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Italian Pages 212 Year 1993
Paul R. Corner
Contadini e Industrializzazione Società rurale e impresa in Italia dal 1840 al 1940
Quad
Laterza
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Quadrante
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© 1993, Gius. Laterza & Figli
Traduzione di Giovanni Ferrara degli Uberti Prima edizione 1993
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Paul R. Corner
Contadini e industrializzazione Società rurale e impresa in Italia dal 1840 al 1940
Editori Laterza
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Finito di stampare nel settembre 1993 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari ISBN
CL 20-4273-8 88-420-4273-0
Premessa
Questo lavoro è frutto di una ricerca durata vari anni. Ta-
lune sezioni hanno conosciuto una loro precedente stesura, anche se in forme diverse; riviste e ampliate, sono state riprese nel volume. Su certi specifici aspetti dell'economia comasca alcuni concetti qui sviluppati sono apparsi nel saggio Il contadino operaio dell’Italia padana (in Storia dell’agricoltura italiana în età contemporanea, vol. II, a cura di P. Bevilacqua, Marsilio, Venezia 1990), e nel volume Frorz Peasant to Entrepreneur (Berg, Oxford 1993, con Anna
Cento Bull). I temi più generali attinenti alla via italiana all’industrializzazione sono stati trattati in una mia introduzione a vari saggi, Dall’agricoltura all’industria (Unicopli, Milano 1992). Colgo l’occasione per ringraziare gli editori per avermi permesso di ripubblicare alcuni brani. Nel corso del mio lavoro di ricerca ho ricevuto aiuto e consiglio da molte persone, che qui tutte ringrazio. In particolare sono grato ai funzionari e agli impiegati delle biblioteche e degli archivi da me frequentati. Uno speciale debito di riconoscenza ho poi nei confronti di Franco Bonelli e di Luciano Cafagna, pet gli amichevoli consigli (anche se a loro non è ovviamente imputabile nessuna responsabilità circa i risultati della ricerca), e nei confronti di Giovanni Ferrara degli Uberti, il cui ruolo, come sempre, non VII
è stato esclusivamente quello di traduttore. Last but by n0 means least, un ringraziamento rivolgo a mia moglie, Gio-
vanna Procacci, che si è infaticabilmente adoperata affinché io finissi questo lavoro prima che lui finisse me. La ricerca ha usufruito di finanziamenti concessi dalla British Academy e dall’Economic and Social Science Research Council di Londra. La traduzione è stata effettuata grazie ai fondi forniti dal ministero dell’Università, nell’ambito di una ricerca nazionale coordinata da Enzo Collotti (40%). A tali istituti e persone va il mio finale rin-
graziamento.
AS Siena, febbraio 1993
FONTI ARCHIVISTICHE
Archivio centrale dello stato (ACS). Ministero dell'Interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, Affari generali e riservati (1914-26); comprende la sezione A5G ‘Conflagrazione europea’. Ministero dell’Interno, Divisione polizia giudiziaria 1916-18. Ministero per le Armi e munizioni, Comitato centrale di mobilitazione industriale. Ministero dell’Industria, commercio, lavoro, Comitato centrale di mobilitazione industriale.
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Contadini e industrializzazione
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Capitolo primo
Contadini e industrializzazione
Tradizionalmente, contadini e industrializzazione sembrano esser andati assai poco d’accordo. Anzi, la saggezza convenzionale li vuole ostili, e quasi antitetici; e per buone ragioni. La mentalità contadina, dipinta solitamente come chiusa e conservatrice, più incline all’autoconsumo che al consumo attraverso lo scambio, sembrerebbe poco compatibile con i concetti di mercato, intrapresa e rischio. Non sorprende che l’idea che, in un processo d’industrializzazione riuscito, il primo passo debba essere la distruzione della classe contadina, abbia acquisito quasi lo status di un assioma. Gli esempi di questa linea di pensiero sono — ahimè — troppo numerosi perché occorra insistere su questo punto. Il presente libro vuol essere una critica di quest’interpretazione, benché non, naturalmente, a trecentosessanta
gradi. Non vogliamo affatto tentare di sostenere che quanto più numerosi sono i contadini, tanto più velocemente marcerà l’industrializzazione. Una posizione del genere sarebbe chiaramente assurda. Ci proponiamo piuttosto di suggerire che contadini e industrializzazione non sono necessariamente così incompatibili come talvolta si è pensato, e che certe forme di società contadina possono forse fornire al cambiamento economico un sostegno maggiore 3
di quanto si sia spesso immaginato. Ed è un sostegno che non si esaurisce necessariamente con il declino dell’ormai famosa fase «protoindustriale» della produzione a domicilio, ma si prolunga invece — come vedremo — ben addentro alla prima fase della produzione di fabbrica, e molto probabilmente al di là di questa. A tal fine, cercheremo di analizzare quella ch’è stata definita la crescita «molecolare» (in quanto contrapposta allo sviluppo promosso dallo Stato) dell'economia italiana! in certe aree del Nord, e di
riesaminare il ruolo delle famiglie contadine in questo tipo di crescita. In un lavoro di revisione di questa natura, un grosso problema è ch’esso sembra sfidare frontalmente l’interpretazione corrente del rapporto tra lo sviluppo dell’industria e l'evoluzione dell’agricoltura. E un rapporto riguardo al quale, fino a tempi recenti, gli storici sembrano aver avuto ben pochi dubbi. I contadini sono stati visti come ostacoli al progresso dell’industrializzazione; e invero la posizione corrente può essere compendiata nella domanda: «A che servono i contadini?». Un esame più approfondito del problema chiarirà questo punto. Com'è ben noto, si è convenzionalmente sempre sostenuto che la prima rivoluzione agricola e la prima rivoluzione industriale si verificarono più o meno insieme, e che in certo senso ciascuna delle due rafforzò l’altra. I progressi compiuti nel settore agricolo generarono fondi che furono investiti nell’industria; le aumentate disponibilità di generi alimentari permisero la crescita della popolazione e l’espansione delle città, mentre le recinzioni provocarono l’espulsione dei lavoratori delle campagne dalle loro occupazioni tradizionali, fornendo così al nascente settore manifatturiero la forza lavoro di cui aveva bisogno. A misura che, grazie all’aumento dei profitti e delle rendite, l'agricoltura diventava più ricca, i proprietari terrieri fornirono un mercato in espansione ai prodotti dell’industria; e d’altro canto l'aumento dei salari reali della crescente po4
polazione urbana, reso possibile da prezzi alimentari stabili o in diminuzione, contribuì anch'esso a far crescere la do-
manda di manufatti. E chiaro che alla fine di questo processo — di evizione ed espropriazione, di proletarizzazione e urbanizzazione — saranno ben pochi i contadini ancora in circolazione. Né potrebbe essere diversamente. Questo assunto — che un’agricoltura efficiente e razionalizzata, priva di contadini, svolse un ruolo centrale nell’industrializzazione — ha ricevuto adesioni autorevolissime. Così, nella sua-ricerca delle origini del capitalismo industriale un analista politico del calibro di Karl Marx giudicò fondamentale l’accumulazione primitiva realizzata in agricoltura mediante le recinzioni, l'allevamento ovino e la formazione di grandi tenute. Essa costituiva il punto di partenza dell’indagine. E implicava chiaramente la necessità della distruzione della classe contadina, sotto qualunque forma. Secondo le sue parole, l’accumulazione primitiva in agricoltura stava alla rivoluzione industriale come il concetto di peccato originale stava alla teologia. Né Marx è il solo a pensarla così. Generazioni di storici hanno insistito sul nesso tra una trasformazione radicale dell’agricoltura e la crescita dell’industria. Una formulazione abbastanza caratteristica (e che ha indubbiamente influenzato gli studiosi per parecchi decenni) è quella di Arnold Toynbee nelle sue Lectures on the Industrial Revolution. Toynbee scrisse che «nella grande trasformazione dell’industria sul finire del Settecento il ruolo della rivoluzione agraria non è meno importante di quello della rivoluzione verificatasi nelle industrie manifatturiere, su cui più comunemente si è concentrata l’attenzione»?. Di nuovo, l’indu-
strializzazione sembra presupporre la scomparsa dei contadini. È fin troppo chiaro che queste osservazioni hanno di mira uno specifico esempio storico: quello dell'Inghilterra, di cui in genere si pensa che nel periodo tra il 1750 e il 1830 abbia conosciuto tanto la rivoluzione industriale 2
quanto quella agricola. In quanto Prima Nazione Industriale, non sorprende che la Gran. Bretagna abbia fornito la pietra di paragone nello studio del processo d’industrializzazione svoltosi in altri paesi. Il guaio è che nel corso degli anni l’esempio specifico è diventato un modello generalizzato. In certo senso, quasi tutta la letteratura sull’industrializzazione ha avuto carattere comparativo. Implicitamente, o, più spesso, esplicitamente, il successo e il falli-
mento sono stati misurati, e non di rado spiegati, in termini del grado in cui gli altri paesi erano riusciti a seguire il modello inglese. L’illustrazione migliore del fenomeno ce la dà la stessa terminologia impiegata, nella quale l'Inghilterra è il «primo arrivato» (first comer) al traguardo dell’industrializzazione, mentre alle altre nazioni europee è riservato il ruolo di «secondi arrivati» o «ritardatari» (second comers,
late comers), lungo la via già percorsa dalla Gran Bretagna. Questo approccio comparativo, basato sull’esempio inglese, ha tendenzialmente messo al centro della scena i problemi della trasformazione dell’agricoltura. E uno di questi problemi era quello di sbarazzarsi dei contadini: qualcuno c’è riuscito, qualcun altro no, e da questi ultimi era difficile aspettarsi buoni risultati. Fin troppo spesso, il problema che gli storici si sono posti — in sede di spiegazione delle manchevolezze dei paesi continentali, e in particolare della Francia o dell’Italia — sembra esser stato quello di individuare gli scostamenti dei paesi dell'Europa continentale dal modello inglese. Il linguaggio adottato è di solito quello della gara o della competizione: lentezza, ritardo, arretratezza. Emerge un quadro in cui, nelle Olimpiadi dell’industrializzazione, l'Inghilterra ha vinto l’oro, altri si sono piazzati, e altri ancora figurano semplicemente nella lista dei partecipanti. Il presupposto implicito in questo modo di vedere le cose è naturalmente che tutti hanno partecipato alla stessa gara. Tutte queste analisi concordano regolarmente su un punto. I candidati favoriti alla medaglia dell’«arretratezza» 6
sono la Francia e l’Italia. La Francia — il paese del contadino-proprietario — è oggetto di una speciale attenzione. Come ha scritto recentemente uno studioso, Tradizionalmente, gli storici hanno presentato l'economia francese fino al 1945 come una natura morta. L’idea è che il mutamento demografico ed economico si verifica (quando si verifica) solo molto lentamente. Temi di prima grandezza sono la persistenza dell’industria artigianale, le aziende agricole policolturali e un sistema finanziario fragile. E se il quadro è così grigio, la colpa è dei proprietari terrieri taccagni, degli imprenditori incerti, dei politici negligenti o delle coppie infertili.3
Richard Roehl rileva che nella maggior parte delle analisi dell'economia francese ottocentesca le parole chiave sono ‘ritardo’ e ‘‘ristagno”’, e cita niente meno che Sir John Clapham quando afferma che «la Francia non ha mai conosciuto una rivoluzione industriale»4. E ancor meno, naturalmente, secondo quest’interpretazione, la Francia ha conosciuto quella rivoluzione agricola che avrebbe cancellato la sua classe contadina. «La Francia — scrisse Alfred Cobban nel 1959 — è dopo tutto una repubblica di contadini». In effetti, la spiegazione fornita da quanti insistono sull’arretratezza francese è di solito quella della tenace sopravvivenza della paysannerie — la massa dei piccoli proprietari contadini — la quale, si sostiene, emersa rafforzata dalla Rivoluzione del 1789, riuscì a bloccare la trasformazione dell’agricoltura per oltre un secolo, col risultato d’indebolire l'industria francese, trovatasi senza capitali e senza un mercato. Qui l’idea è che gli scostamenti dal modello inglese costituiscano in qualche modo di per sé la prova di una crescita economica meno vigorosa; e il più delle volte sul banco degli accusati figurano la struttura agraria e l’organizzazione produttiva dell’agricoltura®. Se la Francia è spesso accusata di arretratezza, l’Italia la segue a ruota. Una gran parte della letteratura sull’industrializzazione italiana dopo il 1860 giunge alle stesse va7
lutazioni. Nel fatto che i governi della nuova Italia non realizzarono nessuna riforma agraria, ma tendessero se mai a consolidare le posizioni dei grandi proprietari terrieri percettori di rendite e di latifondisti inefficienti, si è vista
spesso la causa del ritardo degli sforzi italiani di mettersi in pari con il cammino dell’industrializzazione nel resto dell'Europa. La mancanza di dinamismo in agricoltura — si ragiona — si rispecchiò nei bassi livelli dell’accumulazione e nei livelli corrispondentemente bassi del dinamismo nell’industria. Di nuovo, le strutture agrarie sono viste come decisive nel promuovere o nell’intralciare la crescita economica. Se Gramsci, quando individuò le origini di molti problemi italiani nella rivoluzione puramente «passiva» del Risorgimento, pensava certo innanzitutto alle conseguenze politiche derivate dalla conferma delle strutture sociali ed economiche esistenti, basta leggere i testi del dibattito sviluppatosi intorno a quest’interpretazione negli anni Sessanta per capire che le questioni dell’accumulazione, della formazione di capitale e della riforma dell’agricoltura sono sempre rimaste centrali nelle discussioni sull’industrializzazione italiana”. Se si eccettua Rosario Romeo, il quale sostenne che la riforma agraria, assorbendo nel settore primario fondi necessari per l'industria, avrebbe ulteriormente rallentato lo sviluppo italiano, la maggioranza degli autori ha accettato l’idea che un’agricoltura inefficiente, dominata in molte aree da proprietari assenteisti e rentiers, rappresentò una
palla al piede per l'economia, perché significava che una quota ingente della popolazione non riusciva a produrre più di quello ch’era necessario alla sua sopravvivenza. Per Emilio Sereni, l’agricoltura italiana era appunto «una palla di piombo al piede del capitalismo italiano», mentre per Pietro Grifone il perdurare di una grossa fetta di agricoltura di sussistenza costituiva una delle «tare d’origine» dello Stato italiano moderno?. Vien fatto di sospettare che sotto queste affermazioni ci fosse, mai troppo lontano, il 8
modello britannico (che divenne, dopo tutto, il modello marxista). Il presupposto implicito era che la rivoluzione industriale dovesse avere a base la rivoluzione agricola, e
che tentare la prima senza la seconda significasse condannarsi a una pessima partenza.
Nel dibattito sul ruolo svolto nell’industrializzazione dalle diverse forze economico-sociali, i contadini hanno goduto di una pessima stampa. Come nella rapidità con cui Inghilterra ha espulso le sue forze di lavoro dal settore agricolo si è visto un fattore di prima grandezza in favore dell’industrializzazione, così la conservazione di un’ingente quota della popolazione nell’agricoltura — e segnatamente in un’agricoltura contadina — è stata considerata una delle principali cause di arretratezza in molti paesi europei, e un elemento che ha forzato il processo nello stampo dell’industrializzazione ‘“dall’alto’”’, e prodotto un massiccio intervento dello Stato volto a realizzare quella sostituzione dei fattori che nel caso britannico sembrava essere avvenuta spontaneamente. Ma negli anni recenti è emersa sempre più chiaramente un’insoddisfazione per quest’approccio, basato sull’unico paradigma inglese. Dietro quest’insoddisfazione stanno considerazioni di vario tipo. Forse la prima e più importante è stata la convinzione, sempre più largamente diffusa tra gli storici economici, che il quadro ‘‘classico”’ della rivoluzione industriale inglese abbisogna di una revisione abbastanza drastica. La ricerca — basata talvolta su metodi quantitativi — ha suggerito che, tanto nell’agricoltura quanto nell'industria, in Gran Bretagna il cambiamento fu molto più lento, e con un andamento molto più irregolare, di quanto si fosse in precedenza pensato!°. La tendenza è stata a retrodatare i cambiamenti in agricoltura, e a proporre l’idea di uno sviluppo lento e graduale delle tecniche e dell’organizzazione: un processo che coinvolge il Seicento non meno del Settecento!!. Al contrario, lo sviluppo industriale viene in genere posticipato, situato più avanti nel9
l’Ottocento; ma, di nuovo, si insiste tanto sul carattere gra-
duale della trasformazione quanto sulla misura in cui i vecchi metodi di produzione e d’organizzazione riuscirono a sopravvivere. C’è stato perfino un tentativo di sostenere
la perdurante esistenza di contadini non salariati in Inghilterra ancora nell'Ottocento avanzato!2. E la ‘‘nuova’’ tecnologia è considerata meno spettacolarmente nuova, e spesso meno importante, di quanto si fosse talvolta supposto; non solo, ma la sua lenta diffusione e la sua conclusiva accettazione sono spiegate principalmente in termini non d’innovazione, ma di un'economia commerciale preesistente!3. Da queste revisioni è nata l’idea che il termine “rivoluzione’’, se inteso — come molto spesso è avvenuto — nel senso di alludere a una trasformazione cataclismatica, sia improprio nel caso tanto dell’agricoltura quanto dell’industria. Rondo Cameron osserva che il termine ha prodotto la convinzione che un cambiamento economico improvviso, una soluzione di continuità siano la precondizione necessaria di un’economia moderna industrializzata, laddove «di fatto, l’industrializzazione graduale è stata la norma, la crescita esplosiva l’eccezione»!4. Inoltre, il grande ampliamento cronologico dell’industrializzazione inglese mette in questione anche i termini del presunto rapporto di complementarietà tra trasformazione dell’agricoltura e trasformazione dell’industria. Dopo tutto — si ragiona — se l’evoluzione dell’agricoltura è cominciata oltre un secolo prima che nell’attività manifatturiera si verificassero mutamenti di rilievo, il nesso tra le modificazioni rispettivamente nel settore primario e nel settore secondario diventa molto meno chiaro. Un’estensione logica di questo ragionamento è che l’industria può avere addirittura il suo luogo d’origine altrove; è cioè possibile che non sia stata ‘‘innescata’’ dalla crescita intervenuta nel settore agricolo. Non sorprende dunque l’affermazione, relativamente recente, e senza dubbio deliberatamente provocatoria, che «Qualunque cosa possa esset 10
avvenuta nel Cinque e Seicento, è impossibile considerare l’agricoltura un fattore guida nella transizione dell’Inghilterra verso la società industriale»; un’asserzione corroborata dalle parole seguenti: «E necessario riaffermare il carattere quintessenzialmente industriale, commerciale e urbano della Rivoluzione industriale»!5. Questa posizione ‘‘revisionista’’ è stata rafforzata dalla crescente insistenza su fattori che, in sede di spiegazione del primato britannico, sono stati spesso trascurati, o relegati a un ruolo secon-
dario. Di nuovo, ciò-ha avuto l’effetto di rendere il quadro più complesso, e contemporaneamente di ridurre l’importanza generalmente attribuita alla rivoluzione agricola. Così ora si fa battere l’accento sulla posizione privilegiata dell'Inghilterra in fatto di fonti energetiche (in particolare carbone e acqua), sull’altro suo privilegio di essere un’isola in un’epoca di trasporti per via d’acqua (i traffici atlantici conoscevano proprio allora una crescita spettacolare), e sulla forza della sua marina da guerra, la cui superiorità le garantiva l’accesso ai mercati mondiali su una scala che nessun altro paese poteva emulare. Quest'ultimo punto riflette naturalmente decisioni politiche, e ci ricorda che, mal-
grado tutti i discorsi sullo sviluppo ‘spontaneo’, già dietro la prima rivoluzione industriale c’era uno Stato forte!*. Una maggiore attenzione a questi fattori — esclusivi dell’Inghilterra, e in certo senso irripetibili — serve a rafforzare la posizione di coloro che preferiscono la tesi secondo la quale l’industrializzazione inglese fu più un caso speciale che non un modello suscettibile di imitazione. Una tesi le cui conseguenze per l’analisi comparata sono evidenti. Se il legame tra rivoluzione agricola e rivoluzione industriale viene rifiutato (perlomeno nelle sue formulazioni
convenzionali), se si pone in dubbio il concetto stesso di ‘“‘rivoluzione’’ (di nuovo, nel senso convenzionale del termine), e se s’invocano, per spiegare il successo, fattori speciali ed esclusivi, allora il modello della Gran Bretagna Prima Nazione Industriale comincia ad apparire davvero mol11
to traballante. Dopo tutto, se la lentezza, la gradualità e la frammentarietà — le parole spesso usate per caratterizzare i tentativi d’industrializzazione dei paesi dell'Europa continentale — le ritroviamo anche nell’economia inglese, allora diventa assai difficile fare del caso britannico un paradigma. Per dirla diversamente, se persino l'Inghilterra non è quella che si riteneva generalmente fosse, perché mai dovremmo giudicare gli altri paesi alla stregua di un modello che non è mai esistito? Ma, cosa forse ancor più importante, la messa in questione del paradigma ci sollecita a riconsiderare l’intera questione dell’‘‘arretratezza’’. Com’è stato impiegato nel dibattito storiografico, il termine ha spesso assunto una coloritura moraleggiante. La Gran Bretagna è stata la prima, e pertanto la migliore (è il ‘‘vincitore’’ della corsa); le altre nazioni si sono rivelate ‘‘arretrate’’ o ‘‘ritardatarie’’, e pertanto inferiori (‘‘perdenti’’,
o concorrenti che hanno uti-
lizzato gli equivalenti politici ed economici degli steroidi per arrivare al traguardo). In questo modo, differenze cronologiche diventano differenze qualitative. Com'è stato scritto, a proposito del caso francese, «Si è spesso presupposto — quando non esplicitamente affermato — che la Francia è arretrata, ritardataria, non al passo con i tempi, ovvero antiquata, e che ciò è mzale»!?. C’è perfino una scuola di pensiero che dalla mera successione temporale fa di-
scendere un nesso causale; ma il post hoc, ergo propter hoc è una maniera di ragionare pericolosa, che rischia di distruggere qualunque tentativo di studiare seriamente le peculiarità nazionali, e affida ogni analisi alle cure di un (dubbio) paradigma inglese!8. Nel ragionamento revisionista non si deve tuttavia ve-
dere un attacco contro la storia comparata dell’industrializzazione come tale. Esso è piuttosto un tentativo di ridefinire i termini del confronto. Il modello inglese è stato troppo spesso impiegato per suggerire che vie differenti all’industrializzazione sono in un modo o nell’altro ‘‘anoma12
le’, ovvero intrinsecamente inadeguate. Come ha scritto Luciano Cafagna, Il comparativismo, che può sempre essere illuminante, contiene il rischio dello scivolamento verso un paradigma genetico (c’è un modello esemplare — in fatto di sviluppo economico, ma non solo, è di solito quello inglese — che diventa una specie di programma genetico, rispetto al quale ci sono da registrare malformazioni e deviazioni, accompagnate con domande del tipo
‘‘perché no?”’).19
Ciò tende a produrre due conseguenze. La prima è che tratti che sono in effetti connotati generali dell’industrializzazione europea vengono trascurati o considerati irrilevanti proprio perché già sussunti nel modello inglese; la seconda è che — come abbiamo suggerito più sopra — le particolarità nazionali e regionali (ciò ch’è specifico di una data nazione o regione o industria) non vengono valutate per le loro proprie specifiche qualità, ossia per ciò che ne fa qualcosa di unico, ma vengono trattate come semplici deviazioni dalla norma. Esistono forti ragioni per credere che, ai fini della comprensione del processo d’industrializzazione, lo studio delle aree europee relativamente arretrate — le aree giunte in ritardo all’industrializzazione, e per una via differente — sia potenzialmente altrettanto illuminante dello studio delle grandi regioni industriali2°. Che è un’altra maniera di dire che non ha nessuna giustificazione l’idea che «esiste una via ottimale e definibile a più elevati redditi pro capite, per tacere della nozione che questa via possa essere identificata con l’industrializzazione inglese quale si sviluppò dal 1780 al 1914»2!. Un concetto cui fa eco Cameron quando scrive che «nell'Ottocento non esisté
un unico modello dell’industrializzazione — il modello britannico — ma ce ne furono parecchi». Ignorare questo fatto — continua — «distorce il quadro storico [e] occulta le differenti varianti del fenomeno industrializzazione»??. Insieme con Caglar Keyder, Patrick O’Brien è lo stu13
dioso che si è spinto più avanti nel tentativo di modificare la maniera di ragionare sull’industrializzazione in Europa. Sostenendo che la Francia è stata trattata ingiustamente dagli storici dell'economia, i quali hanno mostrato la tendenza — l’abbiamo visto — a giudicare indolente e pigra la sua prestazione economica nel corso dell'Ottocento, O’Brien e Keyder offrono una serie di calcoli da cui si ricava che lo sviluppo francese non fu in nessun senso inferiore a quello inglese, se il metro adottato — ed è qui il punto cruciale — è quello della crescita del reddito pro capite nell’arco del secolo, piuttosto che quello del prodotto industriale lordo. Gli autori riconoscono la validità degli argomenti standard — la struttura agraria rimase sostanzialmente stabile, e non conobbe la trasformazione in sen-
so capitalistico che si verificò in Inghilterra; i livelli di diffusione della tecnologia restarono bassi; i mercati erano limitati — ma ritengono nondimeno di poter dimostrare che la produttività del lavoro nell’industria manifatturiera era elevata (generalmente superiore ai livelli inglesi), e che nell'insieme non c'erano differenze di rilievo nel tenore di Vita?
Queste conclusioni — e così pure i calcoli — possono essere discusse (la scelta del reddito pro capite come metro di comparazione sembra particolarmente contestabile, ed è stata largamente criticata); ma la premessa fondamentale del libro — che non esiste nessun paradigma dell’industrializzazione alla cui stregua tutte le singole esperienze debbano essere giudicate — conserva un grande valore. O'Brien e Keyder insistono con grande energia sul punto che l’esperienza non è sempre necessariamente trasferibile, e che la diffusione dei metodi e della tecnologia inglesi dipese moltissimo dal contesto economico e sociale in giuoco. Nel caso francese, sembra che in molte industrie quella ch’è stata ritenuta una ‘‘mancata adozione’ della tecnologia e dei metodi organizzativi inglesi non abbia avuto per effetto una minore produttività del lavoro o il ristagno indu14
striale. In altre parole, entro i confini delle loro attività, i francesi impiegarono metodi che rimanevano validi e producevano risultati. La diffusione della tecnologia fu dunque limitata non dalla stupidità dei datori di lavoro o dalla resistenza dei lavoratori, ma principalmente dal fatto che a certi settori manifatturieri (per esempio, le produzioni di beni di lusso) essa non era applicabile. Il punto è semplicemente che i francesi seguirono una via all’industrializzazione differente: una via meglio adatta al — o dettata dal — particolare contesto francese. In una pagina significativa, gli autori concludono che La Francia non può esser fatta rientrare in una tipologia dell’industrializzazione europea, e il suo sviluppo ci ricorda che esiste più di una via di transizione da un’economia agricola a un’economia industriale, e dalla società rurale alla società urbana. E non è per nulla assodato che la via allo sviluppo economico per-
corsa dalla Francia tra il 1870 al 1914 sia inferiore al vantato modello inglese.?4
In quest’analisi, un elemento particolarmente notevole è quello concernente il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo economico della Francia ottocentesca. I critici dell’esperienza francese hanno sempre puntato un dito accusatore sulle asserite inefficienze del settore agricolo, dominato da proprietari contadini che durante l’intero secolo restarono tenacemente aggrappati ai loro piccoli poderi, cui provvedeva una manodopera familiare sottoccupata. E certo, se adoperiamo il metro inglese, dobbiamo concludere che in tutto il periodo l’agricoltura occupò una quota della popolazione francese sproporzionatamente elevata, e che la distribuzione delle forze di lavoro tra i settori conobbe modificazioni strutturali lentissime. Ma se nel caso inglese la crescita economica sembra aver poggiato in parte sulla rapidità del declino — in termini relativi — della popolazione agricola, che aprì la strada ad altissimi livelli di produttività del lavoro nel settore, non sembra che in Francia il 15
permanere della manodopera nell’agricoltura (malgrado la sua incidenza negativa sulla produttività) abbia avuto le attese catastrofiche conseguenze sul reddito pro capite. E naturalmente possibile che la produzione manifatturiera francese fosse raffrenata dalla lentezza della trasformazione dell’agricoltura, e che i livelli di reddito pro capite in questione venissero raggiunti malgrado le condizioni esistenti nel settore primario anziché con il suo aiuto. Ma è qualcosa che rimane interamente da dimostrare. Colin Heywood scrive che i critici dei contadini francesi hanno avuto troppa fretta. Hanno parlato di un’inefficiente allocazione delle risorse senza mostrare in qual modo queste avrebbero potuto essere diversamente, e utilmente, impiegate nelle condizioni dell'economia ottocentesca; hanno prescritto innovazioni e investimenti senza preoccuparsi di giustificarli sulla base delle forze del mercato; e hanno insistito su un rifiuto di cogliere le opportunità senza dimostrare l’esistenza di queste opportunità.?5
In altre parole, non è affatto autoevidente che l’industria francese — molto meno di quella inglese basata sulla fabbrica — avrebbe potuto assorbire con vantaggio un assai più massiccio esodo dalla terra. Ciò ch’è significativo è che sviluppi in qualche modo comparabili con l’esperienza inglese (di nuovo, occorre ripeterlo, giudicati in termini di reddito pro capite) appaiono essersi compiuti in assenza di qualsivoglia rivoluzione agricola (fino al tardo Ottocento), senza la comparsa di un’agricoltura capitalistica su grande scala, e con il permanere in occupazioni rurali di un’ingente quota della popolazione attiva. Chiaramente, conclusioni di questo tipo mettono in questione il modello generalizzato del rapporto fra trasformazione dell’agricoltura e crescita industriale. I numerosi riesami del caso francese suggeriscono con buona certezza che questo modello è di gran lunga troppo schematico, e 16
ch'è possibile associare la persistenza in agricoltura di certe forme sociali apparentemente conservatrici, come la proprietà contadina, e un cospicuo livello di crescita economica?°. Ciò non soltanto perché una siffatta agricoltura può essere di per sé redditizia (non occorre ricordare al lettore
l’alta redditività, in termini di prodotti di elevato valore, di alcune sezioni dell’agricoltura francese), ma anche perché il tipo d’industria che andava concretamente sviluppandosi non aveva bisogno di investimenti di capitale straordinariamente ingenti. Di nuovo, nel caso francese ciò parrebbe corrispondere al fatto che la piccola officina artigiana era assai più la norma che non l’eccezione. Ed essa produceva beni di valore relativamente elevato, aveva un minore fabbisogno di capitale per la meccanizzazione, e avvertiva molto meno le costrizioni imposte dalle dimensioni limitate del mercato disponibile per i suoi prodotti. Lo specifico mix industriale francese, differente da quello inglese, fece dunque sì che il livello del trasferimento netto di capitale da un settore all’altro fosse molto diverso rispetto al caso britannico (non, certo, che in Francia non avvenisse nessun trasferimento del genere, cosa impossibile). E da ciò segue che il ruolo svolto dall’agricoltura nel processo d’industrializzazione fu nei due paesi molto diverso. Se si parte dalla convinzione che anche in Inghilterra entrambe le ‘rivoluzioni’ — l’agricola e l'industriale — furono processi molto più lunghi, e con un andamento molto più irregolare, di quanto si sia spesso pensato, queste conclusioni forniscono una base assai più flessibile allo studio della transizione dalla società rurale alla società industriale. Da un lato il mutamento cataclismatico non è più il modello, e dall’altro la persistenza di forme sociali ritenute in passato ‘‘antiquate’’ e antieconomiche diventa compatibile con una crescita economica graduale. Come vedremo, anche la teoria della protoindustrializzazione ha tendenzialmente rafforzato questa concezione. In una rassegna recente sull’argomento, Richard Randolph osserva che di
Un corollario cruciale dell’ipotesi della protoindustrializzazione [è] che le fonti dell’industrializzazione non vanno cercate nella cosiddetta rivoluzione industriale e nelle invenzioni e innovazioni del tardo Settecento. È vero piuttosto che l’industrializzazione fu il frutto di un processo lungo e graduale svoltosi nelle campagne. Nella letteratura, le concezioni incentrate sull’idea di una rivoluzione industriale [sono state] ormai sostituite dal paradigma dell’industrializzazione graduale.?7 Una conseguenza è stata di spingere gli storici sempre
più fortemente in direzione di studi regionali anziché nazionali, proprio in forza della necessità di indagare in maniera molto più particolareggiata i processi di lungo periodo che hanno determinato il ritmo e le caratteristiche dell'evoluzione economica. Quando è stato praticato in modo troppo angusto, il metodo è stato criticato; ma sono in po-
chi a non essersi convinti che gli studi regionali sono in grado di gettare molta luce sul processo del cambiamento. In questo nostro studio — ch’è uno studio regionale — si cerca di passare in rassegna taluni aspetti dello sviluppo italiano nel corso dell’ultimo secolo e mezzo alla luce delle considerazioni svolte più sopra. Questo nuovo approccio
alla transizione, meno schematico e più flessibile, non è infatti senza importanza per l’analisi del caso italiano. Un tratto caratteristico dell’Italia, oggi largamente riconosciuto, è il fatto che l’agricoltura ha continuato ad assorbire un’elevata percentuale della popolazione fino a Novecento inoltrato. E invero in molte zone sembra esserci stato un preciso rifiuto dell’urbanizzazione fino agli anni Cinquanta. Si trattava di gente che restava tenacemente aggrappata alle sue abitudini rurali, e non voleva lasciare la campagna. La gradualità del mutamento e la grande lentezza della transizione rimangono gli elementi principali del quadro; e sono elementi che fino a tempi recentissimi erano considerati nocivi alla crescita economica. Ma il caso francese, esa-
minato più sopra, parrebbe suggerire che la crescita può avvenire entro il contesto di quella che, proprio a causa 18
della persistenza di un ampio (e presunto inefficiente) settore agricolo, è stata classicamente definita un’economia relativamente ‘‘arretrata”’. Sembrerebbe anzi che contadini, industria manifatturiera e crescita economica abbiano
potuto camminare di conserva, e anche a un passo discretamente veloce.. Domandiamoci ora: può questo modello trovare in qualche modo applicazione anche nel caso dell’Italia? Se guardiamo all’Italia del 1860, il quadro sembra essere quello di un paese che da un lato ha un’agricoltura prevalentemente precapitalistica, e non di rado di pura sussistenza, e dall’altro presenta ben poche industrie che possano essere in qualche modo considerate competitive sul piano internazionale, o che possano fare assegnamento su un prospero mercato interno. Dopo tutto, anche nel caso del Piemonte, una regione relativamente avanzata, Cavour aveva puntato tutte le sue carte sul tavolo di un’agricoltura efficiente, capace di produrre soprattutto per il mercato internazionale. A primo sguardo, l’Italia parrebbe dunque costituire un caso ‘‘classico’’ di arretratezza, un esempio perfetto del tipo del ‘‘ritardatario’’, del paese cioè che, giunto tardi sulla scena economica, può soltanto aspettare la mano pesante dell’industrializzazione ‘‘dall’alto”’. Una gran parte della discussione sull’industrializzazione italiana è stata naturalmente (e con buone ragioni) condotta in questi termini. È indiscutibile che lo sforzo d’industrializzazione italiano avvenne in coda a quelli di molti altri paesi europei, e che di conseguenza l’industrializzazione della penisola fu pesantemente condizionata da circostanze economiche per più aspetti differenti da quelle che i paesi ‘‘arrivati prima” s'erano trovati ad affrontare. Ed è altrettanto chiaro che i termini della concorrenza internazionale, insieme con una mediocre dotazione di risorse, suggerivano la necessità di un grosso sforzo concentrato nel tempo, il quale aveva a sua volta bisogno di alti livelli d'investimento di capitale 19
nel campo delle comunicazioni (ferrovie), della meccaniz-
zazione e della difesa, e che tutto questo non poteva non avere i suoi effetti negativi sulla bilancia commerciale italiana. Ciò spiega la tendenza degli storici economici a concentrarsi sulle questioni concernenti i fattori capaci di consentire un ‘‘decollo’’ rostowiano o, viceversa, di frustrare un ‘grande balzo” (big spurt) gerschenkroniano nel periodo anteriore al 1900: ossia sui problemi del mercato, dell’accumulazione di capitale, del credito bancario e della finanza pubblica, dell’intervento dello Stato e del suo ruolo nella direzione dell'economia e nella determinazione della politica commerciale. Il dibattito, qualche volta aspro, è servito a chiarire alcuni punti — oggi nessuno mette in dubbio il ruolo (seppur contraddittorio) delle politiche sociali e fiscali dello Stato nel comprimere i consumi e nel raccogliere capitali, il ruolo del capitale estero e delle banche miste, o la parte avuta dalle rimesse degli emigrati italiani nel finanziare l’industria — e si continua a discutere sul peso e l’importanza relativi dei fattori, e anche sulla validità delle vie prescelte. Ma solo di rado si esprimono dubbi circa il fatto che si tratti sostanzialmente di un caso di industrializzazione ‘‘dall’alto”’. Questa posizione ha naturalmente dalla sua ottime ragioni, e sarebbe sciocco negare il ruolo centrale dello Stato italiano nel determinare la via dell’industrializzazione nel primo cruciale cinquantennio post-unitario. Il ferro e l’acciaio (la Terni), la meccanica e gli armamenti (1’Ansaldo), le nascenti industrie elettriche e chimiche: in tutti questi settori sono ravvisabili i segni della tutela e dell’interesse dello Stato. Non sorprende che siano questi aspetti a costituire i lineamenti centrali di molte ricostruzioni della storia economica del periodo in questione. Ma, come sempre, è anche vero che ciò che vediamo è in parte determinato da ciò che cerchiamo. E qui tornano in giuoco i modelli dell’industrializzazione. Se la pietra di paragone è l’Inghilterra, 0 — come più spesso avviene nel caso dell’Italia — la 20
Germania, allora molto probabilmente l’accento batterà sulle industrie pesanti e sull’agricoltura capitalistica o di stile prussiano. L’analisi gerschenkroniana dei ‘‘ritardatari’ — la quale sostiene che quanto più tardi si arriva al processo d’industrializzazione, tanto più rapida sarà la crescita della produzione, e tanto maggiore assegnamento si farà sui beni capitali (in quanto distinti dai beni di consumo) — orienta l’attenzione precisamente verso questi campi d’indagine. Inoltre, additando i vantaggi di cui gode il ritardatario — la tecnologia esistente, i circuiti finanziari, gli input a buon mercato — lo storico americano fu in gra-
do di sostenere la molto minore dipendenza dei ritardatari dall’aumento della produttività dell’agricoltura nazionale. Ne segue che un’industrializzazione accelerata non esigeva quell’impennata della produzione agricola che s’era verificata in Inghilterra. E dunque deplorare l’assenza di una ‘‘rivoluzione contadina’ dopo il 1860 era fuori bersaglio, perlomeno in termini economici. Grazie alla sua capacità di sostituire fattori che in passato erano stati considerati i prerequisiti dell’industrializzazione, lo Stato era in grado con la sua sola azione di generare fondi da destinare alla costruzione di una base industriale. Come risulterà abbastanza chiaro, malgrado la luce che getta sulle varianti nazionali della via all’industrializzazione, la tipologia di Gerschenkron rimane fondamentalmente legata al modello inglese. La sua preoccupazione essenziale è quella di spiegare le deviazioni europee da quel modello; e il ruolo dello Stato e la possibilità di sostituire i fattori gli permettono appunto di illuminare tali deviazioni. Il problema è che il suo modello inglese è una versione stilizzata di una concezione della prima rivoluzione industriale ormai piuttosto antiquata; una concezione che lo conduce ad attribuire un peso forse eccessivo alla necessità di un’accelerazione e del ‘‘grande balzo”. Le argomentazioni revisioniste passate più sopra in rassegna suggeriscono invece che, nel caso inglese, la crescita dell’industria fu 21
molto più graduale di quanto si pensasse in passato (con la grande industria che in talune aree svolse un ruolo relativamente modesto); e che, nel caso francese, il riuscito processo d’industrializzazione va inquadrato in una cornice differente, in cui possono coesistere un’agricoltura contadina e industrie piccole e specializzate. Di fatto, sembrano esserci ora buone ragioni per soste-
nere che — accanto all’innegabile ruolo svolto in Italia dallo Stato nello stimolare talune industrie — molti altri fattori erano in giuoco. Ma per individuare questi fattori occorre che un’altra lezione venga tratta dal riesame dell’industrializzazione inglese: occorre cioè che la questione sia considerata su un fronte molto più ampio e su un periodo molto più lungo, sia all'indietro che in avanti. Questa riconfigurazione del terreno è dettata dalla convinzione che l'accelerazione della crescita economica si verifica soltanto in presenza di circostanze favorevoli. E possibile convenire che la recente storiografia economica suggerisce che prima del 1914
le economie relativamente arretrate non godevano di nessuno speciale vantaggio nello sfruttamento di strategie d’industrializzazione indipendenti dai precedenti sviluppi interni nell’industria manifatturiera, dalla loro base di risorse naturali e dalle opportunità disponibili sui mercati internazionali o imperiali.?8
Da una diversa angolazione, si potrebbe dire che la questione diventa quella di sapere non se l’Italia conobbe un'accelerazione di un qualche tipo prima del 1914 (ciò ch'è innegabile), ma quali fossero i fattori preesistenti che si combinarono nel permettere quest’accelerazione. A questo punto, è pressoché inevitabile tornare a prendere in considerazione il ruolo dell’agricoltura; dopo tutto, nel periodo preunitario l’Italia aveva una modestissima industria manifatturiera, nessun impero, e ben poche risorse
naturali oltre quel che si produceva sulla terra. Ma — ed è questo il punto importante — aveva mercati internazionali 22
per certi prodotti agricoli. L’inizio dei «precedenti sviluppi interni» di cui parla O'Brien va probabilmente fatto risalire agli anni intorno al 1705, quando buona parte dell’agricoltura settentrionale cominciò a reagire alle sollecitazioni provenienti dall’espansione della domanda nell’impero asburgico e in Francia. Gli effetti sull’agricoltura settentrionale non sfuggirono agli osservatori contemporanei. La prosperità e l’efficienza della pianura lombarda, per esempio, divennero note in tutta Europa. Ma collegamenti
internazionali si formarono non soltanto per i generi alimentari, bensì anche — dopo la Restaurazione del 1815 — per la seta, la cui produzione fece registrare un balzo gigantesco tra il 1820 e il 1850. L’Italia settentrionale divenne in breve tempo il primo fornitore di seta greggia del resto dell'Europa. Parecchi sono i punti che occorre fissare riguardo a questi sviluppi. Il primo è forse il più ovvio, ma sicuramente non il meno importante. Gli sviluppi verificatisi nell'Italia settentrionale nei cent'anni che precedono l’Unità indicano che robusti legami commerciali si erano già formati con altre aree dell'Europa. L'Italia settentrionale era diventata quella che Sidney Pollard definirebbe una regione agricola specializzata, in via di graduale integrazione con gli altri mercati europei. Sulla scia dell’agricoltura, e in particolare della seta, prendevano forma contatti finanziari, circuiti e consuetudini commerciali: altrettanti elementi essenziali a un’ulteriore crescita economica??. Il secondo punto è che l’agricoltura produceva anche profitti. La seta soprattutto era un prodotto di alto valore, e i profitti erano enormi, perché un inasprimento delle clausole contrattuali permise ai proprietari terrieri di confiscare praticamente l’intero raccolto, lasciando i mezzadri a mani vuote. Non sembra dunque irragionevole postulare nel Nord un processo di accumulazione di capitale abbastanza lungo in una fase di molto precedente l'Unità. Ciò suggerisce che anche l’Italia aveva — nel settore agricolo — i suoi prerequisiti dell’inLe;
dustrializzazione. Il che suggerisce a sua volta che non è forse il caso d’insistere troppo sul ruolo svolto dallo Stato unitario nel processo di formazione di capitale di cui l’industria aveva bisogno. Questo punto può essere corroborato ricordando che la seta fornì fino alla prima guerra mondiale circa un terzo del valore delle esportazioni italiane: un contributo enorme per un solo prodotto. A questo proposito, è difficile non rilevare l’importanza di quanto scrive Luciano Cafagna: In modo particolare la questione centrale che deve essere tenuta presente quando si pone il problema del rapporto tra lo sviluppo di un paese e quello di altri paesi — un late joiner in mezzo ai first comers — è quella dell’equilibrio dei conti con l’estero da cui dipende la possibilità di importare industrializzazione (perché di questo si tratta alla fine, e per lo più).3°
In una parola, fu in gran parte la seta a pagare il conto dell’industrializzazione italiana. Occorre insistere sul punto che si trattava di un’industria a base agricola, il cui sviluppo precedeva di molto l'Unità, e che anche dopo la nascita dello Stato italiano ricevé da questo poco o nessun aiuto. Qui una visione allargata a un periodo più lungo ha forse l’effetto di distogliere l’attenzione dalla finanza pubblica e dall’intervento statale, e di segnalare — ancora una volta — un più lento processo di sviluppo; un processo per parecchi aspetti simile a quello di molte altre aree europee. Un'analisi di questo tipo suggerisce che il modello del ‘‘ritardatario’’, se si limita agli elementi che caratterizzano in generale l’industrializzazione ‘‘dall’alto’’, non racconta tutta la storia. Accanto all’intervento e all’opera di orientamento dello Stato sembra aver operato un diverso schema di sviluppo, che potremmo definire ‘‘spontaneo’’ (in quanto contrapposto a ‘‘indotto’’), e che aveva poco a che fare con le conseguenze politiche del Risorgimento. Si tratta di uno sviluppo che aveva il suo luogo d’origine in pratiche da lungo tempo consolidate nelle comunità rurali, e 24
che porta tutti i segni distintivi di quella crescita economica lenta e graduale, e fondata sulle campagne, su cui recentemente tanti storici economici hanno concentrato il gros-
so della loro attenzione. Il mio proposito qui non è di svolgere la tesi di un’origine protoindustriale dello sviluppo italiano (benché qualcuno l’abbia fatto), e neppure d’insistere sul ruolo dell’industria a domicilio. La questione della protoindustria ci porterebbe probabilmente molto al di là del periodo qui considerato. Mi propongo piuttosto di esaminare una linea di sviluppo che coinvolge, certo, i contadini e l'industria manifatturiera, ma che è caratterizzata da un rapporto tra gli uni e l’altra che evolve nel corso dell'Ottocento senza sfociare nella distruzione o proletarizzazione finale della famiglia contadina. Quest’evoluzione produce invece la famiglia contadino-operaia, impegnata tanto nell’agricoltura quanto nell’industria, ma che conserva tenacemente i suoi legami con la terra. Il tratto notevole di questo tipo di sviluppo sembra essere invero proprio la straordinaria persistenza della famiglia contadino-operaia in quanto forma sociale, con le sue peculiari caratteristiche di comportamento, anche di fronte all’accelerazione della trasformazione economica. Lungi dall’atteso ‘‘esodo dalle campagne”, come vorrebbe il modello inglese, troviamo dunque l’opposto: la persistenza di un certo tipo di società rurale in un mondo che cambia, il suo adattamento a questo cambiamento, ma anche il perdurare del suo contributo al processo d’industrializzazione. Conservazione, continuità e cambiamento sono tutti presenti nello stesso modello. L’attenzione per lo sviluppo ‘‘spontaneo’’ suggerisce in
effetti che l’agricoltura non è soltanto una capitale e di valuta estera, ma ha avuto — — un ruolo fondamentale nella formazione ciali che a lungo andare si sono dimostrate
fonte di cibo, di in certe regioni di abitudini socapaci di stimo-
lare l’espansione dell’industria manifatturiera. E, si badi, questo sviluppo spontaneo non è necessariamente anterio259)
re alla crescita della grande industria. Ciò che sorprende è la misura in cui aree di crescita lenta e graduale sembrano esser state capaci di convivere con quell’industria nel corso degli anni. Qui esamineremo una fase iniziale dello sviluppo in una delle prime aree coinvolte dal processo d’industrializzazione. L'Alto Milanese, la Brianza e il Comasco costituiscono gli oggetti principali di questo studio, ma —
per una fase successiva — molto di quel che si dice qui può forse trovare applicazione in aree del Veneto, della Toscana e delle Marche, dove la società contadina sembra essersi
lentamente dissolta in piccole attività manifatturiere. In verità, alla stregua di quest’interpretazione difficilmente può dirsi che la Terza Italia sia un fenomeno nuovo. Essa appare piuttosto un'imponente estensione della graduale, molecolare evoluzione svoltasi in un periodo precedente in talune aree dell’Italia settentrionale e centrale. La Terza Italia ha già la sua specifica — e amplissima — letteratura, e il presente studio non si propone di fornire un ulteriore contributo su questo terreno. In maggioranza, le indagini del fenomeno scelgono come punto di partenza il secondo dopoguerra, se non addirittura gli anni Sessanta. Scopo di questo libro è invece di esaminare le origini storiche di un particolare tipo di sviluppo, che coinvolge generalmente famiglie mezzadrili, e di suggerire la possibilità che fenomeni recenti abbiano i loro precedenti in una fase di sviluppo di molto anteriore agli anni Sessanta o Settanta del nostro secolo. La discussione sulle origini agricole dell’industria sembra favorire questo approccio. Questo libro sostiene che taluni tratti dello sviluppo recente, comunemente associati all'affermazione della Terza Italia, sono di fatto rinvenibili altrove nella penisola e in un periodo precedente. Attraverso l'esempio dell’industria della seta e del Comasco, suggeriamo che molti dei fattori che hanno favorito la crescita delle piccole imprese non sono così nuovi come possono sembrare, e che, a un esame più ravvicinato,
le regioni del boom recente e le regioni che videro una fase 26
più antica del processo d’industrializzazione posseggono molte caratteristiche comuni. Come in tutti i processi d’industrializzazione, il protagonista principale di questa transizione è stata la famiglia, costretta ad adattarsi ai cambiamenti che minacciavano una relativa stabilità durata secoli. Qui il centro dell’attenzione è il #z0do in cui alcune famiglie contadine si adattarono alla transizione. La tesi qui presentata è che il particolare rapporto sviluppatosi tra una popolazione agricola e un'industria rurale diffusa determinò una forzza sociale di produzione — la famiglia contadino-operaia — che si è conservata per decenni, e che esibisce talune caratteristiche
molto peculiari. L'industria della seta, e, in una misura minore, quella del cotone, che fiorirono tra il 1840 e il 1930
nelle aree rurali a nord di Milano, offrono un’opportunità di illustrare questa teoria; ma è bene chiarire subito che non è l’industria tessile in sé presa, bensì la forma sociale prodotta da quest’industria rurale, che costituisce l’oggetto del presente studio. Come abbiamo visto, i benefici finanziari dell’industria
della seta per l’industrializzazione italiana sono largamente riconosciuti. Un’attenzione molto minore è stata dedicata alla storia delle famiglie contadine occupate in questo settore; ed è questo aspetto — lo sviluppo della forza lavoro rurale — che costituisce il tema centrale del presente studio. Qualunque altra cosa abbia fatto per l'economia italiana (e fece certo moltissimo), la seta contribuì altresì a produrre un tipo molto speciale di forza lavoro. Ciò fu in parte il risultato del carattere unico della produzione della seta, la quale chiedeva alla famiglia contadina di lavorare sulla terra, di coltivare le foglie di gelso, di allevare i bachi da seta in casa, e infine di lavorare in fabbrica (torcitura e filatura). Per alcuni aspetti, si trattava di una manodopera altamente specializzata; ma la sua caratteristica essenziale stava in ciò, che rimaneva impegnata in agricoltura come manodopera rurale (i contadini erano in maggioranza mez2%
zadri), e contemporaneamente dipendeva dagli introiti provenienti dal lavoro non-agricolo (a tempo parziale) delle donne e dei fanciulli. Era una combinazione di attività (detta ‘‘pluriattività’’) che in molte aree dell’Alto Milanese
sarebbe continuata anche dopo la virtuale scomparsa dell'industria della seta, quando le famiglie contadine avrebbero rivolto la loro attenzione ad altre forme di attività non-agricole a/lo scopo di poter sopravvivere sulla terra. E anzi a questo punto che la famiglia contadino-operaia, lungi dallo scomparire, comincia ad imporre con sempre maggior vigore la sua presenza nell'economia regionale, fornendo la forza lavoro, ‘e spesso anche l’iniziativa, necessarie all’ulteriore espansione. In quanto forma sociale, la famiglia contadino-operaia fu dunque sì creata dal contatto con la seta, ma non era intrinsecamente legata a questa parti-
colare attività. Avventurarsi nel campo della storia della famiglia significa naturalmente addentrarsi in un campo minato. Ciò nondimeno, la famiglia contadino-operaia occupa chiaramente un posto centrale in questo particolare tipo di evoluzione sociale ed economica. Ciò è probabilmente vero per la Francia non meno che per l’Italia. Come ha osservato Claude Fohlen, «La popolazione lavorativa francese viveva sparsa per il paese [...] perciò la distinzione tra il lavoro industriale e quello agricolo è spesso artificiale»?! Lo stesso può dirsi dell’Italia; ed è anzi probabile che, per un periodo più lungo di quanto si sia spesso riconosciuto, la produzione manifatturiera fosse realizzata più da lavoratori che non appartenevano alla classe operaia (nel senso convenzionale dell’operaio industriale urbanizzato), che da coloro che invece vi rientravano. Ma anche se è talvolta difficile tracciare la distinzione, o se le distinzioni possono aver l’aria di essere leggermente artificiose, è un fatto che una forza lavoro rurale-industriale è qualcosa di molto diverso da una forza lavoro urbana. Fu, questo, l’effetto della seta. La seta creò cioè un humus sociale molto diverso da 28
quello del proletariato urbano, una diversa struttura della produzione e diversi atteggiamenti verso lo spirito d’impresa: tutte cose che ebbero una parte importante nello sviluppo dell’economia italiana. I fattori che indussero le famiglie contadine a prender contatto con l'industria manifatturiera furono, come vedremo, molti e svariati. In termini generali, le strategie delle famiglie furono determinate tanto dalla loro organizzazione interna quanto dalle opportunità esterne. Non di rado, la prima fu pesantemente condizionata dalle seconde, ma perché le famiglie si decidessero a ricercare occupazioni non-agricole, dovevano di regola essere presenti due condizioni. La prima era la povertà e il bisogno di denaro. Questo è un punto che da solo la dice lunga sul rapporto tra dimensioni della famiglia e dimensioni del podere, che è stato sempre al centro del problema contadino. Ma — come ha sottolineato Gay Gullickson?2 — la povertà non poteva di per sé produrre l’impegno nell’industria manifatturiera. Il fattore cruciale era l’esistenza di una forza lavoro eccedentaria in seno alla famiglia, ch’era a sua volta generalmente un prodotto del carattere irregolare del ciclo agricolo, combinato con fattori come le dimensioni della famiglia e del podere e la vicinanza all’industria. Un fattore altrettanto importante era quello dei requisiti dell’industria di volta in volta in questione. Industrie che impiegavano manodopera sia maschile che femminile tendevano, sulla lunga distanza, a sconvolgere l’organizzazione economica della famiglia, e ad allontanarla dalle attività agricole. Finché tuttavia imembri della famiglia potevano impegnarsi in attività sì differenti, ma complementari, era possibile evitare scelte definitive. Ma nella questione dell’elaborazione delle strategie familiari un punto chiave rimane quello del processo decisionale all’interno della famiglia. Chi prendeva le decisioni, e su quale base? Soltanto rispondendo a queste domande possiamo cominciare a comprendere l'evoluzione di un modelDI
lo comportamentale destinato a diventare caratteristico delle famiglie in esame. In termini generali, gli storici della famiglia hanno fornito risposte differenti. Mentre Laslett e Wall hanno insistito sul predominio maschile all’interno della famiglia in tutte le questioni concernenti le relazioni del gruppo familiare con il mondo esterno, Martine Segalen ha affermato perentoriamente che «non c’è nulla a sostegno dell’idea che l'autorità del marito sulla moglie fosse assoluta»33. La soluzione di questo problema — nella misura del possibile — può fornire lumi importanti riguardo al perché talune decisioni venivano prese ed altre evitate. I più degli osservatori concordano tuttavia su un punto. Un aspetto cruciale del processo decisionale era la divisione dei ruoli all’interno della famiglia contadina. Ciò che si faceva era, in un certo senso, meno importante di chi lo faceva. Estremamente importante ai fini dello sviluppo della famiglia era, ad esempio, se fossero le donne oppure gli uomini a stabilire il primo contatto con l’attività manifatturiera fuori casa. Come ha mostrato Gullickson, nelle industrie a domicilio in cui tanto gli uomini quanto le donne erano impegnati nella produzione, o là dove erano gli uomini a lavorare in attività industriali esterne, era concepibile una qualche forma di transizione verso un più stretto e più completo coinvolgimento nell’industria. Invece nel caso contrario, in cui soltanto le donne lavoravano fuori casa nelle industrie rurali, ulteriori sviluppi in questa direzione erano estremamente improbabili?4. Da sole, queste conclusioni la dicono lunga su chi prendeva le decisioni in seno alla famiglia. Nel caso dell'Alto Milanese, come vedremo, l'elemento che permise dapprima la sopravvivenza sulla terra, e successivamente l’espansione in altre forme di attività, fu la netta distinzione dei ruoli economici in seno alla famiglia sulla base del genere. Fintantoché gli uomini continuavano a dominare la famiglia rurale (come sembra in effetti avvenisse), era la loro cultura sociale e politica, in gran parte 30
derivata dalla loro attività economica, che determinava gli atteggiamenti prevalenti all’interno della famiglia. Di conseguenza, là dove gli uomini rimanevano impegnati a pieno
tempo nell’agricoltura, il loro orizzonte conservatore e patriarcale tendeva ad avere la meglio sulle più sovversive tendenze delle loro mogli e figlie (che lavoravano in fab-
brica). Se gli uomini passavano a lavorare in fabbrica, anche soltanto su base stagionale, la situazione poteva cambiare, e molto. E nel corso del tempo poteva accadere che i ruoli mutassero o s’invertissero, creando tensioni, o invece una maggiore armonia. Una delle grandi domande rimaste finora senza risposta parrebbe dunque essere quella concernente le modificazioni della posizione della donna nella famiglia in rapporto al mutamento del suo ruolo economico. Come hanno suggerito Tilly e Scott, una posizione differente, forse più importante, forse più modesta, poteva produrre strategie differenti in seno alla famiglia??. La divisione sessuale del lavoro, il genere in rapporto all’attività economica, il mutare dei ruoli entro la famiglia nel corso dei decenni, gli atteggiamenti verso le opportunità economiche (di solito, gli atteggiamenti maschili dominanti) sono dunque tutti elementi chiave ai fini della nostra indagine. Il modo in cui le famiglie tenevano il piede in più settori economici — la pratica della pluriattività — è una caratteristica presente nella maggioranza delle comunità in via d’industrializzazione. Come ha mostrato per il Lancashire Michael Anderson, il periodo in cui le famiglie dividono le loro attività tra l’agricoltura e l'industria è un momento inevitabile della transizione?6. Ciò ch’è interessante nel caso italiano è la maniera in cui il modello della famiglia pluriattiva persiste nel tempo, molto al di là di quello che sarebbe ragionevole attendersi in una società in via d’industrializzazione. Come cercheremo d’illustrare, lo sviluppo del modello è inizialmente legato a circostanze specifiche, le quali evolvono nel corso dell'Ottocento, facendo della pluriattività uno strumento di sopravvivenza. La peculiaSRI
rità del caso italiano parrebbe dunque consistere nel fatto che la pluriattività, dapprincipio una necessità, divenne in seguito un’abitudine. Famiglie che dopo, poniamo, il 1920 non avevano più bisogno di organizzarsi secondo lo schema della pluriattività, continuarono a farlo, in gran parte perché trovavano questa sistemazione conveniente. Originariamente un puro meccanismo di sopravvivenza, la pluriat-
tività diventò mezzo di accumulazione: contribuiva a massimizzare gli introiti, e permetteva la riduzione delle spese. Il cuscino protettivo della produzione a basso costo fornita dalla famiglia contadino-operaia sembra aver avuto un’enorme importanza nelle varie fasi dell’industrializzazione italiana, in quanto favorì la competitività internazionale dell'industria. L'agricoltura assume dunque una nuova importanza nel processo d’industrializzazione; e non soltanto come fonte di accumulazione di capitale e di una manodopera che affluisce nelle città per formarvi il proletariato urbano, ma anche come quel settore che vede la comparsa di una forma sociale e di un modello di comportamento destinati a persistere nel tempo in una maniera inconsueta nella storia dell’industrializzazione. Il passag-
gio dal contadino soggetto all’alta autorità del padrone al contadino-operaio che partecipa attivamente agli sviluppi dell'economia è un’espressione di questo modello di comportamento, che si adatta alle circostanze economiche, ma
conserva molte delle sue caratteristiche essenziali. Sarà dunque irragionevole suggerire che il ruolo della famiglia nello stimolare l’attività economica — qualcosa che negli ultimi dieci anni ha attirato tanta attenzione in quanto fenomeno recente — è stato in realtà un tratto dell'economia italiana per un periodo molto più lungo, e che la forma sociale in cui alcune di tali attività hanno il loro luogo d’origine — la famiglia contadino-operaia — ha una storia ancora, e di molto, più lunga? I capitoli seguenti sono dedicati a questa visione più ampia, alle origini storiche dell'imprenditoria familiare. 0424
Note ! L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Venezia 1989, p. XXVIII. 2 A. Toynbee, Lectures on the Industrial Revolution in the Eighteenth Century in England, London 1919, citato da J.V. Beckett, The Agricultural Revolution, Oxford 1990, p. 1. 3 R. Aldrich, Late-Comer or Early-Starter? New Views on French Economic History, in «Journal of European Economic History», XVI, 1987, p. 89. 4 R. Roehl, French Industrialisation: A Reconsideration, in «Explorations in Economic History», XIII, 1976, pp. 233-34. 3 A. Cobban, A History of France, Harmondsworth 1959, p. 26. 6 T. Kemp, The Industrialisation of Nineteenth Century Europe, Oxford 1969, capp. II e III [trad. it. L’industrializzazione in Europa nell’800, Bologna 1975]. ? R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Bari, 1959; A. Gerschenkron, Eco-
nomic Backwardness in Historical Perspective, Cambridge (Mass.) 1962 [trad. it. I/ problema storico dell’arretratezza economica, Torino 1965]. sim.
8 E. Sereni, I/ capitalismo nelle campagne, Torino 1968, p. 146. ? P. Grifone, I/ capitale finanziario in Italia, Torino 1970, Introduzione, pas-
!0 Vedi, per diversi aspetti della discussione, D. McCloskey, The Industrial Revolution: A Survey, in R. Floud e D. McCloskey, The Economic History of Britain since 1700, vol. I (1700-1860), Cambridge 1981; N.F.R. Crafts, British Economic Growth During the Industrial Revolution, Oxford 1985; J. Mokyr (a cura di), The Economics of the Industrial Revolution, London 1985; R. Cameron,
A New View of European Industrialisation, in «Economic History Review», XXXIV, 1985; P.K. O°Brien, Do We Have a Typology for the Study of European Industrialisation in the XIXth Century?, in «Journal of European Economic History», XV, 1986; P. Mathias, The Industrial Revolution: Concept and Reality, e J.A. Davis, Industrialisation in Britain Before 1850: New Perspectives and Old Problems, entrambi in P. Mathias e J.A. Davis (a cura di), The First Industrial Revolution, Oxford 1989. !! Beckett, The Agricultural Revolution, cit.; E.L. Jones, Agriculture and Industrial Revolution, Oxford 1974.
12 M. Read, The Peasantry of Nineteenth Century England: A Neglected Class?, in «History Workshop Journal», XVIII, 1984; vedi anche A. Howkins, The Re-
shaping of Rural England, London 1991. 13J.G. Williamson, Why Was British Economic Growth So Slow During the Industrial Revolution?, in «Journal of Economic History», XLIV, 1984. 14 Cameron, A New View of European Industrialisation, cit., p. 9. 15 P.K. O’Brien, Agriculture and the Home Market of English Industry 16601820, in «English Historical Review», C, 1985, pp. 784 e 786. 16 O°Brien, Do We Have a Typology cit., p. 296. !7 Aldrich, Late-Comer or Early-Starter? cit., p. 89. 18 N.F.R. Crafts, Industrial Revolution in Britain and France: Some Thoughts on the Question “Why Was England First?”, in «Economic History Review»,
XXX, 1977, pp. 432-35.
19 Cafagna, Dualismo e sviluppo cit., p. XXII. 20 O°Brien, Do We Have a Typology cit., p. 291. 21 P.K. O'Brien e C. Keyder, Ecorozzie Growth in Britain and France 17801914, London 1978, p. 18. 22 Cameron, A New View cit., p. 23. 23 O'Brien e Keyder, Economic Growth cit., passim.
24 Ivi, p. 196.
55,
25 C. Heywood, The Role of the Peasantry in French Industrialisation 1850-80, in «English Historical Review», XXXIV, 1981, p. 376. 26 Vedi in particolare i lavori già citati di Roehl, Cameron e Aldrich.
27 R. Randolph, The European Family and Economy: Central Themes and Is-
sues, in «Journal of Family History», XVII, 1992, p. 128. 28 O°Brien, Do We Have a Typology cit., p. 314. 29 Vedi S. Angeli, Proprietari, commercianti e filandieri a Milano nel primo Ottocento. Il mercato della seta, Milano 1982. 30 Cafagna, Dualismo e sviluppo cit., p. 397. 31 C. Fohlen, The Industrial Revolution in France 1700-1914, in The Emergence of Industrial Societies, a cura di C. Fohlen, vol. IV di The Fontana Economic History of Europe, diretta da C. Cipolla, London 1973, p. 26 [trad. it. L’erzergere delle società industriali, vol. IV di Storia economica d’Europa, Torino 1980, p. 28]. 322 G. Gullickson, Spinzers and Weavers of Auffay. Rural Industry and the Sexual Division of Labor in a French Village, 1750-1850, New York 1986, pp. 196SIR
33 Vedi P. Laslett e R. Wall, Housebold and Family in Past Time, Cambridge 1972; M. Segalen, Love and Power in the French Family. Rural France în the Nineteenth Century, Oxford 1983. La citazione è alla p. 2 della traduzione inglese. 34 Gullickson, Spinners and Weavers of Auffay cit., pp. 197-98. 35 L. Tilly eJ.W. Scott, Wozzen, Work, and Family, New York 1978. E
36 M. Anderson, Famzily Structure in Nineteenth Century Lancashire, Cambri-
ge 1971.
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Capitolo secondo
Industria diffusa e pluriattività (1815-1890)
Come sarà chiaro, al centro di qualunque esame dell’industrializzazione ‘‘spontanea”’ dell’Italia sta, inevitabilmente, la famiglia contadina: la sua struttura e le sue dimensioni, la sua organizzazione e le sue strategie, il suo rapporto con la terra e il prodotto di questa. Sono tutti fattori che determinano le caratteristiche del mercato del lavoro,
la sua compatibilità con l’industria rurale e la risposta della manodopera delle campagne all’introduzione di quest’industria. La discussione sulla protoindustrializzazione ha già indicato alcuni principi-guida dell'indagine, anche se una grande abbondanza di studi locali ha suggerito che non debbono essere considerati nulla più che, appunto, principi-guida. Come abbiamo visto, un’eccedenza di popolazione rispetto alla terra e una condizione di povertà rurale (rese manifeste dall’agricoltura di sussistenza) sono spesso ritenute essere prerequisiti dello sviluppo di industrie rurali, insieme con un’espansione della domanda di prodotti manufatti e con un progresso delle comunicazioni. Alcuni autori — segnatamente Gullickson! — hanno insistito sulla grande importanza di particolari tipi di ciclo agricolo, che lasciavano una buona parte della popolazione sottoccupata per parecchi mesi ogni anno, e — cosa ancor più
rilevante — sulla divisione sessuale del lavoro all’interno Sp)
della famiglia, che permise la formazione di quelle che sono qui chiamate le famiglie contadine pluriattive?. Molti dei punti che emergono da questa discussione sono al centro della nostra analisi. Per esempio, strategie familiari differenti si sviluppano a seconda che la frazione manifatturiera del reddito familiare sia fornita dalla componente maschile oppure femminile, che tale reddito non abbia assolutamente nulla a che fare (né in termini di localizzazione né in termini di capacità professionali) con l’agricoltura, o che la produzione manifatturiera della famiglia coinvolga tutti i suoi membri — il marito, la moglie e i figli — spesso in un processo produttivo sequenziale. In altre parole, come abbiamo visto nel capitolo precedente, molto spesso il chi faceva che cosa, e il dove, erano altret-
tanto importanti, e forse ancor più importanti dell’attività stessa. Le strategie erano spesso determinate da queste distinzioni. Anzi, le gerarchie in seno alla famiglia erano di solito una conseguenza della divisione del lavoro, ed erano al centro del processo di formazione dei modelli di comportamento familiare. La complessità della questione risulta chiara. Nel caso italiano, essa rinvia a un problema ulteriore: ossia al ritmo relativamente lento del trasferimento della popolazione da occupazioni agricole a occupazioni industriali, e dalle campagne alle città. La persistenza nelle aree rurali di una quota di popolazione sorprendentemente elevata fino agli anni Cinquanta del nostro secolo è un elemento che sembra collegato non soltanto alla mancanza di altre opportunità, ma, più specificamente, a una precisa scelta comportamentale delle famiglie interessate. Il fenomeno suscita tutta una serie di domande. Perché e come le famiglie contadine giunsero ad adottare questi modelli di comportamento? Quali sono i fattori che originariamente le spinsero ad impegnarsi in attività che non erano strettamente agricole? E quali ulteriori fattori fecero sì che le famiglie contadine — una volta imbarcatesi in attività extra-agricole — non seguissero la 36
via già percorsa dal bracciante inglese, abbandonando la terra e trasferendosi in città? Se una delle caratteristiche di numerose aree italiane è la proletarizzazione soltanto partziale delle vecchie classi contadine, che cosa impedì il completamento del processo di proletarizzazione? Perché le famiglie restarono così ostinatamente attaccate alla terra, resistendo all’urbanizzazione molto al di là del limite suggerito dagli esempi classici dell’industrializzazione?
1. Contratti agrari, seta e povertà rurale Le pressioni che indussero queste modificazioni nelle strutture familiari esigono un esame minuzioso e attento, che risalga all’indietro fino a oltre un secolo prima dell’Unità. In realtà, la Lombardia del Risorgimento — un punto di partenza abitualmente adottato dagli studiosi — era una regione già caratterizzata da trasformazioni profonde della sua struttura sociale ed economica. Si potrebbe invero sostenere che i mutamenti verificatisi nel corso dei cent'anni che precedettero l'Unità sono più radicali — nel senso che modificarono in maniera fondamentale tradizioni plurisecolari — dei mutamenti che avrebbero avuto luogo nei cent'anni successivi. L’opera di bonifica, l'irrigazione e l’introduzione nelle pianure di metodi agricoli più progrediti (rotazione delle colture, campi a foraggio, allevamento) — tutte cose che furono da un lato una conseguenza dell’acuto senso degli affari diffuso tra i proprietari lombardi, e dall’altro uno stimolo a ulteriori iniziative — avevano collocato l’agricoltura di talune zone della Lombardia tra le più ricche d'Europa (un fatto all’epoca largamente riconosciuto dai visitatori stranieri)}.
Ma, se questo era vero della pianura lombarda, non lo era affatto di altre aree della regione. Nelle colline a nord
di Milano — un’area che comprendeva l'Alto Milanese, la Brianza e il Comasco — e nelle ‘zone più montagnose ancora più a nord, la terra era arida, meno fertile e più dif37
ficile da lavorare*. Sulle montagne confinanti con la sponda settentrionale del lago le condizioni di vita erano durissime, e la sopravvivenza dipendeva dalle rimesse degli emigrati. Più a sud — intorno a Como e a Cantù — le colline e una piccola zona pianeggiante offrivano possibilità migliori, e nondimeno assolutamente non paragonabili a quelle offerte dalle terre della Bassa. Di conseguenza, qui erano assenti quegli incentivi all'investimento e alla trasformazione che avevano modificato in misura così vasta le pianure. Il fatto è che il denaro investito nella terra non fruttava lo stesso tipo di benefici per i proprietari terrieri, i più dei quali in ogni caso si limitavano a visitare i loro possedimenti durante i mesi estivi. Gli ostacoli naturali all'aumento della produzione si combinavano con gli impedimenti umani in modo tale da determinare un circolo vizioso. La mediocre qualità del foraggio, e, cosa più importante, le difficoltà cui andavano incontro le produzioni foraggere sulla terra arida delle colline, rendevano l’impresa dell’allevamento ardua e costosa. Ciò a sua volta costringeva il contadino a fare assegnamento quasi esclusivamente su concimi vegetali, meno soddisfacenti di quello prodotto dagli animali; il che, di nuovo, influenzava negativamente la misura in cui l’agricoltore era in grado di praticare la rotazione delle colture e di alternare arativi e maggese. Inoltre, i mezzadri delle regioni collinari non potevano assolutamente essere paragonati, quanto alla ricchezza, con i fittavoli capitalisti delle grandi tenute della pianura. Di conseguenza, il capitale necessario per investire in bestiame su una scala significativa (in un tentativo di migliorare la fertilità della terra) doveva venire dal proprietario terriero anziché dal fittavolo. Ma, com’è ben noto, l’elevata incidenza delle epidemie faceva sì che in quest'epoca il bestiame costituisse il rischio più grosso in agricoltura. E il
risultato fu il rapido abbandono da parte dei proprietari di qualunque idea di realizzare nelle zone collinari modificazioni della produzione basate sul tipo di migliorie agricole 38
che, insieme con altri vantaggi di carattere più immediato, era servito a fare della pianura un’area tanto prospera?. Ciò nondimeno, le medesime pressioni a ricavare di più dalla terra costringevano i proprietari delle regioni collinari a reagire in qualche modo. Si trovavano di fronte a un problema che non aveva soluzioni ovvie. L’agricoltura collinare, estensiva e relativamente lenta, basata su regolari la-
vori di aratura e su colture cerealicole, fagioli e altri ortaggi, sembrava offrire ai proprietari uno scarso margine per interventi migliorativi. Il vino, e qualche bozzolo da seta, erano probabilmente quanto di meglio si potesse sperare in termini di prodotti agricoli vendibili; tutto il resto del raccolto era destinato al consumo locale. I contratti di mezzadria in atto rendevano difficili anche migliorie modeste, a causa della resistenza opposta dalle famiglie contadine. In effetti, le strutture familiari erano così intimamente legate ai metodi di coltivazione esistenti, che i proprietari trovavano assai arduo rompere con le abitudini consolidate. Anteriormente al 1720, più o meno, quasi tutte le famiglie delle zone collinari (la situazione era diversa sulle montagne) erano famiglie multiple molto numerose, che arrivavano talvolta a includere cinque o sei coppie coniugali con il relativo corteggio di affini, bambini ecc.6. Una ‘‘famiglia” — o gruppo familiare — di quaranta persone non era inconsueta. Nota come masseria, la famiglia, rigidamente patriarcale, era posta sotto il comando di un singolo individuo — variamente detto il capo, il capoccia o il reggitore — la cui autorità derivava dal suo controllo delle risorse produttive familiari, e assai di rado veniva contestata. Il proprietario stipulava il contratto di mezzadria, che vincolava l’intera famiglia, con il solo reggitore”. In cambio della terra, delle sementi e di una casa non gravata da canoni d’affitto, icontadini consegnavano al proprietario una quota della produzione di prodotti vendibili (come il vino e i bozzoli da seta) pari di regola a circa il cinquanta per cento, oltre a una quantità fissa di grano. 39
Era un sistema non dissimile da quello della mezzadria toscana o emiliana, e aveva in gran parte le stesse caratteristiche. Il paternalismo era alla base del rapporto del proprietario terriero con i contadini; ma era un paternalismo che garantiva stabilità e sicurezza (di solito i contratti venivano tacitamente rinnovati ogni tre o nove anni), e anche, per quel che riusciamo a capire, un modesto livello di prosperità. I poderi assegnati alle famiglie allargate dell'Alto Milanese erano relativamente grandi — fino a 25 ettari — e le case coloniche (le mzassaricie) adeguate al numero delle persone che ospitavano. Esisteva anzi tra proprietario e famiglia allargata un’intesa tacita (ma nondimeno solidissima) nel senso che tanto la terra quanto l’alloggio dovevano grosso modo essere adeguati ai bisogni della famiglia. Come in Emilia Romagna, le dimensioni del podere
potevano essere modificate per tener conto delle variazioni intervenute nel corso degli anni nelle dimensioni della famiglia. Anche le cause di malumore erano le stesse rinvenibili in altre zone di mezzadria. Dai contadini ci si aspettava che offrissero al proprietario certe regalie in determinati momenti dell’anno (uova, formaggi, pollame), e che per qualche giorno ogni anno lavorassero senza paga, o per un compenso modestissimo, sulla terra utilizzata direttamente dal padrone (si parlava di appendizi o di giornate d'obbligo). Quest'ultima condizione è forse l’indizio più chiaro del carattere antiquato di questo tipo di contratto mezzadrile?. La reazione dei proprietari alle pressioni nel senso di un aumento della produzione è chiaramente visibile a partire dai primi decenni del Settecento. Alcuni proprietari tentarono di correggere la situazione passando dal contratto di mezzadria al fitto misto a grano. In tal modo i contadini, benché tuttora spesso chiamati massari, o mezzadri, diven-
nero semplici fittavoli che pagavano i loro fitti in grano e dividevano con il proprietario soltanto uno o due prodotti (l’uva e i bozzoli da seta o le foglie di gelso). Questa revi40
sione del contratto mirava ad accrescere la quota dovuta al proprietario; e — a giudicare dalle notizie sulla crescente povertà contadina — ottenne sicuramente lo scopo voluto. Ma soltanto alla fine del secolo la regione conobbe una trasformazione improvvisa e drammatica!°. Tra il 1770 e il 1780 i prezzi del frumento aumentarono in misura rilevante in tutta l'Europa, e i proprietari terrieri lombardi delle zone collinari videro la loro occasione. Le loro chances di arricchimento dipendevano dalla possibilità di accrescere tanto la produzione totale, quanto la quota del raccolto di loro spettanza. Ma l’agricoltura estensiva tuttora tipica della regione difficilmente poteva soddisfare queste esigenze. Di conseguenza, i proprietari cominciarono ad accelerare la ricerca di un’intensificazione della produzione ottenuta mediante modificazioni del sistema di coltivazione. Il mutamento, che nella prima parte del secolo era stato lento e graduale, ora divenne rapido e frenetico. I nuovi contratti misti (il fitto a grano) si generalizzarono nell’intera area pedemontana, soppiantando quasi completamente il vecchio contratto di mezzadria. In contrasto con l’uso precedente, i nuovi contratti venivano stipulati direttamente con le singole famiglie nucleari contadine, il cui compito era adesso quello di coltivare la maggiore quantità possibile di grano sui piccoli appezzamenti loro assegnati. Lo spezzettamento dei vecchi poderi non poteva non provocare modificazioni dei metodi di coltivazione. In molte aree,
l’aratro trainato dal bue fu abbandonato, e rapidamente soppiantato da una coltivazione intensiva con la zappa; un metodo che esigeva elevatissimi input di lavoro. In questo modo, la produzione granaria aumentò; ma una conseguenza negativa fu che questo risultato fu raggiunto a spese dei campi a foraggio, e riducendo ulteriormente il numero degli animali, da tiro e di altra specie. Si aggravarono così i pericoli di un esaurimento del suolo. I contratti tra contadini e proprietari, basati sulla produzione di grandi quantità di grano, introdussero un ele41
mento d'’instabilità nell’agricoltura della regione, rendendo impossibile, a lungo andare, la continuazione dell’antico stato di cose. La stessa coltivazione intensiva della terra spingeva i contadini in direzione di famiglie più numerose, per poter far fronte al fabbisogno di lavoro di un sistema basato sulla zappa; ma questa strategia era in una certa misura controproducente, perché famiglie più numerose significavano un più grande fabbisogno alimentare. Ed è un fatto che nella regione si assisté a una crescita spettacolare della popolazione (la quale accentuò ulteriormente la pressione sulla terra); ma la produzione alimentare non riuscì a tenere il passo dell'aumento demografico. Dopo aver soddisfatto le pesantissime clausole contrattuali, ai contadini delle colline rimaneva ben poco. Soltanto molto raramente il grano che producevano arrivava sulle loro tavole. Di fatto, i mezzadri divennero sempre più poveri, e si orientarono verso quella che era — almeno dal loro punto di vista — essenzialmente un’agricoltura di sussistenza. Le tensioni tra un contratto pesantemente sfruttatorio e le esigenze di una produzione ad alta intensità di lavoro divennero così vistose, che i commentatori giunsero a considerare i con-
tadini di queste regioni tra i più poveri d’Europa!!. La crisi finale del sistema sembra esser arrivata all’epoca della Restaurazione, quando i prezzi del grano crollarono improvvisamente. Sull’orlo del disastro, i proprietari furono salvati dal rapido aumento del prezzo di un altro prodotto tipico delle regioni collinari: la seta greggia. Da sempre i contadini praticavano l’allevamento su piccola scala dei bachi da seta. Si trattava in sostanza di un'attività sussidiaria, e di solito i bozzoli venivano divisi a metà con
il proprietario. Quanto ai contadini, vendevano la loro quota per realizzare un reddito supplementare! Sembra che i bozzoli venissero addirittura usati come un sostituto della moneta, e che i contadini pagassero il fornaio e l’oste direttamente in gallette!?. Nel corso del Settecento, occasionali oscillazioni all’insù dei prezzi della seta avevano pro42
dotto tra i proprietari brevi momenti di mania della seta; e una fase analoga fu la cosiddetta ‘‘bacomania”’ che al principio dell'Ottocento si vide all’opera in tutto il Milanese!4. Ma se la bacomania si consumò in pochi anni, la tenuta nel tempo della domanda di seta greggia indusse un numero sempre maggiore di proprietari a prendere sul serio la produzione di bozzoli da seta. Negli anni Venti e Trenta dell’Ottocento il valore della seta aumentò di oltre il cento per cento (Cattaneo ne fu spinto a scrivere che «noi stessi ne siamo stupiti e quasi spaventati»), e lo stesso dicasi della produzione serica!5. Nei tardi anni Quaranta, il Lombar-
do-Veneto era ormai il principale esportatore di seta greggia nel resto dell'Europa, con una produzione annua che superava i cinque milioni di libbre!6. Il grande incremento della domanda estera condusse a una trasformazione totale delle regioni collinari, a misura che l’albero del gelso allungava la sua ombra su vaste estensioni di territorio. Per i proprietari, la seta era diventata il passaporto per la ricchezza; secondo un detto dell’epoca, «l’ombra del gelso è l’ombra d’oro». I prezzi della terra continuarono a salire in conformità, ma pochi erano disposti a vendere!”. La maniera in cui le regioni collinari si adattarono a questa priorità avrebbe avuto un’importanza cruciale per il futuro della popolazione coinvolta nella produzione serica. Sarebbe stato ragionevole attendersi che l’altissimo valore del prodotto sui mercati internazionali inducesse i proprietari a stracciare i vecchi contratti basati sul grano, e a impegnare tutte le risorse nella seta. Quella che era praticamente un’agricoltura di sussistenza, con le sue intrinseche contraddizioni, sarebbe potuta diventare un’agricoltura industriale, orientata principalmente verso una coltura commerciale immensamente redditizia. Per ragioni ch’è difficile individuare con precisione, ma che è facile indovinare, i proprietari terrieri rifiutarono questa linea di sviluppo. La riforma agraria (in realtà una trasformazione generale
del sistema) che un passo del genere richiedeva sarebbe sta43
ta infatti costosa, e le conseguenze sociali incerte. Inoltre,
malgrado le sue promesse di ricchezza, la seta rimaneva un prodotto ad alto rischio a causa delle frequenti malattie che colpivano i gelsi. La completa revisione del sistema agricolo collinare in favore della seta e del gelso costituiva dunque un investimento con parecchi aspetti rischiosi, che i proprietari riluttavano ad accettare!8. Specialmente quando c’era un altro modo, meno rischioso, di raggiungere sostanzialmente lo stesso risultato. Anziché sostituire il frumento con la seta, fin quasi dall’inizio del boom i proprietari decisero di integrare la vecchia coltura con la nuova. La seta fu innestata nel sistema esistente, anche se finì poi col dominarlo. In realtà, se in
punta di logica la combinazione del frumento e della seta non era la via più profittevole da percorrere, le due produzioni non erano intrinsecamente (cioè agronomicamente) contraddittorie, purché venissero rispettate certe condizioni. Queste condizioni riguardavano essenzialmente il rapporto tra il proprietario e la famiglia contadina, e coinvolgevano l’evento centrale di tale rapporto: il contratto. Le modificazioni contrattuali causate dall'aumento dei prezzi del grano avevano già mutato in maniera fondamentale (e in più sensi) sia i rapporti in seno alla famiglia, sia i rapporti di questa con il proprietario. La decisione di intensificare la produzione spezzettando alcuni dei poderi di maggiori dimensioni e stipulando i contratti con le singole famiglie nucleari provocò in molti casi una disintegrazione della vecchia famiglia patriarcale, e condusse allo sviluppo di una struttura sociale duale. Alcuni massari rimasero, sia pure a condizioni molto meno favorevoli; ma accanto a queste famiglie relativamente privilegiate si formò una nuova classe di lavoratori disperatamente poveri: 1 ‘‘pigionanti’’. Questi non possede-
vano capitale, e neppure gli strumenti di produzione (eccettuate le loro zappe), ed erano in effetti poco più che salariati dipendenti. Lavoravano la terra in cambio degli
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alloggi assegnatigli, e avevano altresì l’obbligo di lavorare senza compenso, o per un compenso irrisorio, sulla terra del padrone!?. I pigionanti erano senza difesa di fronte alle innovazioni introdotte dal proprietario terriero. La famiglia multipla aveva avuto il possesso di una parte dei mezzi di produzione — per esempio i buoi e l’aratro — e ciò aveva dato al reggitore una certa autorità nei suoi rapporti con
il proprietario. Inoltre, è chiaro che per il proprietario non era agevole sostituire la famiglia multipla con un’altra, perché i grossi gruppi familiari non si spostavano facilmente da un podere all’altro. Perciò i proprietari ci pensavano due volte prima di rifiutare il rinnovo del contratto. Ma se ignorava il reggitore, e trattava direttamente con unità familiari più piccole, il proprietario si trovava in una posizione molto più forte, perché diventava molto più facile sfrattare (e sostituire) le famiglie nucleari. In una regione ad alta
densità demografica, come la Brianza, i contadini avevano sicuramente una chiara percezione di questo stato di cose. La perdita della terra a causa del mancato rinnovo di un contratto costituiva fatalmente una catastrofe. La graduale dissoluzione di gran parte delle famiglie multiple, patriarcali, la suddivisione delle fattorie, il peggioramento delle condizioni contrattuali: tutti questi elementi si combinarono nel produrre un passaggio dalla sicurezza all’insicurezza, da una modesta prosperità alla povertà. Quella vera e propria comunità ch'era stata la famiglia multipla fu in molti casi distrutta quando il proprietario minò la posizione del reggitore. Anche là dove il massaro rimase, la situazione era ora molto peggiore rispetto a
quella ch’era esistita sotto il vecchio contratto di mezzadria2°. E quantunque in un primo tempo le singole famiglie nucleari dei pigionanti potessero magari restare nella massaricia come coresidenti, adesso i loro interessi erano non
di rado in conflitto. La vecchia unità d’intenti era andata perduta. A misura che il nuovo contratto — il fitto misto a grano 45
— veniva meglio precisandosi, ed estendendosi al grosso delle regioni collinari, anche le sue implicazioni divenivano più chiare. Il rinnovo annuale (in luogo dei contratti triennali o novennali) dissuadeva i contadini dai progetti di lungo respiro, e incoraggiava un miope, pesante sfruttamento
dei boschi e dei campi. Il fatto che i contadini fossero ora costretti a produrre una maggiore quantità di grano (per poter pagare il fitto) ebbe per risultato che dovevano se-
minare a grano (a beneficio del proprietario) più o meno i due terzi del fondo; e questo gli lasciava pochissima terra per produrre ciò che occorreva al loro consumo?!. Di fatto, accadeva di rado che potessero mangiare il grano che producevano. I contadini reagirono a questo stato di cose affidandosi in misura crescente al mais, che a paragone del frumento aveva rese elevate, ma ch’era insufficiente da un
punto di vista dietetico (basta ad attestarlo la persistenza nella regione della pellagra per tutto il secolo)?2. Le modificazioni contrattuali intervenute nei primi decenni dell'Ottocento avevano implicazioni ancor più fondamentali per l'economia della famiglia contadina. In genere, le dimensioni della famiglia erano state dettate, al-
meno in parte, dal ciclo agricolo, che esigeva ingenti quantità di lavoro in certi periodi dell’anno, e quantità invece relativamente modeste in altri momenti. Era normale che le famiglie contadine avessero ben poco da fare nei mesi invernali: un periodo che tradizionalmente dedicavano all’industria a domicilio. La sicurezza della famiglia era affidata alla realizzazione di un ragionevole equilibrio tra occupazione e inattività, tra produzione e consumo. Le modificazioni contrattuali e l’intensificazione della produzio-
ne minacciavano di turbare quest’equilibrio. Come abbiamo visto, l’ingentissimo fabbisogno di lavoro comportato dal fitto a grano tendeva a produrre famiglie numerose: membri aggiuntivi significavano braccia aggiuntive alla zappa. Questa situazione fu accentuata dall’accresciuta importanza attribuita alla seta, perché la bachicoltura e la rac46
colta delle foglie di gelso metteva sotto pressione la famiglia per un periodo di qualche settimana al principio dell'estate, ossia proprio nella fase in cui bisognava provvedere alla raccolta anche degli altri prodotti23. Di conseguenza, quanto più privilegiavano la produzione della seta, tanto più i proprietari terrieri tendevano a creare una situazione in cui le famiglie numerose venivano mantenute in vita soltanto per poter soddisfare il fabbisogno di lavoro di un brevissimo periodo dell’anno, legato un prodotto che non contribuiva minimamente al benessere materiale della famiglia (nel senso che non riempiva la dispensa) durante i mesi invernali. Una condizione di disoccupazione stagionale strutturale divenne così un elemento stabile del paesaggio sociale della zona; e con l’intensificazione delle colture cerealicole e con la rapida espansione dell’industria serica il fenomeno tendeva ad aggravarsi. A questa disoccupazione si accompagnò, in seno alla famiglia contadina, il rischio di un drastico sconvolgimento dell’essenziale equilibrio tra produttori e consumatori. Se le famiglie contadine fossero state in grado di vendere la loro quota di bozzoli (quel 50 per cento che il contratto gli assegnava), il giuoco sarebbe forse valso la candela. Perlomeno, avrebbero potuto comperare le provviste alimentari per l'inverno. Ma le clausole contrattuali che regolavano il loro lavoro erano tali, che questo non succedeva mai. Privi di capitale com'erano, i contadini si trovavano costretti a procurarsi le scorte (le sementi, le uova di bachi da seta, le derrate alimentari) dal proprietario tetriero all’inizio dell’anno, con l’intesa che a fine anno il loro valore sarebbe stato defalcato dalla quota del prodotto di loro
spettanza. Ora, queste scorte venivano solitamente sovrastimate dal proprietario, il quale era in grado di sfruttare la relativa ignoranza del contadino riguardo alla congiuntura del mercato (oltre che la sua posizione senza difese). Molti contadini erano inoltre costretti ad acquistare le foglie di gelso con cui nutrire i bachi dal proprietario, poiché il loro 47
fondo era troppo piccolo per poter fornire la quantità di foglie necessaria. E, di nuovo, era il padrone che fissava il prezzo, col risultato che alla fine dell’anno il contadino si trovava quasi sempre in debito verso il proprietario. Dal punto di vista dei proprietari, questo stato di cose era in realtà parte integrante del sistema. Anzi, l’indebitamento contadino era il fattore che permetteva ai proprietari di quadrare il cerchio: ossia di mantenere in piedi gli obsoleti rapporti sociali implicati dalla cerealicoltura intensiva, senza per questo perdere i formidabili vantaggi della produzione serica. Per rimborsare i loro debiti, o una parte di essi, i contadini finivano col consegnare al proprietario tutti i loro bozzoli?4. Questo meccanismo consentiva ai
proprietari di impadronirsi della totalità di un prodotto straordinariamente redditizio, senza essere costretti a metter mano a costose modificazioni del sistema produttivo.
Essi ricevevano inoltre il pagamento del loro grano e di ogni altro prodotto commerciabile, come stipulato dai contratti. Era un sistema che permetteva ai proprietari terrieri
di appropriarsi quasi per intero dei prodotti del lavoro agricolo, escludendo pressoché completamente i contadini dal mercato (ciò non poteva non influenzare lo sviluppo della produzione nella regione, che a causa della debolezza della domanda locale fu costretta ad affidarsi a prodotti esportabili)2. Un livello elevato tanto della produzione quanto dell’accumulazione di capitale fu così realizzato sulla base di un livello di consumi estremamente basso. Nel corso dell'Ottocento, i proprietari accrebbero considerevolmente la pressione gravante sui contadini, esigendo maggiori quantità di grano e un numero
sempre più
grande di bozzoli. Mette conto ripetere che di fronte alle richieste del proprietario i pigionanti non avevano assolutamente nessun potere contrattuale: niente capitale, niente bestiame, nessuna sicurezza. Qualche volta la pressione di-
ventava troppo grande, e allora i contadini raccoglievano le loro cose e fuggivano nottetempo?6, nella speranza di evi48
tare lo sfratto, che di norma significava la vendita di tutto il mobilio e degli altri beni familiari. Di protestare non si parlava neppure. La minaccia dello sfratto bastava da sola a mantenere in riga le famiglie contadine; e, siccome erano quasi sempre indebitate, quella minaccia era quasi sempre presente. Lo sfratto significava ritrovarsi a competere duramente per la terra o per un lavoro in condizioni estremamente sfavorevoli. Ed era fatale che questa prospettiva avesse per effetto di accentuare la rivalità e la diffidenza tra le famiglie. Gli osservatori della situazione esistente nella Lombardia settentrionale a metà Ottocento erano d’accordo nel ritenere che la maggioranza delle famiglie contadine vivesse al disotto di quello che sarebbe stato normalmente considerato il livello di sussistenza. In generale, gli agronomi patrizi si preoccupavano della povertà contadina, ma propendevano ad attribuirne la responsabilità agli stessi contadini, giudicati rigidamente conservatori, testardi e diffidenti nei loro atteggiamenti verso possibili modificazioni dei metodi di coltivazione della terra??. Era frequente la convinzione che la soluzione stesse nell’istruire i contadini;
e nella prima metà del secolo furono numerose le iniziative volte alla creazione di scuole o di altri strumenti di formazione, destinati ad aprire gli occhi dei contadini alle possibilità dell'agricoltura scientifica?8. Ma negli anni Cinquanta stava ormai diventando chiaro che l’istruzione non era la soluzione del problema. Stefano Jacini, il più insigne agronomo lombardo del periodo, fu tra i primi a riconoscere i limiti — da un punto di vista puramente agronomico — del fitto a grano. Le sue osservazioni rivelano la misura in cui il contadino era in realtà legato mani e piedi al compito di provvedere il grano e la seta per il padrone. Qualunque iniziativa (che poteva naturalmente fallire) rischiava di ridurre il contadino a una condizione di privazione e d’indebitamento senza speranza. Come si legge nell’Inchiesta agraria a proposito di Lecco, 49
colà dove questo sistema di condotta predomina, non sono da attendersi né esperimenti di nuove pratiche agrarie, né l’applicazione dei miglioramenti proposti dalla scienza, e l'agricoltura si mantiene quasi da secoli nello stato di immobilità e tende a mantenervisi.?9
L’agricoltura di sussistenza escludeva ogni prospettiva di miglioramento della condizione contadina attraverso la specializzazione in funzione del mercato, dal momento che i rischi erano troppo grandi. La breve durata dei contratti scoraggiava le iniziative; non solo, ma il contratto stesso
ostacolava un’agricoltura razionale. A proposito del fitto a grano, Mario Romani osserva che «nella letteratura agronomica sono generali le critiche per le miserande condizioni in cui costringe i contadini e per gli ostacoli che pone ai progressi dell’agricoltura». D'altra parte, fintantoché la seta continuava a dargli quel che volevano, non era probabile che i proprietari si decidessero a modificare un sistema tanto redditizio. Ingenti profitti in quest'area potevano coprire una quantità
di perdite altrove. Possiamo dunque dire che i contadini furono, nella sostanza, le vittime della seta. Era un prodotto che da un lato li costringeva a convivere con contratti estremamente duri e con un sistema agricolo ad alta intensità di lavoro, e dall’altro rendeva i proprietari ostili a qualunque modificazione dei metodi di coltivazione. Come abbiamo visto, l’altissima redditività che carat-
terizzava l’investimento nella produzione serica ebbe per effetto di accelerare la tendenza alla revisione dei contratti agricoli e alla suddivisione della terra. Dal 1820 in avanti, i proprietari terrieri cominciarono a pensare quasi esclusi-
vamente in termini di produzione dei bozzoli, lasciando gli altri aspetti del lavoro agricolo ai contadini. Si trasferirono in città39, impartendo ai loro fattori istruzioni molto chiare: «Mi consegni il mio colono [...] il prodotto dei bozzoli e la quota di grano che mi spetta, di tutto il resto io non mi curo. Ci pensi lui»3!. 20
Nel corso dell'Ottocento, la storia della maggioranza delle famiglie contadine sembra essere stata una storia di costante peggioramento di condizioni già cattive in parten-
za. Era impossibile non restare colpiti dal fatto che in un’area che produceva una delle merci agricole di maggior pregio i contadini fossero tra i più poveri d’Europa32. In realtà, la povertà contadina e l’alta redditività della seta erano le due facce di una stessa medaglia. Soltanto la dissoluzione del vecchio sistema patriarcale e la suddivisione della terra permettevano il tipo di coltivazione intensiva del territorio che il fitto a grano esigeva, e l’albero del gelso presupponeva; e la medesima dissoluzione del vecchio sistema assicurava che i contadini restassero indebitati, isolati dal
mercato e impossibilitati a trarre profitto da una ricchezza della cui creazione erano gli strumenti.
2. La famiglia pluriattiva Le famiglie contadine che riuscivano a sopravvivere in questa situazione di sfruttamento estremo lo dovevano esclusivamente alla loro capacità di integrare il reddito agricolo con redditi provenienti da altre forme di lavoro. Come si è visto, l'emigrazione era una di queste fonti di reddito, secondo un modello che s’era sviluppato nel corso di secoli. E stato calcolato che nella prima metà dell'Ottocento mediamente un quinto della popolazione della regione era assente33. Nelle zone di montagna, i piccoli proprietari continuavano ad «andare per il mondo» per poter pagare le tasse, e, cosa ancor più importante, per poter acquistare il grano che i loro minuscoli appezzamenti non erano in grado di produrre. Le mogli erano lasciate a curare la terra in villaggi che rimanevano quasi totalmente spogli di uomini. Se mettevano insieme un po’ di denaro, gli emigranti potevano perfino comprare dell’altra terra, malgrado la generale convinzione che i risultati non valessero i soldi investiti nel suolo. Più a sud, erano sempre gli uomini che par51
tivano, stavolta per le province vicine, dove potevano
praticare tutta una serie di mestieri. A costoro l'acquisto di terra era precluso: la terra delle aree collinari, più ricca, era anche più costosa, e in ogni caso i pochi proprietari non erano disposti a vendere. I soldi erano impiegati piuttosto per pagare i generi di primissima necessità, in una situa-
zione in cui il peggioramento delle condizioni contrattuali faceva sì che il denaro contante fosse praticamente sconosciuto.
Ma le famiglie contadine ricavavano denaro anche dall’attività manifatturiera. Non si trattava soltanto del lavoro a domicilio a tempo parziale. Se era da lungo tempo pratica corrente, l’industria a domicilio aveva però solo di rado assunto un’importanza centrale nell'economia delle famiglie multiple. La filatura e tessitura della seta, i lavori di falegnameria, la fabbricazione di oggetti in vimini: tutte queste attività erano servite in passato ad occupare le famiglie contadine durante i mesi invernali. Le caratterizzava il fatto di essere attività secondarie, compatibili con il ciclo agricolo, e di essere spesso esercitate in casa. Nella regione in esame, anche gli artigiani — i fabbri, i sarti, i falegnami o i calzolai — erano di solito artigiani-contadini, le cui attività si conformavano al medesimo ritmo: lavori agricoli d’estate e manifattura domestica d’inverno. Ma il soccorso alle famiglie contadine ridotte in una condizione di povertà sempre più dura non era arrivato da questo tipo di occupazioni. A partire perlomeno dalla metà del Settecento — ma probabilmente da una data di molto precedente — i contadini avevano cominciato a lasciare la terra in certi periodi dell’anno per lavorare in fabbrica. Alcuni dei processi coinvolti dalla produzione della seta greggia, per esempio, erano stati centralizzati ancor prima del 1700. Il “mulino” da seta non era nulla di nuovo, e neppure i capannoni che accoglievano i rudimentali processi produt-
tivi volti alla fabbricazione di carta, alla concia delle pelli o alla fabbricazione di mattoni. Intorno a Lecco, nella parte
DZ
occidentale della regione, anche la lavorazione dei metalli era un'attività tradizionale, con una specializzazione nel campo delle armi da fuoco34. Dapprincipio, le fabbriche si svilupparono nelle città o nelle loro immediate vicinanze, e in linea generale i primi contadini ad esser impiegati in queste manifatture furono quelli provenienti dalle zone di montagna della regione, dove, se è vero che le famiglie erano spesso proprietarie della terra che lavoravano, le limitate dimensioni dei fondi e la
mediocre qualità del suolo rendevano però estremamente arduo il compito di sopravvivere. Gli uomini scendevano a valle per qualche settimana o qualche mese, integrando i redditi familiari mediante quella ch’era essenzialmente una forma di emigrazione interna35. Questo tipo di occupazione era di norma compatibile con le esigenze del lavoro sulla terra. Era comunque sempre più frequente il caso di uomini e donne appartenenti alle famiglie più povere delle aree collinari che andavano a lavorare nelle filande. Merzario rileva un aumento del numero dei filatoi nella seconda metà del Settecento, con una manodopera che si divideva più o meno a metà tra i due sessi. Fu l'espansione dell’industria serica che, nel corso della prima metà dell'Ottocento, trasformò l’organizzazione della produzione. I primi setifici avevano lavorato soprattutto a produrre un filo che potesse essere tessuto. Ciò significava torcere i fili districati dal bozzolo, per irrobustirli (un processo noto appunto come ‘‘torcitura’’)?6. Fabbriche impegnate nella torcitura s’erano diffuse in buona parte della zona montagnosa del Nord-est della regione ancor prima del 1800. Si affidavano alla manodopera locale, ed erano spesso piccole attività, che lavoravano soltanto per una parte dell’anno?7. Di solito, il lavoro della torcitura e dell’in-
cannatura l'avevano fatto le donne contadine in casa (il ‘““molinello con croce’ figurava spesso nella dote della sposa). Esso era considerato parte integrante dell’attività di allevamento dei bachi da seta. Ma la graduale meccanizza39
zione del processo di filatura verificatasi nella prima metà dell'Ottocento ebbe per effetto di distruggere quest’aspetto dell’industria a domicilio. Le filande si svilupparono rapidamente in tutta la regione, impiegando tinozze d’acqua riscaldata con fuoco di legna per ammorbidire la seta e semplici incannatoi azionati da una manovella, o qualche volta da tipi elementari di macchine a vapore. Dapprincipio, si trattava solitamente di piccole unità produttive, essenzialmente artigianali, benché già nel 1808 nel Lecchese siano documentate fabbriche che impiegavano più di cento operal?8.
A partire dalla metà dell'Ottocento, e sempre più velocemente con l’esplosione della malattia del baco da seta negli anni Cinquanta??, la struttura e la localizzazione dell’industria cominciarono a cambiare. Fabbriche più grandi, meccanizzate, che facevano un uso assai maggiore del vapore, cominciarono a sostituire la miriade di piccole unità delle zone di montagna della regione. E mentre prima del 1850 la tendenza era stata a una localizzazione della produzione di filati o nelle zone di montagna più povere, o nelle città e nei loro sobborghi, la seconda metà dell’Ottocento vide un allontanamento dai centri produttivi originari, e uno spostamento verso le vallate collinari. Come scrive Greenfield, «l’industria della regione era ampiamente e sempre più diffusa nella campagna», mentre Jacini osservò che «l’attività manifatturiera del nostro paese, passando dai lanifici ai setifici, ha abbandonato in gran parte le città, ed è venuta a stabilirsi nelle campagne»!. Per fare un esempio, anche Milano, che negli anni Quaranta era sta-
ta un centro di produzione, nel 1870 aveva ormai perso questo ruolo, e andava invece specializzandosi nelle attività commerciali‘. Questa concentrazione dell’industria in unità di maggiori dimensioni — sembra si verificasse un certo processo di integrazione verticale — e la loro diffusione nelle valli collinari furono determinate da parecchi fattori. Le valli 54
collinari del Comasco e della Brianza offrivano ai ‘‘fabbricanti” vaste riserve d’acqua e di legname, essenziali alla produzione del vapore impiegato per sciogliere i bozzoli e per la torcitura del filo. Non solo, ma li avvicinavano alla loro materia prima*. In questi anni di metà secolo, molti fabbricanti erano anche proprietari terrieri. Costruendo le fabbriche sulla loro terra, essi erano meglio in grado di controllare tutte le fasi della produzione del filato di seta. E in particolare potevano dominare i mercati locali dei bozzoli, fissare i prezzi a tutto loro vantaggio, e combattere più efficacemente qualcosa che tutti i proprietari terrieri temevano: la sottrazione furtiva dei bozzoli da parte dei contadini (per rivenderli privatamente). Ma il fattore principale che determinò questo spostamento verso una localizzazione rurale della produzione fu indubbiamente la disponibilità del giusto tipo di manodopera. Anzi, la disponibilità di una manodopera idonea e al giusto prezzo (ossia il prezzo più basso) fu incontestabilmente la chiave del rapido sviluppo dell’industria serica nelle valli collinari della regione. E che questa manodopera fosse disponibile era una diretta conseguenza delle trasformazioni verificatesi nella struttura dell’agricoltura a partire dalla metà del secolo precedente. La famiglia patriarcale della ‘‘masseria’’ aveva potuto sopravvivere senza ricorrere ad occupazioni extra-agricole, aiutata di tanto in tanto da piccole attività tessili a domicilio. Nell'insieme, la produzione agricola — anche in regime di mezzadria e di ripartizione del prodotto — bastava a soddisfare i bisogni della famiglia. I proprietari terrieri e i contadini si consultavano, e si accordavano, per realizzare il giusto equilibrio tra la terra e la gente che viveva su di essa. Talvolta, i contratti tradizionali avevano anzi contenuto una clausola che vietava ai membri della famiglia qualsiasi lavoro fuori del podere. Come abbiamo visto, il fitto a grano, che tanto pesò
nel peggioramento delle condizioni della vita contadina, aveva sconvolto questo assetto; ed è significativo che i proDI
prietari lasciassero cadere il summenzionato divieto, che avrebbe impedito la pluriattività44. La sovrappopolazione (in rapporto alle possibilità agricole della regione), il rischio dello sfratto e la pura e semplice povertà si combinarono nello spingere la manodopera contadina verso le fabbriche.
I membri delle famiglie dei ‘‘pigionanti’’ erano obbligati a cogliere qualunque occasione gli si presentasse; e si lanciarono quindi nella lotta per trovar lavoro nelle fabbriche di seta, in un tentativo di compensare la perdita di reddito verificatasi nelle famiglie contadine in seguito alle modificazioni contrattuali e alla meccanizzazione delle vecchie industrie rurali. Dopo una breve fase iniziale in cui furono gli uomini a lavorare nei setifici per brevi periodi ogni anno, particolarmente nello stadio della torcitura, le donne e i bambini li sostituirono in fabbrica quasi completamente. E il loro divenne in misura crescente un lavoro virtualmente a tempo pieno. Sembravano costituire quella che era per più aspetti la forza lavoro perfetta. La disoccupazione stagionale in agricoltura garantiva la loro disponibilità; il loro lavoro era estremamente a buon mercato, perché l’imprenditore non si sentiva costretto a pagare per l'alloggio, e magari neppure per il vitto, e anche perché c’era un’aspra concorrenza tra le aspiranti lavoratrici. Si trattava altresì di una forza lavoro estremamente flessibile: in tempi di crisi queste operaie potevano essere rispedite alle occupazioni agricole senza preavviso, o, in un’annata cattiva, le si poteva semplicemente lasciar fuori del tutto. Il serbatoio di lavoro rimaneva, in attesa di esser utilizzato in tempi migliori. Le proteste erano improbabili. Un fattore decisivo in favore della manodopera contadina (dal punto di vista dell’imprenditore) era che queste operaie (e questi operai fanciulli) erano considerati politicamente ‘‘docili’’, mentre gli operai maschi adulti rischiavano di creare problemi. Le contadine divenute operaie rappresentavano così un tipo di forza lavoro particolarmente conveniente. Apparteneva56
no a una comunità agricola, ed erano quindi ‘‘legate’’ alla terra; ma d’altro canto la loro situazione familiare faceva sì
che fossero anche “libere’’ di lavorare nelle manifatture rurali*. Questo adattamento del sistema mezzadrile esistente,
che poggiava sul fitto a grano, alle necessità della produzione serica — l’‘‘innesto’’ del nuovo sul vecchio di cui si è parlato più sopra — rappresentò il trionfo di un certo tipo di politica proprietaria. I bisogni agricoli dell’immensamente accresciuta produzione serica vennero soddisfatti non da una riforma agraria, ma accentuando la pressione gravante sulle singole famiglie contadine. E questa pressione creò a sua volta la forza lavoro per i bisogni industriali della medesima industria della seta. L’interdipendenza di queste due specie di attività — l’agricola e l'industriale — era così perfetta, che per lungo tempo proprietari terrieri e industriali non videro nessuna ragione di modificare una sistemazione così vantaggiosa. I contadini, naturalmente, avevano ben poca scelta. E invero assai poco cambiò nel rapporto tra famiglie contadine e seta per oltre un cinquantennio. Ancora a metà secolo, un autore aveva parlato di un sistema di produzione «mesmerizzat[o] dal suo stesso successo»45. Quest’impressione rimase. L'intreccio di agricoltura e industria servì a creare una situazione di immobilità che si sarebbe prolungata fin quasi al momento in cui la stessa industria della seta avrebbe cessato di essere un’at-
tività redditizia. L’industrializzazione delle regioni collinari fu pertanto realizzata senza l’espulsione di manodopera dalle campagne. E ancora meno fu realizzata attraverso l’impiego della forza lavoro in un’agricoltura dinamica e in espansione. La seta permise ai proprietari di sfuggire ai modelli di transizione rurale che s’erano affermati altrove, in molte parti dell'Europa; e di conseguenza altrettanto diverso fu il contributo all’industrializzazione della manodopera rurale. DI
3. La divisione sessuale del lavoro
Le deposizioni raccolte nel 1870 per l’Inchiesta industriale offrono ampie prove della convenienza della manodopera contadina per gli industriali. Il suo costo era estremamente basso. Gli operai non dipendevano completamente dai loro salari, e ciò avvantaggiava gli industriali: Le donne impiegate qui in Lombardia nelle filature appartengono per nove decimi circa a famiglie di contadini; per queste famiglie il guadagno fatto dalle donne alla filanda non costituisce il fondo dei loro mezzi di sussistenza, ma è semplicemente complementare e perciò esse si accontentano di una mercede, la quale non basterebbe per chi dovesse vivere esclusivamente con quella.47
Inoltre, questa forza lavoro contadina era lenta a organizzarsi per protestare contro le condizioni di disagio esistenti in fabbrica. La concorrenza per i posti di lavoro era tale, che gli scioperi si trasformavano molto rapidamente in serrate. In molte occasioni i proprietari delle fabbriche licenziarono tutti i loro dipendenti, sapendo che gli sarebbe stato facilissimo trovarne di nuovi. E tipica la risposta di un industriale ai tentativi di organizzazione dei lavoratori: «A Valmadrera ne ebbi molti fra i lavoranti ai torcitoi addetti alla famigerata società di Lecco. Mi decisi a rimandarli tutti nell’aprile del 1869 rimpiazzandoli con ragazze di altri paesi. L'esempio servì molto bene»#8. Erano la povertà e la disperazione rurali a spingere donne e ragazze contadine verso l’industria manifatturiera, come risulta con chiarezza da innumerevoli resoconti contemporanei. Le condizioni esistenti nelle fabbriche rurali erano straordinariamente dure, ed erano frequentemente deplorate dagli osservatori più illuminati. Dal decennio 1840-50 in avanti, i rapporti rilevano l’eccessivo sfruttamento dei fanciulli (spesso bambini di soli cinque anni) impiegati negli stabilimenti, e numerose testimonianze illu58
strano gli effetti della lunga giornata lavorativa e delle terribili condizioni sanitarie degli operai?. Bambini e adolescenti subivano danni permanenti a causa del troppo lavoro (una giornata lavorativa di 16 ore era comune), del caldo, dell’umidità e del frastuono. Nelle operazioni di trattura, prima che venissero meccanizzate, s’impiegavano i fanciulli per l’incannatura, con i ben noti risultati: «Fate
che una ragazzetta frequenti il filatojo per un paio d’anni, e ne avrete un’imbecille»?9. Le donne erano afflitte da numerosi e svariati disturbi, ma i più gravi erano quelli che colpivano le loro funzioni riproduttive?!. Ciò nondimeno, le pressioni perché continuassero a lavorare erano enormi. Lavoravano fino alla vigilia del parto, e tornavano in fabbrica il più presto possibile dopo aver partorito, qualche volta portandosi appresso il bambino?2. Laddove le industrie rurali a domicilio invitavano spesso le famiglie a fare più figli, nel contesto della fabbrica i figli erano ovviamente un vantaggio molto dubbio. Certo, alla fine sarebbero probabilmente diventati operai, ma intanto minacciavano di disgregare l’organizzazione familiare. E probabilmente questa la ragione dell’aumento dell’età matrimoniale media per le donne??: il matrimonio avrebbe avuto verosimilmente per effetto una riduzione del tempo disponibile per la fabbrica. Analogamente, le donne rinviavano la maternità per poter continuare a lavorare. E all’occasione si sbarazzavano dei figli anziché tenerli: nell’ Alto Milanese il numero degli ‘‘esposti’’ aumentò in rapporto diretto con la crescita della manodopera femminile nell’industria manifatturiera rurale?4. La spaventosa durezza delle condizioni di lavoro (un elemento che non ha nulla d’insolito in un processo d’industrializzazione) non è tuttavia qui il tema centrale, se non nella misura in cui testimonia il livello di disperazione delle famiglie contadine. Più importante è il fatto che l’occupazione fuori dell’agricoltura delle donne e dei fanciulli diventò la norma nelle famiglie contadine della regione; e PE,
le famiglie si trovarono a dipendere dai proventi di questo lavoro?3. I magri salari guadagnati in fabbrica costituivano un supplemento di reddito, contribuendo a puntellare una condizione di vita che nelle campagne si situava al disotto del livello di sussistenza. In questa fase dell’incontro tra le famiglie contadine e l’industria diffusa, la possibilità di realizzare guadagni fuori del settore agricolo rappresentò dunque la chiave della sopravvivenza sulla terra, e della riproduzione della famiglia. Per buona parte della seconda metà dell'Ottocento, questi guadagni fecero spesso la differenza tra il rinnovo ininterrotto dei contratti e lo sfratto. Non di rado, lo sfratto significava una rottura definitiva con l’agricoltura, senza che un’alternativa ovvia fosse immediatamente disponibile. La popolazione rurale continuava a crescere più rapidamente di quella dei centri provinciali, e la pressione sulla terra cresceva in proporzione. Ai contadini sfrattati poteva riuscire difficile trovare un altro proprietario terriero disposto ad affidargli un nuovo podere. Coloro che rimanevano senza terra trovavano magari lavoro per brevi periodi come giornalieri, ma erano considerati i più umili degli umili; non solo, ma siccome di solito la famiglia contadina provvedeva da sé al proprio fabbisogno di lavoro, si trattava di una prospettiva labile ed effimera. Di solito i braccianti senza terra finivano male, come chia-
risce un rapporto dell’Inchiesta agraria: La condizione di questi individui è tutt'altro che prospera, e quando mancano i lavori a cui possono essere chiamati, cessa per loro ogni risorsa, e sono costretti a cercare fuori del loro paese natio i mezzi di sussistenza, o si danno al vagabondaggio ed alla questua, o forniscono i contingenti dell’emigrazione.56
L’industria manifatturiera rurale salvò molte famiglie da un destino di questo tipo. E provato che i contadini (maschi) disprezzavano il lavoro di fabbrica, forse perché lo vedevano come qualcosa di adatto alle donne e ai bambini, e forse perché lo consi60
deravano in qualche modo un prolungamento della filatura, ch’era sempre stata il compito subordinato della donna nella casa; ma certo anche perché il lavoro in fabbrica della moglie e della figlia era un’ammissione di povertà e di disperazione. Questo ne faceva una cosa molto diversa dal lavoro manifatturiero a domicilio. Le conseguenze fisiche del lavoro di fabbrica s’inscrivevano ben presto sui volti e sui corpi delle donne e dei fanciulli, segnando le loro famiglie come appartenenti alla categoria dei poveri rurali. E questo indeboliva la posizione e minava lo status in un mondo in cui il marito era, per dirla con Martine Segalen,