avere una punizione severa, è uccidere. Secondo l’insegnamento del Corano e del profeta, è un crimine grave che conduce all’Inferno, eternamente: chi uccide, deve sapere che nel giorno del giudizio Allah punirà (appunto, con l’Inferno eterno) chi ha ucciso. Pertanto, il musulmano (il vero musulmano) non pensa mai ad uccidere, perché sa che uccidere provoca l’ira di Dio. Perché, allora, alcuni lo fanno? Non sono musulmani. Essere musulmani è un’altra cosa. Io non posso analizzare perché lo fanno. So solamente che uccidere non è da musulmani. Chi dice che lo si può fare, dice una grande bugia. La vita umana è sacra. La più importante creatura sulla terra è l’essere umano. Allah lo ha creato perché costruisca, non perché sia distrutto. Spostiamo il discorso su temi più profondamente umani, sui quali fondare il dialogo non solo tra le religioni, ma fra tutti gli uomini. Fra questi, la sofferenza. Nella “Sura” 2, si legge: «Sicuramente vi metteremo alla prova con terrore, fame e diminuzione dei beni, delle persone e dei raccolti. Ebbene, dà la buona novella a coloro che persevereranno, – coloro che quando li coglie una disgrazia dicono:“Siamo di Allah e a lui ritorniamo”. – Quelli saranno benedetti dal loro Signore e saranno ben guidati»44. 80
Ho letto che i musulmani pronunciano le parole: «Siamo di Allah e a lui ritorniamo» ogni qualvolta sono messi di fronte alla morte o a una disgrazia. Cosa è, cosa rappresenta per uno di fede islamica la sofferenza? È una fatalità? Noi musulmani, come crediamo in un Dio unico e nei suoi angeli, crediamo anche nel destino e nel fato, nel senso che tutto ciò che avviene nella nostra vita, avviene per volontà di Dio, perché si possa compiere la volontà di Dio. In tutto ciò che ci capita, Allah ci mette alla prova: vuole esaminare la nostra pazienza. Quando ci capita una disgrazia, non dobbiamo viverla come un male. Dobbiamo, invece, ringraziare Allah, perché (come dice il Corano e il profeta) anche nella disgrazia c’è un bene, sempre. Noi forse non lo vediamo: noi siamo deboli, e la nostra vista è limitata. Ma Allah ci dà la saggezza attraverso gli eventi dolorosi. Di fronte alla disgrazia, dobbiamo avere la pazienza; e anche la gratitudine, come l’abbiamo nei momenti belli. Allah ci dà la ricchezza e tutte le possibilità per fare il bene agli altri. Abbiamo il coraggio di dare? Ma quando ci colpisce la povertà, la malattia, la perdita di una persona cara, abbiamo il coraggio di avere pazienza di fronte ad esse? Pazienza e gratitudine dobbiamo averle sia nei momenti felici che in quelli tristi. Per questo nel versetto della “Sura” sopra ricordato si dice: ma tu porta un lieto annuncio a quelli che persevereranno, a quelli che hanno la pazienza di subire il dolore, senza arrabbiarsi contro la volontà di Dio. Invece, dobbiamo sempre lodare Dio, nei momenti felici e tristi. 81
Ci riusciamo? Dobbiamo avere la forza. Dobbiamo avere la fede. Appunto, nel versetto su citato (e come anche lei ha ricordato) si legge che quando capita una disgrazia, dobbiamo dire: «Siamo di Allah e a Lui facciamo ritorno». Quelli che dicono così, saranno benedetti dal loro Signore; saranno calmati, perché Allah dà loro la pazienza. E saranno ben guidati. Dobbiamo avere fede. Dobbiamo anche realizzare che la nostra vita terrena non durerà, e che l’altra vita è (come dice il Corano) la vita vera che durerà in eterno. Creature di Dio, fratellanza, sacralità della vita, sentimenti profondamente umani: su questi temi che abbiamo discusso fino ad ora, il dialogo interreligioso si costruisce più facilmente, essendo temi universali. Ma quando il dialogo si sposta sul terreno dei “diritti” umani, esso trova (può trovare) delle difficoltà, perché si scontra con tradizioni, culture, fedi differenti, identità nazionali. Eppure, i diritti umani (almeno quelli fondamentali come la libertà, la giustizia sociale, la pace) dovrebbero essere, ormai, acquisiti per sempre, senza più bisogno di discuterli, perché riguardano anch’essi l’integrità dell’essere umano. Qual è il rapporto dell’Islam con i “Diritti umani”? Un esempio chiaro riguardo a questo argomento, ci viene dato proprio dal profeta Muhammad (su di lui la pace e la benedizione di Allah). 82
Quando dalla Mecca arrivò a Medina, vi trovò gente diversa l’una dall’altra: ebrei, cristiani, musulmani, pagani. Allora scrisse un documento45 che possiamo considerare un modello di “documento umanitario”, precedente le moderne “Dichiarazioni”. Egli stabilì, oltre alla libertà riguardo alla fede, un concetto di cittadinanza non basato sulla religione, o sul colore della pelle, o sulla lingua, ma sull’uomo, sulla uguaglianza fra tutti, e sulla sicurezza di vita. Solo chi danneggia lo Stato deve essere giudicato secondo le leggi. Proclamando la parola di Allah, il Profeta ha ammonito la gente – musulmani o non musulmani (come dicevamo) – che nel giorno del giudizio, ognuno dovrà rendere conto delle sue azioni: chi avrà fatto il bene, riceverà il bene; chi avrà fatto il male, riceverà il male da parte di Allah. Quindi, dobbiamo stare attenti. In questo documento egli ha stabilito un’assoluta libertà di fede, di vita, di cultura, di commercio. L’unica condizione è quella di essere un cittadino buono. Nella tradizione islamica, questo è sicuro esempio di comportamento. Il problema, oggi, è che manca una conoscenza precisa dell’Islam. Sono d’accordo! Dicevamo all’inizio che il Corano, essendo la parola di Allah, deve essere compreso bene fino all’ultima parola. Invece, c’è molta ignoranza (nel senso proprio di “non conoscenza”) di esso. Bisogna conoscere per evitare pregiudizi ed errori. Sì! Bisogna essere informati da una “autorità”. Molti “credono” di avere tale autorità; credono di poter par83
lare dell’Islam. Indubbiamente, essi hanno la fede, pregano: tutto questo è bene. Ma c’è un libro semplice, ma profondo, rivelato da Dio nella lingua araba. Una persona può essere araba, ma se non conosce bene la lingua araba, non può interpretare il Corano in modo giusto e preciso. Se siamo ammalati, andiamo dal medico. Quindi, è un grande sbaglio farsi guidare da qualsiasi persona che vuole spiegarci un libro così profondo. Dobbiamo andare da chi può farlo in modo giusto: da una persona specialista. Come ogni altro testo sacro, il Corano va compreso e meditato. Noi arabi lo leggiamo in continuazione, per capirlo sempre di più e meglio. Il culto islamico ordina al musulmano (specialmente durante il Ramadam) di recitare il Corano. Vi è scritto, infatti: «Lo giuro per il declino delle stelle e questo è giuramento solenne, se lo sapeste che questo è in verità un Corano no bilissimo, [contenuto] in un Libro custodito che solo i puri toccano. È una rivelazione del Signore dei mondi»46. Qualche volta gli interpreti, invece di “nobile”, dicono “generoso”, perché il Corano “dona” sempre nuove conoscenze, nuove informazioni; rivela sempre nuove profondità. Esso – dicevamo – è un Libro “semplice” per le persone che hanno avuto un’educazione semplice, ma anche ricco e profondo per quelli che vogliono navigare nelle sue acque. Ed è un mare ricco, perché è 84
la parola di Allah: una parola perfetta, capace in ogni tempo (lo abbiamo detto) di dare soluzione a qualsiasi problema dell’uomo. Il musulmano, proprio perché ha il compito di far conoscere quella parola, deve interpretarla correttamente, onestamente, “responsabilmente”. Allora, Allah lo ricompensa “generosamente”, in questa vita e nell’altra. I diritti umani fondamentali sembrano spostare l’attenzione piuttosto sul terreno della “morale” che su quello di una “visione religiosa” della vita. Nel discorso di addio prima di morire (nell’ultimo pellegrinaggio), il Profeta (su di lui la pace e la benedizione di Allah) ha fatto un discorso a tutta l’umanità, nel quale ha detto che è severamente proibito spargere il sangue, aggredire, distruggere i beni degli altri; anzi, bisogna ritenerli sacri. Tutti dobbiamo agire moralmente, insomma (anche il non credente). Ma le chiedo: si può parlare di morale in senso pieno, senza una visione religiosa della vita? I diritti umani sono da fondare su questa? Una moralità profonda deriva sempre dalla rivelazione divina. Tutte le civiltà hanno una base che si lega al cielo, hanno un rapporto con il cielo. Nella storia delle civiltà, ci sono stati i Profeti: Giacobbe, Giuseppe, Mosè, Gesù, Muhammad (pace di Dio su tutti loro), che hanno portato agli uomini la Rivelazione, sulla quale si sono fondate le civiltà principali del mondo. C’è sempre la luce, dove c’è 85
un profeta: la luce della “conoscenza”, della “coscienza”, della “pace”. Se ci stacchiamo da questa luce (che è luce divina), perdiamo la via giusta. Il dialogo interreligioso si fa urgente anche su un altro terreno: quello dei problemi della società. Parliamo di due di essi: la globalizzazione e la difesa dell’ambiente. Come si pone l’Islam di fronte alla “globalizzazione”? La globalizzazione è concetto islamico. – Il versetto 13 della “Sura” 49 (già ricordato) dice che Allah ci ha creati tutti diversi, affinché ci conoscessimo a vicenda. Questa è la globalizzazione: uno scambio di culture, di valori profondamente morali, e anche di beni materiali. È rispondere l’uno ai bisogni dell’altro, completarsi a vicenda: io ho un bisogno, lei ne ha un altro: scambiamoci questi bisogni. Pertanto, la globalizzazione è fondata sulla “giustizia”, sul “rispetto” reciproco, sulla “convivenza”, sulla “pace”. Consideriamo l’altro problema: la difesa dell’ambiente. Credo che nessuna “Sura”, al riguardo, sia più bella e significativa della “Sura” 16: “L’ape”, in cui si invita l’essere umano a praticare il culto divino, perché Dio ha creato ogni cosa. Non conosco la lingua araba, ma so che il termine “Taqwā” indica proprio il timore rispettoso verso Dio, Creatore di tutto. 86
Tutto l’universo è “dono” di Dio: non dobbiamo danneggiare ciò che Allah ha fatto buono e puro: «Riempite la misura e date il giusto peso, e non danneggiate gli uomini nei loro beni. Non corrompete la terra, dopo che Allah la creò pura: ciò è meglio per voi, se siete credenti»47. Parole chiare, che dicono chiaramente che tutto ciò che è stato creato non deve essere danneggiato. Nella tradizione islamica si dice che la fede contiene settanta “branche”: la più alta è: credere in Allah, Dio unico, creatore assoluto del mondo. Ed è anche la più semplice. Un vero musulmano, quando trova per strada qualunque cosa possa fare del male a una persona che passa per quella strada (un chiodo, un pezzo di vetro o di ferro), ha il dovere di toglierla. L’Islam non è una fede o una religione che si svolge solo dentro la moschea. È una religione di vita. Il musulmano deve essere una fonte di bene: non deve “corrompere”, ma aiutare, fare del bene, anche togliendo dalla strada piccoli oggetti che possono ferire.
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Appendice
Israele e Islam. (Conversazione con Pietro Citati)*
Nel 374, san Girolamo si stabilì nel deserto di Calcide, in Siria, per condurvi vita eremitica. In quella vasta solitudine nella quale si era condannato «per timore della geenna», in compagnia di scorpioni e di belve, la sua mente «bruciava per i desideri», «gli incendi della passione ribollivano». Ogni giorno piangeva, gemeva, digiunava, pregava davanti a burroni profondi e rocce a precipizio. E leggeva, e studiava: non poteva rinunciare, come gli altri eremiti, alla cultura: non era quella l’ascesi; ed egli praticò con straordinario impegno l’una e l’altra. Con fatica e difficoltà imparò l’ebraico alla scuola di un ebreo convertitosi al cristianesimo: fatto eccezionale per la società cristiana di allora «fortemente antisemita» (C. Moreschini), ma per noi ammirevole per l’amore indiscriminato verso la cultura. Nel Medioevo, la cultura islamica si aprì all’occidente cristiano: credenze dell’oriente cristiano e del giudaismo * Questa intervista fu pubblicata nella rivista Cultura e libri, Ni 145-146, ottobre 2003 – marzo 2004; pp. 178-181.
passarono, rielaborate, nel mondo musulmano. Alla fine del XIII secolo, ci fu un’intensa attività di traduzioni di opere arabe in latino. Un tempo (scrive Pietro Citati in Israele e Islam – Le scintille di Dio)48, ebrei, musulmani e cristiani rispettavano scrupolosamente le tombe dei profeti, dei re, dei patriarchi; «i viaggiatori percorrevano con meraviglia e spaesamento questo mondo molteplice, dove ciò che apparteneva loro era diventato di altri, che lo veneravano con gli stessi e con altri occhi»49. Nel corso dei secoli, ebrei, cristiani e musulmani si sono odiati e combattuti, ma si sono comunicati, anche, le idee, le tradizioni, l’arte, la letteratura. Cosa li univa? «Avevano lo stesso Dio» – risponde Citati. «Allah, soprattutto, somiglia molto a Jahwe: erano dèi “unici”. Il Dio cristiano è un Dio trinitario, un Dio con una quantità di mediazioni. Poi, ci sono state le infinite tradizioni: tutte la tradizioni raccolte nel Corano sono tradizioni bibliche. Nel Corano c’è Abramo, Mosè, i Patriarchi; c’è Gesù, Maria, ecc. È la Bibbia che unisce tutti». Se il Dio dei cristiani è un Dio trinitario, vuol dire che l’idea della “unicità” di Dio era, per essi, un’idea tremenda che bisognava mitigare? È un’idea tremenda per tutti. È tremendo per tutti avere un Dio solo, o essere soli davanti a un Dio solo. I cattolici arrivano a Dio Padre attraverso il Cristo, lo Spirito Santo, Maria, i santi: è una cosa molto complicata. 90
Insieme all’ idea dell’ unicità di Dio, avvertiamo di Lui anche la sua “lontananza”dall’uomo. Eppure, quando leggiamo Le Confessioni di sant’Agostino, sentiamo che Egli non è poi così lontano. No! Proprio sant’Agostino dice che Dio è «altissimus et proximus», lontanissimo e vicinissimo. Il senso della vicinanza e lontananza di Dio è presente in tutte e tre le religioni. Anche nell’Islam Dio è più vicino della vena del nostro collo. Il Dio dei cristiani, affinché noi potessimo avvertirlo il più vicino possibile, onnipresente nella storia, si è incarnato, velando nella carne la sua divinità, come a coprirne lo splendore. E l’incarnazione ha caratterizzato la civiltà europea. Questo è un caso completamente diverso. L’Incarnazione è soltanto cristiana. Che un Dio si faccia uomo, sia per l’ebraismo che per l’islamismo è un puro orrore; uno scandalo. Come è scandalo la Croce. Come la Croce; ma soprattutto l’Incarnazione. Questo ha contribuito a dividere le tre religioni? Ha contribuito a dividerle e a distinguere il Cristianesimo dalle altre due religioni. Nell’Islam c’è una grande adorazione di Gesù come profeta. Ma l’Islam eredita la tradizione antico-cristiana, secondo la quale Cristo non è 91
salito sulla croce. Sulla croce è salito un doppio di Cristo. Quindi, non c’è stata alcuna crocifissione. Per i musulmani, il Crocifisso fa orrore, perché è la crocifissione del profeta, d’un grande profeta50. Oltre questo, c’è, poi, l’esperienza mistica della conoscenza di Dio. Alcuni saggi del suo libro sono dedicati alla mistica: alla mistica islamica, soprattutto. I testi che lei prende in esame, offrono immagini straordinarie e insieme spaventose: vuoto, desolazione, deserto. Qualcosa di demoniaco possiede il mistico: nel suo tendere verso Dio, egli è fuori dal mondo e dalla condizione umana. È questa la mistica: un grandioso tentativo, che finisce in un fallimento: il tentativo dell’identificazione del fedele con Dio, non può che finire in un fallimento. Quindi, l’ultimo arrivo della mistica è sempre il deserto, la desolazione. Non c’è che questo; e del tentativo restano delle immagini, il ricordo di una grande impresa. La mistica è un’esperienza tragicissima: la più grandiosa e la più tragica delle esperienze religiose. Anche in mistici cristiani come santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce? Certo! Soprattutto in san Giovanni della Croce. Dentro al Tempio di Gerusalemme, nel “Sancta Sanctorum”, «inaccessibile, inviolabile, invisibile, risiedeva lo Spirito di Dio, che non tollerava oggetti né rappresentazioni». Lei ha dedicato un saggio del suo libro alla distruzione del Tempio di Gerusalemme, all’epoca dell’imperatore 92
Tito, nel 70 d.C.51. E ha detto che questa distruzione è stata la più terribile di tutte le tragedie52. Perché? Da allora in poi, gli Ebrei non hanno più un luogo per il rito. Nel Tempio di Gerusalemme si compivano i sacrifici e tutta la ritualità ebraica. Nelle sinagoghe non c’erano sacrifici. Nel Tempio c’era il “Santo dei Santi”, dove Jahwe appariva al sacerdote. Questo luogo è stato distrutto. Nella sinagoga non c’è più l’incontro tra Dio e il sacerdote. In una pagina del suo libro ha scritto: «Un tempo, i saggi uomini politici, come Talleyrand o Metternich, si facevano accompagnare da esperti di teologia: o erano essi stessi eccellenti teologi. Oggi la teologia è disprezzata, o praticata da persone di quart’ordine. Per il bene dell’universo, sarebbe giusto che rifiorisse al più presto»53. Perché? Quali conseguenze potrebbe causare l’ignoranza teologica? Che l’Occidente non conosca la teologia e ne abbia avuto delle conseguenze negative, si è visto con Osama bin Laden: gli Americani e gli Europei hanno creduto che i Wahhabiti, che formavano la religione dominante dell’Arabia Saudita, fossero conservatori, invece sono stati degli iconoclasti terribili che volevano distruggere persino la tomba di Maometto. Tutto è cominciato da questa incomprensione. Mentre leggiamo questo libro di Pietro Citati, siamo presi da un profondo rispetto: gli Ebrei, i Musulmani, i 93
Cristiani sono accomunati da un unico Dio, che si manifesta e si nasconde loro. Mistici ed asceti dell’una o dell’altra religione, hanno tentato tutti di conoscere il suovolto in conoscibile, attraversando l’impossibile. Attraverso i saggi qui raccolti, conosciamo ciò che Ebrei, Musulmani e Cristiani si sono comunicati; e ciò che noi, oggi, non dobbiamo dimenticare, perché dimenticarlo vuol dire dimenticare noi stessi. Citati ci riconduce indietro, ai tempi della distruzione del Tempio, della Diaspora, della nascita dell’Islam; insomma, dov’è il punto d’incontro delle tre religioni. Solo ritornando all’ origine, infatti, potremmo capire le assurdità di oggi, ed evitarle.
94
Conclusione
Per quanto l’uomo possa ritenersi “uomo” nella realtà contingente; per quanto possa vivere la crisi della fede o delle ideologie; per quanto le filosofie (alcune filosofie) abbiano insistito su una visione “illuministica” dell’esistenza; l’uomo non può considerarsi totalmente secolarizzato; non può negare che ci sono valori trascendenti: valori così universali, così fondamentali, così indispensabili, che però non può collocare entro schemi dogmatici, propri delle fedi. Chiunque ha a cuore le sorti dell’uomo (terrene ed ultraterrene), non può irrigidirsi in chiese o in ideologie. «I dogmi della fede non sono cose che si possono affermare. Sono cose da guardare da una certa distanza, con attenzione, rispetto e amore»54. I Libri delle religioni sono libri “sacri” (è stato sottolineato da tutti in queste conversazioni), perché sono la parola di Dio, dalla quale non si può estrapolare un versetto per piegarlo ad altri scopi, generando fondamentalismi, guerre e incomprensioni. Le religioni, pur nella loro diversità, offrono certamente all’uomo una giustificazione al loro comportamento, 95
una guida “etica” alle loro azioni. Per questo è bene che mettano da parte le diversità, e si uniscano in quello che hanno di comune. Siano pure diverse, ma non divise. È stato questo l’intento delle conversazioni qui riunite. Nel campo più strettamente culturale si deve difendere il “relativismo”, cosa che può valere anche per le religioni. Tuttavia, queste sono accomunate dalla fede in un Dio unico. A unirle, sia questa fede. Nell’introdurre queste tre conversazioni, ho ricordato le parole che il Signore vuol far conoscere, per mezzo di Isaia, ai «capi di Sodoma» e al «popolo di Gomorra»: i sacrifici e le preghiere moltiplicate sono inutili, se non c’è il cuore purificato. «Cor mundum crea in me, Deus» [Crea in me, o Dio, un cuore puro]: così canta Davide nel celebre salmo 51 (50): Miserere. Il cuore, dunque. Le religioni, forse, possono incidere poco sui cambiamenti della politica, dell’economia, sulla risoluzione dei tanti problemi materiali dell’esistenza, ma possono farlo nel cuore dell’uomo. Un cambiamento del cuore è sempre, prima di tutto, un cambiamento “etico”; e l’etica – si dirà nasce – sempre dall’incontro dell’io con l’altro, al di là delle religioni. (L’altro, il diverso, il bàrbaros esiste sempre in rapporto all’io). È vero! Ma le religioni, nella loro diversità di dogmi e di orientamenti, possono convergere nel dare un senso a questa esistenza; e possono farlo (ripetiamo) solo nel rispetto reciproco. Il dialogo tra esse «è reso possibile dal fatto che tutte […] pongono, sia pure con modalità diverse, un Mistero trascendente come fondamento dell’agire morale»55. Le 96
religioni possono incidere poco nel campo politico, ma possono aiutarci molto a non avere paura dell’ “altro”. Le religioni possono unire ciò che empiricamente è diviso. Le conversazioni si sono svolte nel modo più leale possibile, ciascuno parlando secondo il proprio stile, il suo carattere, la libertà della sua fede; nessuno ha insegnato, né imposto alcunché, né polemizzato, né fatto apologia. Tutti e tre, invece, hanno voluto far “capire”, perché solo capendo si evitano fraintendimenti, pregiudizi, errori, con le conseguenze che conosciamo. Ciò che hanno detto, ci deve portare a una comune riflessione sull’importanza delle religioni in un mondo dominato dalla tecnica; e, se non di esse, dell’idea di “sacro”, del bisogno dell’uomo di porsi domande, della necessità di riconoscere i suoi limiti. Se non ci inducono alla fede, le religioni aiutino, almeno, a tener vivo quel sentimento etico che è proprio dell’uomo. «Se Dio non esistesse, tutto è permesso» (Dostevskij). È così?
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Note
Introduzione 1
Corano, 29, 46. – Per i riferimenti al Corano, mi sono servito dell’ edizione curata da Alberto Ventura, la traduzione di Ida Zilio – Grandi, i commenti di Alberto Ventura (Sure 1-7), Mohyddin Yahia (Sure 8-22), Ida Zilio-Grandi (Sure 23-45), Mohammad Alì Amir-Moezzi (Sure 46- 114); Mondadori, Milano, 2010.
2
Salah ad-din, 1138-1193, sultano del Cairo.
3
Michael Lecker (a cura di), Vite antiche di Maometto; testi scelti e tradotti da Roberto Tottoli; Mondadori, Milano, 2007; p. 49.
4
Il testo del Documento è in L’Osservatore Romano del 4-5 febbraio 2019, pp. 6-8.
5
Commento a questa sura del Corano; cit., p. 876, vv. 2-3.
6
Ezechiele, 3, 1-4.
7
«Quando le tue parole mi vennero incontro le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore» (Ger, 15, 16).
8
«La voce che avevo udito dal cielo mi parlò di nuovo: “Va’, prendi il libro aperto dalla mano dell’angelo che sta in piedi sul mare e sulla terra”. Allora mi avvicinai all’angelo e lo pregai di darmi il piccolo libro. Ed egli mi disse: “Prendilo e divoralo; ti riempirà di amarezza le viscere ma in bocca ti sarà dolce come il miele”. Presi quel piccolo libro dalla mano dell’ angelo e lo divorai; in bocca lo sentii dolce come il miele, ma come l’ ebbi inghiottito ne sentii nelle viscere tutta l’ amarezza. Allora mi fu detto: “Devi profetizzare ancora su molti popoli, nazioni, lingue e re”» (Ap, 10, 8-11).
9
Gorge Steiner, Nessuna passione spenta; Garzanti, Milano, 1997. – Si vedano le pp. 221-145.
10
Cherubino Mario Guazzetti, Bibbia e Corano – Confronto sinottico; ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), 1995; p. 12. 11
Corano, 5, 44; 46-48.
12
Indico come esempio di simili apologie due testi: il primo è: Al-Kindi, Apologia del cristianesimo (traduzione dall’ arabo, introduzione e cura di Laura Bottini); Jaca Book, Milano, 1997. – «L’opera è costituita da due epistole: la prima redatta dal musulmano che invita, sinteticamente e affettuosamente, il cristiano a convertirsi all’Islam; la seconda del cristiano che risponde, prolissamente e spesso con toni ironici, al suo interlocutore rifiutando di abiurare per abbracciare l’Islam e difendendo l’alta coerenza logica e l’eccellenza della sua religione» (dalla quarta di copertina). Il secondo testo è: Manuele II Paleologo, Il “dialogo della discordia” – Dialoghi con un musulmano. Settima controversia; Salerno ed., Roma, – «Nell’ inverno del 1391 l’ imperatore di Bisanzio Manuele II (1391-1425), ridotto al rango di vassallo del sultano Bāyazīd, ebbe occasione, durante un soggiorno ad Ankara, di intrattenersi in frequenti dialoghi con un dotto musulmano sui fondamenti delle tre grandi religioni monoteistiche, Cristianesimo, Giudaismo e Islam. Molto tempo dopo i fatti, Manuele redasse 26 relazioni (o “controversie”) in cui offriva una visione di quegli incontri e di quelle discussioni fortemente influenzata dalla
99
pubblicistica anti-islamica di età paleologa. La settima “controversia”, qui proposta – che affronta il tema del confronto tra la legge di Mosè, il messaggio cristiano e la legge islamica – è divenuta celebre per la citazione che ne ha fatto papa Benedetto XVI nella discussa lectio magistralis di Ratisbona del 12 settembre 2006» (dalla quarta di copertina). 13
Mt, 18, 19-20.
14
Corano, 5, 48.
15 Documento
sulla fratellanza; cit.
16
La citazione è in Antonio Rigo (a cura di), Le tre religioni di Abramo – Visioni di Dio e valori dell’uomo; Marsilio, Venezia, 2003; p. 49. 17
Le tre religioni di Abramo; cit., p. 57.
18 Alberto Moravia, La pace da inventare; in “Corriere della Sera” del 27 ottobre 1973. Poi in: id., Impegno controvoglia – saggi, articoli, interviste: trentacinque anni di scritti politici; Bompiani, Milano, 1980; p. 242-244; v. pp. 243-244. 19
Is, 1, 11-17.
20
Corano, 2, 177.
21
Corano, 2, 97.
22
Commento a questo versetto, in Corano, cit., p. 443.
23
Mt, 25, 31-46.
24
Documento sulla fratellanza; cit.
Capitolo primo 25
Lv, 19, 18.
26
Gb, 8, 8-10.
27 Qo,
7, 13.
Capitolo secondo 28
Luigi Zoja, La morte del prossimo; Einaudi, Torino, 2009.
29
Gen, 4.
30
Gv, 9, 3.
31
Spe salvi, n. 38.
32
Col, 1, 24.
33
Jürgen Habermas, Il futuro della natura umana – I rischi di una genetica liberale; Einaudi, Torino, 2010.
34
Paul Virilio, La bomba informatica; Raffaello Cortina, Milano, 2000. id, L’incidente del futuro; Raffaele Cortina, Milano, 2012.
35
Jacques Ellul, Le bluff technologique ; Vintage Books, 1954.
36
Jeremy Rifkin, Il secolo biotech; Astrolabio Ubaldini, Roma, 1998.
37 Aldo
100
Schiamone, Storia e destino; Einaudi, Torino, 2007.
38
Intervista a La Civiltà cattolica, settembre 2013.
39
Corano, 5, 32.
40
Mt, 17, 20.
41
1 Cor, 13, 2.
Capitolo terzo 42 Corano, 43
35, 23.
Corano, 10, 99.
44 Corano,
2, 155-157.
Questo documento è in Vite antiche di Maometto*, cit., pp. 136-140. La pagina inizia così: «L’ inviato di Dio scrisse un documento riguardante gli “Emigrati”, cioè i musulmani trasferitisi da Mecca, e gli “Ausiliari”, che erano i musulmani medinesi, in cui si proponeva un accordo amichevole e da sottoscrivere con gli ebrei, garantendo la loro pratica religiosa e le proprietà, e che stabilisse così diritti e doveri». Nel d cumento vero e proprio, si legge, poi, tra l’altro: «Il vicino sotto protezione va trattato come trattereste voi stessi, almeno finché non causi danno o agisca in modo negligente» (p. 140). 46 Corano, 56, 75-80. 45
47 Corano,
7, 85.
Appendice – ISRAELE E ISLAM 48
Pietro Citati, Israele e l’Islam – Le scintille di Dio; Mondadori, Milano, 2003.
49
Pietro Citati, Israele e l’Islam; cit.; p. 106.
50
Nel saggio “Viaggio alla Mecca”, Citati scrive: «Malgrado le guerre, le scorrerie e le maledizioni, i rapporti tra le due popolazioni (araba e cristiana) erano discreti […]. Gli arabi ricevevano ospitalità nei grandi monasteri cristiani della Siria, qualcuno di loro pregava nelle chiese cristiane, perché riconosceva nella religione di Gesù un abbozzo venerabile della propria fede. Non poteva compiere l’ultimo passo: posternarsi davanti alla croce, perché la croce ricordava la vicinanza tra Dio e l’uomo e il dolore di Dio che egli rifiutava con forza» (Israele e l’Islam cit., p. 121). 51 Pietro
Citati, Israele e l’Islam; cit., pp. 34-49.
52
Benedetta Craveri, Intervista a Pietro Citati: la Repubblica del 7 ottobre 2003.
53
Pietro Citati, Israele e l’Islam; cit., p. 119.
Conclusione 54 Simone Weil, Lettre à un religieux ; ed. Gallimard, Paris, 1951 [traduz. italiana : Lettera a un religioso, a c. di Giancarlo Gaeta; Adelphi, Milano, 1996; p. 50]. 55 Carlo Maria Martini, in un dialogo epistolare con Umberto Eco, raccolto poi in volume dal titolo: In cosa crede chi non crede? Ed. “Liberal”, 1996; p. 63.
** Il
nome “Maometto” non viene mai usato, perché esso è deformazione di Muhammad.
101
Postfazione Roberto Cipriani
L’iniziativa intrapresa da Angelo S. Angeloni di intervistare il rabbino capo di Roma Riccardo Shmuel Di Segni, il vescovo cattolico Vincenzo Paglia (presidente della Pontifica Accademia per la Vita) e l’imam della grande moschea romana Salah Ramadan risponde ad un’esigenza sempre più evidente, che richiede il coinvolgimento soprattutto delle principali religioni storiche operanti in Europa, al fine di mantenere e rafforzare la pace nel continente (e non solo). L’istanza, avanzata dall’autore e corroborata dai suoi tre interlocutori e ribadita infine anche da Piero Citati, ha un carattere deontologico, giacché si esprime sovente con il dover essere, che va al di là del semplice e generico auspicio. Orbene un taglio del genere non si addice propriamente ad una prospettiva sociologica che predilige invece l’analisi, esamina i dati, fornisce interpretazioni e formula previsioni. Nondimeno quanto emerge dai contenuti qui raccolti e trascritti è largamente in linea con le più accreditate indagini della sociologia della religione, che da tempo ha superato il prevalente riferimento ad una sola 103
(o quasi) matrice religiosa, quella latamente cristiana, e si è avviata a compulsare altri ambiti confessionali e non solamente quelli più tipici dell’area europea. Per di più va detto che non trova riscontro in numerose ricerche l’assenza di un’influenza religiosa sulle vicende politiche, ragion per cui la tesi suffragata da Angeloni, a dire il vero, può ben trovare risonanza ed implementazione nell’agire sociale dei soggetti religiosamente orientati e nelle istituzioni che li rappresentano (si veda in proposito quanto scrive Bryan S. Turner in Religione e politica. Una sociologia comparata della religione, Armando, Roma, 2018). Fatte queste precisazioni, vi sono però sufficienti prerequisiti utili a riprendere la questione anche in chiave strettamente scientifica, come dato conoscitivo che costituisce un préalable irrinunciabile prima di ogni azione nella società in cui si vive. In effetti a seguire passo dopo passo l’evoluzione delle religioni in Europa e nel mondo ci si rende conto che, pur a fronte di andamenti favorevoli ad una progressiva secolarizzazione, tuttavia la credenza, l’appartenenza e la pratica religiosa non sono affatto scomparse ed anzi fanno ipotizzare sviluppi ulteriori, anche a livello numerico. Se si deve fare affidamento ai dati calcolati dal noto Pew Research Center, finanziato anche dalla Templeton Foundation, si ha la conferma di una sostanziale persistenza del fenomeno religioso a livello universale, con variazioni minime a livello locale rispetto alle tendenze generali in atto nel mondo. Ed ecco dunque alcune constatazioni di fatto: ebraismo, cristianesimo ed islam sono 104
destinati a crescere numericamente, sebbene in misura differenziata; i musulmani probabilmente arriveranno nei prossimi decenni ad essere alla pari rispetto al numero dei cristiani in ambito mondiale ed aumenteranno più rapidamente sia dei cristiani che degli induisti e degli ebrei; in particolare in Europa la crescita islamica raggiungerà il 10% dell’intera popolazione; in Francia gli atei, gli agnostici e quanti non aderiscono ad alcuna religione sono in aumento ma non è così altrove in Europa e nel mondo (con la sola eccezione degli Stati Uniti, dove tra pochi decenni i musulmani diverranno più numerosi degli ebrei, mentre i cristiani si ridurranno). Al di fuori dell’Europa il buddismo si manterrà costante nella sua diffusione, ma aumenteranno sia l’ebraismo che l’induismo (quest’ultimo conserverà la sua maggioranza in India, dove nel frattempo si incrementerà di molto la popolazione musulmana che arriverà a superare quella, pure già imponente, rilevabile in Indonesia); infine è da dire che è in atto una forte diffusione del cristianesimo nei territori africani sub-sahariani, tanto che per il futuro si prevede che circa il 40% della popolazione dei paesi al di sotto del Sahara sarà di religione cristiana. Secondo il Pew Research Center si prevede che nel 2050 i cristiani saranno 2 miliardi e 918 milioni, i musulmani 2 miliardi e 761 milioni, gli induisti 1 miliardo e 384 milioni, i buddisti 486 milioni, gli ebrei 16 milioni. Invece i non affiliati ad alcuna religione saranno 1 miliardo e 230 milioni, gli aderenti a religioni folcloriche di cultura locale saranno 449 milioni e quelli di altre religioni 61 milioni. 105
Dato un simile quadro relativo ai prossimi sviluppi, non è immaginabile che le singole confessioni religiose abbiano interesse a promuovere strategie di conflitto e di contrapposizione. Semmai il problema più serio è quello della salvaguardia del diritto alla libertà di espressione religiosa, che ancor oggi è mortificata in diverse nazioni ed in vari continenti. Anche questo pare essere un obiettivo condiviso da ciascuna delle religioni storiche, ivi comprese quelle dette del libro o abramitiche. Un’eventuale ripresa delle guerre di religione del passato non gioverebbe a nessuna delle espressioni religiose in campo, in quanto appare essere ben altro il contendente da affrontare, ovvero l’avversione nei confronti di libere appartenenze a vecchi e nuovi culti e movimenti. L’Italia, poi, in particolare soffre di una notevole impreparazione in materia religiosa. Le conoscenze e le frequentazioni reciproche fra le Chiese e fra le diverse confessioni sono piuttosto rare e discontinue. Ben poco si apprende a scuola, gli insegnamenti universitari su temi socio-storico-religiosi latitano, la dimestichezza con i testi sacri è stata a lungo impedita (persino la Bibbia è stata messa all’indice, solo perché era scritta in lingua volgare): in proposito è eloquente quanto sostenuto da Alberto Melloni nel suo Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, il Mulino, Bologna, 2014. Com’è noto l’origine dei pregiudizi risiede principalmente nell’assenza di qualsiasi impegno volto ad apprendere, ad osservare, a leggere ciò che non rientra nell’abituale, nello scontato, nel tradizionale. Da questa rinuncia al sapere, alla ragionevolezza ed allo sforzo per comprendere 106
derivano in effetti i tanti atteggiamenti e comportamenti di sospetto e disistima, che impediscono la realizzazione di un’interazione alla pari con gli interlocutori di diversa provenienza e matrice ideologica. A dire il vero lo stesso impianto del presente testo avrebbe potuto essere anche simbolicamente più significativo se i tre intervistati principali avessero potuto interloquire direttamente fra loro, senza rimanere ciascuno nel proprio orizzonte identitario. Ma questo è forse pretendere un po’ troppo, almeno in questa fase storica. Per il futuro potrebbe essere un passo ulteriore sulla via del dialogo la contemporanea presenza degli attori religiosi (privilegiati e non) sul medesimo terreno contenutistico e sullo stesso luogo fisico di confronto, come già avvenuto in passato, ad esempio negli incontri interreligiosi di Assisi (27 ottobre 1986 e 27 ottobre 2011) e Roma (24 gennaio 2002), nonché nella lunga serie di appuntamenti simili promossi dalla Comunità di Sant’Egidio a Roma (1987 e 1988), Varsavia (1989), Bari (1990), Malta (1991), Lovanio e Bruxelles (1992), Milano (1993), Assisi (1994), Firenze (1995), Gerusalemme (1995), Roma (1996), Padova e Venezia (1997), Bucarest (1998), Lisbona (2000), Barcellona (2001), Palermo (2002), Aquisgrana (2003), Milano (2004), Lione (2005), Washington (2006), Napoli (2007), Cipro (2008), Cracovia (2009), Barcellona (2010), Monaco di Baviera (2011), Sarajevo (2012), Roma (2013), Anversa (2014), Tirana (2015), Assisi (2016), Münster ed Osnabrück (2017), Bologna (2018) e Madrid (2019); per non dire di tantissimi altri momenti organizzati sia in Italia che all’estero da parte di gruppi e movimenti ecumenici ed interreligiosi. 107
In tal modo si è compiuto od almeno si è tentato un passo in avanti sulla strada della convergenza, del riconoscimento, dell’apprezzamento. Insomma si sta passando dall’abituale apologia del proprio quadro di riferimento alla dialogia, per così dire, fra ottiche diverse ma anche combinabili, appaiabili, componibili, abbinabili ed accostabili. E non è un caso che sia appunto la preghiera a divenire il punto di confluenza fra le religioni, in quanto rivolta ad una medesima entità e non necessariamente sottoposta a normative prefissate a livello di ortodossia, ortoprassi e liturgia. Peraltro il ricorso alla preghiera è la forma più diffusa in assoluto per quanto concerne le pratiche di fede religiosa. In Italia, secondo recenti indagini, solo un quarto della popolazione non prega mai mentre tutto il resto recita qualche orazione od intrattiene un colloquio con Dio almeno qualche volta nel corso di un anno od ancora più spesso. Fra l’altro il momento della preghiera non comporta regole rigide e neppure gerarchie. Si prega tutti insieme o da soli oppure in alternanza. Difficilmente si registra un sovranismo individuale o di gruppo. Anzi si può dire che l’invocazione e la perorazione rivolte alla divinità rappresentano probabilmente un’occasione condivisa in cui ognuno è tendenzialmente alla pari degli altri, senza prevaricazioni. Detto altrimenti la preghiera è anche un modello esemplare di democrazia partecipativa a livello religioso. Qualcosa di simile avviene anche nella comparazione fra le religioni messa in atto dalla popolazione italiana che solo nella misura di un quarto si abbarbica all’idea 108
che solamente la sua sia la religione vera, mentre la maggior parte degli altri riconosce la possibilità che pure le altre religioni contengano verità e solo pochi negano che si possano trovare verità nelle diverse religioni. Nonostante le diatribe socio-politiche sull’immigrazione straniera in Italia, si registrano comunque anche orientamenti favorevoli, per esempio, all’uso del velo da parte delle donne musulmane: circa un terzo della popolazione intervistata lo ritiene accettabile, un altro quarto fa un po’ fatica ad accettarlo e poi tutto il resto non appare favorevole. Un po’ più orientata all’accoglienza è la diversificazione degli atteggiamenti in merito alla possibilità che gli studenti musulmani abbiano una formazione specifica per la loro cultura e per la loro religione. Leggermente più favorevole è infine l’atteggiamento nei riguardi della costruzione di moschee. In definitiva l’accettazione di una realtà religiosa diversa appare ancora problematica ma non mancano segnali di disponibilità via via crescente. D’altro canto va tenuto presente che in linea di massima vi è una preferenza per il restare comunque legati alla propria fede religiosa ma al tempo stesso non mancano significative propensioni a conoscere e sperimentare altre tradizioni religiose. Il fatto è che molti pregiudizi mostrano una forte resistenza al cambiamento e sono tanto più radicati quanto maggiormente legati ad una socializzazione primaria improntata a valutazioni superficiali, non documentate, poco informate. Persino il ricorso al termine tolleranza, probabilmente acquisito nell’infanzia e nella fanciullezza, e che Angelo S. Angeloni considera “ambiguo”, nasconde in 109
realtà qualcosa di più escludente, dunque poco inclusivo, nonostante le apparenze di prima lettura. A pensarci bene il tollerare significa in sostanza sopportare o forse anche mal sopportare, il che non è affatto indice di disponibilità e di accettazione ma anzi cela un’intenzione negativa, insomma un rifiuto del soggetto e della posizione altrui. Ben diverso è il caso in cui vi sia una condivisione di valori, che può ben andare al di là dei propri riferimenti personali, per aprirsi verso altri orizzonti, esplorando ulteriori possibilità di espressione religiosa, di pratica, di ritualità, di spiritualità, di mistica, di preghiera. In questo senso il citato Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune pubblicato sull’Osservatore Romano il 4-5 febbraio 2019 offre spunti sul “trascendente” e sulla “fratellanza” che opportunamente Angeloni segnala come rintracciabili anche nella Sura 96 del Corano. Sullo sfondo di tutto resta però irrisolta la questione della sofferenza, del dolore e della morte, non a caso vexata quaestio che resta sempre a galla, quasi mina vagante per ogni analisi, interpretazione, discussione e conclusione. Il sociologo, invero, non può fare altro che raccogliere i dati, compulsare le opinioni, tentare di coglierne i significati. Ma non è in grado di fornire risposte esaurienti. Semmai, come suggerisce Angeloni, conviene fare della ricerca della giustizia e del ricorso al cuore ed all’emozione il filo conduttore che possa conciliare le diverse propensioni, senza recare offesa o danno ad alcuno. Questo però comporta avviare un altro tipo di dibattito: quello sul relativismo, che non a caso in anni recenti ha visto in 110
contrasto pure un papa (Benedetto XVI) ed un cardinale (Carlo Maria Martini): il primo attaccava il relativismo e lo condannava mentre il secondo, pacatamente e rispettosamente, osservava che c’è anche del relativismo cristiano. Ciò detto, il dialogo resta ancora aperto, per cui questo libro è solo un punto di avvio per ulteriori riflessioni
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