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Italian Pages [158] Year 2008
UNIVERSALE PAPERBACKS IL MULINO 586.
I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it
WILFRIED STROH
CICERONE
IL MULINO
ISBN
978-88-15-13766-1
Edizione originale: Cicero. Redner, Staatsmann, Philosoph, Miinchen, C.H. Beck, 2008. Copyright © Verlag C.H. Beck oHG, Miinchen, 2008. Copyright © 2010 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tradu zione di Giovanna Alvoni. Edizione italiana a cura di Camillo Neri. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie
INDICE
Introduzione
p. 7
I.
L'ascesa ( 1 06-64 a.C.)
15
II.
Trionfo e crollo (63 -57 a.C.)
37
III. Cicerone riabilitato ed esautorato (57 -54 a.C. )
49
IV. Cicerone diventa un filosofo politico (55 -49 a.C . )
59
Cicerone sotto Cesare (49-44 a.C.)
79
VI. «Rhetorica et Philosophica» (46-44 a.C.)
91
V.
VII. L'ultima battaglia (44-43 a.C.)
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Cronologia
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Letture consigliate
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Indice dei nomi
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INTRODUZIONE
Cicerone e il suo progetto di vita Il nome di Cicerone, vissuto nell'ultimo secolo della repubblica romana ( 1 06-43 a.C . ) , emerge in modo del tutto singolare nel vasto patrimonio letterario !asciatoci dall'antichità. Lo si è detto spesso: nessun' altra persona, almeno sino al Cinquecento, ci è nota quanto lui. Dalle circa cinquanta orazioni pervenuteci - un corpus incompa rabile anche solo per estensione - lo conosciamo non solo come brillante avvocato, ma anche come politico spesso decisivo: per esempio, durante il suo consolato, scopre un pericoloso colpo di stato e, al termine della sua vita, sia pure involontariamente, spiana al futuro imperatore Au gusto la strada per il potere. Dalle sue opere di retorica vediamo come si sia confrontato anche dal punto di vista teorico, più di ogni altro oratore allora noto, con il pro blema del rapporto tra uso della parola e leadership. Le ampie opere filosofiche, che danno propriamente inizio al genere del dialogo filosofico in lingua latina, mostrano che egli si occupò profondamente dei pensatori greci per l'in tera durata della sua vita. A ciò si poteva aggiungere, in passato, la rappresentazione di se stesso che egli volle dare nelle opere poetiche, ora però quasi completamente per dute. Ancora oggi, tuttavia, restiamo stupiti di fronte al ri tratto di sé, senza dubbio originale, che ci ha lasciato nelle sue quasi ottocento lettere: molte di esse sono parte inte grante della sua attività politica, ma più della metà sono indirizzate a parenti e amici, in particolare al suo amico intimo Attico; e proprio queste lettere ci consentono di conoscere, spesso senza reticenze e senza veli, il pensiero e i sentimenti di Cicerone. 7
Una personalità multz/orme Anche se lasciamo da parte le altre numerose testi monianze su di lui - un centinaio di lettere, indirizzategli talora dalle più importanti personalità contemporanee, e le dettagliate informazioni di storici successivi, come Sal lustio, Plutarco, Svetonio, Appiano e Cassio Diane - le sole opere di Cicerone sono di un'estensione e di una va rietà tali che un singolo lettore non potrebbe facilmente abbracciarle con lo sguardo. Perciò non si fa torto a nes suno quando si constata che, a tutt'oggi, egli non ha an cora trovato un biografo, o un autore di una monografia su di lui, davvero adeguato. Ne dà prova eloquente l'ar ticolo M. Tullius Cicero, uscito nel 1 93 9 nell'imponente Realencyclopéidie der classischen Altertumswissenschaft. Diversamente che per gli altri «grandi» dell'antichità, per Cicerone non è stato possibile reperire un unico studioso competente su tutto. La voce Cicero fu così suddivisa: l) il «politico», sezione autorevolmente curata da un impor tante storico dell'antichità; 2 ) le «opere retoriche», se zione debitamente redatta da uno dei curatori dell'intero volume, uno studioso «polivalente»; 3 ) le «opere filosofi che», cui si dedicò uno specialista di filosofia ellenistica; e infine 4) le «lettere», affidate assieme ai «frammenti» a un giovane, ambizioso latinista. E con tutto ciò ci si era dimenticati proprio delle opere migliori e più famose: i di scorsi ! Se ne occupò solo parzialmente lo storico, nel qua dro della politica. Ma per noi la natura multiforme di Cicerone può es sere qualcosa di più della semplice somma dei suoi atti e dei suoi scritti, così diversi tra loro ? E dove risiede, pro priamente, il motore principale della sua davvero inesausta attività? Egli stesso confessa di avere sempre seguito, sin da bambino, la frase dell'Achille america: «essere sempre il primo e superare gli altri». Ciò tuttavia non spiega an cora la direzione di questo straordinario impegno. Era un intellettuale finito in politica a causa di un'ambizione male indirizzata? Così si è spesso pensato. O fu al contrario un politico purosangue, che si dedicò alla composizione di opere teoriche soltanto quando gli si impedì di agire diret tamente? Lo si è raffigurato a lungo anche così. Oppure fu 8
davvero, come decretò il suo più impetuoso denigratore, Theodor Mommsen, «tale un impiastrafogli, ch'era eguale qual materia trattasse»?1
La coerenza del Cicerone platonico Per capire il nucleo dell'attività di Cicerone, a mio av viso, vale la pena interrogare lui stesso. In effetti, quanto alle relazioni tra politica, retorica e filosofia, egli ci offre subito una risposta chiara, che sembra avere conservato la propria validità durante l'intero corso della sua vita. Per dirla in breve: Cicerone si ritenne soprattutto un filosofo, per il quale, tuttavia, l'attività politica fu un aspetto neces sario della filosofia e la retorica uno strumento altrettanto necessario. Per dirla ancor più sinteticamente: egli si con cepì soprattutto come un politico platonico. Leggiamo il testo scritto da un Cicerone appena ven ticinquenne, a introduzione di un manuale di retorica, il De inventione, la sua prima opera (si veda p. 20) . Qui egli si propone un bell'argomento per un esercizio di scuola: l'arte retorica, l' eloquentia, ha recato agli uomini più van taggi o più danni? E dà una risposta che sembra piuttosto banale, vale a dire che l' eloquentia è utile quando è ac compagnata dalla saggezza (sapientia) , mentre arreca danni quando ne è disgiunta. Ma poi, a illustrazione di ciò, Cicerone offre una sorta di storia della retorica che, per quanto ne sappiamo, è in novativa e interessante. Ha inizio con la condizione pri mitiva degli uomini, quando la loro vita era rozza come quella degli animali: vigeva il diritto del più forte, non vi erano né famiglie né città . . . Poi ci deve essere stato un uomo saggio, dice Cicerone, che indusse gli uomini a stringere matrimoni, fondare città, in breve a civilizzarsi. Certamente la sola saggezza non sarebbe stata in grado di realizzare quest'opera di civilizzazione, se non fosse stata congiunta all'arte del discorso, alla capacità di dissuadere e di persuadere.
1 T. Mommsen,
Storia romana, trad. it. Milano,
1864, vol. II, p. 583.
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E così giungiamo a un'epoca felice dell'umanità, quando al comando delle città vi erano i saggi, che gover navano con l' eloquentia i loro subordinati, a tutto vantag gio di questi ultimi. Naturalmente questi grandi uomini di stato e oratori non si cimentavano in controversie legali di poca importanza. Per questo vi erano altri e più modesti intellettuali, avvocati che si occupavano esclusivamente di retorica, senza la pretesa di raggiungere anche la saggezza. Poiché però in tribunale questi avvocati vincevano spesso, presero coraggio, si sopravvalutarono e alla fine riuscirono, grazie alla loro abilità oratoria, a raggiungere il potere po litico e a scacciare i saggi che lo avevano detenuto sino a quel momento. Ed essi - ora neghittosi, ora soddisfatti - si ritirarono dalle turbolenze della politica a vita privata, e si dedica rono alle scienze. Che errore ! Proprio loro avrebbero do vuto occuparsi di politica, per non !asciarla in mano ad avvocati superficiali ! Tutto era quindi perduto? Non com pletamente. Per fortuna, secondo Cicerone, nei tempi più recenti vi furono almeno alcuni Romani che evitarono que sto errore e abbinarono all'arte oratoria le più alte virtù: Catone, Scipione e altri. Questi sono i modelli cui ci si dovrebbe ispirare. E, proprio perché l'arte oratoria viene deturpata da tanti cattivi oratori, tanto più occorre adope rarsi per essa. In che modo Cicerone arriva a questa singolare storia della retorica e a che cosa pensa in concreto? Se si guarda più da vicino, si nota immediatamente che la storia così raccontata da Ciceron� si adatta soltanto ai Greci, per lo meno a grandi linee. E infatti tra i Greci che vi furono i leggendari legislatori dei tempi più antichi, come Minasse a Creta, Licurgo a Sparta, Teseo ad Atene. È possibile identificare anche i saggi governanti che sarebbero venuti dopo costoro: Cicerone aveva forse in mente soprattutto i famosi «Sette saggi» (VII-VI sec. a.C . ) , che furono quasi tutti uomini politici. Quanto agli azzeccagarbugli che alla fine si slanciano verso il potere, probabilmente Cicerone pensa soprattutto ai retori siciliani Corace e Tisia (V sec. a.C.) e ai cosiddetti oratori attici del V e IV sec . : in origine erano oratori all'interno di dibattimenti processuali, e tutti giunsero alla politica dal tribunale. 10
E i saggi che si ritirano dalla politica per dedicarsi ai propri studi? Naturalmente il loro modello è Socrate. Egli, che secondo Cicerone è il padre di quasi tutte le successive scuole filosofiche, non fu mai un politico in senso stretto. Dal dialogo platonico Gorgia si poteva dedurre chiara mente anche il perché egli rifiutò la politica di allora: la retorica dei politici più apprezzati, a suo parere, era pura «adulazione» (kolakeia), e mirava soltanto al compiaci mento, non al vero bene degli uomini. Ed è proprio que sta parola che Cicerone traduce quando definisce la falsa arte oratoria, non accompagnata dalla saggezza, come una sorta di commoditas («compiacenza») . S e nell'antichità Platone fu considerato, in u n certo senso a ragione, il più autorevole nemico della retorica fu proprio a causa del suo Gorgia. E così gli studiosi non hanno colto quanto di platonico si nasconda, nonostante tutto, nell'ammonimento di Cicerone a proposito della re torica. Ciò vale soprattutto per il pensiero di fondo, per lo scopo dell'intera sua riflessione: quando Cicerone esige che siano gli uomini dotati di maggiore saggezza a studiare l'arte oratoria, per governare poi a vantaggio di tutti, non si tratta di un pensiero molto diverso dal concetto centrale della principale opera platonica, la Repubblica (Politeia ) , dove s i afferma che dapprima «gli stati portarono il genere umano alla tranquillità», quando i filosofi divennero re e i re filosofi, e «i due elementi, potere politico e filosofia, si accompagnarono» Oa retorica, che Platone in effetti non menziona in questo contesto, è per Cicerone soltanto il mezzo necessario, ritenuto legittimo in ultima istanza an che da Platone, per esercitare il potere). Ci si è talvolta interrogati sulla fonte filosofica delle ri flessioni di Cicerone e si è allora pensato a contemporanei come l'accademico Filone (p. 1 8 ) , maestro di Cicerone, oppure lo stoico Posidonio. Ma ciò, su un piano più com plessivo, è sbagliato. Come tutti i filosofi di quest'epoca, essi frequentavano esclusivamente luoghi di studio e audi todi, non erano politici. Se si fossero fatti portavoce del messaggio ciceroniano, si sarebbero attirati il peggior rim provero che potesse toccare ai filosofi antichi, e cioè che la loro vita non rispecchiava il loro insegnamento. Diversa la situazione del giovane Cicerone, che si dà da fare proprio 11
per diventare un politico. Ma anche se la ricostruzione storica elaborata da Cicerone riflette alcuni pensieri di 9ri gine greca, l'idea principale può essere soltanto sua. E il suo progetto di vita che egli espone qui: egli vuole eviden temente diventare, con l'aiuto della retorica, un politico in senso platonico. È rimasto fedele a questo proposito? Nei suoi di scorsi e nelle lettere, di norma, non parla esplicitamente di filosofia; e tuttavia pensieri filosofici sono percepibili in numerosi passi: «Quando sembravamo occuparci meno di filosofia, lo facevamo al massimo grado», scrive al ter mine della sua vita. Della continuità del suo progetto pla tonico offrono testimonianza soprattutto il suo appello al fratello Quinto perché si mostri, proprio come lui stesso, un sovrano-filosofo in senso platonico (p. 46) , nonché il proemio del De re publica, dove si sostiene che la vera politica non è nient'altro che filosofia applicata (p. 63 e pp. 68-69) ; nello stesso periodo egli si richiama a Platone (p. 5 7 ) per giustificare il suo concreto impegno politico. A proposito di questo atteggiamento di fondo, egli am mette accanto a sé soltanto Catone l'Uticense, l'avversario più importante di Cesare (p. 82 ) : «Noi due siamo stati i soli a portare quella vera e antica filosofia (scil. la filoso fia di Platone) , che per taluni è soltanto un'occupazione puramente oziosa, nel foro e nella politica, vale a dire sul campo stesso di battaglia». E alla fine della sua vita egli è soddisfatto di se stesso: «Se tutti i precetti della filoso fia si riferiscono alla vita, allora io credo di avere dato in politica e nella vita privata ciò che esigevano ragione e scienza». Ancora più esplicito di queste testimonianze è un afo risma tramandato da Plutarco, il primo biografo di Cice rone: «spesso pregò i suoi amici di non chiamarlo oratore, bensì filosofo, dal momento che aveva scelto la filosofia come proprio compito (ergon) , mentre ricorreva all'arte oratoria come a uno strumento (organon ) , allorché faceva politica con lo sguardo rivolto ai bisogni». Plutarco, pur ritenendo che non sempre Cicerone sia stato all'altezza di queste pretese filosofiche, gli ha tuttavia riconosciuto, in quanto egli stesso platonico, per lo meno la genuinità platonica del suo intento: durante il suo consolato, egli 12
avrebbe infatti reso «testimonianza a Platone, il quale aveva predetto che in futuro le città sarebbero state salvate dal male, se il grande potere e la saggezza, grazie ad un caso fortunato, si fossero uniti alla giustizia». Nessun'altra frase, tra tutte quelle dei suoi biografi, Cicerone avrebbe letto con più piacere di questa. Da quanto si è detto, risulta abbastanza chiaro su quali punti si vuole porre l'accento in questo volumetto, che non può sostituire una biografia ciceroniana, ma soltanto tratteggiarla. Vorrei fornire di Cicerone il quadro più com pleto nel più breve spazio possibile e sottolineare soprat tutto ciò che altrove, nelle trattazioni, resta in ombra, e costituisce pur tuttavia l'aspetto più peculiare della sua personalità: il confronto con la filosofia greca, per l'intera durata della sua vita e con occhio orientato alla vita pra tica, nonché, in stretta connessione a ciò, il suo straordina rio operato come «padre della letteratura latina» (Plinio il Vecchio). Per alleggerire il volume e renderne scorrevole la let tura, rinuncio a un'esplicita discussione dei risultati delle ricerche di studiosi cui devo molto, nonché al preciso rin vio alle fonti e ai passi di riferimento. Alcune indicazioni bibliografiche dovrebbero compensare tali assenze. Nota del curatore «La parola fu la sua casa, anzi la sua reggia; e nel mondo antico nessuno come lui seppe tanto sovranamente adoperare la parola per esprimere con nuovo decoro cose già dette e pensate». L'eccellenza del Cicerone oratore e trattatista e la sua scarsa originalità come pen satore in proprio - rimarcare nel lapidario giudizio di Concetto Mar chesi (Storia della letteratura latina, Milano, 1963s, vol. I, p. 316) sono divenute già nell'antichità luoghi comuni, e oggi quasi idola scholae. Tanto più salutare appare perciò una rilettura della molte plice attività di questo infaticabile primattore dell'ultima repubblica romana - awocato, politico, oratore, retore, filosofo, epistolografo, poeta - come esito di un originale tentativo di coniugare la filosofia platonica con il demone dell'impegno politico, quale è quella of ferta in questa puntuale sintesi di Wilfried Stroh. Gli studiosi vi ri troveranno la dottrina e l'acume dell'autore del magistrale Taxis und Taktik (Stuttgart, 1975). Gli studenti, e tutti coloro che si affacciano per la prima volta sul «mondo» di Cicerone, una guida affidabile e -
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aggiornata per la lettura diretta delle sue opere e per l'approfondi mento personale. Questa edizione italiana rispetta fedelmente la struttura dell'ori ginale; i testi antichi sono stati sottoposti a un rigoroso controllo fi lologico condotto sulle edizioni critiche, e la bibliografia è stata in tegrata e aggiornata per il pubblico italiano. In questo modo si è inteso offrire ai lettori una chiave d'ac cesso utile e informata alle opere di uno dei padri nobili, e dei pa tres conscripti, della cultura occidentale. Se Tito Livio, a proposito di Cesare, poneva in incerto «se alla repubblica romana fosse stato più utile ch'egli nascesse oppure no» (V 18,4), Wilfried Stroh non sembra nutrire dubbi del genere a proposito di Cicerone, e proprio a Cesare- che ne fu a un tempo il peggior nemico e il maggior am miratore- può affidare l'ultima parola su di lui: «Cicerone avrebbe dato a Roma molto di più di tutti i generali con i loro trionfi, così come ha più valore avere allargato i confini dello spirito romano piuttosto che quelli dell'impero romano» (Plinio, Storia Naturale, VII 117). C.N.
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CAPITOLO PRIMO
L'ASCESA ( 1 06-64 A.C . )
Marco Tullio Cicerone nacque i l 3 gennaio 1 06 a . C . ad Arpino, cittadina (municipium) a circa 1 00 km a sud-est di Roma. Ad Arpino «Cicero» (cognomen latino dell'oratore) era l'appellativo comune dell'intera famiglia, quello che la distingueva dagli altri Tullii. Il padre era un agiato pro prietario terriero, cavaliere (eques) romano in virtù del suo patrimonio, ma non apparteneva alla vera nobiltà, quella che ricopriva le cariche politiche: nessuno della famiglia, sino a quel momento, aveva ricoperto le più alte cariche dello stato. I due figli, Marco e il più giovane Quinto, se avessero intrapreso la carriera politica, avrebbero quindi incontrato difficoltà in quanto homines novi (vale a dire parvenus) . E tuttavia una simile evenienza doveva essere stata programmata. La famiglia aveva buoni rapporti con uomini importanti, come il famoso Lucio Licinio Crasso. Il padre di Cicerone possedeva anche una casa a Roma, dove i figli di quest'uomo cagionevole di salute, ma cultore delle lettere, avevano potuto ricevere un'accurata educazione, di cui Cicerone fu grato per l'intero corso della sua vita.
Anni di apprendistato Dopo l'apprendimento delle nozioni elementari di scrittura, lettura e calcolo, l'istruzione superiore comin ciava con la frequenza dei corsi di lingua e di lettura dei testi, tenuti da un filologo (grammaticus) , sia in latino sia in greco che, come oggi l'inglese, era allora lingua univer sale. In latino si dovevano imparare a memoria le leggi delle Dodici Tavole, vecchie di 350 anni; poi si studiavano gli antichi poeti, soprattutto gli autori drammatici più po polari, e Cicerone conobbe di persona il più giovane tra 15
loro, il tragico Lucio Accio. Queste lezioni di poesia latina non furono senza conseguenze per un Cicerone proiettato verso l'attività creativa. Nello sterile periodo della poesia latina che seguì alla morte di Accio (84 a.C . ) egli fu real mente, stando a tutto ciò che sappiamo, il principale poeta di Roma. Soprattutto il poemetto epico Marius - redatto in giovane età in onore dell'eroe nazionale, homo novus come Cicerone - gli riuscì così bene che un grande inten ditore come Quinto Mucio Scevola predisse che il com ponimento avrebbe avuto fama eterna «per moltissimi se coli». Fu però una previsione errata, dato che ne restano soltanto alcuni versi. Altrettanto importante fu il primo incontro del giovane Cicerone con la letteratura greca, che avvenne soprattutto grazie all'intermediazione di un poeta di nome Archia. In un discorso pronunciato successivamente (p. 43 ) Cicerone sostiene, con iperbole avvocatesca, di essere debitore di tutta la sua abilità retorica a questo uomo straordinario. Sappiamo da altre fonti quali autori si leggevano principal mente a quell'epoca: i poemi om eri ci e le commedie del poeta ellenistico Menandro. Tramite la frequentazione di questi testi Cicerone conobbe per la prima volta le testi monianze di un atteggiamento spirituale per il quale egli avrebbe presto coniato o diffuso il termine humanitas (umanità) : l'Iliade omerica si conclude con l'incontro fra il vecchio Priamo e Achille, i quali - nonostante la loro mor tale inimicizia - non dimenticano la comune condizione umana. I drammi di Menandro contengono insegnamenti di umana solidarietà, fondata parimenti sul comune de stino di tutti gli uomini: «che bella cosa è l'uomo quando è uomo» recitava una famosa sentenza. Alle lezioni di grammatica, vale a dire di filologia, se guivano quelle di retorica, di importanza decisiva per chiunque volesse dedicarsi alla carriera politica. Queste lezioni erano tenute esclusivamente in lingua greca. Lo scolaro apprendeva in greco a distinguere le parti della retorica: l'invenzione, la disposizione, l'organizzazione linguistica, la memorizzazione, la declamazione. In lingua greca egli familiarizzava nell'esercizio delle diverse parti del discorso (p. 29) . E in lingua greca, soprattutto, stu diava il complesso ma indispensabile sistema delle staseis, 16
cioè degli status (modi di «porre» le domande), con cui si imparava a chiedere: l) se un fatto è successo, 2 ) come lo si può definire, 3 ) come lo si deve giudicare, 4) quale pro cedimento è adatto a ciò dal punto di vista giuridico. Per ciascuno di questi punti lo scolaro aveva tuttavia a dispo sizione, belle e pronte, numerose possibilità di argomenta zione (topoi, vale a dire «luoghi» retorici) . Le esercitazioni pratiche, ancora più importanti, avve nivano con insegnanti greci e in lingua greca. Comincia vano con i cosiddetti progymnasmata (esercizi prepara tori), di cui facevano parte racconti, similitudini, «luoghi comuni» (contro vizi come per esempio il gioco dei dadi, l'adulterio ecc. ) , riflessioni e molti altri aspetti. Coronava questo insegnamento la declamatio (melete) , termine con il quale non si indicava, come oggi, la recitazione di una poesia, bensì un discorso su un argomento fittizio, che do veva, come un discorso politico, incitare a una determinata azione oppure dissuadere dal compierla: ad esempio «An nibale riflette se deve ritornare in patria oppure restare in Italia quando i suoi concittadini lo richiamano a Cartagine: dagli un consiglio ! »; oppure si trattava di casi giudiziari inventati. Conosciamo il nome di uno soltanto tra i maestri di retorica di Cicerone, Apollonia Molone di Rodi, il più fa moso insegnante di oratoria del tempo. Quando Cicerone era giovane, Apollonia era stato due volte a Roma come diplomatico. Sappiamo inoltre che Cicerone lesse diligen temente gli oratori romani più antichi e che in parte li im parò addirittura a memoria, per perfezionarsi dal punto di vista stilistico. Presto, d'altra parte, egli sarebbe stato rite nuto un brillante en/ant prodige.
Incontro con la /iloso/t·a Sul giovane Cicerone la filosofia esercitò un influsso ancora più profondo della retorica. Come egli stesso scrisse più tardi, la sua maturazione come oratore avvenne non nelle «officine dei retori» (o//tànae rhetorum) , ma negli «spazi dell'Accademia» (Academiae spatia). Dopo la sua prima istruzione presso l'epicureo Fedro, fu l'acca17
demico Filone di Larissa che lo conquistò e lo guadagnò all'Academia, la scuola di Platone, che aveva un carattere particolare. Platone era stato un allievo del leggendario Socrate, famoso per l'imbarazzo che creava nelle persone in dialogo con lui, poiché dimostrava loro, con l'aria di non farlo apposta, la loro ignoranza. Platone fu suo con tinuatore nella misura in cui espose i suoi insegnamenti in forma di dialoghi, ove Socrate - con un atteggiamento per lo più ironico - ricopriva il ruolo principale. Così, alcune generazioni dopo la morte di Platone, nei suoi successori Arcesilao e soprattutto Carneade poté nascere l'opinione che anche Platone, così come Socrate, fosse stato un filo sofo senza una dottrina ben definita, uno scettico che si era limitato a mettere in discussione tutte le affermazioni dogmatiche e tutt'al più aveva riconosciuto il valore di de terminate verosimiglianze. A questa corrente del platonismo, destinata a estin guersi presto, apparteneva ora, come ultimo rappresen tante, anche Filone. Fu proprio lui, quando nell'88 a.C. giunse a Roma, a entusiasmare il diciottenne Cicerone: to tum ei me tradidi, «mi affidai completamente a lui». Per ché? Non fu soltanto il fascino personale di questo spirito libero ad attrarlo. Egli vide pure come la ricerca del vero simile in luogo del vero fosse affine al compito dell'ora tore. A ciò si aggiungeva che Filone stesso impartiva le zioni non solo di filosofia ma anche di retorica, soprattutto esercitazioni nell'arte dell'argomentare in utramque partem, in entrambe le direzioni, come ad esempio: «il saggio deve sposarsi o no?». Non deve tuttavia essere stato soltanto questo training piuttosto formalistico ad attrarre il giovane Cicerone. L' ac cademico Filone deve averlo introdotto anche nel mera viglioso mondo dei dialoghi platonici. E se queste opere d'arte brillavano di ironia socratica, esse contenevano pure, anche quando le interpretava un Filone, una grande quan tità di pensieri ispirati ed entusiasmanti: «l'anima è per sua natura immortale»; «ogni apprendimento è soltanto il ri cordo di una conoscenza precedente alla nascita»; «ci sono idee che nella realtà visibile si realizzano solo in modo in compiuto»; «in uno stato ideale l'idea della giustizia può prendere forma»; e al contrario, «l'ingiusto tiranno è il più 18
infelice degli uomini» . . . Cicerone si confrontò con questi pensieri durante tutta la sua vita, anche se non sempre li riteneva del tutto credibili.
Prima dell'esordio A Roma, la formazione avveniva prevalentemente sul campo. Si parla di tirocinium /ori (gavetta nel foro) quando un giovane, superata la pubertà, sotto la protezione di un amico più anziano, si affaccia alla vita pubblica per vedere in azione politici di rilievo. Così Cicerone, affidato al fa moso giurista Mucio Scevola, fece in tempo ad ascoltare i due migliori oratori della generazione precedente, l'arguto Crasso (p. 15) e lo scaltro Marco Antonio; in seguito, li farà comparire entrambi nel dialogo De oratore (p. 60) . Fra i più giovani lo impressionarono specialmente Publio Sulpicio Rufo, che in tono melodrammatico esagitava la folla, e Aurelio Cotta, che invece la incantava grazie a un eloquio più bello ed elegante. I turbolenti anni della giovi nezza di Cicerone, che videro lo scatenarsi di una guerra civile del popolare Mario prima, e dei mariani poi, contro il conservatore Silla e i suoi seguaci, non portarono molta fortuna ai suddetti giovani oratori: al mariano Sulpicio fu tagliata la testa nell'anno 88; il conservatore Cotta dovette andare in esilio già nell'anno 90. In ogni caso, il giovane Cicerone si tenne in disparte dalla vita politica. E fece bene: comparire sulla scena come avvocato, del resto, era una prospettiva ben poco attraente in quegli anni, vista la disastrosa situazione della giustizia. Cicerone tentò quindi qualcosa di diverso. Solo Catone il Vecchio e il già menzionato oratore Antonio avevano fatto i primi modesti tentativi di abbozzare una retorica, vale a dire una teoria dell'oratoria, in lingua latina. E già Lucio Plozio Gallo aveva scritto un volumetto dal titolo De gesticulatione (Sulla lingua del corpo) . Cicerone fu il primo Romano - lo dico contro l'opinione prevalente - a rappresentare l'intera retorica greca in un'opera di ampio respiro. L'impianto di quest'opera, che si doveva intitolare Rhetorici libri (Libri di retorica) , era talmente ampio che egli non era ancora riuscito a concluderla quando, grazie 19
alla vittoria di Silla nell'82 a.C . , furono restaurati lo stato e il sistema giudiziario, cosa che consentì a Cicerone di en trare nella vita politica, come d'uso, nella veste di avvocato processuale. Vennero così conclusi soltanto due libri, intitolati De inventione (Sull'invenzione) , perché trattano appunto dell' «invenzione», la parte più importante della retorica. Poiché lo stesso Cicerone, successivamente, si espresse in modo non troppo lusinghiero a proposito di quest'opera, persino i filologi esperti la tengono - a torto - in scarsa considerazione. Cicerone ha dato qui di sé una prova ec cellente, esponendo con profondità e con grande chiarezza una materia complessa. Il suo più importante rivale ro mano, il cosiddetto Auctor ad Herennium, il quale portò a compimento una propria esposizione complessiva della retorica, non raggiunse il suo livello, benché avesse utiliz zato, ritengo, l'opera ciceroniana. Da dove attinse Cicerone? Egli stesso considera un proprio grande merito esattamente questo, non avere seguito alcun modello particolare, ma piuttosto avere at tinto il meglio da ciascuno. A tal proposito oggi, con ter mine poco benevolo, si parla di «eclettismo». Il punto di vista ciceroniano riflette altresì quello dello scetticismo, da ascrivere indubbiamente al magistero di Filone: egli è pronto - scrive - a modificare ogni opinione espressa, se qualcuno gli fa rilevare un errore. La cosa più impor tante, infatti, è «non approvare nulla a occhi chiusi e con arroganza» (temere atque arroganter) , bensì sostenere ogni affermazione «con esitazione» (dubitanter) : «Seguiremo questo principio ora come nel corso di tutta la nostra vita, con zelo, secondo le nostre possibilità». Che Cicerone ab bia in effetti seguito questo principio ce lo mostrano le sue opere successive. Restiamo nuovamente ammirati (p. 1 2 ) di fronte alla risolutezza e alla consapevolezza del suo programma di vita. In una ponderata programmazione della carriera ri entra anche un certo addestramento militare. Così, negli anni 90 e 89, nel pieno della guerra sociale, Cicerone pre stò il servizio militare nell'esercito di Gneo Pompeo Stra hone, padre del famoso Pompeo, poi in quello di Silla. Si trattò sempre di esperienze formative, non solo perché 20
in questo modo egli imparò ad apprezzare con compe tenza anche sul piano retorico importanti personalità mi litari come Pompeo e Cesare, ma anche perché, in que sto modo, egli acquisì doti di leadership militare. Dopo la battaglia di Farsalo del 48 gli fu proposto il comando su premo dell'esercito dei pompeiani, cosa che egli tuttavia rifiutò (p. 82 ) .
I brillanti esordi come oratore La seconda marcia su Roma di Silla e la conseguente temporanea vittoria della classe senatoria conservatrice pose sì fine alla guerra civile, ma fece precipitare Roma nel periodo più sanguinoso di tutta la sua storia: Silla, no minato dittatore, «proscrisse» - cioè bandì con pubblico atto (proscriptio) - i suoi avversari politici, migliaia dei quali furono uccisi, tra cui anche ricchi cavalieri e persino senatori. Il loro patrimonio fu confiscato e messo all'asta, i loro schiavi divennero liberti personali di Silla. I tribunali, tuttavia, ripresero a funzionare efficiente mente e Cicerone, che si era formato in vista della profes sione di oratore più accuratamente di chiunque altro, riu scì finalmente a esordire come avvocato. «Avvocato» non è tuttavia il termine più appropriato. Advocati erano detti a Roma gli esperti di diritto, che offrivano consulenza a entrambe le parti nei processi civili, mentre gli avvocati nell'accezione moderna, che intervenivano nei processi te nendo discorsi e interrogando i testimoni, erano dei retori che, a loro volta, si facevano consigliare dai giuristi. E chi era il «giurista» (iuris peritus) ? Colui al quale, sulla base della sua esperienza personale, si riteneva di poter richie dere pareri privati in materia giuridica (responsa) . Un ap prezzato giurista di questo tipo era il già citato maestro di Cicerone, Quinto Mucio Scevola, chiamato «Augur», così come il suo più giovane omonimo, Scevola il «Pontifex», cui Cicerone si legò dopo la morte del più anziano. Il gio vane Cicerone presenziò alle loro consulenze e acquisì so prattutto in questo modo quelle mirabili conoscenze giuri diche che traspaiono dai discorsi dei processi civili e non solo. 21
Sotto la dittatura di Silla Cicerone poteva quindi pre sentarsi in tribunale, dove si fece carico - per quanto ne sappiamo - di uomini colpiti dal regime. Ci sono per venute due orazioni degli anni 8 1 e 80, perché Cice rone stesso ne curò la pubblicazione in forma scritta. La prima, l'orazione Pro Quinctio, concerne una discussione fra due soci (socii) , Nevio e il cliente di Cicerone, Quin zio. Poiché Quinzio, a quanto pare, non si era presentato a un'udienza, nell'anno 83 Nevio aveva ottenuto una sorta di sequestro dei beni. Oggetto di dibattito del processo dell'anno 81 era definire una questione estremamente complicata, e cioè se il sequestro dei beni fosse stato effet tivamente eseguito e avesse validità legale. Anche la poli tica ne risultava coinvolta. Nevio sosteneva che, in quanto appartenente al partito senatorio, nell'anno 83 , sotto il go verno popolare, non aveva potuto far valere i propri diritti. Cicerone dal canto suo rigirò la questione presentando il suo cliente Quinzio come vittima di un Nevio ancora po tente . e sostenuto oltre misura dalla nobiltà. Possiamo supporre che Cicerone, il quale pubblicò questo discorso, abbia vinto il processo. Ammirevole è in ogni caso la struttura dell'orazione, così sapientemente co struita da sfruttare sin nei minimi dettagli tutte le possi bilità dell'argomentazione. Per la prima volta Cicerone si mise in luce grazie alla propria abilità ritrattistica. Le fi gure dell'onesto capofamiglia Quinzio e del viveur Nevio, tanto spiritoso quanto privo di una propria personalità, sono delineate in modo così magistrale che neppure un commediografo avrebbe saputo fare di meglio. Lo studio di Menandro aveva dato i suoi frutti. Più importante fu il processo penale dell'SO , il primo dopo la nuova legge sugli omicidi, la lex Cornelia de si cariis et vene/iciis («sugli omicidi e gli avvelenamenti») . Durante i tumulti della proscrizione era stato assassinato un ricco proprietario terriero, Sesto Roscio di Ameria, in Umbria. Indipendentemente dall'identità dell'uccisore, la vittima fu successivamente inclusa nelle liste di proscri zione e un liberto di Silla, un Cornelius con un sopran nome greco davvero parlante, Chrysogonus («rampollo d'oro»), ne acquistò all'asta il patrimonio, del valore di milioni, per pochi sesterzi. Ciò non piacque, però, al fi22
glia della vittima, anch'egli di nome Sesto Roscio, che ri vendicò la propria eredità. Senza esitazione Crisogono lo accusò allora dell'omicidio del padre: un'autentica ma scalzonata. Nessuno dei nobili amici del giovane Roscio osò adoperarsi per lui, dato che Crisogono era il potente favorito del dittatore. Fu allora mandato avanti il giovane Cicerone. Egli assolse il compito con bravura. L'avvocato dell'ac cusa, senza neppure menzionare Crisogono, aveva tenuto un discorso piuttosto noioso, in cui l'assassinio veniva ri condotto ad antichi dissidi fra padre e figlio. Cicerone, tuttavia, non fece all'accusa il favore di lasciare a propria volta fuori dal gioco l'influente Crisogono. Già nel proe mio espresse contro l'accusa, con forza, l'idea che avesse taciuto di proposito proprio ciò che costituiva il cuore del processo, vale a dire i beni dell 'ucciso finiti nelle mani non dell' «avido» erede, ma di un greco parvenu. D'altra parte, qui Cicerone non disse che anche il suo cliente era natu ralmente interessato al patrimonio del padre: per suscitare compassione, presentò il giovane Roscio come se avesse da t empo smesso di pensare ai beni e al denaro e lottasse ora soltanto per sopravvivere. Ancor più dell'abilità d'avvocato, di questo primo ma gistrale discorso di Cicerone ci impressiona il coraggio e ci colpisce soprattutto l'appello alla solidarietà umana con cui egli chiude l'orazione: Non c'è tra voi chi ignori che il popolo romano, il quale un tempo era considerato oltremodo mite verso i suoi nemici, ora nutre nell'animo sentimenti di crudeltà (crudelitas). Allontanate questi sentimenti dallo stato, giudici! [. . ] Se noi infatti in ogni momento guardiamo e ascoltiamo come accade qualcosa di mi serevole, noi che siamo così miti per natura, finiamo per allonta nare dal nostro cuore a causa di queste continue meschinità ogni sentimento ispirato alla humanitas. .
Qui Cicerone si rivelò come futuro uomo politico di Roma, e tra le righe come sovrano-filosofo.
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Una pausa nell'attività creativa Solo dopo il successo del processo di Roscio Cicerone divenne un avvocato di successo, ma, poiché non sapeva dire di no, gli impegni professionali superarono presto le sue forze. La voce non resse più allo sforzo e i medici gli con sigliarono addirittura di interrompere la carriera oratorio politica. Cicerone non ne aveva la minima intenzione, ma si vide costretto a una pausa forzata, durante la quale sog giornò in Grecia e in Asia Minore (79-77 a.C. ) . Dapprima s i recò con alcuni amici a d Atene, che con tinuava a essere la roccaforte della filosofia. Là Cicerone ebbe modo di ascoltare soprattutto Antioco di Ascalona, un tempo caposcuola dell'Accademia, il quale si era allon tanato dallo scetticismo di Filone (p. 1 8 ) , maestro suo e di Cicerone, per sostenere l'opinione che già Platone avesse elaborato una dottrina ben definita, sostanzialmente coin cidente con quella del suo scolaro Aristotele e persino con quella della successiva Stoa (p. 1 00) . Cicerone non si la sciò influenzare da ciò, ma evidentemente ne fu colpito. Per la prima volta nacque in lui, come racconta Plutarco, il desiderio di dedicarsi totalmente alla filosofia, e quindi di rimanere ad Atene. Il maestro Antioco, tuttavia, era ab bastanza platonico da dissuaderlo. Dopo avere risparmiato la voce per un periodo di circa sei mesi, Cicerone riprese i suoi esercizi oratori. Si recò in Asia Minore per esercitarsi presso i più famosi maestri di retorica - ciò che gli procurò successivamente l'appella tivo derisorio di «asiano» (Asianus) (p. 9 1 ) - e andò poi a Rodi per ricevere nuovamente gli insegnamenti di Molone. A questo proposito, Plutarco è al corrente di un aneddoto illuminante. Molone invita il nuovo arrivato a «declamare» per farsi un'idea delle sue abilità in quel momento. Cice rone fa una prova brillante, ovviamente in lingua greca. Mentre tutti applaudono l' en/ant prodige romano, Molone si abbandona a una silenziosa meditazione. Perché? «Ora ci sottrai persino quello che era l'ultimo orgoglio della Grecia: l'istruzione e l'oratoria (paideia kai logos)». Parole profetiche. A partire da Cicerone, la letteratura romana produsse opere a cui la Grecia contemporanea non era più in grado di accostare alcunché di ugual valore. 24
Cicerone poté tuttavia trarre ancora profitto da questo Greco. Egli apprese da Molone una tecnica oratoria che gli consentiva di ottenere il medesimo effetto con un minore sforzo vocale. Questo andò persino un po' a vantaggio del suo stile oratorio: nei discorsi che seguirono vediamo in fatti temperata e ridotta quella sorta di esuberanza patetica dei suoi primi discorsi che lo aveva portato all'esaurimento vocale. Era valsa la pena di trascorrere quel soggiorno di studio: guarito, Cicerone ritornò nel foro di Roma.
Cicerone diviene il primo oratore di Roma Nel periodo successivo al suo ritorno (77 a.C . ) si col loca probabilmente il matrimonio con Terenzia, una donna ricca di nobile famiglia. Le lettere appassionate che egli le scrisse per anni costituiscono una testimonianza contro l'opinione espressa troppo alla leggera secondo cui egli l'avrebbe sposata soltanto per calcolo. In ogni modo, amò smisuratamente la figlia che ella gli donò, Tullia (con il figlio Marco ebbe invece qualche problema negli anni se guenti) . In quel momento l'intera energia di Cicerone era dedicata all'attività di avvocato, grazie alla quale egli si co struì quella rete di relazioni e di amicizie che era indispen sabile alla carriera di un homo novus. La prima ricompensa non mancò. Nell'estate del 76 Cicerone fu eletto questore per l'anno 75 e così entrò a far parte del senato. Con l'orgoglio dell'uomo novus egli disse in seguito che questi e altri onori successivi erano stati conferiti a lui, non alla sua famiglia e ai suoi antenati. Fu mandato nella parte occidentale della provincia di Sicilia, a Lilibeo, dove, sotto il propretore responsabile, doveva assicurare gli approvvigionamenti di grano. Era semplice guadagnare a spese dei provinciali, ma la scrupolosità di Cicerone ricevette un riconoscimento tale che, a conclu sione dell'anno in cui ricoprì l'incarico, gli vennero tribu tati inusuali attestati di stima. Del suo ritorno a Roma riferisce con autoironia in un successivo discorso (Pro Plancia). Mentre viveva nella fe lice illusione che tutto il mondo parlasse soltanto del suo comportamento come questore in Sicilia, a Pozzuoli un ba25
gnante gli chiese che novità c'erano a Roma. Non si erano nemmeno accorti che fosse andato via ! Questo, afferma Cicerone, rappresentò per lui un utile insegnamento. Per avere successo a Roma bisognava essere lì presenti, «abi tare negli occhi» dei Romani in ogni momento. Né il suo portiere né il suo sonno avrebbero in futuro impedito ad alcuno di rivolgersi a lui. Naturalmente Cicerone si fece carico di sostenere la difesa in altri processi. Ne conosciamo almeno due in que sto periodo. Nel discorso Pro Caecina (al più tardi del 72 a.C.) e nel Pro Tullio (7 1 a.C. ) , giuntoci incompleto, egli brillò grazie a interpretazioni di testi giuridici tanto acute quanto ardite. Benché non fosse un «giurista» (p. 2 1 ) , in campo giuridico era un pensatore di grande valore. Poi giunse la chance della sua vita. Nel medesimo 70 a.C . , quando i consoli Pompeo Magno e Licinio Crasso li quidarono i resti della costituzione conservatrice e aristo cratica di Silla - si trattava soprattutto del tribunato della plebe e dei tribunali -, si intentò un processo contro un uomo che rappresentava un esempio paradigmatico della corruzione dell' ancien régime: il famigerato Gaio Licinio Verre, negli anni 73-7 1 , come propretore della Sicilia, si era arricchito in modo inverecondo ignorando sistemati camente gli interessi romani. Ciò si sapeva già dal 72 . Si trattava soltanto di stabilire chi avrebbe sostenuto l'accusa nel processo de repetundis (repetundae significa richiesta di restituzione di denaro estorto) . I Siciliani si erano dap prima rivolti a Cecilia Nigro, che in precedenza era stato questore di Verre e aveva litigato con il suo superiore. Ma quando il più brillante Cicerone offrì il suo patrocinio, si affidarono a lui. Non gli risultò difficile difendere il pro prio diritto a sostenere l'accusa durante la trattativa che precedeva il processo, chiamata divinatio. Il discorso te nuto da Cicerone in quell'occasione, la Divinatio in Quin tum Caecilium, offre un quadro significativo del mondo del processo penale romano, che non conosceva alcun pro curatore della repubblica e traeva ancora la propria forza, in parte, dalla primitiva vendetta privata. Cicerone, del resto, aveva tutti i motivi per farsi carico dell'accusa, sebbene si fosse presentato soltanto come di fensore (patronus) . Se tutto fosse andato per il verso giu26
sto, sembrava non ci potessero essere dubbi sul successo di questa popolarissima accusa, benché la difesa fosse stata as sunta personalmente da Ortensio. Il solo fatto di superare questo eccellente oratore doveva rappresentare per Cice rone un'importante motivazione e, soprattutto, il processo doveva naturalmente accrescere la sua popolarità in vista dell 'elezione a edile, stabilita per l'estate. Su quest'ultimo punto, tuttavia, Cicerone non aveva fatto del tutto bene i conti. Dopo che nei 1 1 0 giorni che aveva a disposizione ebbe raccolto prove e mobilitato testimoni, i potenti amici di Verre frustrarono la sua speranza in un processo rapido. Riuscirono a interporre a questo un altro processo, in modo che quello contro Verre ebbe inizio solo il 5 agosto anziché in maggio. In quel momento tuttavia, fortunatamente, Cice rone non aveva più bisogno del processo per candidarsi a edile. Poco prima era stato eletto con i voti di tutte le tribù e poteva ora concentrarsi completamente su Verre. A dire il vero, la controparte cercò di guadagnare an cora tempo e di far slittare il processo al 69, data più fa vorevole per diversi motivi. Nel suo primo discorso (Actio prima) contro Verre, Cicerone rivelò in modo convincente le manipolazioni dei suoi nemici. Egli abbreviò la proce dura rinunciando al discorso di apertura e collegandolo all'interrogatorio dei testimoni. Di norma, un procedi mento legale romano si svolgeva in questo modo: prende vano la parola prima l'accusatore, poi il difensore, in un discorso continuo (oratio continua) - in processi complessi questa fase poteva durare per più mattinate - e quindi en trambi, nel medesimo ordine, introducevano i testimoni e li passavano alla controparte per l'interrogatorio (interroga fio testium) . Nei processi de repetundis era prevista, dopo una pausa, una seconda actio, durante la quale l'intero procedimento veniva ripetuto con nuove arringhe e nuovi testimoni. Naturalmente Cicerone non poté cambiare di propria iniziativa un tale procedimento, ma evidentemente rinunciò alla maggior parte del tempo riservato all'arringa iniziale, in modo da poter presentare già il secondo giorno, nel tempo a propria disposizione, i propri testimoni. Co storo sfilarono dal 6 al 13 agosto per accusare Verre. Il successo fu grande. Già dal terzo giorno Verre, in timorito, si diede malato e non comparve più. Quando il 27
20 settembre, dopo una lunga pausa, il processo doveva essere ripreso, l'accusato aveva già lasciato l'Italia per l'esilio, comportandosi dunque come un condannato in un processo penale (per sfuggire alla pena di morte for malmente inflitta) . Grazie a questa spettacolare vittoria di Cicerone la «tirannide e la monarchia nei tribunali» di Or tensio si erano concluse e Cicerone stesso era divenuto il primo oratore di Roma. Aveva quindi raggiunto il primo scopo della sua vita. Ma che cosa fare del materiale che Cicerone aveva raccolto in 1 1 0 giorni? Non doveva andare perduto. Così egli trasformò il grande discorso che aveva pensato di te nere all'inizio della seconda actio in un enorme discorso scritto, tale da riempire 5 rotoli di papiro. Questa grande sfida fittizia e puramente letteraria, la più ampia opera ciceroniana, è tanto istruttiva per lo storico, soprattutto per quanto concerne l'amministrazione della provincia romana, quanto sterile dal punto di vista retorico. Qui lo scopo non è più tanto quello di convincere, quanto quello di presentare in modo chiaro un'infinita quantità di mate riali. Ma Cicerone era un maestro anche in questo. Cicerone segue l'ordine cronologico, trattando nel primo libro delle infrazioni commesse da Verre prima della sua propretura in Sicilia. Passa poi a una struttura di tipo tematico. Il secondo libro si sofferma sui dubbi metodi di Verre circa la giurisdizione in Sicilia, il terzo sul suo modo di procurarsi gli approvvigionamenti di grano (un brillante pezzo di economia nazionale) . Più noto è il quarto libro, incentrato sui crimini artistici di Verre, vale a dire sul suo saccheggio di opere d'arte siciliane. Il più famoso è tutta via il quinto libro, intitolato De suppliciis (Sulle esecuzioni capitali) dalla sua parte finale, dçve vengono descritti i crimini contro i cittadini romani. E qui che si parla della vergognosa flagellazione e crocifissione di Gavio a Mes sina: con il rumore dei colpi, dice Cicerone, non si sentì alcun gemito, ma solo il grido di protesta: Civis Romanus sum, «Sono un cittadino romano» (appello che in seguito avrebbe protetto dal peggio l'apostolo Paolo) . L'intero corpus delle Verrine (dalla Divinatio all'Actio secunda) ha sempre - non bisogna dimenticarlo - anche un carattere altamente politico. Cicerone parla a una corte di 28
giustizia costituita soltanto da senatori. I consoli Pompeo e Crasso, tuttavia, avevano allora l'intenzione di eliminare questo privilegio senatorio. Dal momento che ciò non era ancora awenuto, Cicerone poteva levarsi contro il senato con la maschera di un amico del senato pieno di preoccu pazioni: se Verre non fosse stato condannato ciò sarebbe stato fatale per i tribunali senatori , che già si trovavano al centro delle polemiche, e Cicerone stesso - così minac ciava di fare - avrebbe scatenato una guerra processuale contro i senatori corrotti. Ora, l' autocondanna di Verre lo dispensò dal concretizzare tali minacce.
La «Pro Fonteio» e le successive difese in processi «de repe tundis» Cicerone, che a conclusione dell'ultimo libro delle Verriné aveva espresso la speranza di non dovere più ac cusare «cattivi» (improbi) concittadini, bensì di proteg gere i «buoni» (boni) , in seguito riuscì con successo a re alizzare questo desiderio. In effetti, nei frequenti processi di concussione in cui erano coinvolti i governatori che rientravano dalla provincia, si presentò successivamente solo come difensore. Ci sono pervenute tre di queste di fese. Probabilmente già nel 69 Cicerone assunse la difesa di Marco Fonteio, propretore della Gallia; nel 59 quella di Lucio Valeria Fiacco, propretore dell'Asia Minore; nel 54 quella di Marco Emilio Scauro, propretore della Sardegna. Si vede subito che questi discorsi, simili fra di loro no nostante la diversità dei luoghi in cui furono pronunciati, rientrano ben poco nello schema predisposto dalla retorica greca per i discorsi giudiziari, e seguito da Cicerone so prattutto nelle sue prime orazioni: introduzione (exordium o prooemium) , narrazione (narratio), notifica del contenuto (propositio) o struttura (partitio) , discussione (argumen tatio) , conclusione (peroratio). Per esempio, a causa del numero e della varietà delle accuse, in nessuno dei tre di scorsi vi è un racconto compatto e coerente. Sono presenti in primo luogo quattro specifiche parti del discorso, evidentemente ben radicate nella tradizionale 29
prassi processuale. Al centro sta naturalmente (l) la con testazione delle accuse giuridicamente rilevanti (crimina) , l a quale costituisce il nucleo tematico; successivamente si trova di regola (2) una presa di posizione contro i testi moni della controparte. Questo locus contra testes com prende: (a) l'insinuazione di sospetti circa le affermazioni dei testimoni in generale (già Aristotele aveva avanzato l'efficace argomentazione secondo cui i testimoni pos sono venire corrotti, i fatti no) ; (b) l'insinuazione di so spetti circa i testimoni della popolazione coinvolta (Galli, Greci, Sardi) , che venivano dipinti ogni volta come par ticolarmente malvagi. Quindi, normalmente all'inizio del discorso, figura (3 ) un focus de vita, dove vengono deli neate le precedenti esperienze, soprattutto politiche, e la personalità dell'accusato. Dal momento che il processo penale romano era decisivo per lo status civile dell'accu sato - visto che normalmente il condannato perdeva il patrimonio e la cittadinanza - è proprio questa parte del discorso a essere importante per la sentenza, benché essa sia irrilevante dal punto di vita giuridico. Infine, la difesa in un processo per concussione include di regola ( 4) un elogio dei testimoni di parte, che depongono a favore dell'imputato (laudatores) . Queste quattro parti possono essere combinate e assumere un peso diverso a seconda del singolo caso. Vediamo per esempio l'orazione Pro Fonteio. Nell'in troduzione Cicerone si difende dall'ovvia critica di difen dere Fonteio nonostante avesse accusato Verre. Qui egli enuncia una massima che percorre l'intero discorso: questa volta l'accusa non ha altro fine se non quello di indebolire il potere e l'autorità del governatore contro provinciali ri voltosi. Questa semplice formula risulta tanto più convin cente in quanto si tratta di Galli, antico nemico e spau racchio di Roma. Dopo il locus de vita (3 ) , che ripercorre la brillante carriera pubblica di Fonteio, Cicerone elenca i singoli crimina (l) che gli sono stati intentati. Contro le sue argomentazioni ci sono le testimonianze dei Galli. Non bisogna forse prestare loro fede? Locus contra testes (2a): ovviamente no. Ed è proprio nella diffidenza verso i testimoni che si scorge il marchio di un buon giudice, che altrimenti potrebbe avere soltanto orecchie, e non già di30
scernimento ! Con memoria infallibile, Cicerone adduce esempi persino di importanti cittadini romani alla cui te stimonianza non fu prestata fede. Perché dunque (2b) si dovrebbe credere a dei Galli, i quali non hanno la minima idea di che cosa sia la sacralità della testimonianza? Non c'è da meravigliarsi che non abbiano una religione, essi che insozzano i loro dèi con sacrifici umani . . . «E sulla pa rola di questi barbari dovremmo ora massacrare il nostro Fonteio»? Un salto concettuale geniale. Ma c'è di più. Cicerone trasforma la critica dei testi moni in una guerra formale tra popoli. L'accusatore aveva ammonito che un'assoluzione dello «sfruttatore» Fonteio poteva condurre a una nuova guerra gallica per l'indigna zione dei provinciali: «Ci mancava solo questo ! Ci minac ciano addirittura a casa nostra - guardate ! Che sfacciati a mettersi in mostra sulle nostre strade, questi barbari in braghe di pelle (bracati) ! ». Alla fine è lo stesso tribunale a trasformarsi in campo di battaglia. Il regista Cicerone fa sfilare i Galli nella fantasia degli ascoltatori, «con insegne di battaglia nemiche», contro Fonteio. Ma fortunatamente costui ha ancora truppe che lo difendono. Si tratta dei lau datores (4 ) , mandati qui dalla Macedonia, dalla Spagna, da Marsiglia, dalla colonia Narbonese, e con loro tutti i riscossori delle imposte romani, gli agricoltori, i commer cianti ecc. E allora resta stupefatto persino il rude Indu ziomaro - e come è terribile già solo il nome di questo supertestimone ! - soprattutto se vede che Fonteio continua a godere anche della protezione di nobildonne. Da una parte - e non si tratta più di fantasia, ma di realtà portata sulla scena davanti agli occhi di tutti - lo abbraccia sua madre, con le lacrime agli occhi; dall'altra la sorella - che, per fortuna di Cicerone, è ancora una giovane vestale impegnata giorno e notte a preservare Roma con il suo servizio da sacerdotessa. Devono forse cadere nel diso nore, ora, queste donne? Sarebbe stato meglio che Fonteio fosse morto prima, sotto le armi dei Galli, piuttosto che adesso, per i loro spergiuri . . . Che finale ! Fonteio dovette essere assolto.
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Dalla pretura al consolato La carriera di Cicerone, oratore di successo, passò direttamente dall'edilità (69) alla pretura (66 ) , cui egli giunse, come del resto a tutte le cariche, con la massima rapidità consentita. Per quanto concerne la sua attività di oratore, l'anno della pretura fu caratterizzato soprattutto da due eventi. In un sensazionale processo davanti al tri bunale dei delitti capitali difese Cluenzio Abito, sul quale gravava una pesante accusa. Prese inoltre posizione a fa vore di Pompeo nell'orazione De lege Manilia. Se il nostro scopo fosse soltanto quello di rendere onore a Cicerone per la sua arte oratoria, allora la Pro Cluentio dovrebbe essere dettagliatamente analizzata come un capolavoro incontestabile (e in quanto fu la più grande orazione da lui pronunciata): mai egli ha gettato sabbia negli occhi dei giudici in modo così chiaro come qui, dove riesce a con vincerli che, in un famoso caso di corruzione dei giudici, non era stato il vincitore del processo, ma il perdente ad aver fatto ricorso alla corruzione ! Di gran lunga più importante per la vita di Cicerone è il discorso per Gneo Pompeo, il primo pronunciato da vanti al popolo e la sua prima, vera orazione politica. Dal punto di vista formale si trattava di raccomandare al po polo una legge che conferiva a Pompeo il comando stra ordinario della guerra contro Mitridate del Ponto, uno dei più pericolosi nemici di Roma. Questo, per Cicerone, non fu un compito difficile: il popolo aveva da tempo deciso di affidare all'amato Pompeo Magno - nessun'altro a Roma fu chiamato «Grande» (Magnus) , come Alessandro - que sto compito. E persino nel senato, da sempre critico nei confronti del conferimento di comandi straordinari che andavano oltre la costituzione, vi erano soltanto poche re sistenze conservatrici a fare ancora opposizione. Cicerone, che desiderava risultare gradito ai futuri elettori popolari e allo stesso Pompeo, che peraltro ammi rava sinceramente, strutturò il suo discorso diversamente dal solito. Arrivò persino a esibire le sue arti di oratore piacevole e di magistrale architetto di periodi. Già nella seconda frase egli preannuncia di volere presentare all'as semblea un prodotto artistico che doveva essere «una com32
pleta invenzione della mente, diligentemente elaborata»: e le aspettative suscitate non furono deluse. Singolare anche l'impianto del discorso: mentre in altre circostanze Cice rone nasconde il criterio su cui costruisce la struttura, per creare l'impressione di una certa improvvisazione, qui essa viene mostrata apertamente, in modo estremamente chiaro. E dunque, si deve trattare di quanto segue, vale a dire: l ) del tipo di guerra; 2 ) della sua importanza; 3 ) del comandante adatto. Il primo punto include tuttavia quat tro parti, dettagliatamente trattate. Lo stesso avviene per il terzo punto, dove Cicerone offre un lungo elenco delle qualità del comandante. Quasi altrettanto ben strutturata è la trattazione delle opinioni contrarie, nell ' ultima parte del discorso. Non senza motivo il De lege Manilia rientra fra i testi prediletti dalla didattica del latino di oggi. Di nessun'altra orazione antica esiste, sin dal Rinascimento, un numero così elevato di edizioni e commenti scolastici. Gli esperti di retorica non condividono questo entusiasmo: Quin tiliano, il più importante retore romano, non parla quasi mai di questa orazione. Affezione e disinteresse hanno lo stesso movente. Questo discorso non richiese a Cicerone un grosso impegno: se la retorica, secondo la definizione degli antichi, deve essere «maestra della persuasione», qui risultava assente. Così Cicerone poté mettere in luce più apertamente la sua arte stilistica e la lucida struttura argo mentativa: proprio ciò ha reso l'orazione così cara ai mae stri di scuola, e anche agli esteti.
La lotta per il consolato Gli anni 65 e 64 trascorsero per Cicerone all'inse gna della campagna elettorale per il consolato, il secondo grande obiettivo della sua vita. La campagna elettorale è un'invenzione dei Romani, che caratterizzò la loro vita politica e che essi portarono avanti con precisione quasi scientifica: così almeno fece Cicerone. Abbiamo, in pro posito, una testimonianza diretta. Quinto, fratello di Ci cerone, un anno prima delle elezioni scrisse un volumetto per Marco su come condurre con successo una campagna 33
elettorale (Commentariolum petitionis) . Cicerone doveva tenere sempre presenti tre fatti: «lo sono un parvenu» (no vus sum), un grande svantaggio. «lo miro al consolato» (consulatum peto), vale a dire all'incarico più alto, oggetto di ogni invidia. «Il campo di battaglia è Roma» (Roma est) , una città con mille vizi, che bisogna tenere tutti nella debita considerazione. Il libro, costruito secondo questo schema, è ricco di dettagli realistici: nessun'altra fonte con sente di scoprire l'intreccio di relazioni politiche di Roma meglio di quest'opera del primo «manipolatore dell'opi nione pubblica» della storia. Particolarmente interessante è il secondo punto. Quinto distingue l'influenza indiretta attraverso l' «impe gno di amici» e la conquista diretta del «favore del po polo». «Amici» sono coloro che, creando un'atmosfera di consenso, possono dare un contributo al successo delle elezioni. È importante, in primo luogo, conquistare per sone determinanti per moltiplicare il consenso: il candi dato di successo deve avere davanti agli occhi una pianta dell'intera città, anzi di tutte le città d'Italia, per collocare in tutti i punti gli uomini più importanti, persone che si diano da fare in suo favore come se fossero loro stessi can didati. Per quanto concerne l'atteggiamento nei confronti del popolo, Quinto deve ammettere, in nome del suc cesso elettorale, di doversi un po' allontanare dalle regole di una buona educazione: la «lusinga» (blanditia ) , che in altri contesti è un vizio, per il candidato è una necessità. E talvolta egli deve addirittura mentire. Gli era difficile, scriveva Quinto, dare un tale consiglio a suo fratello, a un «platonico» (homo Platonicus) , ma la situazione lo rendeva necessario. Ci piacerebbe sapere come la pensasse Cice rone stesso in proposito ! Nel suo Commentariolum Quinto parla anche della cattiva fama di cui godevano i più importanti fra gli altri candidati, Antonio e Catilina, «entrambi assassini, disso luti, impoveriti, e sin dall'infanzia»: «quale cittadino sa rebbe così sprovveduto da volere, con un voto, estrarre due pugnali contro lo stato?». Entrambi questi presunti «pugnali» in occasione delle elezioni si erano coalizzati (coitio) contro Cicerone, e d'altra parte, almeno secondo la convinzione di Cicerone, la loro campagna elettorale era 34
finanziata dal ricco Crasso in accordo con Cesare. In un discorso improvvisato tenuto di fronte al senato, che cono sciamo sulla base di frammenti, poco prima delle elezioni Cicerone attaccò entrambi i candidati con un elenco dei loro misfatti, che forse fu poi da lui pubblicato come una sorta di dépliant per la campagna elettorale. Valse la pena di fare questa fatica. Nell'estate del 64 , vale a dire nel primo anno possibile per lui, Cicerone fu eletto console con i voti di tutte le centurie: da ses sant'anni nessun homo novus aveva avuto questo grande onore. Suo collega divenne, sopravanzando di poco Cati lina, Antonio, il meno peggio dei due. Ora Cicerone, sino a quel momento homo Platonicus, poteva essere per un anno un sovrano-filosofo platonico.
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CAPITOLO SECONDO
TRIONFO E CROLLO (63 -57 A.C.)
A suo stesso giudizio, quello del consolato fu per Ci cerone un anno di successi senza pari, che egli volle ren dere noti ai posteri con ogni mezzo. Tre anni dopo rac colse dodici delle orazioni allora pronunciate in un ciclo di Orationes consulares (discorsi consolari). In seguito, per aumentare la sua fama anche presso altri popoli, scrisse il compendio in lingua greca (hyp6mnema) Sul suo consolato. E poiché nessun altro poeta sembrò pronto a dedicargli un vero poema epico, alla fine non esitò, novello Omero di se stesso, a celebrarsi nei tre libri del De consulatu suo. Ciò gli fu più dannoso che utile, al punto che l'osservatore moderno è incline, in qualche modo, a sottovalutare le sue notevoli azioni, perché così incensate. Esse furono tuttavia considerevoli, e così le giudicarono già i contemporanei.
Discorsi di un «console popolare» Seguiamo il corso delle Orationes consulares. Il primo di gennaio i consoli avevano appena concluso la rituale of ferta di tori bianchi sul Campidoglio che in senato aveva già luogo un difficile dibattito: il tribuna della plebe Rullo aveva presentato una legge agraria (/ex agraria) che pro metteva, a concittadini poveri, poderi agricoli a spese dello stato. Queste leggi agrarie - che sin dai tempi dei Gracchi erano state uno strumento popolare, vale a dire una scelta politica finalizzata a catturare la simpatia del popolo erano sempre sospette alla gran parte della nobiltà, costi tuita da proprietari terrieri generalmente avidi. A ciò si deve aggiungere che la legge prevedeva una commissione di dieci uomini (decemviri) cui venivano conferiti addirit tura poteri dittatoriali. Fu perciò semplice per Cicerone 37
parlare contro la nuova legge davanti ai senatori (primo discorso De lege agraria) . Più difficile fu farsi portavoce del medesimo punto di vista davanti al popolo, cui spettava l'ultima parola (se condo discorso De lege agraria, un capolavoro poco noto) . Qui Cicerone sollevò sospetti non solo contro i dieci «ti ranni», bensì soprattutto contro i presunti mandanti della proposta di legge, i quali - a quanto pare - contavano su questa posizione di forza per costruire una resistenza con tro Pompeo (che sarebbe presto tornato dall'Oriente) , quel Pompeo così amato dal popolo ! Sarà stato effettivamente questo l'intento principale della legge? In ogni modo Cice rone fece in modo, come in seguito constatò Plinio, che «i cittadini prendessero decisioni contro i loro stessi interessi vitali» ! La legge, molto probabilmente, non fu nemmeno messa ai voti. Per Cicerone fu positivo non essersi presentato ai suoi concittadini come un nobile conservatore, ma piuttosto come uno di loro, un homo novus del popolo: egli deside rava diventare - disse - un politico diverso, un «console popolare» (consul popularis). Il termine popolare veniva so litamente impiegato per quei politici che, perseguendo il vantaggio del popolo e anche il proprio, facevano politica soprattutto con il favore dell'assemblea popolare e contro la maggioranza del senato. Un popolare di questo tipo era allora Cesare, e tale era anche Rullo. Cicerone spiegò in vece che bisognava intendere questo termine nel suo au tentico significato: popularis non è chi fa promesse al po polo, ma piuttosto chi si prende a cuore i reali interessi di quest'ultimo, il suo desiderio di pace, di libertà e di tran quillità interiore (otium) . Anche in altri casi le Orazioni consolari miravano a smorzare attacchi popolari all'ordine costituito. Il popolo si ribellò contro una legge che assegnava ai cavalieri posti a sedere riservati in teatro: Cicerone lo convinse che que ste distinzioni esteriori di dignità tutelavano lo stato ( Or. cons. 3 , purtroppo perduta) . Caso ancora più difficile: la vergognosa legge di Silla, secondo cui i figli di coloro che egli aveva proscritto dovevano essere esclusi dalle cariche pubbliche, doveva essere abrogata. Cicerone riuscì nuo vamente, richiamandosi al bene dello stato, a rendere ac38
cettabile al popolo il senso di questo decreto ( Or. co ns. 5 , perduta) . Diede prova del proprio impegno disinteressato rinunciando pubblicamente alla provincia che gli spettava trascorso l'anno della sua carica ( Or. cons. 6, perduta) . S i presentò tuttavia anche come un uomo pronto a rista bilire la calma e l'ordine, in casi estremi, con la violenza. Nel processo contro Gaio Rabirio giustificò la scandalosa uccisione di un sovversivo tribuno della plebe, «popolare» nell'anno 1 00 a.C., affermando di non voler fare niente di diverso da quanto aveva fatto il console Mario a suo tempo ( Or. cons. 4: Pro Rabirio). Di questa orazione ad alto pathos egli era molto orgoglioso.
La congiura di Catilina e il salvataggio dello stato Nell'estate del 63 Catilina, rivale di Cicerone l'anno precedente, si candidò per la seconda volta senza successo al consolato: furono eletti Giunio Silano e Licinio Murena. Catilina, che già prima dell 'elezione si era designato quale guida dei «nullatenenti» (miseri) , si decise allora a tentare temerariamente di giungere al potere con la violenza, me diante una congiura. Pompeo era nel lontano Oriente con il suo esercito. Così persino un esercito di veterani impo veriti poteva minacciare Roma: Gaio Manlio, legato a Cati lina, arruolava già truppe in Etruria. Contemporaneamente attentati a persone importanti e incendi mirati all'interno della città dovevano creare un clima di caos e rendere pos sibile il colpo di stato. Fortunatamente Cicerone aveva degli informatori ed era sufficientemente a conoscenza di tutti i piani: comperi («lo so già») divenne molto presto la frase proverbiale, e persino caricaturale, del grande detec tive. Il 27 ottobre la sommossa militare di Manlio, che gettò Roma nel terrore, divenne di pubblico dominio. Catilina negò tutto, e soprattutto mentì circa l'accordo con Man lio. Nella notte fra il 6 e il 7 novembre i congiurati si in contrarono per un ultimo consulto. Dopo questo incontro, Catilina avrebbe voluto lasciare Roma per unirsi a Manlio. Prima, però, doveva essere ucciso il nemico principale: Cicerone. Già allora la vicenda assunse i toni di un incre39
dibile romanzo di cappa e spada, allorché 1'8 novembre Catilina, sul quale gravavano pesanti accuse, si presentò in senato per dimostrare la propria innocenza. Cicerone lo accolse con uno dei discorsi più famosi di tutti i tempi, la prima Catilinaria ( Or. cons. 7 ): Qua usque tandem . . . ? «Per quanto tempo ancora . . . ?». Quando gli scaraventò in faccia tutte le accuse, il suo potenziale assassino, colto di sorpresa, non osò negarle. Soltanto quando Cicerone lo incitò a lasciare la città, Catilina ritrovò la parola e cercò di creare un clima ostile al console attribuendogli l'inten zione di volerlo cacciare in esilio sfruttando il potere con solare. Cicerone passò al contrattacco: «esilio? Non te lo ordino, te lo consiglio (non iubeo, sed suadeo)». Davvero un buon consiglio. Se Catilina lo avesse seguito, avrebbe avuto ancora molto da vivere. Egli però raggiunse, come profetizzato da Cicerone, il suo compagno Manlio, si pro clamò console, e tre mesi dopo cadde combattendo contro le truppe governative. Contro le previsioni di Cicerone, i congiurati di Cati lina non avevano lasciato la città assieme a lui (così in Cat. 2 Or. cons. 8 ) . Bisognava farli uscire allo scoperto, ma non in modo precipitoso. L'occasione si presentò all'ini zio di dicembre. Incautamente, i catilinari si erano messi in contatto con una popolazione gallica, gli Allobrogi, i cui ambasciatori si trovavano a Roma in quel momento. Si pensi: Galli ! Cicerone, informato di tutto, si mise a sua volta in contatto con loro, li incoraggiò a simulare di con tinuare le trattative e fece in modo che, sulla strada del ri torno in patria, portassero con sé lettere firmate che rive lavano il tradimento. Tra gli autori vi era niente di meno che un pretore in carica ed ex console di ottima famiglia, il pingue Cornelio Lentulo Sura. Sul ponte Milvio, come concordato, i Galli vennero fermati, le lettere vennero se questrate e portate subito al senato convocato d'urgenza. Era il 3 dicembre. Neppure Hercule Poirot avrebbe saputo architettare meglio l'ultimo capitolo di questo «giallo», la scena della rivelazione. Prima vennero fatti entrare i Galli, poi i cin que delinquenti, uno dopo l'altro, e questi ultimi furono messi a confronto rispettivamente con le lettere e i Galli. Soltanto in quel momento - che rischio ! - le lettere ven=
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nero aperte e lette. Non vi era alcun dubbio: si trattava di alto tradimento. I farabutti confessarono, gli stenografi trascrissero. Ma Cicerone fu più dell'eroe del giorno. Il senatore più anziano, Lutazio Catulo, lo salutò come il «padre della patria». In suo onore venne organizzata una festa di ringraziamento (supplicatio) agli dèi. Egli «aveva liberato Roma dall'incendio, i suoi concittadini dall'ucci sione e l'Italia dalla guerra». Onori alti e tributati a giusta ragione, e tuttavia superati dagli inni che Cicerone intonò a se stesso come nuovo fondatore della città, «Romolo», nell'orazione di chiusura rivolta al popolo (Cat. 3 Or. cons. 9). Se soltanto avesse avuto la capacità di mettere a profitto per se stesso il proprio operato ! Due giorni dopo, le None di dicembre, ebbe luogo la più famosa seduta di tutti i tempi del senato romano, che doveva essere fatale soprattutto per il resto della vita di Cicerone. Come console in carica, egli chiese ai sena tori come giudicassero la situazione e che pena ritenessero adeguata. Un simile giudizio dovrebbe di regola spettare a un tribunale, ma è interessante che il 5 dicembre nessuno mise in discussione la competenza del senato. Troppo forte l'impressione suscitata dall'ammissione di colpa, troppo grande sembrò il pericolo di un'imminente, violenta libe razione. Chi poteva conoscere il numero dei catilinari an cora nascosti? Sembrava necessaria una punizione esemplare. En trambi i consoli designati, interrogati per primi, votarono per la «pena estrema» (extremum supplicium) , vale a dire per la pena di morte (che altrimenti, a Roma, non fu mai applicata de facto a cittadini nobili) . Seguì la squadra dei quattordici consolari (ex consoli) presenti. Soltanto il pretore designato, Gaio Giulio Cesare, osò prendere posizione per una pena meno pesante: egli votò per una detenzione a vita degli imputati, in diversi municipi, per impedire tentativi di liberazione. Nel caso però in cui si fosse deciso per la pena di morte, egli metteva in guardia contro una vendetta del popolo, che avrebbe accettato a fatica un siffatto giudizio del senato. In bocca a Cesare, notoriamente un popolare, questa era una minaccia che poteva suscitare paura. L'atmosfera in senato cominciò a cambiare. =
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Cicerone prese la parola ancora una volta (in Cat. 4 Or. cons. 1 0 ) , per sostenere la richiesta di pena di morte, cui anche lui era favorevole, con la discrezione richiesta dalla sua carica. Egli soltanto, fece capire, avrebbe dovuto rispondere delle conseguenze di quella giornata. Pregava, però, di non preoccuparsi per lui. E così in effetti fece il senato. Quando il giovane Marco Porcia Catone, a quel tempo ancora un uomo di secondo piano, si azzardò per primo ad accusare Cesare di segreta complicità con Cati lina e a ricordare al senato le antiche virtù, l'atmosfera mutò nuovamente: i criminali dovevano venire giustiziati immediatamente, secondo quanto previsto dalla procedura. Furono condotti nel Tulliano attraverso il foro. Là li aspettava il boia. Con il lapidario verbo al perfetto vixe runt, «hanno vissuto», il console comunicò al popolo il ri sultato della sua fatale azione. Sul momento, a dire il vero, vi fu soltanto gioia. Il salvatore di Roma fu condotto a casa tra i cori come un trionfatore, alle porte bruciavano le fiaccole della gioia, dai tetti le donne di Roma salutavano il loro protettore. Così il «giallo» che coinvolse Cicerone fu coronato da un finale degno di un'opera lirica, di cui egli non dovette più curare la regia. Cicerone aveva agito nel rispetto delle leggi? A dif ferenza di molti storici di oggi, che dubitano fortemente di ciò, tutte le persone coinvolte alle None di dicembre erano unanimemente d'accordo nel ritenere legittima l'ese cuzione capitale dei catilinari. Nemmeno Cesare, come si desume chiaramente dall'orazione ciceroniana, la contestò mai. Se poi l'esecuzione capitale fosse anche necessaria, è difficile da valutare per noi. In ogni modo Cicerone, che fu sempre fiero della sua azione, non ne avrebbe ricavato una grande soddisfazione. =
Il salvatore di Roma deve dz/endersi L'agitazione contro il console cominciò presto. Un tri buna della plebe annunciò che voleva impedire a Cice rone di parlare al popolo l'ultimo giorno del suo consolato (29 dicembre): chi aveva giustiziato dei cittadini romani, senza concedere loro il diritto di difendersi, si era privato 42
anch'egli del diritto di parlare. Cicerone tuttavia si servì di quest'obiezione per un ultimo coup de thédtre. Modificò il suo giuramento d'ufficio, secondo cui egli si era attenuto alle leggi, sostenendo ad alta voce che «lo stato era stato salvato» soltanto grazie a lui. Il popolo, acclamandolo, lo accompagnò nuovamente a casa in una processione festosa. La cosa fece impressione, ma non fu sufficiente. Quando l'anno seguente, nei processi contro i catilinari ri masti, Cicerone, in qualità di competentissimo testimone, volle far approvare regolarmente la loro condanna, lo si accettò nuovamente. Tuttavia un dissidio nacque quando egli difese inaspettatamente uno degli incriminati, un certo Publio Cornelio Silla: nessuno sapeva bene come lui, Cice rone, che quell'uomo era innocente. Il giovane accusatore, un certo Manlio Torquato, si scagliò infuriato contro que sta «tirannia» dell'ex console: ora era soltanto Cicerone a decidere chi era un catilinaria e chi no? Inoltre Torquato non sapeva ancora che cosa si sarebbe presto mormorato: che Cicerone aveva avuto dal suo cliente, Silla, un prestito ingente per l'acquisto di una nuova abitazione in una zona molto elegante sul Palatino. Un'ombra insolita oscurava la reputazione pubblica di Cicerone. Nel processo di Silla Cicerone desiderava profonda mente migliorare la propria immagine, per non essere con siderato soltanto, in modo unilaterale, l'intransigente vin citore di Catilina. Aveva finalmente la possibilità, disse, di dare dimostrazione della propria innata umanità. Lo stesso tentativo informò anche altri due processi. Già il discorso Pro Murena fu tenuto, ancora nel novembre 63 , da un console rilassato e spiritoso, che si permise un excursus sui dogmi paradossali degli Stoici, poco usuale nei tribunali. E si allontanò ancor più dal suo compito principale di di fensore nell'anno 62 , nell'orazione Pro Archia. Affrontò soltanto brevemente il tema dell'accusa - secondo cui il poeta Archia, un tempo maestro di Cicerone (p. 1 6 ) , aveva usurpato la cittadinanza romana - preferendo diffondersi lungamente in un elogio della nobile poesia. In entrambi i discorsi ricorse per la prima volta a un'espressione che doveva avere successo un millennio e mezzo dopo, nel Ri nascimento: studia humanitatis, studi dell'umanità, anche se qui il termine indica non tanto un sentimento di pros43
simità e di solidarietà con tutti gli esseri umani, quanto piuttosto la formazione umanistica in senso lato. Nella Pro Murena si intende la filosofia, nella Pro Archia Cicerone pensa alla retorica e soprattutto alla poesia. Mentre in precedenza, per non essere deriso come sac cente (scholastik6s) , Cicerone aveva preferito tenere na scosta la sua predilezione per le discipline umanistiche e la grecità, ora autorappresentarsi come amante delle belle lettere rientrava anche nel suo interesse politico. In uno scritto sulla saggia amministrazione delle province, che inviò nel 60 a.C. al fratello Quinto governatore dell'Asia Minore (Ad Quintum /r. 1 , 1 ) , riconobbe di dovere alle «scienze e alle arti» dei Greci tutto ciò che aveva raggiunto durante la sua vita. Bisognava porsi con un atteggiamento di particolare umanità (humanitas) nei confronti di coloro che avevano donato al mondo una formazione umanistica (humanitas) . Si trattava di toni nuovi, in un contesto poli tico. Per Cicerone sarebbe stato importante conquistare, ol tre all'appoggio del senato, anche quello di Pompeo, che alla fine del 62 tornò con le sue truppe. Già nella terza Catilinaria egli aveva posto sullo stesso piano le proprie azioni e quelle di questo suo contemporaneo allora molto famoso. In modo simile si deve essere espresso in una let tera a Pompeo, che però non la gradì affatto e la ricevette con freddezza. Soltanto a poco a poco Pompeo cominciò a solidarizzare con lui anche pubblicamente, ma Cicerone era persuaso che egli fingesse e che in realtà fosse invi dioso. Siamo al corrente di ciò e di numerose informazioni di questo tipo grazie alle lettere di Cicerone al suo giovane amico Tito Pomponio Attico: ce ne sono pervenute alcune degli anni 68-65 , e poi nuovamente a partire dall'anno 6 1 . Sono documenti straordinari. L'oratore Cicerone, che quasi sempre ha dovuto recitare un ruolo, ha qui ceduto al bisogno di rivelarsi, una volta tanto, senza infingimenti. Questo ci consente di conoscere non soltanto le sue im pressioni, e pure la sua capacità di essere autoironico, ma anche - come da nessun'altra fonte - la lingua parlata a quel tempo fra le persone di cultura. Chi vuole appren dere il vero latino, quello parlato, deve partire da qui. 44
Due avvenimenti di quest'epoca dovettero essere de terminanti per i successivi dieci anni di vita di Cicerone: la rottura con Publio Clodio Pulcro e il cosiddetto «primo triumvirato». Nel dicembre 62 Clodio fu responsabile di un sacrilegio. Era entrato vestito da donna nella casa della moglie di Cesare, Pompea, in occasione della festa esclu sivamente femminile della Bona Dea, presumibilmente per avere un incontro intimo con la padrona di casa. Scan dalo ! Cesare, allora Pontz/ex Maximus, la carica sacerdo tale romana di più alto grado, si separò immediatamente, senza fare ulteriori approfondimenti. Questa materia era di competenza di una corte di giustizia speciale. Davanti a essa Cicerone depose come testimone dell'accusa e di strusse un alibi di Clodio. I giudici tuttavia, corrotti da Crasso, con una maggioranza risicata dichiararono libero Clodio. Cicerone trovò irrilevante questa perdita di presti gio, ma Clodio meditò vendetta. Ancor più importante fu l'altro avvenimento. Pom peo, Crasso e Cesare, il più famoso, il più ricco e il più popolare uomo di Roma, strinsero nell'anno 60 un ac cordo segreto a tre: nessuno di loro doveva fare qualcosa che dispiacesse a uno degli altri. Innanzitutto si doveva ottenere l'elezione di Cesare a console per il 59. Cice rone ne sentì parlare nel dicembre del 60: Lucio Cornelio Balbo, un uomo di fiducia di Cesare, si presentò a lui e gli chiese la promessa di accettare una legge agraria pro grammata da Cesare. In cambio di ciò, da console, Cesare avrebbe preso in considerazione i consigli suoi e di Pom peo; sperava inoltre di far riconciliare Crasso e Pompeo. Era un implicito invito ad aderire all'accordo a tre come se fosse un accordo a quattro. Cicerone ci pensò sopra, valutando fra sé e sé, come aveva appreso da Filone (p. 18), «socraticamente, entrambe le possibilità», ma declinò l'offerta, nonostante contenesse dei vantaggi per lui, come ben vide: «conciliazione con i nemici, pace con il popolo e una vecchiaia tranquilla». Ma come avrebbe potuto scen dere a patti con un Cesare, che doveva la sua carriera a corruzioni che lo avevano quasi rovinato ! Inoltre Cicerone fu sempre convinto che Cesare e Crasso fossero stati per lungo tempo alleati segreti di Catilina. Con questi partners non avrebbe certo raggiunto quell'«unione di forza e sag45
gezza» (coniunctio potestatis et sapientiae) , nel senso del sovrano-filosofo platonico (p. 1 2 ) , che si era ripromesso nello scritto destinato a Quinto.
Cicerone viene allontanato Un importante storiografo romano, Asinio Pollione, ha fatto risalire l'inizio della guerra civile, che sarebbe scop piata apertamente soltanto nell'anno 49, al triumvirato del 60 a.C. Ciò si capisce bene se si guarda al consolato di Ce sare che seguì, una sequela di violenze e di violazioni della legge. Amareggiato da ciò, Cicerone segnalò la deplorevole situazione in un discorso processuale per il suo precedente collega Antonio. Non ebbe successo: Antonio fu condan nato, e a lui Cesare diede una dolorosa lezione. Il suo ne mico Clodio, un nobile patrizio, che da anni tentava senza successo di passare alla plebe per poter diventare tribuno, fu dichiarato plebeo dal pontefice massimo Cesare, con un'accelerazione della procedura, mediante un'adozione il legale. Così il nemico divenne un pericolo mortale. Eletto tribuno della plebe, Clodio pubblicò già nel gennaio dell'anno della sua carica, il 58, una proposta di legge secondo cui «colui che aveva ucciso sen f a condanna un cittadino romano doveva essere esiliato». E chiaro che Clodio aveva in mente Cicerone, ma ufficialmente non era ancora stato fatto alcun nome. Così fu un errore, di cui Cicerone più tardi si pentì, richiedere subito il sostegno del popolo e della cavalleria, lasciarsi crescere i capelli e indossare abiti luttuosi come un imputato in un processo per omicidio. Aveva finito per mettersi lui stesso nel ruolo dell'accusato. Quando Clodio spiegò di agire in accordo con Pom peo, Crasso e Cesare, Cicerone tentò di indurre a interve nire almeno il suo amico Pompeo. Ma costui si sottrasse vilmente. E quando Clodio fece apertamente minacce con le truppe di Cesare, che allora si trovavano ancora vicino a Roma e non accennavano a muoversi verso la provincia di destinazione, Cesare non obiettò nulla. Sarebbe dunque scoppiata una guerra civile, se Cicerone avesse opposto re sistenza? Il console Calpurnio Pisone Cesonino, che si era 46
sottomesso ai detentori del potere, suggerì a Cicerone un po' ironicamente di «salvare lo stato» una seconda volta e di andarsene. Secondo lo stile romano, Cicerone si rivolse ai suoi amici ed essi gli diedero il medesimo consiglio. Ci cerone lasciò quindi Roma la notte precedente la votazione della legge, per evitare l'incontro di eventuali sicari e fug gire in Grecia. La legge fu approvata, la casa di Cicerone sul Palatino fu incendiata. Non fu sufficiente. Per tagliare definitivamente a Ci cerone la strada del ritorno a Roma, Clodio presentò un nuovo progetto di legge, secondo cui Cicerone doveva or mai essere personalmente esiliato, dal momento che - una vera imboscata ! - aveva registrato una decisione del senato falsificata. Così adesso era davvero lui il solo responsabile delle None di dicembre. Sino al 4 agosto 57 , giorno del suo ritorno in Italia, egli fu in «esilio» in Grecia, come si dice oggi seguendo l'uso linguistico di Clodio: Cicerone lo contestò a ragione, dal momento che non aveva mai avuto intenzione di rinunciare alla sua cittadinanza (civitas) e considerava illegale la seconda lex Clodia. I diciassette mesi di «esilio», come sappiamo da nu merose lettere, furono i più terribili nella vita di Cicerone. Egli, che aveva sempre ricevuto riconoscimenti, si vedeva ora abbandonato e oltraggiato da tutti. Soltanto di rado aveva il coraggio di affermare orgogliosamente: «non è stato il nostro errore, ma la nostra virtù a gettarci a terra». Per lo più ricercava la colpa nei propri comportamenti sbagliati, ma soprattutto nei cattivi consigli dei suoi amici, talvolta buoni, talvolta invidiosi e subdoli. In ogni modo, egli era il più infelice degli uomini e poteva solo augurarsi la morte: ma anche per questo, per viltà, aveva perso il momento giusto. Questo, proprio questo era il pensiero che lo torturava maggiormente. E che fine aveva fatto la filosofia di Cicerone? L'etica studiata in Filone, Antioco e Platone non poteva offrirgli alcun sostegno morale? No, non poteva, e Cicerone non arrivò mai a pensare di trovare consolazione proprio nella filosofia. Fino a quel momento, essa lo aveva sempre con sigliato per quanto concerneva l'azione politica. Soltanto più di un decennio più tardi doveva diventare per lui la confidente della sua vita privata (p. 96) . 47
CAPITOLO TERZO
CICERONE RIABILITATO ED ESAUTORATO (57 -54 A.C.)
Già subito dopo la sua fuga, nel giugno 5 8 , in senato si discusse la possibilità di richiamare Cicerone. Le di scussioni su questo argomento proseguirono nell'anno se guente e condussero a sanguinosi scontri di piazza. Deci sivo fu il fatto che Pompeo, d'accordo con Cesare, nella primavera del 57 cominciò ad adoperarsi nuovamente per Cicerone. Si riteneva di averlo sufficientemente intimorito. Pompeo, inoltre, aveva da tempo litigato con quell'anima nera di Clodio. Contro la sua accanita resistenza, il 4 ago sto del 57 a.C. fu stabilito per legge l'annullamento della proscrizione di Cicerone e fu conclusa la restituzione del patrimonio confiscato. Il giorno dopo, Cicerone era già a Brindisi. Presto poi lo ricondusse a Roma «l'intera Italia, quasi sulle spalle». Il 4 settembre fu condotto dal popolo, tra grandi applausi, sul Campidoglio, dove egli ringraziò innanzitutto gli dèi.
I discorsi successivi al ritorno («post reditum») Uno dei tratti vincenti della personalità di Cicerone è la capacità di dimostrare gratitudine. In due grandi di scorsi, uno in senato, l'altro al popolo, egli tesse l'elogio dei suoi benefattori terreni, in primo luogo di Pompeo, «quasi il più grande uomo di tutte le popolazioni, di tutti i secoli, dell'intera storia», a cui sperava di riavvicinarsi. Poi elogia, secondo l'ordine d'importanza della carica, i funzionari che avevano svolto un ruolo decisivo per richia marlo, come il fratello Quinto e il cognato Pisone Frugi. Anche il vizio tuttavia riceve ciò che gli è dovuto: Gabi nio e Pisone, che non avevano dato gran prova di sé come consoli dell'anno 58, vengono derisi con battute taglienti, 49
l'uno come un superficialone dai ricciolini profumati, l'al tro come l'ipocrita rappresentante dell'antica moralità ro mana con una barba trasandata. Nel discorso al senato, che dal punto di vista stilistico è ancora più elaborato, Cicerone dà prova di avere letto un testo scritto - fatto inusuale per lui - soprattutto per non tralasciare inavvertitamente alcun nome. In entrambi i discorsi è curioso il modo in cui Cicerone spiega i mo tivi della sua fuga da Roma. Mentre prima egli era sempre stato dell'avviso che essa fosse stata un errore causato dal consiglio di falsi amici e dalla propria paura della morte, quell'errore viene ora trasfigurato in un'azione eroica. I motivi del suo «allontanamento» (discessus) , che Cicerone ora menziona, sono i seguenti. Innanzitutto, già allora si era reso conto che con lui anche lo stato (res publica) lasciava Roma, cosicché un giorno lui, Cice rone, sarebbe ritornato insieme a esso. Questa singolare riflessione, per la quale cioè non Cicerone, bensì Roma sarebbe stata in «esilio», sta all'origine dell'idea, che da questo momento diventerà in lui sempre più frequente, che la sua persona venga quasi a coincidere con la res pu blica. Come seconda giustificazione del suo discessus egli adduce, non del tutto a torto, il fatto che andandosene aveva risparmiato a Roma un bagno di sangue e aveva così «salvato lo stato per la seconda volta». Questa in terpretazione, suggeritagli già nel 58 dal console Pisone, viene ora potenziata dal fatto che Cicerone eleva il suo al lontanamento a volontario «sacrificio» (devotio): con esso, egli ha sostitutivamente attirato su di sé, «con l'interposi zione del proprio corpo», l'odio dei malvagi. È del resto buon diritto dell'avvocato colorare tutti gli avvenimenti secondo il proprio interesse di parte. Qui si ha tuttavia quasi l'impressione che Cicerone stesso cominci a credere davvero alla propria storia. In questo periodo, ebbe altre due volte la possibilità di interpretare il suo discessus. La prima gli fu offerta da un singolare problema giuridico concernente la sua abi tazione. Clodio aveva avuto la diabolica idea di fare co struire e consacrare (dedicare) un santuario alla dea della libertà (Libertas) sul terreno in cui sorgeva la casa di Ci cerone, mentre questa era confiscata. Tale consacrazione, 50
però, trasferiva irreversibilmente la proprietà dagli uomini agli dèi. Quando Cicerone pretese la restituzione della sua casa, quindi, Clodio si oppose. Il senato chiese un parere al collegio dei sacerdoti romani (ponti/ices) , il quale con vocò le parti il 29 settembre 57 : si giunse così alla resa dei conti tra i due avversari. Clodio, che in quell'occasione si presentò come avvo cato della sacra religione romana, pronunciò un discorso perduto, ma ricostruibile sulla base di quanto afferma Cice rone - interessante soprattutto perché per la prima volta la vanagloria ciceroniana fu esplicitamente derisa. Così parlò Clodio, citando sarcasticamente le formulazioni ciceroniane: «Sei l'uomo cui il senato non poteva rinunciare, che i buoni piangevano, di cui lo stato sentiva la mancanza?». Con tono decisamente derisorio, Clodio fece anche alcune citazioni dal poema epico De consulatu suo. Al più tardi a partire da questo momento, e sino alla conclusione della sua vita, Ci cerone dovette confrontarsi non solo con il rimprovero di essere crudele (per via delle None di dicembre), ma anche con quello di essere vanitoso. L'orazione ciceroniana De domo sua, divenuta prover biale con l'etichetta di pro domo («a proprio interesse») , fu a suo giudizio un capolavoro superiore a tutti gli altri di scorsi, da pubblicare immediatamente. Ciò non tanto per l'acutezza dell 'apparato probatorio in una situazione giu ridica sfavorevole, quanto per il modo straordinariamente toccante con cui Cicerone rappresenta le azioni del suo ne mico e i propri sentimenti. Dal profondo del cuore egli de scrive il dolore che gli provocherebbe la perdita della pro pria abitazione sul Palatino: «se rimane là questo monumen to (cioè il santuario della Libertas) , che non è un monu mento alla virtù, ma la sua tomba, che reca il nome del mio nemico, allora è meglio andarsene piuttosto che rimanere ad abitare nella città in cui devo vedere i trofei eretti con tro di me e contro lo stato». I sacerdoti furono colpiti, ed espressero un parere fa vorevole a Cicerone: gli era consentito procedere con la costruzione. Anche gli dèi sulle prime chiusero un occhio, ma non per lungo tempo, come poi si vide. Nell'estate dell'anno seguente, si avvertì in tutto il Lazio un fragoroso terremoto: un segno certo dell'ira degli dèi che gli aru51
spici preposti riconducevano tra l'altro alla «profanazione di luoghi sacri». Un bel colpo per Clodio, che ora voleva nuovamente riprendere in senato il dibattito sulla casa di Cicerone. Quest'ultimo lo impedì con il discorso, più che degno di lettura, De haruspicum responso (Sul parere degli aruspici) : esso contiene una vivida confessione sulla religione statale romana, sulla quale successivamente, nelle opere filosofiche, Cicerone si esprimerà in modo un po' diverso (p. 1 09 ) .
Cicerone consapevole delle proprie possibilità L'ultima occasione di soffermarsi dettagliatamente sul discessus e sul ritorno fu offerta a Cicerone da un curioso processo del marzo del 56 a.C.: Publio Sestio era un tri buna della plebe che nel 57 aveva combattuto anche fisi camente negli scontri di piazza per Cicerone; ora era ac cusato di violenza, o meglio di terrorismo (de vi) , anche se probabilmente la prospettiva di essere condannato era piuttosto remota. Si mormorava persino di una sorta di praevaricatio (accordo fra accusa e difesa) . Il discorso di Cicerone, l'ultimo di cinque orazioni, mirava non tanto a dimostrare l'innocenza dell'accusato nei tumulti dell'anno 57 - Cicerone parlò di legittima difesa - quanto piuttosto a interpretare l'attesa assoluzione come un'adesione al suo programma politico, sviluppato in quella sede. Il punto di partenza è costituito da una spregevole esternazione dell'accusatore sulla «casta degli ottima ti» (natio optimatium) . Questo termine, optimates, dall'inizio del I secolo veniva impiegato dai nobili per designare loro stessi come i «migliori di tutti» (usualmente optimi) , con un significato simile a quello del nostro «aristocratici». Di regola essi vengono contrapposti - come spiega Cice rone - ai populares. Di colpo, ora, Cicerone fa di questa denominazione di un ceto sociale il nome dell'atteggia mento politico della «gente perbene» (in modo simile a come in passato aveva fatto con il termine populares, p. 38). Ci sono optimates in tutte le classi sociali, anche tra gli agricoltori, tra i commercianti, persino tra i liberti ! Per illustrare l'obiettivo politico degli optimates Cicerone 52
conia una formula divenuta classica: cum dignitate otium, «tranquillità con dignità» (con questa formula ancora oggi mandiamo in pensione persone benemerite) . Il termine otium designa qui in primo luogo la «tranquillità» interna dello stato, il termine dignitas il «prestigio», sia del sin golo cittadino sia dell'intera compagine statale. Nessuno di questi due valori, insegna Cicerone, deve essere perse guito a spese dell'altro. Fondamento comune a entrambi sono le istituzioni tradizionali dello stato romano: organi smi religiosi, àuspici, centri di potere, autorità senatoria e così via sino all'erario. Queste devono essere difese dai veri ottimati. Contro chi? Qui Cicerone fornisce una classificazione di massima dei nemici dello stato. Si tratta di: l ) criminali, che hanno paura di essere puniti (e si pensa soprattutto a Catilina) ; 2 ) attaccabrighe, cui l'agitazione dello stato pro cura una gioia perversa, demoniaca (Clodio ! ) ; 3 ) persone pesantemente indebitate, che soltanto una crisi generale po trebbe salvare (un caso attuale era Gabinio) . La lotta con tro questi mostri è faticosa, perché normalmente essi sono più dinamici delle persone perbene, le quali spesso sono pigre e si svegliano solo tardi (Pompeo ! ) . Ma la lotta è promettente, ora più che mai. Oggi infatti - si sente dire non vi è più alcun conflitto fra il popolo e i suoi leaders: il popolo è soddisfatto del suo otium, della dignitas delle persone di riguardo e della gloria dello stato. I demagoghi che lo vogliono sobillare non dicono più al popolo ciò che vuole sentirsi dire, ma si comperano con la corruzione un popolo pronto ad ascoltarli. Cicerone corona il suo quadro con la prospettiva della ricompensa che il vero uomo di stato ottiene anche al di là del successo esteriore: la gloria immortale, forse la divinizzazione. Era corretta l'analisi ciceroniana dei fattori politici? Gli storici sorridono della sua partizione, probabilmente ingenua, tra «buono» e «cattivo»: questa prospettiva mo ralistica non riuscirebbe a centrare i veri motivi profondi della crisi dello stato romano (che fu superata soltanto con il principato) . Io ritengo che Cicerone qui abbia trascurato soltanto un punto, ma importante: la smania di potere. I tre potenti occulti di questi anni, Pompeo, Cesare e Crasso (tutti collettivamente responsabili dell'esilio di Cicerone) , 53
volevano ciascuno per sé una quantità di poteri che andava oltre le istituzioni: in modo più evidente di tutti la voleva Cesare, che allora in Gallia aveva cominciato a crearsi un esercito a lui fedele, per un'eventuale guerra civile. Già nel 59 aveva spiegato che «in futuro avrebbe messo i piedi sulla testa a tutti». Una figura come la sua non era inquadrabile nelle categorie ciceroniane e a Cicerone pro babilmente egli rimase sempre incomprensibile. Cicerone stesso, infatti, non mirò mai effettivamente al potere, ma piuttosto ai riconoscimenti. A quel tempo Cicerone aveva riposto le proprie spe ranze su Pompeo, che avrebbe voluto nascostamente al lontanare da Cesare. Mentre nell'orazione Pro Sestio era ancora riguardoso nei confronti di quest'ultimo, nell'in terrogatorio dei testimoni si permise alcune frecciate. Quando cioè in quell'occasione il cesariano Publio Vatinio lo derise dicendo che ora era diventato amico di Cesare a causa della fortuna di quest'ultimo, Cicerone rispose au dacemente che per lui la presunta sfortuna di Bibulo, con sole assieme a Cesare e da quest'ultimo a suo tempo pe santemente maltrattato, era più importante di tutte le vit torie e i trionfi (con riferimento alla Gallia) . La voce di un filosofo ! Nel suo successivo resoconto, Cicerone sottolinea esplicitamente di avere fatto queste e simili osservazioni in presenza di Pompeo: evidentemente, erano pensate anche come una sorta di test. Ma Pompeo non ascoltò, oppure lasciò che Cicerone si arenasse. Nelle orazioni successive al ritorno, Cicerone aveva promesso di voler conservare la sua vecchia libertà di pa rola (/ibertas) . Mise in pratica questo proposito soprattutto il 4 aprile 56, quando uno dei candidati al consolato at taccò in senato la legge agraria di Cesare del 59 e si la mentò specialmente della perdita dell' ag er Campanus, la terra campana. Cicerone pensò che fosse venuto il mo mento giusto e proseguì subito con la richiesta di tenere un dibattito in senato su questo problema il 15 maggio. «Potevo attaccare più duramente il baluardo di quella fac cenda (di Cesare o dei triumviri) ?», disse più tardi. La ri chiesta fu accolta, ma fu un autogol.
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Anche un asino cocciuto deve cedere Cesare, informato dell'atmosfera ostile di Roma, in contrò Crasso e Pompeo già a metà aprile del 56, in oc casione della famosa «riunione di Lucca», che rinnovò il triumvirato: Pompeo e Crasso dovevano diventare consoli nel 55 , Cesare conservare il proprio comando sino all 'anno 50. Cesare si lamentò molto delle insolenti esternazioni di Cicerone e Pompeo riferì di queste lamentele a Quinto, fratello di Cicerone, che a quel tempo, in qualità di le gato, era un suo subalterno. Egli, Quinto, doveva farsi ga rante del buon comportamento di suo fratello Marco. Una chiara minaccia. Mortificato da diciassette mesi di «esilio», Cicerone di menticò la promessa libertas e si piegò. Scrisse ad Attico: «poiché coloro che non hanno potere non ci vogliono bene (vale a dire coloro che lo invidiavano in senato), vo gliamo cercare di essere apprezzati da coloro che hanno il potere». Questo consiglio gli era stato dato da Attico già in precedenza: «so che tu lo volevi e che io sono stato un vero asino cocciuto (asinus germanus)». Ciò non significò soltanto che da allora in avanti Ci cerone avrebbe accettato passivamente i propositi dei triumviri, anzi: li avrebbe sostenuti attivamente. L'occa sione fu offerta dapprima da un dibattito in senato circa l'assegnazione delle province ai consoli (non ancora eletti) dell'anno 55: se queste fossero state le province ammini strate in quel momento da Cesare, le due Gallie, allora contro l'accordo dei «triumviri» del 54 il generale avrebbe perso il suo comando in Gallia e sarebbe stato abbando nato a Roma agli attacchi dei suoi avversari (soprattutto processuali) . L'impegno in favore di Cesare, richiestogli nel discorso al senato De provinciis consularibus (Sulle province consolari, maggio-giugno 56) , creava a Cicerone un visibile imbarazzo. In una testimonianza epistolare parlò addirit tura di una «palinodia (ritrattazione) un po' fastidiosa». Egli spiegò di non avere soltanto messo da parte la sua inimicizia per Cesare in nome dello stato, ma di averla su perata completamente per patriottismo: troppo importanti per Roma erano le splendide vittorie di Cesare, grazie alle quali finalmente l'intera Gallia veniva sottomessa. Si tratta 55
del primo grande panegirico di Cesare che abbiamo. E fu, come tutti videro, un atto di capitolazione. Cicerone rimase su questa nuova linea. Nell'orazione De haruspicum responso (estate 5 6 ? ) , con parole pressoché inequivocabili, esortò il senato a cercare un accordo con i triumviri. Nell'autunno del 56 a.C. difese Cornelio Balbo, un seguace di Cesare, dall'accusa di essersi arrogato la cit tadinanza romana. Ancor meno piacevole, per Cicerone, fu dover difendere pure persone ben poco simpatiche, come il cesariano Vatinio e infine addirittura l'odiato Gabinio, console nel 58 (è molto indicativo il fatto che questi di scorsi tenuti nel 54 non venissero pubblicati) . Almeno contro il collega di consolato di costui, quel Pisone che a suo tempo lo aveva mandato in collera ben di più, poté una volta scagliarsi liberamente. Quando Pi sone, nell'estate del 55 , fu criticato da Cicerone, lo accusò a sua volta di essere riguardoso, per viltà, nei confronti di coloro che erano i veri responsabili del suo esilio, vale a dire Cesare e Pompeo. Una verità sgradevole. L'ira di Ci cerone si sfogò in un raffica di ingiurie - talvolta argute, ma prevalentemente volgari - contro Pisone, deriso come un incapace dal punto di vista militare, ma soprattutto come un dissoluto e un «porco» epicureo. L'antichità p re cristiana non era troppo schizzinosa in cose del genere, ma lo sfogo di odio di Cicerone superò ogni misura. Lui, dal canto suo, ne fu peraltro soddisfatto e pensò che gli sco lari un giorno avrebbero «imparato a memoria come sotto dettatura» la sua invettiva. Più piacevole è un'altra orazione dell'anno 54, la Pro Plancia. Qui Cicerone dovette difendere dall'accusa di brogli elettorali Gneo Plancio, il quale lo aveva aiutato, in qualità di questore della Macedonia, nel momento più dif ficile della sua esistenza (estate 5 8 ) , e forse gli aveva per sino salvato la vita, ciò che offriva ora il destro a un toc cante finale strappalacrime. Dal punto di vista politico era interessante la figura dell'accusatore, Giovenzio Laterense, uno dei giovani nobili anticesariani che si rammaricarono per l'accordo di Cicerone con i triumviri, giudicandolo un atto di viltà. Egli sostenne persino che il discessus di Ci cerone fu inutile a quel tempo: un esercito stava dietro di lui, avrebbe dovuto soltanto volerne essere il leader. 56
Compagno di questo Laterense, della medesima età e del medesimo orientamento politico, era Gaio Licinio Calvo, i cui accesi discorsi contro Vatinio continuarono a essere ammirati sino alla tarda antichità (p. 9 1 ) ; un altro suo intimo amico era il famoso poeta Catullo (Gaio Va leria Catullo) , che non soltanto scrisse liriche amorose di inaudita intensità, ma ebbe anche una vena altamente poli tica, evidente nei suoi attacchi a Cesare e Pompeo. Anche Cicerone non ne restò completamente immune: in un com ponimento poetico, che apparentemente gli rendeva omag gio, Catullo lo chiama il «miglior patrocinatore (avvocato in un processo) di tutti» (optimus omnium patronus) . Que sta frase in italiano sembrà del tutto innocua, ma in latino suona diversamente: può anche significare che Cicerone è il migliore patrocinatore «di tutti», perché egli, secondo le indicazioni dei triumviri, doveva difendere proprio «tutti», persino tutti i buoni a nulla ! Cicerone, che in questi anni dovette giustificarsi così spesso, sentì anche il bisogno di spiegare più diffusamente il suo mutato atteggiamento. Ciò avvenne nel 54, in una lettera a Publio Cornelio Lentulo Spintere (console nel 5 7 ) , cui Cicerone doveva riconoscenza. In questo ampio scritto (Ad /amiliares I 9) egli non passò sotto silenzio la pressione personale cui lo aveva sottoposto Pompeo dopo l'incontro di Lucca (p. 55 ) , né il cattivo clima in senato per via di coloro che lo invidiavano; tuttavia l'elemento decisivo è da ravvisare nel fatto che infine aveva ricono sciuto in Pompeo e in Cesare uomini con grandi meriti nei confronti dello stato, e non aveva potuto mettere in di scussione la loro riconciliazione con Crasso. Anche se ora non diceva più le stesse cose di prima, il suo obiettivo ri maneva invariato: cum dignitate otium. E qui, a giustifica zione di un comportamento flessibile, veniva citato anche Platone: così come al padre, anche alla patria non bisogna mai fare violenza. Anche in questo periodo Cicerone non fu totalmente infedele al proprio ideale platonico del so vrano-filosofo. Ma soprattutto divenne il sovrano dei filo sofi romani.
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CAPITOLO QUARTO
CICERONE DIVENTA UN FILOSOFO POLITICO (55 -49 A.C.)
Sino a questo momento, gli scritti pubblicati da Cice rone erano stati quasi sempre strettamente legati alla sua attività politica. Il fatto che in quell'ambito le sue possi bilità di azione si fossero ora ristrette lo spinse a intra prendere per la prima volta l'attività di scrittore preva lentemente filosofico, e cioè a dedicarsi a quella filosofia che aveva improntato la sua vita sin dalla giovinezza. Egli voleva diventare, come si capisce subito, un «Platone ro mano». Non sappiamo con certezza se a spingerlo a ciò sia stato anche il modello dell' «Empedocle romano», del poeta epicureo Lucrezio. Come scrittore filosofico in prosa latina Cicerone è, in ogni caso, un pioniere. Prima di lui la filosofia aveva sempre fatto ricorso alla lingua greca. Gli epicurei Amafinio e Rabirio, occasionalmente menzionati a questo riguardo, sono infatti da collocare cronologica mente dopo le prime opere filosofiche di Cicerone.
Un trittico platonico Non abbiamo alcuna esplicita testimonianza di un le game profondo tra le tre grandi opere ciceroniane compo ste fra il 55 e il 5 1 , ma è chiaro che tutte e tre si rifanno a modelli platonici, sia nella forma dialogica, sia nel conte nuto. Viene inoltre da pensare che esse rispecchino i tre livelli dell'ideale programma di vita ciceroniano. l ) De oratore. Il dialogo Sull'oratore tratta dell'oratore perfetto, in un certo qual modo del modello ideale di ora tore. L'opera riflette il primo obiettivo di vita di Cicerone, diventare il più grande oratore di Roma. Il modello è il Fe dro platonico che tratta della retorica. 59
2 ) De re publica. Il dialogo Sullo stato tratta di due modelli ideali: lo stato migliore e il cittadino migliore. L'opera riflette il secondo obiettivo di vita di Cicerone che egli raggiunse con il consolato: diventare un leader poli tico. Il modello è, anche nel titolo, la Politeia platonica. 3 ) De legibus. L'ultimo (e incompiuto) dialogo Sulle leggi fornisce allo stato romano un modello ideale di legi slazione. L'opera doveva riflettere il desiderio di Cicerone di potere esprimere un parere decisivo, come console e quindi come eminente senatore, sulle decisioni legislative. Il modello sono, nuovamente anche nel titolo, i Nomoi platonici. Anche l'idea di collegare fra loro tre dialoghi in una sorta di corpus risale a Platone: si pensi in particolare alla trilogia Teeteto, So/t'sta, Politico. Per quanto riguarda la struttura esterna del dialogo, tuttavia, il modello non è soltanto Platone, ma anche Aristotele - i cui dialoghi, un tempo molto famosi, sono purtroppo perduti - e lo sco laro di Platone Eraclide Pontico, che faceva comparire nei propri dialoghi, di larga diffusione nell'antichità, perso naggi di un passato ormai remoto (proprio come Scipione nel De re publica ciceroniano). Come Platone, anche Ci cerone pone grande impegno nel conferire forma dram matica al dialogo e nella caratterizzazione dei personaggi, che sono reali personalità della nobiltà romana e non solo esponenti di determinati punti di vista. Non è però il tono spontaneamente discorsivo di Socrate quello che udiamo nelle loro conversazioni. I grandi della repubblica romana si intrattengono altresì nelle loro ville di campagna, in cui si ritirano nel tempo libero, con una certa aristocratica ele ganza. Così, mentre nel Fedro platonico ci si siede diret tamente sull'erba verde, nel De oratore ci si fanno portare dei cuscini.
Filosofia e retorica («De oratore») Il dialogo De oratore (55 a.C . ) è ambientato nell'anno 9 1 a.C. e tratta programmaticamente di un problema rela tivo alla formazione culturale: l'oratore perfetto ha bisogno di un'ampia cultura generale, in primo luogo filosofica, 60
oppure è sufficiente che abbia le doti naturali e si eserciti il necessario? Il primo punto di vista è quello di Licinio Crasso, che Cicerone reputa il più grande oratore della sua generazione; sostiene invece il secondo punto di vista l'altrettanto apprezzato Marco Antonio, il quale tuttavia, nel corso del dialogo, modifica sensibilmente la propria opinione. Questi interlocutori principali sono affiancati da due oratori della generazione più giovane, Cotta e Sulpicio (p. 1 9 ) ; altri interlocutori intervengono successivamente nel corso del dialogo. Già nell'introduzione al primo libro Cicerone si dichiara a favore dell'opinione di Crasso e adduce buone motiva zioni a supporto di ciò: come può un oratore persuadere, se non ha conoscenze di storia e di diritto romano? Come può essere efficace senza disporre di un alto numero di concetti, soprattutto tratti dalla filosofia morale? Il dialogo si concluderebbe rapidamente se Cicerone non collegasse a questa discussione un secondo tema: un quadro comples sivo della teoria retorica dal punto di vista romano. Dopo la discussione di apertura nel primo libro, Crasso e Antonio decidono di comune accordo di esporre la loro opinione sull'arte retorica in un discorso di largo respiro, attenendosi in ciò al tradizionale schema strutturale della retorica greca, ben noto a ciascun lettore di Cicerone (p. 16). Naturalmente i due retori non si accontentano di pre sentare le dottrine teoriche più importanti, ma le illustrano con casi tratti dalla pratica e le completano, o le correg gono, sulla base della propria esperienza. Carattere filo sofico ha soprattutto la descrizione della inventio (inven zione) , che costituisce la parte più consistente del secondo libro. Antonio, qui, non segue il metodo dei manuali cor renti, che trattano nell'ordine le parti del discorso (p. 29) , ma si attiene alla struttura del filosofo Aristotele. Su questa base, tre sono sostanzialmente i mezzi di persuasione: l ) quelli che si riferiscono al fatto concreto, che dimostrano qualcosa; 2) quelli che si riferiscono all'oratore, che lo av vantaggiano; 3 ) quelli che si riferiscono all'ascoltatore, che lo influenzano dal punto di vista emozionale. Mentre que sto terzo tipo, l'influenza sulle emozioni, fu visto con una certa antipatia dal teorico Aristotele, l'oratore Antonio, in totale accordo con la prassi ciceroniana, sottolinea l'im61
portanza schiacciante proprio della mozione degli affetti. L'esempio di analisi, condotta secondo questi principi, della sua stessa orazione Pro Norbano, per noi perduta, è la più istruttiva interpretazione di un discorso che ci sia giunta dall'antichità. Soltanto nell'ambito della elocutio (l'elaborazione lin guistica) , però, Cicerone torna a trattare del problema principale della sua opera, la relazione tra filosofia e reto rica. Ricollegandosi alle sue tesi del De inventione sull'ori ginaria unità di arte retorica e di saggezza (p. 9 ) , egli fa ora esporre a Crasso un'originale ricostruzione della storia della civiltà greca, in parte anche romana. Quella unità, chiamata sapientia, si era manifestata nei legislatori greci e nei «saggi» (come Licurgo, Pittaco, Solone) . A questo ideale si attennero anche politici come Temistocle e Peri de; e furono in sintonia con loro maestri universali come Gorgia, Trasimaco e Isocrate. Ciò sorprende da parte di un amico di Platone. Gorgia e Trasimaco non erano forse i maestri di retorica, vale a dire i sofisti, la cui presunta saggezza Socrate, in Platone, aveva deriso? E Isocrate, con la sua scuola di retorica, non era forse in diretta concorrenza con Platone e con la sua Accademia? È così, ma c'è anche di peggio: fu pro prio Socrate, dice Crasso con un chiaro moto di protesta, che strappò il nome di philosophia - che sino ad allora era stato onnicomprensivo di pensiero e parola - a que sti retori universali e lo impiegò per denotare soltanto se stesso in quanto specialista di filosofia. Così nacque un «dissidio fra lingua e cuore» (discidium linguae atque cor dis) - il cuore, non il cervello, era generalmente conside rato nell'antichità la sede del pensiero - che nella pratica pedagogica ha avuto come conseguenza che, al posto del maestro unico, filosofi e retori si avvicinassero ai giovani separatamente: ciò è «assurdo e inutile», e bisognerebbe piuttosto farsi promotori di una formazione complessiva retorico-filosofica. Pensiamo a Filone (p. 1 8 ) . S e s i confronta questa concezione con il proemio del De inventione, si vede quanto il pensiero di Cicerone sia profondamente cambiato. Anche in quella sede, per la verità, Cicerone aveva criticato l'epocale ritiro di Socrate (pur non esplicitamente nominato) dalla politica. Ma la 62
responsabilità della separazione fra sapientia ed eloquentia era degli awocati che bistrattavano l'arte retorica, colti vandola da parte loro solo in modo unilaterale. Ora invece tutto il male proviene da Socrate: Gorgia e Trasimaco, gli awersari di Socrate, e Isocrate, rivale di Platone, sono i rappresentanti del vero ideale di una formazione cultu rale completa ! Mai altrove Cicerone si è allontanato tanto da Platone, per il resto così profondamente ammirato. Nell'opera De oratore, d'altra parte, egli non aveva altro obiettivo se non quello di rivalutare, contro Platone, un più antico, sofistico, «presocratico», ideale di formazione culturale. Lasciamo da parte la questione se la concezione cice roniana dei sofisti sia storicamente corretta e constatiamo che, in ogni modo, essa corrisponde al suo «sofistico» punto di vista, dato che la problematica morale della re torica - punto di partenza del De inventione e del Gorgia platonico - non viene affatto discussa. Lo scopo delle di scussioni di Crasso non è più garantire che i buoni - vale a dire i saggi o i filosofi - si awicinino all'arte retorica per non lasciare che siano i peggiori a governare, ma esatta mente l'opposto, e cioè che siano gli oratori ad awicinarsi alla filosofia: a che scopo? Per diventare persone migliori o politici più saggi? No: tuttavia devono potersi servire della filosofia come di una miniera di concetti, per riuscire meglio a essere persuasivi. Ciò si spiega, naturalmente, con l'esperienza che Cicerone ha fatto nel foro: chi poteva, al pari di lui (per esempio nella Pro Tullio e nella Pro Mi lane) , fare intervenire il diritto positivo contro quello na turale e viceversa ! Ma il vero proposito del giovane Cice rone, il proposito di Platone, sintetizzato nell'ideale del so vrano-filosofo, sembra quasi dimenticato. Sembra: perché già lo stadio subito successivo è proprio da questo punto di vista di nuovo profondamente platonico.
Filosofia e politica («De re publica») Quasi incidentalmente Cicerone, nel De oratore, aveva sostituito la classica definizione della retorica come «mae stra della persuasione» - senza peraltro abbandonarla nella 63
sostanza - con un'ulteriore, diversa definizione: compito della retorica è quello di «essere in grado di parlare su qualsiasi argomento in modo brillante (ornate) ed espres sivo (copiose)». Ciò acquista un senso proprio nell'ambito della sua attuale attività di scrittore: in questo modo, in fatti, il miglior oratore, vale a dire Cicerone stesso, era anche, se non il miglior filosofo, quanto meno il miglior divulgatore di concetti filosofici. In tal modo il De oratore era implicitamente anche uno scritto programmatico che dava inizio all'opera del primo filosofo di Roma in lingua latina. Nel De re publica (composto fra il 54 e il 52 a.C., e giuntoci incompleto) viene trattato in primo luogo un ti pico tema di filosofia etica, per la precisione di etica so ciale: la questione della migliore forma di governo. Platone aveva dato, in proposito, la risposta più radicale. Presumi bilmente per meglio comprendere l'essenza della giustizia, il suo Socrate, nella Politeia, comincia a costruire un mo dello di stato che alla fine si rivelerà quello di uno stato ideale, non ancora esistente nella realtà. Cicerone confessò esplicitamente, in una parte del proemio per il resto perduta, di volersi rifare a Platone, ma delineò qualcosa di totalmente personale: lo stato ideale non deve più essere costruito, come credeva Platone; è in fatti presente, da tempo, nello stato romano, non però nella sua rovinosa condizione presente, ma in quella ideale che esso può assumere quando rispecchia i propri principi. Un famoso verso di Ennio, citato in un passo di rilievo, può valere come motto che sintetizza il tutto: moribus antiquis res stat Romana virisque («gli antichi costumi e gli uomini del passato sono garanti della potenza di Roma» ) . Con formemente a questo motto, i primi quattro libri trattano dello stato migliore, gli ultimi due dei migliori cittadini. Il proemio del primo libro ci porta al centro della vita di Cicerone: il saggio deve occuparsi di politica? Molti dissentono, ma Cicerone dà una risposta decisamente af fermativa a questa domanda. Egli parte dal presupposto che l'uomo, in virtù della sua natura socievole, sia portato spontaneamente a rendersi responsabile nei confronti del prossimo. Cicerone ignora completamente la volontà di potere, e in un primo momento pure il prestigio che può 64
indurre all'attività politica. Soltanto quando i suoi oppo sitori controargomentano illustrando le conseguenze ne gative cui il politico può essere esposto - pericolo di vita, carcere ed esilio - e, a questo proposito, gli ricordano an che il suo stesso destino personale, Cicerone afferma che, alla fine dei conti, la sua sfortuna gli ha procurato più glo ria che disagio. Che qui il suo pensiero sia rimasto sostanzialmente in variato rispetto al De inventione (p. 9) è mostrato dalla re plica all'obiezione che il politico si sporca necessariamente le mani, quando ha a che fare con oppositori sporchi: per una persona perbene, non ci potrebbe essere alcun motivo per dedicarsi alla politica più plausibile del non volere ob bedire ai malvagi. Poiché la virtù (virtus) è qualcosa che non esiste al di fuori della prassi, la vera politica non è nient'altro che la filosofia applicata alla prassi. Siccome qui il problema centrale non è controverso come nel De oratore, vi è un solo personaggio principale: Scipione il Giovane (Cornelio Scipione Emiliano) , che come politico era un'autorità. Nell'anno della sua morte ( 129 a.C.) gli fanno visita, nella sua tenuta fuori città, di versi conoscenti, il più importante dei quali è l'amico in timo Lelio. Cicerone credeva davvero che questi uomini facessero discorsi filosofici di questo tipo? No di certo. Lo rivela egli stesso, quando fa dire a Scipione nell'ambito del discorso iniziale, incidentalmente, che non bisogna confon dere il Socrate platonico con l'omonimo personaggio sto rico: quindi, neppure lo Scipione ciceroniano con quello storico. Questo avrebbe dovuto mettere in guardia tutti quei filosofi e quegli storici che si immaginano un «Cir colo degli Scipioni», in cui si faceva filosofia in latino e in cui fu inventato il concetto di humanitas. A quel tempo la lingua della filosofia era ancora il greco. Lelio pone il problema: qual è la migliore costituzione (status civitatis) ? Una questione, si sa, molto trattata dai Greci. Scipione chiarisce subito di non seguire nessuno di questi Greci, benché li conosca bene: egli voleva piutto sto parlare di questi temi «come un normale portatore di toga», che deve la sua saggezza più alla prassi romana che alla teoria greca. Ma squisitamente platonico è l'esordio, in cui compare subito la definizione di un concetto: che 65
cos'è lo stato, la res publica? Scipione risponde con una definizione profondamente radicata nella lingua latina: res publica è res populi, «una faccenda del popolo». Con ciò non si deve intendere che il popolo deve avere la parola, come nella democrazia, ma che esso è sempre coinvolto nella sua interezza, ed è tenuto assieme dal diritto e dai comuni interessi. La definizione di stato qui offerta non delinea ancora la forma di governo. Scipione distingue, secondo la con sueta suddivisione greca, tre forme di governo, a seconda della sede del «potere esecutivo» (consilium) : la monarchia, quando il potere è nella mani di una sola persona; l' aristo crazia, quando il potere è nelle mani dei nobili; la democra zia, quando il potere è nelle mani del popolo. Tutte queste tre forme rischiano di degenerare: la monarchia in tirannide, l'aristocrazia in oligarchia, la democrazia in oclocrazia. Cice rone, cioè Scipione, evita i termini tecnici (termini technici) che usiamo ancora oggi e neppure li sostituisce con neofor mazioni latine, ma cerca di trovare termini latini corrispon denti, oppure (più spesso) ricorre a perifrasi. Dieci anni dopo intraprenderà un'altra strada (pp. 1 0 1 - 1 02 ) . Scipione mette ora a confronto l e tre forme «pure» di costituzione e constata che la monarchia, presa in se stessa, sarebbe la forma migliore. Ancora migliore, a dire il vero, sarebbe quella costituzione «mista, costituita da una miscela equilibrata di tutte e tre le forme di governo semplici». Qui Scipione sospende la s ua esposizione, per ché non vuole indottrinare i suoi ascoltatori come un fi losofo greco. Desidera piuttosto, dice, rivolgere la propria attenzione a ciò che tutti hanno conosciuto e che tuttavia stanno cercando da tempo: di che cosa potrà trattarsi? Dello stato romano ! È proprio questo stato che presenta l'ideale costituzione mista: «così io stabilisco, penso, af fermo che nessun altro stato [. . . ] è paragonabile con quello che i nostri padri hanno ricevuto dai nostri antenati e che ci hanno lasciato in eredità». È una fortuna che questa frase, che costituisce il nu cleo dell'opera, sia pronunciata da Scipione e non da Ci cerone. La sua dogmatica pretenziosità - «così io stabili sco . . . » - entra in piena contraddizione con il principio «accademico» ciceroniano di non esprimere mai un'opi66
nione con assoluta certezza, ma sempre con una certa ri servatezza scettica (p. 20) , un principio tenuto in debito conto nel De oratore. Cicerone avrebbe dunque modifi cato il suo punto di vista filosofico? Così hanno ritenuto in diversi. Anche in seguito, tuttavia, egli si professa per lo scetticismo. O voleva forse lasciare intendere che Scipione, l'amico dello stoico Panezio, ha espresso qui un pensiero diverso dal suo? Qui, tuttavia, conta certamente il fatto che non si tratta di temi discussi da filosofi greci: si tratta dello stato romano, della cui perfezione Cicerone è così persuaso da permettere che il suo Scipione, per una volta, parli qui come un dogmatico. Così, nel secondo libro, lo stato ideale non viene de lineato sulla falsariga di un modello, ma attraverso una sintesi, razionalmente strutturata, della storia romana. Lo stato romano, insegna Scipione, non è nato da un progetto di costruzione di una sola persona, ma da una tradizione sviluppatasi organicamente nel corso di secoli. Nell'età dei re predominò l'elemento monarchi co, ma già Romolo consultava una sorta di senato, insomma qualcosa di ari stocratico; i comizi elettorali sotto Servio Tullio portarono un po' di democrazia, rafforzata successivamente dal tri bunato della plebe. Cicerone, cioè Scipione, ricorre con temporaneamente, come viene esplicitamente stabilito, a due metodi di esposizione, evitando così la loro unilatera lità: l ) la costruzione di uno stato soltanto pensato, come in Platone; 2) la pura descrizione di diverse forme di stato reali, come in altri politologi. Da Platone egli desume la tensione verso lo stato ideale, dagli altri l'orientamento verso la realtà. Purtroppo gran parte di questo libro così pieno di informazioni è andata perduta. Ancora meno ci è pervenuto dei tre libri seguenti. Nel terzo, ricostruibile a grandi linee, veniva affrontata la que stione, centrale in Platone, dell'utilità della giustizia. Alcuni sofisti l'avevano negata e avevano sostenuto il «diritto del più forte», posizione ripresa dal filosofo Carneade in un famigerato discorso tenuto a Roma: se i Romani volevano essere giusti, dovevano sborsare tutto ciò che avevano ru bato nel corso dei secoli e tornare nelle capanne degli an tenati. Che rabbia ! Ora, nel De re publica, un certo Lucio Furio Filo sostiene come advocatus diaboli il punto di vista 67
di Carneade, sgradevole ai Romani, mentre Lelio, in qual che modo avvocato di Platone, difende la tesi dell'utilità della giustizia: la giustizia poggia, egli insegna, sulla legge naturale ed è costitutiva dello stato; gli stati senza giustizia (come le forme degenerate della tirannide ecc . ) non sono più stati. E i Romani? Secondo Lelio hanno intrapreso sol tanto guerre giuste: «attraverso la difesa dei nostri alleati il nostro popolo si è già conquistato il mondo intero». Nep pure questa frase, così ingenua, Cicerone avrebbe potuto pronunciarla personalmente. Nel discorso sul comando di Cesare (p. 55 ) aveva implicitamente ammesso che quella gallica era stata una guerra di conquista. Dopo aver trattato, nel quarto libro, quasi interamente perduto, delle singole istituzioni statali, nel quinto e nel sesto libro Cicerone affrontava, conformemente al pro gramma, il tema del «cittadino migliore» (optimus civis) . Scipione parla quasi sempre di un singolo, e da ciò si è spesso dedotto che pensasse già a un princeps monarchico come Augusto. Ma nella concezione ciceroniana questa «guida dello stato» (rector rei publicae) è soltanto uno di quei politici di primo rango che, all'interno delle istitu zioni, in primo luogo all'interno del senato, con la loro autorità influenzano in maniera determinante la politica. Il potere di Augusto, invece, si fonderà su una base militare. Il rector di Cicerone, da cui egli si aspetta il salvatag gio dello «stato perduto», è del resto un inconfondibile sovrano-filosofo: soprattutto, egli guarda alla felicità di tutti i cittadini, è saggio, giusto e controllato, conosce la lettera tura greca e il diritto romano, pur senza essere un giurista. Questo politico ideale ha alcune affinità con l'oratore idea le del De oratore, con la differenza che là non veniva po sto l'accento sulle qualità morali. Com'è tutto diverso ora ! All' optimus civis Scipione vietò addirittura di «corrompere» i giudici con l'arte retorica. Cicerone non avrebbe potuto fare una simile affermazione, perlomeno senza arrossire. Grandioso è il finale dell'opera, giuntoci interamente: il sogno di Scipione (Somnium Scipionis) , uno dei più bei brani di prosa latina. Platone aveva coronato la Politeia con il «mito» di un apocalittico viaggio nell'aldilà. Lo scet tico Cicerone ne fa un sogno in cui Scipione, rapito nella sfera celeste, parla con il «nonno adottivo» Scipione Emi68
liano e con il padre Emilio Paolo: essi lo istruiscono sulla natura del mondo e sull'immortalità dell'anima (che per Cicerone fu sempre qualcosa di indimostrabile) e soprat tutto gli mostrano che per i politici benemeriti c'è un po sto in cielo dove essi godono di felicità eterna. Scipione il Giovane è entusiasta e si augura di morire: «Perché indu giare ancora sulla terra?». Ma il padre gli insegna, molto platonicamente (e cristianamente) , che nessuno può sot trarsi al compito assegnatogli da Dio finché costui non lo liberi dai legami del corpo. Chiude il tutto un'esortazione a dedicarsi alla politica. Regge dawero, in ultima istanza, l'analisi ciceroniana dello stato romano? I critici lamentano che egli abbia tra scurato proprio i fattori che allora minacciavano lo stato tramandato dai padri: soprattutto lo strapotere di coman danti dell'esercito come Mario, Silla, Pompeo, Cesare, da una parte necessari per il mantenimento dell'impero, dall'altra non controllabili da parte del senato. Questo è senz'altro giusto, ma Cicerone a ragion veduta ha ambien tato il suo dialogo in un'età precedente all'awento di que sti militari, nell'anno 129, dal momento che non gli inte ressava analizzare i rapporti di forza del presente, ma piut tosto fornire un'immagine ideale dello stato romano.
Filosofia e diritto («De legibus») Come Platone dopo la Repubblica aveva scritto il dia logo sulle Leggi, così anche Cicerone volle far seguire al suo De re publica il De legibus. Poiché suppose che con l'appellativo generico di «Ateniese» - il personaggio che nei Nomoi modera la discussione al posto del consueto Socrate - Platone avesse indicato se stesso, egli in persona assunse il ruolo principale e collocò il luogo dell'azione in una tenuta nella sua città natale, Arpino. Tuttavia ci sono notevoli differenze fra le due opere: nei Nomoi platonici era stato delineato uno stato «modificato», cioè di «se conda qualità», mentre le leggi del De legibus ciceroniano sono scritte per lo stato ideale di Scipione, descritto come immodificabile; ciò che un po' sorprende è che esse do vrebbero valere anche per tutti gli altri stati. 69
Diversamente da quanto avviene nelle opere pre cedenti, gli interlocutori di questo dialogo ambientato nell'immediato presente (52 -5 1 a.C.) sono determinati dal punto di vista ideologico: il fratello Quinto è incline allo stoicismo, l'amico Attico si dichiara a favore di Epicuro (dal quale però spesso prende anche le distanze) . Cicerone avrebbe dovuto rappresentare propriamente la posizione dell'accademico scettico (p. 20) , ma il suo punto di vista è chiaramente stoico. Fondamento di tutte le leggi, di tutto il diritto positivo è per lui, come viene esposto nel primo li bro, un diritto naturale (ius in natura positum) . L'esistenza di questo diritto naturale - che, quale massima espressione di razionalità, impone agli uomini e agli dèi i diritti e i doveri - viene tuttavia più affermata che dimostrata. Ciò che convince maggiormente è il riferimento all'idea morale comune a tutti i popoli: dovunque si apprezzano benevo lenza e gratitudine, si disprezzano crudeltà e ingratitudine. Stranamente, però, ciò non viene induttivamente (in modo più o meno consapevole) ricondotto a una legge naturale, bensì piuttosto, in maniera puramente deduttiva, alla ra zionalità (ratio) comune a tutti gli uomini, dalla quale deve scaturire anche un diritto (ius) comune a tutti gli uomini ! Cicerone è consapevole del carattere speculativo di que sta dimostrazione. In un passo, lascia persino capire che essa non potrà reggere al serrato attacco di rappresentanti della